“Zero sovraffollamento, più dignità e diritti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 novembre 2025 I dati sono drammatici: situazione peggiore del 2013, quando la Cedu condanno l’Italia con la sentenza Torreggiani e l’Associazione Antigone ha lanciato una petizione al governo e al Parlamento. La richiesta è chiara: intervenire subito per garantire condizioni di detenzione rispettose dei diritti umani. Non sono slogan, sono numeri. E i numeri dicono che siamo tornati indietro di undici anni, a quando la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per le condizioni “inumane o degradanti” delle carceri. Era il 2013, la sentenza Torreggiani. Circa 4mila persone detenute avevano fatto ricorso. Quella condanna aprì - tra mille difficoltà - una stagione di riforme. Si parlò di dignità, di sovraffollamento, di diritti. Le condizioni di detenzione entrarono nel dibattito pubblico. Oggi siamo peggio di allora. Nel solo 2024, i Tribunali di sorveglianza hanno accolto 5.837 istanze presentate da persone detenute, riconoscendo condizioni contrarie all’articolo 3 della Convenzione europea. Quasi 6mila violazioni certificate della proibizione di tortura e trattamenti inumani. In un solo anno. I detenuti nel nostro Paese alla data del 31 ottobre risultano essere 63.493, vale a dire 295 in più rispetto a fine settembre, a fronte di 45.651 posti effettivamente disponibili (sono 95 in meno rispetto al mese precedente). Il tasso di affollamento è quindi passato dal 135,5% al 136,4%. Una crescita costante che ha riportato il Paese a superare soglie che non venivano raggiunte da quegli anni che costarono la condanna europea. Il sovraffollamento non è un problema tecnico: è la radice di ogni altra violazione. Celle sovraffollate significano spazi ridotti al minimo, igiene compromessa, tensioni che esplodono, suicidi che si moltiplicano. Tra i detenuti, ma anche tra il personale. C’è un altro dato che racconta la pressione sul sistema: quanto ai numeri dell’esecuzione penale esterna ci si sta avvicinando alla soglia delle 100mila persone sottoposte a misure restrittive della libertà diverse dalla detenzione in carcere. A fine ottobre sono poco più di 99.700, in aumento di 170 unità rispetto a fine settembre. Significa che il sistema nel suo complesso è al limite, e che le misure alternative - pur essendo l’unica strada percorribile - stanno reggendo a fatica il peso di una macchina penale che produce condanne senza sosta. Cosa dovrebbe fare il governo - Le proposte di Antigone partono da una priorità: obiettivo zero sovraffollamento. Mai più un detenuto oltre la capienza legale. Per raggiungerlo, l’associazione chiede misure deflattive immediate: una clemenza, un ampliamento delle misure alternative, una riforma della liberazione anticipata. Non è buonismo, è realismo: se lo Stato non riesce a garantire condizioni dignitose, deve ridurre il numero di persone in carcere. È una questione di coerenza costituzionale prima ancora che di politica criminale. Il documento va oltre l’emergenza numerica e tocca nodi strutturali. Il primo: l’isolamento. Le celle chiuse per la maggior parte della giornata, l’impossibilità di mantenere contatti significativi con l’esterno, la privazione della vita affettiva. Antigone chiede telefonate quotidiane per i detenuti di media sicurezza - un intervento a costo zero, viene sottolineato - e l’immediata attuazione della sentenza della Corte Costituzionale sul diritto alla sessualità e all’affettività. In molti istituti le persone detenute possono chiamare i familiari una o due volte alla settimana, per pochi minuti. Il risultato è che si spezzano i legami, si alimenta la disperazione, si perde il contatto con quella realtà esterna a cui - prima o poi - si dovrà tornare. Poi c’è il tema dell’isolamento disciplinare, quella pratica che la ricerca scientifica definisce senza mezzi termini dannosa per la salute fisica e mentale. Antigone chiede l’abolizione totale per i minori, l’eliminazione di quello diurno per i pluri-ergastolani, una riduzione drastica per gli adulti fino alla progressiva dismissione. L’isolamento viene ancora usato come strumento disciplinare, come se la privazione della libertà non fosse già di per sé una sanzione sufficiente. Ma chiudere una persona in una cella per 22 o 23 ore al giorno, senza contatti umani significativi, produce danni irreversibili. La proposta di tornare al sistema delle celle aperte per almeno otto ore al giorno, riempiendo gli istituti di attività sociali e culturali, non è utopia: è il modello che funziona nei Paesi dove il carcere rieduca davvero. L’isolamento nuoce, recita il documento, la socialità e la cultura curano. Aprire le celle significa permettere alle persone di socializzare, di lavorare, di studiare, di fare sport, di partecipare a laboratori. Significa costruire un percorso che abbia senso, invece di limitarsi a contenere corpi in spazi sempre più ristretti. Sul fronte della modernizzazione, Antigone chiede l’approvazione del nuovo regolamento proposto dalla Commissione Ruotolo, per superare finalmente l’era pre-digitale. E chiede telecamere negli spazi comuni - scale incluse - a tutela di detenuti e operatori. Non per reprimere, ma per garantire trasparenza. Così come la richiesta di informazione ufficiale e tempestiva su morti e suicidi in carcere: la cronaca non può essere l’unica fonte su tragedie che riguardano la responsabilità dello Stato. Il capitolo sul personale è centrale. Migliaia di nuove assunzioni in tutti i ruoli dell’amministrazione penitenziaria, non per militarizzare il sistema ma per avere operatori qualificati, anche di notte, capaci di contrastare il burnout che sta distruggendo chi lavora in carcere. Il personale penitenziario è stremato. Turni massacranti, carenza di organico, condizioni di lavoro impossibili. E poi premiare chi garantisce un modello di pena costituzionalmente orientato: favorire le progressioni di carriera per i direttori che innovano, non per chi si limita a gestire l’esistente. L’appello a investire sui Sert per politiche di riduzione del danno e sui servizi di salute mentale è significativo. Il carcere è pieno di tossicodipendenti e persone con fragilità psichiche che non dovrebbero starci. Ma finché ci sono, lo Stato ha il dovere di curarle, non di abbandonarle. La tossicodipendenza non si cura con la detenzione, si cura con percorsi terapeutici. Due le richieste di abrogazione normativa: il reato di rivolta penitenziaria, che punisce anche la resistenza passiva rischiando di seppellire in carcere le persone più vulnerabili, e il decreto Caivano, che in due anni - denuncia Antigone - ha distrutto il sistema della giustizia minorile. Il reato di rivolta penitenziaria è una norma pericolosa, che equipara comportamenti diversissimi e che rischia di trasformare ogni protesta in un reato grave. Infine, il coinvolgimento degli enti locali: Regioni, ASL, scuole. Perché il carcere non può essere un mondo a parte, ma deve dialogare con il territorio. Investimenti nella formazione professionale, ispezioni immediate sullo stato igienico-sanitario, nuove sezioni di liceo negli istituti. Le Regioni devono investire sulla formazione professionale dentro le carceri, perché senza competenze spendibili sul mercato del lavoro non c’è reinserimento possibile. La petizione di Antigone è un atto politico necessario. Ricorda che la privazione della libertà non può diventare privazione della dignità. Che l’articolo 3 della Convenzione europea non è un optional. Che undici anni dopo Torreggiani, l’Italia continua a violare i diritti fondamentali di migliaia di persone. E che questo non è solo un problema di chi sta dietro le sbarre, ma della democrazia nel suo complesso. Un Paese che accetta la tortura - perché di questo si tratta quando si riconoscono trattamenti inumani e degradanti - non può chiamarsi civile. Stare alla larga dal potere in nome delle garanzie di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 22 novembre 2025 Abbiamo bisogno di un dialogo effettivo, efficace, continuo con i garanti regionali e comunali e questa disponibilità l’abbiamo fortunatamente ampiamente riscontrata. La strategicità della loro funzione deve essere chiara ai governi territoriali e alle forze democratiche e progressiste. “Papà, ho dei problemi: in cella si sono messi a fare degli impicci e io sono voluto restarne fuori ma per questo è arrivato tal zio…, uno che si fa chiamare così, uno che gestisce questi impicci, e mi ha detto che se non volevo aiutare e collaborare mi avrebbe fatto spostare. Io gli ho ribadito di no, che non volevo aiutare, e il giorno dopo, cioè oggi, sono arrivati gli appuntati e mi hanno spostato… Parla con Antigone o con chi ti pare a te, ma io devo essere spostato da qui prima che mi mettano in mezzo. Poi ho fatto la denuncia (del tentativo di violenza sessuale) ma da quando l’ho fatta qui tutti mi vedono come un infame”. Chi scrive è un giovane ragazzo. La sua vita, la sua incolumità andrebbero garantiti da tutti noi. Il verbo garantire, andando alle sue origini etimologiche, significa assicurare l’adempimento di un patto. Ci chiediamo se l’attuale Garante dei diritti delle persone private della libertà sta adempiendo o meno al patto che lo ha istituito. Ci chiediamo se è fedele o meno al suo mandato normativo che consiste nel dover proteggere la dignità e i diritti di tutte quelle persone (una enormità) che sono recluse nelle carceri per adulti e per minori, nei Cpr, nelle camere di sicurezza delle forze di Polizia e in tutti gli altri non luoghi dove viene negata la libertà di movimento da parte dallo Stato. La risposta oggi è No. Non lo sta facendo. L’autorità oggi è una delle tante istituzioni formali che taglia nastri, visita ma non fa visite nei luoghi di privazione della libertà, non si apre e non informa la società. È il declino di un’istituzione che si propone come una voce non dissonante rispetto a quella ufficiale. Questo però non ci fa fare un passo indietro intorno alla necessità di disporre di un’istituzione di garanzia e di difesa civica dei diritti delle persone private della libertà. Non sarà un cattivo professore a giustificare la chiusura della scuola pubblica. Nel frattempo, da due decenni e più, si è consolidata una rete di garanti territoriali che oggi ha un compito strategico, ossia quello di essere l’altra faccia (quella rispettosa del patto legislativo e costituzionale) di un’istituzione troppo appiattita sui controllori. Sul declino culturale della figura del garante nazionale sarebbe opportuno aprire una riflessione in parlamento e sarebbe importante che il capo dello Stato facesse sentire la sua voce autorevole. Il momento storico è tra i più complessi e tragici degli ultimi decenni. Se un tempo le pratiche penitenziarie e reclusive erano lesive dei diritti fondamentali, la retorica pubblica non le rivendicava. Oggi pratiche e retorica si muovono in modo pericolosamente omogeneo. Si rivendica espressamente un’idea di pena truce, di reclusione asfittica e senza senso, di detenzione con corpi ammassati e anime umiliate. Si annichilisce la società esterna impedendole di essere protagonista della custodia. Si nega l’assunto per cui i custoditi non sono proprietà pubblica dei custodi. Antigone segue circa cinquecento casi l’anno con il proprio difensore civico. Abbiamo bisogno di un dialogo effettivo, efficace, continuo con i garanti regionali e comunali e questa disponibilità l’abbiamo fortunatamente ampiamente riscontrata. La strategicità della loro funzione deve essere chiara ai governi territoriali e alle forze democratiche e progressiste. Sin dalla nomina deve essere garantita indipendenza. La parola indipendenza non è un guscio vuoto. In primo luogo è qualcosa che ha a che fare con i compiti della politica. Indipendenza è estraneità per biografia, per storia personale rispetto alle amministrazioni da controllare. Indipendenza significa evitare che tali istituzioni siano cooptate dentro il meccanismo perverso delle nomine politiche da spartire. Indipendenza significa essere distanti dal potere, dall’amministrazione che ha proceduto alla nomina. Indipendenza significa autorevolezza, capacità di interlocuzione verso il basso e verso l’alto. Indipendenza significa conoscenza profonda dell’oggetto dell’osservazione e esperienza pluriennale nel monitoraggio. Su queste basi c’è necessità di una grande alleanza costituzionale tra la società civile e tutte le istituzioni di garanzia. Carceri e non solo, Garanti a confronto “per l’indipendenza” di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 novembre 2025 Il convegno dell’associazione Antigone per analizzare l’impasse e ridare slancio al ruolo del National Preventive Mechanisms. Palma: “Serve una griglia strutturale per evitare che l’efficacia dipenda dalle persone”. Ci sono metaforicamente tre sedie vuote, nella sala dove fin dal mattino si sono radunati ieri quasi tutti i Garanti dei diritti delle persone private di libertà personale - comunali, provinciali e regionali - provenienti da ogni parte d’Italia, chiamati a convegno dall’associazione Antigone che di questa authority è senz’altro la madrina. E ci sono tre posti in piedi vuoti, per quei convitati di pietra, durante il mezzo minuto di silenzio dedicato ai morti in carcere: solo nelle ultime 48 ore due detenuti suicida, a Como e a Torino. L’assenza dei tre componenti del collegio nazionale - Turrini Vita, Conti e Serio - che non hanno accettato l’invito, è un vulnus per tutti i presenti, qualunque sia l’orientamento politico delle amministrazioni che hanno determinato la loro nomina, qualunque sia il grado di conoscenza del proprio mandato, l’autorevolezza e l’indipendenza; che siano retribuiti o volontari. Parte da qui, da questa mancanza - che poi è il precipitato della distanza siderale che divide ormai la rete dei 96 garanti territoriali dal collegio di nomina governativa - il convegno nazionale “Garanti. 