Colloqui intimi, ci sono le sentenze ma c’è resistenza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 novembre 2025 Due anni dopo la storica sentenza della Corte Costituzionale che ha riconosciuto il diritto all’affettività per i detenuti, l’amministrazione penitenziaria continua a frapporre ostacoli. Lo dimostrano due recenti ordinanze, entrambe di questo mese, che hanno accolto i reclami di altrettanti detenuti assistiti dall’avvocata Pina Di Credico. In entrambi i casi, le direzioni carcerarie avevano detto no. E in entrambi i casi, i magistrati di sorveglianza hanno dovuto ribadire un principio ormai consolidato: il colloquio intimo non è un privilegio, ma un diritto. La prima storia arriva da Volterra. Un detenuto chiede a fine marzo 2025 di poter incontrare la propria compagna in un colloquio riservato, senza il controllo visivo degli agenti. Allega documenti che attestano la convivenza stabile prima dell’arresto. La Direzione della Casa di Reclusione risponde a giugno con un secco rifiuto: la convivenza non risulta provata. Il detenuto non si arrende. A ottobre, in un permesso per motivi familiari, sposa la compagna. Il matrimonio cambia tutto. Il Magistrato di Sorveglianza di Pisa, il 19 novembre, accoglie il reclamo e ordina all’amministrazione di organizzare il colloquio intimo entro trenta giorni. Nell’ordinanza, il magistrato Rinaldo Merani scrive senza giri di parole che “la nuova circostanza rappresentata dal celebrato matrimonio risolve definitivamente ogni questione”. Non c’è più spazio per dubbi o interpretazioni: il detenuto può valersi di “un diritto acquisito” grazie all’intervento della Corte Costituzionale. La Direzione deve solo prenderne atto e organizzarsi. La seconda vicenda è ancora più emblematica. Siamo a Larino, in provincia di Campobasso. Un altro detenuto, il primo luglio 2025, presenta istanza per colloqui intimi con la compagna. I due hanno convissuto stabilmente dal 2020 fino all’arresto, avvenuto nel luglio 2022. Dalla relazione è nato un figlio, che oggi ha quasi tre anni. La Direzione della Casa Circondariale risponde il giorno dopo con una nota che suona più come un rinvio a data da destinarsi: non ci sono strutture idonee, si sta facendo una ricognizione sul territorio, si aspettano le linee guida dal Provveditorato. L’avvocata Di Credico presenta reclamo. Richiama la sentenza della Corte Costituzionale numero 10 del 2024, che ha dichiarato illegittimo l’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevedeva colloqui senza controllo visivo per i detenuti con il coniuge o il convivente stabile. Allega anche un precedente notiziato su queste stesse pagine de Il Dubbio del Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia, che in un caso simile aveva ordinato lo svolgimento dei colloqui intimi. Il Magistrato di Sorveglianza di Campobasso, Teresa Venezia, accoglie il reclamo l’11 novembre. E lo fa con un’ordinanza che non risparmia critiche all’amministrazione. “Il tempo concesso all’istituto penitenziario di Larino per la concreta attuazione della pronuncia è allo stato di quasi due anni dalla sentenza della Corte Costituzionale e di oltre quattro mesi dall’istanza”, scrive il magistrato. Due anni. Eppure, al detenuto viene ancora risposto che mancano i locali. L’ordinanza entra nel merito della posizione del detenuto. È inserito nel circuito dell’alta sicurezza, ma questo non è un ostacolo: la Corte Costituzionale ha chiarito che l’espiazione di reati cosiddetti ostativi non preclude l’esercizio dell’affettività. Il suo comportamento in carcere è regolare, ha ottenuto permessi di necessità e giorni di liberazione anticipata. Non ci sono provvedimenti dell’autorità giudiziaria che vietino i contatti con la compagna. Non è sottoposto al regime del 41 bis né alla sorveglianza particolare. In pratica, non c’è alcun motivo valido per dirgli di no. Il magistrato ricorda che la Corte Costituzionale, nella sentenza del gennaio 2024, ha chiamato “legislatore, magistratura di sorveglianza e amministrazione penitenziaria, ciascuno per il proprio ambito di competenza” a dare “ordinata attuazione” alla decisione. Ha parlato di “tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena”. E ha anche suggerito che l’attuazione possa avvenire “attraverso soluzioni anche temporanee, che progressivamente lascino spazio ad altre più strutturate”. Tradotto: non servono stanze perfette da subito. Si possono adattare spazi esistenti, garantendo il minimo necessario: la riservatezza, l’assenza di controllo visivo da parte degli agenti. Ma questo non è ancora accaduto. Il magistrato di Campobasso ordina alla Direzione di provvedere “con la massima urgenza” entro sessanta giorni. E chiede che l’istituto comunichi l’avvenuta esecuzione negli stessi termini. Le due ordinanze scaturite dal reclamo portato avanti dall’avvocata Di Credito fotografano una situazione paradossale. Da una parte, c’è un diritto riconosciuto dalla Corte Costituzionale, ribadito dalla Cassazione, applicato dai magistrati di sorveglianza. Dall’altra, c’è un’amministrazione che continua a opporre resistenza. Nel caso di Volterra, la resistenza si è concretizzata nel contestare la prova della convivenza, fino a quando il matrimonio ha reso impossibile continuare a dire di no. Nel caso di Larino, la resistenza si nasconde dietro la mancanza di strutture, una giustificazione che dopo due anni suona sempre più come un’inerzia volontaria. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha emanato una circolare l’11 aprile 2025 con le prime linee guida per provveditori, direttori e comandanti di reparto. Ma evidentemente non basta. Le ricognizioni territoriali per individuare strutture idonee procedono a rilento, quando procedono. Le direzioni continuano a rispondere con dinieghi o con vaghe promesse di future soluzioni. I magistrati, nelle loro ordinanze, non usano toni polemici ma il messaggio è chiaro. Il Magistrato di Sorveglianza di Campobasso ricorda che la Corte Costituzionale ha parlato di “attuazione ordinata”, non di attesa indefinita. Ha anche precisato che il rigetto opposto dalla Direzione di Larino “non è in alcun modo individualizzato, nulla dice sulla specifica posizione e richiesta del detenuto”. È una risposta standard, burocratica, che non considera il caso concreto. Il punto è che ogni giorno di ritardo nega un diritto. Non si tratta di un beneficio che l’amministrazione può concedere quando e come vuole. La Corte Costituzionale ha parlato di diritto all’affettività, di necessità di garantire ai detenuti la possibilità di mantenere relazioni significative con i propri cari. Ha richiamato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che tutela il diritto alla vita privata e familiare anche per chi è in carcere. Le due storie raccontate dalle ordinanze di Pisa e Campobasso dimostrano che il percorso è ancora lungo. Servono avvocati che presentino reclami, magistrati che li accolgano, ordinanze che impongano scadenze precise all’amministrazione. E serve che i detenuti e le loro famiglie sappiano di avere questo diritto, che possano rivendicarlo senza paura. L’avvocata Di Credico, difensore in entrambi i casi, ha portato avanti le istanze con determinazione, richiamando precedenti giurisprudenziali e la sentenza della Consulta. Ha ottenuto due vittorie importanti. Ma quanti altri detenuti, in carceri sparse per l’Italia, stanno ancora aspettando una risposta? Quante altre famiglie vivono nell’incertezza, senza sapere se e quando potranno avere quel momento di intimità che la legge ormai riconosce? La resistenza dell’amministrazione penitenziaria non è solo una questione burocratica. È la dimostrazione che cambiare la cultura del carcere richiede tempo, pressione costante, battaglie quotidiane nei tribunali di sorveglianza. La sentenza della Corte Costituzionale ha aperto una porta. Ma quella porta, due anni dopo, è ancora semichiusa per molti. E per aprirla del tutto servirà ben più di una circolare ministeriale. Perché sicurezza e trattamento non possono coesistere? di Marco Cafiero* progettouomo.net, 26 novembre 2025 Le esigenze di sicurezza si fanno sempre più serrate a discapito delle esigenze di benessere collettivo. Uno scontro titanico che assume gli usuali toni della politica urlata, lontana dai ragionamenti e dalle mediazioni. Siamo ancora vittime dei compromessi, ma mediare sugli interessi collettivi rimane sempre un terreno pericoloso. Oggi la Circolare n. 454011 del 21.10.2025 a firma del DAP - Direttore Generale dei detenuti e del trattamento - giunge inattesa rispetto alle aspettative di inclusione e modifica dello stile di vita dei detenuti. Si ravvisa una certa incuranza rispetto al grido di allarme relativo al sovraffollamento e al problema dei suicidi in carcere; perché ciò rappresenta un’inversione di marcia rispetto agli intenti tesi ad abbassare il livello di recidiva e a rendere l’espiazione della pena un momento di fruizione di opportunità reinseritive È particolarmente condivisibile la preoccupazione espressa dal coordinamento dei Magistrati di Sorveglianza riguardo alla centralizzazione dell’approvazione delle attività trattamentali che va a compromettere “molti dei progetti faticosamente portati avanti da Cooperative, associazioni, mondo dell’educazione e di tutto il Terzo Settore” Ma quello che più allarma è la palese incongruenza con il dettato Costituzionale che sancisce la finalità rieducativa della pena il cui perseguimento subisce un sostanziale spostamento dalla Direzione dell’Istituto ad un organismo centralizzato che manca totalmente della visione globale della persona ristretta, rallentando quel meccanismo trattamentale che si invoca a gran voce e che rappresenta l’elemento fondamentale dell’esecuzione penale. La presa di posizione del Coordinamento dei Magistrati di Sorveglianza, invece, rappresenta una visione sicuramente congruente alla normativa vigente, a cui mi unisco. Come sostiene il Garante dei Detenuti del Comune di Milano, Dr. Luigi Pagano, le norme esistono e basterebbe applicarle! Tutto il mondo sociale giustamente si trova nella difficoltà di vedere sfumare i progetti maggiormente inclusivi a fronte di un irrigidimento delle procedure di ammissione. La centralizzazione, anche se limitata ai circuiti di alta sicurezza - ma rischia di divenire un fenomeno a cascata attesa la commistione di presenze negli istituti deputati - esautora sia i Direttori degli Istituti sia la magistratura di Sorveglianza il cui contributo all’approvazione dei progetti fino a questo momento era determinante. Il grido di allarme di questo Garante che si unisce al coro di chi realmente investe nella creazione di un benessere collettivo, intende sensibilizzare la popolazione che con preoccupante frequenza resta indifferente alle vicende carcerarie come se si trattasse di un mondo a parte. Questo Garante chiede anche alla Istituzioni Locali