Giustizia, la riforma che riscrive gli equilibri di Gabriele Garbo politicamag.it, 24 novembre 2025 La riforma della giustizia, approvata il 30 ottobre in quarta lettura al Senato con 112 sì, 59 no e 9 astenuti, segna un passaggio decisivo nella trasformazione dell’assetto della magistratura italiana. Non avendo raggiunto la maggioranza dei due terzi richiesta dall’art. 138 della Costituzione, la legge dovrà ora essere sottoposta a referendum confermativo, probabilmente nella primavera del 2026. È bene precisare sin d’ora che, sebbene sia stata presentata come una semplice ‘separazione delle carriere’ tra giudici (magistrati giudicanti) e pubblici ministeri (magistrati requirenti), la riforma interviene in realtà sul cuore del governo autonomo della magistratura e sul sistema disciplinare, modificando la stessa nozione di autonomia finora conosciuta. La revisione, oltre che agli artt. 104, 105 e 107 della Costituzione, riguarda anche l’art. 102, dacché prevede l’introduzione di carriere distinte per giudicanti e requirenti, pur mantenendo formalmente intatta l’unità dell’ordine giudiziario. Dovrà però essere una futura legge attuativa a definire concretamente modalità di accesso, progressione e organizzazione, affrontando nodi delicati come concorsi differenziati e requisiti specifici. Il doppio CSM - La novità più dirompente è la creazione di due CSM separati, uno per i giudici e uno per i PM, entrambi presieduti dal Presidente della Repubblica. Il modello italiano diverrebbe così l’unico in Europa a prevedere la separazione istituzionale tra giudici e procuratori, mantenendo tuttavia competenze e poteri perfettamente speculari, poiché la riforma non modifica funzioni né prerogative delle due categorie. La composizione dei nuovi CSM si baserà sul sorteggio: sorteggio secco per i togati e sorteggio “temperato” per i laici, cioè tramite estrazione da una lista approvata dal Parlamento in seduta comune. Restano però incerti elementi cruciali, come la lunghezza delle liste e i criteri per la loro formazione, che saranno definiti solo dalla legge attuativa. L’assenza di una maggioranza qualificata per l’approvazione delle liste amplifica il rischio di un’eccessiva incidenza della maggioranza parlamentare. Questo sistema solleva dubbi anche a livello europeo. Secondo la soft law e il “Rule of Law Report” (2025) della Commissione UE, infatti, un requisito fondamentale degli organi di autogoverno della magistratura è la rappresentatività, cioè la presenza di membri scelti direttamente dai magistrati. Il sorteggio, pur mirato a ridurre il peso delle correnti, rischia di entrare in contrasto con questo standard. Ne potrebbe emergere un assetto potenzialmente fragile: due organi perfettamente speculari ma separati, privi di un coordinamento naturale, e un metodo di selezione che potrebbe ridurre la rappresentanza interna e ampliare l’influenza politica. L’Alta Corte disciplinare - La riforma sottrae ai CSM la loro tradizionale competenza disciplinare, affidandola a un nuovo organo costituzionale: l’Alta Corte disciplinare. Composta da quindici membri di diversa provenienza, includerà magistrati con almeno vent’anni di esperienza e funzioni svolte in Cassazione (6 con funzione giudicante, 3 con funzione inquirente), oltre a componenti nominati dal Presidente della Repubblica (3) e sorteggiati da liste parlamentari (3). Quanto previsto dal testo della legge di revisione costituzionale potrebbe esporre ad un duplice fattore di rischio: anzitutto, la titolarità della funzione disciplinare in capo ad un terzo e distinto organo potrebbe comportare un rischio di gerarchizzazione interna, in contrasto con il modello orizzontale sancito dall’art. 102 della Costituzione. In secondo luogo, le decisioni dell’Alta Corte, qualora la riforma venisse approvata in sede referendaria, sarebbero impugnabili solo tramite un ricorso interno, senza più il controllo della Cassazione, determinando così una forte centralizzazione del potere disciplinare. Un sistema senza categorie - Adottando, ora, una prospettiva comparatista, si rileva che l’assetto definito dalla riforma è difficile da collocare nelle categorie europee. Non è un modello unitario, perché gli organi di autogoverno saranno due; ma non è nemmeno un modello separato in senso pieno, poiché giudici e PM manterranno garanzie e poteri identici. I sistemi di Francia, Spagna e Portogallo, pur diversificati, non presentano nulla di simile alla simmetria totale prevista in Italia. Il quadro europeo attuale si muove verso un rafforzamento dell’indipendenza delle procure e della partecipazione diretta dei magistrati, mentre l’Italia introduce sorteggio e sdoppiamento, avvicinandosi a un modello difficilmente assimilabile agli standard continentali. Un’anomalia annunciata - Il risultato finale è un sistema ibrido e inedito: due CSM speculari ma separati, un nuovo organo previsto nella Carta, garanzie costituzionali formali che restano immutate ma inserite in un contesto profondamente diverso, dove non si mette mano alle funzioni dei magistrati. La separazione delle carriere, inoltre, non tocca l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.) né l’unità formale della magistratura, generando un equilibrio nuovo e potenzialmente instabile. Se la legge attuativa non garantirà trasparenza, rappresentatività e coerenza con gli standard europei, il rischio è quello di creare un modello isolato, complesso da governare e lontano sia dalla tradizione italiana che dalle tendenze europee. La corsa al referendum - Sui partiti si polarizza il dibattito. Il centrodestra, guidato da Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi Moderati, spinge con convinzione per il “sì”: per loro la separazione delle carriere è un passo essenziale per indipendenza e trasparenza della giustizia, come più volte rivendicato da Giorgia Meloni. Dall’altra parte, il centrosinistra, guidato da Partito Democratico, Movimento 5 Stelle ed Avs, si prepara a una battaglia referendaria, pur dovendo fare i conti con una diversità di posizionamenti all’interno dell’opposizione (astensione di Italia Viva e voto a favore di Azione sul testo della riforma). Il PD avverte: la riforma rappresenta un rischio per la separazione dei poteri e le garanzie dei cittadini. Anche l’ANM (Associazione Nazionale Magistrati) è critica: teme che la riforma potrebbe essere prodromica rispetto all’assoggettamento dei PM all’Esecutivo. Infatti, chiarisce Parodi: “Sappiamo bene che la riforma non contiene una norma espressa in questo senso, ma osserviamo che nei Paesi in cui la separazione esiste, come Francia, Germania e Regno Unito, il pm risulta sottoposto all’esecutivo. Non è un timore immaginario, è un dato di fatto”. È scontro sui numeri delle intercettazioni: “Falsi quelli di Nordio” di Giuliano Foschini La Repubblica, 24 novembre 2025 Carbone, Csm, d’accordo con il procuratore di Bari. Interrogazione di Avs. Conte: vogliono che la legge non sia uguale per tutti. È battaglia sui numeri dati dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sulle intercettazioni telefoniche: “Falsi” attaccano dal Csm. “Strumentali” rincarano dall’Anm. Avs, con Angelo Bonelli, chiede che il ministro ne risponda immediatamente in aula. Mentre il capo del Movimento 5 Stelle, l’ex premier Giuseppe Conte, attacca: “Quello che sta accadendo - dice - mira alla base della democrazia e dello stato di diritto. Quel che dà più fastidio è che non si vuole che la legge sia uguale per tutti”. Una nuova polemica si alza sulla giustizia, dopo le dichiarazioni del procuratore di Bari, Roberto Rossi, che aveva accusato il ministro Nordio di aver fornito dati sbagliati sulle percentuali di accoglimento dei gip alle richieste di intercettazioni dei pm. “Numeri che non stanno né in cielo né in terra”, dice Ernesto Carbone, consigliere laico del Csm in quota Italia Viva, che - a quattro giorni dal duro scontro tra il procuratore Rossi e il viceministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, andato in scena all’evento per i 25 anni di Repubblica Bari - spiega perché i dati utilizzati dal Governo per agitare lo spettro della connivenza tra giudici e pm, e quindi sostenere l’urgenza della separazione delle carriere in vista del referendum, siano “falsi”. Così li aveva definiti Rossi, così li bolla Carbone, convinto che la risposta data da Nordio il 14 novembre all’interrogazione del deputato forzista Enrico Costa sia stata “troppo veloce” e “non del tutto veritiera”. Il guardasigilli, insomma, potrebbe aver mentito. A quale scopo “lo dovrebbe dire lui”, affonda l’avvocato calabrese. Che spiega tecnicamente perché quei dati - che raccontano di richieste dei pm accolte dai gip in merito alle intercettazioni con una forbice che va dall’84 al 100 per cento dei casi - non possano essere sintetizzati in quel modo. “Ci sono almeno tre motivi - dice Carbone - Il primo è che la stessa richiesta di proroga può essere autorizzata per alcuni bersagli e non per altri. Il secondo è che, specie in indagini di mafia o narcotraffico, molte persone hanno più telefoni. Il terzo è che una persona può avere più utenze intestate e darle in uso ad altri”. Sarebbe insomma difficile ottenere dati statistici secchi partendo da tutte queste variabili. E lo sarebbe ancor di più considerando che il “modello 37” non è informatizzato: tutto avviene su registri cartacei, i cui dati non vengono messi a sistema. Del resto, sul sito del ministero della Giustizia si trovano solo report annuali senza specifiche; idem nelle relazioni degli anni giudiziari. A contestare l’impianto dei numeri non è solo Carbone. Anche il presidente dell’Anm, Rocco Maruotti, parla di tempismo “stupefacente” nella risposta del ministro, ricordando però i ritardi nell’assicurare il funzionamento dei servizi di giustizia. Maruotti definisce le percentuali “letteralmente drogati” dal peso delle indagini sul narcotraffico. “Se il governo vuole che smettiamo di indagare sulla droga, lo dica chiaramente”, afferma. Il presidente dell’Anm dubita poi dell’affidabilità stessa dei dati e ricorda la fisiologia del procedimento: nella fase iniziale, il gip decide spesso “inaudita altera parte”, rendendo normale un tasso alto di accoglimento. Ricostruisce infine la progressione delle soglie probatorie: dagli “indizi” alla prova “al di là di ogni ragionevole dubbio”. “I numeri del ministro - conclude - trovano spiegazione nelle regole processuali e non nell’appiattimento del gip”. Aldo Bianzino e la sua misteriosa morte nel carcere di Perugia. di Floriana Rullo Corriere della Sera, 24 novembre 2025 Il figlio Rudra: “Da 18 anni combatto per conoscere la verità”. Arrestato il 12 ottobre 2007 per il possesso di marijuana, il vercellese Aldo Bianzino morì in cella due giorni dopo. Il figlio Rudra: “Ho depositato una nuova richiesta di riapertura delle indagini, troppi aspetti oscuri in questa vicenda”. “Per la seconda volta, dopo ben 18 anni, ho depositato la richiesta di riapertura delle indagini per omicidio volontario presso la Procura della Repubblica di Perugia, riguardo alla vicenda di mio padre, Aldo Bianzino”. A parlare è Rudra, figlio Aldo, arrestato il 12 ottobre 2007 per il possesso di poche piantine di marijuana e trovato morto in cella nel carcere Capanne di Perugia due giorni dopo. Vercellese, Aldo si era trasferito in Umbria dove viveva con la compagna e il figlio Rudra, all’epoca 14enne. “Già nel 2018 tentai di presentare la medesima istanza, ma senza successo - spiega Rudra, 32 anni, che da tempo vuole scoprire la verità su quanto accaduto al padre -. Lo feci a seguito di esami medico-legali che, già nel corso del procedimento per omissione di soccorso (2007-2015), vennero considerati di fondamentale importanza da un collegio di giudici e da un gip per verificare eventuali condotte violente su mio padre. Tuttavia il pubblico ministero Giuseppe Petrazzini, incaricato della questione, non li ritenne di sufficiente rilevanza e rigettò la richiesta”. La vicenda giudiziaria si era ufficialmente conclusa tre anni prima con la condanna a un anno di reclusione per l’agente penitenziario Gianluca Cantoro, accusato di omissione di soccorso. “È stato un percorso lungo e impegnativo, pieno di imprevisti, dubbi e timori - continua il 32enne -. Ma non ho mai demorso, convinto di seguire la strada giusta. Non si può e non si deve morire cosi. Ed è per questo che considero la mia storia una questione che riguarda la società tutta. Troppi sono gli aspetti oscuri di questa vicenda, che chiama in causa le istituzioni stesse, per poter ritenere che abbia avuto una fine giusta e dignitosa. Ora non rimane che attendere e rimettermi alla decisione della giustizia, per sapere se questa vicenda avrà un seguito processuale, del quale non esiterò a rendervi partecipi”. Il detenuto al 41 bis chiede di ascoltare la radio in Fm: respinto il ricorso di Stefano Cinaglia La Nazione, 24 novembre 2025 “Solo i canali Rai e le frequenze in Am”. La Cassazione dà ragione a magistratura di sorveglianza e direzione del penitenziario ternano. “Esigenze di sicurezza connesse alla possibilità di veicolare messaggi con canali in modulazione di frequenza”. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di un detenuto, recluso al “41 bis” nella casa circondariale di vocabolo Sabbione, contro la magistratura di sorveglianza che, avallando la decisione della direzione del penitenziario ternano, gli aveva limitato la fruizione di canali televisivi e frequenze radio. In sintesi, al detenuto era concesso l’ascolto della radio in frequenza AM e non Fm e la visione dei primi tre canali radio della Rai; lui ha però richiesto di poter ascoltare la radio anche in FM e di sintonizzarsi su “tutti i canali televisivi nazionali presenti sulla piattaforma digitale”, in base al diritto all’informazione dei detenuti, anche in regime di 41-bis. L’istanza respinta - L’istanza del detenuto è stata respinta dal magistrato di sorveglianza di Spoleto, poi in appello dal Tribunale di sorveglianza di Perugia e adesso dalla Cassazione. “Il Tribunale di sorveglianza - osserva la Suprema Corte - rilevava che il divieto di un generalizzato accesso ai canali radio FM, previsto dall’art. 14, comma 6, della circolare dipartimentale, era giustificato da effettive esigenze di sicurezza e ordine pubblico, essendo risultato che attraverso i suddetti canali radio era possibile veicolare messaggi dall’esterno e che, inoltre, il detenuto non aveva lamentato in modo specifico una concreta compromissione del suo diritto alla informazione”. Il diritto all’informazione - “È necessario verificare in concreto le modalità di attuazione del diritto onde verificare se siano tali da incidere sulla effettività del medesimo - spiega la Cassazione, respingendo il ricorso -. Nel caso in esame, il presupposto fattuale del reclamo del detenuto era la circostanza che la direzione dell’istituto, conformemente alla circolare Dap del 2 ottobre 2017, aveva assicurato l’accesso ai soli canali radio AM ed ai tre canali radio Rai sul televisore. All’evidenza, siffatta conformazione dell’esercizio del diritto all’informazione e all’intrattenimento non è tale da limitare un effettivo esercizio di esso, ma costituisce una mera modalità organizzativa, necessaria nella gestione della complessa struttura a fronte della nota ampiezza dell’offerta radiofonica e delle particolari esigenze di sicurezza connesse alla possibilità di veicolare messaggi attraverso i canali radio in modulazione di frequenza (Fm)”. La sentenza per mancata conoscenza del processo non può modificare l’imputazione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2025 L’improcedibilità per mancata conoscenza del processo dichiarata con sentenza dal Gup è un momento prettamente processuale che non prevede la riqualificazione del reato e men che mai senza azionare il contraddittorio col Pm. Il Giudice dell’udienza preliminare non può - nel pronunciare sentenza di non lugo a procedere per mancata conoscenza del procedimento da parte dell’imputato - riqualificare l’imputazione. Si tratta di passaggio puramente procedimentale che non consente la modifica del reato contestato in totale assenza di contraddittorio con il pubblico ministero che ha promosso l’azione penale. La sentenza - Questa l’affermazione della Corte di cassazione penale che, con la sentenza n. 37949/2025, ha accolto il ricorso della parte pubblica. La Suprema Corte ha di fatto accolto entrambi i rilievi del procuratore che lamentava l’insussistenza del potere del Gup di adottare la riqualificazione dell’imputazione sia per mancato contraddittorio con il magistrato inquirente sia perché come reca la norma riformata integralmente dalla novella Cartabia in sede di udienza preliminare senza costituzione delle parti non è oggetto dell’esame affidato al giudice la riqualificazione dell’imputazione. Si tratta di attività del giudice che è demandata al momento in cui si avvia la fase della cognizione piena stante che la sentenza di improcedibilità come ora codificata dall’articolo 420 quater del Codice di rito ha strettamente natura tipicamente processuale. In quella sede, in effetti, il giudice se ritiene che non siano ravvisabili né l’assenza dell’imputato (per sottrazione volontaria al procedimento) né un impedimento a comparire del difensore o dell’imputato, dichiara l’improcedibilità per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato stesso. Passaggio di economia processuale che non contempla la facoltà del Gup di riformulare l’accusa. Infine, al di là dell’errata sede in cui il Gup ha inteso modificare il perimetro del reato in contestazione, va rilevato che di regola il modello procedimentale disegnato nel codice di rito è chiaro: il pubblico ministero è investito del potere di esercitare l’azione penale, indicando i fatti contestati e la loro qualificazione giuridica mentre il giudice è investito del dovere di verificare che essi (fatti e qualificazione) siano contestati in modo coerente con le acquisizioni processuali. E se tale coerenza non è riscontrata il giudice non ha il potere di intervenire direttamente sull’imputazione per risolvere le “difformità”, avendo, viceversa, il dovere di sollecitare l’intervento del pubblico ministero. No al riconoscimento “parziale” della condanna emessa da altro Stato Ue di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2025 Lo ha chiarito la Cassazione, ordinanza n. 37379/2025, affermando l’abnormità di un simile procedimento. In tema di rapporti giurisdizionali con le Autorità straniere, la Cassazione (ordinanza n. 37379/2025) ha affermato che è affetta da abnormità, in quanto espressione di un potere astrattamente riconosciuto dall’ordinamento, ma esercitato in concreto al di fuori dei casi consentiti, la sentenza che dispone il parziale riconoscimento per l’esecuzione di una sentenza di condanna emessa da altro Stato membro dell’Unione Europea, in assenza di previa interlocuzione e di accordo con lo Stato di emissione sulle condizioni del riconoscimento e dell’esecuzione parziale. Il caso era quello di un cittadino rumeno condannato nel suo paese per plurimi reati di corruzione, con una MAE esecutivo eseguito in Italia. All’esito di due annullamenti da parte della Corte di cassazione delle pronunce che ne avevano disposto la consegna, la Corte di appello di Bologna (con sentenza divenuta irrevocabile) l’ha rifiutata in mancanza di adeguate garanzie sulle condizioni di detenzione. A quel punto l’autorità giudiziaria rumena ha chiesto che la sentenza della Corte di appello di Bucarest venisse eseguita in Italia e il Ministro della giustizia ha dato il consenso. La Corte bolognese, dopo una serie di interlocuzioni con l’autorità rumena, ritenendo che l’imputato fosse stato privato del secondo grado di giudizio, per un capo di imputazione, ha disposto il riconoscimento e l’esecuzione della pena solo per due anni, anziché per l’intero periodo (oltre 8 anni). Contro questa decisione ha proposto ricorso il Pg della Corte di appello affermando che il riconoscimento parziale era avvenuto senza informare l’autorità rumena. La VI Sezione penale ricorda che il quadro giuridico di riferimento è delineato dalla decisione-quadro 2008/909/GAI del 27 novembre 2008 e dal Dlgs 161/2010 e “si fonda essenzialmente sul consenso dello Stato di condanna all’esecuzione in altro Stato dell’U.E. di una pena detentiva inflitta in base ad una sentenza di condanna emessa dalle sue autorità giudiziarie”. E tale consenso viene manifestato nell’invio del “certificato”, che presuppone il rispetto da parte dello Stato di esecuzione delle regole definite nella decisione-quadro. Allo Stato di esecuzione viene riconosciuto “un potere di adattamento” che tuttavia è chiaramente “delimitato” (art. 8, par. 2 e 3). “Al di là di tali ristretti poteri di adattamento (e fuori dai casi di cui all’articolo 17) - prosegue la decisione -, non sussiste in capo allo Stato di esecuzione un autonomo potere di procedere, unilateralmente, al riconoscimento della sentenza e all’esecuzione della pena in parte, ovvero in termini diversi da quelli indicati nel certificato trasmesso”. Non è dunque vero quanto sostenuto dal resistente e cioè che “l’attivazione del meccanismo di previa consultazione per il caso di riconoscimento parziale costituisce, per volontà del legislatore europeo, solo una facoltà e non un obbligo per lo Stato di esecuzione”. Al contrario, “la sentenza che dispone il riconoscimento parziale in violazione di tale regola costituisce manifestazione di un potere astrattamente riconosciuto dall’ordinamento, ma in concreto esercitato al di fuori dei casi consentiti”. Nel caso specifico, dunque, “il potere attribuito al giudice è stato esercitato in un contesto processuale del tutto diverso da quello previsto dalla legge”, che impone l’annullamento della sentenza. Correttamente, il Pg ricorrente ha evidenziato come la violazione di una inderogabile regola processuale, a presidio del corretto rapporto di cooperazione giudiziaria tra Stati sovrani, ha impedito allo Stato di emissione della sentenza di decidere se concordare con l’autorità italiana il riconoscimento parziale o se invece dissentire, con conseguente ritiro del certificato. La Corte bolognese dovrà allora avviare le previste interlocuzioni con l’autorità rumena per pervenire ad un accordo sulle condizioni del riconoscimento parziale e dell’esecuzione della pena, o, in caso di dissenso, di consentire all’autorità dello Stato di condanna di recuperare, con il ritiro del certificato, la piena sovranità sulla pena. Del resto, conclude la Corte, appaiono, irrilevanti gli esiti delle richieste di chiarimenti inviate dalla Corte di appello all’autorità rumena che “non possono essere in alcun modo confuse con le necessarie forme di interlocuzione prescritte dagli artt. 10 della decisione-quadro 008/909/GA1 del 27 novembre 2008 e 10, comma 3, d.lgs. n. 161 del 2010, finalizzate innanzitutto a porre l’autorità dello Stato di condanna a conoscenza di tali determinazioni e, quindi, a concordare eventualmente con tale autorità le condizioni del riconoscimento e dell’esecuzione parziale”. Calabria. La Garante dei detenuti: “Attenzione ai diritti, per dire no ad ogni forma di violenza” di Elisa Barresi ilreggino.it, 24 novembre 2025 Incontriamo l’avvocato Giovanna Russo, la prima donna in Calabria ad essere nominata Garante dei diritti dei privati della libertà personale. Il Consiglio regionale undici mesi fa l’ha scelta all’unanimità e lei ai nostri microfoni dice che questa responsabilità se la sente tutta e sottolinea come il suo maggior impegno è donare credibilità a questa istituzione con rigore e diligenza per la tutela dei diritti umani e il necessario contrasto alle mafie che in Calabria comprimono lo stato di diritto, soprattutto in ambito penitenziario. Coraggioso studio e carico di responsabilità per una cultura dell’antimafia penitenziaria che restituisce autorevolezza a un ruolo spesso violato, quello appunto delle Autorità Indipendenti per mancanza di cultura e sensibilità di altre istituzioni ma anche per le modalità operative che secondo la stessa ‘ devono subire un processo di armonizzazione e omogeneità su tutto il territorio e tra regioni. In questo la Calabria sta già lavorando da mesi. Non è volontariato ed è arrivato il momento che alcuni comprendano che l’indifferenza alimenta le spinte criminali che ledono e possono intaccare il fondamentale operato di garanzia dei diritti che queste figure assolvono con tutti i rischi che questo ruolo comporto. Lei ci mette la faccia e dice che “nessuna donna delle istituzioni civili, militari e religiose va lasciata sola o, peggio, isolata perché non solo sarebbe un errore madornale, ma si avallerebbero tutti quei comportamenti criminali che emarginano chi invece la criminalità vuole quotidianamente contrastarla con la cultura dei diritti, del bene e del bello, con un’etica del fare coerente e credibile. Dall’incontro di Mai più sola delle scorse settimane ho colto una reale sensibilità di donne per le donne e sono qui a mettere in luce con la solita schiettezza due aspetti che riguardano le donne del mondo penitenziario. Parlerò di donne che spesso non hanno voce: le donne detenute ma anche le donne della Polizia Penitenziaria. Donne diverse sì, ciascuna nel proprio ruolo, ma che vivono e condividono lo stesso mondo, segnate spesso dallo stesso problema: la parità di genere ancora lontana, la violenza fisica, psicologica, istituzionale, ancora oggi troppo presente e molto taciuta. Vi è una frase di Francesca Morvillo nella quale mi rivedo diceva: “Nel mio piccolo anche io voglio contribuire al cambiamento… io non ho paura…perché ho scoperto l’amore vero per la mia famiglia, il mio lavoro e per il dovere che ogni giorno compio fino alla fine. Sono Francesca, una donna semplice che, come tante altre donne, lotta ogni giorno per una società migliore e più giusta”. “Doppia invisibilità”: quando essere donna e detenuta significa dissolversi nel contesto sociale. Cosa ne pensa? “Nel dibattito pubblico si parla molto di carcere in generale e troppo poco nella misura della specificità che questa materia merita, ancora meno di carcere declinato al femminile e questioni di genere. Partendo dalle donne detenute, esse, rappresentano una minoranza numerica rispetto agli uomini (2.777 di cui 71 in Calabria - dati Ministero Giustizia) e questo contribuisce a una forma di c.d. ‘doppia invisibilità. Essendo poche, diventano residuali nelle politiche, nei regolamenti interni, nella distribuzione delle risorse. Eppure, le loro esigenze sono specifiche. Basti pensare alle loro storie di violenze pregresse: moltissime donne detenute hanno alle spalle violenze domestiche, abusi, relazioni di dipendenza economica ed emotiva. Spesso il reato è l’ultimo anello di una catena di vulnerabilità. Al loro ruolo di madri e caregiver: molte sono madri, spesso unica figura di riferimento per i figli. Il carcere, se gestito senza sensibilità, non colpisce solo la donna, ma l’intero nucleo familiare. Alle derive di questi fenomeni appena descritti in termini di salute fisica e mentale: disturbi d’ansia, depressione, disturbi post-traumatici, dipendenze, patologie croniche: l’impatto è diverso, e spesso più grave, nelle donne. La medicina di genere qui praticamente non esiste”. Emerge dalla sua risposta un tema: la questione della violenza di genere in carcere. Dal suo osservatorio di questi anni che riflessioni trae? “Anche in questo caso dobbiamo ragionare sul tema e affrontarlo e nell’ottica della donna detenuta e in quello della poliziotta. Per una donna detenuta, il tema della violenza non scompare con l’ingresso in istituto, anzi può cambiare forma. Si pensi ai casi di violenza pregressa non riconosciuta: molte donne sono vittime di abusi e arrivano in carcere senza che nessuno abbia mai formalmente riconosciuto prima o per tempo il loro vissuto traumatico. Altro tema doloroso e poco dibattuto con la dovuta serietà scientifica è la violenza istituzionale e simbolica. Quanta assenza di privacy nelle vite di queste donne detenute? Il reato accertato, la colpevolezza, la necessità di custodia cautelare sono forse fatti autorizzativi alla lesione della dignità di una persona? Di una donna, fosse anche detenuta? L’importanza del linguaggio che contrasti il linguaggio sessista, l’arginare le umiliazioni e gli stereotipi quali ‘madre snaturata, cattiva donna’ forse rafforzerebbero gli sforzi trattamentali, rieducativi, contrastando concretamente queste forme di violenza meno visibili ma profondamente lesive. Ulteriore elemento da non sottovalutare è il rischio di molestie o abusi. Al riguardo servono protocolli chiari, controlli, formazione specifica e un equilibrio di genere nel personale, il carcere può diventare un luogo sempre più pericoloso quando dentro le sue stesse mura se non adeguatamente formato alle complessità”. Si legge, con la stessa attenzione che lei usa per le donne detenute che anche le poliziotte benché in prima linea, non sempre hanno tutele adeguate. A che punto siamo? “Dal ruolo di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale non ho mai fatto mistero che per me il ruolo non è quello che per anni ci è stato raccontato. Un Garante deve porre sempre l’attenzione all’Amministrazione non in una mera logica di monitoraggio ispezione e controllo. Un Garante deve saper essere veramente una Istituzione di Garanzia dei diritti. Ma come puoi pensare oggi di garantire i diritti umani se non hai la capacità e la sensibilità di essere accanto, senza ingerenze ovviamente, all’Amministrazione che per mission deve garantire diritti in ottica di umanizzazione della pena. Ecco che rispondo alla sua domanda: dall’altra parte delle sbarre, tra i corridoi, fuori delle salette colloquio, delle salette socialità ogni giorno e in mille necessità della popolazione detenuta, ci sono loro, le donne del corpo di polizia penitenziaria: donne, mamme, mogli, figlie. Anche