1997-2025. Da quando Antigone propose l’istituzione dei Garanti alla necessità odierna di nuove prospettive”. Nella sede dell’Arci, a pochi passi dalla stazione Tiburtina di Roma, il livello della discussione è altissimo. Introdotto dal presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, il confronto tra i presenti è serrato: esperienze vissute, problemi emersi o falle normative rilevate. Si parla del potere di “moral suasion” che “non basta più”; di “difficoltà di farsi ascoltare e di incidere” presso le amministrazioni competenti (penitenziaria, amministrativa o sanitaria); di “blocchi comunicativi”, con le autorità e con i media ma anche tra gli stessi garanti; o di limiti imposti ai garanti regionali ma non a quelli nazionali, come per esempio negli incontri con i detenuti in 41bis. Un’occasione necessaria per fare il punto dello stato di salute dei luoghi di reclusione (ospedali, Rsa, Cpr, camere di sicurezza, carceri) e di questa figura che in Italia interpreta il ruolo di Meccanismo Nazionale di Prevenzione (NPM) della tortura. Nel tentativo di imprimerle un nuovo slancio. “Il momento è drammatico: nelle carceri va perfino peggio che ai tempi della sentenza Torreggiani perché, a differenza di allora, il governo è inerte e quindi il trend è in crescita”, fa il punto Stefano Anastasia, garante regionale del Lazio che chiede ai presenti di “serrare le fila, qualificando la nostra azione, rivendicando indipendenza, rafforzando le relazioni con la società civile e con lo stesso personale penitenziario, mortificato nelle professionalità da questa situazione”. Samuele Ciambriello, Portavoce della Conferenza territoriale, come molti altri solleva il tema della nomina dei garanti, troppe volte con un passato nella stessa amministrazione penitenziaria e perfino un presente in quelle istituzioni che si sarebbe chiamati a controllare. “Come possono ruoli che implicitamente generano conflitti di interesse garantire l’efficienza, la trasparenza e l’imparzialità che tale ruolo richiede?”. Nomine troppo spesso “ad personam” e non, come dovrebbe essere, per effetto di un bando e con il sugello del voto dei consigli comunali o regionali. È questo uno dei nodi più problematici messi a fuoco nelle conclusioni affidate all’ex Garante nazionale (Gnpl) Mauro Palma. L’ultimo ad aver consegnato al Parlamento, nel giugno 2021, la relazione annuale sulle carceri prevista dallo stesso statuto del Gnpl. “Siamo in un momento di attacco, anche all’indipendenza, della figura del garante. Ritengo però che sia finita la fase sperimentale e che ora sia arrivato il momento di dare una griglia strutturale a questo ruolo per evitare che la sua efficacia dipenda dalle persone”, afferma Palma facendo riferimento soprattutto ai garanti comunali che dovrebbero adottare le linee guida messe a punto dall’Anci due anni fa. “Il garante non è l’estensione dell’assessore o il supplente dell’amministrazione”, ammonisce. E non si sovrappone neppure alla magistratura di sorveglianza. Poi, per la prima volta, forse, il presidente del primo Collegio nazionale riserva una strigliata anche ai dipendenti dei penitenziari: “Un personale è dignitoso anche quando si fa rappresentare da persone dignitose”. Riforme normative non occorrono, e non è certo questo il momento migliore, fa notare Palma che riassume: “Sono cinque i punti da chiarire: il nome dell’istituzione, l’ambito territoriale, l’ambito tematico, i criteri di nomina e il metodo di lavoro”. L’attività di reporting con le raccomandazioni, per esempio, “è tanto fondamentale quanto l’attività di visita ispettiva”. Servono invece “nuovi criteri di uniformità interna”. Palma sprona la platea allo studio, a prendere come riferimento gli organismi sovranazionali, e alla piena consapevolezza della centralità di questa figura che sta crescendo sempre più, ed è per questo che è sotto attacco. Affinché sia tutta la rete, e non solo il Garante nazionale, a ricoprire il ruolo di National Preventive Mechanisms. Uno, nessuno, centomila. Il senso del carcere cambia a seconda di chi lo guarda (e amministra) di Maria Brucale Il Domani, 22 novembre 2025 Due circolari amministrative a confronto, una del direttore generale dei detenuti e trattamento, l’altra del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, mostrano due visioni opposte di carcere: una di carcere come “non luogo”, l’altra di carcere come luogo in cui comunque poter restare parte attiva della società. Il carcere appare sempre più opaco, sempre più chiuso, strumento non di recupero ma di segregazione e di isolamento sociale, di negazione di relazionalità, di esclusione dalla comunità civile. Una visione volutamente solo punitiva, assai distante dal sentire dei Padri Costituenti, tesa a disegnare solo l’apparenza fallimentare del baluardo di sicurezza del buttare la chiave e a nascondere la sconfitta dello Stato e del suo sistema penitenziario dietro una coltre sempre più fitta di burocrazia, di firme e di autorizzazioni, di cavilli e di ostacoli, di castelli di carta. Eppure, il progetto luminoso dell’ordinamento penitenziario di dare finalmente, a distanza di quasi trent’anni, attuazione al dettato costituzionale finalizzando ogni pena alla restituzione in società, mette l’uomo al centro, come individuo. Disegna una rete di norme volta al riconoscimento della dignità come connotato universale, il piatto stesso della bilancia, per evocare la lezione del Presidente emerito della Corte costituzionale Silvestri, che non si riconosce per meriti e non si perde per demeriti. Chiarisce che non può esistere punizione senza finalizzazione al recupero e alla restituzione che si compie attraverso la partecipazione all’ offerta formativa nutrita di occasioni di socialità, di condivisione del pensiero, di studio, di evoluzione nel rapporto con la società esterna. “Libertà è partecipazione”, diceva Gaber e gli spazi residui di libertà anche in carcere sono da proteggere ad ogni costo perché esprimono la sostanza di ogni uomo che si evolve ed è tutelata nell’ambito delle formazioni sociali ove si esprime la sua personalità. Nessuno si salva da solo e l’ambiziosa speranza costituzionale di rieducare è saldamente ancorata all’assolvimento di obblighi solidaristici verso chi è incorso nel reato attraverso una contaminazione positiva che si fa spazio grazie alla relazione, allo studio, all’ arte, al teatro, alla lettura, alla parola su tutto. Così tanto più grave è stata la caduta nel crimine, tanto più necessaria è quell’opera di incontro e di scambio continuo di contenuti per innestare spunti di ideazione e di azione su strade nuove, su strade buone. La circolare sugli eventi educativi - La circolare del 21 ottobre a firma del Direttore generale Napolillo sui provvedimenti autorizzativi di eventi a carattere educativo, culturale e ricreativo, oltre a privare sostanzialmente di ogni potere i provveditorati regionali, si innesta, invece, in un disegno già ampiamente avviato di marginalizzazione ed esclusione delle persone detenute nei circuiti di alta sicurezza relegandole all’ isolamento, negando loro quegli spazi di incontro e di confronto con il mondo fuori che, soli, possono produrre stimoli di cambiamento e di superamento delle subculture della criminalità organizzata. Impediscono, così, il dirompente effetto disgregante della riuscita del progetto riabilitante sui condannati per mafia che abbiano saputo trovare in modelli positivi, con cui abbiano potuto entrare in contatto, la capacità di cambiare e siano, così, riusciti ad approdare a una vita improntata all’ adeguamento e alla condivisione delle regole della società civile. Spengono, di fatto, la tensione della pena in carcere al recupero e al reinserimento della persona condannata determinando una cesura sempre più marcata dalla società civile. Negano ai ristretti che già vivono una condizione insopportabile di afflizione a causa del sovraffollamento - in strutture fatiscenti che non garantiscono neppure il decoro minimo e la decenza, in cui l’ accesso a ogni diritto fondamentale si traduce in supplica ormai frustrata, in cui i legami familiari si sgretolano, in cui gli spazi destinati alle attività ricreative e didattiche vengono riempiti di brande per accatastare corpi da chiudere, in cui le malattie psichiatriche si moltiplicano, espressione di un dato patologico che nel carcere ha la sua genesi e la sua struggente esasperazione, in cui il dolore del vivere si traduce in migliaia di gesti autolesionistici e tanti, troppi suicidi - anche la speranza, meglio l’illusione, di essere ancora parte di una comunità. In questo scenario, appaiono coerenti quanto allarmanti le parole di Napolillo che - nell’ambito di un convegno dal titolo “Amministrazione penitenziaria. Un’emergenza sociale” - con toni nostalgici parla dell’ordinamento penitenziario del 1975 come una rete di norme forse non più attuale perché avrebbe nel tempo tradito la sua originale funzione, quella, nella sua lettura, di disegnare il carcere come un “non luogo”, fuori dalla società civile con i muri alti atti ad estraniare, anche un “non tempo” idoneo alla segregazione eppure a vocazione trattamentale intesa come eliminazione di ogni libertà di autodeterminazione del recluso che non avrebbe alcuno spazio di libertà residuo perché “lasciare uno spazio vuoto in un istituto” vuol dire che “o lo Stato è assente o quello spazio sarà conquistato dalla criminalità”. Secondo il direttore generale dei detenuti e trattamento, non si può in carcere adottare il modello della società civile in cui l’autodeterminazione ammette la possibilità di esprimere delle scelte nel quotidiano, in carcere gli spazi liberi non possono esistere perché “o c’è lo Stato con la legalità o c’è la criminalità”. Uno sconcertante fraintendimento della finalità dell’ordinamento penitenziario, quella di definire, in coerenza al dettato costituzionale, una pena utile al recupero del recluso valorizzandolo come persona in ciascun aspetto della sua personalità e caratterizzando la reclusione come simile il più possibile alla vita libera, riempiendo di contenuti formativi gli spazi residui di libertà. Un travisamento anche del progetto trattamentale secondo Costituzione, vocato mai alla segregazione e alla esclusione - che evoca l’oscena rappresentazione della damnatio ad metalla - ma, sempre, alla risocializzazione, alla reintegrazione, alla responsabilizzazione di ogni ristretto quale membro della collettività. La circolare del capo del Dap - A tale scenario si contrappongono con forza, almeno nelle palesate intenzioni, le parole di un’altra circolare, del 10.10.2025 a firma di Carmine De Michele, capo del Dap: “Il comportamento dei detenuti che scelgono di rivendicare diritti attraverso modalità aggressive e violente, lungi dall’essere meri atti di indisciplina, costituisce spesso il sintomo evidente di disfunzioni organizzative interne che devono essere affrontate in via prioritaria. […] L’esperienza dimostra che la sicurezza e il trattamento non sono due binari paralleli, ma due dimensioni inscindibili della vita penitenziaria. Ogni ritardo nella consegna di effetti personali, ogni incertezza nell’organizzazione di colloqui o telefonate, ogni lentezza nella gestione sanitaria o amministrativa diventa terreno fertile per malcontento e conflittualità”. Nello scenario politico attuale le parole del capo Dap arrivano come balsamo su ferite tutte aperte perché colgono e comprendono l’inscindibile connessione tra atteggiamenti reattivi anche violenti da parte dei detenuti e la mancanza di rispetto dei loro diritti, di cura delle loro esigenze e dei loro bisogni, di risposta alle loro urgenze di comunicazione con la famiglia e gli affetti, di restare parte attiva del loro nucleo affettivo, familiare, sociale. Fa seguito alla luminosa premessa un imperativo di efficienza che coinvolge tutti gli ambiti organizzativi e gestionali del sistema carcere e che, certamente condivisibile nei propositi, appare purtroppo, nel panorama attuale - in cui nessun servizio è offerto in modo adeguato per la totale assenza di risorse umane e materiali a fronte del sempre ingravescente sovraffollamento - uno sterile esercizio dialettico. Si apprezza la aspirazione a superare logiche meramente formali e burocratiche affermando con forza il principio della compartecipazione effettiva di tutti gli operatori alla gestione dei reparti. E tuttavia si devono fare i conti con un sistema al collasso incapace di fornire, come detto, anche una qualità di vita prossima alla decenza. Nella medesima ottica efficientista, la circolare bacchetta i “pendolarismi ospedalieri per urgenze differibili, che generano disagio, costi e rischi di sicurezza”. E afferma che: “Occorre valorizzare le risorse interne, garantendo continuità delle cure e tempestività delle risposte. Il medico penitenziario deve assumersi la responsabilità di una valutazione rigorosa, contattando direttamente il 118 solo nei casi di effettivo pericolo di vita”. E di nuovo sbatte, infrangendosi, insieme ai buoni intenti che la animano, sulla situazione reale nella quale gli istituti di pena non sono attrezzati a fornire adeguata assistenza pressoché in nessun ambito medico e devono fare ricorso ai ricoveri esterni ma si scontrano con la grave carenza numerica di operatori assegnati al nucleo traduzioni, ai servizi di scorta e di piantone che l’impossibilita di raggiungere i luoghi di cura anche per chi sia affetto da malattie gravissime e attende giorni, mesi, anni a volte perfino per interventi chirurgici salvavita. Suicidi in carcere, uno ogni quattro giorni di Ilaria Dioguardi vita.it, 22 novembre 2025 Sono 72 i detenuti che hanno deciso di togliersi la vita dall’inizio dell’anno, uno ogni quattro giorni. L’ultimo questa notte alle Vallette di Torino, mentre il penultimo aveva 24 anni ed era stato uno dei protagonisti della rivolta