Carceri sovraffollate, l’Italia rischia sanzione Ue 9colonne.it, 23 novembre 2025 Il tasso di sovraffollamento nelle 189 carceri italiane ha superato il 136%, con oltre 63.493 persone detenute (di cui 20.099 straniere) a fronte di 45.651 posti effettivamente disponibili (con dati aggiornati ad ottobre e 295 detenuti in più rispetto a settembre). In un solo anno la popolazione detenuta è cresciuta di 1.336 unità. Sono cresciuti anche i numeri dei bambini reclusi con le loro madri che sono attualmente 26 contro i 21 di inizio anno e i 18 dell’ottobre dello scorso anno. È una situazione che la stessa magistratura di sorveglianza riconosce come inumana e degradante, condannando sistematicamente l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Solo nel 2024 gli Uffici di Sorveglianza hanno accolto 5.837 reclami per trattamenti inumani o degradanti: il 23,4% in più rispetto all’anno precedente. È un dato che supera persino i numeri della condanna europea del 2013, la sentenza Torreggiani, quando poco più di 4mila ricorsi portarono la Corte di Strasburgo a sanzionare l’Italia e a imporre riforme strutturali. “Oggi assistiamo a quelle stesse violazioni - e in misura ancora maggiore - ma nella generale indifferenza”, dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone che ha lanciato la nuova campagna “Inumane e degradanti. Il carcere italiano è fuori dalla legalità costituzionale” con una petizione pubblica rivolta al Parlamento e al Governo, disponibile nel sito web Antigone.it. “Le 5.837 condanne pronunciate dai nostri tribunali nel 2024 non sono solo numeri, ma storie di violazioni quotidiane. Vanno modificate o ritirate quelle circolari che stanno riportando le carceri ad anni bui della storia penitenziaria italiana. Bisogna riportare il carcere nei confini della Costituzione” aggiunge Gonnella. Quanto ai numeri dell’esecuzione penale esterna ci si sta avvicinando alla soglia delle 100mila persone sottoposte a misure restrittive della libertà diverse dalla detenzione in carcere: a fine ottobre sono poco più di 99.700, in aumento di 170 unità rispetto a fine settembre. Con la legge n. 199 del 2010 - ovvero misure alternative per coloro che hanno un residuo pena non superiore a 18 mesi - da inizio anno ad oggi sono usciti 38.040 detenuti. Intanto il Garante della Regione Campania e portavoce della Conferenza Nazionale dei Garanti delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello, chiede “meno custodia cautelare per reati non gravi e più misure alternative al carcere per chi ha una pena al di sotto dei quattro anni” ricordando che i detenuti non definitivi in attesa di primo giudizio sono 9.730. “A livello nazionale circa 8.000 detenuti devono scontare meno di un anno di pena, di cui circa 900 in Campania. Perché tenerli dentro? Occorrerebbe una misura deflattiva visto che non si tratta di reati ostativi. Il Governo di centro-destra dovrebbe avere il coraggio di fare ciò che il Governo Berlusconi ha fatto nel 2003 e nel 2010, quanto meno quest’anno che è l’anno del Giubileo della Misericordia” prosegue Ciambriello il quale fa inoltre notare l’aumento significativo in carcere dei giovani: “I giovani adulti ristretti, con un’età compresa da 18 a 24 anni sono 4.151, di cui in Campania 527 e a Poggioreale 200. Bisognerebbe occuparsi anche di questa emergenza nelle carceri italiane e campane, con sezioni solo per loro, progetti trattamentali ad hoc, figure sociali di ascolto, una maggiore inclusione socio-lavorativa e culturale”. Il Garante interviene inoltre rispetto alle tematiche della tossicodipendenza e del disagio psichico: “In Italia ci sono 17.000 detenuti tossicodipendenti, 1.704 in Campania. Inoltre, in Italia ci sono 4.200 detenuti con sofferenza psichica, disagio, molti dei quali erano in cura presso i Dipartimenti di Salute Mentale all’esterno, di cui 400 in Campania. Mancano sia gli psichiatri, sia le articolazioni nelle carceri, sia misure alternative per molti di loro che non sarebbero dovuti entrare in carcere. In alcune regioni, compresa la Campania, sono poche le R.E.M.S.”. Sul piano nazionale mancano circa 15.000/18.000 agenti di polizia penitenziaria, circa un migliaio di educatori, psicologi, mediatori culturali, criminologi. “Il carcere è una discarica sociale - denuncia - un ospizio per poveri, l’emblema della disuguaglianza nella società e la rappresentazione pratica che non si applica la Costituzione. Una bomba a miccia corta, poche attività di lavoro e di reinserimento, c’è l’ozio! Voglio ribadire che il ruolo del garante è garantire il rispetto delle persone private della libertà ma non della dignità. Oltre ad essere una figura di garanzia e vigilanza sulle condizioni di detenzione, interviene in caso di violazione e promuove iniziative per tutelare i diritti umani e favorire l’umanizzazione della pena”. Carceri minorili, 232 posti in più di Andrea Bulleri e Valentina Pigliautile Il Messaggero, 23 novembre 2025 Il Governo corre ai ripari contro il sovraffollamento nei penitenziari per under 18: 4 nuove strutture in arrivo, ampliamenti in 5 istituti. Un detenuto su due è straniero. Una “inusitata esplosione di violenza”. Che dalla fine della pandemia ha visto protagonisti i giovanissimi. Minori italiani ma anche, molto spesso, stranieri non accompagnati. Provenienti quasi sempre dal Nord Africa. Tanto che oggi quasi un under 18 su due tra quelli detenuti in un istituto penale minorile è arrivato dall’estero, senza genitori. A lanciare l’allarme è il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Che punta il dito su un fenomeno che - spiega il Guardasigilli - contribuisce non solo a spingere verso l’alto il tasso di criminalità giovanile, ma anche al sovraffollamento nelle strutture di rieducazione per minori. Che infatti hanno raggiunto (e superato) il picco massimo di capienza, con 8 istituti su 17 sovrappopolati secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone. Un’emergenza nell’emergenza contro cui il governo corre ai ripari. Il piano è snocciolato nella risposta scritta di Nordio a un’interrogazione formulata dal deputato di Azione Fabrizio Benzoni. E prevede l’apertura di 4 nuovi istituti penali minorili (Ipm) in altrettante città. Oltre a una serie di interventi di ammodernamento già in corso in altre 5 strutture. Opere che, per il titolare di via Arenula, aumenteranno il totale dei posti disponibili negli istituti in questione lungo tutto lo Stivale portandoli a quota 232. Così da tamponare una carenza che - accusano alcune delle associazioni di settore, ma anche le opposizioni - è venuta a galla soprattutto dopo l’entrata in vigore del decreto Caivano, nel 2023. Che ha allargato la possibilità per i magistrati di ricorrere alla custodia cautelare in carcere per i minori, e aumentato i casi per i quali è consentito l’arresto in flagranza. Un’accusa che Nordio rispedisce al mittente, parlando di “una serie di concause che affondano le loro radici in epoca non di certo recente” e quindi “non imputabili all’attuale compagine governativa”. Il decreto Caivano, invece, ha “potenziato gli strumenti di intervento attribuiti alla magistratura minorile”, a cui spetta sempre l’ultima parola. Piuttosto, insiste Nordio, il problema è la “inusitata esplosione di violenza” tra i giovanissimi, “anche intra-familiare e in forme efferate”, che si è registrata “sin dalla fase immediatamente successiva alla pandemia da Sars-Covid 19”. Alla quale si accompagna come “ulteriore seria criticità e concausa del sovraffollamento” un “enorme afflusso di minori stranieri non accompagnati”. Giovani, scrive il Guardasigilli, “provenienti in prevalenza dal Nord Africa, che costituiscono attualmente circa il 45% della popolazione detentiva minorile”. In molti casi “poli-assuntori di sostanze stupefacenti e psicotrope”, o “portatori di vissuti traumatici” che spesso sfociano in “disturbi psichici” e “privi di punti di riferimento di natura familiare in Italia”, oltre che di domicilio. Ecco perché servono più strutture. Come quella appena inaugurata a L’Aquila il 27 ottobre, da 28 posti ex novo e con 30 nuovi agenti in servizio. Entro novembre entrerà in funzione un altro centro appena realizzato a Lecce, da 27 posti (e 21 agenti). Mentre sono “in fase di completamento” i lavori del nuovo Ipm di Rovigo: 22 posti, più altri 8 per la custodia attenuata, in funzione “tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo”. E poi c’è la nuova struttura di Santa Maria Capua Vetere, 50 posti nel casertano. Per una spesa totale di circa 20 milioni di euro. A cui vanno aggiunti gli ampliamenti in altre 5 strutture. Lavori in corso all’Ipm romano di Casal del Marmo, che alla fine disporrà di 18 posti. Così come a quello di Quartucciu, Cagliari: 14 posti “detentivi”, 2 per la semilibertà, 11 per la custodia attenuata. Ci si allarga a Firenze, dove i lavori cominciati nel 2010 stanno per concludersi (con un guadagno di 12 posti). E poi a Nisida, Napoli: completamento previsto “nel 2027”, con 19 posti a regime. Chiude Torino, dove è in corso la “rifunzionalizzazione” delle ex sezioni detentive, con un incremento di capienza a 21 posti letto. Nessuna logica “carcerocentrica”, precisa Nordio: i nuovi istituti servono ad attuare “il principio del finalismo rieducativo della pena”. Dal momento che “la possibilità di fruire di maggiori e più adeguati spazi”, conclude il ministro, permette anche “di ottenere risultati rieducativi e risocializzanti ben più pregnanti”. Il procuratore Ardita: “41 bis? Un sistema che ha le ore contate” di Laura Distefano La Sicilia, 23 novembre 2025 Il magistrato catanese: “Il 41 bis è un sistema penitenziario che ha le ore contate, perché esiste nel Paese una sensibilità politica trasversale, opposta al sentimento comune dei cittadini, che tende a vanificare l’esperienza penitenziaria. Sia con riguardo l’obiettivo della sicurezza che rispetto a quello della rieducazione”. Replica Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino: “Costituzione sospesa”. Il regime penitenziario previsto dall’articolo 41 bis fu introdotto nel 1986. Nella sua essenza aveva la temporaneità di controllare possibili comunicazioni con l’esterno ma poi, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio del 1992, fu allargato ai detenuti per mafia. I siciliani sottoposti al “carcere duro” sono nell’ordine delle centinaia. L’applicazione è subordinata a un decreto firmato dal Ministro della Giustizia, che valuta le proposte che arrivano dagli organi investigativi antimafia. Il dibattito (politico e giuridico) sul regime più severo di reclusione è molto acceso. Abbiamo voluto affrontare il tema con il procuratore aggiunto di Catania, Sebastiano Ardita, che conosce bene il mondo delle carceri per aver lavorato diversi anni al Dap. Il regime dell’ordinamento penitenziario previsto dall’articolo 41 bis è uno strumento efficace nella lotta alla criminalità organizzata? “Lo è stato per molto tempo, quando serviva realmente a impedire il contatto dei personaggi vertice della criminalità mafiosa con l’esterno. E di fatto lo è ancora, perché - pur nel totale degrado della sicurezza penitenziaria -, le sezioni che ospitano i detenuti sottoposti a questo regime, quantomeno consentono di impedire che essi commettano reati dal carcere. Ma rimane un sistema penitenziario con le ore contate, perché esiste nel paese una sensibilità politica trasversale, opposta al sentimento comune dei cittadini, che tende a vanificare l’esperienza penitenziaria. Sia con riguardo l’obiettivo della sicurezza che rispetto a quello della rieducazione. La cosa più grave è che esiste una quantità di opinionisti, politici e pensatori, che si scandalizzano nell’immediatezza della commissione dei reati ma, quando vengono individuati i colpevoli, solidarizzano con questi ultimi a prescindere. C’è un meccanismo di identificazione della classe dirigente con la condizione degli indagati che appare a volte disarmante”. Qualche tempo fa addirittura c’erano cortei di piazza per l’abolizione del 41bis, qualcuno lo ritiene anticostituzionale. Ma, le inchieste lo dimostrano, non sempre il carcere riesce a fermare le attività illecite di un mafioso o di un criminale. Come si può arrivare a un equilibrio? “L’equilibrio nel nostro Paese lo ha spesso determinato l’emergenza. Non siamo stati mai capaci come nazione di prevedere e contrastare anzitempo un fenomeno criminale; e poi di programmare un trattamento sistematico dei reclusi che consenta loro di cambiare la propria vita. Ci siamo sempre mossi dopo un omicidio eccellente, dopo una strage, dopo una crisi di Stato. E una volta cambiata prospettiva, celebrati processi e ottenute le condanne, pensiamo di avere vinto per sempre il contrasto alla mafia o al terrorismo. Senza una misura costante dell’impegno istituzionale per la sicurezza dei cittadini e per la rieducazione dei condannati, siamo costretti ogni mattina a svegliarci con una novità alla quale diamo il carattere dell’emergenza, senza cercare di capire da quale errore istituzionale essa sia stata generata. Cerchiamo le responsabilità dei misfatti dopo anni e chiudiamo gli occhi di fronte agli errori ed alle responsabilità