qui, la parità deve ancora compiere importanti scelte e soprattutto servono percorsi di sensibilizzazione tra e per le donne che scelgono il sigillo della Giustizia per rappresentare lo Stato. Oggi c’è ancora molto da fare. Penso alle disparità quotidiane. Le poliziotte vivono una serie di criticità specifiche: sessismo e stereotipi interni, ambienti storicamente maschili, la presenza femminile viene talvolta vissuta o, peggio, subita: linguaggio inappropriato, messa in discussione dell’autorità, o anche solo il sovraccarico di compiti perché ‘le donne sanno gestire meglio i conflitti’. Il rischio di burnout e stress post-traumatico. Il carcere è un ambiente ad alta intensità emotiva: suicidi, atti di autolesionismo, aggressioni, insulti quotidiani, chi lavora dentro vive tutto questo sulla propria pelle, ma la cultura del ‘reggere’ e del ‘non lamentarsi’ o, peggio, la paura di essere ritenute inadeguate disincentiva la richiesta di aiuto. Un tema importantissimo è quello della violenza. Anche per le poliziotte il tema della violenza non è solo teorico: Molestie talvolta coperte da omertà interna, paura di ritorsioni, cultura gerarchica, minacce e aggressioni da parte di detenuti refrattari alle norme, aggressioni che possono assumere connotati apertamente sessuali, anche quando non arrivano al contatto fisico, sono solo alcune delle criticità che emergono in ambito penitenziario. Scarsa fiducia nelle tutele: se non esistono canali protetti, indipendenti e credibili per denunciare la violenza rischia di rimanere sommersa. Le derive sono ovvie e pericolose”. Pare di capire, grazie alla sua sensibilità istituzionale che parità di genere e donne che abitano il microcosmo penitenziario a qualsiasi titolo meritano entrambe grande attenzione… “La condizione delle detenute e delle poliziotte penitenziarie non è un tema ‘di nicchia’ come si potrebbe pensare, essa, riguarda direttamente la qualità della democrazia, lo stato di diritto, la credibilità dello Stato quando parla di diritti umani. Ecco perché il tema della parità di genere in carcere è un tema fondamentale. In ragione del valore che diamo al 25 novembre e perché non sia solo il 25 novembre è opportuno ribadire che la tutela da ogni forma di violenza e discriminazione deve essere attiva, non solo proclamata. Urgono sistemi di prevenzione, protezione, punizione di ogni abuso, anche quando la responsabilità si configura in seno a rappresentanti delle istituzioni; la parità non è mero concetto, la discriminazione e il contrasto ad ogni forma di violenza si costruiscono con la credibilità di quanto le donne in primis riusciranno a mettere in campo con sensibilità e coesione sul terreno della tutela e dei diritti. Serve agire sul piano della formazione, dell’affettività, per chi vive e anche per chi lavora dentro le mura servendo lo Stato”. Lei da penitenziarista, prima donna in Calabria Garante che vive in questo settore prettamente maschile ha già in mente qualcosa? Ad esempio, secondo lei, cosa si potrebbe fare per le donne detenute? “Intanto la trasparenza è la migliore alleata contro ogni forma di discriminazione e violenza. Ritengo che si debba cambiare approccio culturale fuori e dentro le mura per avviare una stagione che abbia la visione e la voglia oltre che la progettualità per cambiare il carcere e contrastare ogni forma di violenza. Per rimanere in tema di diritti, tutele, contrasto alla violenza e politiche per una reale parità di genere in carcere - per le donne detenute e per le poliziotte - non è solo una questione di norme e regolamenti è soprattutto una questione di cultura e formazione. La cultura interna alle amministrazioni competenti che a vario livello devono valorizzare sempre più il ruolo delle donne, e non considerarle come un’appendice. Non bisogna aver paura della forza generativa delle donne, aggiungo che bisognerebbe sensibilizzare la cultura politica attorno al carcere smettendo di considerarlo come un luogo ‘altro’, estraneo al perimetro dei diritti umani. Anzi è proprio partendo dalla sensibilità penitenziaria che riusciamo a rendere più sicure le nostre comunità. Infine, investire in cultura sociale. Se il tema della violenza di genere non entra anche dietro le sbarre, resta uno slogan. Portarla davvero dentro le carceri - nei corpi, nelle biografie e nelle carriere delle donne che lì vivono e lavorano è una delle prove più concrete della serietà con cui un Paese considera i diritti umani. È nelle carceri che si misurano i limiti e le contraddizioni del welfare. Per tale ragione ritengo che il format ‘Mai più sola’ possa essere un valido strumento reticolare di giustizia e tutele anche dentro le mura”. Como. Riunione Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico: “Il carcere è una polveriera” di Anna Campaniello Corriere del Ticino, 24 novembre 2025 La recente rivolta è solo l’espressione più evidente dello stato di emergenza in cui si trova la prigione di Como. Sovraffollamento, violenza, limiti strutturali, carenza di agenti e suicidi creano una situazione di tensione estrema. “Il carcere di Como è una polveriera”. In una riunione del Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico in prefettura, il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, esponente del governo italiano, ha usato queste parole per descrivere la situazione del Bassone. Nel penitenziario del capoluogo lariano i detenuti sono quasi il doppio rispetto alla capienza massima di 226 posti. Il 13 novembre scorso è scoppiata una rivolta, sedata dopo ore ad altissima tensione. L’ultimo, grave episodio di una lunga serie. “Le violenze sono all’ordine del giorno e non si contano più gli agenti feriti”, denunciano da tempo i rappresentanti della polizia penitenziaria. Il bilancio della rivolta è stato di due agenti e un detenuto soccorsi e portati in ospedale. Il detenuto, 24 anni, marocchino, in carcere per un cumulo di condanne per reati legati allo spaccio di droga e rapine, mercoledì scorso si è tolto la vita. Dimesso dall’ospedale dopo le cure, era stato portato nell’infermeria del Bassone, dove si sarebbe impiccato. “La sconfitta di un sistema” - L’epilogo più tragico, peraltro tutt’altro che isolato, dato che il dramma dei suicidi in carcere è ormai un’emergenza in Italia. “È l’ennesima sconfitta per il nostro sistema penitenziario e per tutti noi - ha denunciato Luigino Nessi, Sinistra Italiana -. Questa tragica morte interpella nuovamente tutti, lo Stato, il Governo, la nostra città, la società civile. Non possiamo più far finta di niente. Ribadiamo ancora che al Bassone serve personale di polizia penitenziaria, personale dell’area educativa, potenziamento dell’area sanitaria, potenziamento dell’area scolastica, maggiori possibilità di incontri e di iniziative condivise con il terzo settore e con il volontariato. Così non è più possibile continuare”. Il numero dei detenuti, dopo la rivolta è stato leggermente ridotto perché quasi cinquanta dei 440 reclusi sono stati trasferiti in altri penitenziari. Una misura decisa dopo i gravi disordini per allontanare almeno parte delle persone coinvolte e per ridurre la tensione. Non ancora abbastanza, almeno stando alla richiesta di cui si era fatto portavoce il segretario della Federazione Nazionale Sicurezza della Cisl di Como e Varese Giovanni Savignano, che aveva chiesto “l’allontanamento di almeno 100 ristretti e la ristrutturazione delle parti dell’Istituto danneggiate per restituire al personale di polizia penitenziaria, civile e sanitario sicurezza e dignità lavorativa”. Il Bassone è una casa circondariale, che dovrebbe ospitare i detenuti in attesa di giudizio o con pene non superiori ai 5 anni, ma per la situazione generale di sovraffollamento delle strutture di detenzione lombarde e italiane di fatto viene utilizzato anche per chi ha già una condanna definitiva o a pene maggiori. Gli immigrati sono oltre la metà dei reclusi. Sofferenza e carenza - Venerdì scorso, poche ore dopo la notizia del suicidio del detenuto, il direttivo della Camera penale di Como e Lecco con l’Associazione “Nessuno tocchi Caino” e numerosi magistrati ha visitato il Bassone. Un incontro già programmato all’inizio del mese di ottobre, ma che inevitabilmente è diventato un’occasione per riflettere sulla situazione esplosiva e di grave preoccupazione del carcere del capoluogo lariano. “L’organico della polizia penitenziaria è in sofferenza - si legge in una nota diffusa dopo la visita -. Lo stesso vale per gli educatori, 3 rispetto ai 6 previsti. Le carenze riguardano pure l’area sanitaria. Particolarmente grave è la situazione dei detenuti dipendenti da sostanza stupefacenti, circa il 70% del totale, e di quelli affetti da disagio mentale, di cui 20 con patologie psichiatriche. Le gravi condizioni igienico sanitarie e le condizioni generali della struttura, unite agli indici di sovraffollamento, ne fanno un luogo di violazione dei diritti basilari della persona”. “Francamente - aggiungono avvocati, magistrati e vertici dell’Associazione -, non stupiscono i fenomeni di rivolta che hanno interessato l’istituto e i drammatici eventi di questi ultimi giorni. Riteniamo che sia davvero giunto il momento di pretendere dallo Stato un intervento radicale. La legge prevede che chi sbaglia debba essere privato della libertà, non della dignità”. Roma. Carcere di Rebibbia, interrogazione parlamentare sulle condizioni della “Sezione nido” terzultimafermata.blog, 24 novembre 2025 Rebibbia femminile è in grado di garantire l’assistenza sanitaria, psicologica e sociale alle detenute in gravidanza e ai bambini presenti nella sezione nido? Una visita ispettiva di una senatrice e non del Garante Nazionale dei detenuti, in altre faccende affaccendato, ha rilevato una situazione che appare non garantire: “L’incolumità e la tutela della salute delle donne in stato di gravidanza ristrette presso l’istituto e dei loro nascituri … e l’assistenza sanitaria, psicologica e sociale alle detenute in gravidanza e ai bambini presenti nella sezione nido”. Mentre il Garante Nazionale dei detenuti impiega il suo tempo ad inoltrare un esposto per asseriti illeciti disciplinari inesistenti nei confronti di avvocati che hanno rimesso i mandati difensivi conferitigli dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà (Gnpl). Il Garante dei detenuti segnala disciplinarmente un avvocato dimissionario che ha messo a nudo le criticità della sua gestione, il Consiglio distrettuale di disciplina archivia la segnalazione (Vincenzo Giglio) - Terzultima Fermata, nel carcere di Rebibbia femminile una visita ispettiva ha evidenziato quanto illustrato nell’interrogazione depositata al Senato l’11 novembre 2025 che riportiamo per intero: Al Ministro della giustizia. - Premesso che: il 18 ottobre 2025 la deputata Michela Di Biase del gruppo Partito democratico si è recata in visita ispettiva presso la Casa circondariale femminile di Rebibbia, a Roma; al momento della visita risultavano ristrette otto donne in stato di gravidanza, alcune delle quali affette da gravi patologie che, secondo la documentazione sanitaria trasmessa all’Azienda sanitaria locale competente, appaiono incompatibili con lo stato di detenzione in carcere; in particolare, nella sezione “cellulare” si segnala la presenza di tre detenute, due delle quali con gravidanza a rischio: una alla trentaquattresima settimana, affetta da diabete mellito gestazionale e sottoposta a trattamento per tromboflebiti, e l’altra al settimo mese di gestazione, anch’essa in condizioni di salute critiche; inoltre le stesse sarebbero entrate in contatto con un’ostetrica affetta da meningite, e, pertanto, sottoposte alla profilassi anti-meningococco; nella sezione “camerotti” si trovano quattro detenute incinte, tra cui un uomo trans in stato di gravidanza con gravi problemi di salute; una detenuta è ristretta nella sezione “nido”; le condizioni di salute delle detenute, in particolare nei tre casi evidenziati, destano forte preoccupazione rispetto alla necessità di assicurare cure tempestive e un ambiente idoneo alla tutela della vita e dell’incolumità sia delle persone detenute sia dei nascituri; oltre alle donne in gravidanza, risultano attualmente recluse cinque madri con cinque bambini nella sezione “nido” del medesimo istituto. Nei mesi scorsi il numero dei bambini presenti aveva raggiunto otto unità; tali situazioni sono l’effetto anche delle recenti modifiche normative introdotte dal cosiddetto “decreto sicurezza”, che hanno reso non obbligatoria la sospensione dell’esecuzione penale in questi casi e ristretto la possibilità di accesso a misure alternative alla detenzione, incidendo in particolare sulle donne madri; l’articolo 3 della Convenzione delle Nazioni unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza stabilisce che, in tutte le decisioni relative ai bambini, l’interesse superiore del minore debba essere considerato preminente, l’articolo 8, della medesima Convenzione, prevede che ogni bambino abbia diritto al rispetto della propria identità, mentre l’articolo 9 sancisce la tutela della relazione genitore-figlio, imponendo agli Stati di evitare che il minore subisca conseguenze pregiudizievoli a causa della condizione del genitore, compresa la detenzione; tali principi dovrebbero orientare l’azione amministrativa e giudiziaria nel senso di limitare al massimo la detenzione di madri con figli minori e di donne in gravidanza, privilegiando misure alternative più consone alla tutela della salute e dei legami affettivi; appare, pertanto, necessario verificare se presso il carcere femminile di Rebibbia siano state adottate tutte le misure idonee a garantire l’assistenza sanitaria, psicologica e sociale alle detenute in gravidanza e ai bambini presenti nella sezione nido, nonché se le autorità competenti abbiano valutato la possibilità di applicare misure alternative alla detenzione nei casi più gravi, si chiede di sapere se il Ministro in indirizzo sia a conoscenza dei fatti esposti in premessa e quali iniziative intenda adottare per assicurare l’incolumità e la tutela della salute delle donne in stato di gravidanza ristrette presso l’istituto e dei loro nascituri, nonché se abbia già disposto le necessarie verifiche presso la Casa circondariale femminile di Rebibbia per appurare se siano state adottate tutte le misure idonee a garantire l’assistenza sanitaria, psicologica e sociale alle detenute in gravidanza e ai bambini presenti nella sezione nido. Catanzaro. La cultura che unisce e trasforma: i risultati del Progetto “La cultura rende liberi” oraquadra.info, 24 novembre 2025 Si è concluso in questi giorni presso la Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro il ciclo dei sei incontri previsti dal progetto “La cultura rende liberi”, promosso dall’Associazione culturale “Ophelia’s Friends Cultural Projects” e curato da Stefania Romito. Un percorso che ha portato all’interno della realtà carceraria un’esperienza di dialogo, introspezione e rinascita