Carcere, il silenzio del Garante e la memoria perduta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 novembre 2025 “Caro Parlamento” è il libro firmato dal primo Collegio nazionale composto da Mauro Palma, Daniela de Robert ed Emilia Rossi. Un testamento civile, un diario di bordo, una mappa per orientarsi nel “mondo di dentro”. C’è un libro che non è semplicemente un’opera editoriale. È un diario di bordo, una mappa per chiunque voglia orientarsi nella nebbia fitta dei luoghi dove la libertà, pur limitata, non può mai dirsi del tutto negata. Ed è, soprattutto, una collezione di sette messaggi, accorati e rigorosi, rivolti al cuore pulsante - o talvolta assente - della Repubblica: il Parlamento. Il volume si intitola “Caro Parlamento”, fa parte della collana “Diritto penitenziario e Costituzione” e porta le firme di Mauro Palma, Daniela de Robert ed Emilia Rossi, il primo Collegio del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Un’istituzione nata in un momento di crisi profonda, figlia diretta della condanna subita dall’Italia per il sovraffollamento carcerario. Per otto lunghi anni, dal 2016 al 2024, Palma e le sue colleghe hanno tenuto un filo teso tra il “mondo di dentro” - quello di galere, centri di detenzione, Rems, voli di rimpatrio - e il “mondo di fuori”, quello delle leggi e della politica. Leggere queste pagine è come ripercorrere un decennio di storia italiana visto dalla prospettiva più scomoda, quella degli ultimi, dei dimenticati. Non è un’analisi arida, formale. È un’azione politica, nel senso più nobile del termine. Il loro Garante si è rivolto al Parlamento in sette occasioni, parlando a tre diverse composizioni parlamentari e interloquendo, con coraggio e lealtà, con ben sei diversi governi. Il dovere del Garante - Il volume non è una semplice raccolta di documenti. È il tentativo di dare forma a una memoria istituzionale che rischia di disperdersi proprio ora che servirebbe di più. Perché il nuovo Collegio del Garante nazionale, insediato dopo la fine del mandato di Palma e delle sue colleghe, finora non ha presentato alcuna Relazione al Parlamento. Non ha lasciato traccia pubblica del lavoro svolto. Non ha ripreso quel dialogo con le Camere che la legge impone e che il primo Collegio aveva costruito con pazienza, visita dopo visita, parola dopo parola. Ma non solo. In questi giorni l’Unione delle Camere Penali critica il Garante Nazionale dei diritti delle Persone private della Libertà per aver segnalato all’organo disciplinare forense l’avvocato Michele Passione, che aveva rinunciato ai mandati difensivi in processi per tortura motivando la decisione con l’inattività e la scarsa collaborazione dell’Ufficio. Il Consiglio Distrettuale di Disciplina di Firenze ha archiviato l’esposto il 7 novembre scorso. La Giunta, per questo motivo, ha espresso perplessità per un organo di garanzia che si occupa di presunte violazioni deontologiche mentre permane silente di fronte all’emergenza carceraria e inadempiente nel riferire al Parlamento. Ed ecco che il libro “Caro Parlamento” diventa di vitale importanza, perché fa capire come il lavoro del precedente Collegio non si sia mai limitato a una mera contabilità delle sventure. Le Relazioni annuali presentate in Aula non sono mai state ridotte a “mere rilevazioni statistiche”, sebbene i numeri siano stati sempre presenti, implacabili. Sono state piuttosto, come scrive Marco Ruotolo nell’introduzione, una costante opera di prevenzione, un argine posto contro la lesione della dignità e del libero sviluppo della persona, principi cardine della nostra Costituzione. Palma, De Robert e Rossi hanno costruito il loro mandato sulla base di uno “sguardo plurale” e incessante. Hanno dato “visibilità al mondo del rimosso e del non accessibile”, a tutte quelle realtà che il Garante è “istituzionalmente chiamato a vedere, osservare e considerare nella loro problematicità”. Per loro, l’istituzione doveva farsi voce, e non una voce qualunque. Già nella seconda Relazione, Palma usava l’immagine degli Apostoli alla Pentecoste, che parlano una lingua compresa da tutti, per spiegare il compito del Garante: parlare in modo che ogni persona privata della libertà, in qualsiasi istituzione si trovi, possa percepire un messaggio istituzionale, non di parte. Sette anni di visite, sette discorsi al Parlamento - Le allocuzioni raccolte nel libro coprono sette anni di mandato. Tre legislature, sei governi. Un’Italia attraversata da emergenze cicliche, tensioni securitarie, populismo penale. Ogni anno Palma, de Robert e Rossi si sono presentati davanti alle Camere per raccontare ciò che avevano visto. Non con tono accusatorio, ma con la fermezza di chi sa che certi problemi, se non vengono nominati, continuano a esistere nell’ombra. Nel 2017, la prima allocuzione si intitola “Chiamare le cose con il proprio nome”. Palma parla del coraggio di dire tortura, anche quando è scomodo. Racconta un Paese in cui esiste ancora la fatica di pronunciare quella parola, nonostante i trattati internazionali la definiscano con chiarezza. E spiega perché un garante deve distinguere tra legalità formale e legittimità sostanziale: un insieme di atti regolari può produrre condizioni inumane. Nel 2018, l’anno dei decreti sicurezza, il Garante si confronta con un clima politico che spinge verso la chiusura. La parola che ricorre è “attesa”. Attesa di risposte, di riforme, di risorse. Attesa che nei luoghi chiusi si trasforma in immobilità forzata, in tempo sospeso. Nel 2019 emerge la complessità dei luoghi visitati: oltre cento ogni anno. Non solo carceri, ma centri di rimpatrio, hotspot, case famiglia protette, reparti psichiatrici. La libertà non è solo spazio, è anche tempo. E quando il tempo viene deformato - con attese interminabili, procedure inceppate, percorsi senza sbocchi - la dignità si incrina. Il 2020 è l’anno della pandemia. Tra isolamento forzato, sospensione dei colloqui, restrizioni interne, il Garante sceglie di insistere su un concetto semplice: dare un nome a ogni persona, non ridurla a un numero. La crisi sanitaria diventa l’occasione per mostrare quanto il sistema penitenziario sia fragile quando non esistono piani, strutture, personale sufficiente. Gli anni successivi intrecciano due metafore: la direzione dello sguardo e la misura del tempo. Il Garante osserva come i luoghi di restrizione vivano fuori sincrono rispetto alla società. Tempi rallentati, procedure bloccate, ritardi cronici nell’assistenza sanitaria e psichiatrica. Il tempo “che non si conserva”, scrive Palma, è ciò che logora più della cella. L’ultima allocuzione, nel 2023, non è una chiusura ma un’ultima spinta. Si chiede agli interlocutori politici di assimilare quelle visite, quelle raccomandazioni, quella visione unitaria delle tante aree di restrizione. Il Garante non è un controllore, è un presidio che deve instaurare un dialogo permanente con chi governa. Il filo non riannodato - Il desiderio che emerge, in queste pagine di bilancio, è che l’attuale Garante Nazionale riprenda con forza e convinzione quel percorso di dialogo avviato dai suoi predecessori. Il cammino da raddrizzare, di cui parla Palma, comincia proprio da lì: dalla riaffermazione di quell’indipendenza funzionale che trova la sua massima espressione nel coraggio di presentarsi in Parlamento, sette volte se serve, per raccontare senza filtri la vita, la dignità, e spesso la sofferenza, delle persone che non possono parlare per sé. “Caro Parlamento” non è scritto per addetti ai lavori. È un libro che chiunque può leggere, perché racconta con chiarezza cosa significa esercitare un ruolo di garanzia in un Paese attraversato da tensioni securitarie, emergenze cicliche, rimozioni collettive. Leggendolo, si capisce che il Garante nazionale non è un lusso istituzionale. È uno strumento per evitare che lo Stato, nei luoghi dove esercita il massimo potere, diventi arbitrario. È un presidio per chi non ha voce. È una memoria per chi rischia di dimenticare. Ma proprio per questo, chiudendo l’ultima pagina, resta sospesa una domanda: il nuovo Garante ha ripreso quel lavoro, o la stagione inaugurata nel 2016 si chiude nel silenzio? Finché la risposta non arriverà, questo libro resta un documento essenziale. Una mappa per non perdere l’orientamento nei luoghi dove lo Stato deve essere più trasparente e più umano. Un filo che l’attuale Garante deve avere il coraggio di raccogliere. Carceri: il garante non garantisce, ma guai a chi lo critica di Angela Stella L’Unità, 25 novembre 2025 Michele Passione, legale del Garante dei detenuti nei processi per tortura, si era dimesso lamentando mancanza di terzietà e scarsa attenzione del nuovo Collegio alla dignità delle persone private della libertà. Del caso si erano occupati diversi giornali, tra cui il nostro. A luglio l’esposto del presidente Turrini Vita all’ordine degli avvocati di Firenze per violazione del codice deontologico. Un buco nell’acqua. Il Consiglio distrettuale di disciplina dell’ordine degli avvocati di Firenze ha archiviato il 7 novembre l’esposto che il presidente del Collegio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale (Gnpl), l’ex magistrato Riccardo Turrini Vita, aveva presentato lo scorso 24 luglio contro l’avvocato Michele (detto Mimmo) Passione. Facciamo un passo indietro. Com’è noto il 30 maggio, Mimmo Passione, storico avvocato del Garante, aveva comunicato di rimettere i mandati difensivi nei processi per tortura (San Gimignano, Firenze Sollicciano, Santa Maria Capua Vetere, Verona, Reggio Emilia) nei quali era costituito parte civile su mandato rilasciatogli dal Gnpl, nella precedente ed attuale composizione. Alla base della decisione c’erano state le crescenti difficoltà riscontrate nell’ottenere il riconoscimento del proprio lavoro, nonché una diminuita attenzione alla tutela della dignità delle persone ristrette da parte di chi ha istituzionalmente la responsabilità della loro custodia e tutela. In particolare ci aveva raccontato il legale pochi giorni dopo: “Non è in discussione la mia figura, che non conta nulla, quanto piuttosto alcuni temi politici che io ho posto all’attenzione del Garante attuale che non ha mai ritenuto di doversi mettere in contatto con me, né prima, quando avevo preannunciato la rinuncia ai mandati, né dopo”. Le questioni poste da Passione erano state: “L’assoluta molteplicità di voci all’interno di un Collegio che dovrebbe parlare con una voce sola, la percepita mancanza di terzietà da parte di alcuni componenti del Collegio, il fatto che non si svolgano più visite non programmate ed in particolare non si sia ancora andati nel Cpr in Albania, la mancata presentazione della relazione al Parlamento. E del resto sarebbe impossibile trasmettere una relazione se non si va nei luoghi tutti di privazione della libertà personale”. In quello stesso periodo Passione aveva rilasciato anche una intervista a “Vita.it” e sul “Dubbio” era apparso pure un articolo a firma dell’ex Collegio (Mauro Palma, Emilia Rossi, Daniela De Robert) in cui si interpretava questa decisione come un atto dovuto considerata la “diminuita attenzione” dell’attuale Collegio verso le violazioni dei diritti dietro le sbarre. Tutta questa attenzione mediatica evidentemente non è piaciuta a Turrini Vita che, come ci racconta lo stesso Passione, ha presentato un esposto contro di lui per una presunta violazione del codice deontologico degli avvocati. Secondo Turrini Vita il legale avrebbe violato l’obbligo di riservatezza in qualità di difensore di parte civile del Collegio e dei doveri nei rapporti con gli organi di informazione. Per corroborare questa sua tesi, ci spiega sempre Passione, il Garante ha allegato alcuni articoli di giornale, compreso quello scritto dall’Unità il 26 giugno e persino quello sul Dubbio che però non è a firma di Passione. Il Consiglio di disciplina ha ritenuto invece che Passione non abbia infranto alcuna regola in quanto non ci sono riferimenti diretti a procedimenti in corso e tutto il resto riguarda una critica personale all’attività del Garante. “È grave pensare di poter togliere la parola a chi dice la sua, nel rispetto dei ruoli” ci spiega Passione, per cui “gli avvocati non si imbavagliano. È grave che qualcuno pensi di poterlo fare”. La questione sottolinea ancora Passione “non deve focalizzarsi sulla mia vicenda personale ma su altro. Occorrerebbe piuttosto chiedersi se non sia il caso di rivedere le logiche sottese alle scelte concernenti le composizioni delle Authority, che non dovrebbero mai dipendere da un legame partitico. Il solo fatto che si indichi in una certa area politica di provenienza (non culturale ma politico/partitica) quella di riferimento provoca all’evidenza un inquinamento che non è possibile non cogliere, che sottrae autonomia e indipendenza e cancella le garanzie”. E infatti, come già raccontato, c’è stata una fuga di avvocati ed esperti dalla lista di consulenti del Garante. Dopo quelle di Mimmo Passione, erano arrivate le dimissioni anche di altri professionisti. Sulla questione erano state presentate interrogazioni parlamentari e anche le associazioni che operano in carcere avevano stigmatizzato il nuovo andazzo del Garante. Ormai, infatti, oltre un anno fa, il 31 ottobre 2024 Riccardo Turrini Vita veniva nominato su input di Palazzo Chigi presidente del Collegio del Garante. Con lui Irma Conti (in quota Lega) e Mario Serio (quota M5S). Da allora ha gestito questo ruolo nell’ombra più totale: nessuna Relazione o denuncia sulle condizioni disumane delle nostre carceri, mai una critica al Governo e al suo disimpegno in tema di esecuzione penale, silenzio assoluto sulla nuova circolare che centralizza al Dap le richieste per le attività trattamentali esterne. L’unico comunicato che ha fatto rumore è quello di agosto in cui, dopo una reprimenda da parte di Via Arenula per una agenzia stampa che attribuiva un “allarme” del Garante per il numero dei suicidi in carcere, lo stesso Collegio faceva marcia indietro e sosteneva che la situazione era in via di miglioramento, in perfetta sintonia con Nordio. Per la cronaca secondo i dati di Ristretti Orizzonti dall’inizio dell’anno ad oggi siamo a 72 atti di autolesionismo conclusisi con la morte di reclusi. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’aveva definita mesi fa “una vera e propria emergenza sociale sulla quale occorre interrogarsi per porvi fine immediatamente”. Purtroppo il suo monito è rimasto inascoltato. Tornando al GNPL l’unica voce dissonante allora fu quella di Mario Serio che per adesso ancora resiste: rilascia interviste parlando però per sé stesso e accoglie l’invito a partecipare ad una riunione del ‘parlamentino’ dell’Anm per criticare l’emergenza carceraria. Tuttavia resta saldo al suo posto, mentre qualcuno vorrebbe che facesse un passo indietro come ulteriore forma di protesta. Per Mauro Palma “la vicenda del deferimento all’Ordine degli avvocati potrebbe essere archiviata non solo formalmente, ma anche nel dibattito esterno se non rivelasse in realtà l’insofferenza verso la critica. Mentre la critica è il sale di un’istituzione di garanzia che deve essere sempre trasparente all’esterno e pronta a raccogliere segnalazioni, richiami, richieste di maggiore impegno e, appunto, critiche. Perché proprio il grande impegno e la grande motivazione sono stati gli elementi che Mimmo Passione ha aggiunto alla sua professionalità nell’essere a fianco del Garante nelle diverse sedi di accertamento di episodi gravi, offensivi dei diritti di chi è privato della libertà. Questo elemento motivante che ha permesso al precedente Collegio di rendere riconoscibile una giovane istituzione di garanzia è stato sempre più inglobato all’interno di un approccio burocratico soprattutto nell’area della detenzione penale: delle visite effettuate conosciamo i chilometri percorsi e non l’azione di tutela effettivamente svolta. Quanto poi all’accusa di presunta ‘intelligenza con il nemico’, cioè con il Collegio precedente, non resta che sorridere”. Intanto anche l’Unione Camere Penali si è espressa sulla vicenda: “Davvero singolare che un organo di garanzia possa dolersi di inconsistenti violazioni di regole deontologiche nel mentre si assiste in silenzio al disastro penitenziario, inadempiente all’obbligazione istituzionale di riferire al Parlamento”. L’auspicio per i penalisti guidati da Francesco Petrelli è che “l’Ufficio del Garante si riappropri, al netto di pericolose derive ideologiche, del proprio ruolo di salvaguardia e garanzia dei diritti fondamentali dei detenuti, colmando quel vuoto di tutela icasticamente rappresentato dalle attuali condizioni di vita inumane e degradanti e dal numero di suicidi nelle carceri”. I Garanti nel drammatico momento del carcere di Stefano Anastasìa* Ristretti Orizonti, 25 novembre 2025 Dobbiamo essere grati ad Antigone per l’occasione di confronto sul ruolo dei garanti dei detenuti a quasi trent’anni dalla loro ideazione. È un momento delicato per le autorità di garanzia per molti e diversi motivi, di cui anche il nostro mondo soffre, per motivi suoi propri. Il momento delicato precipita su una struttura normativa fragile, sia del Garante nazionale che dei Garanti territoriali, il primo frettolosamente istituito nella contingenza della condanna europea per il caso Torregiani (e di un caso di cronaca che chiamò in causa - maldestramente - l’allora ministra della giustizia Annamaria Cancellieri), i secondi cresciuti in un virtuoso processo dal basso che però non ne ha mai organicamente assestato poteri e funzioni. Le virtù dell’uno e degli altri sono nella pratica, territoriale e nazionale, di chi ha interpretato effettivamente il proprio ruolo come indipendente dalle autorità di nomina così come dalle amministrazioni vigilate; i limiti in un riconoscimento incompleto dei garanti territoriali (ancora oggi combattiamo con il misterioso occultamento da parte dell’amministrazione penitenziaria della propria normativa secondaria, che dobbiamo inseguire per canali informali di comunicazione) e in un legame troppo forte del garante nazionale con l’autorità di Governo, da cui - di fatto - è nominato, e con le amministrazioni vigilate, sulle cui risorse umane poggia. Ma questi limiti, che pure ci sono, non mettono in discussione la necessità di autorità indipendenti di monitoraggio dei luoghi di detenzione e di tutela non giurisdizionale dei diritti delle persone a qualsiasi titolo sottoposte a misure restrittive della libertà personale e l’opportunità di un sistema articolato sul territorio attraverso la corresponsabilizzazione diretta degli enti territoriali, titolari di molte e decisive competenze nel campo della salute, dell’assistenza socio-sanitaria, della formazione e dell’inserimento lavorativo delle persone private della libertà. Se non è questo il tempo di una messa a punto normativa, certo è quello di rafforzare le buone pratiche maturate in questi ventidue anni, quanti ci separano dalla prima nomina del primo garante comunale d’Italia, nel 2003, a Roma. Le buone pratiche si possono rafforzare qualificando l’azione dei garanti, a partire dal consolidamento della rete costituita dalla Conferenza dei garanti territoriali, dalla circolazione delle best practices e da momenti di (auto)formazione comune, rivendicando autonomia e indipendenza dalle autorità di nomina e dalle amministrazioni vigilate, rafforzando le relazioni dei garanti con la società civile, sia in termini di input (le segnalazioni delle associazioni, degli operatori, dei familiari ai garanti), sia in termini di output (la continua e necessaria azione di informazione dell’opinione pubblica). Il momento, si sa, è drammatico, per i numeri (assai più gravi di quelli in base ai quali l’Italia fu condannata dalla Corte europea dei diritti umani, quando la soglia dei 63mila detenuti fu toccata in riduzione dai 67mila di qualche anno prima, non in crescita costante come oggi), per la disperazione, per lo stillicidio delle morti e dei suicidi in carcere, per il silenzio del Garante nazionale e la serena indifferenza del Governo, che pure ha non poche responsabilità nell’aggravamento della situazione e che - dopo quelle del Presidente Mattarella e di Papa Francesco - non ha neanche voluto ascoltare le parole del Presidente del Senato e del Vice Presidente del CSM, nè ricordare il diverso atteggiamento dei Governi Berlusconi, che nel 2003 e nel 2010 approvarono misure deflative del sovraffollamento . Per questo dobbiamo serrare le fila, qualificando la nostra azione, rivendicando la nostra indipendenza, rafforzando le nostre relazioni con la società civile e con lo stesso personale penitenziario, mortificato nelle proprie professionalità dalla condizione delle nostre carceri, ormai ridotte a reclusori di capri espiatori della disuguaglianza sociale. *Intervento all’assemblea “Garanti. 1997-2025” il 21.11.2025 a Roma Difendere l’umanità, anche in carcere casadellacarita.org, 25 novembre 2025 Fin dalla sua nascita, la Casa della Carità si spende affinché le pene siano rieducative, come prescritto dall’articolo 27 della Costituzione italiana. Da molti anni, per esempio, attraverso la sua Biblioteca del Confine, la Casa realizza progetti culturali in collaborazione con la Casa Circondariale di San Vittore. Questi progetti, che ruotano intorno alla lettura e al teatro, hanno il merito di mettere in contatto chi sta dentro il carcere con chi sta fuori, coinvolgendo, oltre alle persone detenute, studentesse e studenti di alcuni licei milanesi. I progetti culturali all’interno del carcere - spesso promossi da enti del terzo settore e organizzazioni di volontariato - rispondono a quanto stabilito dall’ordinamento penitenziario italiano che, in attuazione del dettato costituzionale, pone la rieducazione delle persone condannate e il reinserimento sociale come finalità principali della pena e prevede espressamente che tale obiettivo sia perseguito anche attraverso l’organizzazione di attività culturali, ricreative e sportive. Essi rappresentano un’occasione preziosa per rompere la routine quotidiana delle persone detenute e restituire loro uno spazio di umanità. Attività come lettura, teatro, scrittura e momenti di confronto aprono occasioni di riflessione, favoriscono la progettualità e stimolano la voglia di cambiamento, offrendo anche opportunità concrete per immaginare nuovi percorsi di vita, avvicinarsi al lavoro e coltivare l’autoanalisi. Passi fondamentali per una vera rieducazione e per il reinserimento nella società. Avere la possibilità di entrare in carcere, aiuta chi sta fuori a superare pregiudizi e a vedere il detenuto e la detenuta come persona, e non come etichetta. Forte di questa sua esperienza, la Casa della Carità si unisce a quanti - enti e associazioni di volontariato penitenziario, magistrati di sorveglianza, ma anche alcuni familiari di vittime di criminalità organizzata e terrorismo e sindacati di categoria - esprimono preoccupazione per le conseguenze della circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) dello scorso 21 ottobre. La circolare obbliga chi vuole proporre attività ed eventi di carattere educativo, culturale e ricreativo in istituti penitenziari dove sono presenti sezioni di alta sicurezza, collaboratori di giustizia o detenuti sottoposti al regime del 41-bis, a inviare dettagliate richieste non più al direttore dell’istituto penale ma al DAP stesso, a Roma, anche quando queste non coinvolgono persone ristrette in queste sezioni. Questa misura rischia di indebolire profondamente l’impegno e la partecipazione della comunità esterna nella vita degli istituti. Una procedura così complessa e farraginosa, infatti, comporterà un aggravio nei tempi di rilascio delle autorizzazioni, con il rischio che si riducano o si fermino completamente le attività trattamentali proposte e rallentino i percorsi di reinserimento delle persone detenute. Questo genererà, e ha già generato, grosso malcontento tra le persone detenute, in alcuni casi sfociato anche in sommosse. Una situazione dura da vivere per le persone ristrette, ma anche difficile da gestire per gli agenti della Polizia Penitenziaria. Inoltre, l’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario affida ai magistrati di sorveglianza e alla direzione del carcere il compito di decidere chi può entrare in un istituto penitenziario per svolgere attività con i detenuti. È una scelta logica: sono loro a conoscere da vicino la situazione interna, le esigenze delle persone ristrette e le risorse disponibili sul territorio, quindi possono valutare se un progetto sia davvero utile al percorso di reinserimento di ciascuno. La circolare del DAP stravolge questo equilibrio e, spostando le decisioni a un livello centrale, ridimensiona e svilisce il ruolo di direttrici e direttori degli istituti, oltre che di magistrate e magistrati di sorveglianza. La circolare dunque sembra muoversi nella direzione opposta rispetto a ciò di cui il sistema penitenziario italiano - sempre più sovraffollato e intrinsecamente patologico per chi ci vive e ci lavora - avrebbe oggi bisogno: invece di incoraggiare la partecipazione della società civile, finisce per scoraggiarla, proponendo una visione del carcere che privilegia la custodia e il controllo sulla risocializzazione. “Incontrare le vittime dei crimini mi ha cambiato la vita” di Giorgio Paolucci Avvenire, 25 novembre 2025 Enrico Platania, condannato all’ergastolo nel 1997 per crimini mafiosi, grazie al Progetto Sicomoro ha capito di desiderare la redenzione. Oggi esce per insegnare italiano agli stranieri. “Non conoscevo la storia di Zaccheo raccontata nel Vangelo, ma partecipando al Progetto Sicomoro ho capito che mi riguardava molto da vicino. Anche io come lui ero un malfattore, anche io come lui sono stato raggiunto in maniera inaspettata da uno sguardo di misericordia sul mio passato, e quello sguardo ha accompagnato il percorso di cambiamento che continua ancora oggi”. Enrico Platania è uno dei detenuti che in questi anni hanno partecipato al Progetto Sicomoro, un percorso di giustizia riparativa promosso dall’associazione Prison Fellowship in alcuni penitenziari già prima dell’entrata in vigore della riforma Cartabia, che dal 2023 ha dato piena cittadinanza a questo strumento complementare al processo penale. Pochi giorni fa Platania ha compiuto sessant’anni, ne ha passati ventotto in galera per un cumulo di reati di matrice mafiosa di cui è stato protagonista nella Catania degli anni Novanta e che gli sono costati la condanna all’ergastolo. Nel maggio del 1997 la sua carriera criminale si è conclusa con l’arresto, un mese dopo è nato Domenico Enrico, il bimbo concepito insieme alla compagna: il nome del nonno (come da tradizione) affiancato a quello del padre che non l’avrebbe potuto vedere per molto tempo. La nascita del figlio è stato il primo duro colpo che la realtà