evidenti che si consumano sotto i nostri occhi ogni giorno”. Abbiamo sollecitato anche Rita Bernardini, presidente dell’Associazione Nessuno Tocchi Caino. Lei ha avuto la possibilità di vedere come vivono i detenuti sottoposti al regime del 41 bis. In un’intervista, una volta, lo ha definito “tortura democratica”. Ci spiega? “La Costituzione è sospesa, questo regime va contro la finalità del reinserimento sociale della reclusione. Al detenuto è negata ogni diritto all’affettività, ai rapporti umani, al lavoro. Diventano più cattivi di prima. Se l’obiettivo di questo sistema è quello di evitare che persone appartenenti alla criminalità organizzata continuino a dare ordini e che continuino a fare i loro affari, allora con le moderne tecnologie si possono trovare altre soluzioni. L’unica possibilità in termine di rieducazione che viene concessa ai detenuti al 41bis è quella di poter studiare. Ma anche sui libri ci sono limitazioni. Sono sospesi i diritti umani fondamenti nei confronti di chi, va ricordato, è anche in attesa di giudizio. Quindi è leso un altro diritto della Costituzione: che è quello della presunzione di innocenza. Era stata pensata come misura temporanea, ma invece di proroga in proroga è una misura stabilizzata nel nostro Paese”. Nordio: “Con la riforma i magistrati saranno più liberi” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 23 novembre 2025 Il ministro della Giustizia: il voto referendario sarà nella prima metà di marzo, l’Anm accetti il confronto in tv. E sul carcere non c’è una stretta alle attività culturali, Il ministro della Giustizia Carlo Nordio non sembra uomo da cambiare idea nell’espace d’un matin. E alla domanda-tormentone rivoltagli da settimane sulla possibilità di un confronto in tv coi sostenitori del No al referendum sulla riforma costituzionale per la separazione assoluta delle carriere (che si terrà, prevede, “nella prima metà di marzo”), risponde ancora una volta allo stesso modo: “Vorrei fare un incontro coi vertici dell’Anm. Dopodiché non mi sottrarrò ad alcun tipo di confronto, ma la priorità la do all’Anm, sempre che accetti. La situazione determinatasi mi ha sorpreso, perché col presidente dell’Anm Cesare Parodi avevamo già concordato la data del confronto, da farsi nella trasmissione di Bruno Vespa. La ragione del rifiuto consisterebbe nel desiderio dell’Anm, per quanto ho potuto capire, di non conferire al confronto un significato politico. Ciò però significa che esponenti della magistratura associata non si confronteranno più con nessun esponente di partito. Mi sembra strano, spero che cambino idea”. E il professor Enrico Grosso, presidente del Comitato per il No? Non lo ritiene un interlocutore adeguato? Certo, ci mancherebbe. Ma prima preferisco avere un rifiuto chiaro e definitivo dall’Anm, che ha promosso il Comitato. L’Anm teme che, col nuovo sistema, l’azione penale esercitata dal pm finisca sotto “l’ombrello” del Governo. Lei la liquida come una fantasticheria. Perché? Per varie ragioni. La prima è che nella riforma è scolpito, nella nuova versione dell’articolo 104 della Carta, il principio dell’autonomia e indipendenza dei magistrati requirenti e giudicanti. La seconda che ritengo quantomeno improprio fare un processo alle intenzioni. La terza che, secondo la logica aristotelica, non posso dare la prova negativa di un evento futuro. E mi stupisco che dei magistrati, che la logica dovrebbero conoscerla, si affidino a un tale espediente retorico. Tuttavia, la magistratura associata è convinta che l’impianto della riforma finirà per indebolire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Preoccupazioni fondate? No, sarà esattamente il contrario. Oggi i magistrati sono - e lo saranno in futuro - indipendenti dal potere politico. Ma sono dipendentissimi dal potere delle correnti, che attraverso il Csm decidono del loro destino. Perciò, il sorteggio è temuto dai vertici dell’Anm anche più della separazione delle carriere: perché toglierà alle correnti quell’enorme potere. E i magistrati saranno finalmente più liberi. Secondo l’Anm, il sorteggio è “punitivo”, perché impedirà alla magistratura di votare i propri rappresentanti con criteri (candidature, liste) stabilite per tutte le altre categorie professionali... Io ritengo che ridurrà di molto quella degenerazione correntizia emersa con o scandalo Palamara e denunciata dalle più alte cariche dello Stato con parole severe. Peraltro molti magistrati, pur contrari alla separazione delle carriere a cominciare dal procuratore di Napoli Nicola Gratteri, al sorteggio si sono dichiarati favorevoli. Proprio perché romperà quel vincolo tra elettori ed eletti che si traduce, nel Csm, in un mercanteggiamento di cariche e in una giurisdizione disciplinare domestica. L’iter della riforma in Parlamento è stato “unilaterale”. Se il Governo avesse recepito alcune proposte delle opposizioni, non si sarebbe potuto raggiungere il quorum dei due terzi, evitando di spaccare il Paese? Con l’Anm il dialogo non è stato possibile sin dall’inizio, perché è pregiudizialmente contraria all’intera riforma e ha subito reagito con uno sciopero. Altrettanto si dica in Parlamento. I due terzi non si sarebbero mai raggiunti, se non snaturando completamente la riforma, per la quale abbiamo avuto un chiaro mandato elettorale. Gran parte dell’opposizione è per il No. Il Pd, con la deputata Serracchiani, le rimprovera che la riforma non affronta i veri problemi: processi lunghi, carenza di magistrati e di personale amministrativo, stabilizzazioni dei precari. Cosa ribatte? A parte che il Pd, e la stessa Serracchiani, si sono a suo tempo dichiarati favorevoli alla separazione delle carriere, l’obiezione la chiamo “benaltrismo”, un trucchetto logico per eludere un problema. La riforma renderà la Giustizia più giusta e più liberale. Affinché diventi più efficiente abbiamo approvato, e approveremo, altre norme: in linea generale attraverso l’attuazione del Pnrr, sul quale il ministero è in perfetto orario; poi con la digitalizzazione del sistema giudiziario, compresa l’inclusione della banca dati delle decisioni civili, gratuita e accessibile. Puntiamo sul potenziamento delle risorse: entro il 2026 e per la prima volta da 80 anni, colmeremo gli organici dei magistrati, oltre all’assunzione di 11.500 amministrativi. Alcuni risultati già si vedono: la durata media dei processi civili si è già ridotta del 20%, quella dei penali del 28 %. Di questo dobbiamo ringraziare anche i magistrati, che hanno lavorato molto e molto bene. E ci tengo a dire che, al di là delle divergenze di vedute sulla riforma costituzionale, il rapporto con Anm e Csm è costante: abbiamo avuto incontri su questioni organizzative e siamo pronti ad accogliere i loro contributi. Il vicepremier Tajani ritiene che il referendum non dev’essere un sondaggio pro o contro il Governo. Ma non sarà inevitabile? La penso come l’amico Tajani: sarebbe improprio trasformarlo in un duello del genere. Soprattutto per la magistratura perché, se si schierasse con la politica, perderebbe la residua parte di quella idea di terzietà, purtroppo già abbastanza affievolita. Faccia pure gli scongiuri, se ritiene: i sondaggi danno il Sì in vantaggio... I sondaggi vanno presi con beneficio d’inventario, soprattutto se favorevoli. Ma noi pensiamo di vincere: confidiamo nel buon senso degli italiani, che desiderano una Giustizia più efficiente e giusta e che, se un magistrato sbaglia gravemente, venga giudicato da una Corte disciplinare non ipotecata dalle correnti, cioè dai partitini di cui è composta l’Anm. Dopo il referendum, procederete con altre riforme sulle intercettazioni, la custodia cautelare e l’iscrizione nel registro degli indagati? Mi pare prematuro anticiparlo. Di certo, ci attiveremo per completare il processo penale garantista ideato da Giuliano Vassalli, socialista e partigiano decorato, snaturato negli anni con conseguenze funeste che tutti possono vedere. Il Governo viene accusato di “panpenalismo” per i numerosi reati e aggravanti aggiunti al codice penale. Come replica? Abbiamo introdotto solo quei reati necessari per colmare un vuoto di tutela determinato o dall’evoluzione della tecnologa o da nuove forme di criminalità, come le frodi informatiche e quelle agli anziani. Osservo che per quello più criticato, il rave party, non è entrato in prigione nessuno, anzi il fenomeno si è estinto. Segno che ha funzionato. Lei bacchetta chi “parla di indulto senza conoscerne le implicazioni”. Ma il sovraffollamento nelle carceri rimane, con proteste e suicidi... L’indulto, quando è motivato dall’esigenza di ridurre il sovraffollamento, non solo costituisce una manifestazione di debolezza dello Stato o addirittura di resa, ma è anche inutile. Parlano le cifre: nel luglio 2006, con il governo Prodi, la popolazione detentiva era di 60.710 detenuti. Con l’indulto ne uscì il 36%. Ebbene, tre anni dopo erano arrivati a 63.472, con una crescita costante e con una recidiva del 48%. Dopo la nota circolare del Dap, molte associazioni segnalano dinieghi e restrizioni alle attività culturali in carcere. Lei ha detto che il 100% delle richieste è stato accolto, ma che il ministero è disponibile a integrare la circolare... Credo sia stato fatto molto rumore per nulla. La cosa è già stata chiarita e sapremo contemperare le esigenze di sicurezza con quella della rieducazione del detenuto. Un principio scritto non solo nella Costituzione, ma scolpito nella nostra coscienza cristiana, proprio per evitare quella “cultura dello scarto” a suo tempo denunciata da Papa Francesco. Ministro, lei calcola che 10.105 condannati definitivi, con pena residua sotto i 24 mesi, possano accedere a misure alternative alla detenzione in carcere. Quando? Spetta alla magistratura di sorveglianza - che ringraziamo per l’enorme lavoro e la cui pianta organica stiamo aumentando - decidere, caso per caso, se ne abbiano il diritto. Nel frattempo interverremo su altri tre settori: la carcerazione preventiva, per la quale oltre 15mila persone sono in cella in attesa di sentenze definitive; il trasferimento di stranieri nelle carceri dei Paesi d’origine, sono 20mila detenuti e basterebbe mandarne via la metà; infine abbiamo stanziato 5 milioni di euro annui per il trattamento dei tossicodipendenti in custodia attenuata, cioè in comunità o strutture accreditate diverse dal carcere. Anche qui siamo prossimi alla soluzione. Ma non sono cose che si possono improvvisare. Però le comunità lamentano di non aver fondi a sufficienza. Così il meccanismo non rischia d’incepparsi? In realtà, sta cominciando a funzionare bene. Purtroppo i fondi sono limitati dai rigori di bilancio, ma puntiamo molto anche su contributi privati e sul volontariato. Giustizia, ecco come la riforma cambia i processi disciplinari di Danilo Paolini Avvenire, 23 novembre 2025 L’apposita Sezione del Csm viene sostituita dall’Alta Corte, formata da componenti scelti in buona parte (9 su 15) per sorteggio. La creazione di un’Alta Corte disciplinare è uno dei punti qualificanti della riforma costituzionale Nordio che separa le carriere dei magistrati, insieme allo sdoppiamento del Csm. Di fatto, i procedimenti sull’operato delle toghe - che oggi sono di competenza della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura - saranno affidati (sia per i giudici, sia per i pm) a questo nuovo organo. Vediamo allora come è strutturata la funzione disciplinare e come lo sarà se entrerà in vigore la modifica della Costituzione, in caso di vittoria dei Sì nel referendum. Il sistema attuale - L’articolo 105 della Costituzione, nella stesura in vigore, elenca tra le funzioni del Consiglio superiore della magistratura quello di decidere i “provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”. L’organo disciplinare per i magistrati ordinari è costituito, appunto, dalla Sezione disciplinare del Csm. Essa si compone di sei membri effettivi: il vicepresidente, che è uno dei consiglieri “laici” eletti dal Parlamento, e cinque componenti, dei quali uno “laico”, uno degli eletti tra i magistrati di legittimità, due degli eletti come magistrati giudicanti di merito e uno degli eletti come pubblico ministero. Le sanzioni disciplinari sono: l’ammonizione; la censura; la perdita dell’anzianità (non inferiore a 2 mesi e non superiore a 2 anni); l’incapacità temporanea a esercitare funzioni direttive o semidirettive (non inferiore a 6 mesi e non superiore a 2 anni); la sospensione dalle funzioni da 3 mesi a 2 anni; la rimozione. L’azione disciplinare è promossa dal ministro della Giustizia e dal procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Il processo si tiene in udienza pubblica presso il Csm e le decisioni della Sezione disciplinare possono essere impugnate davanti alle sezioni unite civili della Cassazione. Come cambierebbe - La riforma, riscrivendo l’articolo 105 della Costituzione, sottrae al Csm la giurisdizione disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari, sia giudicanti che requirenti, per affidarla, come detto, a un’Alta Corte. Quest’ultima si compone di 15 giudici: tre nominati dal presidente della Repubblica tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno 20 anni di esercizio; tre estratti a sorte da un elenco di “soggetti in possesso dei medesimi requisiti”, che il Parlamento in seduta comune compila entro sei mesi dall’insediamento; sei estratti a sorte tra i magistrati giudicanti con almeno 20 anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità; tre estratti a sorte tra i magistrati requirenti con gli stessi requisiti. I giudici dell’Alta Corte durano in carica quattro anni e il loro incarico non può essere rinnovato. Il presidente della Corte disciplinare è eletto tra i giudici nominati dal presidente della Repubblica o dal Parlamento. È prevista la possibilità di impugnare le decisioni dell’Alta Corte davanti alla stessa Corte, che giudica però in una composizione differente. Per la determinazione degli illeciti disciplinari e delle sanzioni, della composizione dei collegi, delle forme del procedimento disciplinare e del funzionamento della Corte, la riforma costituzionale rinvia alla legge ordinaria. Confische antimafia, così la Cassazione cambia le regole a tutela delle vittime di Daniela Mainenti* Il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2025 La sentenza delle Sezioni Unite ridisegna l’equilibrio tra confisca dei beni mafiosi e diritti di chi ha subito il reato. C’è un paradosso che in Italia facciamo finta di non vedere: lo Stato racconta la confisca antimafia come la grande vittoria della legalità, ma troppo spesso chi ha subito il reato resta fuori dalla porta. Prima vengono il sequestro, la misura di prevenzione, le conferenze stampa, i beni “liberati” consegnati a enti e istituzioni; solo dopo ci si accorge che le vittime sono rimaste senza risarcimento, perché il patrimonio è stato inghiottito dal circuito pubblico. La sentenza delle Sezioni Unite dello scorso 14 novembre 2025, n. 37200, prova a mettere un freno a questa schizofrenia: in questa materia e art. 52 del Codice antimafia, la Cassazione dice che il credito della vittima non può essere cancellato solo perché la macchina della prevenzione corre più veloce della giustizia ordinaria. Non è un colpo alla confisca, né un regalo al garantismo di maniera: è il contrario, è il tentativo di renderla più solida e meno attaccabile. Il caso è minuscolo nei numeri ma enorme nei principi: una vittima di furto, un credito di 4.000 euro, i beni del proposto sotto sequestro di prevenzione. Il tribunale esclude il credito dal passivo perché, pur essendo il fatto anteriore al sequestro, la decisione che accerta il danno arriva dopo la misura. Lettura rigidissima dell’art. 52: conta solo ciò che “risulta da atti aventi data certa anteriore al sequestro”. Le Sezioni Unite ribaltano la prospettiva: il credito della vittima deve nascere prima della misura (cioè dal fatto illecito già consumato), ma può essere accertato anche dopo, purché entro i termini per l’ammissione al passivo; in sede penale occorre una decisione definitiva, in sede civile basta una pronuncia provvisoriamente esecutiva. Più rigido, invece, il regime per le spese giudiziali, che devono essere liquidate in una decisione precedente al sequestro. Tradotto: il diritto della vittima non nasce il giorno in cui il giudice trova posto in ruolo per firmare la sentenza, ma nel momento del reato. Se lo Stato pretende di aggredire i patrimoni senza aspettare la condanna definitiva, non può nello stesso tempo usare i ritardi del processo come arma contro chi è stato danneggiato. L’art. 52 diventa davvero una clausola di compensazione del potere ablativo della prevenzione: la confisca resta, e deve restare, ma non può schiacciare in blocco i terzi incolpevoli. Proprio perché nessuno che conosca i territori mette in discussione la necessità di colpire i patrimoni mafiosi, è essenziale che le regole siano chiare: altrimenti si buttano argomenti in mano a chi sogna il ritorno all’intangibilità dei patrimoni criminali. La sentenza parla anche a un altro equivoco: la prevenzione patrimoniale non è solo duello fra Stato e mafie, è anche il luogo dove si decide il destino delle vittime, dei creditori, dei lavoratori. Ed è qui che entra in gioco il riuso sociale. Da anni celebriamo il mantra “i beni dei boss tornano ai cittadini”: associazioni, cooperative, enti locali che subentrano in ville, aziende, terreni. È una narrazione importante, che va difesa, ma va resa coerente. Questo significa ridisegnare piani economici, ricalibrare destinazioni, assumersi la responsabilità di scelte che non si consumano sul palco di una conferenza stampa ma nelle stanze in cui si fa contabilità e si decidono, silenziosamente, chi viene pagato e chi no. Non siamo alla rivoluzione, ma è un passo importante. È lavoro duro, poco fotogenico, ma è esattamente la frontiera dove si misura la serietà del sistema. Detto questo, sarebbe ingenuo leggere le Sezioni Unite come il lieto fine della storia. La sentenza disegna un bilanciamento sotto la pressione di un sistema giudiziario che resta lentissimo e diseguale. Perché la vittima possa entrare nel passivo, non basta che il suo credito sia sorto prima del sequestro: occorre che riesca a ottenere un provvedimento di condanna (o una sentenza civile provvisoriamente esecutiva) entro i termini per l’ammissione ordinaria o tardiva. In altre parole, la tutela funziona se la vittima ha la forza economica, culturale, organizzativa di mettere in moto un’azione civile o penale e portarla rapidamente a decisione. Chi è assistito da un buon avvocato, chi ha la capacità di muoversi in fretta, di monitorare i termini e presentare in tempo la domanda, entra. Chi è povero, disorientato, lasciato solo - e spesso sono proprio le vittime dei reati di matrice mafiosa - rischia di arrivare fuori tempo massimo, quando il bene è già stato stabilmente assorbito nel circuito della prevenzione e del riuso sociale. Il filtro temporale, così come disegnato, è un filtro anche per censo processuale. Ma assumere questo dato non significa depotenziare le confische: significa chiedere allo Stato di mettere le vittime in condizione di giocare davvero la partita, con difesa tecnica, informazioni tempestive, accompagnamento nei labirinti del procedimento a partire, però, da un punto fermo che troppo spesso viene eluso: la confisca di prevenzione - e in generale la confisca “senza condanna” - non è una pena mascherata. È un istituto diverso, che si muove su un binario autonomo rispetto al giudizio di colpevolezza penale della persona, e che colpisce un’altra cosa: non la responsabilità per un fatto tipico, ma la pericolosità sociale espressa da un certo modo di accumulare e usare ricchezza. È lo strumento che consente di aggredire i patrimoni che vivono stabilmente nella zona grigia tra illecito penale, elusione, intestazioni fittizie, reti societarie che rendono impossibile o inefficace la via della condanna. Se noi la confisca senza condanna la trasformiamo, anche solo nel linguaggio, in “pena patrimoniale”, facciamo esattamente il gioco di chi vuole riportarci all’epoca dei patrimoni intoccabili: basterà non arrivare mai a una condanna definitiva perché il sistema collassi. Dentro questo quadro, la sentenza numero 37200/2025 va collocata, dunque, al suo giusto posto. *Professore Straordinario in Diritto Processuale Penale Comparato Prato. I racconti dal carcere senza legge: “Un agente faceva la spesa ai detenuti” di Luca Serranò La Repubblica, 23 novembre 2025 I verbali dei detenuti che hanno scelto di denunciare lo scandalo della Dogaia, il carcere di Prato dove venerdì notte sono scattate perquisizioni a tappeto. Gli affari nella stanza 147, una delle principali centrali di spaccio del carcere, i traffici di armi, i pestaggi, le richieste (poi non realizzate) di omicidi su commissione. E i frenetici contatti con l’esterno, grazie ai cellulari, con cui venivano organizzate anche truffe agli anziani e manovrati giri di prostituzione. Fino a quando sei detenuti, stanchi del clima di violenza e di omertà, hanno deciso di vuotare il sacco e denunciare. Sono state fondamentali le testimonianze nelle indagini della procura sul carcere della Dogaia di Prato, perquisito cella per cella sabato notte - con un’operazione senza precedenti - da 800 tra poliziotti, carabinieri, finanzieri e agenti della penitenziaria. Il racconto - “Sono stato un pessimo genitore e mi sono sradicato dal contesto familiare, oggi ho deciso di cambiare completamente registro per dare ai miei figli un esempio positivo, dopo tanti esempi negativi - esordisce un carcerato- Sono anche stufo di assistere a soprusi continui da parte di detenuti, che mi impediscono di lavorare per guadagnare un po’ di soldi da mandare ai miei figli”. Il testimone ha parlato dei traffici nella casa circondariale, del ruolo di alcuni boss e di quello avuto da alcuni uomini della polizia penitenziaria, tra cui un agente che avrebbe recuperato parte di una partita di droga sotto sequestro per affidarla a un carcerato. La denuncia - Richiamata anche una figura di vertice della penitenziaria- non più in servizio a Prato- “che faceva i favori ai detenuti, non so per quale motivo, e che era contrario alla collaborazione”. Poi, nel dettaglio: “Addirittura faceva la spesa per un detenuto che aveva aggredito un brigadiere, e anche ad altri detenuti ai quali portava cose non consentite come casse e cuffie. So che ha fatto passare almeno tre volte pacchi contenenti stupefacente destinati a un detenuto, nonostante io gli avessi fornito indicazioni precise sul loro contenuto e sulle modalità di occultamento, all’interno di brioches i cui contenitori venivano aperti e richiusi”. L’ottava sezione - Il racconto prosegue con altri particolari inquietanti riguardo i ras dell’ottava sezione, tra cui un cittadino tunisino e un quarantenne italiano condannato 16 anni fa per omicidio volontario: “Hanno creato dei sottofondi nei muri chiedendo aiuto a degli albanesi. Questi detenuti gestiscono dal carcere la prostituzione di ragazze, con le quali parlavano utilizzando questi telefoni (…) spadroneggiano e intimidiscono gli altri per la loro indole violenta e in parte per il fatto di essere favoriti da alcuni appartenenti alla polizia penitenziaria”. Indicato, su quest’ultimo fronte, il nome di un agente ancora in servizio. Le violenze - La testimonianza del detenuto è stata poi confermata in larga parte da altri “collaboratori”. Uno di questi ha parlato di due distinti gruppi, e di due “boss” che comandano l’ottava sezione al punto da costringere i detenuti in permesso a portare la droga dentro la struttura. “L’ultima volta che sono rientrato da un permesso, sono venuti dentro la mia cella e mi hanno detto “la seconda volta che esci e non porti un regalo a noi” e mi hanno messo le mani addosso, chiedendomi “come mai non lo fai? Lo fanno tutti”. Un autentico pestaggio: un carcerato, si legge ancora nel decreto di perquisizione, “mi ha acchiappato sopra il letto, mi ha tenuto fermo sovrastandomi con il suo corpo e l’altro mi ha dato cazzotti e il mio orecchio è diventato blu per una ventina di giorni. Volevano che portassi il fumo, perché ci sono alcuni che, forse per paura, lo fanno”. La stanza 147 - Altre testimonianze sono dedicate poi a quelli della stanza 147, dove sempre secondo le accuse tre detenuti italiani erano riusciti ad allestire un florido traffico di stupefacenti, riuscendo a far girare tra i reclusi anche armi e cellulari. Tutto arriva con i droni o sfruttando i reclusi in permesso. Anche questo gruppo avrebbe usato violenze e minacce per costringere gli altri a prestarsi ai traffici. Non solo. La stanza 147 sarebbe stata la base anche per di truffe ad anziani. Gli omicidi su commissione - C’è poi un altro versante tenuto in massima considerazione da chi indaga, le richieste di omicidi su commissione che secondo fonti vicine alle indagini sarebbero arrivate ad alcuni detenuti. Nel mirino ci sarebbe stato anche il boss cinese della droga Bobo Jiang, che il 10 luglio scorso evase in modo rocambolesco dalla questura di Prato, sfilandosi le manette durante l’arresto. I precedenti - Nel decreto, infine, si ricordano le decine di sequestri di cellulari e droga durante l’operazione del giugno scorso e nei controlli successivi, così come i due casi di violenza sessuale avvenuti nella casa circondariale. Quella di un cittadino brasiliano di 32 anni ai danni del compagno di cella, un pakistano di 33 anni, e quella di due carcerati nei confronti di un “tossicodipendente alla prima esperienza carceraria”. Cremona. “Numeri shock a Cà del Ferro: la visita svela un record mai raggiunto” La Provincia, 23 novembre 2025 L’accesso effettuato da esponenti di Forza Italia e del Partito Radicale ha messo in luce condizioni critiche, con presenze elevate, fragilità sanitarie diffuse e poche occasioni formative. Una delegazione congiunta di Forza Italia - rappresentata dal consigliere regionale Giulio Gallera, Andrea Carassai, Gabriele Gallina, Luca Ghidini - e del Partito Radicale - rappresentato da Sergio Ravelli e Maria Teresa Molaschi - ha visitato venerdì pomeriggio la Casa Circondariale di Cà del Ferro. Si legge nella nota di Sergio Ravelli, consigliere generale del Partito Radicale: “I numeri