Celle chiuse? Così non si rieducano i detenuti di Andrea Molteni caritasambrosiana.it, 21 novembre 2025 Una recente circolare del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, a firma di Ernesto Napolillo, Direttore generale dei detenuti e del trattamento, sta facendo molto discutere. Si tratta di un’indicazione relativa alle autorizzazioni “degli eventi di carattere educativo, culturale e ricreativo” svolte negli istituti penitenziari italiani: attività proposte e realizzate, in gran parte, da organizzazioni e associazioni del terzo settore, molte cattoliche e legate alla Caritas e alla Diocesi ambrosiana, che danno forma e senso alla partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa prevista dall’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario del 1975. Formazione, ascolto e accompagnamento socio-educativo, incontri culturali e con le scuole, musica, teatro, sport, laboratori artigianali e artistici: tutte attività che rendono viva e vitale la tensione rieducativa delle pene, scolpita nell’articolo 27 della Costituzione. La circolare del Dap afferma che, per gli istituti penitenziari che hanno sezioni di “Alta sicurezza”, “41bis” e “Collaboratori di giustizia”, l’autorizzazione per gli “eventi di carattere trattamentale”, cioè tutti quelli che animano e riempiono di contenuti il tempo altrimenti vuoto della detenzione, dovrà essere richiesta proprio alla Direzione generale che fa capo a Ernesto Napolillo. Ma c’è di più, perché l’autorizzazione andrà chiesta al Dap di Roma anche per le attività svolte nelle sezioni, ben più affollate, di media sicurezza presenti in quegli stessi istituti. Di fatto si tratta di una complicazione burocratica che rischia di rendere molto difficile, quando non impossibile, la realizzazione delle attività in molti istituti penitenziari e che non pare giustificata da effettive ragioni di sicurezza. Prima della circolare le stesse attività erano infatti già sottoposte alla valutazione del magistrato di sorveglianza e dovevano avere il preventivo parere favorevole del direttore del carcere in cui si sarebbero dovute svolgere. Di fatto era il direttore che decideva in merito, conoscendo sia le caratteristiche e le esigenze dell’istituto, sia le persone lì detenute, oltre a conoscere spesso direttamente e per esperienza, persone e organizzazioni della comunità esterna che sarebbero entrate in carcere per svolgere le attività proposte. Tutto ciò avveniva, peraltro, secondo quanto disposto dall’articolo 17 delle norme sull’ordinamento penitenziario che prevede che siano “ammessi a frequentare gli istituti penitenziari con l’autorizzazione e secondo le direttive del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, tutti coloro che avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”. Nella circolare, che è un semplice provvedimento amministrativo, invece il parere del direttore è subordinato a quello della Direzione del Dap e l’autorizzazione del magistrato di sorveglianza competente per l’istituto non è contemplata. In merito alla circolare del Dap, il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasia, ha espresso un parere netto: in un post sul proprio profilo Facebook ha scritto che “è la fine della partecipazione della comunità esterna alle iniziative culturali e ricreative promosse (…) nelle carceri. Dalle celle chiuse alle carceri chiuse, è un attimo. Un balzo all’indietro di più di quarant’anni”. Altrettanto negativi sono i pareri degli altri garanti locali e delle associazioni che operano negli istituti penitenziari e per i diritti delle persone detenute, a partire dalla Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia, a cui Caritas partecipa. Insomma, in molti stanno chiedendo un ripensamento rispetto a quello che persino il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza ha definito, in un comunicato, come “un deciso arretramento rispetto al modello di esecuzione penale che l’ordinamento penitenziario, proprio nell’anno del suo cinquantenario, aveva immaginato e previsto”. In effetti, quest’ultima circolare rafforza un processo di progressiva chiusura dei reparti detentivi inaugurato con un’altra circolare del 2022, la quale, nel “rilanciare” regime e trattamento penitenziario, poneva di fatto fine alla pur positiva esperienza della “sorveglianza dinamica” introdotta per le sezioni di bassa e media sicurezza nel 2013, sulla base del principio per cui “la vita del detenuto normalmente deve svolgersi al di fuori delle celle”. In base a quel regime, le celle rimanevano aperte per gran parte del giorno, consentendo lo svolgimento di attività e una maggiore socialità all’interno delle sezioni; in quel modo l’Italia aveva risposto alle condanne disposte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per il trattamento inumano e degradante che il sovraffollamento penitenziario infliggeva alle persone detenute. La circolare attuale chiude di fatto quell’esperienza e c’è il fondato timore che finisca per far chiudere le celle per gran parte del tempo e per la maggior parte delle persone detenute. Già se ne ha avvisaglia in alcuni istituti, con le prime attività sospese per mancanza dell’autorizzazione del Dap. Nella situazione di sovraffollamento e tensione in cui versano le carceri italiane, è forte il timore che questo ulteriore passo verso una gestione sicuritaria degli istituti penitenziari, già perseguita da precedenti provvedimenti del governo, per esempio negli ultimi “pacchetti sicurezza”, finisca per accrescere il malessere delle persone detenute e per far aumentare i gesti di insofferenza, individuali e collettivi. Nel frattempo, in attesa di una nuova sentenza della Corte europea (chiamata di nuovo a pronunciarsi su un regime di detenzione che assomiglia sempre di più a un trattamento inumano e degradante) e a dieci mesi dall’apertura della Porta Santa giubilare nel carcere di Rebibbia a Roma, 69 persone detenute si sono suicidate. Triste sigillo del naufragio, proprio mentre si approssima il 14 dicembre, Giubileo dei detenuti, delle pur timide proposte tese a ridurre l’affollamento carcerario nel nostro Paese”. Il futuro è un diritto, anche nelle carceri minorili di Cesare Sposetti aggiornamentisociali.it, 21 novembre 2025 La “controriforma” della giustizia minorile e i suoi possibili antidoti. “Mare fuori”, una serie televisiva lanciata nel 2020 e ambientata in un immaginario carcere minorile napoletano, ha incontrato una grande accoglienza in Italia e all’estero, specialmente tra i più giovani, e ha aperto una finestra su un mondo prima decisamente poco conosciuto e rappresentato, quello degli Istituti penali per minorenni (Ipm). Tale successo tuttavia stride con il modo in cui la società italiana si confronta con il disagio giovanile che sfocia in atti criminosi, che la narrazione mediatica spesso semplifica e riduce al fenomeno delle baby gang. Questo approccio, in maniera ancor più allarmante, si ritrova nella politica, e in particolare nei provvedimenti adottati dall’attuale Governo, che ha fatto del contrasto alla microcriminalità uno dei suoi cavalli di battaglia, tanto durante la campagna elettorale quanto nei successivi interventi legislativi. Tra i provvedimenti più recenti e significativi in materia c’è il “decreto Caivano”, a riprova di quanto sia potente l’inquietante deriva del populismo penale. In pochi tra media e istituzioni sembrano veramente interessati alla sorte dei circa cinquecento giovani che oggi affollano i diciassette IPM presenti nel Paese. Proprio e principalmente a causa del decreto Caivano, i detenuti in queste strutture non sono mai stati così tanti da oltre dieci anni, né mai così giovani, con un’età media tra i 16 e i 17 anni. Come già succede per gli adulti, sempre di più si ricorre al diritto penale e al sistema carcerario per neutralizzare o almeno nascondere il disagio che colpisce persone che già si trovano in condizione di emarginazione, in molti casi stranieri, tra cui anche minori non accompagnati, scegliendo deliberatamente di non affrontare le cause sociali all’origine degli atti criminosi. Gli ultimi interventi legislativi, nel loro intento primariamente repressivo, stanno inoltre rendendo ancora più difficile portare avanti progetti a favore dei giovani detenuti e prevedere percorsi alternativi alla carcerazione, che potrebbero in modo ben più efficace offrire loro una via d’uscita e abbattere i tassi di recidiva, che restano alti. In cerca di uno sguardo più profondo e completo sulla realtà dei minori detenuti, abbiamo chiesto a Claudio Cottatellucci, presidente dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia (Aimmf), di tracciare un quadro sulla normativa vigente, e a Monica Cristina Gallo di raccontare la sua esperienza di contatto diretto con i giovani detenuti nel ruolo di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Torino. Abbiamo poi dato spazio alla testimonianza di due persone impegnate ad accompagnare i minori detenuti in percorsi di ricostruzione della propria vita: don Otello Bisetto, cappellano dell’IPM di Treviso, e Lucia Lauro, responsabile del progetto Cotti in fragranza, nato nell’IPM di Palermo. La diagnosi, per più versi impietosa, dell’attuale stato della giustizia minorile nel nostro Paese, si accompagna così alla voce di chi incontra quotidianamente le vite e le storie di coloro che vivono l’esperienza della reclusione, riconoscendovi i semi di un futuro che chiede di essere accompagnato a crescere. Referendum al buio di Nello Rossi L’Unità, 21 novembre 2025 La riforma costituzionale della magistratura è nata già vestita e armata di tutto punto - dalla testa di Meloni e Nordio - e io aggiungo - del sottosegretario Mantovano, come Minerva dalla testa di Giove. Era così perfetta da non aver bisogno di alcuna modifica, integrazione o correzione sulla base delle indicazioni dei tanti studiosi che hanno partecipato alle audizioni parlamentari o al dibattito pubblico nel Paese. E nessuna modifica è stata possibile - non c’è bisogno di dirlo - da parte dei parlamentari, chiamati solo a votare il testo predisposto dal Governo come se si trattasse della conversione di un decreto legge. La riforma presenta una pluralità di incognite e di grandi, a volte clamorose, lacune. Vuoti e lacune che producono un singolare effetto: nel referendum gli elettori - informati o meno che siano - dovranno fare una scelta in gran parte al buio. Ci aspetta ora una campagna referendaria che si preannuncia molto aspra al termine della quale il testo della riforma sarà sottoposto al giudizio di Dio del referendum confermativo. Naturalmente in vista della campagna c’è un gran parlare di comunicazione in magistratura e tra le associazioni e le forze politiche che saranno impegnate nel referendum. Per parte nostra, più che farci coinvolgere in questo abbastanza vuoto esercizio di retorica della comunicazione, abbiamo ritenuto utile pubblicare il Focus