scoppiata all’istituto di pena di via Bassone a Como, era l’unico detenuto rimasto ferito e trasportato in pronto soccorso. Aveva 24 anni ed era stato, la settimana scorsa, uno dei protagonisti della rivolta scoppiata in carcere al Bassone di Como. Era l’unico detenuto rimasto ferito e trasportato in Pronto soccorso. Mercoledì sera, poche ore dopo essere stato dimesso e riportato nell’istituto, si è tolto la vita: era di origine marocchina, residente a Como, lo hanno trovato impiccato in una cella d’isolamento nella sezione Infermeria. Stanotte un altro ristretto si è tolto la vita, al carcere Le Vallette di Torino: è il suicidio numero 72 dall’inizio dell’anno, secondo i dati del dossier “Morire di carcere” di Ristretti orizzonti. Abbiamo fatto il conto: precisamente una persona ogni quattro giorni e mezzo. Suicida dopo essere stato indagato per la rivolta - Da quanto si apprende, il ventiquattrenne di Como giovedì scorso era stato uno dei primi partecipanti alla rivolta identificati dalla polizia penitenziaria, ripreso dalle telecamere prima che venissero rotte dai detenuti: aveva aggredito, ferendolo, l’agente che prestava servizio in sezione, poi aveva cercato di scappare, rimanendo incastrato e ferendosi a sua volta. Dopo essere stato in ospedale, era stato riportato in carcere, dove aveva saputo di essere stato indagato per la rivolta: in conseguenza di ciò sarebbe stato trasferito in un’altra regione. Su Il Giorno si legge che il ragazzo era arrivato in Italia nel 2019, dopo essere stato in Spagna e in Olanda, chiedendo un asilo politico che gli era stato negato: era stato arrestato un anno fa. Nella rassegna Anteprima, curata da Giorgio Dell’Arti, si legge che il ragazzo aveva un passato di tossicodipendenza e quattro anni ancora da scontare per reati contro il patrimonio. L’istituto di pena del Bassone, a fronte di una capienza regolamentare di 226 detenuti, ne ospita 445 (dati aggiornati al 31 ottobre 2025, ministero della Giustizia). Un incendio nell’Articolazione tutela salute mentale di Sollicciano - Un altro carcere, un’altra vicenda drammatica. Una decina di giorni fa, nella sezione Articolazione tutela salute mentale - Atsm del carcere di Sollicciano, è scoppiato un incendio. “Alcuni detenuti sono rimasti coinvolti riportando ustioni ai capelli e segni visibili dell’accaduto. È un fatto gravissimo, che non può essere archiviato come un semplice caso, anche perché di roghi ne sono avvenuti altri negli ultimi mesi”. La denuncia arriva da Pantagruel, l’associazione di volontari impegnata nella casa circondariale di Sollicciano. La salute mentale, in carcere, è un capitolo marginale - “Le persone che vivono nella sezione Atsm”, dice il vicepresidente di Pantagruel Stefano Cecconi, “sono soggetti fragili con diagnosi psichiatriche importanti. Già ci sarebbe da chiedersi perché debbano trovarsi in una sezione penitenziaria invece che in un luogo di cura adeguato. La tutela della salute mentale deve fermarsi davanti alle mura del carcere?”. “Oltre a questa riflessione generale non possiamo che un reparto destinato alla cura si trasformi in un contesto dove accadono episodi pericolosi. Se una sezione per detenuti con disturbi psichiatrici prende fuoco, significa che il sistema non sta funzionando”, prosegue Cecconi. “Occorrono risposte immediate, non solo parole. La regione, l’Asl e l’amministrazione penitenziaria devono affrontare questa situazione senza rinvii. La salute mentale in carcere non può continuare a essere un capitolo marginale”. Nordio: “Molti suicidi quando i detenuti stanno per essere liberati” Molti suicidi “avvengono non quando si entra in carcere, ma quando si è per essere liberati. Questo è significativo perché dimostra che molto spesso la paura, l’incertezza di un mondo dove non si è abituati a vivere, che è quello esterno, dà un’ansia, una tensione che porta al gesto fatale”, ha detto qualche giorno fa il ministro della Giustizia Carlo Nordio, a margine della visita al penitenziario di Secondigliano a Napoli con il candidato alle elezioni regionali Edmondo Cirielli. “Sapere che quando si esce si ha già un lavoro e non si finisce sulla strada riduce invece grandemente la recidiva, dà a queste persone un significato di speranza che è poi il nostro obiettivo”. “I suicidi in carcere? Non sono legati al sovraffollamento, che anzi li frena perché è una forma di controllo”, ha affermato sempre il Guardasigilli durante un intervento alla Camera la scorsa settimana. Secondo i dati forniti dal ministero della Giustizia, aggiornati allo scorso 31 ottobre, sono 63.493 i detenuti nelle carceri italiane, a fronte di una capienza regolamentare di 51.249 posti. Ma davvero un detenuto non ha il diritto alla salute? di Chiara Lenzi L’Unità, 22 novembre 2025 L’opera di misericordia corporale di “visitare i carcerati” e quella di “curare gli ammalati”, hanno sempre connotato l’azione di Nessuno tocchi Caino. Innanzitutto nei luoghi detti di privazione della libertà, ma che spesso sono di privazione di molto altro: affetti, salute, la stessa vita. Ne parleremo al Congresso di Nessuno tocchi Caino, il 18, 19 e 20 dicembre a Milano presso il Teatro Puntozero del Carcere Beccaria. “Dopo gli articoli de La Stampa il rampollo della Roma bene Costacurta è finito in manette.” Così rivendica il giornale, dopo che Francesca Fagnani, in una lunga intervista su Sigfrido Ranucci, aveva deciso di citare anche Matteo che nulla ovviamente ha a che vedere con quella vicenda, parlando del suo come un caso di “impunità” e insinuando che invece di stare in carcere era in una “clinica di lusso”. Questa narrazione è stata ripresa da altre testate e nel giro di poche ore mio marito è stato portato a Regina Coeli. Quando è accaduto che il diritto alla cura per un detenuto è visto come un privilegio? O peggio: quando abbiamo accettato che un detenuto debba per forza soffrire per placare la sete di giustizia collettiva? È diventato normale credere che un detenuto non abbia più diritto alla dignità, alla salute, al rispetto. Come se la sofferenza altrui fosse uno spettacolo utile a sfogare la rabbia di chi guarda da fuori. Ma nessuno si chiede mai quanto davvero una persona possa soffrire. Matteo alla prima anca ha avuto una necrosi, uno stato che comporta dolori atroci, perdita di mobilità e un lento, inesorabile peggioramento. Si è sottoposto a due interventi complessi - non di “routine” come scrive il giornale - e la riabilitazione era parte integrante del percorso indicato dai sanitari. Curarsi, per lui, non è mai stato un privilegio: era una necessità. Si è preferito costruire un racconto di “favori” e “lusso”, ignorando la realtà più semplice: Matteo ha solo usufruito del diritto, riconosciuto da referti e perizie, sottoscritte da medici nominati dai Giudici, di essere curato in una struttura idonea, come ogni cittadino dovrebbe poter fare. La Fagnani, nella sua intervista, si chiede se un altro detenuto senza disponibilità economiche avrebbe avuto lo stesso trattamento. Invece di denunciare la carenza di assistenza sanitaria nelle carceri, la mancanza di personale, l’impossibilità per il sistema di garantire cure adeguate, ha preferito accanirsi contro Matteo. Il suo percorso riabilitativo richiede anche una piscina terapeutica, non disponibile nelle carceri, dove si curano malati; invece, in maniera allusiva, negli articoli è stata richiamata quasi fosse utilizzata per svago. Mio marito, al Nomentana Hospital, ci stava perché né il DAP né Regina Coeli hanno individuato una struttura per consentirgli tre sedute a settimana. Si scrive di “impunità” ma si tace l’ingiustizia più grande: impedirgli di guarire. Si parla di “clinica di lusso” e si ignora volutamente che il Nomentana Hospital è una struttura pubblica convenzionata. I cosiddetti “giardini all’inglese” non sono mai esistiti, e il richiamo fatto negli articoli, come se lui ci potesse passeggiare liberamente, quasi fosse in vacanza, rispetto alla situazione di un detenuto che è in terapia per poter riprendere a camminare, si commenta da solo. E così, invece di lasciar proseguire una cura a un detenuto malato, di fronte al clamore della stampa e contro il parere dei medici, hanno scelto di interrompere tutto, perché da quando è tornato a Regina Coeli il programma terapeutico non è stato rispettato. Oggi Matteo rischia di regredire nel suo processo di riabilitazione. Si insinua, si distorce, si alimenta la rabbia della gente. E mentre le parole corrono, la sofferenza resta, reale, quotidiana. Per mio marito ogni movimento è dolore, ogni notte è una sfida. I referti parlano chiaro: necrosi ossea, doppia protesi d’anca, patologie articolari. Tutto riconosciuto e certificato ma le carte non fanno notizia, il dolore non fa audience. È più semplice dipingerlo come uno che “sfugge alla giustizia” piuttosto che una persona ancora in attesa di sentenza definitiva, che non solo lotta per la sua innocenza ma anche, solo, per restare in piedi e non diventare invalido a vita. E allora mi chiedo: cos’è diventato il giornalismo? Un tribunale parallelo dove si decide chi merita umanità e chi no? Perché la vittoria, oggi, sembra essere solo quella di averlo fatto tornare in carcere, e nessuno che si chieda se riesca a camminare, se provi dolore, se stia peggiorando. Ma non c’è vittoria nella sofferenza di un uomo. Non c’è soddisfazione nel dolore di chi già paga. Matteo non chiede favoritismi, chiede solo di poter guarire. Io, come moglie, chiedo solo che si torni a guardare le persone, non le etichette. Perché dietro ogni nome c’è una storia, una vita, una famiglia. E nessuna storia merita di essere trasformata in un titolo crudele. Circolare sulle attività educative: osservazioni e proposte di modifica di Giunta e Osservatorio Carcere dell’UCPI camerepenali.it, 22 novembre 2025 La Circolare del 21 ottobre, come rappresentato in occasione dell’incontro del 18 novembre scorso, ha destato forti preoccupazioni e allarme tra tutti i soggetti interessati ad una corretta e ampia attività trattamentale dei detenuti nei rapporti con la comunità esterna, in particolare attraverso offerte e incontri promossi da terzi con finalità educative, culturali, ricreative. Al fine di ristabilire una certa serenità collettiva, anche nell’interesse dei detenuti già sottoposti a tensioni e stress per le condizioni soprattutto di sovraffollamento negli istituti, riteniamo opportuno che si proceda ad una correzione-integrazione della stessa. Nello specifico si chiede di intervenire sulla parte in cui, secondo il punto 1) della circolare, “per i soli Istituti penitenziari con circuiti a gestione dipartimentale (Alta Sicurezza, Collaboratori di Giustizia, 41-bis) l’autorizzazione per gli eventi di carattere trattamentale, anche se previsti per i soli detenuti allocati nel medesimo istituto al circuito cd. Media Sicurezza, dovrà sempre essere richiesta a questa Direzione Generale”. Tale modalità espressiva può dare adito a interpretazioni contrarie al dettato normativo non derogabile, cristallizzato dall’art. 17 Ordinamento Penitenziario, secondo cui “La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa. Sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari con l’autorizzazione e secondo le direttive del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, tutti coloro che avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera. Le persone indicate nel comma precedente operano sotto il controllo del direttore.” Una interpretazione letterale della circolare nella sua formulazione attuale potrebbe indurre un direttore dell’Istituto, in cui si dovrebbe svolgere una attività ricreativa, educativa, culturale proposta da una associazione esterna al carcere, magari destinatario di un diniego di autorizzazione da parte del DAP, a non inoltrarla all’unico titolare del potere autorizzatorio ovvero il Magistrato di sorveglianza che dovrà decidere, secondo la legge, in maniera consapevole e ragionata, dopo aver letto tutti i pareri, favorevoli e contrari, alla proposta attività. Pertanto, onde evitare malevoli interpretazioni e disapplicazioni illegittime dell’Ordinamento Penitenziario, si ritiene necessario chiarire espressamente la funzione meramente consultiva, per quanto argomentata secondo le esigenze e la prospettiva amministrativa, del parere e/o nulla osta da parte del DAP da inoltrare, unitamente a tutta la documentazione istruttoria, al Magistrato di sorveglianza titolare del potere autorizzatorio. Sul punto 2) della circolare laddove si stabilisce che “ogni richiesta di autorizzazione di attività di carattere trattamentale trasmessa a questa Direzione Generale dovrà sempre essere trasmessa con congruo anticipo e contenere necessariamente, in modo chiaro ed esplicito, i seguenti elementi informativi…”. Al fine di rendere certi i tempi del procedimento istruttorio per l’autorizzazione, si ritiene necessario che si stabilisca con esattezza sia il termine temporale - il congruo anticipo - per la trasmissione della proposta, sia il termine temporale per la conclusione del procedimento per il rilascio del nulla osta da parte del DAP anche al fine di consentire al Magistrato di sorveglianza di poterla valutare in tempo utile alla realizzazione da parte del terzo proponente. Fermo restando che la specificazione degli elementi informativi riguardano esclusivamente la direzione del carcere, per ovvie ragioni, e non certo il terzo. Sul punto 4) della circolare laddove si stabilisce che “per ogni evento, progetto, iniziativa da svolgersi all’interno degli Istituti, l’organizzazione e la gestione degli stessi dovrà sempre rimanere in capo alle Direzioni evitando che la programmazione delle azioni e le scelte organizzative siano “esternalizzate” e quindi demandate esclusivamente ai proponenti ovvero a soggetti o enti terzi rispetto all’amministrazione penitenziaria”. Fermo restando la legittima necessità che la specifica organizzazione