impietosi che sono stati rilevati nel corso della visita parlano da soli: il totale delle persone recluse è di 609 che costituisce il record storico per il carcere di Cremona. Se si considera che i posti regolamentari sono 394, abbiamo registrato il più alto indice di sovraffollamento di sempre, pari al 150%; gli extracomunitari detenuti sono 383, pari al 63% del totale. Percentualmente è il dato più alto di tutta la Lombardia; circa 180 detenuti sono tossicodipendenti e/o affetti da patologie psichiatriche e disturbi comportamentali. Questi dati sono alla base dell’aggravamento delle criticità storiche del carcere di Cremona, che si possono ricondurre a 3 ambiti: la Sanità, la Sicurezza, il Lavoro”. Per quanto riguarda la Sanità: “Appare evidente come un numero così alto di detenuti tossicodipendenti e di malati psichiatrici (spesso affetti da entrambe le patologie e in gran parte riferite a detenuti extracomunitari) rende problematico il lavoro di medici, psicologi e psichiatri che operano nella struttura carceraria. È altresì evidente che questi soggetti non dovrebbero stare in carcere: i tossicodipendenti dovrebbero stare nelle comunità di recupero e i malati psichiatrici nelle strutture sanitarie per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Ma ahimè, le comunità di recupero sono poche e le Rems ancora meno”. Per quanto riguarda la Sicurezza: “Dalle tante denunce provenienti dai rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria emerge che la sicurezza degli operatori carcerari è messa costantemente a rischio dal sovraffollamento, dalla vetustà della struttura carceraria e dalle gravi patologie sanitarie presenti”. Per quanto riguarda il Lavoro: “Fatto salvo le attività lavorative legate al funzionamento della struttura carceraria, le occasioni di lavoro - sia all’interno delle mura che all’esterno (detenuti in semilibertà) - sono pochissime. Ciò rende l’obiettivo del reinserimento dei detenuti una chimera. A tale riguardo va rilevato che l’imprenditoria locale ha mostrato in questi anni poca sensibilità e disponibilità ad accogliere ex detenuti”. Ovviamente le criticità del carcere di Cremona sono le stesse di quasi tutte le strutture penitenziarie italiane. Considerazione finale. “Non sta a me indicare in questa occasione le possibili soluzioni, anche politiche, per far fronte alla crisi del sistema carcerario italiano. Posso solo aggiungere che la Giustizia del nostro paese, anche nella sua appendice carceraria, abbisogna di una vera e propria riforma radicale”. Firenze. I minori stranieri non accompagnati e i giovani italiani riscoprono insieme i propri diritti di Irene Funghi Avvenire, 23 novembre 2025 Il progetto U-Lead dell’Istituto universitario europeo mette in moto dinamiche di partecipazione, affiancando studenti delle scuole superiori ai minori stranieri non accompagnati. Valere come gli altri, anche quando si è giovani in un Paese straniero, non dovrebbe essere opzionale. A maggior ragione se si parla adolescenti, per i quali l’attenzione dovrebbe essere doppia. Torna a ripeterlo a Firenze l’Istituto universitario europeo, che ha elaborato un progetto per mettere in contatto tra loro minori stranieri non accompagnati dei centri di seconda accoglienza, studenti delle scuole superiori e giovani adulti, con l’obiettivo di far prendere loro consapevolezza dei propri diritti, sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e dalla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Anche senza cittadinanza, ciascuno, solo per il fatto di essere un uomo o una donna, tra le altre cose, dovrebbe poter fare sentire la propria voce, partecipare alla vita del Paese in cui si trova, riunirsi pacificamente in associazioni, avere accesso all’istruzione. Per questo l’anno scorso il progetto U-Lead dell’Istituto europeo è partito con un’esperienza pilota, in collaborazione con l’ufficio Unicef di Europa e Asia centrale e il sostegno del Comune di Firenze, per continuare quest’anno in una versione ampliata, che mira ad essere messa a disposizione di altri territori fuori Toscana. “In collaborazione con Unicef, abbiamo prima studiato per due anni quello che veniva fatto nelle diverse città italiane. I problemi sono nazionali, ma abbiamo visto che le soluzioni devono essere legate alle specificità del territorio - racconta Andrew Geddes, ideatore di U-Lead e direttore del Migration Policy Centre dell’università europea di Firenze -. In tutta Europa il problema dei minori stranieri non accompagnati porta con sé la sfida della partecipazione alla vita del Paese in cui arrivano e il problema della mancanza di fondi dei territori, con il rischio che soggetti molto vulnerabili si avvicinino alla delinquenza. Il tutto accompagnato da molte polemiche: noi, però, abbiamo creduto che fosse possibile fare qualcosa di diverso e più positivo”. Così lo scorso anno hanno iniziato ad incontrarsi 12 giovani (6 provenienti dai centri di accoglienza e 6 dalle scuole superiori fiorentine Elsa Morante e Sassetti Peruzzi), diventati, nel nuovo programma, partito lo scorso 9 ottobre, 27. Agli stranieri non accompagnati, 11 adesso, con provenienze da Egitto, Tunisia, Albania, Afganistan e Colombia, si sono aggiunte anche presenze femminili e tra gli studenti c’è chi ha partecipato anche lo scorso anno e adesso ha il ruolo di “Young coach”, per accompagnare i nuovi arrivati. “Il successo del progetto pilota è emerso anche dal desiderio di tutti i giovani di partecipare alla nuova edizione” spiega Geddes. Gli studenti inseriscono l’iniziativa nel Pcto (ex alternanza scuola-lavoro) e chi quest’anno ha voluto proseguire ha potuto farlo. Per gli stranieri dei centri “abbiamo concordato con le associazioni che se ne occupano di dare la possibilità anche ad altri di partecipare, ma stiamo lavorando per far mantenere attiva la rete di contatti che si è creata: dopo aver coinvolto questi giovani, non possiamo abbandonarli”, dice l’organizzatore. L’obiettivo è creare gruppi di coetanei tra i 17 e i 19 anni, che, partendo dalla consapevolezza dei propri diritti, “individuino cosa è più importante per loro e lavorino in gruppo per creare momenti di partecipazione su ciò che hanno in comune” ci dice. “Non è un progetto accademico - afferma Geddes, che, come Università europea, ha messo a disposizione un gruppo di dieci persone che seguono i giovani -, i partecipanti hanno livelli di istruzione diversi”. Ma insieme si impara a fare ricerca, informarsi, fare interviste e incontrare le istituzioni locali. “Hanno partecipato ai nostri incontri gli assessori regionali e comunali al welfare Serena Spinelli e Nicola Paulesu e i giovani hanno avuto l’opportunità di spiegare loro quale è la realtà che vivono”. Per poi proseguire i lavori a gruppi, da presentare con una relazione finale. “Per molti è significato avere l’opportunità per la prima volta di parlare in pubblico ed esprimere le proprie idee” dice il professore. Anche per questo “sono stati momenti molto forti per noi - continua -. Sono emersi vissuti di discriminazione e le difficoltà dell’incontro con lo Stato italiano e del percorso necessario per avere i documenti”. Davanti alle quali, però, forse non si sono sentiti soli. “Anche nelle scuole ci sono presenze multiculturali e tra gli studenti coinvolti c’erano anche migranti di seconda generazione”, conclude Geddes. Alessandria. Danilo, che tra piatti e posate ha trovato la sua “prima opportunità” di Roberta Barbi vaticannews.va, 23 novembre 2025 Dalla fine di settembre la famiglia del bistrot di Fuga di sapori, aperto nelle mura del carcere di Alessandria, si è arricchito di un nuovo elemento: Danilo Bovio, un ragazzo autistico di 21 anni, che sta effettuando un tirocinio di tre mesi accanto ai detenuti lavoratori. Cos’hanno in comune detenuti in permesso lavoro e un giovane con autismo? Nel bistrot “Fuga di Sapori”, aperto nelle mura del carcere di Alessandria, hanno in comune un lavoro. E poi il pranzo insieme, le confidenze, qualche risata. L’idea nasce dalla cooperativa Idee in fuga di Carmine Falanga, Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, abituata a dare a chi ne ha bisogno “non solo una seconda opportunità, ma spesso la prima che non hanno mai avuto”. Della squadra da circa un mese e mezzo - e vi rimarrà per altrettanto tempo - fa parte anche Danilo Bovio: “Arrivo dieci minuti prima che inizi il turno, alle 8.50 per prepararmi con calma - racconta ai media vaticani la sua giornata lavorativa - poi mi metto a lavare i piatti della sera prima”. Danilo è talmente bravo e dalla personalità esplosiva, che a volte è stato messo in sala a raccogliere le tazzine del caffè e non solo: “Aiuto anche nello scarico merci quando ho tempo e c’è bisogno - prosegue - non è pesante, soprattutto se scarichiamo i frullati o le altre cose che vendiamo nella bottega”. Non si lamenta mai, Danilo, qualunque cosa gli venga affidata, tantomeno del suo compito principale che è proprio quello di lavare i piatti: “Sono abituato, l’ho sempre fatto anche a casa mia”. All’inizio di questa esperienza Danilo sapeva che avrebbe lavorato anche assieme a persone detenute, ma questo per lui non è mai stato un problema: “Ho avuto già a che fare col carcere in altri progetti ai tempi della scuola - rivela - non ho nessun pregiudizio, e poi non si può giudicare nessuno se lo si guarda da un solo punto di vista!”. Un discorso nobile dal valore universale, anche se spesso dimenticato, che mostra l’importanza di valorizzare i propri talenti: una caratteristica fondativa della realtà di Fuga di sapori. È così che quindi, ogni giorno, un giovane con autismo e alcune persone detenute mangiano insieme quello che lo chef prepara per loro, lasciandosi andare anche a confidenze e risate: “Ogni tanto qualcuno mi racconta qualcosa della sua vita e ogni tanto anche io racconto qualcosa”, ammette Danilo. Quando gli chiediamo cosa gli piace di più del suo lavoro e in che cosa si sente più bravo, Danilo afferma di non averci mai pensato: “Il lavoro mi piace ed è un’opportunità che non si può rifiutare anche se è un po’ faticoso: riposo solo il sabato pomeriggio e la domenica!”. Tra un mese e mezzo il suo tirocinio dovrebbe concludersi, ma se sarà possibile c’è da scommettere che una forza della natura come lui sarà riconfermato. E così gli assunti di questo meraviglioso bistrot dove i sogni diventano realtà, saranno 21. Taranto. Carcere e diritti: la sfida delle riforme di Giuseppe Lamanna oltreilfatto.it, 23 novembre 2025 Un appuntamento con la civiltà giuridica, sulla difficile situazione delle carceri italiane e alla luce delle ultime riforme. Questo il convegno organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Taranto, dalla locale Camera Penale e dall’associazione Antigone, presso il salone degli Specchi di Palazzo di Città. Moderato dall’avv. Fabrizio Lamanna, ha ospitato gli interventi del presidente nazionale ANM Taranto Francesco Sansobrino e sostituto procuratore, la dirigente del servizio per le dipendenze per il carcere di Taranto Paola Cauzo, l’avv. Gianluca Sebastio, rappresentante di Antigone e il presidente dell’Ordine degli avvocati di Taranto, avv. Vincenzo di Maggio. Tra i problemi sollevati, oltre alla già spesso citate difficili condizioni carcerarie in Italia, risalta - tramite le parole del magistrato Sansobrino - un utilizzo eccessivo della custodia cautelare preventiva, con la conseguenza di un’applicazione assai ridotta delle misure alternative. Le sofferenze dei detenuti trovano rilevanza soprattutto in casistiche particolari - rileva la dirigente Paola Cauzo - e per detenuti affetti da condizioni psichiatriche. Il problema principale? La mancanza di strutture apposite, con le poche esistenti spesso già occupate interamente. Tema ancor più rilevante è quello del suicidio, causato anche dal sovraffollamento: sul punto si sono espressi gli avvocati Lamanna e Sebastio, che con dati alla mano - circa 91 suicidi - hanno illustrato la condizione che per molti soggetti detenuti in carcere è la normalità, e sulla quale più volte è intervenuta la Cedu. Milano. “Ma mi” a San Vittore con il coro dei detenuti e volontari della Nave di Paolo Foschini Corriere della Sera, 23 novembre 2025 Era il 15 gennaio 2019. Ornella Vanoni era stata invitata poche settimane prima a cantare con il coro di persone detenute e volontari del reparto La Nave: e aveva risposto di sì senza pensarci un secondo. La sua interpretazione di “Ma mi” fatta in carcere, in collegamento con la Triennale, resta un momento memorabile per chi c’era. “Spero che sia morta”, rispose. E il pubblico della rotonda di San Vittore - in parte autorità e invitati vari ma per più di metà “ospiti fissi”, diciamo così, del più famoso carcere italiano - naturalmente scoppiò a ridere. Era la conclusione di un aneddoto che Ornella Vanoni aveva appena finito di raccontare, prima di esibirsi in quello che grazie a “Ma mi” poteva ben essere considerato il “suo” carcere. E lei, quella volta, la celebre canzone firmata Strehler-Carpi la cantò proprio lì dentro. Insieme con un coro di persone detenute e volontari, il Coro del reparto La Nave: sezione di trattamento terapeutico