di esprimere un forte dissenso rispetto ad iniziative governative caratterizzate da timore per la sicurezza. Leggendo la nota esplicativa a firma del Dr. Ernesto Napolillo, Direttore Generale del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, si avverte una crescente ansia di separare categorie di detenuti quasi fossero cittadini altri al fine di interrompere carriere criminali di un certo peso, privando loro di opportunità inclusive., Si legge che la consorteria criminale debba essere interrotta per evitare il perpetuare dei legami con il contesto criminale di provenienza. L’obiettivo è sicuramente condivisibile, non lo è la negazione del principio costituzionale rendendo molto più complessa la fruizione di quelle opportunità che il territorio offre. Si legge la necessità di affermare una progressione trattamentale sicuramente lenta e burocratizzata all’eccesso che non vanifica affatto i legami criminali, anzi li rinforza esasperando un tessuto di illegalità volto a superare le barriere contenitive. Quello che il Dipartimento dimentica è che non sono mai state le attività trattamentali a creare i problemi di sicurezza espressi e le note esplicative rilasciate non prendono in considerazione questo elenco e non chiariscono a sufficienza la distinzione dei reparti in cui il regime deve essere adottato, attesa la commistione di cui si fanno portavoce proprio i Magistrati di Sorveglianza. Solo chi conosce da vicino la realtà carceraria sa benissimo che questo accentramento equivale ad inibire la partecipazione della comunità esterna che ha la quasi totale esclusiva delle attività trattamentali e porta alla perdita di quella sensibilità sociale per cui tanto si lavora e si è lavorato negli anni. In questo modo diventerà incomprensibile il metodo di valutazione espresso ad una distanza siderale dal luogo in cui si esegue la pena passando sopra ad anni di sforzi, di discussioni, di incontri, di confronti e scontri per rendere almeno più umano l’ottenimento di diritti dei detenuti. Inoltre, si dimentica, o si vuole dimenticare, che egli Enti esterni hanno bisogno di tempi abbastanza certi per la realizzazione delle attività trattamentali dovendo spesso rendicontare l’avvio o meno dei progetti, pena la scadenza degli stessi; le autorizzazioni dell’Ufficio centrale saranno rilasciate con tempi molto lenti attese le trafile burocratiche necessarie e la mole delle richieste che giungeranno. Il rischio è che una volta eventualmente ottenute le autorizzazioni gli enti non avranno più possibilità di attuarle. Se è incomprensibile un accentramento di tali provvedimenti autorizzativi per i circuiti dell’Alta sicurezza, (dimostrando una sfiducia nella capacità valutativa delle Direzioni degli istituti e della Magistratura di Sorveglianza) ancora più incomprensibile appare usare lo stesso metodo anche per gli altri circuiti presenti eventualmente nello stesso istituto Infatti, molti Istituti Penitenziari hanno al loro interno vari circuiti, solo il Carcere di Genova Marassi va dalla custodia attenuata all’alta sicurezza, perché metterli sullo stesso piano? Questo Ufficio del garante esprime, dunque, una reale preoccupazione su come le circolari, in fondo nella gerarchia delle fonti, attentino a quella legge che dovrebbero cercare di attuare nello spirito con cui è stata emanata. Questo Ufficio del garante invoca una mediazione tra le esigenze di Sicurezza e quelle di congruenza con il dettato costituzionale *Garante Comune di Genova dei diritti delle persone private della libertà personale, in collaborazione con Santina Spanò e Fabio Ferrari Iniziative carcerate. Ai guasti e al sovraffollamento s’aggiungono gli ostacoli alle attività culturali di Ilaria Donatici La Ragione, 26 novembre 2025 Le carceri italiane restano un punto cieco del dibattito pubblico. Si interviene solo quando emerge un caso eclatante, mentre il resto scorre sotto traccia. L’ultima pagina del “Diario di cella” di Gianni Alemanno, 313 giorni nel penitenziario romano di Rebibbia, porta alla luce una serie di fatti che non sono opinioni: sovraffollamento oltre ogni soglia, percorsi trattamentali bloccati, strutture al limite. La fotografia è netta. In Italia il sovraffollamento ha raggiunto il 137%, con oltre 63mila persone detenute per poco più di 46mila posti effettivi. A Rebibbia si supera il 152%. Le celle nate per quattro diventano da sei e si valuta di aggiungere una settima branda. Le salette comuni si trasformano in camerate. I trasferimenti continui cancellano lavoro, studio e assistenza psicologica, compromettendo proprio i percorsi che dovrebbero ridurre la recidiva. Secondo Alemanno di questo passo la soglia nazionale potrebbe superare il 156% entro fine legislatura, segno di un trend ormai strutturale. A questo si aggiunge un punto politico: le misure annunciate dal ministro Nordio per affrontare l’emergenza, più volte presentate come decisive, non hanno finora prodotto effetti misurabili. I nuovi posti detentivi previsti entro quest’ anno non sono stati realizzati e, mentre si parla di piani strutturali, il sistema continua a reggere grazie a soluzioni temporanee che non incidono sulla radice del problema. Intanto, dopo il crollo di parte del soffitto di Regina Coeli, tutti i nuovi ingressi vengono dirottati su Rebibbia, aggravando un istituto già in affanno. A pesare sono anche le nuove circolari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che negli ultimi mesi hanno irrigidito l’accesso di docenti, volontari, università e operatori culturali. Autorizzazioni centralizzate, richieste anticipate, pareri multipli: un meccanismo che rallenta o blocca attività che prima venivano gestite a livello di istituto. La conseguenza è concreta. Diversi operatori culturali lo hanno sperimentato direttamente: un primo via libera informale, poi il silenzio. Nonostante solleciti e richieste ripetute, tutto si ferma. È un esempio che conferma quanto segnalato da Alemanno e Fabio Falbo (l’altro detenuto che firma il ‘diario’ con l’ex ministro ed ex sindaco di Roma): mentre si afferma di voler ampliare gli strumenti trattamentali, nella pratica li si restringe. E, come scrivono dal carcere, persino alcuni agenti - che lavorano in condizioni che non garantiscono sicurezza né a loro né ai detenuti - chiedono che venga dato spazio anche al loro disagio, segno di una pressione che non riguarda una sola categoria. La cronaca ricorda infine la fragilità del sistema: nel giro di pochi giorni due persone detenute sono morte per infarto. Con reparti sovraffollati e organici ridotti, monitorare situazioni di rischio diventa complicato. La politica continua a parlare di sicurezza e pene più severe, ma evita di affrontare ciò che accade negli istituti. Eppure la credibilità di uno Stato passa anche dal ì: dalla gestione di luoghi che non sono fuori dal perimetro della democrazia ma una sua parte essenziale. Trattare peggio i detenuti non produce maggiore ordine. Produce fallimenti. Il “Diario” di Alemanno non pretende di rappresentare tutto il sistema, ma ha il vantaggio di riportare circostanze verificabili che non possono essere archiviate come un caso personale. Ignorarle significa lasciare che un problema strutturale continui a crescere. E quando cresce non resta confinato dietro le mura: ricade fuori, sulla società che il carcere dovrebbe proteggere. Carceri, il caso Turrini Vita finisce in Parlamento di Angela Stella L’Unità, 26 novembre 2025 Arrivano altre reazioni alla notizia data da questo giornale ieri relativa all’esposto - poi archiviato dal Consiglio di disciplina dell’Ordine degli avvocati di Firenze - fatto dal Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Riccardo Turrini Vita, contro l’avvocato Mimmo Passione, ex legale del garante dei detenuti nei processi per tortura che aveva osato criticarlo. Ci dice Debora Serracchiani, responsabile giustizia del Pd: “Siamo basiti dal comportamento del Garante nazionale. I fatti sono sotto gli occhi di tutti: il sistema penitenziario è una emergenza nazionale ormai ineludibile, eppure il Garante è silente e si occupa d’altro, trovando perfino il tempo di presentare un esposto contro un legale che si è limitato a motivare il proprio allontanamento dall’incarico precedentemente ricevuto. Abbiamo presentato interrogazioni e ne presenteremo anche su questa vicenda”. Secondo il deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti, “con le carceri al collasso, i suicidi in aumento, un Governo dolosamente inerte dinanzi a questa emergenza nonostante i moniti del presidente della Repubblica appare alquanto singolare che il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale impieghi il suo prezioso tempo a denunciare un avvocato sempre in prima fila per le tutele dei reclusi invece che impegnarsi a denunciare quello che sta accadendo dietro le sbarre. Siamo ansiosi della sua Relazione al Parlamento”. Critico anche il deputato di Avs, Devis Dori: “Il Garante dei detenuti sembra più interessato a non arrecare disturbo al ministro Nordio che a far emergere il dramma che si vive nelle celle, dismettendo la propria veste di organo indipendente. È doveroso evidenziare che solo nelle dittature si può pensare di mettere sotto procedimento disciplinare un avvocato per il fatto di essersi espresso a favore delle garanzie costituzionali dei detenuti. Rivendico il ruolo sociale dell’avvocato”. Per Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino, “è trascorso ormai più di un anno dall’insediamento del nuovo Ufficio del Garante, e devo rilevare che l’operatività concreta a tutela dei diritti delle persone private della libertà continua a mostrare gravi lacune: omissioni, superficialità e un’azione propulsiva quasi del tutto assente, sia nella salvaguardia dei diritti fondamentali, sia nel miglioramento delle condizioni di detenzione”. L’esposto del Presidente del Collegio contro Mimmo Passione “ne è una dimostrazione lampante: per Turrini Vita, sembra addirittura proibito esprimere critiche sull’operato del Gnpl”. Eppure, ha proseguito la radicale “sarebbe opportuno che riflettesse con serietà sull’importanza del ruolo che ricopre e su come, insieme ai suoi colleghi, lo ha finora esercitato. Basti pensare alla mancata relazione al Parlamento e, dal 31 luglio scorso, l’assenza di quel report mensile che almeno offriva qualche informazione sulle condizioni di detenzione nel nostro Paese. Oltre alle carceri, la conoscenza della situazione negli altri luoghi di privazione della libertà, come i Cpr, è praticamente nulla. In definitiva, viene da chiedersi se chi ha già ricoperto incarichi di vertice nel Dap sia davvero in grado di tutelare i diritti di chi rischia di diventare - e spesso lo diviene - vittima dell’Amministrazione”. Ci dice ancora Patrizio Gonnella, Presidente dell’associazione Antigone: “Piuttosto che denunciare all’ordine un avvocato da sempre impegnato per