ha inferto alla corazza che si era costruito. “L’ho tenuto in braccio quando aveva poche settimane di vita, una commozione immensa e insieme un dolore indicibile perché sapevo che non l’avrei potuto crescere. Grazie a Dio non ha seguito la strada cattiva che aveva affascinato suo padre”. Parla di fascino, Enrico Platania: il fascino malato che l’ha attirato quando era ancora ragazzino - ultimo di 10 fratelli in una famiglia povera e onesta -, il fascino che assicurava guadagni facili, onore e rispetto dovuti da parte della gente, e che l’ha risucchiato nel gorgo della malavita catanese in cui ha fatto carriera, fino a diventare strumento del sistema mafioso. L’altra carriera, quella detentiva, comincia nella casa circondariale Bicocca di Catania, poi il trasferimento a Trapani dove consegue il diploma di maturità di ragioneria e infine a Tempio Pausania, in Sardegna, con l’avvio di un brillante percorso universitario che passa per la laurea triennale in filosofia (tesi su Emmanuel Lévinas) e che dovrebbe concludersi l’anno prossimo con la laurea magistrale. Durante i lunghi anni di detenzione la vita di Platania decolla verso un’altra direzione, segnata dalla passione per lo studio, tante letture, il teatro, la gestione della biblioteca, le battaglie condotte con l’associazione Nessuno tocchi Caino per i diritti delle persone detenute, i dialoghi in carcere con gli studenti, fino all’incontro con i volontari di Prison Fellowship che nel 2014 lo invitano a partecipare al Progetto Sicomoro. Insieme ad altri detenuti partecipa a incontri con le vittime di reati analoghi a quelli da loro commessi, con la presenza di un facilitatore che agevola il confronto su temi cruciali come l’assunzione di responsabilità, il ravvedimento, la riparazione, il perdono, la riconciliazione. Dialoghi sinceri, senza maschere, a tratti dolorosi, che riaprono antiche ferite e arrivano fino alle profondità dell’anima lasciando un segno indelebile nel suo cuore. “Nel racconto evangelico il sicomoro è l’albero sul quale si arrampica Zaccheo per vedere passare Gesù, ed è lì che a sorpresa quell’uomo da tutti conosciuto come un malfattore viene raggiunto da uno sguardo che cambia la sua vita, uno sguardo che ricomprende il male compiuto dentro la logica del perdono. Nei volti delle persone incontrate durante il Progetto Sicomoro - vittime di reato o loro familiari - ho visto il volto di Cristo che si chinava sui miei errori e mi abbracciava. Nella mia carriera criminale le vittime erano solo obiettivi da colpire, gente senza nome e senza volto, pedine da abbattere, ma durante quegli incontri e ascoltando il loro dolore ho fatto i conti con il meccanismo distruttivo innescato dalle mie imprese delittuose. E così le pedine anonime hanno assunto una fisionomia precisa che ora stava lì, davanti ai miei occhi, mostrava il suo volto, chiedeva di essere riconosciuta e offriva la possibilità di un canale di comunicazione, di iniziare un rapporto in cui il male che avevo commesso non era più un’obiezione. Non mi vergogno di dire che in quei momenti ho pianto, ho pianto tanto, e ho visto emergere la mia umanità ferita e desiderosa di redenzione. E’ stata un’esperienza di purificazione e di liberazione”. Il Progetto Sicomoro ha debuttato nel carcere di Opera nel 2010 coinvolgendo sette detenuti del reparto di alta sicurezza e da allora ha trovato attuazione in molti penitenziari. Si declina attraverso dialoghi di due-tre ore settimanali per una durata media di otto settimane e si conclude con un momento di comunicazione pubblica del percorso fatto e dei risultati conseguiti. “La sua attuazione è preceduta dalla ricerca sul territorio delle vittime o di loro familiari che si rendono disponibili a incontrare i detenuti, ai quali, in collaborazione con la direzione del carcere, vengono presentati la natura e lo scopo del progetto - spiega Marcella Reni, responsabile di Prison Fellowship Italia, l’associazione che ne cura la realizzazione -. In alcuni casi il progetto viene riconosciuto come un’attività trattamentale dallo stesso ministero della Giustizia per il suo alto valore educativo. Durante gli incontri accadono cose straordinarie, si assiste a un processo di trasformazione dell’umano sia nei detenuti sia nelle vittime di reato. E anche i nostri volontari che partecipano come facilitatori vedono all’opera la grazia di Dio, in una misura e con un’efficacia inimmaginabili. Da questa esperienza usciamo tutti cambiati e resi più consapevoli del fatto che nessun uomo è riducibile al reato commesso e che il cambiamento è sempre possibile”. Anche nella vita di Platania è accaduta in questi anni una trasformazione dell’umano, di cui darà testimonianza il 13 dicembre a Sacrofano, alle porte di Roma, in occasione di un evento promosso alla vigilia del Giubileo dei detenuti. Il suo percorso è proseguito fino a ottenere la semilibertà e ad approdare a nuovi lidi: in questi mesi sta preparando la tesi di laurea magistrale che avrà come tema “Il tempo e l’altro” perché si è profondamente convinto che “il tempo di ognuno di noi acquista significato solo in un legame con l’alterità, le nostre vite valgono perché sono dentro una trama di rapporti con altre vite”. Questa parola - “alterità” - è diventata carne, ha assunto i volti di tanti giovani arrivati in Sardegna dall’Africa e dal Medio Oriente e ospitati in un centro di accoglienza, ai quali lui insegna la lingua italiana nell’ambito di un progetto promosso dalla cooperativa Il Piccolo Principe. Da quando il magistrato di sorveglianza gli ha concesso la semilibertà, ogni giorno Platania esce dal carcere e offre tempo e competenze nei servizi gestiti dalla cooperativa. “Quando mi hanno offerto questa opportunità quasi non ci credevo, ma ho detto subito “eccomi”, è diventata un’altra tappa del mio cammino. Un giorno due ragazzi algerini che hanno appena cominciato a masticare l’italiano mi hanno fatto vedere sullo schermo del cellulare tre semplici parole: “ti vogliamo bene”. Alla sera sono rientrato in carcere con il morale alle stelle, qualcuno aveva riconosciuto il volto buono di Enrico Platania. Tutto il bene che faccio è una piccola restituzione di ciò che ho ricevuto in questi anni, ma non potrà bastare per arrivare a sanare il male compiuto. So bene che non potrò mai “pareggiare”, ma voglio giocare fino in fondo la partita della vita”. Femminicidi, sì alla legge. Manca la prevenzione di Rita Rapisardi Il Manifesto, 25 novembre 2025 Oggi, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, sarà approvato in via definitiva il ddl sul femminicidio, il governo festeggia ma di problema culturale e sociale non vuole sentire parlare, come testimoniano le recenti dichiarazioni della ministra Roccella e del ministro Nordio sull’educazione sessuo-affettiva nelle scuole. Anzi, si muove nella direzione opposta con il finanziamento aperto a chi non vuole riconoscere l’autodeterminazione delle donne e le loro libere scelte in materia di aborto. Come il dirottamento dei 500mila euro, che un anno fa erano stati stanziati in commissione Bilancio alla Camera, con emendamento presentato da Riccardo Magi, per progetti di educazione sessuale e affettiva, finiti invece a gennaio 2025 “per formare gli insegnanti delle scuole medie e superiori sui temi della prevenzione delle infertilità”. Ma funziona così anche a livello regionale: in Piemonte continua da tre anni il Fondo di Vita Nascente e ieri è arrivato anche il terzo esposto alla Corte dei Conti per chiedere conto di come sono stati spesi i 3 milioni che la regione ha destinato alle associazioni antiabortiste. Dopo il M5s, è un gruppo di associazioni a muovere l’iniziativa, tra cui Associazione Europa Radicale, il Coordinamento Antifascista Torino, il Comitato Mamme in Piazza e Non Una di Meno Torino. A luglio il M5S, dopo richiesta di accesso agli atti, aveva ottenuto i rendiconti del primo anno del fondo da cui era emerso che le risorse erano state utilizzate anche per voci che non sembrano avere attinenza con il bando, in modo quindi poco chiaro e senza la possibilità di verificarne l’efficacia. E nonostante il Tar a luglio abbia bocciato la Stanza dell’Ascolto all’ospedale Sant’Anna di Torino, uno spazio indirizzato proprio agli “anti choice”, spunta un nuovo bando da 940mila euro. Un ricco fondo ai pro vita è stato erogato anche in Umbria nel 2023 per volere del consigliere regionale della Lega, Daniele Carissimi, con espressa volontà di far aumentare la fertilità della regione e su modello di quello piemontese, “per prevenire le interruzioni volontarie di gravidanza e attuare compiutamente la parte preventiva della legge 194/1978”. Meglio non va nelle Marche, con la riconferma di Francesco Acquaroli, Fratelli d’Italia, al suo secondo mandato: con il primo è riuscito a far entrare gli antiabortisti nei consultori, senza alcun tipo di formazione specifica, affianco dei professionisti che si occupano invece della salute delle donne, le informano e le accompagnano nelle loro scelte. “Tutto quello che è stato fatto fino a oggi, nel solco di risposte securitarie, punitive e repressive non basta. Non basta dotarsi di norme. È fondamentale spostarsi sull’asse della prevenzione”, spiega Raffaella Palladino, sociologa e vice presidente della fondazione Una nessuna centomila, che sottolinea proprio il problema della mancanza di fondi: “Servono più risorse per chi quotidianamente interviene nel sostegno delle donne, nel diffondere una cultura alternativa alla cultura maschile, egemonica e dominante. Quindi serve sostenere il lavoro dei centri antiviolenza, quello sinergico delle reti sui territori. E poi, occorre entrare nelle scuole con interventi di educazione sesso-affettiva, l’inverso di quello che sta sostenendo l’attuale governo”. Femminicidi, la repressione non basta senza cultura del rispetto di Monica D’Ascenzo I Sole 24 Ore, 25 novembre 2025 Gli ultimi due tasselli a un quadro normativo già composito sono stati aggiunti: la legge che riconosce il reato di femminicidio, approvata dal Senato il 23 luglio 2025 e oggi al vaglio della Camera dei Deputati per l’approvazione definitiva; e la legge che modifica l’articolo 609-bis del codice penale introducendo in modo esplicito il consenso libero e attuale come elemento centrale per il reato di violenza sessuale, approvata settimana scorsa dalla Camera all’unanimità e al passaggio oggi al Senato, salvo imprevisti. L’impianto normativo italiano viene riconosciuto come all’avanguardia a livello internazionale, eppure la violenza contro le donne non accenna a diminuire e ogni 25 novembre si commentano dati che, nel migliore dei casi, sono stabili. Le due gambe su cui il cambiamento culturale necessario può camminare sono investimenti ed educazione. Nel primo caso mancano capitali allocati a sostegno delle novità normative. Non sono sufficienti nuove leggi se non si investe in modo consistente sulla formazione delle forze dell’ordine, degli assistenti sociali e dei magistrati che si trovano quotidianamente ad affrontare casi di violenza contro le donne. Oltre alla necessità di rafforzare i centri antiviolenza. D’altra parte non sarà possibile invertire la rotta se non si punta sulla formazione dei cittadini di domani, con programmi scolastici che prevedano ore di educazione sessuo-affettiva, che nulla hanno a che vedere con le paventate teorie gender. I dati sui giovani continuano a rimandarci un quadro fosco: sette ragazzi su dieci guardano contenuti pornografici online (fra i maschi l’89%) e due su dieci lo fa quotidianamente. Non solo. Più di uno su tre ha visto pornografia violenta o non consensuale e i119% ha ricevuto richieste di comportamenti sessuali visti nella pornografia. A questo si accompagna un incremento dei reati da codice rosso fra i giovani. Agire sul fronte delle pene non sta sortendo risultati evidenti. Lavorare, invece, sull’educazione in ambiente scolastico con professionisti qualificati (e qui si torna agli investimenti) può fare davvero la differenza. La scuola, d’altra parte, è sempre stato un elemento compensativo nell’educazione dei bambini e dei ragazzi, anche rispetto a contesti familiari complessi o di fragilità. Proprio per questo l’ipotesi del consenso dei genitori rispetto all’insegnamento su questi temi rischia solo di creare ulteriore disuguaglianze a livello sociale. Dopo l’Unità d’Italia, la scuola fu l’istituzione identificata per la formazione dell’identità nazionale e della coscienza civica, partendo dall’unificare il Paese linguisticamente. Oggi deve ritrovare quella funzione per sradicare un problema ormai strutturale in Italia: la violenza contro le donne. Solo così anche le leggi sul femminicidio e sul consenso potranno avere una valenza effettiva e non essere in balìa di interpretazioni e storpiature. Perché la nuova norma sul reato di violenza sessuale riscrive la presunzione di innocenza di Annarita Digiorgio Il Foglio, 25 novembre 2025 La legge inverte l’onere della prova: d’ora in poi sarà l’imputato a dover dimostrare la propria innocenza. Ancora una volta, davanti a reati ripugnanti, si considera accettabile sacrificare i principi dello stato di diritto, come accadde per il 41 bis contro la mafia. Dovremmo chiederlo a Silvia Salis cosa ne pensa della nuova legge sulla violenza sessuale. Lei che ha vissuto le sofferenze di suo marito, il regista Fausto Brizzi, perseguito dai pm dopo che diverse donne avevano raccontato a Dino Giarrusso