Istat del 17 settembre di quest’anno, intitolato La partecipazione politica in Italia. Vi si leggono dati precisi ed allarmanti sul calo generalizzato della c.d. partecipazione invisibile (consistente nell’informarsi e discutere di politica) dal 2003 al 2024, sulle differenze di genere, di età e territoriali nelle forme di tale partecipazione e sull’incidenza del titolo di studio sulla propensione ad informarsi. Sono poi passati in rassegna ed analizzati nella loro consistenza quantitativa i diversi canali informativi. La televisione, ancora al primo posto, anche se in calo di 10 punti percentuali dal 2003 (dal 94 all’84,7%). Al secondo posto i quotidiani, anche se calati dal 2003 dal 50,3 al 25,4% e, a seguire, le fonti informali come amici e parenti e i social network utilizzati da un cittadino sui cinque. Al di là di questi gruppi di popolazione, relativamente informati, si stende la grande terra di nessuno di quanti non si informano e non discutono “mai” di politica, per disinteresse o sfiducia. Bisognerà studiarlo attentamente questo rapporto se si vuole fondare su basi solide ogni discorso sulla comunicazione relativa al referendum costituzionale. Ma già da una prima lettura emerge con chiarezza che l’opinione pubblica coinvolta nella campagna risulterà divisa in due grandi fasce, sia pure con molte sfumature al loro interno. Da un lato una consistente minoranza maturerà i suoi convincimenti con l’attenzione rivolta ai temi oggetto della revisione costituzionale: separazione delle carriere, formazione per sorteggio dei due CSM e scorporo della Corte disciplinare. Sull’opposto versante una corposa maggioranza sarà più propensa ad orientarsi sulla base di percezioni e giudizi complessivi sullo stato della giustizia, sulla lunghezza dei processi, sull’immagine della magistratura. Ci saranno perciò due campagne referendarie parallele. La vera sfida sarà parlare, con linguaggi diversi anche se coerenti, all’una ed all’altra componente dell’opinione pubblica. In particolare sottraendo la parte meno informata alle suggestioni che verranno profuse a piene mani dalla potente armata dell’informazione di destra. Detto questo, per chiarire che non siamo ciechi di fronte ad una realtà così inquietante, voglio concentrarmi brevemente su di un aspetto squisitamente giuridico che attiene insieme alla campagna referendaria ed alla legge di revisione ormai approvata dal parlamento. Parlo dell’esistenza di una pluralità di incognite e di grandi, a volte clamorose, lacune, nel corpo della legge di riforma. Vuoti e lacune che producono un singolare effetto: nel referendum gli elettori - informati o meno che siano - dovranno fare una scelta in gran parte al buio. Vedranno lo scheletro in cemento armato del nuovo edificio costituzionale ma non disporranno di nessuna indicazione sulle caratteristiche degli appartamenti e sulla funzionalità e vivibilità del nuovo ambiente della giurisdizione. Su una base di informazioni così scarna nessuno comprerebbe un appartamento “nuovo”. Ma questa è la prospettiva che i cittadini avranno di fronte per i due Consigli Superiori separati e ancor più per la Corte disciplinare. La riforma si preoccupa solo di separare i Csm e di attuarne la provvista tramite sorteggio. Ma nulla dice sul “numero” dei componenti togati dei due Consigli e le “procedure” da adottare per il sorteggio. Sarà dunque il legislatore ordinario a dover dare risposte che saranno assolutamente decisive per definire la reale fisionomia dei due organi di governo autonomo. Sarà garantita - e in che termini? - una qualche parità di genere tra i consiglieri togati? Quando, poi, si passa all’esame delle norme riguardanti il nuovo giudice disciplinare e l’assetto della giurisdizione disciplinare le incognite, i silenzi, i vuoti sono se possibile ancora maggiori. Si dà vita ad un “nuovo” giudice speciale - perché è indiscutibile la funzione giurisdizionale della Corte disciplinare - in contraddizione se non in rotta di collisione con l’art. 102 della Costituzione che vieta l’istituzione di nuovi giudici speciali. Si separa la giurisdizione disciplinare dall’amministrazione della giurisdizione, con una divaricazione che non esiste per nessun’ altra autorità di vigilanza e di garanzia (Banca d’Italia, Consob, Autorità garanti) o per altri corpi professionali (tra cui avvocati, notai). Questa Corte, che si definisce enfaticamente alta, ha ancora una volta una composizione affidata al sorteggio, con l’aggiunta di un vistoso difetto: una legittimazione diseguale al suo interno tra i membri nominati dal presidente della Repubblica e gli altri membri tutti sorteggiati. Se è vero che nel testo del ddl di revisione costituzionale non è intaccata l’autonomia dall’Esecutivo del corpo dei pubblici ministeri, è legittimo temere che, una volta approvata la riforma, la sorte dei magistrati dell’accusa sarà subito al centro di forti tensioni. L’attrazione dell’ufficio del pm nell’orbita dell’esecutivo potrebbe giungere alla fine di una stagione di dure polemiche sull’operato degli uffici di Procura e su di una loro presunta irresponsabilità. Stagione di cui non è difficile immaginare i contenuti ed i contorni nel contesto italiano caratterizzato da anni da furibonde polemiche verso “tutti” gli attori del giudiziario autori di provvedimenti sgraditi alle forze politiche di maggioranza. C’è però una seconda prospettiva - non meno insidiosa e già coltivata in passato: quella che condurrebbe alla negazione del potere di iniziativa del pubblico ministero, al quale sarebbe attribuita la diversa funzione di avvocato della polizia. In quest’ottica il pubblico ministero dovrebbe attendere che siano le forze di polizia (tutte dipendenti da diversi Ministeri) a comunicargli la notizia di reato e i risultati delle indagini svolte, mettendo in campo la sua capacità tecnica solo per sostenere l’iniziativa autonomamente assunta dagli apparati di sicurezza. Una opzione, questa, attuabile senza introdurre modifiche costituzionali, intervenendo solo sulle norme del codice di procedura penale, che consegnerebbe all’esecutivo la leva dell’azione penale e non si tradurrebbe certo in maggiori garanzie per i comuni cittadini. Venendo meno l’investitura democratica e la rappresentatività dei membri togati, non più eletti ma sorteggiati, sarebbero minori la legittimazione e il peso istituzionale dei due organi di governo autonomo che sostituirebbero il Consiglio superiore unitario. Inoltre, la minore forza istituzionale dei due Consigli separati e dimidiati potrebbe recare con sé una diminuita capacità di difesa dell’autonomia e dell’indipendenza delle magistrature. Già oggi la relativa debolezza istituzionale del Consiglio superiore, frutto di una pluriennale e incessante campagna di stampa denigratoria, si è tradotta nella minore propensione a promuovere “pratiche a tutela” dei magistrati, anche quando sono oggetto di durissimi attacchi e di vere e proprie intimidazioni da parte della politica. Nei Consigli dei sorteggiati le timidezze potrebbero essere ancora maggiori, tanto sulla tutela dell’indipendenza quanto sulla meditata e rigorosa difesa della libertà di manifestazione del pensiero di giudici e pubblici ministeri. Al minore impegno per la salvaguardia dell’indipendenza potrebbe poi fare da pendant una ridotta attitudine dei Consigli scaturiti dalla casualità del sorteggio, a promuovere l’innovazione istituzionale. Non c’è dubbio che la riforma - recidendo il legame storico tra associazionismo dei magistrati e governo autonomo della magistratura realizzato attraverso le elezioni del Csm - abbia l’obiettivo di frammentare e atomizzare la magistratura e di privare di vigore la sua vivace realtà associativa. Interrogarsi sul futuro di un associazionismo “dissociato” - per effetto del sorteggio - dall’amministrazione della giurisdizione apre un inedito campo di problemi che è prematuro affrontare oggi, mentre la vicenda legislativa della riforma è ancora in itinere ed è incerto l’esito dell’eventuale referendum confermativo. Ma si può dire sin d’ora che sono malriposte le speranze di chi pensa di infliggere - con la separazione delle carriere e con il sorteggio - un colpo duro e decisivo all’associazionismo dei magistrati, che dalla sua storia e dalle sue radici ideali saprà comunque trarre la linfa necessaria a vivere anche in un mutato ambiente istituzionale. E certamente non scomparirà né sarà indebolita Magistratura democratica che nelle idee, nelle idealità, nella cultura giuridica ed istituzionale della democrazia ha la sua linfa vitale e il suo collante. Possiamo garantire ai tanti detrattori e calunniatori di Magistratura democratica che non riusciranno a cancellare questa realtà viva e feconda che, contro ogni verità, si ostinano a considerare una “mala pianta” da estirpare. L’errore di fondo nella riforma della giustizia, e la pretesa di avere processi impeccabili di Simona Bonfante linkiesta.it, 21 novembre 2025 In Italia serve più fortuna che fiducia in tribunale, è un paradosso per un Paese in cui vigono lo stato di diritto e la presunzione di innocenza. Il nostro sistema non può permettersi di infliggere pene ingiuste. “Non ho fiducia nella giustizia”. Così Massimiliano Fachini, celebre imputato dell’interminabile processo per la strage alla Stazione di Bologna, imputato assolto anche per Piazza Fontana a Milano, detenuto per oltre dieci anni in misura cautelare, ovvero senza alcuna condanna a suo carico, si rivolse al Presidente di Corte d’Assise che nel 1993 a Bologna celebrava il secondo appello - il precedente appello che lo assolveva, ribaltando l’ergastolo inflittogli in primo grado, era stato parzialmente annullato dalla Suprema Corte di Cassazione. Dunque si era al quarto grado di giudizio, l’imputazione era strage, in gioco l’ergastolo o l’assoluzione. Non aveva fiducia nella giustizia, il poveretto. Dieci anni di galera ingiusta e una persecuzione giudiziaria conclamata da un’unica condanna in primo grado e dall’univoca serie di assoluzioni passate in giudicato, possono fare questo effetto. Colpisce tuttavia una manifestazione così ostentata di sincerità da parte di una persona non responsabile degli infamanti reati attribuitigli da alcuni magistrati, nel momento in cui altri magistrati avrebbero dovuto decidere della sua sorte. “Ho fiducia nella giustizia” è invece il mantra che ogni malcapitato finito nel mirino delle procure e delle corti di primo grado recita sempre in pubblico, quasi a esorcizzare l’inevitabilità dell’ingiustizia. I magistrati tuttavia sono persone che, pur indossando la toga, non sono immuni dalle miserie umane trasversali a generi e categorie. La giustizia degli uomini non è la Giustizia Divina. Non ci sarà mai una Giustizia Giusta mentre può esserci solo una giustizia meno ingiusta possibile. Un innocente ha ragione di temere la giustizia molto più di un reo. Un innocente non è preparato a difendersi, non si