una detenzione meno truce e disumana, sarebbe utile che il Garante si costituisca parte civile in tutti i procedimenti penali per tortura. Penso che si dovrebbe aprire una discussione parlamentare intorno alle modalità di lavoro di questa nobile istituzione che difenderemo sempre”. Critico sull’operato del Garante nazionale anche Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza dei garanti territoriali: “Esprimo sorpresa e una naturale preoccupazione per il perdurare del silenzio da parte del Garante nazionale, soprattutto in relazione ad alcuni adempimenti previsti dalla normativa vigente”. In particolare “rilevo che da circa due anni non è stata presentata la relazione annuale al Parlamento, uno strumento fondamentale per garantire trasparenza, continuità informativa e un confronto chiaro con le istituzioni. Desidero anche ricordare che il ruolo del Garante non è un incarico di rappresentanza, ma un compito operativo, che richiede presenza negli istituti, osservazione diretta, ascolto e - quando necessario - segnalazione delle criticità”. Per questo motivo “mi hanno colpito alcune recenti prese di posizione di carattere difensivo, tenuto conto che in passato l’Ufficio del Garante nazionale, insieme ai garanti territoriali, si è spesso costituito parte civile in processi di particolare rilevanza”. L’auspicio di Ciambriello è che “si possa recuperare pienamente lo spirito originario del mandato: promuovere diritti, monitorare le condizioni detentive, mantenere viva l’attenzione sulla dignità delle persone. Confido inoltre che venga rilanciato un rapporto di collaborazione stabile tra garante nazionale e garanti territoriali, nella convinzione che un lavoro coordinato e complementare sia indispensabile per garantire la tutela della persona detenuta, dei suoi diritti e dell’intera comunità penitenziaria”. Se in carcere ci sono mamma o papà: una grande campagna di solidarietà di Paolo Perazzolo Famiglia Cristiana, 26 novembre 2025 Ogni anno 100 mila bambini fra i zero e i 6 anni entrano nei penitenziari. Per rendere sereno e non traumatico l’incontro, sono stati istituiti gli “spazi gialli”. E ora c’è la possibilità di donare un abbonamento a Famiglia Cristiana, al Giornalino o un libro ai detenuti e ai loro familiari, affinché sia un momento di gioia. Quante storie si nascondono dietro i volti degli uomini e delle donne detenuti nelle carceri. Storie di dolore, errori e fallimenti, ma spesso anche di desiderio di riscatto, di una nuova vita. Un desiderio che si fa ancora più intenso in quei detenuti che sono padri e madri, che hanno un figlio che li attende al di là delle sbarre, con il diritto pieno di una vita normale, serena, bella. Per sostenere questo anelito di riscatto, in occasione del Giubileo dei detenuti del prossimo 14 dicembre, il Gruppo San Paolo lancia il progetto “Parole di speranza”, che permette a tutti i lettori delle riviste di accompagnare con un gesto concreto il percorso di rinascita di questi fratelli e sorelle. Si tratta di una campagna solidale che offre la possibilità di contribuire a donare un abbonamento a Famiglia Cristiana ai padri e alle madri che attualmente si trovano in carcere. Un modo per far entrare parole di speranza, storie di luce, un’informazione positiva e attenta ai valori a persone protese a lasciarsi alle spalle un passato faticoso per aprirsi a un futuro migliore. Una compagnia amica per rendere più lieve il percorso intrapreso. Per ogni abbonamento attivato, il Gruppo regalerà un abbonamento a Il Giornalino, la testata dedicata ai più piccoli, così che i genitori detenuti possano condividere momenti di gioco, racconto e creatività con i figli che vanno a trovarli negli appositi spazi all’interno del carcere. Sarà infine possibile donare dei libri acquistandoli nelle librerie San Paolo. Riviste e volumi regalati dai lettori verranno consegnati dal Gruppo San Paolo agli istituti penitenziari con la collaborazione di Bambini senza sbarre, associazione che da oltre 20 anni difende i diritti dei figli delle persone in carcere in nove regioni italiane. I vostri doni arriveranno negli “spazi gialli”, ovvero dei luoghi che sono stati istituiti per accogliere i bambini e i familiari in attesa di entrare nelle carceri a incontrare il papà-marito o la mamma-moglie detenuta. Il femminicidio è reato, ma slitta la legge sul consenso di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 26 novembre 2025 Schlein: “Resa dei conti nella maggioranza”. Nordio: “Non affossiamo la norma”. “Ma no, non c’è nessuna volontà del governo di affossare la norma. Per una volta che siamo tutti daccordo”. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, con il Corriere getta acqua sulle polemiche divampate per la decisione della maggioranza in commissione Giustizia al Senato di aprire una istruttoria sull’introduzione dell’obbligo di consenso libero e attuale delle donne nei rapporti sessuali, invece di mandarla direttamente in Aula per un voto simbolico, nella giornata contro la violenza sulle donne in simultanea con l’introduzione del reato di femminicidio. Battuta di arresto che ha scatenato un putiferio, facendo vacillare anche l’approvazione di quella legge, passata invece infine, alla Camera. Perché ha fatto sospettare alle opposizioni una “retromarcia” del centrodestra da quel patto suggellato da una telefonata Schlein-Meloni che aveva portato il 12 novembre al primo ok unanime alla proposta di legge alla Camera. Tanto da spingere la leader dem a ritelefonare a Palazzo Chigi: “Ho chiesto a Meloni di far rispettare gli accordi. Sarebbe grave se, sulla pelle delle donne, si facessero rese dei conti post elettorali all’interno della maggioranza”. Dunque? Patti violati? Il ministro della Giustizia, Nordio, all’uscita dall’evento “Voci di difesa” con la banda femminile interforze, promosso dalla sottosegretaria Isabella Rauti proprio per “spingere ciascuno a fare la propria parte contro la violenza sulle donne”, si sorprende: “C’è l’accordo di maggioranza e opposizione, la norma si farà. Io ero qui, non so cosa sia successo in commissione, bisogna sentire Giulia Bongiorno”, dice il Guardasigilli. Lei, la presidente leghista della commissione Giustizia respinge le polemiche: “Abbiamo solo chiesto approfondimenti sul testo, come si fa per ogni legge, quella sul femminicidio inclusa. È una norma importante. Tecnicamente sono state sollevate obiezioni. Non credo che l’accordo prevedesse che la norma arrivasse in Aula in tre ore, perché era il 25 novembre. Non ho sentito Meloni, ma mi sembrerebbe strano. Preferisco una legge fatta bene il 31 che una fatta il 25 con una lacuna”. Ma “dare il via alle audizioni significa rinviarne l’esame sine die”, accusa la dem Debora Serracchiani. E rincara: “Sono stati sfiduciati Meloni, Nordio e Roccella”. “Non è una iniziativa del governo, ma dei gruppi, che hanno chiesto un approfondimento, in particolare la Lega”, mette in chiaro il ministro per i rapporti con il Parlamento Luca Ciriani. “Sul consenso libero e attuale siamo di fronte all’unico caso in cui il centrodestra decide di far funzionare il bicameralismo. Non serviva perché era stata approvata all’unanimità”, fa notare la M5S Vittoria Baldino. Il capogrupppo Avs, Peppe De Cristofaro, attacca: “Lo stop è gravissimo”. E la capogruppo Iv Maria Elena Boschi tuona: “È un voltafaccia della maggioranza, non ci fidiamo più”. In serata, a “Porta a Porta”, la ministra della Famiglia e delle Pari Opportunità, Eugenia Roccella, ammette le perplessità nel centrodestra: “Non so, è una legge parlamentare, credo che soprattutto si tratti del consenso “libero e attuale”, ci sono dei dubbi e si vuole essere sicuri che non ci sia la possibilità di rovesciare l’onere della prova che è un elemento basilare del nostro diritto”. E ammette anche lo stop: “È una questione che riguarda il Parlamento, quello che è sicuro è che la legge si farà, ma non c’era alcun accordo sulla tempistica”. E spiega: “Il percorso della legge sul femminicidio è iniziato l’8 marzo, è stato lungo sono state fatte delle modifiche e si è arrivati a un testo condiviso, fino all’approvazione di oggi (ieri ndr). Un grandissimo risultato”. Un’Authority per fare di più di Giusi Fasano Corriere della Sera, 26 novembre 2025 Lontana dai condizionamenti politici dovrebbe per gestire tutto ciò che riguarda la violenza di genere: la fattibilità dei provvedimenti legislativi, la gestione delle risorse, i controlli sulla reattività della magistratura. Un’Authority autonoma, lontana dai condizionamenti politici, per gestire tutto ciò che riguarda la violenza di genere: la fattibilità dei provvedimenti legislativi, la gestione delle risorse, i controlli sulla reattività della magistratura (d’intesa con il Csm). Esperti, e soprattutto esperte, per verificare se e come stanno funzionando le politiche antiviolenza in Italia. La propone il presidente del tribunale di Milano Fabio Roia, intervenuto ieri a “Muoviamoci”, la lunga diretta organizzata dal Corriere tv nella giornata contro la violenza sulle donne. Lui, come chiunque altro abbia speso anni ed energie sui temi della violenza di genere, a questo punto sa bene che nel nostro Paese il panorama legislativo sull’argomento è sufficiente ed efficace (anche se perfettibile). Un’Authority quindi - se fosse davvero indipendente - potrebbe essere la soluzione per coordinare e integrare i vari fronti: giudiziario, della sicurezza, della prevenzione, dell’educazione. Una risposta possibile alle disfunzioni, agli errori e alle negligenze del sistema; un passo oltre le buone leggi, che esistono, e oltre le decisioni che hanno segnato l’evoluzione giuridica in materia di violenza contro le donne. A partire da Franca Viola che per prima rifiuta il matrimonio riparatore nel 1965 e che un anno dopo ottiene giustizia con la condanna di chi l’aveva rapita, segregata e violentata confidando, appunto, di “riparare” tutto con le nozze. Nel 1975 la riforma del diritto di famiglia che abolisce (almeno formalmente) il patriarcato. Nel 1981 l’abrogazione del matrimonio riparatore e del delitto d’onore che fissava pene irrisorie per chi uccideva la moglie, figlia o sorella “nello stato d’ira” per l’”offesa recata all’onor suo o della famiglia”. Nel 1996 un passaggio chiave: lo stupro diventa un reato contro la persona e non più contro la morale pubblica. Nel 2009 la legge sullo stalking e, saltando molti passaggi, arriviamo al via libero definitivo (ieri) per il reato di “femminicidio”. Peccato solo per il rinvio sine die del voto (fino a ieri bipartisan) sulla norma che stabiliva: è stupro se non c’è consenso “libero e attuale”. Al di là di questo (e si spera sia solo un rinvio), le buone leggi ci sono, dicevamo. Manca però la prevenzione, sulla quale potrebbe essere di grande aiuto la tanto osteggiata educazione alle relazioni. Manca il cambio di passo culturale per capire che gli spazi conquistati dalle donne non sono sottratti agli uomini. Che si possono moltiplicare, aggiungere, condividere. Sempre. Campania. Ciambriello: “Aumento dei reati di omicidio e tentato omicidio tra minori” di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 26 novembre 2025 “Sono adolescenti a metà e con la morte nel cuore, serve un intervento preventivo efficace”. Nelle ultime settimane, alcuni minori hanno commesso reati estremamente gravi, tra cui omicidi, tentati omicidi, violenze sessuali e atti persecutori, con un picco di episodi in Campania. L’ultimo caso riguarda un quindicenne a Napoli, accusato di omicidio aggravato, confermando una tendenza preoccupante che coinvolge sempre più giovani. “Nel dettaglio, dall’inizio dell’anno in Italia i minori accusati di omicidi volontari consumati sono stati 14, di cui 12 italiani e 2 stranieri, mentre per gli omicidi volontari tentati il numero sale a 52 minori, 38 italiani e 13 stranieri. La violenza sessuale ha coinvolto 28 minori, 15 italiani e 13 stranieri, mentre gli atti persecutori riguardano 31 minori, di cui 21 italiani e 10 stranieri. Per quanto riguarda il possesso di armi, sono coinvolti 100 minori, 99 italiani e 1 straniero. 