personale. Il progetto, fin dal suo avvio, ha voluto offrire uno spazio in cui cultura e umanità potessero incontrarsi, generando ascolto reciproco e nuove consapevolezze. Ora, al termine di questo viaggio, i risultati raggiunti parlano da soli. Romito esprime una profonda soddisfazione: ciò che desiderava - partecipazione attiva, condivisione emotiva, dialogo empatico - si è pienamente realizzato. Gli incontri dedicati alla letteratura del Novecento italiano hanno suscitato nei detenuti partecipanti riflessioni sincere e profonde, toccando temi come solitudine, memoria, attesa, libertà interiore e desiderio di rinascita. Le conversazioni nate attorno ai testi di Pavese, Berto, Buzzati e Levi hanno dato vita a momenti intensi, in cui i partecipanti hanno portato alla luce profonde emozioni. Ogni incontro si è rivelato un laboratorio vivo di ascolto e autenticità. A questo percorso si sono affiancati i laboratori di scrittura creativa, che hanno permesso ai partecipanti di sperimentare nuove forme espressive. Alcuni detenuti hanno iniziato a lavorare a racconti e perfino a romanzi, scoprendo nella scrittura un mezzo per trasformare il proprio vissuto in una narrazione consapevole e liberatoria. In segno di gratitudine, i detenuti hanno donato a Stefania Romito una splendida opera in ceramica da loro realizzata, gesto che testimonia il legame umano che si è creato durante gli incontri. Fondamentale anche l’iniziativa “Voci dal carcere”, un lavoro di raccolta di interviste alle diverse figure che vivono il mondo penitenziario: Direttrice, educatori, agenti e detenuti. Queste testimonianze - insieme agli scritti introspettivi dei partecipanti e alle loro riflessioni sui temi letterari affrontati - saranno raccolte in due volumi, curati da Stefania Romito e facenti parte del progetto “La cultura rende liberi”. Inoltre, le interviste saranno pubblicate anche sul giornale mensile “La Voce dell’Alto Verbano”, offrendo così una finestra autentica e profondamente umana sulla realtà carceraria e sulle sue voci troppo spesso dimenticate. In questo bilancio finale, Stefania Romito desidera rivolgere ringraziamenti sinceri e sentiti. Un grazie speciale va alla Direttrice Dott.ssa Patrizia Delfino, donna dalla straordinaria forza di carattere e dalla profonda umanità, la cui sensibilità e dedizione hanno reso possibile la realizzazione del progetto in un clima sereno e accogliente. Un sincero ringraziamento va alle educatrici e in particolare alla Dott.ssa Anna Misiti, alla Dott.ssa Gemma Delfino e alla Dott.ssa Alessia Battaglia, per la loro presenza costante, la loro professionalità e la loro preziosa vicinanza ai detenuti. Un grazie riconoscente va agli agenti di polizia penitenziaria, che con disponibilità e collaborazione hanno garantito il corretto svolgimento di ogni incontro. E un pensiero speciale va a Pino Cerullo, volontario da molti anni, che insegna ai detenuti l’arte della ceramica con passione, pazienza e generosità. Il suo contributo rappresenta un esempio concreto di come la bellezza possa nascere anche nei luoghi più difficili. Il ringraziamento più grande è rivolto ai detenuti, protagonisti veri di questo percorso. Con il loro impegno, la loro sincerità e la volontà di raccontarsi, hanno dimostrato che la cultura può diventare uno strumento di libertà interiore e di riscatto. Il progetto ha confermato che la parola può aprire varchi, restituire dignità al tempo e accendere nuove possibilità. La speranza, ora, è quella di proseguire il cammino con un nuovo ciclo di incontri, continuando a condividere emozioni e riflessioni attraverso altri protagonisti della storia della letteratura: voci che ci hanno donato molto e che possono rappresentare una luce preziosa per coloro che vivono in un ambiente coercitivo. Perché la cultura - come ricorda Stefania Romito - “rende liberi non solo chi legge o scrive, ma anche chi ascolta, chi accompagna, chi crede nella rinascita possibile di ogni essere umano”. Orvieto (Pg). “Io non sono qui”, la nuova serie di podcast sul carcere di Radio Orvieto Web di Angelo Palmieri orvietonews.it, 24 novembre 2025 C’è un contatore che gira in silenzio, lontano dai talk show: è quello dei suicidi in carcere. Da anni la cronaca restituisce un sistema penitenziario in affanno, sovraffollato, dove lo spazio si restringe, l’aria manca e la violenza cresce, rivolta contro gli altri o contro se stessi. Dentro questo orizzonte di crisi strutturale si inserisce una storia piccola, nata a Orvieto ma dal respiro più ampio. Un’esperienza che prova a scalfire l’idea di carcere come discarica sociale, come “istituzione totale” - direbbero Goffman e Foucault - che separa, isola, neutralizza non solo i corpi ma anche le parole. Ha un titolo semplice: “Io non sono qui”, la nuova serie di podcast di Radio Orvieto Web che ha portato i microfoni dentro la Casa di Reclusione, affacciata sul centro storico, incastonata nel tufo, a pochi metri dalle stesse vie attraversate ogni giorno da turisti e residenti: il carcere non come altrove, ma come parte viva del territorio. Una cena, un terrazzo, una domanda - L’idea non nasce in un ufficio ministeriale, ma su un terrazzo di Orvieto, dopo cena. Andrea Caponeri, insegnante e voce di Radio Orvieto Web, reduce dal podcast “Busso co’ le piede” realizzato con Emilio Burli durante la campagna elettorale, si ritrova in quel clima di ascolto e relazione generato da conversazioni informali con i candidati sindaco. È lì che Selia Castellani, counselor, racconta la sua esperienza in struttura: colloqui, percorsi, frammenti di umanità intravisti nelle sezioni. A un certo punto nasce la domanda che accende il progetto: “Perché non facciamo qualcosa di simile con le persone detenute, ma dentro?”. Non un reportage sul crimine, ma un microfono portato dove la parola è sorvegliata e spesso fraintesa, per raccontare la Casa di Reclusione di Orvieto come frammento vivo della città. Da marzo l’idea prende forma, fino all’incontro con Paolo Maddonni, responsabile del settore educativo e formativo: la proposta viene accolta e quella porta si apre, fisicamente e simbolicamente. Dal reato alla persona: “Chi sei?” - La prima scelta - profondamente politica, nel senso alto del termine - è metodologica: il focus non è il reato, ma la persona. Non: “Che cosa hai fatto per essere qui?”, bensì: “Chi sei?”. Da questo cambio di sguardo discende tutto. Le persone private della libertà non sono figuranti di un racconto già scritto: diventano co-autori. Partecipano alla costruzione del dialogo, decidono cosa raccontare, con quale tono, quali frammenti di sé consegnare a quella capsula sonora che uscirà dalle mura per arrivare agli auricolari della città. Si comincia in piccolo: sette, otto persone. Poi il passaparola: le voci diventano una ventina. Nei mesi estivi Selia entra in carcere, incontra, spiega, rassicura. Il podcast viene presentato non come indagine, ma come opportunità: prendersi, per una volta, il lusso di essere ascoltati senza essere interrogati. Quando le puntate prendono forma, entra in scena il lavoro di Caponeri: montaggio, silenzi, una cornice sonora che non copre ma accompagna. Ogni episodio, prima di andare in onda su Radio Orvieto Web, viene fatto riascoltare alla persona protagonista. Non è solo una formalità: è un momento di verità. Sentire la propria voce “da fuori” significa spesso riconoscersi o scoprirsi di nuovo. Finora le reazioni - raccontano - sono di sorpresa, entusiasmo, commozione. Sapere che “là fuori” qualcuno tende l’orecchio a quelle storie, per chi vive in una cella, è già un varco simbolico: il muro non crolla, ma viene attraversato. Orvieto come isola (relativamente) felice - Nel quadro di un sistema penitenziario nazionale segnato da sovraffollamento, suicidi e aggressioni, la Casa di Reclusione di Orvieto viene descritta dagli stessi detenuti come una “isola felice”: un istituto a custodia attenuata che negli anni ha investito in formazione e percorsi di reinserimento. Ma nessuna isola è davvero separata dal mare che la circonda. La relativa qualità del contesto locale non cancella la natura di fondo dell’istituzione né la fragilità di un impianto penitenziario che continua a oscillare tra retorica rieducativa e logiche securitarie. Per questo l’apertura della Direzione e del settore educativo alla proposta di un podcast va letta come un segnale prezioso, quasi controcorrente, dentro un sistema spesso ripiegato sulla sola dimensione custodiale. “Io non sono qui” diventa così un atto di resistenza civile: non contro l’istituto di Orvieto, ma contro l’idea di pena come fondo del cassetto dove infilare le vite che non vogliamo vedere. Il microfono come gesto riparativo - In questo contesto, “avere voce” non è un vezzo: è un gesto riparativo. Vuol dire, anche solo per mezz’ora di audio, uscire dal fascicolo, dal numero di matricola, dalla condanna e tornare a essere qualcuno con una storia, sottraendosi a narrazioni che inchiodano una vita al reato. Il microfono diventa così uno strumento di libertà simbolica: non riscrive le sentenze né promette redenzioni facili, ma apre una fessura di riconoscimento, un luogo in cui la persona non coincide con la colpa. Dentro il carcere le registrazioni creano spazi di incontro autentico; fuori, chi ascolta non percepisce un “carcere” astratto, ma voci, timbri, esitazioni che restituiscono un’immagine del “dentro” ben diversa dalla sola cronaca nera. Radio Orvieto Web e la politica dei margini - Al centro di tutto questo c’è una radio di provincia, Radio Orvieto Web, che dal 2008 sperimenta e dà cittadinanza mediatica a ciò che altrove non troverebbe spazio. Il presidente, Giacomo Maria Mencarelli, ascolta ogni puntata in fase di montaggio, suggerisce, corregge: una forma di “controllo qualità” che non è censura, ma cura artigianale. Il logo del podcast è firmato da Walter Leoni, illustratore e fumettista da anni sulle pagine di Linus: un tratto laterale ma preciso, che sposta lo sguardo anche visivamente. È un piccolo ecosistema di competenze, affetti, militanza culturale. E dice qualcosa di importante anche per Orvieto: non servono grandi budget per incidere sull’immaginario sociale. Servono alleanze tra chi, in un territorio, decide che il “dentro” non è un altrove, ma un frammento della comunità cittadina. Le prossime brecce e una domanda che resta - L’esperienza non si considera affatto conclusa. Andrea e Selia immaginano nuove “brecce”: dare parola anche agli agenti di custodia, per raccontare la fatica di chi vive “dentro” dall’altra parte del corridoio; costruire un filo diretto tra dentro e fuori, con domande dei cittadini a cui rispondano le persone detenute; forse, un giorno, lasciare che qualcuno di loro faccia davvero il DJ per una sera, lanciando brani e pezzi di vita dal carcere. Non sarà semplice - serviranno autorizzazioni, risorse, alleanze - ma il solo fatto che queste idee circolino dice che l’istituzione totale comincia a misurarsi con pratiche che aprono varchi piccoli e tuttavia reali. In un Paese in cui del carcere si parla quasi solo davanti a una rivolta o a un suicidio, un podcast nato su un terrazzo di Orvieto è già una forma di politica concreta, che passa più dai gesti che dai decreti. Se il carcere è davvero una cartina di tornasole della nostra democrazia, ciò che accade nella struttura penitenziaria non è solo una “bella storia” locale, ma anche un test su di noi: su quanto siamo ancora capaci di ascoltare chi è stato espulso dal consesso sociale e su quanto vogliamo che la struttura resti solo un luogo di segregazione o possa diventare, pur tra mille limiti, uno spazio in cui si organizza almeno un frammento di futuro. Un podcast, da solo, non cambia il mondo; ma in un meccanismo che produce afonia sociale, ogni timbro che riesce a bucare il muro è già una forma di disobbedienza. Forse è da qui - da una radio di provincia, da un carcere nel cuore di Orvieto, da una cena fra amici su un terrazzo - che può ripartire un’idea di giustizia meno spettacolare e più umana. A partire da una domanda semplice, che continua a risuonare dentro e fuori le mura: “Chi sei?”. Roma. “Un mondo alla rovescia”, il nuovo Hyperlocal racconta il carcere di Rebibbia unfoldingroma.com, 24 novembre 2025 Dal 28 novembre al 18 dicembre, in occasione del Giubileo dei Detenuti, La piattaforma editoriale torna con un nuovo progetto dedicato al polo penitenziario più grande d’Italia. Una città nella città. Un quartiere nel quartiere. Un polo penitenziario che è il più grande d’Italia, con una sezione femminile tra le più grandi d’Europa. Ogni giorno qui si svegliano in oltre duemila tra detenuti e detenute, e centinaia sono le persone che, sempre ogni giorno, escono ed entrano per lavoro, assistenza o per visitare i propri familiari rinchiusi. Hyperlocal, la piattaforma editoriale che da quattro anni racconta le comunità, i luoghi simbolici e le scene, culturali e artistiche, dei quartieri di diverse città del mondo, in occasione del Giubileo dei Detenuti torna dal 28 novembre al 18 dicembre 2025 con un nuovo progetto dedicato a Rebibbia, quartiere romano segnato lo scorso 26 dicembre dall’apertura straordinaria di una quinta Porta Santa dal Pontefice Francesco proprio all’interno del carcere. Hyperlocal dedica a questo polo penitenziario un numero speciale del suo Magazine, raccontandone la quotidianità e le infinite storie che lo hanno attraversato e continuano ad attraversarlo, grazie a un nutrito gruppo di scrittrici e scrittori, fotografe e fotografi, che hanno firmato testi e immagini. Frutto soprattutto di un lavoro portato avanti all’interno del Nuovo Complesso, uno dei quattro istituti che compongono il polo di Rebibbia, insieme a un gruppo di diciassette detenuti che in due mesi di attività sono diventati parte integrante della redazione, Hyperlocal Rebibbia narra di un “Mondo alla rovescia” le cui dinamiche sono tanto simili quanto diametralmente opposte rispetto a quelle che intercorrono tra i cittadini liberi. Una diversità nella somiglianza che genera continui cortocircuiti e impone riflessioni e domande. Il magazine nato da questa esperienza sarà ospitato eccezionalmente nel Nuovo Complesso in occasione del Giubileo dei Detenuti, fissato per domenica 14 dicembre 2025, all’interno dell’area verde che costeggia la Porta Santa e la Chiesa del Padre Nostro. I suoi contenuti potranno così essere fruiti dall’intera comunità che popola il carcere di Rebibbia e, in primis, da coloro che hanno contribuito alla loro realizzazione attraverso le attività progettuali attivate da Hyperlocal all’interno del penitenziario stesso. I 120 poster che lo compongono saranno anche affissi su 20 tabelle metalliche e removibili nello slargo antistante la fermata della Metro B Rebibbia, una mostra a cielo aperto che costruisce un ponte in primis tra detenuti e la popolazione del quartiere che affolla questo tratto di Tiburtina ogni giorno. Hanno partecipato alla realizzazione del magazine con i loro testi