e la gestione degli eventi appartenga alle Direzioni, sarebbe opportuno specificare che tale competenza organizzativa e gestionale non debba mai intaccare e/o interferire con il contenuto della offerta trattamentale esterna, essendo essa già stata valutata dall’amministrazione e dal Magistrato di sorveglianza che ne ha autorizzato l’evento nonché di stretta pertinenza del proponente il progetto. Siamo consapevoli che, nell’ottica di una efficace opera trattamentale rieducativa dei detenuti, utile, unitamente ad altri elementi, a rafforzare anche l’istituto della liberazione anticipata, i correttivi proposti siano davvero opportuni. Confidiamo di avere offerto un contributo utile a superare le incertezze della stessa circolare nella sua formulazione che saranno opportunamente colti dal competente Dipartimento ministeriale nell’ottica di rafforzare, implementare e magari diffondere sempre più anche sui territori e istituti che offrono, oggi, poche iniziative di tipo ricreativo, culturale e educativo proposte dalla società esterna al carcere. Referendum, una decisione razionale e non una scelta emotiva di Catello Maresca* Il Riformista, 22 novembre 2025 Tra fake news e prese di posizione, più vicine al tifo da stadio che a serie questioni costituzionali, prosegue lo scontro sulla cosiddetta riforma della giustizia. Il 30 ottobre scorso, il Senato della Repubblica ha concluso l’iter legislativo per l’approvazione della norma e, non avendo raggiunto la maggioranza dei due terzi dei componenti, richiesta per le modifiche costituzionali, la parola definitiva spetterà, infatti, ai cittadini, che dovranno esprimersi attraverso un referendum, detto confermativo. Nei prossimi mesi, ma in realtà il percorso è già stato anticipato attraverso la creazione di alcuni comitati a favore o contro, il dibattito si annuncia particolarmente intenso. L’auspicio, però, è che possa svolgersi in un clima di serietà e di serenità in modo da offrire una visuale ampia da consentire agli elettori un voto consapevole. Almeno, questo è l’auspicio di chi, come il sottoscritto, spera in un voto avveduto e non istintivo, né ideologico. Per questo credo che i cittadini, soprattutto la gran parte di quelli non addetti ai lavori, abbiano diritto ad una corretta ed equilibrata informazione. Molti che incontro non hanno ancora ben chiaro il quadro degli interventi, per cui vale la pena di riassumerlo. In sintesi, i punti salienti della riforma costituzionale, nota come “separazione delle carriere della magistratura”, riguardano una serie di aspetti rilevanti per il sistema giustizia nel nostro Paese. In particolare, viene introdotto ufficialmente il principio per cui la magistratura è composta da due carriere distinte: la magistratura giudicante (i giudici) e la magistratura requirente (i pubblici ministeri). Inoltre, il testo approvato prevede la creazione di due organi separati per l’autogoverno della magistratura: un Consiglio superiore della magistratura (giudicante) per i giudici; ed uno requirente per i magistrati dell’accusa. E i membri dei due CSM saranno estratti a sorte. Viene, infine, prevista l’istituzione di un’Alta Corte disciplinare per valutare le sanzioni nei confronti dei magistrati che compiono errori. Senza voler esprimere anticipazioni sul voto, né prese di posizione aprioristiche, né tantomeno ideologiche, l’auspicio è che la discussione possa essere leale, sostenuta da valutazioni di merito, e non da spinte identitarie o pulsioni intuitive. Non ho condiviso, in tal senso, la scelta della magistratura associata di prendere posizione e di diventare, anche forse in maniera inconsapevole e non voluta, parte di un conflitto politico tra due schieramenti ben definiti. Anche in questo caso, infatti, a mio sommesso avviso, dovrebbe valere il principio per cui i giudici devono non solo essere, ma anche apparire imparziali. E sostenere di essere quasi costretti a scendere in campo per difendere la Costituzione, mortifica l’intelligenza dei tanti che la pensano diversamente ed hanno tutto il diritto di farlo legittimamente e con argomenti solidi e giuridicamente sostenibili. Sostenere di essere depositari della soluzione e della verità assoluta è un atteggiamento che non aiuta il confronto e appare molto vicino al “ragionamento”, che ho sentito incredibilmente sostenere da qualcuno, secondo cui questa riforma di una parte della Costituzione sarebbe incostituzionale. Credo, invece, che trattandosi di argomento estremamente tecnico, le diverse posizioni vadano sostenute su basi razionali, o almeno ragionevoli, partendo dal testo della norma, approvata dal Parlamento. In tal senso, per una corretta informazione ed una attenta valutazione nel merito non potrà non pesare il collegamento con la riforma, approvata quasi all’unanimità, con un ampio consenso politico trasversale, che nel 1999 ha riscritto completamente l’articolo 111 Cost., introducendo i princìpi del giusto processo, ispirati all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). In particolare, il principio costituzionale, ormai, consolidato e di cui questa riforma rappresenta una concreta attuazione, prevede, tra l’altro, che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale”. Ogni moderna democrazia fonda sul principio della terzietà del giudice la base delle libertà e la garanzia dei diritti dei cittadini. È fuori discussione che tale baluardo, laddove messo in discussione, andrebbe difeso in maniera convinta da chi ha a cuore la democrazia. Leggendo il testo della norma (solo questo può offrire un dato solido e rassicurante) gli elettori potranno farsi la loro idea e compiere consapevolmente il proprio dovere. Il dato normativo esitato dal Parlamento sembra sotto questo profilo essere rassicurante poiché prevede un organo di autogoverno della magistratura requirente autonomo ed indipendente, i cui componenti sono estratti a sorte ed è presieduto dal Presidente della Repubblica, massima espressione di garanzia. Altre considerazioni basate su ipotesi o congetture, con incursioni di complottismo, sembrano allo stato frutto di approcci aprioristici ed emotivi. *Magistrato Femminicidi, Nordio: “È una questione di genetica dei maschi” di Luciana Cimino Il Manifesto, 22 novembre 2025 Polemiche per le frasi dei ministri della Giustizia e della Famiglia e della natalità durante una conferenza sugli abusi di genere. Novembre è un mese delicato per il governo. C’è la giornata contro la violenza sulle donne e ogni anno la destra, durante gli eventi correlati, inciampa. E cade fragorosamente. Anche quest’anno il protagonista delle gaffes è il guardasigilli Carlo Nordio. Siccome gli atti comici vengono meglio quando si è in due, a fargli da spalla c’era la ministra per la Famiglia, Eugenia Roccella, organizzatrice dell’incontro che li ha visti protagonisti. Il Ministero per la Famiglia, la natalità e le pari opportunità, in collaborazione con l’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) ha promosso alla Camera un convegno dal titolo impegnativo, “Conferenza internazionale contro il femminicidio”. Il termine internazionale si riferisce alla presenza dei rappresentanti istituzionali dell’Albania, della Bosnia Erzegovina, Croazia, Cipro, Grecia e Serbia. Tutti governati da partiti conservatori o di destra, eccetto l’Albania il cui premier Edi Rama, però, è molto vicino a Meloni tanto da definirla “sua sorella”. L’obiettivo, stando al sito del ministero, era il “confronto su strategie comuni per prevenire e sradicare ogni forma di violenza contro le donne”. Nell’ambito però solo di paesi che condividono ideologie simili. Sentendosi tra amici, dunque, Nordio (che è “anche un modesto studioso di storia”, ha precisato), è stato particolarmente sincero nell’enunciare i suoi profondi convincimenti sulla violenza sistemica degli uomini sulle donne. Il “cosiddetto maschilismo” è frutto della teoria “darwiniana della legge del più forte”, “poiché la natura ha dotato i maschietti di una forza muscolare maggiore di quella delle femminucce dai primordi dei tempi”. “Tutto questo - ha proseguito il ministro - ha comportato una sedimentazione anche nella mentalità dell’uomo, intendo proprio del maschio, che è difficile da rimuovere perché si è formata in millenni di sopraffazione, di superiorità. Quindi anche se oggi l’uomo accetta questa assoluta parità nei confronti della donna, nel suo subconscio, nel suo codice genetico trova sempre una certa resistenza”. quindi dato che l’uomo (il “maschio” o “maschietto”, per usare i termini di Nordio) è geneticamente violento è “necessario intervenire con le leggi, con la repressione, con la prevenzione”. Una specie di parodia del monologo del capo della penitenziaria nel film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, “ad altri spetta il compito di curare e di educare, a noi il dovere di reprimere! La repressione è il nostro vaccino! Repressione è civiltà!”. In quel caso l’interprete era Gian Maria Volontè e la regia di Elio Petri. In questo la regia è del ministro dell’Istruzione Valditara, che ha bisogno di far passare la sua legge che prevede il consenso informato dei genitori per eventuali ore di “educazione al rispetto”. “È soprattutto necessario intervenire sull’educazione”, ha premesso infatti il guardasigilli, intendendo, come il collega al Mim, solo quella della famiglia. Ma come? “Un po’ come fanno gli psicologi, gli ipnotisti, gli psicanalisti, quando trovano una specie di tara mentale che deriva da un trauma adolescenziale”. Anche Roccella, per propagandare la legge di Valditara, si concede ragionamenti spericolati: “Non c’è correlazione tra educazione sessuale e un calo dei femminicidi”. Dopo le immediate reazioni delle opposizioni, la ministra ha replicato: “Aspettiamo che chi fa polemica comunichi i dati che dimostrino l’efficacia dell’educazione sessuale nella riduzione dei femminicidi e delle violenze contro le donne, basati su evidenze e correlazioni”. Un tentativo bizzarro di ribaltare l’onere della prova, quando ci sono decenni di ricerche sul tema validate dalla comunità scientifica. Nel parterre anche Martina Semenzato, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. Semenzato, esponente di Noi Moderati, già presidente della sezione vetro della Confindustria di Venezia e dirigente di una squadra di basket, è autrice del libro I love me. Come eliminare cellulite e pancia dal nostro corpo e dalla nostra testa. Sulla violenza sulle donne, “l’Italia è un paese virtuoso”, ha detto nello stesso contesto in cui venivano presentati i dati Istat che rivelano un’altra realtà, non quella “alternativa” che piace ai trumpiani e ai loro emuli italiani. L’istat ha certificato un aumento significativo delle violenze subite dalle giovanissime (16-24 anni), che passano dal 28,4% al 37,6% in 10 anni. E conferma, ancora una volta, che a stuprare le donne sono perlopiù i partner (il 63,8%), il 19,4% è conoscente e il 10,9% amici. Solo il 6,9% è stato opera di estranei alla vittima. Anche se Nordio non ci crede. Lo scorso anno aveva commentato i femminicidi di Ilaria Sula e Sara Campanella come una mancanza “di rispetto verso le persone, soprattutto per quanto riguarda giovani e adulti di etnie che magari non hanno la nostra sensibilità verso le donne”. “Roccella e Nordio sembrano fare a gara a chi dice la frase più stupida”: Elisabetta Piccolotti, Avs, sintetizza così il tono dei commenti del centrosinistra. Anche se a spiccare sono quelle di Forza Italia che tenta timidamente di dissociarsi dalle parole degli altri esponenti del governo. “La genetica non c’entra”, ha tagliato corto Gasparri. “Credo nella parità di genere e uomo o donna è la stessa cosa”, ha ribadito il vicepremier Tajani, salvo poi scivolare: “Ci sono anche degli ottimi magistrati donne”. Nordio e quella tesi che riscrive la storia di Fabrizia Giuliani La Stampa, 22 novembre 2025 Pesano le parole pronunciate ieri dal Guardasigilli, sulla mascolinità inemendabile. Pesano perché le ha pronunciate un ministro della Repubblica in un luogo dove si svolgeva un confronto istituzionale internazionale sulla violenza contro le donne, a pochi giorni dal 25 novembre. Pesano perché siamo alla vigilia dell’approvazione unanime di due misure determinanti nella strategia di contrasto alla violenza che contraddicono radicalmente, nelle ragioni e nella storia che hanno alle spalle, il senso di quelle affermazioni. E pesano anche per il tono, il linguaggio che le ha accompagnate: i maschietti, le femminucce, la riflessione quasi estemporanea. Non è questione di anacronismo, ma di gravità che scompare. Accostarsi a un tema di questa portata con un lessico adatto a scuole d’altri tempi, esprimendo pensieri che sembrano ignorare - prima ancora di contraddire - mezzo secolo di riflessioni, studi, ricerche confluiti in una stratificata normativa sovranazionale, sembra rivelare quanto poco valore gli si attribuisce. Pesano, poi, perché non sono isolate. Sono espressione di una convinzione radicata, diffusa, da noi e in molti altri Paesi, da cui derivano regole scritte e non scritte, comportamenti, abitudini, educazione. L’altra parola tabù. Idee ben radicate nella nostra cultura, che la politica nata dai movimenti delle donne ha combattuto, o meglio, di cui ha mostrato la fallacia e l’inconsistenza. Idee rispetto alle quali non si può e non si deve tornare indietro. Non c’è natura dietro la violenza contro le donne, ma una lunga lunghissima storia di impunità. C’è un ordine fondato sull’esercizio della forza: un ordine che ne ha legittimato l’esercizio fino all’altro ieri - carcere per l’adulterio femminile, ius corrigendi ecc. - e che ancora l’autorizza come in Russia, dove Putin nel 2017 ha depenalizzato la violenza familiare “non grave” esercitata contro le donne e i bambini nel nome della tutela dei valori tradizionali. Il Dna non c’entra, non è questione di ormoni e asimmetria dell’apparato