è precostituito un alibi, non ha usato cautele nelle conversazioni telefoniche e nelle chat. È uno che se entra nella trama accusatoria in cui la più innocente delle battute viene travisata sotto una luce sinistra, ne rimane rimbambito, intrappolato, schiacciato come un moscerino. In Italia i casi di innocenti rinviati a giudizio e spediti in galera preventiva sono un migliaio l’anno, ma la stima tiene conto solo delle richieste di risarcimento per ingiusta detenzione, dunque non comprende tutte le ingiuste detenzioni, tutte le ingiuste accuse, tutti gli ingiusti rinvii a giudizio. Una persona innocente, cui un inquirente contesta fatti che ignora, ha ragione di interrogarsi sul grado di fiducia da accordare a quella persona, il magistrato inquirente, che in quello specifico momento riveste un potere così esorbitante nei propri confronti. Ha ragione di interrogarsi sulla fiducia da accordare a quell’altra persona, magistrato giudicante, che valuterà le richieste del collega dell’accusa. I processi sono pubblici e l’archivio di Radio Radicale consente di seguire senza filtri né commenti quelli attuali nel loro svolgersi, così come i processi del passato, qui evocati in esordio. Un ascolto senza pregiudizi, esteso, puntuale, laico consente a tutti, compresi i meno esperti, di scoprire che in Italia bisogna aver fortuna con la giustizia, più che fiducia nella giustizia. La riforma costituzionale che introduce la separazione delle carriere dei magistrati tra requirenti e giudicanti si pone l’obiettivo di garantire la cosiddetta terzietà del giudice tra le parti, accusa e difesa. Di per sé quasi un’ovvietà. I contrari alla riforma sostengono l’inessenzialità della nuova norma sulla base dei dati reali che mostrano un’altissima percentuale di sentenze contrarie alle richieste dell’accusa, spesso al secondo grado di giudizio, quindi solo dopo anni e tanti soldi spesi dall’imputato per difendersi da accuse ingiuste. Si rifletta su questo argomento. Una percentuale elevatissima di rinvii a giudizio e detenzioni preventive viene giudicata sbagliata. Dunque possiamo stare tranquilli che, anche qualora venissimo indagati, detenuti e rinviati a giudizio da innocenti, prima o poi un giudice giusto ci assolverà. L’argomento, insomma, più che certificare la già attuale terzietà del giudice - evviva, evviva - sembra suggerire una propensione di buona parte dei magistrati inquirenti e di parte dei magistrati giudicanti a ritenere la vita, la reputazione, la libertà di una persona, elementi trascurabili rispetto al rischio che il sospettato abbia effettivamente fatto qualcosa di male. Non si tratta di errori che, pur tragici per gli innocenti, possono sempre accadere, ma di dati sistemici portati a esempio degli stessi che si oppongono alla separazione delle carriere. Un processo stravolge la vita, porta sul lastrico chi non ha i mezzi economici esorbitanti per affrontarlo, talvolta compromette irrimediabilmente la reputazione. Nulla per un innocente tornerà più come prima. Un solo innocente accusato ingiustamente, processato ingiustamente, condannato ingiustamente e solo poi giustamente assolto, è un innocente ingiustamente colpevolizzato di troppo. La giustizia degli uomini, per essere giusta, dovrebbe porsi questo solo obiettivo: ridurre al minimo il rischio che si incappi nell’orrore etico di infliggere una pena ingiusta a una persona, in nome del popolo italiano. La riforma si pone un obiettivo, la giustizia giusta, che sa già di non poter conseguire per almeno due motivi. Perché la difesa non sarà mai pari con l’accusa a meno di poter disporre, oltre che di un giudice giusto che dipende dalla sorte, anche di mezzi economici e mediatici pari a quelli dei magistrati. E perché la cultura del “meglio un innocente dentro che un colpevole fuori” è debordante e trasversale - oggi non più di quanto lo fosse ieri e l’altro ieri della nostra storia repubblicana. D’altronde c’è una persona da sedici anni in galera per una condanna definitiva di omicidio mentre si riaprono le indagini su di un presunto innocente per lo stesso omicidio che a furor di spettatori si vorrebbe in galera pure lui. In questo abisso della civiltà, la separazione delle carriere è inutile ai fini della “giustizia meno ingiusta possibile”, almeno quanto le sempre invocate risorse per la giustizia - che oltretutto non basteranno mai in un sistema moltiplicatore di azioni penali. La riforma non oppone alcun argine al rischio che un innocente venga ingiustamente colpevolizzato né garantisce una non puramente formale equità tra le parti - i soli obiettivi che una giustizia meno ingiusta possibile dovrebbe porsi ma che invece non si pone, purtroppo, né chi vuole la riforma né chi vi si oppone. “Al referendum voto Sì. L’Anm andrebbe sciolta”. Parla Lamberto Dini di Ermes Antonucci Il Foglio, 21 novembre 2025 L’ex premier: “La separazione delle carriere mira a garantire piena terzietà al giudice. L’Anm? Non è possibile che i magistrati, che sono pubblici funzionari, abbiano un sindacato che agisce come soggetto politico”. “Al referendum voterò Sì. Approvo la riforma della giustizia”. La posizione di Lamberto Dini è netta. Intervistato dal Foglio, l’ex presidente del Consiglio, già ministro del Tesoro e direttore generale della Banca d’Italia, giudica positivamente la riforma costituzionale targata Nordio, a partire dalla separazione delle carriere, che “mira a garantire la piena terzietà del giudice rispetto al pubblico ministero, senza ridurre l’autonomia e l’indipendenza della magistratura”. “Mi risulta che la separazione delle carriere esista nella gran parte dei paesi democratici, e senza che i pm siano sotto il controllo del governo, come ora sostengono gli oppositori della riforma”, nota Dini. L’ex premier approva anche l’introduzione del sorteggio per l’elezione del Consiglio superiore della magistratura: “Oggi l’Anm con le sue correnti governa indirettamente il Csm, e questo costituisce un fattore negativo sul piano istituzionale”. Dini si spinge oltre: “Penso che l’attivismo politico della magistratura associata sia deleterio. L’Anm andrebbe sciolta perché non è possibile che i magistrati, che sono pubblici funzionari, abbiano un sindacato che agisce come soggetto politico. Un sindacato dovrebbe occuparsi degli stipendi della categoria, non di altro. Invece l’Anm ha addirittura istituito un comitato per il No al referendum costituzionale. La funzione dei magistrati è di applicare le leggi approvate dal Parlamento, non di contrastarle”. “Già nel 1995, quando ebbi l’onore di essere presidente del Consiglio, avanzi al presidente della Repubblica Scalfaro una proposta di riforma della giustizia che riguardasse il Consiglio superiore della magistratura e che prevedesse anche la separazione delle carriere”, ricorda Dini. “Il presidente mi disse che il mio era un governo di programma, per il quale non era prevista una lunga durata, e pertanto non c’erano le condizioni per affrontare questi temi. Aggiunse che ciò che si poteva affrontare era la separazione delle funzioni, cosa che poi nel corso dei decenni successivi è stata effettivamente realizzata, in ultimo con la recente riforma Cartabia”. Insomma, “già trent’anni fa ero favorevole alla separazione delle carriere per dare piena attuazione al principio di terzietà del giudice”, ribadisce Dini, che dice di “condividere pienamente le considerazioni di grande competenza giuridica espresse dall’ex presidente della Corte costituzione Augusto Barbera in un intervento pubblicato sul Foglio, e di Luigi Mazzella, già vicepresidente sempre della Corte costituzionale. Inoltre mi pare significativo - aggiunge - che anche diversi magistrati si siano espressi a favore della riforma, ed è interessante che a prendere posizione siano diversi pm, che secondo gli oppositori dovrebbero avere il timore di finire sotto l’esecutivo”. Oggi Forza Italia celebra la “Giornata della giustizia negata”, fissata in una data simbolica: la sera del 21 novembre 1994, infatti, la procura di Milano recapitò all’allora premier Silvio Berlusconi il famoso invito a comparire per corruzione (reato per il quale poi sarà assolto). Il giorno dopo la notizia venne pubblicata in prima pagina sul Corriere della Sera, in violazione del segreto istruttorio, mentre Berlusconi presiedeva un summit mondiale a Napoli sulla criminalità organizzata. Il fondatore di FI si difese in una conferenza stampa con a fianco Dini, all’epoca ministro del Tesoro. “Fu l’inizio di un ‘martellamento’ giudiziario nei confronti di Berlusconi”, dice oggi Dini. “I magistrati si misero alla ricerca di evidenze di condotte illecite di Berlusconi, tanto da sottoporlo ad addirittura quaranta procedimenti penali. Mi pare che oggi sia sentimento comune che quell’attenzione della magistratura nei confronti di Berlusconi fosse politicamente motivata”. “C’è una parte della magistratura politicizzata che cerca di interferire con il governo cercando di colpire le persone che sono più emergenti. È accaduto a Berlusconi, è accaduto a Renzi, a cui hanno indagato genitori e famigliari”, prosegue Dini. Meloni deve avere paura? “La premier ha dichiarato a più riprese che non è ricattabile. Finora non è successo niente nei riguardi suoi e dei suoi famigliari. Se mai dovessero emergere inchieste mi auguro che siano fondate su reali ipotesi di reato e non su supposizioni, che poi finiscono per lasciare le persone sulla graticola, fino a quando poi non c’è più ragione politica e si dice che il fatto non sussiste”. La giustizia riparativa: “Così nasce un dialogo. Non solo per reati gravi. Anche i furti fanno male” di Jessica Muller Castagliuolo Il Giorno, 21 novembre 2025 Il criminologo Adolfo Ceretti coordinò il gruppo di lavoro per il decreto “A Milano attivata per risse, revenge porn, omicidi: si potrebbe usare di più”. Il dolore come “un elastico”. Cosa farne? “Continuerà a tendersi all’infinito e non potremo mai più essere liberi?”