Isabella De Silvestro, Federica Delogu, Christian Raimo, Nicolò Porcelluzzi, Alice Sagrati, Elisa Cuter, Graziano Graziani, Emilia Agnesa, Silvia Basile, le fotografie sono di Stefano Lemon, Lavinia Parlamenti, Guido Gazzilli, Benedetta Ristori. A loro si aggiungono il regista Alain Parroni, che ha firmato il video di presentazione dell’intero progetto, indagando il rapporto tra detenuti e il quartiere di Rebibbia; l’illustratrice Oscar Frosi @matrioscar e numerosi documenti visivi d’archivio di chi ha incrociato il carcere negli anni passati e nei modi più disparati: dai progetti del suo architetto Sergio Lenci, agli scatti di Tano D’Amico e Angelo Turetta, dalle foto di scena del film Fuori di Mario Martone a quelle di Cesare deve morire, pluripremiata pellicola dei Fratelli Taviani; dalle realtà associative e compagnie teatrali La Ribalta e Le Donne del Muro, fino ad arrivare alla corrispondenza originale della detenuta trans Fernanda Farias De Albuquerque, da cui nei primi anni Novanta è nato il romanzo autobiografico Princesa. Hyperlocal Rebibbia sarà inaugurato sabato 29 novembre alle 11.30, in programma anche due appuntamenti pomeridiani, il 4 e l’11 dicembre alle 18:30, all’interno della Casa del Municipio Roma IV “Ipazia di Alessandria” (Viale Rousseau 90), in cui la presentazione al pubblico del magazine Hyperlocal Rebibbia sarà accompagnata da talk tematici e proiezioni. Hyperlocal è una piattaforma editoriale curata da Edizioni Zero che dal 2020 racconta le comunità e le scene culturali e artistiche di rilievo storico, contemporaneo e internazionale localizzate nei quartieri di diverse città del mondo. Hyperlocal Magazine è l’omonimo giornale in formato affissione: una mostra a cielo aperto che coinvolge figure di spicco - autori, scrittori, fotografi, artisti e illustratori - per raccontare, localmente alla città e internazionalmente al pubblico online, storie legate a comunità e scene appartenenti a un quartiere simbolico e ogni volta diverso. Hyperlocal Rebibbia, promosso da Roma Capitale - Assessorato alla Cultura, è vincitore dell’Avviso Pubblico Artes et Iubilaeum - 2025, finanziato dall’Unione Europea Next Generation EU per grandi eventi turistici nell’ambito del PNRR sulla misura M1C3 - Investimento 4.3 - Caput Mundi. Ravenna. Dal carcere a educatore della comunità che lo ha accolto, Daniel Zaccaro si racconta di Michelangelo Zama ilnuovodiario.com, 24 novembre 2025 Al Polo di Lugo due incontri per conoscere e imparare da una storia di rivalsa. Lunedì 24 il primo appuntamento pubblico, il 25 quello riservato alle scuole. “Ero un bullo”. Un titolo breve, ma che parla di sbagli e cambiamenti quello del libro di Andrea Franzoso, scrittore ed educatore, oltre che ex carabiniere, pubblicato nel 2022 per raccontare la storia di Daniel Zaccaro: milanese classe 1992, prima rapinatore di banche poi laureato in Scienze dell’educazione e della formazione, un passato all’istituto penale minorile Cesare Beccaria e al carcere di San Vittore. Un coraggioso cambiamento, avvenuto grazie al sostegno della comunità milanese Kayros del celebre don Claudio Burgio, che verrà raccontato dallo stesso Zaccaro. I due incontri in programma, il primo aperto al pubblico e il secondo riservato agli studenti, avranno luogo nell’aula magna del Polo tecnico professionale di Lugo: rispettivamente alle 15 di lunedì 24 novembre e nella mattinata di martedì 25, con alcune prime del Liceo e con le terze delle scuole medie Baracca e Gherardi. L’iniziativa, patrocinata dal Comune di Lugo, è organizzata dall’associazione di promozione sociale Umana Avventura in collaborazione con il Liceo e il Polo tecnico di Lugo e si inserisce in coda alla mostra Da solo non basto, appena conclusa, curata dalla stessa aps e visitata complessivamente da 74 classi tra scuole medie e superiori: “Abbiamo messo al centro la questione educativa e i ragazzi hanno mostrato grande interesse - racconta Guido Ferretti, presidente di Umana Avventura, che dagli anni ‘90 propone attività culturali e di carattere formativo -. Ora l’invito a Daniel Zaccaro: un adolescente arrabbiato e pieno di domande che commette reati e finisce in carcere minorile. Oggi è educatore della stessa comunità che l’ha accompagnato nel suo percorso e parlerà ai ragazzi di ciò che conta davvero nella vita, portando la sua esperienza”. “Oltre le Sbarre”. La vita in versi di un detenuto immaginario di Cristian Arni consulpress.eu, 24 novembre 2025 È possibile raccontare la poesia da chi vive in condizioni di restrizione? Può la poesia, dar voce a chi voce non ha? Anche in luoghi così bui, cupi e in qualche modo percepiti come remoti, luoghi dove la vita certo non scorre facilmente è possibile parlare di poesia come atto di speranza e fiducia, per questo presentiamo sotto la nuova silloge di Francesco Certo intitolata “Oltre le Sbarre” (Ensemble Poesia, Collana Alter, pagine 120, prezzo 15 euro). Da dove è partito l’autore? Quali sono stati gli interrogativi che si è posto per raccontare la vita in versi di un immaginario detenuto? E’ un tema delicato, difficile, quello della detenzione nei penitenziari italiani, limitandoci alle condizioni di vita (qualcuno dirà: di non vita) dei detenuti per cui non di rado la cronaca riporta le criticità di un sistema imploso: sovraffollamento, reclusione ai limiti della dignità umana che sfociano in atti di violenza e aggressività nei confronti degli altri detenuti; condizioni igienico- sanitarie non sempre ottimali e non ultimo, il numero dei suicidi e spesso ad occuparsi di realtà, spesso rimosse dal nostro quotidiano, sono proprio la letteratura, i romanzi, i dibattiti, le inchieste, i documentari e il Cinema a raccontarci la vita dietro le sbarre”. Una narrazione che ha indagato, e continua a indagare le complessità del sistema carcerario italiano e dei condannati posti in custodia cautelare; che si tratti di letteratura o di opere cinematografiche, sono molti i titoli che vengono alla mente e senza necessità di stilare lunghe liste ci limitiamo a citare il film, “Detenuto in Attesa di Giudizio”, 1971 del grande Nanni Loy, con un indimenticabile Alberto Sordi…ma è possibile portare la poesia dietro le sbarre? Ho domandato a Francesco cosa lo avesse spinto a trattare un argomento così difficile in forma poetica e la sua risposta è stata sufficientemente chiara: “Credo che la poesia serva per emozionare e non lasciare indietro nessuno oltreché per salvare l’anima come dico sempre, ecco che mi pareva necessario dare un senso di speranza a tanti detenuti chiusi nel dimenticatoio della società”, la bellezza delle sue parole mi ha colpito. Ecco allora che da questo e altri interrogativi è nata la sua raccolta che sarà presentata il 26 novembre presso il Mondadori Bookstore, a Piazza Cola di Rienzo, alle ore 18.00. Alla presentazione interverrà Valentina Calderone, garante dei detenuti di Roma Capitale; le letture saranno a cura dell’attore Massimo Wertmuller, presenta il giornalista Michele Plastino. Francesco Certo (Roma, 1970) è giornalista professionista dal 1997. Dal 2003 è Caporedattore di RDS Roma e Dimensione Suono Soft. Ha pubblicato diverse opere poetiche. Con Ensemble ha pubblicato le raccolte Profumo di carta (2024) e Cento poesie d’amore (2025). Com’è la vita in carcere di un detenuto? Come si salva l’anima ogni maledetto giorno che appartiene all’infinita conta dei giorni, tutti uguali, tutti perennemente alla ricerca del vento di libertà? Quali relazioni si instaurano al buio di “quattro metri d’inferno” con gli altri reclusi e con gli agenti penitenziari? Intorno a queste domande Francesco Certo, giornalista di RDS, costruisce la sua nuova raccolta Oltre le sbarre, la diciassettesima della sua produzione. Raccolta naturalmente in versi nella quale le cento poesie indagano sulla psicologia di un detenuto immaginario, che vive soffre respira a fatica, sogna del domani, immagina l’amore non appena potrà uscire di cella. L’uomo ristretto in cella intuisce da subito che la poesia se non può restituirgli la liberà almeno gli consente di non farsi sopraffare dalla disperazione, gli permette di conoscere meglio quella dimensione della vita e sentirsi non inutile nella società. *** “Dammi aria poesia, fammi uscire da qui fammi volare alto sopra i soprusi le angherie gli errori le parole permesse il buio a mezzogiorno la luce artificiale a tutte le ore” è l’invocazione alla forma di scrittura unica capace di elevare l’anima in pena. Spazio anche al dialogo con il secondino per marcarne la differenza nonostante tutto “Di qua si guarda di soppiatto con la prudenza dovuta, di là si sopravvive ormai quasi a tutto. Conterò quanto manca alla vita fuori e tu dovrai invece restare a guardare di soppiatto”. Il potere del chiavistello non basta insomma a spegnere il coraggio e la volontà di reagire ai propri errori. “Non volermene caro secondino, ma la vita fuori mi aspetta”. Oltre le sbarre rappresenta il tentativo di narrare la vita da una posizione sfavorevole e scomoda lasciando comunque la speranza di farcela ugualmente, attraverso la lenta risalita e la convinzione che fuori dal carcere il mondo ti aspetta per dare un’occasione ancora. Pasquale Guadagno: “Io, orfano di madre per mano di padre, ero diventato figlio di nessuno” di Elisa Forte La Stampa, 24 novembre 2025 Oggi ha 29 anni e vive a Udine. Quando ne aveva 14 sua mamma è stata uccisa. E prima di lei sua nonna, da suo nonno. Dopo il baratro, ha scritto un libro che racconta la sua rinascita e la sua battaglia. Da “figlio di nessuno” a testimone. Pasquale Guadagno a 14 anni ha visto la sua famiglia spezzarsi. A 29 sta iniziando una nuova vita. Da quando il 25 aprile 2010 il padre Salvatore ha ucciso sua madre Carmela Cerillo porta dentro di sé la ferita di un dolore indelebile. Lui è anche il nipote di una vittima e di un carnefice: il nonno materno uccise la nonna, lasciando anche sua mamma orfana di femminicidio. Tragedie continuate nel silenzio, nell’abbandono, nelle porte chiuse che lo Stato non ha mai aperto per lui e per sua sorella. “Sì, siamo stati lasciati soli. Quando ho deciso di fare psicoterapia l’ho pagata io, euro dopo euro: ho fatto un mutuo che pago ancora ma è stato il miglior investimento della mia vita”. Dopo il femminicidio, lui e sua sorella vengono affidati alla famiglia paterna. Doveva fare visita al padre in carcere anche se non voleva. “Continuavano ad oltraggiare nostra madre e a giustificare mio padre”, ricorda. “Non potevo accettarlo, sono scappato”. Ma dove vai, a quindici anni? Il baratro lo aspettava: droga, alcol, prostituzione, debiti. “Ho passato dieci anni nell’abisso più profondo”, dice. “Lì ho capito cosa significa davvero essere figli di nessuno”. “Figli di nessuno” è il titolo dell’ultimo libro che Pasquale ha scritto con la giornalista Francesca Barra (Rizzoli). Ora non vuole più mettere al centro le sue ferite: parla per costruire. Con fermezza. “Non vivo più nell’ombra di quello che è successo. È tempo di usare la mia storia per aprire strade agli altri, soprattutto ai giovani”, sottolinea. E lo dice come un impegno, non come un destino. “Dove lo Stato è mancato, ho imparato a stare in piedi da solo”. Sta vendendo il suo bar, il Lux di Udine, la luce che si è acceso da solo e gli ha permesso di rimettere insieme i primi pezzi della sua vita dopo “essersi perso più volte”. La sua nuova direzione è l’associazione “Anime Invisibili”, fondata con la sorella Annamaria per sostenere gli orfani di femminicidio e per entrare nelle comunità, nelle istituzioni, nelle carceri, nelle scuole. Le parole dei ministri Nordio e Roccella - Pasquale ha reagito duramente alle recenti dichiarazioni dei ministri Carlo Nordio ed Eugenia Roccella sui femminicidi e sull’educazione sessuo-affettiva. “Una battaglia che lo Stato continua ad ignorare. Non possiamo permetterci ministri che sminuiscono strumenti che possono salvare vite. Le parole dei ministri Nordio e Roccella sono non solo irresponsabili, ma pericolose”. Rincara: “Sono un’offesa alle vittime reali, a chi vive nelle case distrutte dalla violenza”. Quando entra nelle scuole, negli sguardi di alcuni ragazzi vede qualcosa che riconosce. Ma non si lascia travolgere: usa quelle domande, quelle paure, per costruire dialogo. “Agli studenti non porto una storia triste ma una possibilità: capire. Mi chiedono con gli occhi lucidi: ma anche tu ti nascondevi quando tuo padre picchiava tua madre? Io tremo. Perché loro pensano che sia normale. Come lo pensavo io. Poi capiscono che non lo è. E lì avviene qualcosa: si apre uno spiraglio”. È questo lo spiraglio che Pasquale vuole trasformare in rivoluzione culturale. “Diventano “anime libere” se qualcuno finalmente dà loro un linguaggio”. La sua missione è una: prevenire ciò che lui ha già attraversato. Per Pasquale l’educazione sessuo-affettiva è al centro del cambiamento. “Se avessero insegnato a mio padre l’alfabeto delle emozioni magari la mia famiglia oggi sarebbe intera. Se io avessi ricevuto lezioni di educazione sessuo-affettiva avrei compreso prima e meglio che quello che succedeva nella mia casa non era normale”, afferma. Una battaglia che cambia la legge - Quando, ancora minorenne, ha iniziato a chiedere di trasferire la salma di sua madre dal Friuli Venezia Giulia alla Campania per cremarla e portarla vicino ai loro affetti, suo padre ha potuto opporsi. E lo ha fatto. “Da femminicida decideva ancora il destino della donna che aveva ucciso. Anche da morto, il suo potere continuava, su di lei e su di noi. Una falla legislativa che ho denunciato in tutte le sedi. Quella norma, presto, cambierà”. Il padre Salvatore ha scontato 13 anni di carcere, oggi è libero. Vive a Udine, nella stessa città di Pasquale. Non ha mai chiesto perdono. “Il carcere non gli è servito a cambiare. Non basta chiudere un uomo in una cella. Servono percorsi obbligatori psicologici e rieducativi. Perché chi uccide una donna deve essere chiamato a guardarsi allo specchio, non a passare il tempo aspettando che la pena finisca”. L’ultima frase che Pasquale Guadagno consegna a La Stampa porta addosso una forza nuova: “La mia storia non finisce con quello che ho perso. Inizia con quello che posso costruire”. Il “figlio di nessuno” ha finalmente trovato il suo posto. Ed è un posto che, oggi, serve a tutte e a tutti. Ascoltare figli e figlie. “Nel dolore il loro silenzio è pericoloso” di Daniele Mencarelli Corriere della Sera, 24 novembre 2025 Michela Marzano nel romanzo “Qualcosa che brilla” racconta la fragilità degli adolescenti: i loro sintomi - disturbi alimentari, dipendenze, autolesionismo, fobie sociali - diventano l’unico linguaggio con cui manifestare una sofferenza altrimenti indicibile. Dialogo con uno scrittore-poeta, che i ragazzi li conosce bene. Quello che stiamo vivendo, senza enfasi alcuna, può definirsi senz’altro un tornante della Storia. Gli accadimenti hanno preso a correre in modo sfrenato, sarebbe bello poter dire verso qualcosa di nuovo rispetto all’umanità