muscolo-scheletrico: il punto è invece la libertà, la libertà imprevista delle donne, che ha mandato in soffitta quell’ordine per affermarne uno dove la sessualità, le relazioni, la nascita e la crescita dei figli sono frutto dell’accordo - del consenso, altra parola chiave - e non dell’imposizione. Dove le famiglie, e le coppie, non funzionano come caserme, sottoposte al controllo e alla punizione, ma luoghi che ammettono il rifiuto e l’indisponibilità. Una rivoluzione? Senza dubbio. C’è voluto tempo per chiamare la violenza per nome e perseguirla; per affrancarla dal destino e rompere nessi millenari che indicavano nella bellezza, l’avvenenza, la causa naturale di un’aggressione, scaricando sulle donne la responsabilità di evitarla fuggendo, perché nessun uomo è in grado di governare la propria natura, se provocato. “Giove la vide e folgorato la volle”: quanti miti raccontano la stessa storia? Il Dna di questa sopraffazione è nelle radici della nostra cultura, nella tradizione e nei racconti che la tramandano. Grazie all’educazione, intesa nel senso più ampio, la storia è cambiata, o almeno è in via di trasformazione: le norme che ora verranno approvate ne sono testimonianza. La natura non c’entra, gli alibi sono caduti, è tempo di archiviarli definitivamente. Torino. Il silenzio nella cella e il disperato tentativo dell’agente: 50enne si suicida nel carcere di Raphael Zanotti La Stampa, 22 novembre 2025 Inutili le procedure di rianimazione. È l’una e un quarto di notte. Un agente della polizia penitenzia del carcere di Torino sta facendo il suo giro di controllo per i corridoi in penombra del padiglione C del Lo Russo e Cutugno quando all’improvviso percepisce che qualcosa non va. Da una cella arriva silenzio. Troppo silenzio. Chiama, non riceve risposta. Tenta di aprire lo spioncino, che però è bloccato. Allora apre parzialmente la porta. Un uomo è appeso alla finestra della cella con un cappio di stoffa al collo. Il 67esimo suicidio dell’anno - Comincia così una disperata notte del carcere torinese. L’ennesima notte in cui un agente ha tentato, purtroppo vanamente, di salvare una vita. Il detenuto che si è tolto la vita aveva 49 anni. Secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si tratta del 67esimo suicidio nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. Il quarto a Torino. La corsa disperata dei soccorritori - Quando l’agente si è reso conto di quello che stava accadendo, è iniziata la corsa contro il tempo Non c’è stata esitazione. L’agente ha dato l’allarme e si è catapultato all’interno della cella per slegare il detenuto. Ha iniziato subito le manovre di rianimazione. Compressioni toraciche ritmiche, vie aeree da liberare, ossigeno che deve raggiungere un cervello Il 118 arriva poco dopo, sono le due del mattino. I sanitari prendono in mano la situazione, seguono protocolli, ma c’è la consapevolezza silenziosa che tutto dipende da una variabile: quanto tempo il detenuto è rimasto appeso? Troppo. Intorno alle due e mezzo, quando l’ultimo tentativo si esaurisce, non rimane altro che constatare la morte. È la fine di una battaglia. Una battaglia che ogni volta lascia l’amaro in bocca a chi lavora nelle carceri italiane. Il peso della tragedia nelle carceri - Il peso di quella cella, il peso di quel silenzio Quello che accade in quella notte nella Casa Circondariale di Torino non è solo una tragedia individuale. È il simbolo di un sistema che ha smesso di funzionare. Gli agenti penitenziari si trovano a affrontare emergenze sanitarie e psichiatriche per cui non hanno formazione, senza supporto specialistico, spesso soli. Il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria non usa mezzi termini: le carceri sono diventate “ospedali psichiatrici improvvisati”. Persone con gravi problemi mentali, spesso senza diagnosi, senza trattamento, senza quella rete di protezione che la società civile avrebbe il dovere di fornire. E chi si ritrova a gestire queste emergenze? Gli agenti, che devono essere contemporaneamente vigili del fuoco, polizia giudiziaria, medici, infermieri, psicologi, mediatori culturali. Vicente Santilli, segretario del Sappe per il Piemonte, dirige il plauso verso gli operatori che “in una manciata di minuti hanno svolto un lavoro eccezionale e disperato, dimostrando umanità, professionalità e freddezza”. Ma sottolinea anche l’assurdità della situazione: “Non è responsabilità del Corpo sopperire alle persistenti e gravi carenze della Sanità Penitenziaria.” Quando il sistema penitenziario crolla - Il suicidio rimane una delle principali cause di morte nelle carceri italiane. L’Italia combatte da anni questa battaglia, eppure i numeri non calano. Ogni morte in cella genera onde d’urto: stress per gli altri detenuti, traumatizzazione per il personale, interrogativi sulle responsabilità istituzionali. Donato Capece, segretario generale del Sappe, ricorda che “soltanto grazie all’impegno dei poliziotti penitenziari - veri eroi silenziosi - il numero delle tragedie in carcere resta limitato”. Ma riconosce anche l’evidenza: serve intervento immediato, serve prevenzione strutturata, servono programmi di screening psicologico e supporto specializzato. Riforme urgenti per evitare nuove tragedie - Cosa deve cambiare? Il Sappe chiede azioni concrete: rafforzamento del personale medico e psicologico specializzato, strumenti e protocolli adeguati per identificare e prevenire i rischi, supporto psicologico dedicato agli operatori che affrontano quotidianamente situazioni fortemente stressanti. Non è una questione di compassione, ma di responsabilità. Lo Stato non può pensare che i Baschi Azzurri siano “sempre in grado di compensare le lacune quotidiane del sistema penitenziario”. È fondamentale investire nella prevenzione e nel benessere psicofisico dei detenuti, non solo per ragioni umanitarie, ma per alleggerire un carico già insostenibile sulle spalle di chi, come l’agente della scorsa notte, si ritrova a combattere contro la morte in una cella, spesso perdendo. Il Governo ha promesso un incontro per definire strategie condivise. Ma per quanti altri agenti dovrà ancora ripetersi la scena di Torino? Quanti altri corpi dovranno restare sospesi prima che la prevenzione diventi realtà? Napoli. Carcere di Poggioreale, il report choc di Ilaria Salis: celle con 12 detenuti e topi di Rosaria Federico Cronache della Campania, 22 novembre 2025 L’eurodeputata di Avs denuncia condizioni disumane nel penitenziario partenopeo: “Muffa, niente riscaldamento e letti a castello illegali. Oltre duemila reclusi per 1.300 posti: servono misure alternative urgenti, il governo non può ignorare questa emergenza”. Non è solo un problema di numeri, ma di dignità umana calpestata quotidianamente. È un quadro a tinte fosche, quello emerso dall’ispezione condotta questa mattina dall’eurodeputata di Sinistra Italiana e Verdi, Ilaria Salis, all’interno della casa circondariale di Poggioreale. Il report diffuso al termine della visita è un vero e proprio cahier de doléances che certifica il collasso del sistema penitenziario nel più grande carcere del Mezzogiorno. Sovraffollamento: la matematica della disumanità - Il dato più allarmante è quello ormai cronico del sovraffollamento, che a Poggioreale raggiunge picchi insostenibili. A fronte di una capienza regolamentare di 1.313 posti, la struttura ospita attualmente 2.185 persone. Una sproporzione che trasforma la detenzione in una mera sopravvivenza fisica, annullando ogni possibilità di riabilitazione costituzionalmente garantita. “In alcune celle vivono fino a 12 persone”, denuncia la Salis, descrivendo scene che riportano la mente a epoche oscure. I detenuti sono stipati in letti a castello a tre livelli, una configurazione che in Italia sarebbe formalmente vietata, ma che l’emergenza ha reso prassi. Viene così sistematicamente violato lo standard europeo che impone almeno 3 metri quadri calpestabili per ogni detenuto. In quelle celle, lo spazio vitale semplicemente non esiste. Degrado strutturale: tra muffa e topi - Oltre alla mancanza di spazio, l’ispezione ha portato alla luce il grave deterioramento della struttura stessa. Le pareti sono coperte di muffa, l’acqua calda è un lusso non sempre garantito e, con l’inverno alle porte, il riscaldamento risulta non funzionante. A completare il quadro di degrado igienico-sanitario, la presenza di topi all’interno delle sezioni detentive. “Le persone detenute lamentano, con piena ragione, condizioni di vita disumane”, sottolinea l’eurodeputata, evidenziando come la pena si stia trasformando in una tortura fisica e psicologica. Il paradosso delle pene brevi e la carenza di organico - L’analisi di Ilaria Salis si sposta poi sulle possibili soluzioni, evidenziando un paradosso burocratico. Dei 1.066 detenuti con condanna definitiva, ben 560 stanno scontando pene inferiori ai quattro anni. Si tratta di persone che, sulla carta, avrebbero diritto alle misure alternative alla detenzione, ma che rimangono dietro le sbarre per “svariati motivi burocratici”. A gestire questa polveriera sociale c’è un personale drammaticamente sottorganico. Il dato più critico riguarda l’area educativa: ci sono solo 20 educatori per oltre duemila detenuti. Con un rapporto di un educatore ogni duecento persone, parlare di percorsi trattamentali, reinserimento o cura diventa pura retorica. L’appello alla politica - Nonostante l’impegno lodato del Ser.D. (Servizi per le Dipendenze), che opera in condizioni di carico “enorme”, la situazione richiede un cambio di passo radicale. “L’urgenza è chiara a chiunque operi nel sistema penitenziario, ma purtroppo non è altrettanto diffusa nella politica e certamente non nell’attuale Governo”, conclude con amarezza la Salis. La richiesta è netta: servono interventi “deflattivi” immediati. Non nuove carceri, ma l’applicazione delle leggi esistenti per svuotare quelle che ci sono, restituendo legalità a un luogo che dovrebbe insegnarla, ma che oggi sembra averla dimenticata. Firenze. Incendio nella sezione psichiatrica di Sollicciano: detenuti ustionati Il Tirreno, 22 novembre 2025 Un rogo scoppiato dieci giorni fa nell’area dedicata alla tutela della salute mentale del carcere fiorentino ha provocato ustioni e traumi tra alcuni detenuti fragili. L’associazione Pantagruel denuncia la gravità dell’episodio. A Sollicciano il fumo si è già diradato, ma resta l’odore acre di una vicenda che non può finire in fondo a un registro. Nell’Atsm, la sezione dedicata alla tutela della salute mentale, dieci giorni fa è divampato un incendio. Un episodio breve, violento, che ha lasciato il segno: capelli bruciati, ustioni leggere, lo sguardo ancora impaurito di chi c’era dentro. A darne notizia ora sono i volontari di Pantagruel, che da anni frequentano il carcere fiorentino e ne conoscono pregi e falle. I volontari - “È un fatto gravissimo, che è avvenuto una decina di giorni fa ma non può essere archiviato come un semplice caso, anche perché di roghi ne sono avvenuti altri negli ultimi mesi”, dice il vicepresidente Stefano Cecconi, e basta ascoltarlo per capire che non si tratta della cronaca di un incidente domestico. Qui parliamo di un reparto che dovrebbe essere rifugio, non innesco. Le persone ricoverate nell’Atsm sono fragili, portatrici di diagnosi che in altri contesti richiederebbero un percorso clinico, non celle blindate. “Ci sarebbe già da chiedersi perché siano lì dentro invece che in un luogo di cura adeguato”, insiste Cecconi. Domanda semplice, risposta che nessuno sembra voler dare. “Come è possibile?” - E poi c’è l’altra questione, ancora più bruciante: come è possibile che un’area pensata per proteggere si trasformi nel teatro di un rogo? Se prende fuoco una sezione per detenuti psichiatrici, il sistema non sta funzionando. Pantagruel chiede risposte, non promesse: Regione, Asl, amministrazione penitenziaria. Tutti chiamati a intervenire, senza la solita liturgia dei rinvii. “La tutela della salute mentale deve fermarsi davanti alle mura del carcere? Ma oltre a questa riflessione generale - aggiunge Cecconi - non possiamo che un reparto destinato alla cura si trasformi in un contesto dove accadono episodi pericolosi. Se una sezione per detenuti con disturbi psichiatrici prende fuoco, significa che il sistema non sta funzionando”. Perché la salute mentale in carcere non è un capitolo marginale. È una crepa che, se ignorata, rischia di aprire voragini. E l’incendio di dieci giorni fa ne è l’ennesimo segnale. “Occorrono risposte immediate, non solo parole - conclude Cecconi - La Regione, l’Asl e l’amministrazione penitenziaria devono affrontare questa situazione senza rinvii. La salute mentale in carcere non può continuare a essere un capitolo marginale”. Torino. “Nel Cpr trattenuti soggetti pericolosi”: la nota del prefetto Cafagna di Martino Villosio rainews.it, 22 novembre 2025 Dopo la visita di sindaco e garante dei detenuti, e l’irruzione degli anarchici, il testo precisa che “nella struttura non c’è sovraffollamento e sono garantite le prestazioni sanitarie di base”. Un luogo che resta tormentato, anche oltre il suo perimetro. Non c’è pace, intorno al cpr di Torino. Mercoledì la visita del sindaco Lorusso con la Garante dei detenuti Berardinelli e le frasi: qui una situazione critica, un vero carcere pur ospitando anche chi non delinque. A seguire, l’irruzione di una decina anarchici dentro la sede dell’Asl in via San Secondo. Slogan sui muri e accuse di complicità. La nota del prefetto - Ma a far rumore sono le parole del prefetto di Torino Donato Cafagna, in risposta ad articoli di stampa, premette una nota. Che sa di replica, indiretta, a sindaco e garante: “Le persone trattenute nei cpr, oltre che irregolari, sono soggetti socialmente pericolosi - ha scritto il prefetto -, spesso con una lunga serie di precedenti penali”. A Torino, aggiunge, sono transitati o trattenuti sette pregiudicati per associazione a delinquere