9 minori* sono stati accusati di associazione a delinquere, di cui 1 italiano e 8 stranieri, mentre 7 minori* italiani risultano coinvolti in associazioni di tipo mafioso. I dati più recenti, ci mostrano anche un aumento dei minori detenuti: in Italia sono 579, di cui 328 italiani e 251 stranieri, con 105 in Campania, suddivisi tra 79 a Nisida e 26 ad Airola. Parallelamente, cresce il numero dei minori affidati ai servizi sociali o presenti nelle comunità, evidenziando l’urgenza di interventi più incisivi, mirati alla prevenzione e alla rieducazione. Inoltre, una volta entrati in carcere o nelle comunità questi adolescenti devono essere aiutati a cambiare o devono solo pagare?”. Così Samuele Ciambriello, Garante campano dei detenuti privati della libertà, ha recentemente richiamato l’attenzione sulle criticità del sistema minorile, sottolineando l’urgenza di garantire protezione, tutela e percorsi educativi adeguati per i ragazzi coinvolti. Il Garante campano comunica e interpreta i dati risalenti al 15 novembre e resi pubblici del dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. Le comunità, i servizi sociali e gli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni restano spesso sovraccarichi: oltre 22mila minori in carico ai servizi, più di 6mila solo in Campania, con un ricorso crescente a misure come la messa alla prova, segno di un disagio diffuso che non è sostenuto da un sistema territoriale efficace. La composizione dei reati dagli omicidi all’uso di armi alle violenze restituisce un quadro di adolescenti coinvolti in dinamiche che non dovrebbero appartenergli, spesso senza figure rappresentative capaci di orientare, limitare, educare. E allora le domande per il Garante Ciambriello diventano inevitabili: “Dov’è lo Stato prima che un minore diventi un numero nelle statistiche penali? La prevenzione non può ridursi a misure emergenziali o punitive. Significa presidiare scuole, quartieri, famiglie; costruire reti educative stabili; investire su operatori, psicologi, educatori; restituire ai minori la presenza di adulti credibili, capaci di incarnare alternative reali ai modelli devianti. Perché alcuni adolescenti arrivano a compiere reati così gravi come violenze, omicidi o aggressioni sessuali di gruppo? Dietro gesti estremi spesso ci sono fragilità profonde, traumi familiari o sociali, assenza di legami affettivi stabili e ricerca disperata di riconoscimento o potere in contesti che “premiano” la violenza. L’adolescenza è un’età di identità in costruzione: se i bisogni di ascolto, protezione e guida vengono ignorati, il rischio di scelte drammatiche cresce. Occorre intervenire con sostegno concreto, educazione, presenza di adulti affidabili e opportunità reali di crescita, così da prevenire che rabbia, fragilità e senso di esclusione si trasformino in violenza estrema. È evidente che molti minori provengono da contesti familiari poveri o legati a dinamiche malavitose, dove i genitori spesso sperano in interventi “miracolosi” piuttosto che in percorsi educativi concreti. La sfida è sottrarli a influenze negative della malavita, aumentare la presenza sociale e educativa sul territorio, lavorare nelle scuole e creare progetti che insegnino alternative concrete alla giustizia fai-da-te. Solo così sarà possibile accompagnarli verso un cambiamento reale, offrendo loro strumenti per costruire una vita diversa e spezzare il ciclo di violenza che li circonda. La politica, ai vari livelli, fa poco per questi adolescenti a metà e con la morte nel cuore” Così conclude il Garante campano dei detenuti privati della libertà. Umbria. Dalla Regione un piano di reinserimento detenute e detenuti ansa.it, 26 novembre 2025 Previsti formazione, tirocini, laboratori professionali. Vuole costruire percorsi di reinserimento per detenute e detenuti in Umbria attraverso formazione, tirocini, laboratori professionali, residenzialità temporanea e servizi territoriali il quadro degli interventi 2026-2029 dedicati dalla Regione all’inclusione sociale e lavorativa delle persone in esecuzione penale. L’assessore regionale al Welfare, Fabio Barcaioli, li ha presentati alle direttrici e ai direttori dei penitenziari regionali. Lo ha fatto - rileva Palazzo Donini - in un momento di “profondo cambiamento”, con la casa circondariale di Terni che vedrà l’insediamento del nuovo direttore e il provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per Umbria-Marche, Liberato Guerriero, che si insedierà questa settimana. Quello proposto dalla Regione è un insieme coordinato di programmi che coinvolge gli istituti penitenziari, gli Uepe, le comunità per i minori, il terzo settore e gli enti locali. Si tratta di una programmazione strutturata su un arco temporale “significativo”, pensata non più come interventi limitati nel tempo, ma come un insieme organico. L’assessore Barcaioli ha presentato il programma, elaborato insieme agli uffici tecnici, a partire dall’avviso “Giois”, destinato a corsi di formazione professionali nei quattro istituti umbri, che ha l’obiettivo di raggiungere 400 persone. Seguono i programmi “Ama De” e “Ama Es”, sviluppati insieme al Ministero della Giustizia, che porteranno alla riqualificazione dei laboratori della Casa Circondariale di Terni e al Centro regionale di giustizia di comunità. A questi si aggiungono i tirocini finanziati dal Fse+, destinati a chi è in esecuzione penale esterna, e il progetto “Re.In.S”, che unisce servizi di orientamento, formazione, housing e sportelli unici di accesso sul territorio regionale. “L’obiettivo - ha spiegato Barcaioli - è avviare una nuova fase di collaborazione e partecipazione con la direzione degli istituti, le cooperative e le associazioni presenti nelle strutture. L’intento è elaborare un piano sempre più condiviso per sostenere detenuti, detenute e operatori che affrontano difficoltà legate al sovraffollamento e ad altre criticità. Nelle prossime settimane sono previsti incontri con tutte le realtà coinvolte”. “Quando si parla di reinserimento - ha rilevato l’assessore - si tratta di mettere le persone nelle condizioni di imparare un mestiere, trovare un ambiente sicuro e avvicinarsi a un lavoro stabile. Questo incontro è servito per un dialogo approfondito con le direttrici e i direttori, così da affinare le scelte operative e consolidare un confronto che produce risultati. Ogni strumento, dai laboratori ai tirocini, nasce dall’ascolto di chi opera ogni giorno negli istituti di pena e nei servizi territoriali. L’Umbria deve continuare a essere un territorio capace di ascoltare e di costruire risposte”. Cremona. Dramma in carcere, educatore suicida nel suo ufficio cremonaoggi.it, 26 novembre 2025 Un funzionario giuridico-pedagogico si è tolto la vita venerdì pomeriggio impiccandosi nel bagno del suo ufficio presso la Casa Circondariale di Cremona. La notizia è stata diramata oggi da Gennarino De Fazio, Segretario Generale del sindacato Uil-Pa Polizia Penitenziaria, ma le voci si rincorrevano già da ieri, anche se non era noto se la persona fosse stata vittima di un malore o di un gesto volontario. “Oltre 63.500 detenuti stipati in circa 46.500 posti”, denuncia De Fazio riferendosi al quadro nazionale delle carceri. “Voragini negli organici del personale, carenze strutturali, infrastrutturali, logistiche e strumentali, mancanze sanitarie e disorganizzazione imperante fanno delle prigioni non luoghi di recupero e rieducazione, come vorrebbe la Carta costituzionale, ma centri di mera espiazione con l’annientamento della dignità umana non di rado anche per chi vi presta la propria opera al servizio dello Stato”. “Servono immediati e concreti provvedimenti per deflazionare la densità detentiva, potenziare gli organici della Polizia penitenziaria e delle altre figure professionali, ammodernare le strutture, garantire l’assistenza sanitaria e avviare riforme complessive. Banalmente, va umanizzata la pena detentiva e vanno umanizzate le condizioni di lavoro degli operatori”, conclude De Fazio. Morte in carcere, Cgil: carichi di lavoro estenuanti La notizia del gesto estremo avvenuto ieri pomeriggio nel carcere di via Cà del Ferro, da parte di un educatore - ruolo delicato che riguarda i rapporti tra i detenuti e il mondo esterno - riporta drammaticamente l’attenzione sulla situazione alla casa circondariale di Cremona dove l’ultima ispezione fatta lo scorso venerdì da rappresentanti di Forza Italia e Radicali ha fatto emergere il record storico di sovraffollamento, con 609 detenuti a fronte di 394 posti regolamentari, il 150% in più. “Apprendiamo con profonda tristezza dell’estremo gesto volontario compiuto nella giornata di ieri all’interno della Casa Circondariale di Cremona da un Funzionario Giuridico Pedagogico”, afferma Luca Dall’Asta, segretario generale Funzione Pubblica Cgil. “Nel rispetto della persona e senza entrare nel merito delle motivazioni che possono averlo spinto a un gesto così estremo, ci uniamo al dolore dei familiari, degli amici, delle colleghe e dei colleghi, a cui esprimiamo il nostro cordoglio più sentito. “Ancora una volta, però, non possiamo esimerci dal denunciare le gravi condizioni di lavoro che da anni affliggono il personale penitenziario, sia del comparto Funzioni Centrali sia del Corpo di Polizia Penitenziaria: sovraffollamento strutturale, popolazione detenuta sempre più complessa, carichi lavorativi estenuanti e croniche carenze di organico. “A questo si aggiunge una catena di comando che necessita urgentemente di una guida stabile: un Direttore effettivo e presente, coadiuvato da un Comandante di Reparto esperto, sono condizioni indispensabili per garantire equilibrio, sicurezza e continuità organizzativa. “Il personale