. Una domanda che si pone Agnese Moro, figlia dello statista ucciso dalle brigate rosse, tra gli intervalli del libro che testimonia il percorso di giustizia riparativa che si è tenuto dal 2009 al 2014 e che ha messo a confronto vittime e responsabili della lotta armata. Tra i mediatori, anche Adolfo Ceretti, professore di criminologia all’Università Bicocca di Milano e docente di mediazione reo-vittima. Il modello non era però ancora entrato nell’ordinamento giuridico. L’introduzione arriva con il decreto legislativo 150/2022, che attua la cosiddetta “riforma Cartabia”. Ceretti, di recente si è molto parlato di giustizia riparativa. Dal femminicidio di Giulia Cecchettin, al caso di revenge porn che coinvolge La Russa Jr, fino ad alcuni filoni dell’inchiesta sull’urbanistica milanese. Ma come si avvia? “La richiesta può partire dall’autore dell’offesa, dalla vittima, dal magistrato di sorveglianza o dal giudice, che decide sulla fattibilità, assicurandosi che il percorso non intralci le indagini né metta in pericolo le parti. I mediatori - professionisti iscritti a un albo e pagati dallo Stato (il percorso è gratuito) - raccolgono il consenso delle parti e attivano il dialogo riparativo”. Qual è lo scopo? “Si lavora per affrontare gli effetti distruttivi che il reato produce nel “paesaggio interiore” della persona indicata come autore dell’offesa, vittima, e comunità. Di questa ferita, la giustizia penale non si occupa. Il reato va visto non soltanto come l’offesa di un bene protetto dall’ordinamento giuridico, ma anche come distruzione delle relazioni. Lo scopo è tentare di ricostruire queste relazioni lacerate. Qual è la differenza di fondo con la giustizia penale? “Che si tratta di una giustizia dell’incontro, orizzontale, che gioca tutta la sua potenzialità sul consenso dei partecipanti. Il punto fondamentale è che il modello penale è fondato sulla coercizione, nella giustizia riparativa si partecipa in maniera consensuale, attiva e volontaria”. La giustizia riparativa può in qualche modo sostituire quella penale? “Mai, in nessun modo. Si affianca e si intreccia a quella penale”. Cosa si intende quindi per riparazione? “Ha uno spessore etico, non una funzione compensatoria. La questione non è più soltanto chi merita di essere punito e con quali sanzioni, bensì che cosa si può fare per riparare non il danno (che appartiene al processo), ma il fatto. Non si tratta di controbilanciare economicamente il danno, ma di riparare attraverso “gesti riparatori”, calati sui singoli casi”. Per quali reati può essere applicata? “Come specifica l’art. 34 del decreto, potenzialmente si può applicare a tutti. A Milano, dove lavoro, posso dire che viene attivata soprattutto per lesioni personali gravi e gravissime, risse (spesso tra minorenni), revenge porn, violenza domestica e sessuale tra conoscenti, maltrattamenti familiari. Anche omicidi”. Lei nel 2021 ha coordinato il Gruppo di lavoro per l’elaborazione degli schemi del decreto. Si aspettava questo riscontro? “Ci aspettavamo in realtà che fosse applicata di più per reati di media gravità, ma invece i giudici la richiedono per reati estremamente gravi. Credo che abbiano colto che si tratta di uno strumento che ha più probabilità di ottenere una fattibilità concreta dove ci sono sacche di marginalità e conflitto. Questo è un ragionamento abbastanza fallace, perché la gravità di un reato non corrisponde molte volte ai vissuti che le persone possono avere. Anche un furto in appartamento può essere sentito dalle vittime come altamente lesivo”. Aldo Bianzino, una morte in carcere ancora oscura. Il figlio torna in procura per “nuove indagini” di Emanuele Giordana Il Manifesto, 21 novembre 2025 Diciotto anni dopo, suo figlio Rudra è ancora convinto che quel processo fu un porto delle nebbie. Lunedi scorso Rudra Bianzino ha depositato per la seconda volta alla Procura della Repubblica di Perugia la richiesta di riapertura delle indagini per omicidio volontario ai danni di suo padre, Aldo Bianzino, l’ebanista morto di carcere nel 2007 nella Casa circondariale di Capanne poco dopo il suo arresto dovuto al possesso di alcune piante di cannabis rinvenute nel giardino di casa. Passò nella prigione di Perugia solo qualche giorno mentre anche la sua compagna Roberta Radici era agli arresti. Ma quando lei uscì seppe che Aldo era morto. Come, quando, in che modo? Una vicenda piena di ombre, sotterfugi, silenzi, ritrattazioni e una marea di evidenze che dicevano tutt’altro da quanto stabilirono poi i magistrati: che Aldo era morto per un aneurisma, per morte naturale, e si poteva semmai parlare di omissione di soccorso. Non certo di omicidio. Diciotto anni dopo, suo figlio Rudra - allora minorenne e spettatore involontario dell’arresto dei genitori in un casale del perugino - è ancora convinto che quel processo fu un porto delle nebbie. “Forse tutti pensavano che dopo tanti anni avessi mollato - ci dice al telefono - ma non è così: ho continuato a lavorare”. Spiega di aver già presentato in precedenza la medesima istanza a seguito di esami medico-legali che, già nel corso del procedimento per omissione di soccorso (2007-2015), vennero considerati di fondamentale importanza da un collegio di giudici e da un Gip. Evidenze che rafforzavano l’ipotesi di violenze subite dal padre. Tuttavia, ricorda Rudra, il pubblico ministero incaricato della questione, Giuseppe Petrazzini, non li ritenne di sufficiente rilevanza e rigettò la richiesta. “È stato un percorso lungo e impegnativo, pieno di imprevisti, dubbi e timori. Ma - ha scritto ieri sulla sua pagina Facebook - non ho mai demorso, convinto di seguire la strada giusta. Non si può e non si deve morire così. Ed è per questo che considero la mia storia una questione che riguarda la società tutta. Troppi sono gli aspetti oscuri di questa vicenda, che chiama in causa le istituzioni stesse, per poter ritenere che abbia avuto una fine giusta e dignitosa”. La vicenda dell’oscura morte di Aldo il 14 ottobre di diciotto anni fa, seppellito in tutta fretta dopo un episodio che decine di udienze non sono riuscite a ricostruire con certezza, ci mise un po’ ad emergere dalla cronaca locale. Poi gli amici, la società civile locale, il partito Radicale con lo stesso Marco Pannella, Beppe Grillo e tanti giornalisti umbri diedero una mano per far luce su un caso che resta ancora oggi una delle storie più drammatiche della vita carceraria che troppe volte si trasforma in morte. Del tutto casualmente, il passo legale di Rudra, preparato da mesi, è stato deciso mentre usciva nel web l’ultima puntata del podcast “48 ore - Il caso di Aldo Bianzino”, un podcast dedicato alla vicenda del padre. Si tratta del lavoro di Elle Biscarini e Sara Calini di Umbria24 che sono tornate sul caso per raccontare una storia piena di lati oscuri con una serie di 9 puntate che han voluto far luce su quelle ombre, sulle risultanze processuali e su una storia giudiziaria la cui versione ufficiale non ha mai convinto. Il contenitore radiofonico “48 ore” esplora quella vicenda con un lavoro meticoloso di ricostruzione durato mesi tra interviste, carte e registrazioni processuali. L’obiettivo preciso - dicono le due giornaliste - è quello esercitare fino in fondo il diritto-dovere di ricostruire e porre domande. Rudra ha avviato intanto anche una campagna di raccolta fondi per chi volesse sostenere il suo lavoro e le spese legali, processuali e tecniche legate al ricorso In carcere per alcuni video sul telefono: il caso del palestinese che divide l’opinione pubblica di Matteo Lauria cosenzachannel.it, 21 novembre 2025 Sulla base di video estratti dal suo telefono durante la richiesta d’asilo, Salem è accusato di propaganda jihadista. Associazioni e collettivi contestano l’uso estensivo del Ddl Sicurezza e chiedono trasparenza e garanzie. Salem, giovane palestinese, è rinchiuso da sei mesi nella sezione di alta sicurezza del carcere di Corigliano Rossano. La sua vicenda prende avvio durante la richiesta di asilo nel nostro Paese, quando il suo telefono viene sequestrato dagli investigatori. Spezzoni isolati di un filmato, nei quali invitava la società civile a sostenere la popolazione palestinese, sono stati giudicati dagli inquirenti materiale di “propaganda jihadista”. Altri video trovati nel dispositivo, diffusi in passato da note redazioni nazionali, vengono ritenuti “istruttivi”, pur non contenendo indicazioni operative. Le accuse a suo carico fanno riferimento alle norme introdotte con il cosiddetto Ddl Sicurezza, che ha ampliato il catalogo dei reati e inasprito pene e aggravanti. Uno strumento che restringe libertà e diritti di chi esprime dissenso. La sua situazione sta spingendo molte realtà sociali a mobilitarsi. L’appello è sostenere Salem, dare spazio alla sua voce e rompere il silenzio attorno alla sua detenzione. Il 21 novembre è stato annunciato un presidio a L’Aquila durante il processo che coinvolge altri giovani palestinesi accusati di terrorismo, occasione per richiamare attenzione anche sulla posizione di Salem. Como. Si suicida un detenuto: era rimasto ferito durante la rivolta di Paolo Moretti La Provincia, 21 novembre 2025 Marocchino, 25 anni, si è impiccato in cella. Aveva preso parte alla sommossa della scorsa settimana. Voleva rifarsi una vita, dopo essere finito nella spirale della tossicodipendenza e dei reati (rapina) per procurarsi la droga. In carcere era riuscito a prendere un diploma di cuoco. L’idea alla quale lavorava, con il suo avvocato, Selene Marsiglia, era provare a chiedere l’anno prossimo un affidamento in prova. Poi la rivolta al Bassone della scorsa settimana. La folle aggressione a un agente. Il ricovero in ospedale, per le lesioni riportate dopo essere rimasto incastrato tra le sbarre. Infine il rientro in carcere. Dove, nel tardo pomeriggio di mercoledì, si è tolto la vita. Impiccandosi in cella. Aveva 25 anni, era originario del Marocco e quando era ancora minorenne è arrivato in Europa in cerca di fortuna, l’ennesima vittima della condizione carceraria italiana. Da inizio anno siamo a 67 detenuti che si sono tolti la vita. L’allarme è scattato attorno alle 19.30 di mercoledì. Il giovane detenuto, che stava scontando un cumulo di pene subite tra Como e Torino con fine detenzione nel maggio 2029, è stato trovato ormai privo di vita dagli agenti di Polizia penitenziaria in servizio nella sezione Infermeria del Bassone. Era in cella da solo, dopo essere rientrato dall’ospedale Sant’Anna. Per comprendere l’ennesima tragedia che mette sul banco degli imputati il sistema carcerario italiano, bisogna tornare ad alcuni anni fa. Quando, ancora minorenne, colui che si toglierà la vita in una cella italiana raggiunge l’Europa dal Marocco. Primo passaggio in Spagna. Quindi trasferimento in Olanda dove, nel 2019, prova a giocare la carta della richiesta di asilo. La domanda non viene accolta e il giovane è costretto a cercare fortuna altrove. E così arriva in Italia. Dapprima a Torino, dove lascia una traccia non propriamente edificante con una denuncia per reati contro il patrimonio. Quindi a Como. Nel frattempo il giovane finisce nella spirale della tossicodipendenza. Senza una guida, senza una prospettiva, senza alcun progetto futuro viene attratto dal mondo degli stupefacenti. Nel novembre dello scorso anno le condanne subite tra Torino e Como vanno in giudicato e, soprattutto, cominciano a cumularsi tra loro. E così il giovane si ritrova con cinque anni e mezzo da scontare, tra una pena e l’altra. Al Bassone segue un corso per imparare a cucinare e ottiene un diploma. Il suo avvocato, che aveva iniziato a seguirlo di recente, lo racconta come un ragazzo sereno e sorridente, nonostante tutto. Giovedì 13 novembre cambia ogni cosa. In carcere scoppia una rivolta. E il giovane si lascia trascinare in una spirale di violenza. Si infila tra le sbarre, non si sa come, e raggiunge un agente al quale