avanzato gestita dentro San Vitttore da Asst Santi Paolo e Carlo. Era stata invitata poche settimane prima. Aveva risposto di sì senza pensarci un secondo. L’esibizione ebbe luogo il 15 gennaio 2019, a conclusione una mostra-evento intitolata “ti Porto in prigione” promossa dall’associazione Amici della Nave in collaborazione con la Triennale di Milano e il carcere milanese. Lei era arrivata a San Vittore a metà pomeriggio, la Rai aveva allestito a tempo di record un collegamento che consentiva anche al pubblico della Triennale di vedere in diretta ciò che avveniva in carcere. Erano in programma diversi interventi sul tema della detenzione, della funzione della pena, del reinserimento. Ma il pezzo forte che tutti attendevano era ovviamente Ma mi, cantato dalla Vanoni con il coro delle persone detenute a eseguire con lei il ritornello. Nel pomeriggio avevano provato insieme. E lei fu come era lei: alla mano, spiritosa, curiosa di loro, interessata alle loro risposte. E non è possibile descrivere a parole l’emozione dei ragazzi - nonché dei volontari e delle volontarie - che quel pezzo lo avevano già cantato a loro volta in numerose occasioni, perché non si può far parte di un coro a San Vittore senza conoscere e cantare Ma mi. Ma cantarlo con la Vanoni lì a un metro è un altro cantare. L’attesa fu lunga e prima dovevano parlare in tanti, a cominciare dall’allora ministro della giustizia Alfonso Bonafede. Lei, seduta in prima fila, cominciò a sbuffare dopo due minuti. A un certo punto fece addirittura per alzarsi e andar via dicendo un “che palle!” che per fortuna non entrò nei microfoni ma fu percepito con molta chiarezza dalle persone sedute lì vicino. Che riuscirono a ridere in silenzio. Poi finalmente arrivò il suo momento. E prima di cantare raccontò che la fama di “cantante della mala”, quando era ragazza, l’aveva avvolta a tal punto che la portinaia della palazzina in cui abitava era convinta fosse reale: “Ogni volta che uscivo o rientravo a casa mi guardava come se io fossi veramente una delinquente”. Le chiesero se l’aveva più rivista, o se ne ebbe altre notizie in seguito. “Spero che sia morta”, rispose. Poi cominciò a cantare. Taranto. Tornano i panettoni solidali prodotti in carcere: il ricavato per progetti di inclusione L’Edicola del Sud, 23 novembre 2025 Punta a raggiungere quota 10mila panettoni prodotti la campagna natalizia del Fieri Potest Pastry Lab, il laboratorio di pasticceria gestito dalla cooperativa Noi & Voi all’interno del carcere di Taranto. L’iniziativa non solo si espande in termini di volumi, ma allarga anche la sua rete di solidarietà: per ogni panettone venduto, un euro sarà devoluto a un fondo dedicato a finanziare nuovi interventi di inclusione in altri istituti penitenziari italiani. Le novità della campagna sono state presentate a Casa Viola. Il bilancio del progetto mostra un incremento significativo: la cooperativa Noi & Voi ha raddoppiato il proprio personale, passando da tre a sei unità. Parallelamente, si è ampliata la rete di collaborazioni a livello regionale, coinvolgendo realtà sociali nelle province di Bari e Brindisi per il confezionamento e la distribuzione dei prodotti. La portata dell’iniziativa ha superato i confini pugliesi: quest’anno, i panettoni artigianali tarantini saranno esposti anche a Milano, nelle vetrine di Corso dei Mille. I gusti proposti per le festività spaziano dal classico alle varianti più particolari: mandarino e caramello salato, arancia e cioccolato fondente, e cioccolato fondente. Durante la presentazione, il sindaco di Taranto, Piero Bitetti, ha sottolineato l’alto valore sociale dell’iniziativa. Don Francesco Mitidieri, cappellano del carcere di Taranto e presidente dell’associazione di volontariato penitenziario Noi & Voi, ha evidenziato che “questi panettoni non sono solo lievitati perché c’è il lievito dentro, ma è il lievito che, come dice il Vangelo, fa fermentare la massa e diventa veramente un bene che si moltiplica sempre di più e parla delle persone che lo producono e della realtà del carcere”. Anche il direttore del carcere di Taranto, Luciano Mellone, ha evidenziato la funzionalità del progetto al percorso rieducativo: “Il carcere può servire davvero al reinserimento, insegnando un mestiere e accompagnando i detenuti anche dopo la scarcerazione, seppur con numeri ancora limitati rispetto alle necessità”. De Cataldo: “L’eroina fra i giovani fu anche strategia e il Fentanyl di oggi sa di arma politica” di Gianni Armand-Pilon La Stampa, 23 novembre 2025 Nel nuovo libro dell’ex giudice e scrittore torna l’Italia anni 70: “Stagione ancora attuale, sento alzarsi un venticello utopistico”. Neanche stavolta l’Italia svela i suoi segreti più profondi. E del resto, trattandosi degli Anni 70, poteva forse essere altrimenti? Nell’ultimo romanzo di Giancarlo De Cataldo, “Una storia sbagliata”, in libreria per Einaudi Stile Libero, un poliziotto e un giudice istruttore indagano su una ragazza morta per droga nella Roma del 1974. Uno dei primi casi di overdose da eroina. Si ritroveranno invischiati in un gioco criminale condotto da agenti provocatori (Jay Dark, lo stesso del romanzo “L’agente del caos”), servizi paralleli, funzionari corrotti o che fanno finta di non vedere. Attorno a loro, si muove un Paese attraversato da grandi passioni civili ma manovrato dalle logiche della Guerra fredda. Un Paese ancora scosso dalle azioni terroristiche di Settembre nero, che corre ignaro verso la tragedia del sequestro Moro. De Cataldo, perché ancora gli Anni 70? “Quella stagione è attualissima. Una stagione al tempo stesso meravigliosa, contraddittoria e violenta. Vedo che gran parte dei segni culturali di quel tempo, dalla musica a un certo modo di vestire, anche a certi tagli di capelli, stanno tornando tra i ragazzi di oggi. Si riaffaccia anche un certo venticello utopistico. Lo si ritrova, per esempio, in un film come Una battaglia dopo l’altra di Paul Thomas Anderson”. Eppure l’agente Paco Durante e il giudice Agnello sono due sconfitti. “Diciamo che sono due uomini di Stato che passano da una sconfitta all’altra ma continuano a credere nella giustizia. Una giustizia che possiamo definire etica”. Difficile credere alla giustizia in un clima come quello, non crede? “Il clima era quello della guerra fredda, e oggi ne sappiamo abbastanza per poter dire che allora alcune cose non si potevano né dire né fare, alcune verità non si potevano rivelare. Siamo il Paese nel quale un grande statista e un grande politico come Aldo Moro è stato sacrificato alla logica della guerra fredda”. E il giudice e il poliziotto del libro? “Anche il povero giudice Agnello e il povero poliziotto Paco Durante non possono capire fino in fondo la strategia di penetrazione delle droghe nel mondo giovanile attuata dagli esperti di guerra psicologica e dai servizi deviati”. È agghiacciante. “La tesi di questo libro non è che senza gli agenti provocatori come Jay Dark quella generazione sarebbe andata luminosamente incontro alla vittoria. Le droghe circolavano, e la propensione allo sballo era un fatto reale. Diciamo che i cattivi hanno dato una mano. Non hanno creato il fenomeno, semmai lo hanno aiutato a irrobustirsi”. A un certo punto nel suo romanzo entra un misterioso personaggio, Blue Moon, la gola profonda. Blue Moon è anche il nome di un’operazione che la Cia avrebbe condotto in Italia per promuovere il consumo di eroina tra i giovani. Se n’era occupato il giudice Guido Salvini. Condivide? “Le prove scritte non le abbiamo. Ma le operazioni di guerra sporca, quelle le conosciamo. Si trovano proprio nei documenti dell’inchiesta di Salvini. Del resto, se guardiamo alla storia, l’uso politico della droga è ricorrente. Si pensi alla guerra dell’oppio in Cina, e parliamo dell’Ottocento. O allo scandalo Iran-Contras. O, ancora, all’operazione che negli Stati Uniti trasformò una generazione di giovani neri rivoluzionari, le Pantere nere, in una generazione di tossicodipendenti. Perché non immaginare che qualcosa di analogo sia successo o almeno sia stato tentato anche da noi?”. Esiste un uso politico anche della malavita? “Io credo che a certi livelli ci siano connessioni che nessuno conosce bene. In Italia noi usiamo, forse impropriamente, il termine trattativa. Ma chiunque abbia studiato queste cose sa che i rapporti tra il potere politico e le organizzazioni forti sul territorio come la mafia ci sono stati fin dai tempi dell’unità d’Italia. Ora si discute molto del Fentanyl, e io mi domando se anche questa non possa essere considerata un’arma politica”. Viene da pensare all’offensiva di Trump in Venezuela. Cosa ne pensa? “Istintivamente, vista la provenienza, sono portato a pensarne male. Intendiamoci, Maduro non è il duca di Windsor, non stiamo parlando di un gentiluomo. E tra l’altro voglio ricordare che proprio il Venezuela tiene prigioniero da un anno un nostro cooperante senza alcun motivo. Insomma, non me la sento di difendere Maduro. Però questa campagna statunitense non mi è per niente chiara”. A un certo punto nel libro si affaccia un servizio segreto parallelo. Riferimento a Gladio? “No, non è Gladio. È qualcosa di peggiore e di più estremo, come i Nuclei per la difesa dello Stato. Gladio era un’organizzazione diffusa in tutti i Paesi occidentali, e non è un caso che sia stata rivelata dopo la caduta del muro di Berlino. Quello a cui faccio riferimento è un super servizio del quale non sappiamo molto ma che comunque non è Gladio. Probabilmente una sua deviazione, anche se quando si parla di deviazioni in Italia bisogna stare molto attenti perché non si capisce mai bene chi devia da che cosa. Diciamo solo che la base è la stessa, questo sì: anticomunismo a 360 gradi”. “Le istituzioni - si legge del libro - sono gli uomini che le rappresentano”. Cosa pensa di chi oggi rappresenta quelle istituzioni? “Noi abbiamo il dovere di rispettarle, le istituzioni. Tutte, sempre. Anche quando non ci piacciono, anche quando sono alimentate da chi non la pensa esattamente come noi. La sacralità dell’istituzione è qualcosa che dovremmo recuperare, invece mi pare che la politica urlata, aggressiva, e anche un certo tipo di informazione di questo periodo non abbiano nessuna forma di rispetto”. È il risultato di un mondo sempre più polarizzato. Che sensazione prova? “La sensazione di chi si trova sull’orlo di un grande cambiamento. Bisogna vedere dove si va. C’è anche un aspetto che si può apprezzare in tutto questo, ed è che lo scenario si è chiarito. È un momento nel quale è difficile non stare da una parte e dall’altra. Le due grandi parti sono la democrazia occidentale come noi l’abbiamo conosciuta sinora, e i regimi che, pur avendo una facciata di democrazia, evolvono verso un autoritarismo quasi imperiale, da satrapia orientale. Anche qui in Occidente”. Come giudica, da ex magistrato, la riforma della giustizia del Governo? Come voterà al referendum? “Io sono per il no. Sono convinto che la vera domanda non sia separazione delle carriere o sorteggio dell’alta Corte ecc. Credo che la domanda sia: volete che la funzione di governo prevalga su ogni altra funzione? O volete conservare l’assetto attuale nel quale il potere giudiziario esercita una forma di controllo sul potere governativo? Parlo di governo e magistratura perché il Parlamento, così come lo abbiamo conosciuto, in quest’ultimo periodo, è stato abbastanza depotenziato delle sue prerogative”. Torniamo al libro. Lei scrive che il giudice Agnello ricorda Pietro Germi. Perché questa citazione? “È un omaggio. Un inchino a quello che forse è stato il più grande esploratore dei generi del cinema italiano classico”. A parte il celeberrimo “Romanzo criminale”, lei è anche autore di una serie di libri il cui protagonista, Manrico Spinori, il “contino”, svolge indagini come il giudice Agnello ma in un contesto e in anni del tutto diversi. In chi dei due si riconosce di più? “Difficile rispondere, anche perché io ho sempre lavorato in Corte d’Assise e non ho mai svolto indagini. Posso dire questo: credo che ogni magistrato della mia generazione sia stato un po’ come il giudice Agnello e adesso sia un po’ come il contino”. Carlotto: “Caporalato, sfruttamento, lavoro nero. Così il mio Veneto ha cambiato pelle” di Guido Caldiron Il Manifesto, 23 novembre 2025 Lo scrittore: “Costruire una rete di letteratura di opposizione che analizzi la situazione del Paese per mostrarne tutte le contraddizioni”. I suoi romanzi non hanno reso Massimo Carlotto solo uno dei protagonisti del noir europeo, ma anche un attento e appassionato osservatore delle trasformazioni del Veneto. Come indicano le indagini dell’Alligatore, il detective senza licenza protagonista di molte sue storie, che vive e opera a Padova, la città di Carlotto, che hanno appena compiuto trent’anni, celebrati con il romanzo “A esequie a venire” (Einaudi), recensito sul manifesto l’8 novembre. Il debutto dell’Alligatore è del 1995: quanto è cambiata la regione nel frattempo? Il Veneto è cambiato moltissimo, nel senso che c’è stata una vera e propria modificazione antropologica, con lo sviluppo di un’illegalità diffusa, endemica, che si diffonde a macchia d’olio. Illegalità