in servizio - di entrambi i comparti - non può e non deve essere considerato sacrificabile. Occorre finalmente investire risorse coerenti con la particolarità del lavoro svolto, mettendo in campo interventi mirati che rendano più sereno e gestibile un servizio pubblico essenziale, complesso e delicato, troppo spesso dimenticato. “È duro dirlo, ma tutto ciò avviene nell’indifferenza delle Istituzioni e del Ministero della Giustizia che, al di là di rassicurazioni e proclami, continuano a intervenire con ritardi e difficoltà su problemi che ormai sono sistemici. A ciò si aggiunge il drammatico e inaccettabile numero di suicidi tra le persone detenute: un ulteriore segnale di un sistema al collasso, che non può più essere ignorato. “La situazione delle carceri italiane e di quella di Cremona in particolare - conclude il rappresentante Cgil - deve essere affrontata con la massima urgenza da chi ha il potere e il dovere di decidere. In gioco non c’è soltanto la salute, ma la vita delle persone che vivono e lavorano nelle strutture penitenziarie”. Il ruolo di funzionario Giuridico Pedagogico in carcere è particolarmente delicato e riguarda la parte trattamentale della detenzione: colloqui, orientamento scolastico o lavorativo, fine pena, relazioni al magistrato di sorveglianza, in pratica tutto quanto concerne il collegamento tra persona detenuta e il mondo esterno, anche in vista di un suo reinserimento sociale. Roma. Caldaie fuori uso e termosifoni rotti: qui a Rebibbia si muore di freddo di Gianni Alemanno e Fabio Falbo Il Dubbio, 26 novembre 2025 Detenuti e agenti vivono assediati dal gelo invernale e le celle sono diventate in dormitori di fortuna. Il sovraffollamento esplode e le promesse restano disattese. Siamo giunti al 23 novembre e i termosifoni sono completamente spenti, mentre nevica in tutta Italia e le temperature scendono anche a Roma. Radio carcere ci dice che le caldaie sono rotte e che anche gli agenti della Penitenziaria sono nelle nostre stesse condizioni: non solo qui al braccio ma anche nella loro caserma, attigua a Rebibbia, i termosifoni sono spenti e l’acqua calda dopo le otto di sera non arriva neanche nelle docce, per quelli che smontano dagli ultimi turni di guardia. A guardarli questi ragazzi sembrano i soldati di Napoleone in Russia, tutti imbacuccati nelle loro divise, con il pigiama sotto la mimetica e le facce stanche e congestionate. E invece sono solo le truppe del “Maresciallo Nordio”, quello che questa estate aveva giurato “spezzeremo le reni al sovraffollamento, senza scarcerare nessuno!”. Mai dichiarare una guerra che non si può vincere: l’estate è passata, l’autunno sta per finire, non si è visto un solo posto in cella in più e il sovraffollamento cresce inesorabilmente. Intanto il tetto di Regina Coeli è crollato, Rebibbia è al collasso e gli agenti della penitenziaria nei vari bracci sono circondati in piccoli gruppi, tre o quattro con attorno tre o quattrocento detenuti. In questo caso ricordano più il 7° Cavallegeri a Little Big Horn (le divise sono dello stesso colore). Per fortuna le persone detenute non assomigliano, almeno qui al G8, agli indiani Sioux. Siamo anche noi colpiti dal Generale Inverno e, vestiti spesso in modo improbabile per combattere il freddo, sembriamo più dei clochard nei rifugi della Caritas in pieno inverno. Questo vale soprattutto per gli ultimi arrivati, che sono stati “ricoverati” nella saletta dedicata alla socialità del reparto A del primo piano. Dalla costruzione di Rebibbia, ogni reparto ha una saletta dedicata alla socialità, con un povero tavolo da pingpong e qualche improbabile scacchiera. Non sapendo più dove mettere i nuovi arrivi, avendo esaurito tutti i posti in cella, quella saletta (in futuro toccherà anche alle altre) è stata trasformata in una grossa cella. Sei brande disposte a caso lungo i muri, i materassi arrivati dopo qualche giorno, nessun armadietto per riporre le povere cose di ogni persona detenuta, niente tv, tutto appoggiato alla rinfusa sul tavolo centrale che un tempo serviva appunto per il pingpong. Il bagno adesso funziona, ma per un’intera settimana non aveva lo scarico e le persone detenute erano state fornite di secchi d’acqua per pulire. Un tugurio infernale. Si teme che arriveranno altre persone, i presenti sono già stati informati che la cella può arrivare fino a 8 letti. Fino a quando durerà questa situazione? Presto o tardi la caldaia sarà riparata e i muri gelidi di Rebibbia cominceranno un poco a riscaldarsi (niente di che, ma meglio di niente), ma il sovraffollamento continuerà a crescere. Forse il “Maresciallo Nordio”, come ha detto che il sovraffollamento aiuta a evitare i suicidi, perché i detenuti si sorvegliano tra di loro, presto dirà che aiuta anche a combattere il freddo perché, accatastati gli uni sugli altri, ci riscaldiamo tra di noi. Insomma, temiamo che, nella sua ferma volontà di non arrendersi al Generale Inverno e di non approvare nessuna legge che riduca il sovraffollamento, il “Maresciallo Nordio” continui a mandare allo sbaraglio le sue truppe, cioè la Penitenziaria, e quelli che dovrebbero essere i suoi assistiti, cioè la popolazione detenuta. In compenso i Magistrati di sorveglianza stanno dando qualche segnale di risveglio. Grazie al Garante Regionale dei diritti dei detenuti, professor Anastasia, che ha presentato al Tribunale la sua relazione in merito alle dimensioni delle celle multiple di Rebibbia, oggi sono stati accolti dei reclami ai sensi dell’art. 35 ter dell’Ordinamento penitenziario, quello che sanziona “le condizioni di vita inumane e degradanti” delle persone detenute. Infatti la giurisprudenza impone che ogni persona detenuta debba avere almeno 3 mq calpestabili in cella, ma le misurazioni del professor Anastasia hanno finalmente dimostrato che i metri quadri a disposizione sono solo 1,78 per ognuno. Il che significa in pratica che ad ogni persona detenuta in queste condizioni la pena viene ridotta del 10%. I magistrati di sorveglianza continuano a rigettare i reclami relativi alle celle singole, ma, un passo per volta, arriveremo anche a questi casi, anch’essi indecenti per mille motivi. Un’altra grande vittoria è stata la concessione di un “permesso di necessità” ad Antonio G. per andare a conoscere Leandro, il suo figlioletto appena nato (Antonio è stato arrestato solo 5 mesi fa…). Nella richiesta di permesso si era evidenziato che l’evento in questione è irripetibile ed eccezionale. Il Magistrato ha scritto che la nascita di un figlio poteva rientrare nella casistica di “evento familiare di particolare gravità” che legittima la concessione di un permesso… È la prima volta che ciò accade. Così, con un permesso di due ore, Antonio ha potuto vedere suo figlio. Una bella cosa, prima di morire di freddo a Rebibbia. Caserta. L’allarme del Garante dei detenuti sulla gioventù abbandonata e la criminalità minorile giornalenews.it, 26 novembre 2025 Come Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Provincia di Caserta, e come uomo delle istituzioni prima ancora che sacerdote, non posso più tacere di fronte allo spettacolo indegno che stiamo vivendo: una gioventù abbandonata, una criminalità minorile che esplode, e uno Stato che risponde con decreti-bandiera che non risolvono nulla. Si è venduto il “modello Caivano” come la grande svolta. Doveva essere il fiore all’occhiello, il laboratorio del riscatto, il deterrente per i baby boss. E invece? Invece oggi ci ritroviamo con la criminalità minorile in aumento, più violenta, più arrogante, più disperata. Ci ritroviamo ragazzini armati, ragazzini che sparano, ragazzini che sfidano lo Stato perché non lo vedono, non lo sentono, non lo temono. E qui arriva il “grande rimedio”: il tanto celebrato Decreto Nordio. Cosa prevede? Prevede principalmente inasprimenti, più facilità di applicare misure cautelari, qualche stretta processuale, e un’idea di fondo tanto semplice quanto fallimentare: punire di più, educare di meno. Un decreto che sembra scritto con la convinzione che basti mandare più ragazzi davanti a un tribunale per fermare la deriva. Ma la repressione, da sola, non è mai stata una cura. È solo un cerotto su una ferita infetta. E mentre il Governo annuncia trionfalmente riforme severe, la realtà la raccontano i fatti: A Bosco Tre Case, un ragazzo si è costituito non per paura dello Stato, non per effetto dei decreti, ma perché toccato da un appello umano, diretto, accorato, quello di Gennaro Panzuto, un uomo che dal suo passato criminale ha saputo trarre un impegno nuovo, credibile, autentico. Un uomo che ha più impatto su certi giovani di intere pagine di Gazzetta Ufficiale. Questo dovrebbe farci riflettere. Il cambiamento non lo produce chi inasprisce le pene, ma chi tocca le coscienze. La sicurezza non nasce dalle norme, nasce dalle opportunità. E la criminalità non si sconfigge con la paura, ma con la presenza. Io non posso guardare inerme questa mattanza di giovani. Non posso accettare la narrazione comodissima secondo cui “basta punire di più e tutto si aggiusta”. E non posso più tollerare il silenzio di chi avrebbe il dovere di educare, guidare, accompagnare - famiglie, scuole, istituzioni, parrocchie, politica - e invece si gira dall’altra parte perché è più facile incolpare il ragazzino di 14 anni che ammettere i fallimenti di un sistema. Serve coraggio: il coraggio di investire seriamente nelle periferie, nella scuola, negli educatori di strada, nei centri sportivi, nella prevenzione, nelle famiglie ferite. Il coraggio di dire che il “modello Caivano” è fallito non per colpa dei ragazzi, ma per l’assenza di continuità, risorse e credibilità dello Stato. Il coraggio di ammettere che un decreto non basta. E lo dico chiaramente: Se continuiamo così, non stiamo reprimendo la criminalità minorile. Stiamo solo selezionando la prossima generazione di detenuti. Io, come Garante, sarò sempre la voce di chi non ha voce. E non smetterò mai di denunciare ciò che non funziona. Perché ogni ragazzo perso alla vita è una sconfitta per tutti, non solo per lui. San Gimignano. “No alla violenza sulle donne”, il carcere aderisce con forza alla mobilitazione di Romano Francardelli La Nazione, 26 novembre 2025 È stata la prima volta e non sarà neppure l’ultima volta che la giornata, meglio dire le giornate contro la violenza sulle donne hanno scavalcato il muro di cinta del carcere di alta sicurezza a Ranza di San Gimignano. Questa volta dunque quella voce forte e chiara contro la violenza sulle donne si è alzata (dalle celle) dall’Istituto di pena di Ranza e rimbalzate come un’eco fra una torre e l’altra dentro le mura di San Gimignano. Voci e applausi dalla platea della sala teatro del piccolo palcoscenico di Ranza (foto) in occasione della giornata internazionale per ricordare appunto l’eliminazione della violenza contro le donne. Anche dalla Casa di Reclusione di San Gimignano dunque dove