avrebbe provato a rubare le chiavi. Lo colpisce e lo ferisce al volto (il penitenziario finirà in pronto soccorso con una prognosi di 30 giorni). Lui, per tornare in sezione, tenta di ripassare tra le sbarre ma rimane incastrato. E si ferisce. Fino martedì resta ricoverato al Sant’Anna. Quindi torna al Bassone. Dove, dopo poco più di 24 ore, viene trovato morto. Impiccato nella sua cella. Como. Rivolte e suicidi, il carcere del “Bassone” è sempre più una polveriera di Simone Libutti Il Domani, 21 novembre 2025 Pochi agenti, educatori e personale medico: l’istituto è un caso nazionale. Il sovraffollamento è al 190% e manca il garante dei detenuti dal 2024. “Le condizioni del carcere violano i più elementari diritti umani. La detenzione non può tradursi in una tortura moderna”, ha detto il presidente del Codacons Lombardia dopo la protesta del 13 novembre che ha portato al ricovero di un 25enne per un trauma toracico. L’uomo si è tolto la vita al ritorno in cella. Si è suicidato il detenuto 25enne che lo scorso 13 novembre aveva partecipato alla rivolta, insieme a oltre 150 detenuti, nel carcere del Bassone a Como. Era stato recuperato per un trauma toracico dopo essere stato schiacciato da altri detenuti contro i battenti di un cancello proprio durante la rivolta. Ricoverato d’urgenza in codice rosso all’ospedale Sant’Anna di Monza, era stato poi dimesso nella sera del 19 novembre. Una volta rientrato nel penitenziario, si è impiccato nella propria cella. I fatti risalgono allo scorso 13 novembre, quando centinaia di detenuti hanno preso parte a una rivolta nel carcere del Bassone dopo un “tentativo di evasione fallito”, come spiegato da Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria. Danneggiate diverse sezioni coinvolte, la prima e la quarta, inclusi i sistemi di sorveglianza. Mentre tre agenti sono rimasti feriti. Alcuni dei detenuti, circa 30, sono stati identificati e trasferiti in altre strutture: come affermato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), alcuni sono stati trasferiti in strutture vicine come Varese, mentre altri sono stati spostati in altre regioni come Piemonte e Sardegna. Le carenze della struttura - Il carcere del Bassone è oggetto già da molti anni di gravi critiche su vari aspetti riguardanti la sua struttura. L’istituto è da tempo in una condizione cronica di sovraffollamento: gli ultimi dati disponibili, risalenti allo scorso mese di luglio, davano conto della presenza di 424 detenuti, a fronte di una capienza ferma a quota 265. Con un tasso di affollamento pari al 190 per cento. Ma non solo. Si registra anche una carenza di organico tra la polizia penitenziaria, come denunciato dai sindacati. Questo ha esposto la casa circondariale a numerose rivolte che hanno messo più volte a rischio il personale. Una domanda denunciata da Luigino Nessi e Gianluca Giovinazzo di Sinistra italiana Como: “Abbiamo anche evidenziato la mancanza di personale di educatori e personale medico. A questi problemi si aggiunge un’alta presenza di detenuti psichiatrici o comunque problematici che non ricevono un’adeguata assistenza e che, soprattutto, non dovrebbero stare in un istituto penitenziario”. Ci sono infatti solo 4 educatori in servizio, un educatore ogni 100 reclusi. Per molti, la casa circondariale funziona come una casa di reclusione, senza però garantirne le strutture e i programmi rieducativi previsti. Da giugno 2024, inoltre, la struttura è priva di un garante dei detenuti. L’ultimo ad aver ricoperto quel ruolo è stata Alessandra Gaetani, che ha denunciato la situazione. Per quanto l’incarico sia meramente onorario, la figura del Garante dei detenuti svolge un ruolo centrale per tutelare e salvaguardare i diritti dei detenuti e delle detenute. Rappresentando una cinghia di trasmissione con l’esterno tra struttura, istituzioni politiche e associazioni per segnalazioni abusi e richieste. Per questo, il presidente del Codacons Lombardia Marco Maria Donzelli - in seguito alla rivolta che ha coinvolto il carcere di Como - ha espresso forte preoccupazione per la situazione all’interno dell’istituto. “Le condizioni del carcere di Como violano i più elementari diritti umani e costituiscono una grave emergenza sociale. La detenzione non può tradursi in una tortura moderna: sovraffollamento, carenza di personale e assistenza sanitaria minima sono inaccettabili in uno stato di diritto. Ciò che emerge dal Bassone impone risposte immediate dalle autorità competenti”. Il Codacons per questo ha deciso di fare esposto alla procura di Como, chiedendo “di accertare eventuali responsabilità amministrative e istituzionali nella gestione della struttura e di verificare possibili violazioni dei diritti fondamentali dei detenuti, con riferimento alle condizioni di vita all’interno della casa circondariale”. La casa circondariale è stata teatro nell’ultimo anno di tre suicidi mentre ne sono stati sventati circa 30. Numeri che per la responsabile di Antigone Lombardia, Valeria Verdolini, delineano un quadro molto grave. “L’associazione Antigone chiede una presa di responsabilità di tutte le istituzioni coinvolte dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ai Comuni passando dalla regione affinché il carcere permetta un percorso rieducativo come previsto dalla Costituzione”. La situazione sanitaria e psichiatrica del Bassone appare critica e urgente. Torino. Ancora un suicidio in carcere: detenuto 50enne si impicca in cella di Alberto Giulini Corriere di Torino, 21 novembre 2025 L’uomo è stato trovato con un cappio artigianale attorno al collo, vani i tentativi di rianimazione. Dramma nella notte nella Casa Circondariale di Torino, dove un detenuto di circa 50 anni si è tolto la vita nella sua cella. L’allarme è scattato intorno all’1.15, quando un agente della Polizia Penitenziaria, durante un giro di controllo nella decima sezione del Padiglione C, ha notato un’anomalia nel blindo della cella. Nonostante lo spioncino fosse bloccato, l’agente è riuscito ad aprire parzialmente la porta e ha scoperto l’uomo appeso con un cappio di stoffa al collo. Immediatamente è scattato un intervento disperato, con il supporto del personale presente e l’arrivo del 118, ma alle 2:30 il decesso è stato constatato. Il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe) ha espresso vicinanza all’agente e a tutto il personale coinvolto, definendoli “eroi silenziosi” per la tempestività e la professionalità dimostrata. Per il Sappe episodi come questo “mettono in luce le carenze del sistema di assistenza psicologica e sanitaria negli istituti penitenziari, sottolineando come la Polizia Penitenziaria sia spesso costretta a ricoprire ruoli multipli: vigili del fuoco, infermieri, psicologi e mediatori culturali”. Secondo il segretario Vicente Santilli, è urgente “rafforzare il personale medico e psicologico specializzato e garantire supporto psicologico agli operatori, spesso esposti a situazioni altamente stressanti”. Anche il segretario generale Donato Capece evidenzia come il suicidio sia tra le principali cause di morte nelle carceri italiane, ricordando che “la prevenzione è fondamentale non solo per i detenuti, ma per tutto l’istituto”. Milano. Nelle celle di San Vittore dell’Ipm Beccaria tre persone vivono in nove metri quadri di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 21 novembre 2025 Il Garante dei detenuti: “Al momento i fuorilegge siamo noi”. Le difficoltà del carcere minorile e del penitenziario: sovraffollamento e carenza di personale. Luigi Pagano: “Se proprio le carceri devono continuare ad esistere, devono rispettare loro per prime le norme”. A Milano convivono due carceri opposti. Uno respira, l’altro soffoca. Bollate, con i corridoi aperti e i laboratori vivi, sembra la prova che la Costituzione può funzionare. San Vittore e il Beccaria, invece, raccontano l’altra metà della città: muri che si sbriciolano, tensioni che si stratificano, celle che diventano angoli angusti dove la creatività non ha spazio e, nonostante gli sforzi, manca l’aria. È lo strappo che attraversa Milano e mostra l’Italia com’è, ci dice Luigi Pagano, oggi Garante per i detenuti, nel suo nuovo libro La rivoluzione normale: “Se proprio le carceri devono continuare ad esistere, devono rispettare loro per prime le norme. Al momento i fuorilegge siamo noi”. A San Vittore il tempo non scorre: ristagna. Nove-dieci metri quadri per tre, a volte quattro persone. Il bagno interno, ricavato tagliando ulteriore spazio. Dodici ore di rumore, diciotto di aria viziata. Quando una psicologa viene abusata nella stanza dei colloqui da un detenuto recidivo, si capisce che non è un episodio: è la fotografia di una struttura che non regge più il proprio peso, con personale dimezzato e sorveglianza che si sfalda nei corridoi saturi dell’istituto più antico della città. Al Beccaria la trama cambia ritmo ma non senso. Gli sforzi per creare attivitá e rinsaldare l’organico ci sono ma “i ragazzi appiccano fuoco ai materassi, lanciano piastrelle dalle finestre”, fanno autolesionismo, assumono farmaci, urlano “assiste!” come se il vuoto e la rabbia potessero placarsi con una sigaretta. Le rivolte scandiscono il tempo. La struttura è un cantiere continuo, il personale rinnovato solo in parte dopo l’inchiesta che ha travolto agenti e dirigenti - e il direttore a tempo pieno ancora non c’é, dopo decenni. “I minori si affacciano alle grate come al bordo di un ring, tra colonne di fumo e reparti che si svuotano per poi affollarsi di nuovo”. Nessuna evasione, nessuna soluzione. Eppure, dieci chilometri più a nord, Bollate mostra che un’altra strada è possibile. Le celle si aprono al mattino e si chiudono alla sera. Gli spazi comuni esistono davvero. C’è chi studia, chi lavora nelle cucine, chi ripara biciclette. I numeri parlano: meno recidiva, meno violenza, meno vite schiacciate nel ciclo infinito di ingressi e uscite. “Non è un miracolo: è organizzazione, programmazione, normalità applicata”. La domanda, allora, resta sospesa: ma perché Milano, che ospita la prova vivente di ciò che funziona, non estende lo stesso metodo dove serve? Pagano indica una direzione netta: servono case territoriali di reinserimento nei quartieri per chi sconta pene brevi; sorveglianza dinamica reale, con almeno otto ore fuori cella e attività vere; riconversione dei reparti, non nuove costruzioni; coinvolgimento degli enti locali, lavoro e formazione radicati nel territorio. Applicate ai due istituti milanesi, le soluzioni diventano chirurgiche: a San Vittore servono spazi comuni autentici, non corridoi; sei-otto ore fuori cella, non quattro; una rete che accolga i detenuti brevi nei quartieri, non in trasferimenti a centinaia di chilometri. Al Beccaria servono educatori esperti, autorevoli e stabili, reparti ad hoc per i più fragili, percorsi continui di formazione anche all’esterno, non solo emergenziali. Intanto, fuori dalle carceri, la città mostra