a livello economico che significa anche illegalità nel mondo del lavoro: caporalato, sfruttamento, lavoro nero. E tutto ciò cresce all’interno di una logica di consumo folle del territorio. Una situazione preoccupante a cui si è accompagnata la formazione di un blocco sociale che vota in particolare la Lega perché questo partito risponde alla logica “gli affari vanno rispettati”. E la percezione che c’è qui è che “il nero” sia il vero motore dell’economia. Inoltre, il flusso di questi soldi non è visibile ma viene intascato subito, investito in attività pulite o finisce nelle banche clandestine cinesi. Un blocco sociale che sembra però pronto a cambiare referente politico, vista la crescita dei consensi per Fratelli d’Italia… In realtà il blocco sociale che si è costituito in Veneto premia le forze politiche che tutelano i privilegi di chi ne fa parte. Detto questo, in campagna elettorale c’è stato uno spiegamento di forze straordinario da parte della Lega per raccogliere il maggior numero di preferenze in favore di Alberto Stefani, che mi sembra il candidato “perfetto” per la regione, molto di più di quelli che avrebbe potuto proporre la destra che da queste parti è piuttosto becera: sono quelli che vanno alle commemorazioni dei repubblichini, tanto per capirci. Le destre indicano “gli stranieri” come responsabili della criminalità. Nei suoi romanzi emerge però come gli interessi delle mafie internazionali siano intrecciati a quelli dell’economia locale. Nel suo ultimo libro un imprenditore si serve di una banca clandestina cinese... In Veneto si è creato “un sistema” che funziona anche molto bene. Da una parte le culture criminali e mafiose italiane ed estere. Dall’altra, ambienti corrotti dell’imprenditoria, della finanza e della politica. Il sistema economico del Nordest sembra fatto apposta per riciclare e così si fanno grandi affari. La criminalità straniera investe nel territorio in attività pulite perché c’è quella che potremmo chiamare una borghesia imprenditoriale corrotta che accetta, aiuta, collabora e guadagna. E le cose sono destinate a peggiorare, già oggi la gestione di molte aziende è in mano alla criminalità. Rispetto a come la Lega si è imposta in Veneto, c’è un elemento di cui non è facile misurare il peso: l’attenzione posta sull’”identità”... Penso che in realtà, malgrado ci abbiano provato in tutti i modi, gli è sempre andata male. Mi spiego: ci hanno provato ai tempi di Galan con un’enciclopedia che doveva raccontare la storia dal punto di vista dei veneti: un fallimento. Poi, Zaia con la lingua, e anche lì non è andata meglio. È rimasta l’identità vittimista, quella che dice “noi veneti siamo perennemente sfruttati dal Sud che ci deruba”. In questo territorio, evocare in questi termini il Sud vale di più rispetto al parlare dei migranti, perché qui i migranti li vogliono, anche se nascosti, per farli lavorare nei campi o nelle aziende. Quando si è svolto il referendum sull’autonomia (2017) in Veneto la Lega ha stravinto, ma oggi quella parte “identitaria” non esiste quasi più, ci sono solo dei gruppuscoli sia a destra che a sinistra che agitano il tema dell’indipendentismo. Ma il vero messaggio che è passato è un altro: se evadi le tasse sei un patriota e non ti fai perseguitare dallo Stato italiano. In un volume uscito alla vigilia del voto - “Veneto Punto e a capo” di Diego Crivellari e Francesco Jori - si riflette sul ruolo svolto dalla letteratura nel raccontare le trasformazioni della regione: dalla locomotiva Nordest alla crisi permanente. Lei come immagina questo ruolo? In realtà si tratta di un dibattito che stiamo facendo anche a livello nazionale con altri autori. Io ritengo che in questo momento sia fondamentale costruire una rete di letteratura di opposizione che analizzi la situazione del Paese per mostrarne tutte le contraddizioni. Credo che sia ciò che possiamo fare come scrittori nella prospettiva di una letteratura che torni a raccontare il conflitto sociale nel presente come sul piano storico. Perché la democrazia non è più scontata di Anna Foa La Stampa, 23 novembre 2025 Stiamo ogni giorno di più interrogandoci sulla democrazia, su cosa la definisca, su come si sia trasformata a partire dalla seconda metà del Novecento, quando si è affermata sulle rovine della guerra e delle dittature, sul suo declino o forse sulla sua morte imminente, da troppi profetizzata. Era per tutti, almeno per chi come noi viveva in un continente come l’Europa, al sicuro nelle nostre tiepide case, un dato scontato, acquisito, e pensavamo che non sarebbe mai tramontata. Dico un continente, ma dovrei dire la nostra parte, quella occidentale, del continente, perché nella parte orientale invece imperversavano mancanza di libertà, processi, gulag, invasioni, come nell’Ungheria del 1956 o nella Praga del 1968. E anche in Occidente, come non ricordare la Spagna di Franco, il Portogallo di Salazar, la Grecia dei colonnelli? No, era davvero piccola la parte dell’Europa in cui potevamo farci forti della nostra storia passata, richiamare Locke e Kant, la Rivoluzione francese e la lotta contro il nazifascismo, fin dimenticare i nostri crimini coloniali. Ma la democrazia non resta tranquilla nel suo nido privilegiato, ha bisogno di essere difesa, riedificata ad ogni cambiamento, rinnovata. I nazionalismi, i populismi, ne sono il peggior nemico. Ed ecco oggi il gran parlare che se ne fa, il bisogno di capire cosa effettivamente sia, quale ne sia stata l’origine. Quali i suoi rapporti con le guerre, negli anni in cui un paese dittatoriale come la Russia attacca un paese vicino per distruggerne la libertà. Quali i suoi rapporti con quella Europa senza confini che stiamo cercando faticosamente di rendere più forte e viva, un’Europa che richiede per esservi accettato alcuni criteri indispensabili, come la democrazia politica, la libertà, e perfino il rifiuto della pena di morte. E poi l’ignoranza: provate a chiedere cosa caratterizzi la democrazia, e tanti avranno un’unica risposta, il voto. Certo, la scelta popolare garantita dalle elezioni ne è una precondizione, ma molte altre ne sono le condizioni, e fra esse la libertà di parola, di coscienza, di religione, l’uguaglianza davanti alla legge, il rifiuto delle discriminazioni, la limitazione delle disuguaglianze sociali. E non tutti i paesi di questa nostra Europa hanno oggi saputo mantenersi dentro questi limiti. E fin gli Stati Uniti, l’altra patria della democrazia e dello stesso pensiero democratico, assiste ora ad una crisi senza precedenti della sua struttura politica. E tanto sono minacciate le democrazie che si sente il bisogno di inventare altri nomi per definire il loro stato ibrido, come “democratura”. Fra tutte queste riflessioni e queste domande, che tanto ci confortano in questa crisi ma che anche tanto ci inquietano sul nostro futuro, vorrei ricordare l’iniziativa di Gariwo, che ha creato una Carta della Democrazia e che su questo tema si interrogherà nei prossimi giorni a Milano, in presenza di studiosi dell’Occidente e dell’Est, e la proporrà ai rappresentanti della rete dei trecento giardini dei Giusti nel mondo che saranno presenti con le Nazioni Unite. Al centro del dibattito non possono non essere gli esiti della guerra della Russia contro l’Ucraina e le minacce che pesano su questa nostra piccola parte d’Europa, ma anche l’emergere della forza contro il diritto, l’attacco sempre più violento al diritto internazionale da parte degli Stati Uniti e di Israele, i nazionalismi dilaganti, i crimini contro l’umanità, i nuovi razzismi. “Dopo la fine della Seconda guerra mondiale e la caduta del Muro di Berlino sta accadendo nel mondo qualche cosa di inaspettato per chi ha creduto che i valori della democrazia, del dialogo, della pace e della nonviolenza fossero qualche cosa di garantito su cui si poteva costruire il futuro. Invece, le nuove immagini delle autocrazie del XXI secolo, che perseguitano e mettono a tacere ogni voce differente, così come il clima di odio e di contrapposizione che si percepisce sulla scena pubblica, ci fanno capire come si sta perdendo il gusto e il richiamo ai fondamenti della democrazia”. Nella nostra agenda però, non potrà esserci solo l’elaborazione di una linea meramente difensiva. Difendere la democrazia di fronte a tutte queste minacce, oggi, non può non comportare un difficile lavoro di ricostruzione, che non può venire solo dall’alto, da un rinnovamento delle istituzioni, ma deve venire anche dal basso, dai giovani che chiedono di capire e di sapere. La mancanza di una prospettiva realmente politica, non solo ancorata ai partiti, ai voti, al potere; i timori di fronte alle assunzioni di responsabilità, propri degli individui come dei governi, l’acquiescenza di fronte alle prepotenze degli Stati e dei potenti, l’ignoranza e l’incultura prese a modello, tutto questo fa parte delle minacce alla democrazia, delle prospettive più angosciose sul futuro nostro e dei nostri figli. Ma forse, se le riconosciamo, siamo ancora in tempo a creare un mondo a misura degli esseri umani. Il bisogno di sicurezza e il dovere di accogliere di Andrea Malaguti La Stampa, 23 novembre 2025 Al Torino Film Festival Jacqueline Bisset porta sul palco del teatro Regio l’incredibile meraviglia dei suoi ottantuno anni. Elegante, determinata, piena di fascino, impugna il microfono e rompe il protocollo da serata inaugurale. Non parla di cinema, parla di una cosa che è successa a lei. Ma in realtà parla di chi non riesce a sbarcare il lunario, di chi non ha un tetto sopra la testa, di chi trattiamo come feccia. Gli invisibili, i fragili, meglio se immigrati. Racconta della sera prima, in albergo, quando ancora piena di sonno sente il bisogno di andare in bagno e, mezza nuda, abbandona il letto. L’oscurità la confonde. Apre una porta, la varca e se la chiude alle spalle. È quella della camera. Non ha con sé la chiave, non ha un telefono, vicino a lei non c’è nessuno. È rimasta fuori. Tutto il suo mondo è dall’altra parte. È scalza, svestita, si sente fragile come non le è mai successo. Non sa a chi chiedere aiuto. Nemmeno come. E si vergogna. Si domanda: che cosa farei se questa fosse la mia condizione di vita abituale? Perché le città europee, e del mondo, non sono piene di rifugi e di bagni per chi è in difficoltà? Pensieri disarticolati, da piccola emergenza improvvisa, che si interrompono quando un uomo appare in corridoio. “Mi può aiutare?”. Quello risponde secco: “No”. E se ne va. Capisce di averlo spaventato. “Forse mi sarei spaventata anch’io”. Il punto è che i fragili ci fanno più paura dei forti. È da loro che ci attendiamo il pericolo, in un interessante ribaltamento del senso. Nessuno è bersaglio della violenza quanto gli invisibili. In platea, c’è chi commenta ridacchiando: “cos’è, una lezione buonista?”. Bisset è lì sul palco, dunque è andato tutto bene, no? Applausi. Si va avanti. Ma a me l’aneddoto, minore, lo so, rimane in testa. E prende definitivamente corpo quando Sergio Castellitto, parlando di Torino, dice: “è una città unica, perché è contemporaneamente aristocratica, borghese e proletaria”. Ha ragione. Dimentica giusto un aggettivo: solidale. Forse la sua parte migliore. Quella che fa sperare che alla fine, al mondo, i buoni siano sempre uno in più dei cattivi. Proprio venerdì mattina, con Federico Monga, siamo andati a trovare Sergio Chiamparino all’Opera Barolo, dove, finito il Covid, l’ex sindaco, ex presidente della Regione Piemonte ed ex parlamentare di democratici di sinistra e Ulivo, ha cominciato a fare volontariato. Riempie le cassette di cibo a lunga conservazione e le distribuisce ai più poveri. Pasta, sugo, tonno, olio, zucchero, latte. A volte c’è persino il pecorino fresco. Sono prodotti che arrivano dal Banco alimentare, dalle Coop, dalle donazioni private, destinati a sfamare, e spesso a vestire, circa mille-ottocento persone iscritte nei registri dell’Opera, con Isee al di sotto dei diecimila euro. Seicento nuclei famigliari, quasi tutti migranti. Nell’ultimo anno si è moltiplicato a dismisura il numero dei peruviani che scappano dai disordini di Lima, per finire, generalmente, in mano ad un racket locale che sequestra loro i documenti e chiede tangenti sul lavoro. Quante volte trattiamo le vittime come se fossero carnefici? Normalmente fanno i badanti. Quelli che entrano in casa nostra. Si occupano dei nostri genitori. O di noi. Quelli che spesso paghiamo in nero. In genere meno di dieci euro l’ora. “Certo, non siamo noi a salvarli dalla miseria. Ma cerchiamo di dare una mano. Sai, in fondo io sono rimasto un vecchio comunista. Per me la politica non può essere solo teorie e parole, che pure servono. Ma deve essere azione. Altrimenti non è”. Ha i capelli bianchi, il fisico tonico, da montanaro incallito. Impossibile riconoscergli i suoi settantasette anni. “Ma ce li ho”. Poco tempo fa, per scaricare delle casse si è fatto venire un’ernia che lo ha costretto al ricovero. “Venire qui per me ha un senso”. Lo provoco: è una cosa di sinistra? “È una cosa da esseri umani. E sì, è di sinistra. Perché la sinistra ha sempre avuto come obiettivo quello di aiutare i più deboli”. Memorandum per i più