de Le Iene di aver subito molestie sessuali. E poi scagionato da tutte le accuse (come Paul Haggis e Kevin Spacey). O a Ignazio La Russa, il cui figlio Leonardo ha subito lo stesso calvario. Eppure destra e sinistra, unite nell’abbraccio tra Meloni e Schlein, hanno approvato all’unanimità alla Camera una legge pericolosa, che sacrifica sull’altare del populismo penale secoli di civiltà giuridica. È la legge Boldrini che modifica l’articolo 609-bis del codice penale in materia di violenza sessuale e di libera manifestazione del consenso, con l’emendamento proposto da Michela Di Biase (Pd) e Maria Carolina Varchi (FdI), che stabilisce: “Chiunque compie o fa compiere o subire atti sessuali a un’altra persona senza il consenso libero e attuale di quest’ultima è punito con la reclusione da sei a dodici anni”. Quando fu proposta, i giornali di destra si scagliarono contro, parlando di “green pass per fare l’amore”. Perché l’uomo (la legge tutela chiaramente soprattutto le donne: nessuno ha ancora chiesto cosa succede se la vittima è un uomo, magari aggredito da un altro uomo) dovrà dimostrare in tribunale le prove del consenso. Qui sta uno degli elementi più gravi introdotti dalla nuova norma: smantellando la presunzione di innocenza, si inverte l’onere della prova. Da ora in poi sarà l’imputato a dover dimostrare la propria innocenza. Chi si difende dicendo che lei era consenziente - la linea difensiva più ricorrente - dovrà spiegare e provare cosa gli ha fatto credere che lo fosse. Mentre il magistrato dovrà credere alla donna a prescindere: se denuncia, significa che non voleva. E se, dopo una notte di sesso consenziente, viene mollata e vuole vendicarsi? Inoltre il consenso deve essere “attuale”, cioè riguardare quel momento specifico e persistere durante il rapporto. La donna può tirarsi indietro anche dopo aver accettato l’approccio: in quel caso è violenza. Come l’ha chiamata Cruciani - uno dei pochi, insieme a Mario Giordano e Nicola Porro, a criticare la destra per aver votato la legge - siamo al “consenso minuto per minuto”. Il centrodestra, pur di non perdere consenso su un tema facile e populista, ha accettato di assecondare questa boldrinata. La riforma vuole rendere più semplice essere credute. Il presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia, lo ha ammesso chiaramente: “Il pm deve credere alla donna che denuncia”. Eppure l’articolo 27 della Costituzione impedisce la presunzione di colpevolezza. “Non si arriverà al consenso scritto - dice Roia - ma da ora in poi questo è un problema che riguarda gli uomini”. Ripetiamo la domanda: e se la vittima fosse lui? Qui c’è anche la violazione dell’articolo 3: “Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso…”. Ma chi potrà mai impugnarla? È un fatto genetico, direbbe Nordio. E questo consenso vale solo per la penetrazione, o devo chiedere il permesso anche per un bacio? E come lo dimostro, se è la sua parola contro la mia? La verità non si ricostruisce più: si presume. Come ha detto l’avvocata Bernardini De Pace: “Gli uomini devono registrare ogni atto sessuale, oppure smettere di fare l’amore”. Ancora una volta, davanti a reati ripugnanti, si considera accettabile sacrificare i principi dello Stato di diritto, come accadde per il 41 bis contro la mafia. Magari alla fine è anche piaciuto, ma se in un qualunque momento il consenso viene meno, allora è galera. E comunque, se un uomo mi chiede il permesso per un bacio, non lo voglio più. A un anno dalla morte di Ramy nessun rinvio a giudizio di Roberto Maggioni Il Manifesto, 25 novembre 2025 Fiaccolata ieri sera per ricordarlo: il corteo ha raggiungo il luogo dello schianto dopo l’inseguimento da parte dell’auto dei carabinieri. Un anno fa il Corvetto si risvegliava con i segni di una rivolta. Dalle periferie di Milano gruppi di giovani si erano dati appuntamento per chiedere giustizia per un ragazzo come loro, morto al termine di un inseguimento dei carabinieri. Chiedevano di non insabbiare quel caso e di non bollare quel ragazzo come un “maranza”, un ladro, un balordo. Quel ragazzo di chiamava Ramy Elgaml, aveva 19 anni, era un giovane lavoratore del Corvetto di Milano. In quelle ore i giornali stavano liquidando il caso come uno dei tanti di cronaca finiti male, la rivolta del Corvetto e la reazione composta dei genitori di Ramy cambiarono il corso degli eventi e la narrazione di quei fatti. Il caso divenne nazionale e l’attenzione sociale e mediatica portò la procura ad aprire le indagini. A un anno da quella tragica notte però il processo è ancora lontano, le indagini rischiano di finire archiviate, verità e giustizia per Ramy è ancora solo una scritta sui muri delle città. “Si sono schiantati da soli contro un palo del semaforo” era la vulgata in quelle ore. In quell’angolo di strada tra via Quaranta e via Ripamonti però c’erano alcuni testimoni che da subito agli amici di Ramy avevano raccontato un’altra storia. L’auto dei carabinieri, alla fine i un inseguimento lungo 24 minuti e 8 chilometri, secondo quei testimoni aveva spinto la moto sulla quale viaggiava Ramy contro il marciapiede e il semaforo. Erano le 4 di notte del 24 novembre 2024 quando lo scooter T-Max guidato da Fares Bouzidi, l’amico di Ramy alla guida della moto, finiva a terra. Fares uscirà dall’ospedale dieci giorni dopo, Ramy Elgaml verrà dichiarato morto alle 4:58 di quella notte a causa di una lesione dell’aorta. Gli indagati per concorso di colpa in omicidio stradale sono Fares Bouzidi e Antonio Lenoci, il militare di 37 anni che guidava l’auto dei carabinieri. Le indagini preliminari si sono chiuse lo scorso luglio, ma c’è ancora molta incertezza e una battaglia di perizie e contro-perizie sulla dinamica dell’incidente. La procura non ha ancora chiesto il rinvio a giudizio. Il punto centrale dell’inchiesta è stabilire se al termine dell’inseguimento l’auto dei carabinieri abbia urtato lo scooter causandone la caduta, oppure no. C’è poi una seconda inchiesta avviata per falso in atto pubblico e depistaggio e che vede indagati quattro carabinieri, accusati di aver cancellato dal telefono di un testimone le immagini che ritraevano il momento dello schianto e aver sostanzialmente depistato l’inizio delle indagini. Le perizie avrebbero accertato che ci sarebbero tracce di filmati cancellati nello smartphone del testimone. Ramy era figlio di questa città che fatica a considerare suoi figli i ragazzi come Ramy: le seconde generazioni proletarie che abitano le periferie. Ieri alla fiaccolata con la famiglia c’erano alcune centinaia di persone, la famiglia, gli amici, i giovani che la stampa etichetta come maranza, i centri sociali, alcuni politici del centrosinistra. Non c’era il sindaco Sala, assente nonostante il papà di Ramy gli avesse chiesto di partecipare. Ieri sera la fiaccolata per ricordarlo con un corteo diretto al luogo dello schianto: il padre era in testa alla manifestazione con il presidente della comunità egiziana di Milano, Aly Harhash. Nelle prime file sono stati esposti alcuni cartelloni con le foto del giovane, su uno la scritta “Ramy vive”. Milano. San Vittore, Sala ci riprova: “Il carcere non è dignitoso. In futuro diventi un parco” di Massimiliano Mingoia Il Giorno, 25 novembre 2025 Il sindaco punta sul trasferimento dei detenuti in altre strutture più moderne. Ma il Governo resta cauto e la Sovrintendenza in passato si era detta contraria. Parte ragionando del problema dell’immigrazione e delle soluzioni sbandierate dal centrodestra ma mai applicate nella realtà. E arriva alla situazione delle carceri sovraffollate, in particolari di quelle milanesi: “Sono strutture vecchi e senza dignità, basta andare a vedere San Vittore. Il Beccaria che ha 50 posti, solo maschili ed è sovraffollato. È stato 20 anni senza direttore”. Il sindaco Giuseppe Sala - durante il convegno di Italia Direzione Nord “Buone politiche per grandi orizzonti che si è svolto ieri alla Triennale - torna a parlare del futuro di San Vittore e conferma di non aver cambiato idea rispetto alle prese di posizione dei mesi e degli anni scorsi sul trasloco del carcere nel pieno centro della città: “So che ci sono delle resistenze (sul trasloco, ndr), ma secondo me San Vittore non è un carcere dignitoso per Milano. Fino a due anni fa c’erano delle celle femminili con le turche. Di questo stiamo parlando. È chiaro che non è una soluzione che si trova dall’oggi al domani ed è chiaro che se mai il carcere venisse spostato, la mia proposta è che lì ci sia solo un parco. In quello spazio nessuno dovrebbe costruire altro”. Il problema dell’inadeguatezza del vecchio carcere - fu inaugurato il 24 giugno del 1879 - non è nuovo. Più di vent’anni fa, nel 2001, l’allora sindaco Gabriele Albertini puntava sul trasloco della casa circondariale per realizzare nell’area di San Vittore un grattacielo con un grande parco intorno e aveva strappato la promessa all’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli che lo Stato avrebbe costruito un nuovo carcere nella periferia di Milano. Alla fine non se ne fece nulla, anche perché la Sovrintendenza sentenziò che il nucleo storico del carcere non può essere abbattuto. Con il successore di Albertini, la sindaca Letizia Moratti, il futuro di San Vittore era stato congelato mentre con Giuliano Pisapia, primo cittadino dal 2011 al 2016, il trasloco era stato derubricato come opzione non gradita. Il sindaco arancione aveva fatto notare che la presenza di un carcere nel centro della città era simbolicamente importante, perché faceva riflettere i milanesi sull’esistenza della comunità dei detenuti. Una posizione non condivisa dall’attuale numero uno di Palazzo Marino, il quale ha più riprese ha rilanciato l’opzione del trasloco di San Vittore. Ma il Governo di centrodestra non ha preso in seria considerazione questa soluzione, almeno per ora. Semmai, nel dicembre 2022, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, durante una visita al carcere milanese, aveva riconosciuto la situazione difficile a causa del sovraffollamento delle celle e delle criticità provocate dalla struttura datata e aveva promesso di fare il possibile per migliorare le condizioni, pur segnalando la scarsità di risorse. L’alternativa di chiudere il carcere e trasferire i detenuti altrove era rimasta sullo sfondo. Sala riporta il tema al centro del dibattito politico. Ma trovare una soluzione che vada nella direzione auspicata dal sindaco non sarà semplice. Perché, come accennato sopra, la posizione della Sovrintendenza, quando è stata sollecitata sul tema, si è sempre confermata contraria alla demolizione del carcere, in quanto struttura tipica e degna di tutta perché testimonianza dell’architettura carceraria ottocentesca. L’opzione di demolire tutto e realizzare un parco pubblico al suo posto dunque resta improbabile. Più realizzabile, invece, l’ipotesi di trasferire i detenuti in nuove o altre strutture e di riutilizzare i raggi di San Vittore per ospitare altre funzioni. L’ex candidato sindaco del centrodestra Luca Bernardo, ad esempio, aveva inserire nel suo programma elettorale di usare San Vittore come “sede di strutture culturali o di spazi per esposizioni temporanee di sculture, pitture o installazioni artistiche, di sede di raccolte fotografiche e artistiche di importanti enti o istituzioni milanesi”. Siracusa. “L’Arcolaio”, laboratori di pasticcieria tra sostenibilità e reinserimento di Alessandro Pendenza gnewsonline.it, 25 novembre 2025 La cooperativa L’Arcolaio nasce nel 2003 con l’obiettivo di favorire l’inserimento lavorativo delle persone detenute all’interno della casa circondariale di Siracusa. Attualmente il laboratorio di pasticceria interno al carcere interessa ogni anno circa 15 detenuti e attraverso altri progetti minori riesce a coinvolgere ogni anno altre 20 persone ristrette. Attualmente lo staff della cooperativa è composto da 13 persone. I valori cui dichiara di ispirarsi sono solidarietà, sostenibilità, territorio, relazione e generatività, intesa come la capacità di trasformare l’esclusione in opportunità attraverso il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti. La connessione con il territorio, che racchiude in qualche modo tutti questi valori fondativi, è irrinunciabile per la cooperativa. L’Arcolaio intende, infatti, contribuire alla valorizzazione delle peculiarità naturali e culturali del territorio, essere parte attiva nella costruzione di filiere etiche e costruire un rapporto diretto con la comunità. Quando la cooperativa decide, infatti, di aprire un laboratorio per la produzione di dolci tipici siciliani biologici e senza glutine la destinazione è soprattutto il mercato locale. Ma già due anni dopo, con la nascita del marchio “Dolci Evasioni”, il cui logo raffigura un gabbiano in volo, simbolo di riscatto e libertà, i pasticceri in carcere si perfezionano sempre più e i loro prodotti arrivano in tutta Italia attraverso i negozi specializzati in alimentazione biologica, le botteghe del commercio equo-solidale e i Gruppi di acquisto solidale. Più recentemente ha aperto un canale di vendita online per raggiungere un pubblico sempre più vasto. Una piccola svolta c’è nel 2010 quando L’Arcolaio inizia a gestire anche la preparazione dei pasti per i detenuti della casa circondariale di Siracusa. Per oltre 5 anni una squadra di 12 cuochi ha servito quotidianamente centinaia di pasti alle persone recluse dell’Istituto penitenziario. Parallelamente, grazie