sono ospiti quasi ogni giorno più di 300 detenuti nei padiglioni di alta sicurezza quella voce si è fatta sentire dal piccolo palcoscenico dentro lo spettacolo-evento alla maiuscola ‘Il rumore del silenzio’ messo in scena dalla compagnia teatrale ‘Casa di Reclusione di Ranza San Gimignano’, direzione artistica Empatheatre e regia di Alessandro J Bianchi. Spettacolo che ha fatto presa “fra un silenzio a mezza voce e l’altra con alcuni dialoghi per esprimere il pensiero nel percorso di parole e assenze, per dare voce a ciò che il silenzio nasconde e trasformarlo in consapevolezza contro ogni forma di violenza”. Incontro culturale per ribadire anche da Ranza, ancora una volta, no alla violenza contro le donne di fronte ad una platea silenziosa e diversa dal solito e interrotta da applausi dei circa centinaio spettatori. Fra questi circa cinquanta detenuti, la direzione di Ranza con il ritorno a Ranza del direttore in pinta stabile il dottor Giuseppe Renna, il personale della Polizia Penitenziaria, i funzionari e dipendenti dell’area trattamentale, l’Associazione teatrale Empatheatre con il regista Alessandro Bianchi e qualche inviato esterno. Per il comune di San Gimignano a portare il saluto all’evento del sindaco Marrucci e della Amministrazione l’Assessora alle politiche sociali Daniela Morbis. “Parlare di Pari Opportunità e Diritti con le persone detenute -ha ricordato - è un atto di profonda responsabilità civica. L’unico strumento che può trasformare l’isolamento in reinserimento è il dialogo. Ascoltarsi in un luogo come questo significa investire nel futuro di tutti: di chi racconta e di chi ascolta”. Per il direttore Giuseppe Renna dopo i ringraziamenti in questa rara occasione ha sottolineato fra l’altro, la bella collaborazione che già aveva avuto con il Comune tre anni fa nel periodo difficilissimo del Covid. E ancora non è scontato di un’amministrazione comunale presente e attenta alla casa di reclusione. Perugia. Nel carcere una giornata intensa e toccante contro la violenza sulle donne di Simona Cortona comune.perugia.it, 26 novembre 2025 Nel carcere di Perugia il 25 novembre - Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne - si è trasformato in un momento di intensa riflessione collettiva. La Casa Circondariale ha ospitato una cerimonia profondamente partecipata in ricordo delle vittime di violenza, organizzata dall’Associazione Nazionale Nel nome del Rispetto, impegnata da anni nella promozione della cultura del rispetto nelle scuole, nelle famiglie e negli istituti penitenziari. Per il settimo anno, le detenute del carcere hanno partecipato all’iniziativa, affiancate per la prima volta anche dai detenuti. L’evento, realizzato insieme anche al Centro antiviolenza di Perugia, si è aperto con un minuto di silenzio per le 14 donne uccise in Umbria nell’ultimo anno. Subito dopo, uomini e donne reclusi hanno portato in scena le parole delle vittime: poesie, testi e monologhi recitati mentre i volti delle donne scomparse scorrevano su un grande schermo. L’atmosfera si è fatta ancor più intensa con l’interpretazione di Maestro Massimo ed Emi, che hanno cantato “Quello che le donne non dicono” di Fiorella Mannoia. A condurre l’iniziativa è stata l’ambasciatrice dell’associazione, Francesca Gosti, poetessa e curatrice dei laboratori di scrittura creativa attivi nelle carceri di Perugia e Spoleto. La presidente Maria Cristina Zenobi ha ricordato l’importanza di un percorso che “dà voce e dignità a donne e uomini che, anche dietro le sbarre, scelgono di impegnarsi in un cammino di rieducazione che parte dal rispetto di sé e dell’altro”. La direttrice Grelli: “Anche da qui deve partire un cambiamento” - La direttrice dell’istituto, Antonella Grelli, ha ringraziato associazioni e operatori sottolineando come “il carcere sia parte della società” e come anche da qui debba partire una riflessione collettiva sulla violenza di genere. Ha ricordato il valore dei laboratori condotti con i detenuti e delle attività realizzate dopo il recente recupero della sala polivalente, riqualificata anche grazie alla collaborazione con il Comune. La sindaca Ferdinandi: “Siete più della violenza che avete subito o vissuto” - Molto partecipato e carico di emozione l’intervento della sindaca Vittoria Ferdinandi, delegata nazionale ANCI alle Pari Opportunità. “Non c’è luogo in cui oggi avrei voluto essere di più se non accanto a voi”, ha detto rivolgendosi ai presenti. “Il nostro è un Paese in cui ogni tre giorni una donna viene uccisa in quanto donna. Qui, più che altrove, la violenza non è teoria: è carne viva”. La sindaca ha invitato detenute e detenuti a non identificarsi con le ferite che li hanno segnati: “Voi siete molto di più della storia di violenza che vi ha portato qui. Le catene della violenza si possono spezzare. Ciò che vi è accaduto non è un destino, ma un momento della vita: è possibile scrivere una storia diversa”. Ferdinandi ha poi richiamato il ruolo delle istituzioni nell’accompagnare i percorsi di rieducazione, ricordando l’impegno del Comune sul tema del reddito di libertà e nel rafforzamento della rete di sostegno alle donne vittime di violenza. Rivolgendosi infine ai detenuti uomini ha sottolineato che “il cambiamento culturale passa anche dallo sguardo maschile sul femminile: solo così potremo costruire una società fondata sulla dignità e sul rispetto”. Le voci delle detenute e dei detenuti: “Io non sono solo un nome” - La mattinata si è conclusa con le performance dei laboratori di scrittura. Le detenute Alessia, Anna, Assunta, Angela e le altre partecipanti hanno interpretato il monologo “Io non sono solo un nome”, un potente grido contro la riduzione delle vittime a statistiche o casi di cronaca: “Dietro ogni donna c’è una storia. Anche qui la mia voce conta. E quando parliamo tutte, nessuno può far finta di non sentire”. A seguire, sei detenuti hanno recitato il monologo “Mi sono perso e ti ho perso”, una riflessione sul possesso, sugli errori commessi e sulla consapevolezza che il rispetto della libertà dell’altro è la prima frontiera contro la violenza. Teramo. La Garante regionale dei detenuti propone il progetto “Bella Dentro” regione.abruzzo.it, 26 novembre 2025 Durante la settimana dedicata all’eliminazione della violenza contro le donne la Garante regionale dei detenuti propone “Bella Dentro”, progetto che nasce da un’idea semplice ma necessaria: ricordare che la dignità non si sospende mai, nemmeno quando si vive una condizione di restrizione della libertà. Ieri, lunedì 24 novembre, si è tenuto il primo appuntamento all’istituto penitenziario di Teramo. “Abbiamo portato nelle carceri un gesto di cura - estetiste, parrucchieri, volontari - ma in realtà abbiamo portato molto di più: attenzione, ascolto, rispetto. Le donne detenute affrontano fragilità profonde, spesso invisibili. Restituire loro un momento di benessere significa riconoscerle, guardarle negli occhi, dire che la loro persona vale. E questo non è un dettaglio: è un passo concreto verso il recupero, verso un percorso che può ancora essere di rinascita. Ringrazio chi ha creduto in questo progetto e chi ogni giorno lavora perché il carcere sia un luogo che non spezza, ma ricostruisce”, dichiara Monia Scalera, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Abruzzo, e spiega: “Il progetto “Bella Dentro” ha preso forma grazie a mani e cuori generosi. Un grazie speciale al Centro Estetico MIMÈ di Chieti - Laura, Giorgia, Silvia e Alice - e a Matisse Hair Concept di Chieti - Barbara, Francesca, Cristina e Alessio - per aver messo a disposizione professionalità, tempo e sensibilità. La vostra presenza ha dato valore al progetto e ha regalato alle donne una carezza che non si dimentica. ‘Bella Dentro’ è questo: ricordare a ogni donna che, nonostante tutto, la sua luce interiore merita di tornare a brillare. Il secondo appuntamento sarà domenica 30 novembre al carcere di Chieti. Fare del bene è contagioso”, conclude Scalera. Catania. L’Associazione Proscenio porta il potere terapeutico del teatro nel carcere di Bicocca hashtagsicilia.it, 26 novembre 2025 “Porteremo in scena per il progetto teatrale “Bicocca” la versione ridotta e semplificata di “Il Canto di Natale” di Charles Dickens per realizzare tra i detenuti del carcere minorile di Catania un percorso espressivo volto alla scoperta dell’altro”. Con queste parole il direttore artistico dell’Associazione Proscenio Manuel Giunta descrive il cammino socio educativo all’interno del carcere di Bicocca che, superato l’imbarazzo e le resistenze fisiologiche, nonostante il poco tempo a disposizione, ha visto i ragazzi partecipanti all’iniziativa culturale assetati di nuove esperienze fidarsi e affidarsi con grande curiosità al magico gioco del teatro realizzando una dinamica espressiva collettiva. “Lo spettacolo andrà in scena durante il periodo natalizio, sul palco del teatro del carcere- continua Manuel Giunta - con l’obiettivo di tirar fuori il meglio da ciascun ragazzo sulla scena e lanciando così un messaggio importante che invita alla speranza, malgrado la realtà complicata da affrontare, dove è possibile per tutti una reale e concreta seconda possibilità”. La guida di questo percorso è affidata al team di Proscenio composto da Andrea Giuffrida, Mirko Marotta, Bernadette e Manuel Giunta. Il rifiuto delle urne di Sabino Cassese Corriere della Sera, 26 novembre 2025 La fuga dalle urne, il non voto, una volta fenomeno marginale, è divenuto strutturale. Per circa trenta anni della storia repubblicana ha votato il 93 per cento degli aventi diritto al voto. Poi, per un quindicennio, l’87; più tardi il 73; alle elezioni politiche del 2022 quasi il 64; ora, nelle elezioni regionali dei giorni scorsi, una minoranza, tra il 42 e il 45 per cento. Questo vuol dire che 5-7 milioni circa di elettori sono rimasti a casa, senza adempiere quello che la Costituzione definisce dovere civico. Si apre così un fossato tra società e politica, molto preoccupante perché democrazia indica una società che si autogoverna, attraverso il suffragio universale, una conquista che è costata tanto tempo e tanta energia. Il continuo calo, che dura da circa un quarantennio, costituisce un fenomeno grave per lo stato di salute della democrazia. Tocqueville, nella prima metà dell’800, temeva che essa conducesse alla tirannide della maggioranza; dobbiamo ora temere che finisca nella tirannide di una minoranza? Destra e sinistra hanno poco da festeggiare perché un analogo rifiuto delle urne si registra nelle regioni in cui l’una parte è prevalente e in quelle in cui è prevalente l’altra parte. Come si spiega la crescente fuga dalle urne? La prima spiegazione sta nella diminuzione della partecipazione politica, quella visibile e quella invisibile, che ha visto negli ultimi anni una forte diminuzione e ha riguardato in particolare le persone tra i 18 e i 24 anni. “Tra il 2003 e il 2024, si