distratti. Nel mondo del trumpismo accanito, del putinismo violento, dei nazionalismi spietati e dell’abiura europea ai suoi valori consolidati, Sergio Chiamparino può apparire fuori sincrono. In realtà non è così. Fa solo parte di un pezzo di realtà che abbiamo smesso di guardare. Qui, nel distretto della solidarietà torinese, dove nello stesso quartiere sono sistemate l’Opera Barolo, la sede di Camminare Insieme (di cui Chiamparino è presidente), della Pastorale Migranti, del Cottolengo e di una Casa di accoglienza per donne, ogni giorno si presenta un fiume di volontari. Molti sono professionisti affermati. Compresi i centoventi medici che offrono il loro contributo nel piccolo ospedale nel portone di fianco. Gratis. Gente anonima e straordinaria. Anche stamattina all’accettazione c’è la fila. Marocchini, senegalesi, pakistani. Un mondo pieno di mondi. Aveva ragione Federico Fellini. “Non c’è fine, non c’è inizio. C’è solo l’infinita passione della vita”. Guardo Chiamparino. Non hai mai paura di loro? “Maddai. Se non ci fossero bisognerebbe inventarli”. Snocciola i dati sulla demografia. E quelli del Pil. L’immigrazione vale il 9% del nostro prodotto interno lordo. E oltre il doppio quando si parla di agricoltura e di edilizia. Resta che ad una larga parte di italiani i migranti danno (eufemismo) fastidio. Dunque, che facciamo con loro? Calci in culo e a casa? Non è questo lo spirito del tempo? Sollecitazione impopolare. Anche qui la contemporaneità pretende una scelta di campo: o chiedi, come Alice Weidel (leader dell’ultradestra tedesca) e Silvia Sardone (leghista pugnace) l’immediata “reimmigrazione” o sei un terzomondista radical-chic che non ha mai messo piede in periferia. Un modo surreale per affrontare i problemi di un pianeta in cui si contano 281 milioni di migranti internazionali e 117 milioni di persone in movimento forzato a causa di conflitti, violenze e disastri. E dove, solo nel 2025, i morti nel Mediterraneo sono stati più di mille. Per questo la prospettiva di Chiamparino è due volte interessante. Da vecchio comunista, come si definisce lui, ma soprattutto da amministratore pubblico, ha sempre pensato che accoglienza e sicurezza debbano andare di pari passo e che non sia scandaloso dirlo. Eppure, la sinistra ha avuto un recente e tardivo risveglio, da sempre terrorizzata dall’idea che la richiesta, banale, di rispettare l’ordine pubblico, sia l’anticamera di una dittatura. Ma se hai paura dei ladri, degli spacciatori o di un’aggressione in strada, sei di destra o di sinistra? Una domanda alla quale la politica dovrebbe rispondere con una voce sola. E che invece ci insegue ogni giorno, finendo per farci credere che chiunque non sia come noi, chiunque abbia le pezze nei pantaloni e un passaporto incerto, sia una minaccia per la sicurezza nazionale. Una mattinata qui all’Opera Barolo, dove stanno raccogliendo con fatica i fondi per acquistare un ambulatorio mobile, e la prospettiva cambia. Le persone che delinquono si arrestano, quelle che hanno bisogno si aiutano. “Una terapia che fa miracoli. Ieri mattina è venuto un marocchino. Ci ha chiesto di toglierlo dalla lista degli aventi bisogno. Aveva trovato un lavoro. Mai visto così felice. Voleva che il suo cibo andasse ad altri”. Morale? “Morale, io mi sono ormai ritirato dalla politica attiva. Ma se dovessi dare un consiglio alla sinistra, che su questi temi ha perso credibilità da decenni, sarebbe semplice: bisogna occuparsi della realtà per quello che è. Non per quello che vorremmo che fosse”. Accogliere. Ma in sicurezza. I volontari del distretto della solidarietà torinese lo fanno con ventimila immigrati ogni anno. Dunque, si può. Occupare le periferie con una presenza in ascolto di Marco Pappalardo Avvenire, 23 novembre 2025 Abbiamo visto piazze e scuole riempite dalle proteste. Perché non fare lo stesso con un movimento di cultura, sport, musica e attività educative? Viviamo un tempo che chiamiamo spesso di “emergenza educativa”, una definizione importante che rischia di diventare abitudine, come se fosse un’etichetta inevitabile e il sottotitolo purtroppo scontato di molti convegni. Dietro questa espressione ci sono volti, storie, ragazzi e ragazze che si perdono per strada, che si cercano in notti confuse, tra la movida e il web, in quei vuoti che la scuola, la famiglia, la comunità non riescono più a riempire. È una povertà che non riguarda solo il portafoglio ma l’anima: povertà educativa, la mancanza di spazi di senso, di adulti credibili, di luoghi dove imparare a vivere serenamente insieme agli altri e per gli altri. Ogni giorno le cronache ci raccontano episodi di violenza, di sopraffazione, di indifferenza. Quanto accaduto a Palermo al giovane che stava aiutando la vittima di un pestaggio in una zona centrale della città, è solo l’ultimo doloroso episodio. Guerre quotidiane che si combattono in famiglia, con i vicini, tra i banchi, per strada, sui social; silenziose e reali, che feriscono tanto quanto quelle combattute negli Stati e tra le nazioni. Sono frutto di disattenzione, di solitudine, di esclusione, di mancanza di riferimenti saldi, di perdita dei valori, di un crollo dei principi educativi, ma anche di un arretramento della politica e di un avanzamento della grande e piccola criminalità armata. Eppure, proprio mentre il mondo sembra smarrirsi nei conflitti - quelli che devastano interi popoli in tante parti del mondo e quelli dietro casa nostra - possiamo leggere anche un segno di speranza: migliaia di giovani che scendono in piazza per chiedere pace, per dire che l’ingiustizia non può essere normalità. È bello e necessario vedere queste mobilitazioni, tuttavia la pace non si costruisce solo nei cortei o nei gesti pubblici spinti dall’emozione del momento; si crea nel piccolo, nelle relazioni quotidiane, nei gesti che educano, nella scelta di farsi prossimo. Se riuscissimo a portare quella stessa passione che anima le piazze dentro le problematiche delle nostre città, dei nostri quartieri, delle nostre scuole, forse potremmo cambiare davvero qualcosa. Perché la pace nasce anche da un doposcuola aperto nei quartieri difficili, da un’associazione che accoglie ragazzi in difficoltà, da un adulto che ascolta, da un ragazzo che impara a fidarsi di nuovo. In questi giorni, molte scuole e università sono state occupate con spazi di riflessione, di confronto, di protesta civile; occasioni in cui i giovani cercano parole nuove per leggere il mondo e per capire il proprio posto dentro di esso. Quando quest’onda passerà, perché non pensare di proseguire con lo stesso impegno in un altro modo, ad esempio nel volontariato? Perché non “occupare”, metaforicamente e concretamente, quei quartieri difficili, quei centri storici, quelle periferie dove c’è bisogno di presenza, di ascolto, di opportunità, di solidarietà, di cultura? Perché non “occupare” con la scuola, con la cultura, con lo sport, con la musica, con le attività educative quegli spazi dove la povertà educativa cresce e le mafie fioriscono? Sarebbe bello vedere tanti di questi studenti, insieme ai docenti, impegnarsi nei propri paesi, nelle proprie città, trasformando le classiche occupazioni scolastiche e universitarie in una “preoccupazione” bella e concreta per il territorio. Non per contestare, ma per costruire. Non per chiudersi, ma per aprirsi. Non per dividere, ma per unire. Anche questo potrebbe cambiare pian piano la realtà, riportare vita dove c’è abbandono, relazioni dove c’è isolamento, speranza dove regna l’indifferenza. C’è bisogno di una mobilitazione educativa capace di ricucire il tessuto umano delle nostre comunità civili ed ecclesiali. Non servono eroi ma presenze. Non servono proclami e bandiere, ma mani che si “sporcano” e cuori che restano nei luoghi della fatica quotidiana del crescere, alleandosi non per piccoli interessi di parte, bensì per un bene più grande. Solo così, forse, potremo dire di costruire la pace non solo nel mondo, ma dentro di noi e attorno a noi. Ogni gesto di educazione è un atto di pace e ogni volta che un giovane ritrova il suo posto nella comunità una piccola guerra finisce. I centri antiviolenza e i percorsi di libertà di Cristina Carelli e Luisanna Porcu Il Manifesto, 23 novembre 2025 La violenza maschile contro le donne e di genere non è un fatto neutro, ma una questione culturale e sociale che ad oggi dipende da scelte politiche che di fatto negano questa origine. Lo dimostrano proposte di legge che vietano l’educazione sesso-affettiva nelle scuole primarie e impongono il consenso delle famiglie per portarla nelle scuole secondarie. Le famiglie hanno un problema: sono i luoghi in cui si manifesta maggiormente la violenza. Lo dimostra un approccio securitario alle politiche di sostegno alle donne che chiedono aiuto al sistema antiviolenza. La violenza si contrasta affermando e nutrendo la libertà delle donne e di tutte le soggettività che escono dalla norma patriarcale. Lottiamo perché i centri antiviolenza femministi possano continuare a realizzare percorsi di libertà, affermando l’autodeterminazione delle donne e la loro libera scelta. Richiamiamo lo Stato ad attivarsi per colmare quei gap culturali e formativi che oggi producono ancora rivittimizzazione delle donne, come afferma il Grevio nelle sue raccomandazioni allo stato. Lottiamo per affermare il diritto alla salute e alla libera scelta di praticare l’interruzione di gravidanza. Lottiamo perché la salute riproduttiva sia riconosciuta come un diritto fondamentale e non come un privilegio variabile a seconda del territorio, delle opinioni personali di chi dovrebbe garantire un servizio pubblico o delle pressioni politiche del momento. Il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza deve essere pienamente esigibile, libero da ostacoli materiali e morali, e sostenuto da una rete sanitaria competente, formata e non giudicante. Chiediamo che lo Stato investa in consultori laici, accessibili, capaci di accompagnare ogni donna nei propri percorsi di salute, fertilità, contraccezione, maternità o non maternità, riconoscendo che il controllo sul proprio corpo è un pilastro dell’autodeterminazione. La salute riproduttiva non è un capitolo separato: è parte integrante della libertà delle donne e di tutte le soggettività marginalizzate dal paradigma patriarcale. Lottiamo per affermare il diritto alla propria indipendenza economica e Richiamiamo il Governo a costruire politiche di contrasto alla violenza sistemiche, che contemplino politiche del lavoro a misura di donna. Lottiamo per vivere in pace, invitando lo Stato a prendere posizioni nette in politica estera, di condanna al genocidio in Palestina e di tutte le guerre che rispondono a logiche di potere fondate su interessi economici di pochi. Tutto ciò si nutre della stessa matrice, la cultura patriarcale che genera disparità, abusi, gerarchie. La nostra lotta passa dai nostri corpi con cui segniamo in modo tangibile la nostra forza collettiva. Quando attaccano la nostra libertà, la nostra forza collettiva si fa sentire ed avanza, perché vogliamo trasformare il mondo. Vogliamo realizzare ogni giorno azioni con l’obiettivo di scardinare il Sistema. “Non una di meno” torna in piazza contro guerre e patriarcato di Alberto Sofia Il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2025 “Le parole dei ministri Nordio e Roccella? Sono fuori dalla realtà, non soltanto producono senso di impunità, ma confermano e normalizzano una struttura sociale che vuole la violenza maschile contro le donne e la violenza di genere ancora fortemente radicate e al centro della nostra organizzazione sociale”. Nel giorno in cui per le strade di Roma è tornato il corteo nazionale di “Non una di meno”, con lo slogan “Sabotiamo guerre e patriarcato”, in vista della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne del prossimo 25 novembre, la “marea” fucsia si è scagliata contro gli esponenti del governo e contro l’attacco rivolto alla scuola pubblica e all’educazione sessuo-affettiva portato avanti dal ministro Giuseppe Valditara. Era stata la ministra per la Famiglia, la natalità e le pari opportunità, Eugenia Roccella a rivendicare come, a suo dire, “non c’è una correlazione fra l’educazione sessuale nella scuola e una diminuzione delle violenze contro le donne”, mentre il Guardasigilli Nordio aveva evocato pure la genetica: “Il dna dei maschi non accetta la parità”. Parole che avevano scatenato polemiche anche tra le opposizioni. “Questa piazza è anche una risposta alle loro dichiarazioni. Al contrario di quanto dice Roccella, per noi l’educazione sessuo-affettiva è uno dei punti cardine della lotta alla violenza, seppur sappiamo che da sola non basta. E abbiamo sentito Nordio rinaturalizzare la violenza di genere come fosse un destino, quando in realtà ha radici sociali”, hanno attaccato da “Non una di meno”. Ma a bocciare gli interventi governativi sono state anche le attrici Paola Cortellesi e Anna Foglietta, presenti al corteo: “Da cittadina sento un po’ di sconforto - ha precisato Cortellesi -. Se mi baso su queste parole sento che non c’é una voglia di andare avanti sull’educazione sesso affettiva nelle scuole che