per terrorismo, omicidio o tentato omicidio. Quaranta denunciati per spaccio, altri per tortura o violenza sessuale. Nella struttura non c’è sovraffollamento e il gestore organizza attività ricreative. Garantite tutte le prestazioni sanitarie di base comprese le visite psichiatriche. La replica della garante - Nessuna replica dal sindaco. Alla tgr, risponde invece la neo garante comunale Diletta Berardinelli: “Non è in discussione il lavoro egregio di prefettura, gestore, uffici immigrazione e interforze - dice - ma il concetto stesso dei cpr, che rende difficile gestirli, trasformandoli in luoghi di fallimento dei diritti”. Senza polemiche col prefetto, con una puntualizzazione: “Ci sono casi di persone trattenute che non hanno commesso reati - dice la garante -, migranti economici o che hanno lasciato scadere un permesso di soggiorno, mentre è il Consiglio di Stato ad aver riconosciuto criticità sanitarie soprattutto nei casi di malattia psichiatrica. Lavoriamo tutti insieme per trovare soluzioni”. Roma. Cosa sta accadendo alle attività culturali nelle carceri? Intervista al regista Fabio Cavalli di Giovanna Carnevale giornaleradiosociale.it, 22 novembre 2025 Nelle scorse settimane una circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è intervenuta sulle regole che riguardano l’organizzazione di attività culturali e ricreative negli istituti, in particolare per il circuito di alta sicurezza. Il rischio, come ha sottolineato anche il Portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello è che le carceri diventino sempre più chiuse al mondo esterno e che ai detenuti venga data sempre meno l’opportunità di una crescita personale attraverso l’arte, la formazione, la socialità. Per parlare di cosa sta accadendo nel sistema penitenziario italiano, ma anche del valore e della funzione dell’arte nelle carceri, abbiamo intervistato Fabio Cavalli, attore, regista teatrale e fondatore nel 2003 del Teatro libero di Rebibbia. Il Centro Studi Enrico Maria Salerno, di cui è direttore generale, sta organizzando una conferenza sul tema il prossimo 22 dicembre, nel Teatro del carcere di Rebibbia. Fabio Cavalli: innanzitutto, qual è la sua esperienza con le persone private di libertà? Insieme a Laura Andreini del Centro Studi Enrico Maria Salerno siamo attivi nel mondo penitenziario dal 2003, quindi sono 23 anni che operiamo nel campo dell’attività di risocializzazione attraverso l’arte delle persone detenute. La nostra attività insiste particolarmente sul carcere di Rebibbia Nuovo Complesso a Roma, che è uno dei più grandi di Europa e al momento ospita quasi 1.600 persone, ovviamente con un tasso di sovraffollamento. In questi 20 anni e più abbiamo incontrato più di 2.000 persone detenute che hanno fatto attività di teatro, musica, cinema e arti visive che noi proponiamo in carcere e abbiamo avuto dei grandi risultati: molti dei nostri collaboratori sono usciti liberi diventando attori. Questo si è verificato soprattutto dopo l’esperienza che ho svolto con i fratelli Taviani col film “Cesare deve morire”, che ho scritto insieme a loro e che ha vinto l’Orso d’oro a Berlino del 2012: quasi tutte le persone che allora partecipavano al film erano detenute nel reparto dell’alta sicurezza di Rebibbia e oggi lavorano nella compagnia teatrale che continuiamo a gestire, e continuano a testimoniare il valore e la funzione dell’arte. Cosa genera nelle persone private di libertà un’attività come quella che voi svolgete? Parliamo di persone che spesso non hanno coscienza del concetto di bellezza in senso classico, per motivi di scarso studio o vite disperse altrove: ecco, per loro l’esperienza della recitazione e del palcoscenico cambia veramente la vita. Rispetto ai tassi di recidiva che sono altissimi nel nostro Paese, ovvero del 65-70% - mi riferisco a persone che escono dal carcere, libere temporaneamente, e poi rientrano per aver commesso nuovi reati - per chi durante il periodo di detenzione svolge attività culturale, il tasso scende tantissimo e si attesta attorno al 15%. Allora se da un punto di vista sociologico questo ha un senso, credo che abbia un senso anche dal punto di vista umano. Perché una volta incontrata l’arte durante la detenzione, non si torna a delinquere? È una domanda interessante su cui riflettere, e che infatti pongo spesso agli studenti a cui insegno. Cosa pensa della recente circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria? Il 21 ottobre scorso è intervenuto un provvedimento del Dap che preoccupa i movimenti che utilizzano l’arte per il riscatto sociale e umano per le persone detenute. In Italia ci sono 198 carceri e ci sono 80, 90 compagnie teatrali all’interno. Poi c’è la musica, le arti grafiche e le università che hanno il loro polo nei penitenziari. Nella circolare si dice che tutte le attività debbano essere molto più controllate rispetto al passato. La preoccupazione è che si creino dei problemi per l’accesso dei volontari che aiutano lo dello sviluppo culturale dei detenuti. Con la mia esperienza nelle carceri, posso testimoniare che episodi gravi non ci sono mai stati, non mi risultano proprio. È una circolare che non pare rispondere a un’emergenza intervenuta, ma piuttosto voler aumentare i controlli su ciò che accade al di fuori dell’attività stretta degli operatori penitenziari. Si tenga conto che l’area educativa delle carceri, quindi i funzionari a dipendenza del Ministero, per quanto sono pochi arrivano a dedicare solo 2 ore l’anno a ogni persona. Se si rende così faticoso e sospettoso l’ingresso dei volontari in carcere non so fino a quando le attività reggeranno. Si tratta anche dei volontari religiosi, di persone legate alle curie e a varie religioni che sono presenti nelle carceri, di attività di formazione regionali. Come Centro Studi Enrico Maria Salerno abbiamo convocato al Teatro del carcere di Rebibbia a Roma, il prossimo 22 dicembre, una conferenza pubblica con spettacoli ed eventi, chiamando la politica ad intervenire per capire cosa cambierà concretamente dopo questa circolare. Ci auguriamo di essere autorizzati. Teramo. Patrizia Boccia e il lavoro di educare oltre le sbarre di Luigia Aristodemo direnewsoggi.it, 22 novembre 2025 All’interno dell’Istituto penitenziario di Teramo, la dottoressa Patrizia Boccia, funzionario giuridico-pedagogico, opera ogni giorno in un contesto complesso in cui educazione, ascolto e recupero si intrecciano con le rigidità dell’istituzione carceraria. Con un’esperienza maturata sul campo e uno sguardo sempre aperto e curioso, Boccia racconta le sfide quotidiane di un ruolo che richiede equilibrio, empatia e una profonda capacità di relazione umana. Dalle difficoltà legate al sovraffollamento alle potenzialità del trattamento, fino alla necessaria sinergia tra carcere e territorio, il suo punto di vista offre uno spaccato lucido e umano di cosa significhi lavorare per il reinserimento di chi, un giorno, tornerà nella società libera. Dottoressa Boccia, quali sono le sfide più rilevanti che incontra ogni giorno nel suo lavoro educativo e giuridico all’interno dell’Istituto Penitenziario di Teramo? La sfida più rilevante che incontro nell’attività lavorativa quotidiana risiede proprio nella dualità del lavoro del funzionario giuridico pedagogico, caratterizzato dal contesto nel quale si svolge. Se da un lato le nostre azioni devono avere sempre un intento educativo quindi di accoglienza della persona, rilevazione dei reali bisogni e ascolto soprattutto, dall’altro lato c’è il contenimento proprio che è dell’istituzione totale carceraria, di cui noi funzionari siamo pienamente organici. Abbiamo persone adulte detenute, gran parte di esse condannate per aver violato norme penali in modo più o meno grave, ma dobbiamo costruire con loro un canale comunicativo e stabilire un rapporto di fiducia. A parte questo il grave problema, non una sfida ma una disfunzione del sistema, è il sovraffollamento che ci ha in parte relegato a svolgere tante funzioni “cartacee” e a dover trascurare spesse volte la qualità per la quantità. In che modo il percorso trattamentale può incidere concretamente sulla vita dei detenuti e quali strumenti si sono rivelati più efficaci per favorire un cambiamento reale? Poter offrire un valido percorso trattamentale nella detenzione è essenziale, perché dalla punizione in sé non si apprende molto o si cambia realmente. La detenzione avviene nel percorso esistenziale delle persone, così come la scelta di delinquere. Oltre all’ analisi di quanto accaduto insieme agli operatori penitenziari, poter impegnarsi in attività le più varie in base alle proprie inclinazioni apre un universo di possibilità. Relazioni nuove, vere e rispettose che possono stabilirsi con insegnanti, docenti universitari, datori di lavoro e colleghi per chi esce dall’ istituto a lavorare, volontari e chiunque con noi opera nel quotidiano permettono al detenuto di percorrere nuove strade. Lo studio, il lavoro serio e i laboratori espressivi, soprattutto il teatro, ho sperimentato essere i più efficaci nel trattamento. Quanto è determinante la sinergia tra professionisti interni al carcere e realtà esterne - come scuole, enti formativi, volontariato - per costruire opportunità di reinserimento? La sinergia è quel livello di collaborazione che è in grado di generare un risultato che supera la mera somma delle parti. Ecco questo è forse il termine che maggiormente si addice ad un carcere che funziona, perché occorre attivarle almeno su due livelli secondo me. Un livello essenziale è quello che opera su tutti i ruoli che lavorano all’interno del carcere in maniera stabile come sono senz’altro tutte le articolazioni dell’amministrazione penitenziaria, fondamentale il ruolo della polizia penitenziaria, ma anche la ASL nei suoi servizi. Ma se una delle missioni fondamentali dell’amministrazione penitenziaria è assicurare il rispetto della dignità e dei diritti degli uomini e delle donne recluse in osservanza delle misure privative della libertà personale disposte dalla legge, l’altra è quella di favorire il reinserimento sociale di queste persone che sono destinate a ritornare nella società civile libera, magari migliorati. In entrambi i casi la partecipazione attiva e consapevole del privato sociale, delle altre istituzioni e del mondo del volontariato resta la condicio sine qua non per la realizzazione di quanto enunciato dalla Costituzione Italiana, pena il faticoso dipanarsi di innumerevoli azioni che resterebbero però in una sorta di autismo istituzionale. Guardando alla sua esperienza, quali qualità personali e professionali ritiene indispensabili per operare in un ambiente complesso come quello penitenziario, mantenendo equilibrio e capacità di ascolto? Vede a me questo lavoro ha offerto tanto (sia in termini di ricchezza di amicizie e legami che in formazione del carattere) ma anche io mi sono applicata tanto in questi anni, anche quando non era affatto facile e mi trovavo a 600 km da casa. Sono una persona che è sempre stata curiosa e non ho mai amato le definizioni applicate alle persone, figurarsi a me stessa. Mantenere uno sguardo pulito sul mondo nonostante tutto, curioso e aperto sono le qualità professionali che credo possano aiutare ad essere più efficaci nel proprio lavoro, unitamente al fatto di amare quel che si fa. Bergamo. Al Donizetti Studio la Bottega dell’economia carceraria L’Eco di Bergamo, 22 novembre 2025 Una serie d’iniziative per offrire alla cittadinanza una possibilità d’incontro con le tante realtà che si occupano di formazione e reinserimento lavorativo dei detenuti. Nella prima settimana di dicembre, con l’obiettivo di rendere visibili alcune delle attività del carcere di Bergamo, nei locali del Teatro Donizetti sarà offerta alla cittadinanza la possibilità di incontrare le realtà che si occupano di formazione e inserimento lavorativo dei detenuti. E al Donizetti Studio sbarca la Bottega dell’economia carceraria. Un evento di Unlock, realtà che raggruppa enti e associazioni di Bergamo accomunate dalla volontà di raccontare il delicato panorama carcerario. Nella convinzione che “in presenza di percorsi formativi e lavorativi, la recidiva al termine della pena viene più che dimezzata”, spiegano gli organizzatori. In occasione delle festività natalizie, sono in programma incontri pensati per tutte le età. I prodotti delle realtà che operano per il reinserimento lavorativo dei soggetti detenuti saranno a disposizione per un acquisto solidale all’interno del Donizetti Studio: la qualità delle lavorazioni garantisce un regalo di Natale bello e due volte utile. Il programma della settimana Martedì 2 dicembre Alle 18,30 inaugurazione con brindisi e aperitivo. Mercoledì 3 dicembre Laboratorio per le scuole “Blocco 20 - La serie”, organizzato da Generazioni Fa e Csv Bergamo Ets. Escape room “In sospeso”, organizzata da Ecosviluppo e Cooperativa Biplano. Giovedì 4 dicembre Escape room “In sospeso”, organizzata da Ecosviluppo e Cooperativa Biplano. Venerdì 5 dicembre Laboratorio per le scuole “Blocco 20 - La serie”, organizzato da Generazioni Fa e Csv Bergamo Ets. Laboratorio “Fammi una domanda, pronto soccorso vegetale”, organizzato da Amici di Areté. Incontro “Prendersi cura delle piante, per prendersi cura di sé e degli altri”, organizzato da Amici di Areté. Sabato 6 dicembre Laboratorio “Fammi una domanda, pronto soccorso vegetale”, organizzato da Amici di Areté. Ludobus Giochingiro, organizzato dalla Cooperativa sociale Alchimia. Merenda con Forno al Fresco, organizzata dalla Cooperativa sociale Calimero. Domenica 7 dicembre Laboratorio per bambini “Welcome Santa Lucia”, organizzato da Ricucendo Tex Lab. Lunedì 8 dicembre Laboratorio per bambini “Welcome Santa Lucia”, organizzato da Ricucendo Tex Lab. Per tutta la durata dell’evento i prodotti di Forno al Fresco, Cooperativa Sociale Areté e Ricucendo Tex Lab saranno acquistabili all’interno della