all’avvio di un’attività di catering, numerosi detenuti autorizzati al lavoro in esterno hanno somministrato cibo e bevande a feste private, banchetti e rinfreschi in tutta la provincia di Siracusa. Nel 2012 prende il via il primo progetto della cooperativa, mirato all’inserimento socio lavorativo di persone in esecuzione penale esterna. Nel 2014 L’Arcolaio allarga il ventaglio delle persone alle quali si rivolge, non più solo persone ristrette, ma anche giovani migranti, ex detenuti e altre persone fragili grazie all’avvio di un progetto di agricoltura sociale nel cuore dei Monti iblei, offrendo formazione e lavoro attraverso una rete di imprese sul territorio disponibili a offrire opportunità di inserimento occupazionale. Guardando al futuro, L’Arcolaio sta compiendo un passo fondamentale per la sostenibilità e aumentare il proprio impatto sociale: il progetto Cavadonna Lab, che intende incrementare l’inserimento lavorativo dei detenuti autorizzati al lavoro in esterno. Questa iniziativa che prevede la costruzione di un polo agroalimentare a vocazione sociale integrerà il laboratorio esistente grazie l’acquisto di un terreno adiacente al carcere nel 2023. Per le imminenti festività natalizie la cooperativa propone alcuni prodotti tipici della linea “Dolci evasioni”, che saranno acquistabili online https://www.arcolaio.org/shop Milano. “Vite in campo”, il fischio d’inizio. Primo incontro nel carcere di Bollate di Roberta Rampini Il Giorno, 25 novembre 2025 Il progetto di Fondazione Feltrinelli e Fiera Milano in vista delle Olimpiadi e Paralimpiadi Milano Cortina. Con Tiribocchi, allenatore ed ex calciatore, e Laura Giuliani, portiere di Ac Milano femminile e Nazionale. Lo sport come strumento di crescita e di riscatto personale e collettivo. Lo sport come spazio di incontro, coraggio e resilienza. Storie e narrazione per avvicinare comunità, istituzioni e territori ai valori che animano il movimento olimpico, creando ponti e nuove opportunità di dialogo, soprattutto per chi vive condizioni di fragilità. È il progetto “Vite in campo” promosso da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e Fiera Milano, un progetto culturale che da novembre 2025 a gennaio 2026 unisce sport, memoria e impegno sociale in vista delle Olimpiadi e Paralimpiadi Invernali Milano Cortina 2026. Il primo appuntamento si è svolto nel carcere di Milano Bollate. Qui, come in molti contesti penitenziari, lo sport rappresenta uno degli strumenti più efficaci di riabilitazione e reinserimento sociale. Calcio, tennis, boxe e altre discipline sportive consentono ai detenuti di sperimentare disciplina, rispetto delle regole, lavoro di squadra e fiducia reciproca. I protagonisti del primo incontro sono stati Simone Tiribocchi, allenatore, ex calciatore di serie A, commentatore tecnico e Laura Giuliani, portiere AC Milano femminile e Nazionale femminile di calcio italiana. “Chi ha trovato la forza di superare ostacoli, chi di affermare la propria identità, chi di immaginare un futuro diverso. Dallo sport nascono storie di coraggio, storie che insegnano a rialzarsi, a non smettere di credere nella possibilità di cambiare. Con questo progetto proponiamo un percorso culturale e narrativo che intreccia sport, memoria e cittadinanza attiva, in vista delle Olimpiadi Invernali di Milano Cortina 2026 - spiega Fiera Milano e Fondazione Feltrinelli. Un viaggio per riscoprire i valori olimpici, dal rispetto all’amicizia, come strumenti di crescita, capaci di riaccendere la fiamma del coraggio”. Il secondo appuntamento domani nella Comunità Oklahoma di Milano con Simone Tiribocchi e Leonardo Ghiraldini, ex capitano della Nazionale Italiana di Rugby. Il percorso propone anche 3 History Map, format teatrali che trasformano la storia in un’esperienza immersiva e un ciclo di podcast. I protagonisti della History Map sono tre campioni olimpionici, Abebe Bikila- Roma 1960/ Tokyo 1964, Derek Redmond - Barcellona 1992 e infine Ester Ledecká - PyeongChang 2018. Roma. Teatro, dibattito e incontro con le Donne del Muro Alto garantedetenutilazio.it, 25 novembre 2025 Due attrici della compagnia teatrale di detenute ed ex detenute della Casa circondariale femminile di Rebibbia sono intervenute alla tavola rotonda che si è svolta nella chiesa metodista di Roma. “Che esperienza meravigliosa ieri! Ci siamo raccontate attraverso le parole dei nostri lavori e delle nostre testimonianze”. Così sulla pagina Facebook delle Donne del Muro Alto, la compagnia teatrale di detenute ed ex detenute della Casa circondariale femminile di Rebibbia, all’indomani della tavola rotonda “Oltre la detenzione - la condizione femminile dentro e fuori il carcere”, che si è svolta nella chiesa metodista di Roma lo scorso 20 novembre. Alla tavola rotonda, organizzata dalla Federazione donne evangeliche in Italia (Fdei), condotta e moderata dalla giornalista Metis De Meo, sono intervenuti il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, l’onorevole Raffaele Bruno, promotore della legge “Disposizioni per la promozione e il sostegno delle attività teatrali negli istituti penitenziari”, la senatrice Valeria Valente, la regista e direttrice della compagnia Le Donne del Muro Alto, Francesca Tricarico. Nel corso della tavola rotonda è stata rimarcata l’efficacia delle attività teatrali per sostenere il reinserimento nella società delle persone detenute e nella riduzione della recidiva. Sono seguite le performance di due attrici della compagnia, Zoira Betty Guevara e Bruna Arceri, le quali hanno rappresentato con rara efficacia le rispettive esperienze nel circuito penitenziario. “Un grazie speciale alla pastora Mirella Mannocchio per l’accoglienza e a tutti coloro che hanno condiviso i loro interventi sulla condizione delle donne dentro e fuori dal carcere”, si legge nel post delle Donne del Muro Alto, che danno appuntamento al pubblico domenica 25 gennaio, al teatro “Parco della Musica”, per lo spettacolo Olimpe. Sui femminicidi un racconto morboso. E a parlarne troppo e male, si rischia l’effetto emulazione di Giovanna Cosenza* Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2025 Per anni ho sostenuto l’importanza delle parole e della denuncia pubblica di tanta violenza e tante uccisioni. Certo. Però. Però c’è qualcosa che non va. Fino a dieci o quindici anni fa, in Italia parlare di violenza di genere e di femminicidio sui media, in rete, ma anche a scuola, in università e nelle case, era molto più difficile di adesso. La stessa parola “femminicidio” non era così diffusa come oggi, e non lo era nemmeno sui media mainstream: come attesta l’Accademia della Crusca, è solo dal 2010 che i giornali hanno cominciato a usarla con frequenza crescente. Intendiamoci: non è che oggi affrontare l’argomento sia facile, perché il tema è ancora “divisivo”, come si dice, cioè finisce per scaldare gli animi e per suscitare discussioni e litigi che non sempre restano civili, ma finiscono nel turpiloquio e nella violenza verbale. Però se ne parla, ci si confronta, e questo ovviamente è un bene, visto che in Italia la violenza sulle donne non accenna proprio a diminuire e, mentre per fortuna il numero di omicidi continua a scendere, il numero di donne ammazzate da mariti o compagni (attuali, passati o aspiranti), ma anche da padri, fratelli e altri congiunti maschi, resiste quasi identico da oltre trent’anni. Lo confermano tutti i dati ufficiali (checché ne pensi chi si ostina a negare il problema): si veda ad esempio questa tabella Istat. Nel tempo, la mia posizione sull’argomento è cambiata. Per anni, infatti, su questo blog, su quello mio personale e sui miei canali social, come pure nelle aule universitarie dove insegno, ho sostenuto l’importanza delle parole e della denuncia pubblica di tanta violenza e tante uccisioni. Colpevole, infatti, sarebbe lasciare gli orrori nel silenzio. Certo. Però. Però c’è qualcosa che non va. In quindici anni il dibattito è cresciuto sui media, i femminicidi, lesbicidi e trans*cidi si contano in modo sempre più preciso, le celebrazioni della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne si sono intensificate ovunque. Eppure. Eppure le donne continuano subire violenza in tutti i modi e gradi, in tutte le sedi e tutti i ruoli. E all’apice di questa violenza, continuano a morire per mano maschile, visto che in Italia c’è un femminicidio più o meno ogni tre giorni, e a volte più spesso. Da anni. Cosa vuol dire questo? Anzitutto che parlare di violenza sulle donne e di femminicidi è meglio - ovviamente - che tacerne, ma - ancora più ovviamente - non basta. Il problema sta altrove infatti. Sta nella società violenta e nella cultura maschilista e machista, che in Italia è pervasiva e resistente. Sta nella scarsissima sensibilità e attenzione per la parità di genere in famiglia, sul lavoro, ovunque. Sta nella mancanza di educazione sessuale e affettiva a scuola. Sta nell’economia italiana, che vede da sempre l’occupazione femminile - ancora! - sotto la media europea. E se tu, donna, vivi con un marito, un compagno o un padre violento che ti mantiene, mentre tu un lavoro non ce l’hai o non ti basterebbe per vivere da sola, come fai a uscire dall’oppressione? Ma il problema sta anche nel modo in cui se ne parla. Anzitutto, parlare di violenza in modo violento, con aggressioni verbali, insulti e litigi, non fa che alimentare il clima di prepotenza generale da cui poi nascono anche i casi estremi. E parlarne troppo, in modo insistente, morboso, quasi ossessivo, come accade in occasione dello stupro o femminicidio di turno, finisce per normalizzare il fenomeno e, peggio ancora, per trasformarlo in una tendenza, un vero e proprio genere mediatico, che lascia sempre più indifferente la maggior parte delle persone, mentre rischia di attrarre e fomentare, proprio per i tratti di morbosità di cui ho detto, quei maschi che già per conto loro sono più inclini alla violenza. È da molti decenni che la ricerca psicologica e sociale ha evidenziato l’effetto emulazione connesso all’esposizione mediatica dei suicidi. Si chiama “effetto Werther”, perché fa riferimento al fatto che, dopo la pubblicazione del romanzo di Goethe nel 1774, ci fu in Europa un’ondata di suicidi per amore. Il fenomeno è stato spiegato grossomodo così: si presume che, per ogni persona che si suicida, ce ne siano decine che, per varie ragioni, ci stanno pensando; su di loro, la notizia agisce come catalizzatore, non solo perché “se l’ha fatto lui/lei posso farlo anch’io”, ma perché i media costruiscono un’immagine eroica del gesto. Ora, per evitare l’emulazione, è prassi consolidata, per i mezzi di informazione, tenere riservate le notizie dei suicidi, pubblicandole solo in casi particolari e con discrezione. Sono poche e purtroppo ancora isolate le voci che, da qualche anno, parlano di un possibile effetto emulazione anche per l’esposizione mediatica di stupri e femminicidi. Ebbene, io sono fra queste e, mentre anni fa non ci pensavo proprio, oggi mi auguro che su questo ci sia presto una riflessione collettiva, sui media e altrove. *Docente universitaria di Semiotica I Centri antiviolenza, le reti familiari: ma cosa ci manca per fermare i femminicidi? di Gianpiero Dalla Zuanna* Avvenire, 25 novembre 2025 Nel nostro Paese il numero di donne uccise diminuisce troppo poco, anche se è più basso rispetto ad altre nazioni. Serve uno sforzo di educazione sugli uomini. Ogni volta che la cronaca ci racconta di un femminicidio, siamo presi dallo sgomento. Partire dallo sdegno è utile per costruire una reazione comune e contraria. Tuttavia, per comprendere la strada giusta per combattere questa piaga sociale è importante anche definirne con precisione alcune caratteristiche: in Italia e nel mondo. Cominciamo da due dati positivi. Le donne in Italia muoiono per omicidio volontario meno che negli altri paesi sviluppati, come mostrano i dati delle polizie di tutto il mondo, raccolti dello United Nations Office on Drugs and Crime, relativi agli anni tra il 2005 e il 2024. Il nostro Paese resta sempre agli ultimi posti per omicidi con vittima una donna. In Italia nel 2020-24 ci sono stati annualmente 4 omicidi ogni milione di donne residenti, in Francia 7, in Germania 8, in Finlandia 9, negli USA e nei paesi dell’ex-URSS addirittura 30, sei volte di più rispetto all’Italia! In secondo luogo, in Italia gli omicidi di donne straniere sono in calo, anche se le straniere continuano ad essere più a rischio delle italiane: da 20 omicidi annualmente per milione di donne straniere nel 2007-09 a 9 nel 2019-22: è stata proprio questa forte diminuzione a determinare la lieve diminuzione degli omicidi di donne osservata in Italia nell’ultimo ventennio, perché il rischio di essere uccise per le donne italiane non è cambiato. Questo notevole miglioramento per le donne straniere va di pari passo con l’incremento della presenza straniera in Italia: ormai gran parte degli stranieri sono stabilizzati, e molti loro comportamenti sono diventati simili a quelli degli italiani. Tuttavia, anche oggi il rischio di essere uccisa per una donna straniera è doppio rispetto a quanto accade alle donne italiane: uno dei motivi è la provenienza, per molte di loro, da paesi dove gli omicidi di donne - sia in famiglia che fuori casa - sono più frequenti che in Italia. Per questo motivo, alle donne straniere andrebbe garantito un supplemento di attenzione, per uscire da spirali di violenza che