lo stesso strappo. L’accoltellamento del giovane bocconiano - che resterà invalido - è un’altra ferita nel tessuto urbano. Tre minorenni incensurati, studenti, che sfoderano i coltelli con una leggerezza glaciale; le frasi intercettate (“tanto non ci beccano”, “gliene diamo un’altra”) hanno il suono di un vuoto educativo che non riguarda solo loro. “È la prova che la responsabilità è collettiva: se il sistema rieducativo non intercetta, non corregge, non frena, la città continua a generare ciò che poi giudica”. Servono condizioni nuove per potersi appellare davvero alle leggi. Ma i numeri dicono anche altro. Milano è tra le province con il numero più alto di suicidi e atti violenti in cella nel 2025. Un macigno che pesa su un sistema già incrinato. Anche di questo si parlerà venerdì alla presentazione del libro dell’ex direttore della casa circondariale e ora Garante, alle 17.30 in via Pattari, per le Edizioni San Paolo, con anche Daria Bignardi e don Claudio Burgio. San Vittore e il Beccaria viaggiano costantemente fuori scala, ma Bollate non è un faro: è un promemoria. Milano sarà intera soltanto quando il suo carcere migliore smetterà di essere un’eccezione. “Di nuove mura non ce ne facciamo niente: bastano le regole applicate, il personale formato e luoghi dove si impara a vivere, e non solo si prova a sopravvivere”. Milano. La “stanza dei suicidi”, i laboratori di vita: il nostro viaggio a Bollate di Barbara Uglietti Avvenire, 21 novembre 2025 Reportage dalla Casa di reclusione di Milano: i minuti nella “cella vuota” dove i più fragili vengono sorvegliati, poi il ritorno nei reparti dove ogni giorno si rinasce. Per capire come il “sistema” può funzionare. Il nome tecnico è “Cella Sav” - “Sorveglianza a vista” - ma la chiamano “Cella dei suicidi”. Ci sono arrivata perché un amico che lavora come volontario al carcere di Bollate mi ha detto dai, viene a vederla, l’abbiamo decorata. Ci sono andata. È in fondo a un corridoio, sulla sinistra, passate due rampe di scale, una decina di cancelli e una cinquantina di sguardi lenti o curiosi o infastiditi o attenti di detenuti e operatori e agenti che vedono, pesano e valutano in mezzo secondo ogni visitatore. Ci sono entrata con la spavalderia di chi è abituato a frequentare il limite: un passo deciso, un altro, un altro ancora ed ero in fondo, davanti alla finestra. Non mi sono guardata intorno, ho guardato fuori: un cortile spoglio, cassonetti: l’area rifiuti. Il dolore ha fatto il resto. È una specie di virus, il dolore. Che si annida in posti come questo e sa aspettare l’incubatore: lo riconosce e si intrufola. Mi ha tolto il respiro. Mi sono seduta sul materasso di gommapiuma sul letto di ferro sul pavimento di piastrelle. Chi arriva qui, chi si siede o si sdraia o si rannicchia qui, è già profondamente infettato dal dolore, profondamente malato. Così tanto da aver deciso di togliersi la vita. Portano in questa stanza i reclusi che devono essere osservati 24 ore su 24 perché a grave rischio di suicidio. In genere ci stanno tre giorni, salvo altra prescrizione dello psichiatra. Ci sono rimasta dieci minuti. Ho chiesto all’agente di accostare la porta con le sbarre e di sistemarsi lì fuori, dove su una sedia si alternano giorno e notte i guardiani di queste vite infinitamente fragili. Contrariamente ad ogni possibile logica, ho avvertito calma, protezione. Ed è a quel punto che mi sono guardata intorno. Nella Cella Sav non c’è niente, proprio niente, oltre al letto e alla lampadina. Il letto è inchiodato al pavimento (potrebbe essere usato per barricarsi); la lampadina è in una teca fissata al soffitto (potrebbe essere usata per tagliare o tagliarsi). In una stanzetta adiacente, su cui si apre uno spioncino di sicurezza, ci sono un water di ferro, un lavandino di ferro, un rubinetto di ferro. Poi ci sono i muri. Erano tutti macchiati, mi è stato spiegato: testimoni della disperazione feroce e annientante di chi arriva qui dentro. Adesso sono pieni di trompe-l’oeil: due finestre affacciate su spazi aperti; un tavolino con una caffettiera; uno scaffale con i libri; il mare, un bosco. Li hanno realizzati alcuni detenuti con i volontari dell’Associazione Le Belle Arti Aps - quella per cui lavora l’amico che mi ha proposto questa visita - dopo una discussione attenta su stili, soggetti, colori: niente che possa suscitare ricordi, buoni o cattivi, emozioni lontane o, peggio, desideri; niente tinte forti, meglio i verdi e gli azzurri. C’è un’unica firma: “M”. Come acchiappando un filo di Arianna che mi porti fuori da lì, chiedo chi sia questo “M”. “La accompagno”, mi dice l’agente. Il percorso a ritroso verso la vita, a Bollate, è fatto di colori. In questo caso, vivacissimi. In sezione non c’è una sola parete bianca: i dipinti riempiono lo spazio, raccontano storie, quelle dei reclusi che li hanno fatti. Le celle sono aperte, i corridoi trafficati: mi trovo a impicciare tra strette di mano, pacche sulle spalle, nomi e scambi di informazioni, fogli con autorizzazioni da consegnare, richieste da portare, lavori da terminare, progetti da avviare. Incredibilmente, in questo tempo parallelo del carcere, tutti vanno di fretta; ognuno ha qualcosa da fare. Un movimento che non si genera da solo. Incontro Laura Cambri e Laura Giliberto della Cooperativa Articolo 3, attiva da anni nella struttura. Camminano accanto a me tra un laboratorio e l’altro, un’aula e l’altra, un ufficio e un altro. Mi parlano di “osmosi” tra dentro e fuori, tra chi educa e chi impara, tra chi protegge e chi prova a ripartire. “Un buon sistema influenza tutti: i detenuti, gli agenti, i volontari. E qui, a insegnare, entra solo chi ha un’alta professionalità da mettere in gioco”. Il tasso di recidiva nazionale è del 70% circa; a Bollate scende almeno della metà. “Poi il peggio a volte succede. Non si può evitare tutto. Ma le cose funzionano”. Arrivo alla scuola. È in Reparto, il terzo. L’aula è chiassosa: ora di matematica. L’insegnante, Annaletizia La Fortuna, mi dice che “M”. non è lì, ma che ci sono cose da vedere. “Venga”. Mi porta in una cucina super-attrezzata. La scuola è un alberghiero. Le classi sono cinque, gli insegnanti dieci, gli iscritti una settantina, di tutte le età. Arrivano - “in autonomia” - ogni mattina dalle altre sezioni. “È proprio questo che dà senso al mio lavoro - spiega la professoressa -. Non tutti sono vocati allo studio, molti vengono per “perdere tempo”, ma resta il “tempo perso” meglio investito. Alla fine, crescono. E la percentuale di successo è alta: fuori, lavorano”. L’ultimo laboratorio in fondo è quello di pittura. Odore di vernice, dipinti e statue, presse per la stampa calcografica. “M.” è lì. Me lo presentano. Ha 35 anni, gliene hanno dati 18, ne ha fatti 10, spera di uscire tra 2. Ci mettiamo seduti in un angolo, per parlare. “Ho visto il tuo dipinto nella cella Sav”, gli dico. “Dipingo da quando ho otto anni”, taglia corto. Si prende qualche secondo per studiare la situazione. Poi alza le spalle e sistema dentro un “vabbè” tutta la sua vita. La racconta. È domenicano. L’italiano è perfetto, la capacità di ragionamento anche. A Bollate ha preso tutti i diplomi che poteva, ha frequentato tanti corsi. “Passerei le giornate nel laboratorio di pittura. Quando avevo 13 anni mettevo i miei quadri sulla guagua (l’autobus) e li andavo a vendere ai turisti”. Le cose hanno cominciato a girare male, e poi malissimo, arrivato in Italia. Decidiamo di non discuterne. “In questi dieci anni mi sono imposto una routine quotidiana molto severa. Dalle sei di mattina alle sei di sera. Mi sono sempre sentito più vivo e più libero di tanti che, fuori da qui, non hanno obiettivi. Ma sta succedendo qualcosa. La testa c’è, il corpo si sta ribellando. Ha bisogno di respirare. Fatico a trovare motivazione, sto sempre peggio”. Mi ero dimenticata del dolore che c’è qui dentro. Mi ero dimenticata di quella cella al piano di sopra. Mi torna in mente e probabilmente negli occhi, perché “M.” mi dice che è tutto a posto, e che si sistemerà tutto, e io gli dico che è tutto a posto, e che si sistemerà tutto. E che quella cella in cui ha dipinto l’orizzonte di un bellissimo Oceano è vuota. Da mesi. Treviso. “Rieducazione dei detenuti? L’80% viene lasciato sulle brande a non fare nulla” di Mauro Favaro Il Gazzettino, 21 novembre 2025 Lorenzo Gazzola, Garante dei diritti delle persone private o limitate nella libertà del comune di Treviso, non usa giri di parole. “Il recupero dei detenuti passa anche e soprattutto per il lavoro. Ma questo territorio ad oggi non è troppo sensibile all’argomento. A Treviso su 250 detenuti sono solo 50 quelli che lavorano, tra l’altro 40 nella gestione del carcere stesso. È un grosso problema. La maggior parte passa la giornata sulle brande. E poi si va in infermeria a chiedere psicofarmaci per dormire, che tra l’altro rischiano di creare dipendenza. Questo non è affatto un percorso di recupero. Ma proprio per niente”. Lorenzo Gazzola, garante dei diritti delle persone private o limitate nella libertà del comune di Treviso, non usa giri di parole. Anche lui è stato colpito dalla vicenda di Rossana Bertelli, la 52enne che dopo essere stata condannata per l’omicidio di Luca Tonello, l’uomo di 29 anni ucciso nell’ottobre del 2000 a Lughignano, e aver scontato in carcere la relativa condanna a 16 anni e 8 mesi (progressivamente ridotta dietro le sbarre tra indulto e buona condotta), è finita di nuovo sotto inchiesta con l’accusa di circonvenzione d’incapace e furto aggravato perché dietro la promessa di favori sessuali avrebbe raggirato un 58enne di Preganziol, con problemi psichici, portandogli via poco più di 1.500 euro. Il garante ovviamente non entra nei dettagli di un caso specifico. Ma l’orizzonte generale sui percorsi di rieducazione dei detenuti, al netto delle associazioni che già oggi, va ricordato, si impegnano al massimo, non è troppo confortante. “Prendiamo anche le pene alternative - dice - ogni assistente sociale dell’ufficio esecuzione penale esterna segue in media 150 persone. Non è una cosa semplice”. Oltre ai corsi, si punta la lente sul lavoro. “Il primo problema è proprio quello del lavoro, che rappresenta la via principale per il recupero. Le commesse delle aziende per i detenuti non sono sufficienti - scandisce Gazzola - fino a pochi anni fa la casa circondariale di Treviso era un’isola abbandonata a sé stessa. Adesso stiamo cercando di cambiare le cose”. Il cantiere è aperto. Tra aprile e ottobre il garante ha già organizzato due riunioni ad hoc. E il 12 gennaio ce ne sarà un’altra con il centro per l’impiego, la scuola, Veneto Lavoro, la cooperativa Alternativa, che gestisce i laboratori nella casa circondariale di Treviso, e così via. “Punto a coinvolgere le associazioni di categoria e le realtà produttive - è l’obiettivo fissato da Gazzola - per sensibilizzarle sul fatto che è necessario dare opportunità di lavoro ai detenuti. Tra le altre cose, penso anche bar, ristoranti ed esercizi pubblici. A maggior ragione alla luce dell’attuale carenza di personale”. In tutto ciò, è convinto il garante, serve anche un maggior aiuto anche dal Comune. Lunedì la sua relazione sul carcere è stata al centro della commissione comunale. E ora approderà a palazzo dei Trecento. “L’avevo presentata lo scorso marzo. Verrà discussa di fatto 9 mesi dopo - allarga le braccia - questa la dice lunga sulla sensibilità in merito. Non c’è abbastanza supporto. Francamente ho quasi pensato di lasciare l’incarico ad altri. Ma non sono uno che cede facilmente e continuerò a lavorare per costituire questa nuova rete”. Dall’opposizione emerge con forza la necessità di un impegno maggiore sul fronte del carcere di Treviso. “Non può essere visto solo come un castigo - dice Maria Buoso, consigliere comunale di Treviso Civica - certo, c’è l’obiettivo di garantire la sicurezza a chi sta fuori. Ma parallelamente vanno aperte delle finestre anche per chi sta dentro, in modo che possa vedere l’opportunità di cambiare strada. Altrimenti ci si limita a concentrarsi sul tappo della vasca, senza tener conto che il rubinetto continua a riempirla d’acqua”. Buoso punta il dito contro la riduzione del personale: “Di fatto è dimezzato rispetto alle necessità - evidenzia - e le psicologhe sono passate da 30 a 24 ore, cioè da due a un accesso a settimana. Si può parlare di rieducazione così?”