e ai suoi cicli. Invece no. Dal genocidio a Gaza alla guerra in Ucraina, come per un maleficio invincibile, l’uomo torna sui suoi passi, cambiano gli scenari, le tecnologie, ma la distruzione sembra punto d’arrivo e partenza inevitabile. Ma non tutte le generazioni hanno pari responsabilità. Guardiamo sempre al nostro presente. A vecchi esaltati dal potere, dalla logica della ricchezza oltre ogni confine morale, fanno da contrappunto le generazioni dei nativi digitali. L’ho scritto tante volte su queste pagine e ovunque mi capiti: solo chi non frequenta i giovani di oggi, chi ne ha una visione derivativa, ideologica, da rete generalista, può averne un’opinione negativa. Al contrario, questi ragazzi sono, loro sì, qualcosa di veramente nuovo, di antropologicamente inedito, per cultura e consapevolezza, per desiderio di complessità. A parlare di loro sono in tanti, perlopiù “addetti ai lavori”, psichiatri, psicologi, e così via. Nulla di sorprendente, sia chiaro. Però, è bello, anzi, bellissimo che a regalare pagine dedicate a questi ragazzi sia questa volta una scrittrice e filosofa. “Qualcosa che brilla” di Michela Marzano è una conferma della sua bravura e della sua capacità di cogliere i dettagli del tempo e dell’esistente... Il romanzo è un lungo piano sequenza dove a essere protagonista è l’ex psichiatra Mauro Rolli, ha abbandonato la carriera medica perché, a un certo punto, ha sentito troppo strette, claustrofobiche, quelle caselle da manuale diagnostico dove inserire a forza i pazienti. Ha fondato a Roma il centro La Ginestra e lì accoglie ragazzi in difficoltà. Li ascolta. Li vede nella loro fragilità assoluta, anche quando non riescono a dire cos’hanno, anche quando le parole si spezzano in gola e la sofferenza è una cappa di buio. C’è Sara, che si rifiuta di uscire di casa. Irene, in guerra continua col cibo. Clara, che ruba. E poi Gianpaolo, Noemi, Sandra, Viola, Luca. Parlare e ascoltare li fa sentire meno soli. E quando serve, Mauro incontra anche i loro genitori. Li aiuta a capire, a non aver paura, ad accettare. Accettazione, parola oggi desueta, come sofferenza. Un libro è vero quando lascia tante domande, e questa è l’occasione buona per farle a chi il libro l’ha scritto. Gli adulti nel libro escono, se non come perdenti, come i veri “bisognosi”, generazioni cresciute a cavallo fra il crepuscolo dell’era analogica e l’avvento di quella digitale, dove si muovono come elefanti rispetto ai loro figli, ma anche incapaci di avere risposte alle domande di chi, più giovane, mostra una curiosità e un desiderio di approfondire la complessità della vita che loro non riescono a soddisfare. Parliamo tanto dei ragazzi, ma come rieducare un adulto alla consapevolezza di sé? Perché questo è il vero tema. “Sì, è proprio questo il vero tema. I ragazzi, in fondo, sono spesso il sintomo dei loro genitori e dei loro insegnanti: ci sbattono in faccia tutto quello che noi, adulti della generazione X, non siamo stati capaci di elaborare. Oggi è raro che gli adulti abbiano ancora figure a cui identificarsi e contro cui ribellarsi, come spiegava Erikson già negli anni Sessanta. Dove sono finiti gli “eroi”? E con “eroi” non intendo modelli perfetti, tutt’altro. Un eroe è chi riesce a riconoscere le proprie fragilità e i propri errori. Figure reali, contraddittorie, fallibili, ma presenti. Perché ciò che conta non è l’idealizzazione, ma la disponibilità a esserci. Tutto comincia lì: nella qualità della relazione che si riesce (o non si riesce) a costruire. In quello spazio fragile e decisivo in cui un adolescente sceglie se fidarsi oppure no, se restare o fuggire. Non si cresce davvero senza essere accolti, ascoltati, riconosciuti. E non si cresce nemmeno senza la possibilità, a un certo punto, di allontanarsi”. Tra tutti i ragazzi che hai raccontato in quale vive Michela? Il tuo punto di osservazione rispetto ai giovani qual è stato? “Michela vive un po’ in tutti loro. Ogni personaggio porta con sé una parte di me, anche se, per la mia esperienza personale con i disturbi del comportamento alimentare, sono soprattutto Noemi e Irene quelle in cui mi riconosco di più. Ma c’è qualcosa di me anche in Claudio, e naturalmente in Mauro Rolli e in Arianna: figure che, in modi diversi, raccolgono e trasformano il dolore. Il mio punto di osservazione, però, non è stato soltanto autobiografico. Da un lato c’è l’università: in Francia i ragazzi arrivano già a 17 anni, quindi ho potuto incontrare molto presto le loro fragilità e i loro desideri. Dall’altro c’è stata l’esperienza nei centri medico-psico-educativi, che in Francia sono molto diffusi: lì ho potuto assistere, con il consenso di tutti, a numerosi gruppi di parola. E poi ci sono i miei vent’anni di psicanalisi: un percorso che mi ha insegnato ad ascoltare e che ha reso l’osservazione partecipante parte integrante del mio modo di stare al mondo”. Dal libro emergono le nuove patologie che affliggono i nostri ragazzi, ma le domande che scatenano queste reazioni patologiche sono domande archetipiche, che l’uomo ha sempre posto a sé stesso e agli altri. Da scrittrice, ma ancora prima filosofa, non ti sembra che uno dei veri problemi di questa epoca sia il progressivo distacco che si è creato fra l’umano e la sua natura? La nevrotizzazione dilagante non nasce forse dal fatto che l’uomo vive di fatto in un analfabetismo esistenziale? “Senz’altro. Credo anch’io che uno dei problemi più profondi della nostra epoca sia il progressivo allontanamento dall’umano nella sua verità più semplice: la fragilità, la finitezza, l’imperfezione. Viviamo in una società che esige performance e controllo, che chiede a ciascuno di essere sempre eccellente, efficiente, impeccabile. Ma questa pressione continua produce alienazione. Perché la condizione umana, in realtà, è fatta di limiti e di mancanze, ed è proprio lì che si radica la nostra capacità di desiderare, di creare, di entrare in relazione. Quando i ragazzi non trovano adulti capaci di trasmettere questa consapevolezza, finiscono per sentirsi inadeguati, come se non avessero il diritto di essere fragili. È allora che il dolore prende la forma del sintomo: un modo, spesso disperato, per dire ciò che non si riesce a esprimere a parole. Quello che manca, oggi, è una sorta di alfabetizzazione esistenziale: la capacità di nominare la sofferenza, di darle un senso, di condividerla. In fondo, le domande che i ragazzi si pongono - sul senso della vita, sulla morte, sull’amore, sull’identità - sono le stesse che l’umanità si porta dietro da sempre. Solo che oggi non trovano più spazi, né linguaggi, per poterle elaborare. La filosofia, la letteratura, la psicanalisi - e in generale tutte le forme di parola autentica - servono proprio a questo: a ricordarci che essere umani non significa essere perfetti, ma imparare ad abitare le nostre fratture senza smettere di cercare”. Si parla tanto di fondo-psicologi e sportelli da aprire in ogni scuola. Giusto. Ma uno sportello filosofi? Uno poeti? Non ti sembra che l’impoverimento linguistico e la riduzione della vita a patologia sia uno dei grandi rischi di questo momento? La medicalizzazione è un dato di fatto, anche perché obbedisce a interessi economici giganteschi... “Sono d’accordo, certo. Il compito di un buon psicologo non è ridurre la vita a una patologia, ma ascoltare e aiutare chi ha di fronte a trovare le parole per raccontarsi e nominare il proprio disagio. In questo senso, il lavoro psicologico è già un lavoro di restituzione di linguaggio. Il problema, però, è che viviamo in un’epoca segnata da un profondo impoverimento linguistico: se mancano le parole per dire le sfumature dell’esistenza, manca anche la possibilità di nominare quello che si prova. È per questo che, accanto agli psicologi, avremmo bisogno anche di filosofi, di poeti, di scrittori. Perché sono loro a custodire le parole che ci aiutano a pensare, a immaginare, a raccontare la vita oltre la griglia delle diagnosi. La medicalizzazione crescente risponde a logiche anche economiche, ed è un rischio enorme: ridurre la sofferenza a un codice, a una categoria clinica, significa spesso togliere a chi soffre la possibilità di essere riconosciuto nella sua unicità. Eppure, è solo attraverso il linguaggio - attraverso parole vere, profonde, non stereotipate - che possiamo riconnetterci con noi stessi e con gli altri. In fondo, la filosofia e la poesia fanno questo da sempre: ci restituiscono un alfabeto per abitare l’esistenza, con le sue contraddizioni e i suoi misteri. Non per guarirci, ma per farci sentire meno soli”. Sentirsi meno soli. In fondo è questa l’aspirazione prima e ultima di ogni essere umano... Una postilla ultima, un breve ritorno al tempo osceno che stiamo vivendo. Alzi la mano chi non trema di fronte alle immagini, alle parole e alle figure che animano la scena internazionale e quello che sembra profilarsi all’orizzonte. Come pensare a un giovane decontestualizzato da questa crisi sistemica? Ci stupiamo della fragilità delle nuove generazioni come se si fosse autogenerata dal nulla, perché ci fa comodo, perché questo ci solleva dalle nostre responsabilità, dalla consapevolezza del mondo che gli lasceremo, questo è la verità che facciamo fatica a pronunciare: rischiamo di lasciare a queste generazioni incolpevoli una terra desolata. E magari avremo anche il coraggio di dire che è stata colpa loro. Violenza contro le donne, la doppia emergenza: cure insufficienti e cicatrici che restano nel Dna di Ruggiero Corcella Corriere della Sera, 24 novembre 2025 Un nuovo rapporto dell’Oms/Europa denuncia la grave inadeguatezza dei sistemi sanitari nella risposta alla violenza contro donne e ragazze, mentre i primi risultati del progetto EpiWE dell’Istituto Superiore di Sanità mostrano come l’esperienza traumatica lasci segni profondi e duraturi, fino addirittura a modificare l’attività dei geni. La violenza contro le donne e le ragazze resta una delle più gravi emergenze sanitarie del nostro tempo. A denunciarlo è il nuovo rapporto dell’OMS/Europa, “Care, courage, change: health-sector leadership in tackling violence against women and girls” (“Cura, coraggio, cambiamento: leadership del settore sanitario nel porre fine alla violenza contro donne e ragazze”), presentato a Madrid. Il documento fotografa una realtà allarmante: “Un sorprendente 28,6% delle donne e delle ragazze nella Regione Europea dell’Oms di età pari o superiore a 15 anni subirà violenza fisica e/o sessuale nel corso della propria vita”. Numeri che confermano l’ampiezza di una crisi diffusa e radicata, e che mettono in luce l’incapacità dei sistemi sanitari di fornire risposte adeguate. Come afferma Hans Henri P. Kluge, direttore regionale dell’Oms per l’Europa: “La violenza contro le donne e le ragazze ha raggiunto livelli di crisi e i nostri sistemi sanitari sono spesso il primo e unico punto di contatto per le sopravvissute”. Servizi essenziali ancora troppo rari - Il rapporto Oms rivela lacune profonde nei servizi sanitari essenziali che dovrebbero essere garantiti in ogni Paese. Su 53 Stati membri, soltanto il 13% offre servizi di aborto sicuro, il 32% la contraccezione d’emergenza e la profilassi post-esposizione all’Hiv, e appena il 38% la profilassi per le infezioni sessualmente trasmissibili o una valutazione della salute mentale. Perfino gli strumenti di segnalazione dei problemi psicologici sono disponibili solo nel 43% dei Paesi. Inoltre, quasi un terzo dei paesi (32%) richiede ancora agli operatori sanitari di denunciare alla polizia la violenza domestica o del partner senza il consenso delle vittime adulte. L’Oms sconsiglia vivamente questa pratica perché viola l’autonomia delle vittime, viola la riservatezza ed è noto che scoraggia le donne dal cercare aiuto. Una situazione che lo stesso Kluge sintetizza così: “I nostri dati mostrano che gli impegni politici per proteggere la salute e il benessere di donne e ragazze e porre fine alla violenza di genere non si traducono in cure sicure e accessibili. I sistemi sanitari stanno abbandonando le vittime nel momento di maggiore vulnerabilità. I politici devono andare oltre le dichiarazioni di facciata e attuare pienamente il pacchetto di cure raccomandato dall’Oms, in particolare i servizi post-stupro urgenti e l’accesso all’aborto sicuro”. Dove si vedono spiragli - Non mancano, però, elementi di progresso. Il 75% degli Stati membri ha introdotto politiche per la formazione degli operatori sanitari, mentre oltre due terzi (68%) prevedono ora un supporto di prima linea composto da ascolto empatico e non giudicante. Tuttavia, la difficoltà nel rendere obbligatorio l’intero pacchetto di servizi essenziali rischia di frenare i progressi. Lo ricorda Melanie Hyde, autrice del rapporto Oms e responsabile tecnica per le questioni di genere, uguaglianza e diritti umani dell’Oms/Europa: “Come persona che ha lavorato a stretto contatto con i sopravvissuti per molti anni, e come sopravvissuta io stessa, so quanto sia fondamentale che ogni parte del sistema sanitario risponda con compassione e competenza. Sappiamo che le vittime ricorreranno ai servizi sanitari, anche se non rivelano la violenza. Ecco perché è così importante che gli operatori conoscano le diverse forme di violenza e come reagire in modo non giudicante”. E aggiunge: “Anche solo sentirsi dire “Credo in te e sono qui per aiutarti” può fare molto nel processo di guarigione”. L’urgenza di cambiare rotta - Secondo l’Oms/Europa servono tre azioni immediate: rendere obbligatorio l’intero pacchetto di servizi essenziali, rimuovere gli ostacoli che compromettono l’autonomia delle vittime e investire risorse per l’implementazione. Un impegno che alcuni Paesi stanno già assumendo. La ministra della Salute spagnola, Mónica García, spiega: “Abbiamo cercato di fare dell’assistenza sanitaria di base uno degli strumenti chiave per identificare la violenza e offrire supporto adeguato”. E sottolinea l’importanza di “rafforzare lo screening sistematico, la formazione specializzata e il coordinamento con le risorse giudiziarie, forensi e sociali”. Una sopravvissuta del Regno Unito ricorda cosa significhi essere al centro delle politiche sanitarie: “Credo di avere il diritto di essere al sicuro, di non essere ferita raccontandovi cosa mi è successo […] di essere trattata con compassione e rispetto”. Le cicatrici invisibili sul Dna: il progetto EpiWE - Se l’Oms denuncia carenze strutturali, l’Italia contribuisce alla comprensione delle conseguenze biologiche della violenza con il progetto EpiWE, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità e finanziato dal Ministero della Salute. I primi cento campioni di sangue raccolti mostrano che oltre la metà delle vittime presenta disturbi post-traumatici, il 23% sintomi depressivi e il 32% un alto rischio di subire nuovamente violenza. Il progetto indaga gli effetti epigenetici dello stress traumatico, ossia quelle modificazioni dell’attività dei geni che non alterano la sequenza del Dna ma ne