possono finire in catastrofe. Gli omicidi di donne in Italia sono meno rispetto a molti altri paesi per almeno quattro motivi. Il primo è la limitata diffusione delle armi da fuoco: lo spaventoso dato degli USA è legato proprio alla sconcertante facilità di procurarsi una pistola. Aumentano la sicurezza, invece, la fitta rete di Centri Antiviolenza, a cui le donne che vivono in Italia possono rivolgersi - in tutta riservatezza - per trovare aiuto e sostegno. Per consolidare il primato dell’Italia nel basso numero di femminicidi e ridurne la diffusione, la rete dei Centri Antiviolenza andrebbe ulteriormente rafforzata, stabilizzata e resa sempre più capillare. Il terzo aspetto che caratterizza l’Italia (come la Spagna, anch’essa con pochi omicidi di donne) è una accentuata prossimità fra i parenti: le cronache mostrano che spesso il percorso di violenza che porta al femminicidio si realizza in situazioni di isolamento sociale, e la prossimità con i genitori, i fratelli e altri parenti crea importanti reti di protezione. Il quarto aspetto che differenzia l’Italia da paesi come la Germania e la Finlandia è la limitata diffusione delle ubriacature del sabato sera, che inducono uno stato di alterazione che può degenerare nella violenza incontrollata. C’è però anche un dato preoccupante. Le donne uccise da partner o ex-partner sono diminuite solo lievemente, passando da 2,4 per milione nel decennio 2005-14 a 2,3 del 2015-19 a 2,1 del 2020-24. Come già accennato, questa diminuzione è legata soprattutto al drastico calo degli omicidi di donne straniere, mentre i femminicidi di donne italiane sono rimasti pressoché costanti. Nel 2020-24, solo nel 16% dei casi gli omicidi di donne sono avvenuti al di fuori del contesto familiare, per il 29% dei casi l’omicida è stato un altro parente, quasi sempre un uomo (padre, fratello, zio…), e nel 55% dei casi l’autore del reato è stato il partner o l’ex-partner. Quindi, abbiamo poco da rallegrarci del “primato” italiano: i femminicidi, in particolare fra le coppie di italiani, da vent’anni non diminuiscono. E i motivi della furia omicida maschile - a leggere le cronache, le sentenze e gli studi sociologici - sono sempre gli stessi: gelosia malata, ansia di controllo, incapacità di accettare la fine di una relazione. È giusto quindi sostenere tutto ciò che permette agli omicidi di donne in Italia di essere a un livello sempre più basso: Centri Antiviolenza, prudenza nella diffusione delle armi da fuoco, interventi mirati dei Servizi Sociali e delle Forze dell’Ordine, interventi educativi verso le donne - fin da giovanissime - per aiutarle a cogliere i segnali di rischio... Tuttavia, i femminicidi potranno diminuire in modo sostanziale solo se, fin da giovani, gli uomini saranno educati ad accettare che la donna non è un loro “possesso”, ma una persona le cui scelte vanno in ogni caso rispettate. *Professore di Demografia a Padova e Accademico dei Lincei La violenza di genere, per Valentina Pitzalis, si combatte con l’educazione di Andrea Ceredani Avvenire, 25 novembre 2025 La 42enne, sopravvissuta a un tentato femminicidio nel 2011, parla agli studenti: “Nessuno a scuola mi ha messa in guardia. Comincerei a discuterne dalle elementari”. Valentina Pitzalis ammette che, per anni, ha conosciuto solo i segni della violenza fisica: “Nessuno a scuola mi ha mai messo in guardia da tutte le altre forme di violenza, come quella psicologica e quella economica”, confessa di fronte a oltre 2.300 studenti riuniti al teatro Arcimboldi di Milano. Se l’avessero aiutata prima, forse, non sarebbe dovuta sfuggire al rogo con cui il suo ex marito tentò di ucciderla il 17 aprile 2011: “Forse ne sarei uscita”. Sopravvissuta al tentato femminicidio, però, ora Pitzalis dedica gran parte della sua vita alla testimonianza delle violenze subite a ragazzi e ragazze. “Le mie cicatrici sono la mia voce e la mia forza - racconta -. Ogni volta che racconto la mia storia a dei ragazzi, sento che sto parlando a chi può cambiare davvero il mondo”. A guidarla, è la convinzione che la violenza di genere si possa eliminare solo attraverso l’educazione alla sessualità e all’affettività: “Solo educando i giovani - spiega ad Avvenire - possiamo aiutarli a raggiungere la consapevolezza di cosa sia un atteggiamento violento. Secondo me, si dovrebbe cominciare dalle elementari”. Di studenti, negli ultimi 14 anni, Pitzalis ne ha incontrati “centinaia di migliaia in tutta Italia”. Gli ultimi, venerdì scorso, l’hanno ascoltata a Milano nell’ambito di un evento del programma “Mai Più”, progettato da Otb Foundation e Fare X Bene Ets. Alla folla di adolescenti, silenziosa per oltre un’ora, Pitzalis ha mostrato le ustioni del suo corpo mentre parlava, soprattutto, di violenza psicologica: “La mia non è una testimonianza, ma un monito - confessa -. Io non ho saputo riconoscerne i segnali e ho confuso la violenza psicologica, il possesso e il controllo per gelosia. La violenza fisica è la più facile da vedere; le altre forme sono subdole ma molto pericolose”. La storia di Pitzalis è intrecciata dagli abusi psicologici, che lei racconta agli studenti come un domino da cui è rimasta schiacciata: “Mi ha chiesto di non indossare i tacchi”, “mi ha intimata di cambiare numero di cellulare”, “mi ha imposto di trascorrere ogni minuto della giornata con lui”. Solo dopo anni di violenze psicologiche, il suo ex marito (morto nel rogo appiccato durante il tentato femminicidio) iniziò con i maltrattamenti fisici. Pitzalis agli studenti confessa di non aver “mai riconosciuto i campanelli d’allarme”. E, come lei, fatica la maggior parte delle vittime: secondo le tavole Istat riferite al trimestre gennaio-marzo 2025, il 75% delle donne abusate non presenta denuncia principalmente per paura delle reazioni dell’autore. Tra le querele, invece, le violenze fisiche (39,8%) prevalgono di poco su quelle psicologiche (33,8%). Nello stesso periodo, Istat rileva 806 segnalazioni di violenza economica, dalla quale Pitzalis mette in guardia gli studenti: “Poco dopo il matrimonio - ammette -, sono diventata di sua proprietà e, a quel punto, lui ha iniziato a minare tutte le mie certezze. Mi sono annullata, ho accondisceso a tutto e le cose hanno cominciato a peggiorare. Negli ultimi anni, purtroppo, ho visto ripetersi questa storia di continuo sui corpi di altre donne”. Da anni Pitzalis collabora con il progetto “Mai Più” che, con i suoi corsi, ha già raggiunto 90mila studenti in tutta Italia. “Parlare di rispetto, empatia e libertà significa costruire un futuro in cui la violenza non abbia più spazio, e questo può accadere solo se si parte dai più giovani”, commenta Arianna Alessi, vicepresidente di Otb Foundation. L’approccio dell’organizzazione non profit mira, prima di tutto, all’emancipazione economica delle donne coinvolte. “Troppe donne restano prigioniere di relazioni violente perché non possono permettersi di scegliere - continua Alessi -. La violenza di genere non è una piaga lontana: è nelle case, nelle relazioni, nei linguaggi quotidiani”. Per questo, con l’aiuto di Fare X Bene Ets, “Mai Più” ha introdotto corsi di educazione sessuale e affettiva in migliaia di classi italiane. “Stiamo portando questa rivoluzione dentro le scuole - commenta Giusy Laganà, direttrice dell’ente - dove si impara la libertà e il coraggio di dire no”. I principi su cui costruire un’educazione non violenta, secondo Laganà, sono semplici: “Se un uomo dice “mi fai felice se non esci con le amiche”, è controllo. Se una donna dice “no”, è “no”. È importante aiutare ragazzi e ragazze a distinguere la violenza dall’amore”. Uno scopo a cui Valentina Pitzalis appende le proprie speranze: “Se anche un solo studente torna a casa dai nostri incontri con un dubbio - conclude - allora tutto questo ha senso”. Dacia Maraini: “Ho subito ogni tipo di violenza. Il femminismo sta regredendo” di Simonetta Sciandivasci La Stampa, 25 novembre 2025 La scrittrice: “Una legge stabilisca il valore dell’altro. Mia madre mi insegnò a scappare”. Dacia Maraini, scrittrice, ha dedicato il suo lavoro alla voce delle donne, alla sua scoperta ed espressione, alla sua libertà. Ha fondato La Maddalena, il primo teatro femminista italiano, con Maricla Boggio ed Edith Bruck, rimasto attivo per quasi vent’anni. Maraini, la violenza di genere agisce in molte forme: fisica, psicologica, economica, professionale. Quale ha subito di più? “Io ho subito un po’ di tutto. Essendo una bambina bionda e timida, molti uomini adulti hanno cercato di mettermi le mani addosso. Per fortuna avevo una madre intelligente e autonoma che mi aveva insegnato a scappare. Poi, certo, c’è stata anche una discriminazione professionale. Prima di farmi prendere sul serio dal mondo letterario ho dovuto avere un gran successo popolare, quello di Marianna Ucria che ha venduto un milione di copie ed è stato tradotto in 25 lingue. Anche oggi mentre il mercato è aperto alle donne e ce ne sono tante che scrivono magnificamente, quando si va nei luoghi dove si stabiliscono i veri valori letterari, dove si creano i modelli per le prossime generazioni, le donne sono sempre due su venti”. Si può davvero sconfiggere tutto questo? “Certo che si può, ma non in quattro e quattr’otto. Dopo tremila anni di cultura e pratica patriarcale, molte persone e molti popoli hanno introiettato i ruoli, tanto da considerarli naturali, dovuti a una differente struttura fisiologica. Per me il discorso della diversità fisiologica è pericoloso, scivola facilmente nel razzismo. La scoperta del Dna ci ha insegnato che siamo tutti uguali, le razze non esistono. Le differenze ci sono e sono tantissime ma dipendono dalla storia, dalla situazione geografica, dalla educazione, dalla situazione economica, dalla religione, perfino dalla alimentazione”. Il ministro della Giustizia Nordio ha detto che il codice genetico degli uomini non accetta la parità delle donne. “Purtroppo penso che molti siano d’accordo con lui. Mi capita di sentire spesso anche donne che pensano allo stesso modo, magari modificando il concetto della diversità, sostenendo che le donne sono diverse ma migliori, incapaci di fare il male perché materne, dolci e accudenti. Ma se le donne non uccidono con la stessa facilità con cui lo fanno gli uomini non è perché sono più buone, ma perché sono state costrette a sublimare i loro istinti aggressivi. E questa sì che è una conquista storica che dovremmo fare imparare anche agli uomini. La sublimazione sta alla base dell’etica e di una buona convivenza. Imparare a controllare la gelosia, l’invidia, l’odio, la vendetta la rabbia, l’aggressività, vuol dire diventare buoni cittadini”. Crede nell’educazione sessuo-affettiva nelle scuole? “Certo. C’è bisogno di una legge che stabilisca il valore del rispetto dell’altro. Bisogna impararlo da piccoli, bevendo il primo latte. Se pensiamo che ancora pochi anni fa lo stupro non era considerato un delitto contro le donne ma contro la morale pubblica, si capisce quanto sia necessaria una legge che informi i più ignoranti cosa su vuol dire diritti paritari”. Non pensa che insistere sul fatto che debbano essere le famiglie a educare alla sessualità e alla affettività, in un Paese dove il lavoro di cura è largamente nelle mani delle donne, possa poi servire a colpevolizzare le madri? “Non lo so. Penso che abbiano paura dei valori condivisi, delle leggi morali che regolano la condivisione dei diritti, paura dell’emancipazione femminile che vedono come la rottura di antiche e consolidate abitudini. Ma non si torna indietro, questo dovrebbero capirlo. Bisogna imparare a guidare e regolare le novità. Rifiutarle è come cacciare la polvere sotto il tappeto. Un atto di ipocrisia che non aiuta a vivere in armonia”. Perché la violenza aumenta soprattutto tra i ragazzi? “I ragazzi sono troppo lontani dal Sessantotto e dal femminismo, due movimenti antiautoritari che facevano riflettere uomini e donne. Ci si interrogava, ci si confrontava e molti, i veri rivoluzionari, i più sinceri idealisti capivano e accettavano di perdere dei privilegi tradizionali. Oggi i ragazzi in generale (naturalmente ci sono ragazzi e ragazze straordinari che leggono, si informano, conoscono la storia, ma sono una minoranza) non conoscono il passato, nessuno glielo insegna. Fra l’altro viviamo in un momento di generale rifiuto della memoria, per adagiarsi passivamente in un presente che a molti pare comodo e facile, per altri insopportabile. Inoltre, molta della mancanza di responsabilità la attribuirei ai social che sono utilissimi per le brevi comunicazioni, ma se si vuole capire la storia, approfondire il pensiero, danno pessime informazioni e pessimi consigli”. Cosa prova quando legge l’ennesimo caso di femminicidio? “Noto la costante, che c’è ed è chiara ormai a tutti: l’emancipazione femminile toglie agli uomini dei privilegi a cui molti, soprattutto quelli che identificano la propria virilità con il possesso e il dominio, non riescono a rinunciare. Preferiscono vedere morta la donna che considerano propria piuttosto che vederla andare via, o assumere posizioni di autonomia”. Ha mai provato fastidio per la retorica che si fa sulla violenza contro le donne? Ormai è diventata un brand e un’occasione reputazionale... “Purtroppo c’è molta retorica, però penso che sia bene parlarne. Ho scoperto con sorpresa che in Francia i femminicidi sono più numerosi che in Italia ma se ne parla molto di meno, quindi la gente non si