. Qui si innestano anche i nodi legati ai problemi psichici e all’uso delle nuove droghe sintetiche, purtroppo in espansione. “Bisogna investire energia, tempo e soldi affinché i detenuti possano avere relazioni sociali significative e possano lavorare, anche attraverso commesse interne al carcere - aggiunge Buoso - è un discorso complesso. Ma se si nasconde la testa sotto la sabbia, poi il problema torna addosso a tutti. La rieducazione deve dare alle persone la possibilità di sentirsi umane. Senza specialisti e con stanze con cinque o sei detenuti, al posto di due, non ci si può sorprendere se l’esperienza carceraria finisce per essere addirittura peggiorativa per chi entra”. Sulla stessa linea Carlotta Bazza, consigliere comunale del Pd. “Premettendo che ogni caso è a sé, quello riguardante Lughignano è davvero eclatante - specifica - mi sembra chiaro che i percorsi di rieducazione all’interno del carcere devono essere rivisti”. “Una vera rieducazione, oggi, non c’è - conclude - è fondamentale che si parli di prevenzione e che si parli anche di quello che succede all’interno del carcere. La conoscenza è la chiave. Solo attraverso questa è possibile interiorizzare che il percorso nella casa circondariale non deve essere solo punitivo ma anche rieducativo”. Verona. Boom di giovani in carcere, raddoppiano gli under 25. Don Vinco: “Qui peggiorano” di Laura Perina L’Arena di Verona, 21 novembre 2025 Sono una sessantina, cioè il 10 per cento dei carcerati. Sono in cella mescolati agli adulti. Don Vinco: “Qui peggiorano invece di migliorare”. Sono 5.067, all’inizio del 2025, i giovani tra i 18 e i 25 anni detenuti nelle carceri italiane per adulti, 1.800 in più rispetto al primo semestre del 2023. Un detenuto su otto appartiene a questa fascia di età, con una crescita del 35 per cento. La popolazione reclusa under 25 cresce progressivamente anche nella casa circondariale di Montorio, dove il sovraffollamento cronico spinge al limite le condizioni di detenzione. A Verona raddoppiati gli under 25 - “Negli ultimi cinque anni, da quando sono il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale”, spiega don Carlo Vinco, “ho visto raddoppiare il numero dei giovani detenuti con meno di 25 anni. Erano 30, 35 al massimo. Oggi costituiscono il dieci per cento della popolazione detenuta”, formata da circa 600 persone, a fronte di 330 posti. Decreto Caivano - Cos’ha determinato questa situazione? “La crescita è in parte collegata all’aumento del sovraffollamento negli istituti penali per minori, dove il numero dei detenuti è salito in maniera significativa dopo l’entrata in vigore del decreto Caivano. Da 311 nel 2023, i minori reclusi sono diventati 628 quest’anno. L’inasprimento delle pene ha fatto sì che per alcuni reati, per i quali era prevista una misura alternativa alla detenzione, oggi si spalanchino le porte del carcere. E questa stessa situazione si lega anche alla facilità con cui un maggiorenne può essere trasferito da un Ipm a una prigione per adulti, anche prima dei 25 anni”. A chiarirlo è Monica Cristina Gallo, che è stata per dieci anni, fino allo scorso settembre, la Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Torino, uno dei primi in Italia a istituire questa figura. Alla condizione dei giovani detenuti nelle carceri per adulti, e alle problematiche della solitudine e del vuoto esistenziale che questi ragazzi vivono durante la reclusione, Gallo ha dedicato un saggio intitolato “18+1. Diciotto anni e un giorno”, pubblicato da Effatà. L’autrice è arrivata in città per parlarne nel corso di un incontro organizzato al polo Zanotto dell’Università di Verona dal docente di Diritto penale dei minori Ivan Salvadori, in collaborazione con la Rete Stei e l’associazione Prospettiva famiglia. All’appuntamento, rivolto agli studenti delle superiori, hanno partecipato anche l’assessora alla sicurezza Stefania Zivelonghi, il vicepresidente della Camera minorile di Verona Christian Serpelloni e l’ex magistrato Gherardo Colombo. Repressione e riabilitazione? - Le associazioni, dice Gallo, gli avvocati, i garanti criticano questa tendenza, sostenendo che la giustizia minorile si stia trasformando in una replica di quella per adulti, privilegiando la punizione e la repressione rispetto all’educazione e alla riabilitazione. “Mentre negli istituti minorili c’è sempre un faro acceso sulle condizioni di vita, i giovani che entrano nelle carceri per adulti vengono dimenticati”. Eppure, secondo l’ordinamento penitenziario, dovrebbero avere a disposizione delle sezioni separate negli istituti ordinari. “Ma questo non accade nel carcere torinese dove sono stata Garante per molti anni (la casa circondariale “Lorusso e Cutugno”, ndr) né altrove”, sottolinea Gallo. Il motivo? “L’amministrazione penitenziaria non è pronta e per far fronte a questo fenomeno utilizza pochissima creatività, perché un trattamento uguale per tutti è più comodo da applicare”, osserva. Più studenti - Tentativi di distribuire le presenze in maniera più razionale possibile vengono fatti, spiega, da parte sua, don Vinco, ma ci si scontra con fattori molto pratici. “Non si trovano spazi e modalità per una distinzione netta. Il rischio concreto è che il carcere diventi una parentesi peggiorativa delle situazioni di questi giovani, esposti a contesti di detenzione più duri e a un minore accesso a opportunità di recupero sociale”, dice. Ma una luce di speranza c’è, rappresentata “dall’aumento significativo di studenti, soprattutto giovani, nelle sezioni carcerarie. Segno di un investimento in percorsi di studio per ricostruirsi un futuro”. Rovigo. Il lavoro in carcere come motore di riscatto di Guendalina Ferro lapiazzaweb.it, 21 novembre 2025 Dal laboratorio di panificazione ai percorsi formativi, il convegno di Rovigo mostra come investire nel lavoro penitenziario significhi sicurezza per la comunità e opportunità per chi ha sbagliato. Nel cuore della Casa Circondariale di Rovigo si è svolto un convegno che ha messo al centro un tema tanto delicato quanto decisivo: il lavoro come leva di cambiamento per chi sta scontando una pena. Il titolo - “Il lavoro in carcere e i suoi impatti: persone, imprese, istituzioni” - ha trovato piena coerenza nei contenuti di una mattinata che ha riunito rappresentanti del sistema penitenziario, del terzo settore, dell’impresa sociale e del mondo accademico. Un appuntamento che ha mostrato con chiarezza una visione condivisa: la reclusione non spegne il futuro; può, se accompagnata, riaccenderlo. L’apertura dei lavori è stata affidata al direttore della Casa Circondariale, Mattia Arba, che ha introdotto il tema richiamando la necessità di un approccio integrato e pragmatico al reinserimento. Subito dopo, l’assessore ai Servizi Sociali del Comune di Rovigo, Nadia Bala, ha portato i saluti dell’amministrazione, sottolineando quanto un territorio debba sentirsi responsabile di chi è più fragile, anche quando ha commesso errori. A moderare il dibattito è stato Massimo Mantoan, presidente del Consorzio Insieme - capofila del progetto Panatè, presentato nel corso dell’appuntamento - che ha guidato i lavori con domande nette e obiettivi chiari: dimostrare che il lavoro è uno degli strumenti più efficaci per ridurre la recidiva e costruire percorsi di reinserimento credibili e duraturi. Tra gli interventi, è stato significativo quello della vicepresidente della Fondazione Cariparo, Damiana Stocco, che ha evidenziato la solidità della rete costituita da Consorzio Insieme, SCS Solidarietà, Panatè Società Benefit e Casa Circondariale. Un’alleanza territoriale che, secondo Stocco, merita di essere portata anche “fuori dalle mura”, proponendo un evento aperto alla cittadinanza per rafforzare un dialogo ancora troppo timido tra comunità e realtà carceraria. Il panel tecnico ha offerto contenuti di grande spessore. • Rosella Santoro, provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, ha tracciato il quadro normativo e le sfide che il sistema veneto affronta ogni giorno. • Alessio Zangheri, magistrato di sorveglianza, ha approfondito il valore del lavoro penitenziario come strumento di responsabilizzazione e come ponte verso misure alternative. • Da Roma è intervenuto Filippo Giordano (Lumsa - Cnel), portando dati aggiornati e un messaggio inequivocabile: senza formazione qualificata e senza lavoro vero, dentro e fuori dal carcere, la recidiva non può diminuire. Spazio poi alle esperienze concrete, quelle che trasformano i principi in fatti. Davide Danni, della società benefit Panatè, ha illustrato i percorsi già attivi e quelli pronti a partire proprio a Rovigo, con l’avvio del laboratorio di panificazione interno al carcere. Stefano Bolognesi, consigliere delegato della SCS Solidarietà, ha spiegato come un’impresa sociale possa assumere persone detenute e trarne non solo valore etico, ma anche competitivo. Perché responsabilità e sostenibilità economica, quando camminano insieme, diventano un moltiplicatore di opportunità. Alla fine, il messaggio emerso è stato limpido e condiviso da tutti: investire nel lavoro in carcere significa investire nella sicurezza, nella dignità e nel valore del territorio. Non è un percorso facile, ma è l’unico davvero capace di costruire una società più giusta, più sicura e - soprattutto - più umana. Bolzano. Volontariato e lavori socialmente utili per i detenuti del carcere di Martina Capovin Il Dolomiti, 21 novembre 2025 A gennaio parte il progetto che punta a favorire la rieducazione