è osservato un calo generalizzato della partecipazione invisibile (informarsi e discutere di politica). Nel 2003, ad informarsi con regolarità di politica era il 66,7 per cento degli uomini e il 48,2 per cento delle donne. Nel 2024 questi valori calano di 12,6 punti percentuali per gli uomini e di 5,7 punti per le donne”. La recente analisi della partecipazione politica in Italia, svolta dall’Istituto nazionale di statistica, continua riferendo che “si informa di politica almeno una volta a settimana il 16,3 per cento dei ragazzi di 14-17 anni e poco più di un terzo dei 18-24enni. A non informarsi mai, invece, sono rispettivamente il 60,2 per cento e il 35,4 per cento”. La politica interessa quindi sempre di meno. La seconda spiegazione si trova nella forte diminuzione degli iscritti ai partiti. Questi avevano in passato un numero di iscritti superiore all’8 per cento degli elettori; ora non raggiungono il 2 per cento. Prima i partiti avevano una forte ramificazione: alcuni dei principali partiti avevano circa 20 mila sedi distribuite su tutto il territorio. Oggi le “forze politiche” sono sempre meno associazioni e sempre più piccole organizzazioni oligarchiche. Alcuni ritengono che vi sia una terza spiegazione, l’apatia dell’elettorato, che però è in contrasto con la notevole partecipazione sociale degli abitanti, come dimostrato dal fatto che circa il 9 per cento è attivo nelle iniziative di volontariato. La spiegazione va piuttosto cercata nella qualità dell’offerta politica, e quindi all’interno degli stessi partiti. Il sistema politico è alimentato da una loro offerta. Quando questa incontra una domanda, si forma un consenso, registrato dal voto, e quindi dal sostegno popolare ad una maggioranza. Ora, sulla qualità dell’offerta potrebbe ripetersi quello che scriveva il 18 gennaio 1922, festeggiando il primo triennio di vita del suo partito, Luigi Sturzo: “la politica è diventata arte senza pensiero”. Essa ha acquisito molti elementi del populismo, tanto bene analizzato nell’ultimo libro dello storico e studioso di sociologia politica Marc Lazar, appena uscito a Parigi per i tipi di Gallimard, intitolato “Pour l’amour du peuple”, che contiene una storia del populismo in Francia tra il diciannovesimo e il ventunesimo secolo. Lazar sviluppa l’idea che il populismo si fonda su una “ideologia leggera”: non formula piattaforme politiche, programmi, progetti per il futuro, si accontenta di slogan e semplificazioni. Questo accade ora in Italia. Il dibattito politico si svolge intorno ad ogni piccolo appiglio quotidiano senza alzare lo sguardo sui grandi problemi del nostro tempo. Le classi dirigenti parlano di temi diversi da quelli che interessano l’elettorato. Anche i politici che vedono chiaramente in dettaglio ciò che si trova nel loro orizzonte, finiscono spesso per non immaginare che l’orizzonte possa mutare. Anche persone che provengono dalle grandi tradizioni della politica italiana assistono impassibili alla elementarizzazione della politica, quella che si riduce nell’opposizione tra ricchi e poveri. Questo produce anche un’asimmetria tra chi governa e chi fa opposizione, perché chi governa è costretto dal proprio ruolo a produrre provvedimenti e così dà un contenuto alla sua azione, mentre dall’altra parte rimane il vuoto. La fuga dalle urne innesca un circolo vizioso: produce incertezza nelle forze politiche, che sanno di dover governare un Paese dando voce soltanto a un quarto dell’elettorato e quindi moltiplicano l’attenzione per le elezioni regionali e locali, e per i sondaggi. Un ultimo elemento critico dell’attuale situazione riguarda il brutto momento che sta attraversando l’autonomia regionale a causa della tendenza a “nazionalizzare” il dibattito che precede ed accompagna le elezioni regionali: questo finisce per essere dominato dai temi nazionali e spesso internazionali, invece che dalla capacità amministrativa delle regioni. Quando è l’Europa a diventare una fake news di Vincenzo Vita Il Manifesto, 26 novembre 2025 L’annunciato “Centro europeo per la resilienza democratica per contrastare le campagne di disinformazione”, fiore all’occhiello esibito da Ursula von der Leyen, è pieno di insidie. Proprio per quella libertà di informazione che si vorrebbe tutelare dalle fake news, categoria passepartout in cui tutte le vacche sono nere. Che vi sia un rischio effettivo di confusione tra verità e pseudo-verità, di sovrapposizione tra reale e false rappresentazioni non vi è dubbio. Nell’età delle intelligenze artificiali il pericolo è immanente ed evoca uno dei conflitti della stagione che viviamo, strutturata dal e sul capitalismo delle piattaforme. Di questo stiamo parlando, vale a dire del cambiamento radicale in atto della nobile teoria marxiana del valore, nel momento in cui dall’astrazione si passa all’estrazione: dall’unità di misura attribuita al lavoro vivo, alla conquista predatoria dei dati personali. In simile contesto, la supervelocità delle connessioni e l’enorme capacità di ri-uso subdolo di parole, voci ed immagini sono il terreno di coltura ideale per le menzogne mascherate in un packaging credibile. Tuttavia, per ovviare a simili rischi serve l’applicazione effettiva di Regolamenti significativi come il Digital Services Act (Dsa) e l’European Media Freedom Act (Emfa), piuttosto chiari proprio sulla questione della correttezza e della attendibilità dell’informazione. Non sarà un caso se l’amministrazione di Donald Trump (e del suo vice JD Vance) istruita dalle orribili teorie di Peter Thiel è all’attacco e ricatta l’Ue sulla tradizione di quest’ultima a normare i fenomeni evitando di soccombere agli spiriti animali dei mercati. Purtroppo, da anni la Commissione di Bruxelles è divenuta assai fragile e subalterna nei riguardi della prepotenza delle Big Tech supportate dalla Casa Bianca. Tale incertezza nella difesa dello spazio pubblico, che pure fu una delle caratteristiche costitutive dell’Unione, ha facilitato la cavalcata trumpiana e la dittatura degli algoritmi. Insomma, se si intende davvero contrastare le fake è indispensabile partire da qui. Altrimenti si sfocia facilmente nell’arbitrarietà e in un’involuzione autoritaria, di cui le prime vittime sono le esperienze mediali lontane dalle concentrazioni di potere: editoriale o politico-economico. Chi decide, e in base a quale criterio, se una notizia è una fake o una sequenza di un’inchiesta difficile che volge lo sguardo su aree che non si devono conoscere? Esistono norme deontologiche, nonché organizzazioni professionali o sindacati che a ciò sono deputati. Non sarà certo la Presidente von der Leyen a ergersi a giudice dove la lotta tra le idee e il pluralismo sono parte integrante del tessuto democratico. Tra l’altro, a Bruxelles si muovono polarità contraddittorie. Se pare che sia stata vergata la lettera di richiamo al governo italiano per la mancata applicazione dell’Emfa, le destre che siedono nell’emiciclo di Strasburgo hanno bloccato nei giorni scorsi una missione a Roma di verifica proposta dalla Commissione per le Libertà civili del medesimo parlamento. Un occhio di intesa tra le varie destre del continente ha avuto la meglio sul rispetto dell’impianto di regole che pure sarebbero immediatamente esecutive (a differenza delle Direttive, che richiedono leggi nazionali di recepimento). L’Europa di oggi è essa stessa una fake, dunque, sbugiardando i valori originari dell’istituzione. Spetta alle forze politiche nostrane di interagire con simile processo, per evitare che la discesa nella classifica sul tasso della libertà di informazione divenga un precipizio. Che le opposizioni si rechino a Bruxelles e a Strasburgo insieme alle associazioni della società civile, con le strutture del giornalismo e della comunicazione, per dare luogo a una protesta forte e arricchita da progetti alternativi. PS: In merito alla legge sulla separazione delle carriere dei magistrati, il ministro Nordio ha sottolineato che il fatto che Licio Gelli la volesse non è un problema se è giusta. Già, Gelli: basta la parola, per riprendere una battuta efficacissima di uno spot di Tino Scotti. Droghe. Giustizia per le vittime dell’Ossicodone di Marco Perduca Il Manifesto, 26 novembre 2025 Durante la Contro-conferenza sulle droghe autoconvocata a Roma dalla società civile in contrasto con quella del governo Meloni, il cinema Troisi ha proiettato il docu-film All The Beauty And The Bloodshed in cui Laura Poitras racconta la vicenda di Nan Goldin. Dieci anni fa, l’artista di fama mondiale, già dipendente dal painkiller OxyContin, aveva denunciato la famiglia Sackler, proprietaria della Purdue Pharma che lo produceva, affinché pagasse per l’epidemia di oppioidi favorita dall’inizio degli anni 2000. Il film, del 2022, finisce con una parziale buona notizia. La settimana scorsa, un giudice fallimentare ha firmato un accordo che obbliga la Purdue e i suoi proprietari a pagare 7,4 miliardi di dollari per aver orchestrato l’invasione di oppioidi nel loro paese. Il piano, presentato per la prima volta a gennaio scorso, dovrebbe sbloccare una volta per tutte i finanziamenti per le persone che ancora lottano contro la dipendenza da oppiacei. Come ricorda il film, Purdue aveva presentato istanza di fallimento nel 2019 a seguito di migliaia di cause che la accusavano di alimentare l’epidemia mortale. “Oggi si chiude un lungo capitolo che ci porta molto vicini alla conclusione del bilancio di Purdue”, ha dichiarato Steve Miller, presidente del consiglio di amministrazione di Purdue, sbloccando “miliardi di dollari” a cui si aggiungono “significativi benefici non monetari” per le vittime dell’ossicodone. L’accordo prevede infatti che i Sackler rinuncino alla proprietà dell’azienda trasformandola in una no-profit chiamata Knoa Pharma con la missione di “affrontare la crisi degli oppioidi”. L’OxyContin è un antidolorifico venduto su prescrizione: finita la necessità stringente di cura, o persa l’assicurazione che lo rimborsava, i pazienti ormai dipendenti si sono rivolti al mercato nero di eroina e fentanyl. I ricorsi imputano alla sostanza l’aggravamento della crisi degli oppioidi in Nord America, dove dal 1999 sono morte oltre 900.000 persone. Purdue e i membri della famiglia Sackler sono stati accusati di aver commercializzato in modo aggressivo l’OxyContin ingannando medici e pazienti sui rischi di dipendenza e possibili overdosi. Questa pressione, nel 2020 ha portato l’azienda a dichiararsi colpevole in un procedimento penale intentato dal Dipartimento di Giustizia. In quell’occasione l’accordo non affrontava le cause intentate da governi locali, statali, dei nativi americani e altri gruppi. Un precedente accordo, annullato dalla Corte Suprema nel 2024, aveva protetto i membri della famiglia Sackler da future cause civili per il loro ruolo nell’alimentare la crisi degli oppioidi. La concessione di tali tutele ai Sackler, che non avevano