rende conto della gravità del problema. Voglio ricordare che l’Istat ha dichiarato recentemente la presenza di ben 45.000 femminicidi all’anno nel mondo. Solo in Messico ce ne sono otto al giorno”. Teme che il femminismo stia regredendo? Si parla molto della riscoperta delle virtù del focolare tra le ragazze più giovani. “Purtroppo sì. Quelle idee circolano e si diffondono con una velocità che fa paura. E molta della colpa ce l’hanno la pubblicità, lo sport maschile, i social, un certo cinema che mostra solo violenza. E non parliamo del comportamento dei potenti, che danno un pessimo esempio”. Si parla anche molto della rinuncia delle donne più adulte alla relazione con gli uomini: lo chiamano “etero pessimismo”. Che ne pensa? “Questo non lo so. A me non risulta. Mi sembra invece che ci siano ancora tantissime donne che si innamorano degli uomini sbagliati. Ripeto: tremila anni di storia non si cacciano via con una spallata. Sarà un lavoro lungo e ci saranno anche molti momenti di stasi e ritorni indietro. Ma alla fine vince chi capisce e prende in mano i nuovi valori, le nuove energie, le nuove idee. Chi cerca di fermare il tempo e tornare indietro, nella storia, alla lunga, perde sempre. A volte ci vogliono vent’anni - vedi il fascismo - per liberarsi di un regime illiberale e intollerante e misogino come era il fascismo”. La scelta delle donne oltre le convenzioni di Dacia Maraini Corriere della Sera, 25 novembre 2025 Scegliendo di morire insieme le gemelle Kessler ci hanno comunicato, con dignità e modestia che avevano anche una personalità complessa, una capacità di capire, giudicare e decidere fuori da ogni convenzione e pregiudizio, cosa non comune. Tutti pensavano che le Kessler fossero due belle ragazze con qualche talento per il ballo, ma soprattutto erano note per le gambe, come se non avessero avuto una testa pensante. Scegliendo di morire insieme ci hanno comunicato, con dignità e modestia che avevano anche una personalità complessa, una capacità di capire, giudicare e decidere fuori da ogni convenzione e pregiudizio, cosa non comune. Nella scelta fatta si sente il cammino di una intelligenza fattiva, di uno spirito socratico e una volontà spartana. Varie volte avevano detto che avrebbero voluto recitare Brecht invece di presentarsi al pubblico come un fenomeno quasi da baraccone: due corpi talmente simili da creare una specie di fibrillazione ottica. Sono bastate per farne un occasionale emblema erotico. Nessuno sapeva che da bambine avevano vissuto una vita famigliare basata sulla violenza del padre che le aveva per sempre disgustate del matrimonio. Le loro esperienze di ragazzine cresciute nelle difficoltà del dopoguerra non sono mai state messe in evidenza. Ma a chi potevano interessare? Come succede spesso alle donne, le due gemelle venivano identificate col loro corpo, ridotte a icona di spettacolo, e nessuno si era mai chiesto cosa ci fosse dietro a quella carnalità fatta oggetto. Le leggi del mondo dello spettacolo sono rigide e crudeli, soprattutto per le donne che ottengono lavoro finché sono giovani e belle e accondiscendenti. Quando invecchiano possono contare solo su qualche parte di contorno. A un uomo si permette molto di più. Non per generosità verso l’attore invecchiato, ma perché lo spettacolo difficilmente esce dalle convenzioni culturali che vogliono l’uomo gestore della sua vita, comunicatore e amante finché vive. Si tratta di una indulgenza culturale che si può capire, ma fa riflettere sulle ingiustizie del patriarcato difficili da eliminare. Ricordiamoci che il teatro è sempre stato nemico del genere femminile. Nel teatro greco le donne non potevano salire sul palco e le parti femminili le facevano gli uomini. Lo stesso succedeva nel teatro romano e in quello medioevale. Solo col Rinascimento si trovano le prime donne in scena ed è stata una rivoluzione, anche se in parte poi rientrata con la Controriforma. Comunque ancora oggi in generale le donne hanno una vita breve nel mondo dello spettacolo. Una prassi difficile da modificare. Se il sentimento che dilaga è l’incredulità di Gabriele Segre La Stampa, 25 novembre 2025 Lo abbiamo pronunciato un milione di volte anche noi: “Yes, we can”. Quasi un incantesimo collettivo. Quella notte a Chicago, Obama sul palco e milioni di persone convinte che la storia avesse imboccato la direzione migliore. Il primo presidente nero, simbolo della fiducia in una democrazia solida e della promessa di una società più giusta. Il futuro sembrava prendere forma in tre parole che racchiudevano la speranza di un mondo diverso: è davvero possibile. Kyiv, giorni nostri. Un accordo di pace che somiglia più a una resa, in un mondo dove i confini liquidi scorrono come carte di un enorme Risiko in movimento. I “giocatori della storia” - quelli con le bombe, i chip, i gasdotti - ridisegnano il pianeta a turno. Gli altri si adeguano. Noi, attoniti, senza un ruolo, osserviamo un destino che ci viene imposto, quasi senza avere nemmeno più la forza di commentarlo. Quelle stesse parole di speranza si trasformano di colpo in una cupa domanda: è davvero possibile? Da queste due fotografie e da quel punto interrogativo passa tutta la distanza che separa il mondo di allora da quello di oggi. Ancor più della rabbia, ancor prima della paura, il sentimento che oggi dilaga è l’incredulità. Avevamo pensato che alcune conquiste fossero irreversibili, fondamenta solide di un mondo ordinato. Ora invece assistiamo a eventi che si impongono con una naturalezza sconcertante, come se qualcuno avesse cambiato le regole del gioco proprio mentre ci apprestavamo a tirare i dadi - e noi, distratti da tutt’altro, non ce ne fossimo nemmeno accorti. Ogni giorno che passa quegli eventi diventano la nuova norma. Tutto diventa possibile: che una guerra nel cuore d’Europa si chiuda sopra le nostre teste; che un Paese alleato venga trattato come una pedina negoziabile; che il conto finale della guerra ricada su chi è rimasto ai margini - noi. Se solo l’Ucraina fosse una tragica eccezione. O lo fosse Gaza. O Trump. O Elon Musk. Non è così. Ogni fronte ci manda lo stesso messaggio: ciò che fino a ieri ci sembrava un’eventualità impensabile non solo accade, ma si ripete, si moltiplica e si impone. La forza torna a dettare l’agenda, trascinando con sé interessi immediati e mutevoli, spesso contraddittori, che cambiano direzione al primo soffio di vento geopolitico. QE noi, che avevamo costruito la nostra identità sull’idea di una storia orientata verso stabilità e cooperazione, siamo presi in controtempo, come se il ritmo del mondo si fosse rivoltato e non ce ne fossimo accorti. L’incredulità si insinua ovunque. Non si può davvero accettare che le democrazie si stiano sfilacciando un po’ alla volta o, peggio, che si strappino di netto. Intanto la Cina osserva sorniona, senza mai alzare la voce, tessendo il suo mahjong geopolitico con una calma che disarma più di qualsiasi minaccia, e di cui noi non riusciamo a comprendere nemmeno la metà delle mosse. I mercati oscillano come sismografi impazziti, la tecnologia accelera con un’arroganza imprevista, e nelle fiere della difesa compaiono prototipi di soldati umanoidi che sembrano usciti dal set di Terminator. In questo paesaggio confuso, ogni segnale pare un allarme, ogni piccola crepa l’anticipo di un cambiamento più grande che ancora non sappiamo nominare. Non c’è più alcun dubbio: ormai tutto è davvero possibile. Rispetto al recente passato - dominato dalla convinzione che tutto sarebbe andato comunque per il verso giusto, o dalla comoda indifferenza verso ciò che non funzionava - l’incredulità è già un passo avanti. Significa che finalmente ci siamo accorti che la realtà ha preso una direzione diversa da quella che avevamo pensato. È però solo metà del lavoro. La parte che ci attende è capire come rimpiazzare le certezze che sono venute a mancare. Per anni abbiamo oscillato tra i due estremi, ma è chiaro che si tratta di prospettive insufficienti: sono ritratti impeccabili dei nostri stati d’animo, ma non offrono alcun orientamento e non indicano nessuna direzione da imboccare. Oggi serve una nuova idea del possibile. Più sobria e più concreta, che sappia stare nel mondo così com’è, senza illusioni e senza rassegnazione: per cominciare basterebbe che l’Europa, se proprio non riesce a parlare, almeno balbettasse a una voce sola; che mentre discutiamo di fine della democrazia e collasso del multilateralismo si lavorasse davvero alla ricostruzione di filiere strategiche capaci di liberarci da dipendenze che ci espongono a ogni ricatto; che accanto ai regolamenti etici e ai dibattiti filosofici sul futuro dell’Ai si investisse seriamente in competenze, ricerca, innovazione. Piccoli traguardi, certo, ma reali: spazi da riaprire invece che da immaginare ogni volta da capo. Perché per uscire dall’incredulità c’è un solo modo: definire ciò che possiamo ancora fare e farlo. È così che il possibile torna a essere davvero reale. Filippine. Arresti e torture durante le manifestazioni di settembre di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 novembre 2025 Il 21 settembre a Manila, capitale delle Filippine, si è svolta una enorme manifestazione contro la corruzione nella politica, in particolare nell’ambito delle misure di prevenzione contro le frequenti alluvioni e inondazioni. Il governo aveva annunciato che avrebbe mostrato la “massima tolleranza” nei confronti della protesta ma le ricerche di Amnesty International hanno dimostrato il contrario. Dalle testimonianze raccolte dall’organizzazione per i diritti umani è emerso che la polizia ha fatto ricorso a una forza eccessiva, illegale e non necessaria e che in alcuni casi si è resa responsabile di maltrattamenti e torture, che non hanno risparmiato neanche i minorenni: calci, pugni e manganellate sia al momento dell’arresto che all’interno delle “tende blu” dove provvisoriamente venivano portate le persone fermate, per poi proseguire nelle stazioni di polizia. Delle 216 persone ufficialmente arrestate, 91 delle quali minorenni, molte rischiano procedimenti penali per cospirazione, sedizione e altri reati. Nella maggior parte dei casi sono state rimesse in libertà dopo dieci giorni (un periodo di tempo eccessivo secondo quanto previsto dalla normativa nazionale) a seguito del pagamento di una cauzione equivalente a circa 300 euro. L’ultimo minorenne è stato scarcerato dopo una settimana di fermo. Tutto questo è molto preoccupante alla luce di una nuova manifestazione in programma il 30 novembre. Algeria. Boualem Sansal: “Le mie prigioni tra la paura e Victor Hugo” di Yves Thréard e Vincent Trémolet de Villers La Repubblica, 25 novembre 2025 Gli interrogatori. La solitudine. La rilettura di “Notre-Dame de Paris”. E quel diario impossibile da scrivere nella sua cella. L’autore algerino parla per la prima volta dopo la scarcerazione. Quando arriva ha i capelli corti, un ampio sorriso e il passo svelto. Abbracci, emozione… Negli uffici vuoti della casa editrice Gallimard, l’incontro ha qualcosa di irreale. Boualem Sansal è lì, riposato, rinfrancato, dice, dalle cure ricevute in Germania, presso l’ambasciata francese, e ora da quelle di Antoine Gallimard, Karina Hocine e tutta la casa editrice, il principato in cui ha trovato rifugio. La voce è sempre dolce, il viso smagrito. Lo sguardo combina gravità, intelligenza e malizia. Nelle prigioni algerine lo chiamavano “la leggenda” ma anche in Francia lo scrittore, che coniuga la vita e la sua missione, si eleva al di sopra dei suoi pari. È un autore, un profeta, un testimone. Non è amareggiato ma conserva una grande lucidità sulle lotte per la libertà che ancora si devono combattere da una parte e dall’altra del Mediterraneo. Per Le Figaro ha ripercorso la sua vita di prigioniero letterario e politico. Un’esperienza più impressionante di qualunque discorso, più eloquente di qualunque manifesto. Me l’aspettavo, certo, lo temevo, ma non ci credevo. Mi dicevo: “Non possono arrivare a tanto. Però sono molto forti, sono intelligenti, sono degli strateghi”. Poi, quel giorno, una volta sbarcato dall’aereo su cui ero salito a Parigi, mi incammino per andare a prendere un taxi per tornare a casa e il doganiere mi trattiene. Mi chiede il passaporto. Quando guarda lo schermo capisco che qualcosa non va. Mi chiede il nome di mio padre, quello di mia madre, mi dice di accomodarmi. Aspetto una mezz’ora, poi arriva un agente di corsa. Prende il mio passaporto e il mio telefono e mi dice di seguirlo. Mi guida nelle viscere dell’aeroporto. È incredibile quello che c’è sotto un aeroporto, una città intera. Attraversiamo un ambiente in cui ci sono una trentina di soldati equipaggiati come per una guerra spaziale. Devono far parte delle misure di sicurezza consuete. Poi mi porta in un ufficio e mi chiude dentro. Erano le cinque e mezza del pomeriggio, fino all’una del mattino non è successo niente. Neanche un interrogatorio? “Niente. Verso l’una arrivano dei tizi inquietanti, vestiti per metà da islamisti, per metà da teppistelli di quartiere. Vengono verso di me e tirano fuori le manette. Sul momento le manette mi hanno lasciato indifferente ma più tardi, ripensandoci, mi sono sentito profondamente umiliato. Quando siamo usciti dall’aeroporto dovevano essere le due. In un parcheggio buio mi hanno fatto salire su un’auto, c’era un autista, mi hanno incappucciato e l’auto è partita”. Incappucciato come un terrorista? “Ero