Bottega dell’economia carceraria, al Donizetti Studio, con i seguenti orari: da martedì a venerdì dalle 13 alle 14,30 e dalle 17 alle 20, da sabato a lunedì dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 20. Teramo. Fumetto d’evasione: laboratorio artistico nel carcere cityrumorsabruzzo.it, 22 novembre 2025 Consentire ai detenuti di esprimersi attraverso la creazione di opere artistiche concrete che possono essere esposte anche al di fuori del carcere. È questo il nobile obiettivo di “Ivang & il fumetto d’evasione”, un progetto artistico ideato da Germano D’Aurelio (in arte ‘Nduccio) e Francesco Colafella e promosso dall’Associazione Big Match in collaborazione al Comune di Teramo, il Polo Museale, l’Associazione Pigro e la Casa Circondariale di Teramo. Il 24 novembre D’Aurelio consegnerà il materiale per la realizzazione delle illustrazioni e Colafella, curatore della Mostra Antologica su Ivan Graziani, terrà un incontro per mostrare praticamente ai detenuti come Ivan abbia realizzato tali opere. Le stampe fungeranno da riferimento per il Laboratorio Artistico all’interno del carcere. Le finalità di un laboratorio artistico in carcere includono la rieducazione e la risocializzazione dei detenuti, l’espressione delle emozioni e dei vissuti personali, la stimolazione della creatività e l’apertura di uno spazio di gioco e di dialogo. Aiutano a sviluppare la sensibilità, l’osservazione e le capacità relazionali, contrastando il senso di isolamento e valorizzando il tempo trascorso in detenzione. L’iniziativa rientra nell’ambito dei festeggiamenti dedicati agli 80 anni dalla nascita di Ivan Graziani, per seguire l’esempio che l’artista teramano ha tracciato nella sua carriera. Ivan, infatti, fu tra i primi ad esibirsi in luoghi come caserme, manicomi e carceri, portando la sua musica direttamente a un pubblico meno privilegiato e più bisognoso di ascolto. L’iniziativa è organizzata grazie al contributo dell’Associazione No Profit “Per la Scuola” che promuove l’eredità culturale di Giuseppe Lisciani, de La Stamperia di Gianmaria Giampietro e di Tonino Giocattoli. Livorno. “Libro sospeso”, l’iniziativa della Feltrinelli per i detenuti livornotoday.it, 22 novembre 2025 Sarà possibile contribuire sia acquistando un volume che facendo una donazione volontaria. Dal 20 al 30 novembre, i clienti della libreria Feltrinelli di Livorno potranno partecipare a un’iniziativa speciale volta ad ampliare l’assortimento di libri nelle biblioteche delle strutture carcerarie di Livorno e Gorgona. È possibile contribuire acquistando un libro o facendo una donazione volontaria. In questo caso, l’importo raccolto sarà trasformato in un buono che i volontari della Croce rossa di Livorno utilizzeranno per selezionare e consegnare testi preziosi alle strutture penitenziarie. L’iniziativa, ispirata al concetto del “caffè sospeso”, invita i cittadini a lasciare un libro acquistato in dono ai detenuti, contribuendo così alla crescita della loro biblioteca e al percorso di rieducazione che passa anche attraverso la lettura. Basta un libro per accorciare le distanze, abbattere i muri tra chi è costretto a scontare una pena detentiva dentro le carceri e il mondo esterno, dove la vita fluisce naturalmente La lettura in carcere rappresenta un’importante opportunità di riflessione, crescita personale e apertura della mente a nuove idee e prospettive. Parole come riscatto. Impararne più che si può e abbandonare un’esistenza ai margini di Silvia Avallone Sette - Corriere della Sera, 22 novembre 2025 Siamo il nostro linguaggio, e il nostro silenzio. Le parole che conosciamo ci permettono di sognare, amare e vivere con più o meno slancio. Quelle che ci mancano lasciano irrisolti i problemi, aperte le ferite. Se cambiamo vita, cambia anche il nostro vocabolario, e viceversa: imparando linguaggi nuovi abbiamo l’opportunità di modificarci. Perché le parole guariscono, quando si riesce a dare un nome ai propri traumi. Contengono un destino segnato, oppure: una libertà possibile. Ho ascoltato un podcast bellissimo: “Io ero il milanese” di Mauro Pescio. Lorenzo S., il protagonista, racconta la storia della sua prodigiosa trasformazione. Da rapinatore seriale che ha vissuto metà della vita in cella, proprio in carcere, a Padova, ha partecipato alla redazione della rivista Ristretti Orizzonti e, studiando, leggendo, scrivendo, letteralmente è rinato. Da sé stesso, dal coraggio di troncare con il passato, guardare in faccia le proprie colpe, il dolore: dando a ciascuna crepa un nome. Un riscatto che insegna cosa tutti possiamo fare per rialzarci dopo aver toccato il fondo: imparare parole nuove. E come aiutare gli altri a rialzarsi: insegnandole. Uscendo dalla solitudine: esprimere l’abisso e la luce invisibili che abbiamo dentro, condividerli. “Conoscevo 100 parole in tutto” dice Lorenzo in uno degli episodi. E cosa può fare, chiunque di noi, con 100 parole? Se non rimanere paralizzato dalle proprie mancanze? E ripetere gli errori della famiglia, degli amici, del quartiere in cui si è cresciuti? Un linguaggio che si amplia, aumenta le alternative di vita, la consapevolezza per non sprecarle. Quando ho incontrato i ragazzi dell’istituto penale minorile, mi sono accorta che usavano molto gergo di strada: un lessico che era, di per sé, una gabbia. Termini che io avevo conosciuto nei libri e sui giornali - “rapina”, “spaccio” - erano stati la realtà quotidiana in cui erano cresciuti. Li ho ascoltati per comprendere la storia che li aveva condotti in carcere e, per proporre loro un futuro diverso, costruttivo, libero, ho letto a voce alta delle poesie. L’effetto di una parola luminosa, piena di senso e profondità, sulla nostra anima può essere rivoluzionaria Un ragazzino che in carcere inizia a parlare di romanzi, di storia, di scienze, non è più solo un giovane detenuto, ma una persona che fiorisce: che potrà sostituire la scuola ai reati, un futuro felice nella società anziché un’esistenza ai margini. Di parole ne servono a migliaia. Per essere liberi, quindi gratificati, solidali, onesti. Bisogna cercarle: le più belle, che forse la vita non ha scelto per noi, ma che noi vogliamo trovare per attraversarla a pieno, con cura. A questo serve, leggere. Per questo occorre costruire una società di lettrici e lettori. Perché meno parole abbiamo, più siamo soli e inermi. Più ne conosciamo, più aumentano le possibilità di riparare il mondo e noi stessi. Un limite per l’intelligenza artificiale: non può dare giudizi di Anna Maria Lorusso* Il Domani, 22 novembre 2025 C’è un aspetto dell’Ia su cui non si riflette abbastanza. Sappiamo tutti che la sua forza sta nella potenza di calcolo: processare una quantità enorme di informazioni in un segmento minimo di tempo. Ma non ha il senso della misura: intesa come modalità di calibrare il comportamento. Perché richiede una valutazione che non è calcolo, è giudizio, giudizio umano e critico, su limiti e condizioni delle cose. Mentre la giustizia guadagna il centro della scena, con la questione riforma che polarizza il dibattito, ho partecipato pochi giorni fa a una interessantissima tavola rotonda universitaria, organizzata per lo più da penalisti, sulla giustizia ai tempi dell’intelligenza artificiale. Poco tempo prima, con alcune delle stesse persone avevo avuto un dibattito sul rapporto fra verità giudiziaria e verità mediatica (e il tema continua ad appassionarmi; nel mio libro ne parlo nel capitolo dedicato ai true crime; anche in questi giorni, del resto, continuiamo ad avere nella nostra dose quotidiana di Garlasco…). Dai media tradizionali all’intelligenza artificiale, del resto, il passo è breve, almeno secondo me e almeno sotto certi rispetti: ci consegnano tutti a un mondo “sceneggiato”, organizzato secondo i pattern preferiti dal senso comune: i temi più frequentati, le curiosità più frequenti, gli attori più apprezzati, i mali più conformi al cuore del nostro tempo. Ma cosa succede quando un avvocato chiede a ChatGpt di trovargli i precedenti di un certo tipo di reato? O quando una requisitoria viene articolata e scritta con l’aiuto dell’intelligenza artificiale generativa? L’intelligenza umana viene in questi casi efficacemente sostituita? (Efficacemente, a dire il vero, non pare tanto…, perché al workshop che dicevo sono stati citati casi di ignominiosi errori). Guardare avanti - Alla tavola rotonda, come accade sempre in questo genere di dibattiti, c’erano apocalittici (che esortavano alla resistenza, quasi luddista, verso queste nuove tecnologie); c’erano entusiasti, che ricordavano tutti i vantaggi che l’intelligenza artificiale può darci, smentendo radicalmente l’uniformazione che temiamo ogni volta che pensiamo a questi sistemi; e c’erano integrati, come me, che registravano l’ineluttabilità del cambiamento, la necessità di accettarlo, l’opportunità di sfruttarlo con consapevolezza critica. Fondamentale, quanto meno ai miei occhi: non limitarsi a volgersi indietro verso i cari vecchi tempi andati (quali poi? Quelli dei faldoni cartacei? O già quelli di Google e Wikipedia?) come accecati da una Medusa che spaventa mentre attrae, così come non limitarsi a fare finta che niente stia cambiando davvero. Alcune cose - e importanti - sono già cambiate, in termini epistemici: cosa rappresenta oggi l’idea di evidenza? Quali sono i margini dei giudizi predittivi? Com’è cambiato il ragionamento probatorio? La perizia cosa diventa, di fronte a un’evidenza fornita dall’Ia? Se questi sono alcuni dei quesiti epistemici che l’intelligenza artificiale solleva in un campo tecnico, autorevole e lento al cambiamento come quella della giustizia, e che dovrebbero impegnarci molto più della semplice giaculatoria della paura, c’è un aspetto dell’intelligenza artificiale su cui secondo me non si riflette abbastanza e che è assolutamente trasversale alle differenti sfere dell’esperienza umana in cui si ricorre alla Ia, dalla medicina alla giustizia, dalla didattica alla guerra: quello della misura. Certo, sappiamo tutti che la forza dell’Ia sta nella sua potenza di calcolo: processare una quantità enorme di informazioni in un segmento minimo di tempo. E certo questo è un problema di misura. Ma io intendo un altro aspetto del problema, che è quello della misura nel senso di criterio, come quando si dice di una persona: “Non ha il senso della misura”. È un’affermazione che più o meno ha lo stesso senso pragmatico di: “non ha il senso della realtà”. La misura, nel modo in cui voglio intenderla io, non è solo una questione di quantità. È anche una questione di appropriatezza. C’è una misura della intransigenza, una misura del divertimento e del piacere, una misura perfino dell’amore o della generosità, cioè perfino di qualcosa che è in sé indubitabilmente buono. Misura e giudizio - La misura, così intesa, in quanto modalità appropriata di calibrare il comportamento, richiede discernimento, richiede valutazione del contesto, richiede attenzione, richiede cioè una valutazione che non è calcolo, è giudizio, giudizio umano e critico, su limiti e condizioni delle cose. In questi tempi in cui ci interroghiamo continuamente sui rischi cui ci espone l’intelligenza artificiale, o meglio sulla concorrenza che l’intelligenza artificiale fa alla nostra intelligenza, mentre pensiamo al fatto che l’Ia fa molte più cose di noi su formati infinitamente più estesi e molto più velocemente, non consideriamo però che essa non ha il senso della misura che dico io, non per ora, almeno. E in certi momenti questo fatto assume contorni drammatici: abbiamo letto dei sistemi di sorveglianza applicati dall’Idf nella striscia di Gaza per individuare i target da attaccare. Lavender - questo il nome del programma - ha svolto un ruolo centrale e senza precedenti nei bombardamenti a quanto pare (si vedano a proposito gli articoli pubblicati da 972magazine). Addestrato sulle conversazioni e informazioni personali dei palestinesi, e così capace di individuare i soggetti-target, Lavender ha individuato migliaia di persone, indicando precisamente dove bombardare, e ha fatto chirurgicamente partire l’ordigno. Sembra, però, che non abbia tenuto in conto il “costo umano” complessivo di quel target; se colpire il target individuato comportava - faccio per dire - far saltare altri 20 civili totalmente estranei, non importava. Lavender indicava dove colpire, e in modo abbastanza automatizzato intervenire, riducendo la responsabilità della scelta del militare di turno a calcolo. Ebbene, Lavender aveva capacità di misurazione, addestrata su misure enormi di dati, ma non aveva il senso della misura, quella facoltà tutta umana per cui si esita di fronte ai costi delle azioni, e si calcolano tutte le conseguenze dei propri gesti, anche le conseguenze morali. Senza pensare a casi così drammatici, poniamoci il problema della misura quando leggiamo delle conversazioni intime, sempre più frequenti, fra adolescenti e ChatGpt(o affini) in merito a problemi di cuore: cosa mi consigli di fare? Cosa devo rispondere? Qual è la frase giusta da dire? ChatGpt ha un serbatoio enorme di possibilità, sa certamente scegliere quella più usata in casi come quello che prefigura la domanda, ma avrà il senso della misura, saprà cioè commisurare la sua risposta alla reazione emotiva di chi dovrebbe pronunciarla o riceverla? Qual è l’appropriatezza pragmatica di una risposta come quella di ChatGpt? È una appropriatezza statistica, ma le vite intime o familiari, specie nei momenti di infelicità - lo diceva anche Tolstoj - non sono tutte uguali e la statistica, forse, non è la scienza giusta. La capacità solo umana - L’intelligenza artificiale ci abitua a una misura statistica dei pensieri e delle azioni: valorizza ciò che ricorre di più. Ma noi umani alla misura statistica aggiungiamo la misura del giudizio - un giudizio che a volte viene perfino formalizzato, quando prende le forme procedurali di un processo, e arriva a una