dichiarato bancarotta personale, non era legale. L’ultimo accordo non garantisce quindi l’immunità da altre cause. Anche se la famiglia continua a sostenere di non aver avuto alcun intento criminale, si è detta pronta a pagare tra i 6,5 e 7 miliardi di dollari. Oltre il 99% dei creditori ha votato a favore del piano di ristrutturazione fallimentare; le vittime riceveranno 865 milioni di dollari. Gli enti statali e locali costituitisi come parte civile riceveranno la maggior parte dei fondi dell’accordo che dovrebbero finanziare il sostegno al trattamento e alla prevenzione della dipendenza da oppioidi negli Usa. Le morti per OxyContin sono state causate da manipolazione di informazioni e istigazione all’uso di potenti, quanto necessari, analgesici. Militarizzare le frontiere Usa o bombardare presunti narcotrafficanti nei Caraibi, come sta facendo l’Amministrazione Trump, distrae attenzioni e risorse a risposte efficaci contro l’abuso di oppiacei in America. Nell’attesa di vedere come tutti quei soldi verranno impiegati, va ringraziata Nan Golin per aver trasformato la sua esperienza con le “droghe” in lotta politica. L’opinione del ministro Valditara e il desiderio di una scuola confessionale di Giancarlo Caselli e Vittorio Barosio La Stampa, 26 novembre 2025 Giuseppe Valditara, ministro dell’Istruzione e del Merito, sostiene con forza il disegno di legge (ddl Valditara) che vieta ogni attività scolastica legata ai temi della sessualità nelle scuole dell’infanzia e nelle scuole primarie, e subordina al consenso scritto dei genitori la partecipazione degli allievi a tali attività nelle scuole secondarie. Valditara è professore ordinario di Diritto romano nell’università. Conosce bene quindi la grande cultura dell’antica Roma, che ci ha lasciato, solo per fare pochi esempi nel campo umanistico, Cicerone con il suo De Republica, Tacito con gli Annali, Tito Livio con la monumentale storia di Roma. E nel campo giuridico Giustiniano con la sua codificazione delle leggi romane che è alla base degli attuali sistemi giuridici europei. In sostanza, un patrimonio intellettuale che ancor oggi, dopo duemila anni, fa parte delle fondamenta culturali del nostro mondo. Il ministro Valditara è dunque persona dotata di una forte cultura, che non dovrebbe andare disgiunta da un’adeguata sensibilità morale ed etica. Stupisce allora la sua posizione contraria alla possibilità di trattare nelle scuole argomenti riguardanti la sfera sessuale ed affettiva dei ragazzi, e quindi legati alla loro formazione morale. Posizione che sembra sostanzialmente oscurantista e dalla quale ci pare di dover dissentire. Per intanto il divieto di toccare questi argomenti nelle scuole primarie contrasta con ciò che ci dicono gli psicologi: i bambini hanno precocemente pulsioni fisiche che non vanno ignorate, ma spiegate, e in modo “a misura di bambino”. Del tutto fuor di luogo, e pericoloso, sembra poi richiedere il consenso scritto dei genitori perché gli allievi delle scuole secondarie possano partecipare alle attività scolastiche in cui si trattano gli argomenti di cui stiamo parlando. Il periodo fra l’inizio della pubertà e i diciotto anni è proprio quello in cui i ragazzi si formano e acquisiscono la mentalità e la sensibilità che dovranno poi guidarli in tutte le occasioni che la vita presenterà loro. A diciotto anni “i giochi sono fatti” e quel che è resta. Ma in un Paese, come il nostro, di forti diseguaglianze economico-sociali, in cui il lavoro non è assicurato, le retribuzioni sono molto spesso troppo basse, e le forme di assistenza sociale sono gravemente carenti, molte famiglie devono pensare ad arrivare faticosamente alla fine del mese. Per loro il problema dell’educazione sessuale ed affettiva dei figli non è certo quello principale. Troppo spesso perciò queste famiglie non sono in grado (come pur sarebbe bene) di seguire direttamente i loro ragazzi nel processo evolutivo di formazione; e nemmeno di dare un giudizio ragionato e consapevole sull’opportunità che essi frequentino le attività scolastiche in cui un esperto tratti i temi della sessualità e dell’affettività. Richiedere a tal fine il consenso dei genitori significa quindi correre il rischio di lasciare i ragazzi abbandonati a se stessi, togliendo loro il diritto di essere correttamente informati, su una questione importante, in un momento delicato e decisivo del loro sviluppo mentale e morale. E, per di più, di lasciare abbandonati proprio i ragazzi delle famiglie meno “forti” e quindi già svantaggiati. Allora viene un dubbio: dietro l’opinione del ministro Valditara c’è forse il desiderio di una scuola ideologica e confessionale? Il caso Almasri non è chiuso, la Corte internazionale reclama la consegna di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 26 novembre 2025 La vice procuratrice dell’Aja, Khan, presenta al Consiglio di Sicurezza il rapporto sulle indagini in Libia e annuncia nuovi mandati d’arresto. Usa, Francia e Gran Bretagna la sostengono, la Russia no. Il generale libico Osama Njeem Almasri, ex direttore della polizia giudiziaria libica e responsabile del carcere di Mitiga, accusato di omicidio, tortura e violenze sessuali, rimane destinatario di un mandato di arresto internazionale, ai sensi della Risoluzione 1970 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite. Lo ribadisce il trentesimo rapporto della Procura della Corte penale internazionale sulla Libia, relativo al periodo compreso fra maggio e novembre 2025. La relazione, presentata e discussa ieri nel Palazzo di vetro di New York, durante una lunga sessione del Consiglio di sicurezza (terminata quando in Italia era tarda sera), sollecita ancora una volta il Governo di Tripoli a consegnare Almasri, arrestato in terra libica il 5 novembre. E rende noto come l’ufficio del procuratore generale di Tripoli non abbia al momento fornito risposte formali o chiarimenti su quali procedure nazionali siano state avviate (non è ancora chiaro nemmeno dove Almasri sia detenuto) né dato rassicurazioni in merito alla collaborazione con la Corte. Davanti al Consiglio (composto da 15 membri, di cui 5 permanenti - Cina, Russia, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna - con diritto di veto), la vice procuratrice della Cpi, Nazhat Shameem Khan, ha ribadito l’impegno a garantire l’arresto del generale e a portarlo alla sbarra all’Aja per rispondere dei crimini di guerra e contro l’umanità. Nel dossier c’è la mancata collaborazione dell’Italia - Nelle 26 pagine del rapporto, visionate da Avvenire,, si menziona la vicenda - divenuta un caso politico e giudiziario - dell’arresto del super ricercato libico a Torino, il 19 gennaio, della successiva liberazione e del suo trasferimento in patria con un aereo italiano. Si ricorda come la Corte abbia “constatato che l’Italia non ha agito con la dovuta diligenza e non ha utilizzato tutti i mezzi ragionevoli a sua disposizione per ottemperare alla richiesta di cooperazione”. E come abbia “invitato l’Italia a fornire informazioni su eventuali procedimenti nazionali rilevanti il ?caso di specie”, negli stessi mesi in cui la questione diveniva materia del Tribunale dei ministri, la cui richiesta di autorizzazione a procedere per favoreggiamento e peculato a carico dei ministri di Interno e Giustizia, Matteo Piantedosi e Carlo Nordio, e del sottosegretario Alfredo Mantovano, è stata respinta dalla Camera dei deputati. L’ufficio del procuratore dell’Aja sottolinea “l’obbligo degli Stati di arrestare e consegnare i sospettati alla Cpi”, ai sensi dello Statuto di Roma e della Risoluzione 1970 del Consiglio di sicurezza Onu. Il caso tedesco (Berlino non ha fatto come Roma) - La non collaborazione del nostro Paese diventa stridente se comparata a un altro caso menzionato nel rapporto della procura della Cpi: l’arresto di Khaled Mohamed Ali El Hishri, alias Al Buti, avvenuto in Germania il 16 luglio 2025, perché accusato a sua volta di diversi crimini contro l’umanità. Secondo quanto annota la procura della Cpi, Berlino non solo ha proceduto al fermo, ma sta ultimando le procedure di consegna in vista del trasferimento a L’Aja. Il suo sarebbe il primo caso di trasferimento di un ricercato dalla Cpi nell’ambito delle investigazioni in terra libica. Le nuove indagini: 1.512 prove e altri mandati in arrivo - Nel periodo fra maggio e novembre, si legge nella relazione, c’è stata una fase di “avanzamento senza precedenti” nelle indagini, con 25 missioni investigative in 6 Paesi, l’acquisizione di “1.512 elementi di prova” (materiale “video e audio, prove forensi, immagini satellitari e numerosi screening e interviste di testimoni”) e 150 incontri con 54 ong, difensori dei diritti umani e associazioni di vittime. Sono stati richiesti nuovi mandati di arresto per altri individui collegati ad investigazioni sui reati nelle carceri, ma anche ad abusi contro migranti avvenuti nel corso di operazioni militari. I nomi dei destinatari non vengono resi noti dalla Corte per ragioni di sicurezza e lo saranno solo quando lo consentiranno le condizioni operative e la tutela dei testimoni. Altri 9 mandati, già resi pubblici, restano pendenti. Le investigazioni, avverte Khan, proseguiranno “oltre maggio 2026” e che sarà presentato un rapporto immediato al Consiglio di Sicurezza una volta completati i filoni di indagine attivi. Le inchieste sulla tratta dei migranti - Fra le nuove linee d’indagine ampliate dalla Procura, ci sono quelle sui crimini commessi dalle reti transnazionali che gestiscono il traffico verso l’Europa. Le investigazioni (a cui partecipa un Joint team europeo) intendono far luce sulle fasi di trasferimento dei migranti in territorio libico e i movimenti verso la costa. La vice procuratrice Khan ha ha preso parte a una recente udienza del processo iniziato il 3 novembre nei Paesi Bassi contro Tewolde Goitom, alias Walid, imputato di estorsione, traffico di migranti e appartenenza a un gruppo criminale attivo anche in Libia. Il caos libico, il pressing di Usa, Francia e Regno Unito e il niet di Mosca - In seno al Consiglio di sicurezza, dopo l’avvio del conflitto in Ucraina, predomina la divisione, con la Russia che ha criticato la relazione della Cpi, addebitando ancora l’instabilità libica all’intervento militare Nato del 2011. Dal canto loro, gli Usa invitano le autorità di Tripoli a cooperare con la Corte per accertare la responsabilità nei crimini. Anche Francia e Inghilterra auspicano collaborazione per l’esecuzione dei mandati della Corte. Ma sul terreno la situazione resta complicata da riassestamenti nelle gerarchie militari dopo l’arresto di Almasri. Un fallito tentativo di assumere il controllo di una struttura riconducibile al comandante Hakim al Sheikh, vicino alla Forza Rada, sarebbe stato innescato da fedelissimi del generale, che accusa Al Sheikh di averlo abbandonato e di essersi allineato al Governo di unità nazionale.