seduto fra due agenti, quello che guidava e un altro accanto a me. Penso che fosse il capo, perché aveva una certa autorità sugli altri. Poi siamo partiti. A un certo punto gli ho chiesto: “Quando mi sgozzate? Nel bosco o lungo la strada?” Mi è uscita così. Loro si sono messi a ridere. “No, non sgozziamo nessuno” hanno risposto. “Molto bene, che cosa volete farmi?” Silenzio. E intanto la strada continuava, continuava. Non sapevo più dove fossimo. Il viaggio è durato un’ora. Poi, a un certo punto, ho avuto l’impressione che stessimo percorrendo delle stradine, attraversando dei quartieri. L’auto si ferma e sento un cancello che si apre, molto rumoroso. L’auto avanza e sento il rumore del cancello che si chiude. Mi hanno fatto scendere e mi hanno tolto il cappuccio. Sembrava il cortile di una prigione. Mi hanno fatto entrare in un ufficio, mi hanno spogliato, mi hanno preso la borsa, il telefono. Poi mi hanno chiuso in una stanza vuota. Niente finestre, niente materasso, niente. E mi ci hanno lasciato per sei giorni”. Le hanno permesso di rivestirsi? “Sì. Hanno perquisito tutto e poi sì, mi sono rivestito. Dovevano essere le tre o le quattro del mattino. Ho arrotolato il cappotto e mi sono sdraiato. Ho cercato di dormire ma era impossibile. Al mattino, verso le sei, è entrato un ragazzo e mi ha dato un bicchiere di latte e un pezzo di pane. Poi verso le nove o le dieci sono venuti a prendermi e mi hanno portato in un ufficietto, davanti a tre agenti”. Erano dei militari? “Non lo so. Dei funzionari”. Di polizia? “Senza dubbio. Inizia l’interrogatorio. Mi mostrano una foto di Sarkozy. “È un suo amico? Vi conoscete?” Rispondo che la foto è stata scattata durante una serata, c’eravamo io, sua moglie e due o tre amici. “Di cosa avete parlato?” “Del più e del meno” È andata avanti così per cinque giorni. Ero completamente isolato. Mia moglie mi stava cercando dappertutto. Solo il sesto giorno sono stato portato davanti al procuratore regionale”. Sei giorni da fantasma… “Durante quei sei giorni non avevo nessuno status legale. Ero stato sequestrato, rapito. Da chi? Non lo so. L’ho chiesto mille volte, hanno sempre rifiutato di identificarsi. Gli dicevo: “Se non mi dite chi siete non rispondo alle vostre domande”. E non rispondeva? “No, non rispondevo. È andata avanti per sei giorni, con otto o dieci ore di interrogatorio al giorno. Massacrante”. Aveva paura? “Sì, devo ammettere in tutta franchezza che ho avuto paura”. Era solo in cella? “Sì, solo. Il primo giorno qualcuno mi ha passato due bottiglie d’acqua. Una piena, sigillata, quindi era acqua minerale. L’altra vuota. Ho chiesto: “È questa la tortura? Riempio la bottiglia vuota e poi bevo?” Mi ha risposto: “Questa è per fare pipì”. “E il resto dove si fa?” ho chiesto “Sui muri?” Poi, un po’ più tardi quel mattino, sono venuti a prendermi e mi hanno portato in bagno… Ma non ho osato entrare, era davvero spaventoso. Dovevano essere vent’anni che nessuno lo puliva. L’ultimo giorno sono venuti a dirmi: “Deve lavarsi e sistemarsi”. Poi mi hanno fatto salire su un furgone. Ho rivisto la città, attraverso le sbarre vedevo le strade, il sole, la gente libera. Mi hanno portato da un procuratore che mi ha trattato come un cane. Il suo ufficio era gigantesco. Mi ha chiesto di rimanere a distanza. Gli ho detto che non sentivo niente, porto degli apparecchi acustici e me li avevano tolti. Mi ha fatto avanzare prima di cinque metri, poi di altri cinque, ma non sentivo niente. “Tanto vale che mi sieda in braccio a lei” gli ho detto “sono quasi sordo”. Poi ha impartito un ordine a un agente che mi ha rimesso le manette. Abbiamo preso l’ascensore e raggiunto il quarto piano, per andare dal giudice istruttore. Un tipo simpatico, sulla quarantina, dall’aria intelligente. E là, subito, ho chiesto se potevo telefonare a mia moglie e ottenere la libertà condizionata. Mi ha risposto che con le accuse a mio carico era impensabile. Poi è iniziato l’interrogatorio e in seguito mi hanno portato a Koléa. Ho scoperto quella prigione immensa costruita dai cinesi. È recente, ha soltanto una ventina d’anni. E mi hanno messo nel settore di massima sicurezza”. Capiva la ragione della sua detenzione? “Terrorismo, anti islamismo, complicità col nemico e quant’altro. Ma in realtà ho capito presto che le vere ragioni erano il riconoscimento da parte della Francia del fatto che il Sahara occidentale appartiene al Marocco - questo argomento, assieme alla causa palestinese, è un’ossessione per il regime di Algeri - e la mia amicizia con Xavier Driencourt, l’ex ambasciatore francese che due anni fa ha pubblicato L’Énigme algérienne”. Da quel momento in poi l’hanno trattata bene? “I primi giorni mi hanno trattato come tutti gli altri detenuti, ma a un certo punto dev’esserci stato un intervento di Emmanuel Macron, che dal primo giorno chiedeva la mia liberazione “immediata e incondizionata”. Ha parlato pubblicamente del disonore dell’Algeria. Hanno capito che dovevano fare qualcosa. Devono essere arrivate delle istruzioni, da parte del presidente Tebboune, probabilmente, o di qualcuno del suo entourage. Perché a partire da quel momento, in ospedale e in prigione, ho avuto un trattamento preferenziale”. A partire da quando, quindi? “Dal dicembre scorso, in pratica dopo un mese”. Era da solo in cella? “No, in ogni cella c’erano due persone”. Per forza due? “Non lasciano nessuno solo in cella. Nemmeno se è il presidente della Repubblica. In quella prigione c’erano quattro ex premier, una trentina di ministri, sessanta capi d’azienda, ma sempre a due a due…”. Con lei chi c’era? “Dato che ero un detenuto speciale e che non parlo arabo hanno scelto una persona francofona. Un infermiere che si è preso molta cura di me. Mi accompagnava in bagno e mi aiutava perché io non avevo mai usato i bagni alla turca”. La conosceva? “Assolutamente no”. Nemmeno come scrittore? “Sì, chiaramente sapeva. Molto più tardi, quando ha cambiato reparto, ho scoperto che era un ex poliziotto che aveva già scontato cinque anni di prigione per estorsione. Si è preso molta cura di me. Io non sapevo fare niente. Non avevo biancheria. Avevo solo un paio di calze spaiate. Abbiamo chiesto agli altri detenuti, ognuno mi ha regalato qualcosa, una canottiera, una camicia. Era inverno, faceva freddo, e la finestra aveva le sbarre ma non i vetri, quindi la temperatura dentro era uguale a quella fuori”. Anche gli altri detenuti la conoscevano? Sapevano che lei era… “L’hanno saputo subito, mi hanno detto che in Algeria mi avevano dato un soprannome”. Quale? “La leggenda”. “La leggenda”? Mica poco… “Sì, niente male. Voleva dire: “È un oppositore del regime sostenuto dall’Europa, dalla Francia, dagli Stati Uniti, da Marte”. Era quello che sentivo dire quando ero rinchiuso nella scatola…”. La scatola? “La scatola è l’unità carceraria. Un corridoio con quattro celle per ogni lato. Due detenuti per cella, sedici persone in totale. A volte diciotto, perché se arriva un detenuto temporaneo a volte in una cella ne mettono tre. E la loro condizione è migliorata perché io ero soggetto a un regime speciale e tutti ne approfittavano. Io ho avuto presto diritto a fare la doccia tutti i giorni, mentre gli altri detenuti avevano diritto a una doccia di cinque minuti ogni dieci giorni. E il guardiano era super simpatico. Quindi nel mio spazio c’era un ordine”. Un ordine? “Sì, era necessario che il prigioniero fosse in buona salute”. Aveva da scrivere? “Sì, bastava chiedere e mi davano carta e matita. Dicevo: “Datemi quattro fogli, per favore. Voglio scrivere al presidente Tebboune”. Me li davano e io scrivevo al presidente, ben sapendo che ogni lettera sarebbe stata riletta”. Ha scritto al presidente della Repubblica d’Algeria? “Almeno dieci volte, e con toni molto diversi. Le prime lettere avevano un tono molto accusatorio. Ero convinto che sarei restato in prigione per anni, quindi tanto valeva farmi terra bruciata intorno. Poi ho deciso di essere più strategico. Gli ho spiegato che l’unica soluzione era liberarmi, riconciliare l’Algeria con la Francia. Gli dicevo che il suo Paese era completamente isolato e che la sua sola possibilità era la Francia, e lo credo fermamente. Gli descrivevo in dettaglio il trattamento inumano dei detenuti. Scrivevo anche al ministro degli Affari esteri, con lui ero molto più critico, se non addirittura feroce”. E riusciva a vedere sua moglie? “Per proteggerla dicevo a tutti “Mia moglie è a Parigi, sta venendo a trovarmi.” Forse era un errore, perché ciò che i responsabili della prigione temono è la circolazione delle informazioni. È il loro incubo. E mia moglie è diventata il loro incubo. Come tutti i detenuti, avevo diritto a mezz’ora con lei ogni due settimane. Un colloquio registrato, via telefono, separati da un vetro. I gesti, in casi del genere, contano quanto le parole”. Scriveva anche per sé? Un diario, un romanzo? “All’inizio volevo tenere un diario, certo, un po’ come ha fatto Sarkozy, ma temevo di sprofondare nell’autocommiserazione per via del freddo e della noia, quindi non ci sono riuscito. Ho stretto dei rapporti, penso a Walid Benflis, figlio dell’ex ministro della giustizia, condannato a vent’anni di prigione per alto tradimento”. Aveva anche da leggere? “C’è una biblioteca. In questa prigione di massima sicurezza ci sono corridoi interminabili e uno di quei corridoi porta a una biblioteca”. Che cosa poteva leggere, romanzi o giornali? “Leggevo libri, compilavo una richiesta scritta con il mio numero di matricola: 46611. Sono venuti a prendermi e mi hanno portato in una biblioteca, molto grande e molto bella. Ma l’arabizzazione e il rancore verso la Francia avevano lasciato il segno. L’ottanta per cento dei testi erano corani o libri sull’Islam. E poi, ma molto malconci, i superstiti del periodo francese”. Per esempio? “Ho trovato qualche libro relativamente in buono stato. Notre-Dame de Paris, di Victor Hugo. Un libro che adoro: l’ho letto due volte. Mentre il mondo assisteva alla rinascita della cattedrale di Parigi, io leggevo il romanzo in prigione. Leggevo Maupassant, che è andato in Algeria ed è passato dal villaggio in cui sono nato e che ho lasciato quando avevo soltanto sei mesi. Su quel posto ha scritto pagine sublimi. E poi ho letto uno dei miei autori preferiti: Montherlant. Che strano, in prigione ho avuto un interesse particolare per autori che hanno posto fine alla propria vita. Maupassant è morto folle, Montherlant si è suicidato. Aveva tendenze suicide, quindi la sua famiglia lo spostava di paese in paese sperando di salvarlo dalla nevrastenia. Senza risultato però: lui tutte le mattine diceva “oggi mi suicido”. Un giorno qualcuno gli ha detto: “Sai, adesso l’Algeria è un dipartimento francese, ed è un posto fantastico”. Montherlant ha preso un biglietto per restarci una settimana e ci è rimasto cinque anni. Una volta sbarcato al porto di Algeri ha avuto un colpo di fulmine. In prigione ho scoperto un suo librino di sole quaranta pagine: Il y a encore des paradis”. Sapeva che cosa si diceva di lei in Francia? Sapeva della mobilitazione dei politici, degli scrittori, dell’opinione pubblica, del movimento di sostegno, di Kamel Daoud? “Tramite mia moglie, i miei avvocati e le mogli e gli avvocati degli altri detenuti. La mobilitazione ha avuto dei riverberi nella mia prigione e poi anche negli altri penitenziari. Le persone mi dicevano: “Ma non è possibile. Tutta la Francia è con te, tutta l’Europa, sono pronti a fare la guerra per te! Dobbiamo approfittare di questa pressione”. In Francia facevo molto affidamento sul mio amico Jean-Paul Scarpitta perché i miei sostenitori prendessero le posizioni giuste”. Poteva guardare la televisione? “Sì, ma solo la televisione algerina, per la quale la Francia è sempre colpevole, che sottolinea ogni minima debolezza del nostro Paese e che osanna i membri di La France insoumise, Jean-Luc Mélenchon, Mathilde Panot e Rima Hassan, come ottimi francesi”. Quando era in prigione, pensava ai colleghi scrittori che hanno conosciuto la stessa sorte? “Sì, certo. Pensavo a Navalny, agli iraniani…”. Quando ha capito che sarebbe stato liberato? “L’ho pensato diverse volte. Ogni tanto persino il direttore della prigione mi faceva dei cenni d’intesa. Poi il 10 novembre ho trascorso la notte in ospedale. L’11 hanno raccolto tutte le mie cose e ho capito che mi avrebbero liberato. Vedevo gente che andava e veniva molto agitata. Ero nell’ufficio del direttore dell’ospedale. C’era un vecchio signore molto elegante… che ha cominciato a farmi la predica. In buona sostanza mi ha detto che, se fossi stato liberato, avrei dovuto trarne delle lezioni e smettere di denigrare il nostro paese. L’ho ascoltato. Poi, come ad altri, gli ho detto che se voleva poteva trattenermi ma che se avessi riavuto la libertà, sarebbe stata anche libertà di pensiero e di parola. Oggi pensa a Christophe Gleizes… Mi auguro con tutto il cuore che venga liberato. Bisogna che la relazione fra Francia e Algeria si normalizzi, che dimentichi i tormenti della storia e della memoria e torni al diritto comune. La Francia per l’Algeria è un’opportunità, Algeri deve capirlo. La storia imprigiona la politica, quando tornerà fra le pareti degli studi degli storici, la Francia e l’Algeria potranno riallacciare un legame. Sa, i sentimenti degli Algerini sono ambivalenti, nutrono allo stesso tempo rancore verso la Francia e nostalgia per un’intesa che si può e si deve ritrovare”.