invece ricreerebbe tutto un altro tipo di società. Laddove i ragazzi non hanno un’educazione, quel vuoto viene riempito da stimoli spesso fuorvianti. Non si deve creare quel vuoto”. “Sono parole che non condivido”, ha aggiunto Foglietta. E ancora: “Credo che il percorso sullo sradicamento della violenza di genere è un percorso che deve essere portato avanti responsabilmente da tutti. Dobbiamo essere sinceri e ammettere che nessuno se ne è mai realmente fatto carico di questo problema. È una questione che va affrontata in maniera seria e dovrebbe essere sempre ingaggiata, a prescindere da qualsiasi ideologia o bandiera. Dove non arriva la politica deve arrivare la società che ogni giorno deve manifestare la propria indignazione”. In testa al corteo i centri antiviolenza: “Sono un baluardo fondamentale contro la violenza di genere, ma questo governo, come quelli precedenti, continua a sottofinanziarli”, hanno denunciato le attiviste e i manifestanti. La manifestazione si è così snodata lungo via Cavour e via Merulana, per poi concludersi a Piazza San Giovanni. Da gennaio a oggi l’osservatorio di Non una di meno ha contato 78 femminicidi, 3 suicidi indotti di donne, 2 di ragazzi trans, 1 di una persona non binaria e 1 di un ragazzo. Numeri che, hanno precisato da “Non una di meno”, “non danno la misura del quotidiano sommerso e strutturale della violenza”. Anche per questo la rete ha contestato il recente voto in commissione Cultura della Camera sul disegno di legge che limita l’educazione sessuale nelle scuole. “Il governo ascolti questa piazza. A partire dal provvedimento Valditara: va respinto al mittente e bocciato in Aula perché è una lesione grave delle azioni che si mettono in campo nelle scuole italiane contro la violenza di genere, omofobica e contro le donne”, ha rivendicato anche la deputata Avs Elisabetta Piccolotti. Il fallimento della Cop30 in Brasile di Carlo Petrini La Stampa, 23 novembre 2025 Nel testo finale sparisce l’impegno ad abbandonare i combustibili fossili. Ancora una volta gli unici vincitori sono le lobby dell’industria e del profitto. Mentre scrivo queste righe, nonostante il ritardo di un giorno, la Cop30 di Belém non si è ancora conclusa. Da quanto trapela dalle ultime bozze di dichiarazione finale, con ogni probabilità vincerà l’opzione al ribasso. La parola “uscita” dai combustibili fossili è stata rimossa dal testo e sostituita con un più soft e poco significante “allontanamento”; peraltro già menzionato alla Cop di Dubai di due anni fa (dove sta il progresso dunque?). Alla fine, gli unici vincitori della COP30 sono ancora una volta le lobby del profitto. Ma cosa hanno vinto se non la loro e nostra condanna? La loro e nostra distruzione? Sul fronte della giusta transizione la partita dell’adattamento è stata tre le più delicate. I negoziatori hanno lavorato alla definizione degli indicatori dell’Obiettivo Globale sull’Adattamento, un passaggio potenzialmente storico che inciderebbe sulla capacità concreta dei Paesi di sviluppare sistemi di protezione, prevenzione e resilienza. Ma senza risorse adeguate tutto rischia di trasformarsi nell’ennesimo esercizio burocratico: un elenco di metriche inapplicabili. Analogo discorso vale per il fondo perdite e danni che, con l’attuale dotazione di 700 milioni di dollari, rimane lontano dalla scala necessaria (i danni causati dal recente uragano Melissa in Giamaica sono stati superiori). Le risorse mancano non perché scarse, ma soprattutto per la distorsione profonda che affligge i negoziati. Basti pensare che un partecipante su venticinque era un rappresentante del mondo dell’industria. Si parla di 1.600 persone del settore dei combustibili fossili e 300 dell’agribusiness; cifre che superano di gran lunga il numero dei delegati di quasi tutti i Paesi presenti. C’è da dire che la loro partecipazione non è illegittima, però è sproporzionata e ha influenzato i processi negoziali, assoggettandoli agli interessi di parte anziché al perseguimento del bene comune. Soffermandosi sulla questione alimentare il padiglione “Agrizone” è un esempio lampante di quanto appena detto. Sponsorizzato da colossi dell’agribusiness quali Bayer, Syngenta e Nestlé, è stata un’arena del greenwashing che ha celebrato una finta agricoltura sostenibile. Dico questo perché in Brasile il loro modello industriale è responsabile del 74% delle emissioni nazionali di Co2 e provoca deforestazione, inquinamento ed erosione del suolo da pesticidi, conflitti per l’accaparramento di terre, spesso appartenenti a comunità indigene, e perdita di biodiversità causata dalle monocolture distruttive. C’è poi una proposta pericolosa che è stata rilanciata a Belém con il sostegno anche del nostro governo: la quadruplicazione entro il 2035 dei biocarburanti. Siccome il 90% dei biocarburanti deriva da colture alimentari, un aumento aggraverebbe la competizione tra cibo ed energia, in un mondo ancora segnato dalla piaga della fame e da prezzi agricoli instabili. Oltre a quanto citato (in negativo), il discorso alimentare ancora una volta non ha trovato il posto che merita al tavolo dei negoziati. Il percorso su agricoltura e sicurezza alimentare iniziato a Sharm el Sheikh è stato rinviato; non si è parlato di sovranità alimentare, né si è affrontato il nesso tra questo settore e la crisi climatica; di cui né è al contempo vittima e carnefice. Una mancanza grave resa ancora più marcata dai dati del report Fao pubblicato nei giorni della Cop. Negli ultimi trent’anni gli eventi climatici estremi hanno causato 3200 miliardi di dollari di perdite al settore agricolo. Su base annuale equivale al 4% del PIL alimentare globale che si smaterializza per via di ondate di calore, siccità, alluvioni e parassiti. L’Africa e ancora più l’Asia sono i continenti in cui si registrano più danni e tristemente sono anche quelli con i tassi maggiori di persone che soffrono la fame. Se vogliamo trovare qualcosa che ci dia un po’ di speranza la Cop30 ha offerto uno spunto positivo: a Rio de Janeiro 300 leader subnazionali, soprattutto sindaci e governatori, hanno discusso del ruolo decisivo delle città nella sfida climatica. Oggi oltre metà della popolazione mondiale vive in aree urbane, responsabili di due terzi delle emissioni, ma proprio le metropoli stanno mostrando la via. Londra, con la zona a zero emissioni ha migliorato drasticamente la qualità dell’aria, ed entro il 2023 altre 30 città del mondo replicheranno il modello. Parigi ha reso obbligatorio l’uso di cibo biologico e locale negli appalti pubblici per costruire un sistema alimentare più sostenibile. Città del Capo ha dimezzato il consumo idrico con un programma ambizioso che include anche riparazioni gratuite della rete idrica per le famiglie a basso reddito. Secondo il network C40, le città riducono le emissioni pro capite cinque volte più rapidamente degli Stati, dimostrando che la trasformazione è possibile e misurabile e passa dal cambiamento dei comportamenti. L’innovazione tecnologica, tanto amata dai leader nazionali, da sola non basta. È necessario costruire un nuovo paradigma di vita su questo pianeta. Senza questo non esiste mitigazione, finanza o adattamento che possano reggere. Ciò non significa rinnegare i progressi compiuti, bensì fare ordine tra le priorità. Da una società centrata sull’economia a una che mette al centro il benessere. I leader indigeni, guidati della loro cosmovisione, a Belém hanno richiamato più volte il concetto di salute planetaria: non esiste salute umana senza salute degli ecosistemi. Tutelare la salute del Pianeta non è un gesto altruista da radical chic, ma è l’unica opzione che abbiamo per garantire la nostra sopravvivenza come specie umana. Non comprendendo ciò, a forza di accordi al ribasso ci stiamo scavando la fossa. Venezuela. Caso Trentini: “Torture anche agli occidentali. Ci davano medicinali per calmarci” di Estefano Tamburrini Il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2025 “È troppo dura da raccontare. Non lo capirete mai. Preferisco non parlarne”. Poche parole, scandite con dolore, quelle di Camilo Castro, il 41enne francese rilasciato lo scorso 15 novembre, anniversario di prigionia di Alberto Trentini, dal maxi-carcere El Rodeo I, dove si trova anche l’operatore umanitario di Lido Venezia. Ora è libero, ma una parte di sé è rimasta dietro le sbarre, con gli altri detenuti, compreso Trentini, che è stato il suo vicino di cella. Lo si può notare al rientro all’aeroporto di Orly, visibilmente commosso, mentre evocava i valori dell’Illuminismo e della Repubblica francese - libertà, fraternità, uguaglianza -, evitando accuratamente di rispondere ai media presenti. “Non vuole dire niente che metta a repentaglio la vita di coloro che sono rimasti lì. Desidera invece lottare, anche nel silenzio, affinché tutti possano ottenere la liberazione”, dice Yves Gilbert, patrigno di Camilo, a Ilfattoquotidiano.it. A parlarci è lui, Yves, compagno di Hélène Boursier, mamma di Camilo, professore di yoga, detenuto nella località di Paraguachón, al confine tra il Venezuela e la Colombia, lo scorso 26 giugno. “Per lui raccontare i mesi di prigionia significherebbe girare il coltello nella piaga”. La settimana post-rilascio è stata accompagnata da numerose richieste di contatto: dalla stampa ai familiari di altri prigionieri, ansiosi di ricevere informazioni utili sui congiunti ancora in cella. Yves spiega a Ilfatto.it che Camilo è rimasto “inquieto e scioccato” dopo la reclusione: “Era una persona stabile, aveva costruito la propria vita, ma la prigione gli ha tolto tutto. E ora deve ripartire da capo”. Castro ha condiviso la dura esperienza della prigionia con Trentini, che era suo vicino di cella. Lo ha descritto come una persona “psicologicamente forte” e “capace di reggere anche sotto condizioni difficili”, grazie anche agli “anni dedicati al lavoro umanitario” nei Paesi del Sud del mondo. Il cooperante di Lido Venezia appare quindi come “una persona consapevole, capace di leggere il contesto in cui si trova”. Castro invece si è reso conto del pericolo che lo circondava una volta dietro le sbarre, precisa Yves, sottolineando che “i contatti fra i due erano quindi regolari, nonostante la differenza di carattere”. Ai detenuti vengono inoltre distribuiti dei farmaci e la maggior parte tende ad abusarne. Il fine: mantenere la calma, nonostante tutto. Parlando a Ilfatto.it i familiari di Camilo smentiscono eventuali trattamenti di favore rivolti ai detenuti stranieri, sottoposti a condizioni detentive fatiscenti e a trattamenti inumani e degradanti. “L’essere europeo non mette a riparo da torture e botte”, spiega Hélène, attivista per i diritti umani. Durante la prigionia di Camilo, Yves ed Hélène seguivano le notizie su Trentini: gli appelli a suo favore, le dichiarazioni della mamma, Armanda Colusso, e altre iniziative. Entrambi trattenuti dalle autorità venezuelane per motivi simili: “Loro sono innocenti. A Camilo dicevano che era stato arrestato in quanto ‘agente della Cia’, ma sappiamo tutti che è stato arrestato per costringere il governo francese a trattare. Idem Alberto, arrestato perché italiano”. L’obiettivo: costringere Parigi e Roma a trattare pur di riaverli. In seguito i familiari sono stati interpellati da Il Fatto.it sui movimenti diplomatici che hanno condotto al rilascio di Camilo. La svolta si è verificata dopo la presa di posizione del ministro degli Esteri francese, Jean-Noël Barrot, intervenuto al G7 per condannare l’escalation Usa nei Caraibi e chiedere “il rispetto del diritto internazionale” nell’attuale controversia Usa-Venezuela. Queste dichiarazioni hanno sbloccato la mediazione di Colombia, Brasile e Messico che hanno ottenuto il rilascio di Camilo da parte di Palazzo di Miraflores. “Pur non conoscendo tutti i livelli della trattativa, in parte riservata, sappiamo che quel momento è stato decisivo per la scarcerazione di Camilo”, hanno sostenuto i familiari. Caracas attende dichiarazioni simili, in ottica distensiva, da parte di Palazzo Chigi, chiariscono a Ilfattoquotidiano.it fonti vicine al dossier. Ma il governo Meloni mantiene la linea della fermezza, dettata in parte dalla subordinazione nei confronti di Washington. Lo percepiscono anche i familiari di Castro: “Meloni è fautrice di una posizione politica estrema che le impedisce di avvicinarsi a Maduro, come ha invece fatto la Francia in questi mesi, avvalendosi anche del Parlamento europeo”. In questi casi - chiosa Yves - la libertà di un cittadino “dipende esclusivamente dal suo governo”, il quale può beneficiare della fitta rete di collaborazione che “unisce le rappresentanze diplomatiche presenti a Caracas”. Il rilascio di Camilo ha comportato anche la ‘liberazione’ di Yves ed Hélène, reduci da mesi di mobilitazione riconosciuti anche dalle autorità francesi. “Camilo non era un prigioniero politico. E nemmeno Alberto lo è. Entrambi sono stati presi perché estranei alla vita politica del Venezuela”, ha concluso Yves, commentando: “Anche María Corina Machado ci ha cercato in questi giorni, ma non abbiamo risposto. Sappiamo che è pro-Trump e non sta a noi schierarci fra un bando chavista o quello filostatunitense”.