modificano il funzionamento. “La violenza domestica lascia tracce epigenetiche che modificano l’espressione dei geni”, spiega Simona Gaudi, responsabile del progetto per l’Iss. “Studiare queste modificazioni potrebbe permetterci di predire gli effetti a lungo termine della violenza e sviluppare interventi preventivi personalizzati”. Una mappa dettagliata delle conseguenze - I dati raccolti finora su 76 vittime delineano un quadro tanto drammatico quanto fondamentale per comprendere l’impatto della violenza sulle donne. Il 27% presenta diagnosi di PTSD e il 28,4% di disturbo post-traumatico complesso. La depressione colpisce quasi una donna su quattro. La violenza, nel 90% dei casi, è ripetuta nel tempo; nel 97% dei casi l’aggressore è un uomo e nel 71% un partner o ex partner. Si tratta di numeri che suggeriscono una vulnerabilità ricorrente e di lungo periodo, spesso aggravata da un contesto sociale e familiare complesso. Il progetto, attivo in Lazio, Lombardia, Campania, Puglia e Liguria, prevede anche l’uso del questionario EpiWEAT in cinque lingue, pensato per raggiungere donne straniere e mediatori culturali. Per informazioni o per aderire al progetto EpiWE: epi_we@iss.it. I bambini che assistono alla violenza: il progetto EpiCHILD - La ricerca non riguarda solo le donne: attraverso EpiCHILD, un questionario digitale dedicato ai minori, EpiWE ha raccolto dati su 26 bambini e adolescenti tra 7 e 17 anni. I risultati mostrano che quasi l’80% ha vissuto come traumatico l’aver assistito a violenze fisiche in famiglia. Emergono casi di PTSD complesso e depressione elevata; nel 92,3% dei casi l’aggressore è il padre. Gaudi ribadisce l’urgenza di “screening sistematici nelle strutture sanitarie e nei servizi sociali, interventi multidisciplinari integrati, protocolli di prevenzione personalizzati e monitoraggio longitudinale”. Lo studio proseguirà con follow-up programmati per valutare l’evoluzione dei sintomi e costruire una base dati utile alla ricerca sul trauma transgenerazionale. Il coraggio di agire - A conclusione del rapporto Oms, Kluge lancia un appello netto: “Non possiamo più restare spettatori della crisi di salute pubblica causata dalla violenza di genere. Chi detiene il potere deve ora tradurre gli impegni in azioni concrete e garantire che ogni donna e ragazza riceva cure essenziali salvavita, dignità e possibilità di scelta. Abbiamo le conoscenze necessarie; ora troviamo il coraggio di fare del settore sanitario il primo soccorritore che ogni sopravvissuta merita”. Nei Centri anti violenza tra paghe da fame, vittorie e sconfitte di Melania Petriello La Stampa, 24 novembre 2025 Migliaia di avvocate, assistenti sociali, volontarie e psicologhe fanno fronte a chiamate continue negli oltre 460 centri in Italia: “La pancia del Paese non è ancora cambiata”. Squilla il telefono. Di continuo, a tutte le ore. Nei centri antiviolenza, nelle case rifugio, al numero verde, persino sulle linee private, il tempo è scandito da quel suono. Chi risponde, chi si mette al lavoro quando una donna chiede aiuto? Altre donne. Le operatrici di tutta Italia, migliaia, in più di 460 strutture. Assistenti sociali, avvocate, psicologhe, sanitarie, professioniste, volontarie. Che inforcano occhiali speciali, le lenti di genere: guardare meglio, dare un nome alle cose. E stare, tenere l’albero nel vento, fare rete. Un lavoro continuo e precario - Circa 6 milioni e 400 mila donne italiane tra i 16 ai 75 anni hanno dichiarato di aver subito almeno una violenza fisica o sessuale, dice l’ultima rilevazione Istat, nelle ore in cui camminiamo tra le voci delle donne che sostengono le altre. “Non siamo “parcheggi”, non siamo un servizio di parte, il nostro è un lavoro politico”. Giulia Nanni, 35 anni, è Responsabile dell’accoglienza alla Casa delle Donne di Bologna, realtà radicata nell’atlante del femminismo: 990 accolte solo nell’ultimo anno. “Io resto un’operatrice del centro antiviolenza, sempre”. Vuol dire dietro la scrivania ma anche fuori dalla stanza, dentro il contratto retribuito ma soprattutto quando nessuno conta lo straordinario invisibile. Le pause pranzo non esistono, i cartellini restano un concetto astratto. La violenza, invece, è un fatto. Dimmi che giorno ti aspetta, ogni giorno. “Il centro apre alle 9, dovrebbe chiudere alle 17. Ma non chiude mai. Chiama chiunque: le donne che subiscono violenza, i servizi, i familiari. Facciamo colloqui, scriviamo relazioni, attiviamo competenze territoriali e singole professionalità per sindromi postraumatiche, raccogliamo e analizziamo dati, costruiamo percorsi personalizzati, gestiamo ingressi in emergenza e offriamo sostegno alla genitorialità. A volte le donne arrivano qui con le valigie”. Quanto vale il vostro lavoro? “9,5 euro lordi all’ora, 10,5 per chi ha ruoli di responsabilità”. Contratti precari, in casi speciali, stabilizzazioni. Oltre l’impegno delle volontarie. “E una singola operatrice può gestire fino a 40 percorsi in autonomia nello stesso momento. O diciamo no, o facciamo il triplo del possibile”. Capire che è violenza e poi denunciare - “Parliamo di donne che scelgono di mettere insieme competenza e passione politica”, rivendica Lella Palladino, Vicepresidente della Fondazione UnaNessunaCentomila. Dall’87 si occupa di contrasto alla violenza e questioni di genere, oggi anche della scuola nazionale permanente di operatrici antiviolenza. “Si fatica a capire come funziona la violenza nei contesti di intimità: le donne non riescono a denunciare perché per prime non percepiscono il reato e sono avviluppate in dinamiche relazionali complesse. La tensione, l’esplosione, le remissione. Quel “perdonami, io ti amo”. Tutto questo porta molte a sentirsi parte del meccanismo maltrattante. E poi, i vincoli esterni: il maschile dominante, la mancanza di autonomia economica - più del 70% delle donne che chiede aiuto a un centro non ha una propria indipendenza - e uscirne è difficile. Per le migranti un doppio svantaggio. Ma il coro non lo sa”. E allora, come si cura? “Costruendo alleanze tra esperienze vecchie e nuove, riconoscendo la pluralità: è il nostro dovere. Abbiamo rotto il muro del silenzio, ma non è cambiata la pancia del Paese”. La giustizia sociale nei beni confiscati - Daniela Santarpia presiede la Cooperativa Eva, un’organizzazione strutturata, in Campania dal ‘99, che promuove spazi di contrasto alla violenza e di giustizia sociale anche nei beni confiscati. “La libertà passa per il lavoro. Noi dedichiamo molto ai percorsi di reinserimento lavorativo, che significano una vita nuova”. È una lotta quotidiana? “Il nemico invisibile è il sistema: l’assenza di una vera protezione, la mancata applicazione delle leggi, la parcellizzazione dei fondi che non offre garanzia di continuità. Ci sono stati anni in cui abbiamo pensato di chiudere tutto, per mancanza di liquidità e ritardi nei pagamenti”. E in questi casi cosa fate? “Fideiussioni personali, per poter pagare gli stipendi e tenere aperti i servizi. Chi lavora, come noi, in una cooperativa sociale sa che deve esporsi in prima persona. Con i nostri beni, con le nostre case”. Mai senza pensieri. “I percorsi sono così lunghi e complessi che, più competenze ci sono, più ne servono”, dice Denise Milani, responsabile dell’accoglienza di SVS Donna Aiuta Donna di Milano, nata dalla pionieristica Alessandra Kustermann, che nel ‘96 aprì il primo centro pubblico per le vittime di violenza sessuale e domestica. “Essere in tante aiuta a darsi forza reciprocamente, perché a volte il senso di sconfitta porta all’esasperazione. Dobbiamo arrenderci a una verità scomoda: quante volte mi sono detta “lei deve laurearsi”, “con quella intelligenza potrebbe tutto”, ma era il mio progetto, non il suo”. E allora? “Imparare a gioire delle piccole vittorie. Una donna che riesce a portare da sola il figlio a scuola? Eccolo: il successo del lunedì”. Incontri che cambiano la vita - L’incontro epifania, per Maria Pia Vigilante, giurista e voce della storica Associazione Giraffa di Bari, è avvenuto nelle aule di giustizia, primi anni novanta. Una giuslavorista che si trova ad ascoltare il rosario di violenze denunciato dalle donne delle famiglie di mafia. Quel potere criminale fondato su possesso, controllo e silenzio che Celeste Costantino racconta con zelo oggi in Predatori. Sesso e violenza nelle mafie. “Subivamo una guerra anche noi avvocate, era la caccia alle streghe. Fino ad allora non mi ero mai confrontata con la violenza vera, quelle testimonianze hanno segnato il confine della mia storia. All’epoca avevamo solo un centro per donne maltrattate ma sul quel terreno abbiamo costruito tanto. Case, progetti, sportelli, percorsi culturali. Facemmo i primi spot, su Telenorba, per parlare della tratta. Eravamo terra di sbarco e dall’Albania ci chiamavano le madri delle ragazze sparite nel girone dello sfruttamento della prostituzione”. Cosa hai visto cambiare sotto ai tuoi occhi? “La coscienza civile”. Qual è il pericolo di oggi? “La trappola di internet, ci finiscono inghiottite le giovanissime ma lo capiscono quando è troppo tardi”. Cosa ti resta? “Non dimentico mai dove siamo nate”. Il ruolo degli uomini - Quanto conti la radice, lo sa Federica Scrollino, operatrice di BeFree, la cooperativa fondata nel 2007 con una vocazione al transfemminismo intersezionale, che gestisce case rifugio in Abruzzo, Molise, Umbria, Lazio. Nel cui impegno si sente forte la eco della fondatrice Oria Gargano, morta pochi giorni fa e compianta dalle compagne di tutt’Italia. “Dopo un’esperienza di ricerca in Brasile, capisco di volermi dedicare a questo. Oggi mi occupo di sensibilizzazione e formazione. Solo quando lavori in un centro capisci le dimensioni della violenza, quanto è pervasiva, quale voglia di rivoluzione ci prenda”. Come si gestisce l’eredità delle grandi madri? “Conservando le pratiche, non ci sono dettati. Il femminismo ci lascia una postura nel mondo”. Nessuna esclusa. “Gli uomini devono decidere se mettersi nel solco di questo cambiamento. E farlo presto”. Militanza, competenza, dedizione. Un manifesto umanissimo. “Quando una sorella dice “ti posso abbracciare?” so di aver fatto la mia parte. L’unica cosa che non ha prezzo”. “Scusa, devo andare”, dicono tutte. Squilla il telefono. La presidente dei Rettori: “Su affettività e sessualità c’è un vuoto educativo che va colmato” di Elisa Forte La Stampa, 24 novembre 2025 Laura Ramaciotti, da settembre guida il Crui: “Una società più consapevole passa dalla scuola. Il rispetto non è un optional. Da studentessa e fino ad oggi per fortuna non ho subito violenze fisiche ma discriminazioni sì. Verso di noi c’è sempre una barriera di diffidenza. Pensi che quando 4 anni fa mi sono candidata a rettrice all’Università di Ferrara qualche collega ha avuto il coraggio di dire “non so se riuscirò a votare una donna”. Le donne devono ancora fare sempre uno sforzo in più per dimostrare di saper fare”. Da due mesi è la Magnifica d’Italia: qual è la linea strategica della Crui nel contrasto alla violenza di genere? “Nella Crui esiste una Commissione tematiche di genere (la responsabile è Giovanna Spatari, rettrice dell’Università di Messina) che da anni ha elaborato un modello di Bilancio di Genere e un’indagine annuale sul tema della violenza di genere (l’ultima a novembre 2024). Inoltre, la Crui affianca e promuove la campagna “Posto Occupato” (a teatro e cinema) ed è uno dei promotori del progetto Rai “No Women no Panel”“. Come giudica l’assenza in Italia di percorsi organici di educazione sessuo-affettiva, diffusi in almeno 20 Paesi europei e quale contributo possono offrire le Università per colmare questo vuoto formativo? “Colmare questo vuoto educativo è urgentissimo: una società più consapevole nasce solo quando si lavora insieme per formare cittadini capaci di rispetto, empatia e responsabilità. Le università collaborano con le scuole per dare continuità alla “filiera educativa” che però non è l’unica “agenzia” che forma alla convivenza sociale. Lo sforzo deve anche essere quello più ampio della disapprovazione condivisa e manifesta di alcuni comportamenti: cambia le mentalità”. Quali misure possono radicare una cultura del rispetto nei campus e contrastare comportamenti violenti o sessisti? “Le università sono istituzioni autonome ma l’urgenza del tema impone di sentire questa battaglia come propria: il rispetto deve essere un pilastro culturale, non un optional. Gli sportelli di ascolto e counseling sono presenti nell’80% degli atenei mentre i centri antiviolenza solo nel 25%. Questo mi sembra un primo punto su cui lavorare per mettere a disposizione maggiori presidi”. Gli interventi a sostegno di vittime di abusi e orfani di femminicidio sono frammentari, non esiste un modello nazionale unico, perché? “La difformità è figlia dell’autonomia decisionale che non è un disvalore. Spesso produce soluzioni inaspettate che si possono condividere. D’altra parte, nessuno conosce meglio di una università quali sono gli interventi necessari a prevenire o sanare situazioni che avvengono all’interno delle proprie mura. Detto questo, sono d’accordo con lei che un quadro coerente e condiviso è sempre utile. Le attività della Crui su questi vanno in quella direzione. È prevista l’introduzione di protocolli nazionali uniformi, rapidi e vincolanti per segnalazioni, indagini interne e tutela delle persone vulnerabili negli atenei e per garantire ascolto e tempi certi di intervento in casi di violenza o discriminazione? “È una necessità di buon senso: quando c’è una vittima, la cosa più importante è garantire ascolto, protezione e tempi certi. Su questo non si può rallentare. Stiamo lavorando in sinergia con il Mur per condividere le best practice e costruire modelli di intervento condivisi, ma le università sono enti autonomi. Esiste poi la legge dello Stato alla quale anche le università devono fare riferimento”. Quale ruolo attribuisce agli studenti maschi nella costruzione di una cultura non violenta e corresponsabile, e come le università possono coinvolgerli in questo processo? “Renderli protagonisti del cambiamento è indispensabile se vogliamo davvero costruire una società più giusta e libera dalla violenza. Per sradicare i comportamenti tossici è soprattutto sugli uomini che bisogna esercitare le leve educative e dissuasorie. In Crui lavoriamo costantemente, per fare un esempio, perché i delegati rettorali alle tematiche di genere non siano necessariamente donne, come fin troppo spesso accade”. Che cosa si sente di dire a una generazione che trova nelle parole di Gino Cecchettin un esempio più incisivo di molte istituzioni? “Che il cambiamento è possibile solo se ciascuno decide di farne parte: la battaglia contro la violenza è la più importante che abbiamo, e riguarda ogni giorno, ogni gesto, ogni relazione”. Migranti. Accoglienza e sicurezza, se la scuola è impreparata di Gianni Oliva La Stampa, 24 novembre 2025 “La scuola è il principale strumento di integrazione”, si legge da più parti. Tutti