sentenza. La capacità di calcolo è dell’intelligenza artificiale; il senso della misura è umano, tutto umano. Non credo ci possa essere una giustizia artificiale, un giudizio artificiale, una valutazione dell’intelligenza artificiale. Questa può processare elementi, collegarli, trovare corrispondenze, ma intanto, per fare tutto ciò, avrà bisogno di un buon prompt (ovvero di buone domande - messaggio, questo, vecchio quanto l’uomo: la saggezza consiste nel saper fare buone domande più che nel dare risposte…); infine per essere davvero adeguata dovrebbe essere abduttiva, trovare la regola (la legge, il principio, lo schema) che spiega il caso su cui deve pronunciarsi. E questa è cosa creativa, non logicamente deduttiva né disordinata come sono le induzioni basate su accumulo di esperienza. *Professoressa di Semiologia all’Università di Bologna, è stata allieva e collaboratrice di Umberto Eco Dati biometrici, via libera dalla Corte Ue alla conservazione senza limiti: “Decidano le polizie nazionali” di Tiziana Roselli Il Dubbio, 22 novembre 2025 Una linea che conferma un approccio sostanzialistico al concetto di legge e che lascia ampio spazio ai sistemi giuridici interni. La Corte di giustizia dell’Unione europea apre la strada alla possibilità, per le forze di polizia, di conservare nel tempo dati biometrici e genetici di persone condannate o anche solo sospettate di reati intenzionali. Una decisione che chiarisce un nodo delicatissimo posto tra sicurezza pubblica e tutela della privacy, stabilendo che il diritto nazionale può legittimare tali pratiche senza introdurre necessariamente un limite temporale alla conservazione, purché siano rispettati i rigorosi principi europei sul trattamento dei dati sensibili. La sentenza, resa nella causa C-57/23 e originata da un caso ceco, affronta tre questioni chiave. La prima riguarda che cosa debba intendersi per “diritto di uno Stato membro”. I giudici precisano che la base giuridica che autorizza la raccolta di dati biometrici non deve essere una norma dettagliata, ma può consistere in una disposizione generale interpretata dalla giurisprudenza nazionale, purché accessibile e prevedibile per i cittadini. Una linea che conferma un approccio sostanzialistico al concetto di legge e che lascia ampio spazio ai sistemi giuridici interni. Il secondo punto, quello più sensibile, riguarda la possibilità di raccogliere in modo indistinto impronte digitali, profili DNA e altri identificativi di chiunque sia indagato o accusato per un reato intenzionale. La Corte non vi vede alcun contrasto con la direttiva 2016/680 (che disciplina il trattamento dei dati personali da parte delle autorità di polizia e giustizia, imponendo principi di necessità, proporzionalità e tutela dei diritti fondamentali), a condizione che gli obiettivi di prevenzione, indagine o perseguimento non impongano una distinzione tra sospetti e imputati e che il trattamento sia fondato sull’”assoluta necessità”, da valutare con rigore nel rispetto del principio di minimizzazione dei dati. Terzo tema: la durata della conservazione. L’ordinamento nazionale non è obbligato a prevedere un termine massimo. Ciò che conta, secondo la Corte, è che esistano verifiche periodiche sulla necessità di mantenere i dati nei sistemi e che ogni proroga sia giustificata da motivazioni concrete. Se la conservazione non risulta più indispensabile, i dati devono essere cancellati. La decisione, destinata avere ricadute sui modelli investigativi europei, rafforza i poteri delle polizie ma ribadisce che il trattamento di informazioni così invasive resta sottoposto a vincoli stringenti. Tra libertà individuali e sicurezza, la Corte di Lussemburgo disegna un equilibrio in cui gli Stati hanno margine di azione, ma non discrezionalità assoluta. Così l’Ue trasforma i migranti in numeri di Gabriele Segre La Stampa, 22 novembre 2025 La politica fallisce quando pensa di poter contabilizzare le emozioni. È ciò che accade oggi nel dibattito europeo sui flussi migratori, dove una questione profondamente umana viene trattata come una delle tante pratiche amministrative che si risolvono con un timbro e una tabella, invece che con un’idea di società. Con il nuovo meccanismo di solidarietà introdotto dall’Unione, ogni Paese membro dovrà contribuire in uno dei due modi previsti: accogliendo una quota di richiedenti asilo oppure versando un contributo economico per ogni persona che decide di non ricollocare. La formula dell’”accogli o paga” appare come un rimedio ordinato e immediato, ma finisce per riproporre la stessa illusione di sempre: che dati, competenza e pragmatismo siano da soli sufficienti a governare la vita delle persone, trasformando un fenomeno di portata storica in una variabile contabile. Ormai si è capito che la migrazione non è un’emergenza provvisoria, ma una condizione strutturale del nostro tempo; eppure, si persiste a maneggiarla con il linguaggio della burocrazia, come se bastasse aggiornare una procedura, aumentare un incentivo o introdurre una sanzione per darle una direzione. Ciò che continua a mancare è piuttosto una capacità di racconto: un modo per spiegare il fenomeno, inserirlo in una visione e declinarlo nell’idea di Europa che si intende costruire. Senza questo, ogni tabella diventa un’inefficace scorciatoia, non una risposta. È una fragilità che emerge anche dal modo in cui vengono letti i numeri. La Commissione sottolinea da mesi la diminuzione degli arrivi: meno richieste di asilo, sbarchi e pressione sulle frontiere. Ma le variazioni statistiche, da sole, raccontano poco: è l’interpretazione politica a dar loro significato. Se la migrazione viene percepita soltanto come una minaccia, ogni riduzione appare automaticamente come una vittoria. Se invece la riteniamo una componente del nostro futuro, il calo dei flussi impone di guardare il fenomeno più a fondo, considerando come gli arrivi non diminuiscono in realtà grazie a una strategia europea: calano perché le rotte sono più pericolose, perché le crisi interne di molti Paesi d’origine rimescolano le dinamiche locali, e perché altri attori - Cina e Russia in primis - stanno investendo nel continente africano con un’intensità che noi non abbiamo saputo né voluto eguagliare. Senza una visione condivisa, ogni cifra resta dunque sospesa: pronta a confermare una paura o a sostenere una convenienza, ma incapace di orientare una scelta politica. Che piaccia o meno, però, la migrazione, come ogni processo storico, impone a una comunità di interrogarsi su se stessa. È di fronte a questi snodi che si definisce la forma della società che si vuole diventare. Così accadde, ad esempio, agli Stati Uniti all’inizio del Novecento: non si limitarono a registrare l’arrivo di milioni di persone, ma utilizzarono quell’ondata per costruire un’identità e un immaginario condivisi. Anche l’Europa si trova oggi davanti a una condizione simile. Le sue istituzioni operano, certo, entro limiti fissati dagli Stati membri, ma è proprio dentro quel perimetro ristretto che si misura la loro capacità di incidere. Il modo in cui l’Unione affronterà la sfida migratoria non dirà soltanto se saprà gestirla, ma chiarirà quale progetto intende incarnare e quale ruolo aspira ad avere nel mondo. Se continuerà a trattare la questione esclusivamente come un problema contabile, finirà per chiudersi nella difesa rigida e sterile di ciò che è stato. Se invece saprà leggerla come una possibilità, allora la migrazione potrà diventare una leva di rinnovamento - per quanto complessa e delicata - capace di indicare all’Europa la direzione verso cui crescere. Per farlo, però, non basterà evocare una generica cultura dell’accoglienza e dell’inclusione. Servirà un realismo pratico, capace di misurarsi con ciò che la migrazione implica davvero. Contestualizzare il fenomeno, comprenderlo e spiegarne il senso richiede lucidità nel riconoscere rischi e conseguenze: significa sapere che l’integrazione ha bisogno di tempo, di infrastrutture adeguate, di scuole e sistemi sanitari preparati, di lavoro e di amministrazioni locali in grado di sostenere il carico che questi processi comportano. È proprio in questo spazio concreto - non nei massimi sistemi - che l’Europa può dimostrare di essere un attore politico e non solo un amministratore. Gli Stati Uniti del primo Novecento riuscirono a trasformare l’ondata migratoria in un progetto nazionale non perché fossero più generosi o più illuminati, ma perché ebbero il coraggio di assumere quella sfida per ciò che era: una trasformazione strutturale, che chiedeva strumenti all’altezza del tempo, investimenti massicci in istituzioni, infrastrutture sociali e un immaginario condiviso. Quelle politiche funzionarono perché partirono dalla realtà del loro presente, non da un ideale astratto né da un capitolato amministrativo. Se l’Europa vuole ancora sperare di incidere davvero, deve fare lo stesso: affrontare una questione fatta di emozioni difficili e realtà complesse, e trasformarla in una risorsa fondativa anziché nell’ennesimo dossier da archiviare. Palestina. Il Consiglio di Sicurezza Onu legittima un’occupazione illegale di Micaela Frulli e Triestino Mariniello Il Manifesto, 22 novembre 2025 La risoluzione 2803 del Consiglio di Sicurezza del 17 novembre 2025, letta dal punto di vista del diritto internazionale, rivela criticità profonde e contraddizioni che ne compromettono validità e legittimità. Il limite più grande consiste nell’implicita violazione del diritto di autodeterminazione del popolo palestinese. La risoluzione subordina qualsiasi “percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese” al completamento di un programma di riforme dell’Autorità nazionale palestinese, ente che amministra la Cisgiordania, che nella risoluzione peraltro non è mai menzionata. Questa condizionalità trasforma un diritto inalienabile, riconosciuto dalla Carta dell’Onu, ribadito a più riprese dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) e che ha valore di norma di carattere cogente, in una meta da raggiungere in un futuro indefinito: si sospende a tempo indeterminato la possibilità di costruire uno Stato palestinese. Tuttavia, il Consiglio di Sicurezza non può esercitare i propri poteri al di fuori del perimetro fissato dal diritto internazionale. La Commissione di diritto internazionale delle Nazioni unite ha chiarito che le decisioni delle organizzazioni internazionali non possono generare obblighi giuridici quando entrano in conflitto con norme cogenti del diritto internazionale generale e che atti normalmente vincolanti rischiano l’invalidità se violano principi fondamentali e inderogabili. Di dubbia legalità è poi l’istituzione di un’amministrazione fiduciaria internazionale su Gaza, che ripropone modelli ereditati dall’era coloniale, quali i Mandati della Società delle Nazioni dopo la Prima guerra mondiale, concepiti per governare territori privati della propria autodeterminazione. Tale amministrazione - affidata al “Board of Peace” (BoP), un organo ibrido, dotato di poteri estesi e poco definiti - si sovrappone all’occupazione esistente senza disputarne l’illegalità, con il rischio di consolidarla nel tempo. Inoltre, il BoP, presieduto dal presidente Usa Donald Trump, crea una frizione evidente con i criteri di imparzialità richiesti per l’amministrazione internazionale di un territorio. Le amministrazioni internazionali di Unmik in Kosovo o Untaet a Timor Est erano sotto l’autorità dell’Onu e prevedevano meccanismi di garanzia e di accountability. L’autorizzazione a creare una International Stabilization Force (ISF) e a “usare tutte le misure necessarie” per adempiere al suo mandato richiama la formula standard per l’uso della forza contenute in precedenti autorizzazioni date agli Stati, ma con una differenza cruciale: questa volta la ISF agisce sotto l’autorità del “Board of Peace” e si prevede solo una generica richiesta agli Stati che ne fanno parte di riferire periodicamente al Consiglio di sicurezza. Inoltre si prevede una demilitarizzazione della Striscia a carattere unilaterale e si stabilisce che il ritiro delle truppe israeliane sia concordato con l’esercito israeliano potendo questo mantenere una sua presenza a tempo indefinito. Oltre a tutto, la risoluzione non affronta uno dei nodi più critici: l’accertamento delle responsabilità per le violazioni del diritto internazionale commesse negli ultimi due anni. Non vi è alcun riferimento ai rapporti della Commissione d’inchiesta delle Nazioni unite, in cui si constata la commissione di crimini internazionali e atti di genocidio da parte di Israele e dei suoi leader, né al parere della CIG del 2024 che ha sancito l’illegalità dell’occupazione e alle successive risoluzioni dell’AG, né si menzionano le indagini della Corte penale internazionale. Sconcertante, inoltre, la mancanza di qualsiasi previsione di rimedi e risarcimenti per le vittime, mentre chi ha distrutto la Striscia di Gaza esce esente da obblighi di riparazione. La risoluzione su Gaza arriva a pochi giorni di distanza da un’altra decisione controversa del Consiglio di Sicurezza (ris. 2797 del 2025), quella sul Sahara occidentale. In quel caso il testo, presentato sempre dagli Stati Uniti, ha avallato il piano di autonomia proposto dal Marocco nel 2007, riconoscendo di fatto la sovranità marocchina sul Sahara occidentale in violazione del diritto di autodeterminazione del popolo Sahrawi. Alla luce di questi sviluppi, emerge con sempre maggiore chiarezza l’immagine di un Consiglio di Sicurezza che tende ad adottare risoluzioni sulla base del condizionamento di alcuni dei membri Permanenti sganciandosi dalla legalità e dalla Carta stessa. Il diritto internazionale finisce così per essere trattato non come uno strumento essenziale per costruire una pace giusta, fondata sul diritto all’autodeterminazione dei popoli e sul rispetto dei principi fondamentali, ma come un ostacolo da aggirare.