d’accordo. Ma la scuola non è il “banco alimentare”, dove la buona volontà dei volontari e la generosità dei donatori possono fare la differenza. La scuola è un’istituzione complessa, con parti che si integrano l’una con l’altra, dove l’indole positiva dei singoli non basta: la scuola ha bisogno di programmazione, di articolazione, di aggiornamento. In tempo di migrazioni, la scuola che integra non può essere la stessa scuola di prima aperta ai nuovi arrivati. Deve essere una scuola rinnovata. E senza pensare a improbabili rivoluzioni copernicane, qualche intervento si può fare: per esempio, a partire dall’insegnamento della lingua. Conciliare “sicurezza” e “accoglienza”: come scrive nell’editoriale di ieri il direttore Andrea Malaguti, guardando alla realtà di Torino, i due aspetti sono disgiunti. Sarebbe una constatazione ovvia se la politica non soffiasse in direzione opposta, con la clava dei respingimenti e dei Ctp contrapposta al “buonismo” facile di chi nulla conosce della vita in “barriera” perché abita in collina o in Ztl. Ma, si sa, quando la politica è vuota di progetti, si nutre di populismi, a destra come a sinistra: perché è populismo dire “rimandiamoli a casa loro”, ma lo è altrettanto dire “accogliamo tutti a prescindere”. Non è la prima volta che Torino affronta il fenomeno migratorio. È accaduto, in termini quantitativamente ben più rilevanti, negli anni del “boom economico”, quando i 700mila abitanti del 1951 sono diventati il milione e 400mila del 1971 e i borghi rurali dintorno (Nichelino, Settimo, Venaria, Grugliasco, Collegno) sono stati risucchiati nell’area metropolitana. Anche allora diffidenze e veleni da una parte, buone intenzioni dall’altra. A risolvere il problema è stato il benessere di quegli anni, la possibilità di trovare in tempi ragionevoli un lavoro dignitoso, gli interventi delle amministrazioni per garantire case popolari, ospedali, scuole. Vorrei dire, “soprattutto scuole”. La mia era una famiglia piemontese da sempre, cattolica praticante, che però mi raccomandava di non andare a giocare vicino al Casermone di Via Verdi (dove oggi c’è l’Università) perché lì era pericoloso, era un Centro di prima accoglienza e “c’erano i figli dei terroni”. Ma i “figli dei terroni” erano i miei compagni di banco, irpini, calabresi della Locride, salentini: stessi banchi, stessi libri, stesso oratorio dell’Annunziata in via Sant’Ottavio, stessi calci al pallone. È la scuola che ci ha insegnato ad essere uguali. Oggi sono differenti la congiuntura economica, le prospettive di lavoro, le condizioni dei Comuni (che hanno più debiti che risorse). Ma la scuola può ancora svolgere un ruolo importante, a condizione di adeguarsi ad una situazione di emergenza. In primo luogo, le risorse umane: nei quartieri marcatamente multietnici bisogna che il numero di alunni per classe sia più contenuto rispetto ai parametri generali. Per i maestri si tratta di amalgamare nel gruppo-classe culture, tradizioni, linguaggi differenti. Non è pensabile che a farlo siano le stesse unità di personale che operano in realtà omogenee e aggregate. In secondo luogo, bisogna offrire corsi di lingua per chi arriva in città in fasce di età più alte, siano essi adolescenti da iscrivere alle scuole superiori, o siano essi adulti da formare in corsi serali. Pretendere il rispetto delle regole e delle leggi è sacrosanto: ma è altrettanto imprescindibile veicolare lo strumento linguistico che permette la conoscenza di ciò che va rispettato. In terzo luogo, bisogna formare i docenti. Insegnare l’italiano agli italiani è cosa assai diversa che insegnare l’italiano ad uno straniero: cambiano l’approccio, la metodologia, la tempistica. Non si può attingere alle graduatorie dei laureati in Lettere e affidare un incarico di questa specificità. Stati Uniti. Antoinette è stata condannata a morte 29 anni fa. L’abbiamo incontrata di Elena Molinari Avvenire, 24 novembre 2025 In Louisiana è l’unica donna in lista per l’esecuzione. “Non posso restituire la vita a chi l’ho tolta, ma posso cambiare la mia. Durante l’isolamento il silenzio fa più paura delle urla”. Quando la porta di metallo si apre, Antoinette Frank entra nella piccola sala colloqui trascinando i piedi. Le caviglie sono unite da una catena che la costringe a muoversi a passi minuscoli. Eppure non vacilla. Da trent’anni quelle maglie le stringono la pelle ogni volta che lascia la cella, tranne per la doccia. Ha avuto il tempo di abituarsi. Un agente aggancia le manette a una barra che attraversa il tavolo di metallo e Antoinette è obbligata a tenere le dita intrecciate e i polsi sollevati, in gesto di perenne supplica. Si sistema sulla sedia e sorride. Nonostante qualche ciuffo bianco, sembra più giovane dei suoi 54 anni. La camicia blu delle carcerate nel penitenziario femminile di Saint Gabriel, in Louisiana, è fresca e stirata. Lo sguardo è mite, le spalle prendono velocemente la postura di chi è abituato a occupare meno spazio possibile. Guardandola, è difficile credere all’immagine che lo Stato della Louisiana ha mostrato di lei per quasi tre decenni: quella di una criminale spietata coinvolta nell’omicidio di tre persone. Una storia terribile che nel 1995 segnò la comunità vietnamita di New Orleans. Ma anche una storia raccontata a metà. Oggi Antoinette è la sola donna nel braccio della morte della Louisiana e la prossima in lista per l’esecuzione. Cinquanta organizzazioni contro la pena di morte hanno chiesto alla Commissione per la concessione della grazia e della libertà condizionale dello Stato di commutare la sua condanna in ergastolo. Non negano la responsabilità di Antoinette, ma invitano a guardare l’intero arco della sua vita: “Una giuria pienamente informata - scrivono - non l’avrebbe mai condannata a morte”. Antoinette lo ripete, con voce sottile e le vocali strascicate degli Stati del Sud: “Vorrei solo che vedessero la persona che sono oggi e quella che non ho potuto essere prima”. Secondo documenti clinici e testimonianze raccolte dalla difesa negli anni successivi al processo, Antoinette è sopravvissuta a un’infanzia che gli esperti definiscono “psicologicamente catastrofica”. Suo padre, reduce del Vietnam con un grave disturbo post-traumatico, trasformò la casa in un posto dove la paura era costante: raptus violenti, animali di famiglia uccisi, tentativi di avvelenamento con il gas. “Costringeva me e i miei fratelli a restare per ore sui binari del treno”, ricorda Antoinette. Le cartelle sanitarie dell’epoca raccontano che, quando aveva due anni, il padre, che già la picchiava, tentò di strangolarla. A nove iniziò l’abuso sessuale; a undici, lo stupro, fino ai vent’anni, sempre da parte del padre, che portò a tre gravidanze, tre aborti forzati e quattro tentativi di suicidio. Quando la madre fuggì con tre dei quattro figli, Antoinette fu l’unica a rimanere. “Era come se fossi il prezzo da pagare perché gli altri potessero scappare”, dice oggi, senza lacrime. In quelle condizioni, spiegano gli psichiatri, la giovane sviluppò sintomi di dissociazione e una vulnerabilità estrema alla manipolazione da parte di uomini violenti. Come Rogers LaCaze, il giovane spacciatore che Antoinette cercò di “salvare” non appena riuscì a diventare agente di polizia e che, secondo numerose testimonianze, il 4 marzo 1995 irruppe nel ristorante Kim Anh dove Antoinette stava parlando con i dipendenti, uccise un agente di polizia e puntò una pistola alla testa di Antoinette, ordinandole di uccidere due dei figli del proprietario. Durante il processo, nulla di questo fu presentato alla giuria. Nessuna voce raccontò gli anni di torture. La difesa non chiamò testimoni: un’assenza che il giudice della Corte Suprema della Louisiana, Pascal Calogero, definì anni dopo “un difetto fatale”. La giuria discusse per meno di 45 minuti prima di condannarla a morte. Oggi due dei giurati hanno firmato dichiarazioni in cui sostengono che “se avessimo conosciuto la sua storia, non avremmo votato per la pena capitale”. La fama di killer senza cuore ha seguito Antoinette nel braccio della morte, dove ha trascorso i primi 29 anni in condizioni durissime. “Ho passato mesi di fila in isolamento, sono stata trasferita fra diverse unità disciplinari - spiega - e non mi hanno mai offerto corsi o lezioni”. Le cose sono migliorate solo negli ultimi mesi, da quando è stata trasferita nella nuova struttura carceraria di Saint Gabriel, moderna e luminosa, con linee architettoniche e vetrate che ricordano più un campus universitario che una prigione. “È tutt’un’altra cosa - sottolinea -. Non solo è più pulito, le guardie sono più umane. E sono trattata come tutte le altre”. Johnnie Jones, direttore del penitenziario, la definisce “la detenuta migliore dell’istituto” una “persona che non si lamenta mai, che cerca la tranquillità, aiuta le altre”. Anche senza programmi educativi formali, Frank ha letto molto e dai libri ha imparato “a cucire, a concentrarmi e a pregare, soprattutto nelle ore in isolamento, quando il silenzio fa più paura delle urla”. La fede cattolica, scoperta in carcere, è diventata rifugio e guida grazie agli incontri con Angelo Nola, diacono della diocesi di Baton Rouge, che descrive una “conversione autentica” e una persona “passata attraverso prove inaudite, ma che non ha perso la speranza”. Antoinette parla della sua fede come di un lavoro quotidiano: “La preghiera mi ha permesso di riflettere sul mio passato e di cercare di comprenderlo senza fuggirne - dice ancora - e mi ha anche insegnato ad avere una voce, perché per tutta la vita non mi è stato permesso averne una”. Oggi quella voce è capace di esprimere un rimorso profondo. “Nessuno avrebbe dovuto morire quella notte - sussurra -. Non posso restituire le vite che ho tolto. Ma posso cambiare la mia. Posso essere onesta, utile, umile. Questo è tutto ciò che mi resta da offrire”. Il caso di Antoinette è diventato simbolico in uno Stato che continua a ricorrere alla pena di morte nonostante gravi disparità razziali e sociali. I numeri parlano chiaro: 42 dei 57 condannati a morte in Louisiana neri; 23 presentano disabilità intellettiva. Nove sono stati esonerati negli ultimi 24 anni. Il caso di Antoinette si inserisce in questa storia di disuguaglianze e in un quadro nazionale in cui il 96% delle donne nel braccio della morte è sopravvissuta a violenze gravi e ripetute. La sua udienza di clemenza è fissata per il 16 dicembre e potrebbe essere l’ultima occasione per fermare una macchina giudiziaria affamata di punizione. Il nuovo governatore dello Stato, il repubblicano Jeff Landry, sostiene apertamente l’uso della sedia elettrica e del plotone d’esecuzione e vuole accelerare il più possibile il ritmo delle esecuzioni. Ma ci sono anche voci contrarie. Sandra Babcock, giurista e una delle massime esperte sulle donne nel braccio della morte, è pronta a testimoniare alla Commissione che “è difficile immaginare qualcuno più meritevole di compassione di Antoinette Frank”. Alla fine del colloquio, Antoinette resta seduta, e, alzando gli occhi, timidamente, fa una richiesta, la sola che conta, in realtà: “Scriva che non cerco scuse, ma che vorrei che la mia vita fosse letta nella sua interezza”. In meno di un mese, dieci persone saranno chiamate a farlo, e a decidere se Antoinette Frank debba essere vista come una persona o solo come il crimine che ha commesso. Arabia Saudita. La metropolitana di Riad costruita sfruttando i lavoratori migranti di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2025 Queste persone hanno dovuto pagare tra 700 e 3.500 dollari, indebitandosi a volte per sempre o in altri casi rinunciando a pagare le rette scolastiche per i figli, pur di lavorare. Decenni di sfruttamento del lavoro migrante sono alla base di uno dei progetti infrastrutturali di cui l’Arabia Saudita va maggiormente fiera: presentata come la “spina dorsale” del sistema di trasporti pubblici della capitale, la metropolitana di Riad - recentemente inaugurata - è stata costruita da imprese nazionali e internazionali che, sotto la supervisione delle autorità locali, si sono servite di manodopera straniera sottopagata e costretta a lavorare in condizioni di grande pericolo e con temperature estreme. Quest’accusa è contenuta in un rapporto di Amnesty International che, come spesso accade, mostra il “lato B” della scintillante cartolina che il principe ereditario Mohamed bin Salman esibisce, ottenendo grandi applausi e congratulazioni, al mondo intero (da ultimo al presidente Usa Trump). Lo sfruttamento, come raccontato da 38 lavoratori provenienti da India, Bangladesh e Nepal, è iniziato ancora prima di arrivare in Arabia Saudita: attraverso un sistema di agenzie di collocamento e loro subappalti, queste persone hanno dovuto pagare tra 700 e 3500 dollari, indebitandosi a volte per sempre o in altri casi rinunciando a pagare le rette scolastiche per i figli, per poter lavorare alla costruzione della metropolitana di Riad. Sulla carta, le leggi vietano che si paghi nei paesi di origine per lavorare in Arabia Saudita ma evidentemente dalla carta non si è passati all’applicazione della norma. Suman, lavoratore del Nepal, ha dovuto impegnare i gioielli d’oro della moglie. Ha pagato l’equivalente di 700 dollari a un’agenzia locale di collocamento, più altri 1400 tra visite mediche, documenti vari e spese di viaggio, per ritrovarsi a ricevere un salario mensile di 266 dollari. Questo è equivalso a due dollari all’ora nei migliori dei casi, a un dollaro in altri. Molti lavoratori hanno dichiarato che, pur non essendo obbligati a fare gli straordinari, non hanno potuto farne a meno per compensare i miseri compensi. Altre persone hanno raccontato cosa ha significato lavorare ore ed ore con una temperatura che d’estate superava i 40 gradi: il divieto governativo di lavorare dalle 12 alle 15 si è rivelato del tutto inadeguato. Questa è la testimonianza di Nabin, nepalese: “Quando lavoravo con quell’afa, mi sentivo all’inferno. Mi chiedevo: ‘Come ho potuto finire qui? Ho fatto qualcosa di cui Dio mi sta punendo?’. Poi mi rispondevo che in Nepal non trovavo lavoro, che dovevo mantenere la mia famiglia e che dovevo continuare a soffrire”. Janak, proveniente dall’India, ha raccontato di aver ricevuto pressioni dai subappaltatori affinché lavorasse anche con temperature estreme: “Dicevamo al supervisore: ‘Guarda, non possiamo lavorare con questo caldo’ e lui: ‘Non m’interessa, andate avanti’. Siamo persone povere, che potevano ribattere?”. Molti lavoratori si sono visti sequestrare il passaporto e sono stati costretti a vivere in alloggi insalubri e sovraffollati. Ricapitolando, c’è un problema di mancata (e conveniente) supervisione da parte delle autorità saudite. Ma c’è anche un evidente problema di responsabilità da parte di imprese multinazionali che hanno deciso di prendere parte a progetti infrastrutturali in Arabia Saudita non potendo non sapere cosa sarebbe successo ai lavoratori assunti. *Portavoce di Amnesty International Italia