e il reinserimento. Sarà la casa Circondariale a scegliere i detenuti che prenderanno parte al programma e ne curerà la formazione. Il sistema penitenziario si trova costantemente in bilico tra la necessità di applicare la pena e l’obiettivo, sancito dalla Costituzione, della rieducazione del condannato. Quando un individuo completa il periodo di detenzione, il suo ritorno nella società innesca una serie di dinamiche complesse che influenzano direttamente il tasso di recidiva e la sicurezza della comunità. L’efficacia delle misure di reinserimento sociale dei detenuti - che spaziano dall’istruzione al supporto lavorativo e abitativo - è al centro del dibattito sulle politiche carcerarie. E Bolzano, in questo senso, vuole fare la sua parte. L’ assessore comunale alle Politiche Sociali Patrizia Brillo ha illustrato l’avvio del progetto “Un ponte per ripartire”, nato in seguito a una visita del Sindaco di Bolzano Claudio Corrarati e dell’assessore stesso alla casa circondariale di Bolzano. L’iniziativa, conforme alla legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario, prevede lo svolgimento volontario e gratuito di lavori di pubblica utilità da parte di persone detenute, con l’obiettivo di favorirne la rieducazione e il reinserimento sociale. In una prima fase saranno coinvolti sei detenuti, impegnati in attività di cura del verde e piccola manutenzione. Il progetto sarà regolato da un protocollo d’intesa tra Comune e Casa Circondariale. Il Comune predisporrà i piani di lavoro, garantirà copertura assicurativa, fornirà materiali e dispositivi di protezione e seguirà il monitoraggio mentre la Casa Circondariale selezionerà i partecipanti, ne curerà la formazione e autorizzerà le uscite secondo le disposizioni del Magistrato di Sorveglianza. L’accordo avrà durata dal 1° gennaio al 31 dicembre 2026, con possibilità di rinnovo. Per l’Amministrazione comunale ha sottolineato il Sindaco Corrarati, si tratta di un progetto di forte valore sociale, in grado di unire inclusione, responsabilità e cura del territorio, rafforzando la collaborazione tra istituzioni e promuovendo una cultura di solidarietà e legalità. Brescia. “Quindici giorni di carcere per tutti i magistrati”: la proposta che fa discutere bresciatoday.it, 21 novembre 2025 Quindici giorni e quindici notti di permanenza in carcere per i magistrati, come percorso obbligatorio di formazione. È la proposta di legge “Sciascia-Tortora”, che sarà presentata venerdì 21 novembre a Brescia nell’aula polifunzionale della Corte d’appello. La proposta di legge prevede per i magistrati in tirocinio un’esperienza per comprendere dove e come vivono le persone che verranno giudicate: il testo include anche lo studio di opere letterarie e giuridiche dedicate al tema della giustizia e del diritto penitenziario. La proposta è stata presentata alla Camera nel maggio di un anno fa e attualmente è in fase di calendarizzazione presso la commissione Giustizia. La proposta di legge - Leonardo Sciascia nel 1983 lanciò l’idea che i magistrati trascorressero almeno tre giorni con i detenuti: nemmeno due mesi prima era stato arrestato Enzo Tortora, l’inizio di un doloroso percorso fino alla proclamazione d’innocenza. “La presentazione di Brescia era prevista alla casa circondariale Nero Fischione - si legge in una nota a firma dei promotori, nel dettaglio: Unione delle Camere penali italiane, Amici di Leonardo Sciascia, Fondazione Enzo Tortora, ItaliaStatodiDiritto, Società della Ragione - ma la direzione del carcere ha comunicato che non sarebbe stato possibile ammettere la stampa. Non è la prima volta: il 14 ottobre, a Torino, la presentazione al carcere Lorusso-Cotugno era stata annullata due giorni prima. Solo a Milano, a giugno, la proposta è stata accolta dentro San Vittore”. Si chiedono i promotori: “Perché impedire di parlare del carcere, nel carcere? Le carceri italiane vivono una crisi profonda, segnata dal sovraffollamento e da troppi suicidi. Bloccare momenti di confronto è un errore”. Sulla proposta di legge: “La formazione in carcere prevista dalla legge Sciascia-Tortora non è un gesto simbolico, ma un atto concreto di consapevolezza. Chi decide della libertà o della pena di un cittadino deve conoscere da vicino la realtà che le proprie decisioni producono. Vedere una cella, ascoltare una voce, osservare una quotidianità fatta di spazi ristretti e tempi sospesi, tutto questo aiuta a rendere più umana e responsabile l’amministrazione della giustizia”. All’incontro di Brescia interverranno Giovanni Rocchi, Simona Viola, Monica Calì, Luciano Eusebi, Andrea Cavaliere, Guido Camera e Francesca Scopelliti. Attesi anche i politici Alfredo Bazoli (Pd), Benedetto Della Vedova (+Europa), Mariastella Gelmini (Centro Popolare), Silvia Fregolent (Italia Viva). L’evento è accreditato dall’Ordine degli Avvocati di Brescia per i crediti formativi. Dopo Brescia, il percorso proseguirà a Palermo e Napoli. Roma. I Giochi della speranza? Si fanno a Rebibbia, sezione femminile di Massimiliano Castellani Avvenire, 21 novembre 2025 La seconda edizione si svolgerà dal 12 dicembre e coinvolgerà le detenute, la prima a giugno aveva chiamato in causa gli uomini. Pasquini (Fondazione Giovanni Paolo II): lo sport parla un linguaggio universale. Calcio a 5, pallavolo e atletica leggera tra le competizioni proposte alle partecipanti. Se c’è un luogo dove la speranza può tornare a mettersi in gioco, quello è proprio il carcere. Per questo la Fondazione Giovanni Paolo II per lo sport, in collaborazione con il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e dalla rete di magistrati “Sport e Legalità, ha deciso di concedere il bis organizzando la seconda edizione dei “Giochi della speranza”. Lo scorso giugno a mettersi in gioco erano stati gli uomini della Casa Circondariale di Rebibbia, mentre questa volta in gara, sotto il patrocinio del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, saranno le atlete della sezione femminile del carcere romano. Dal 12 dicembre quindi saranno chiamate a confrontarsi agonisticamente le rappresentative sportive composte da detenute, polizia penitenziaria, magistrati ed esponenti della società civile. Gare di calcio a 5, pallavolo, atletica leggera, tennis tavolo e calcio balilla conferiranno le medaglie alle partecipanti che già si stanno allenando da tempo per questo atteso appuntamento che è stato presentato a Roma durante il convegno “La funzione rieducativa della pena e il valore dello sport nel trattamento penitenziario”. Un panel, al quale sono intervenuti Ernesto Napolillo, direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dap e Sergio Sottani, procuratore generale presso la Corte di Appello di Perugia e presidente della rete di magistrati Sport e Legalità, con i quali sono stati affrontati i temi della giustizia, della dignità umana e i percorsi di recupero, inseriti all’interno della missione formativa e sociale dello sport di cui la Fondazione Giovanni Paolo II si fa garante oltre che ente organizzatore. “Bisogna superare la convinzione che lo sport in carcere sia un mero passatempo - ha spiegato Daniele Pasquini, presidente della Fondazione Giovanni Paolo II per lo sport -. Questa seconda edizione dei Giochi della Speranza vuole ribadire ciò che abbiamo visto e vissuto a giugno: lo sport non è soltanto competizione, ma può veramente essere un’opportunità per migliorare la qualità della vita dei detenuti. Lo sport parla un linguaggio universale e sa unire oltre ogni barriera, anche laddove il confine tra interno ed esterno sembra più netto”. Lo sport è fondamentale nel percorso rieducativo dei detenuti, ma non sempre viene promosso e praticato adeguatamente. “Da un monitoraggio nazionale, abbiamo ricostruito una mappatura dell’attività sportiva negli istituti penitenziari e il risultato è sconfortante - denuncia Napolillo -. A fronte di taluni territori dove c’è una particolare attenzione per l’argomento, c’è un gran vuoto sia a livello qualitativo che quantitativo in ampie zone. Se andiamo ad analizzare i dati dal punto di vista femminile il risultato è ancora più sconfortante. Occorre quindi capire ed evidenziare quali attività sportive possano essere replicate nello spazio e nel tempo in tutti gli istituti di pena. Da qui l’esigenza di linee guida operative per i responsabili delle strutture carcerarie e iniziative come “I Giochi della Speranza” vanno proprio in quella direzione. Perché lo sport non è solo attività fisica, ma una scuola di regole che diventano a loro volta scuola di rieducazione”. Una scuola in cui crede fortemente suor Alessandra Smerilli, segretaria del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che si rivolge direttamente alle atlete convocate per i “Giochi della Speranza”: “Per chi vive la detenzione, lo sport assume un valore importante perché educa al rispetto, alla disciplina, al lavoro di squadra; aiuta a riconoscere i propri limiti e a scoprire nuove energie. Al centro di tutto rimane la speranza: la speranza di qualcuno che attende oltre le mura, la speranza di una conversione interiore che spesso anticipa la liberazione esterna. La speranza di chi sceglie di rialzarsi”. L’Aquila. La poesia diventa strumento di riscatto, di dialogo e di speranza di Sabrina Giangrande laquilablog.it, 21 novembre 2025 Anche quest’anno il Premio Letterario Internazionale “L’Aquila - Bper Banca”, intitolato a Laudomia Bonanni, è entrato nella Casa Circondariale delle Costarelle grazie alla sua sezione dedicata ai detenuti, trasformando per qualche ora il carcere in un luogo di ascolto, di condivisione e di emozione intensa. La Cerimonia di Premiazione della XIV edizione, che si è svolta oggi, ha visto la presenza dell’ospite d’onore Somaia Ramish, accompagnata dall’interprete e curatrice Giorgia Pietropaoli, la poetessa afgana in esilio, che con la sua voce ha offerto ai presenti uno dei momenti più toccanti dell’intera giornata. “La poesia diventa strumento di riscatto, di dialogo, di speranza. Dare voce a chi vive una condizione di fragilità significa credere che la parola possa aprire strade nuove”, hanno ricordato gli organizzatori aprendo l’incontro, sottolineando il valore umano e sociale di una sezione che rappresenta il cuore più pulsante del Premio. La direttrice del penitenziario, Barbara Lenzini, ha accolto con emozione il pubblico composto dagli studenti del Liceo Classico “Cotugno”, del Liceo “Duca d’Aosta”, accompagnati dai loro professori, da diversi ospiti istituzionali e da un gruppo di detenuti. Alla conduzione, la giornalista Angela Ciano, visibilmente coinvolta dall’atmosfera dell’incontro, insieme a Luciana Cicino, coordinatrice dell’istituto penitenziario, che hanno introdotto la voce di un detenuto incaricato di leggere un messaggio intenso: parole di gratitudine rivolte alla direzione e agli organizzatori per aver creato, ancora una volta, uno spazio di ascolto e di dialogo. “La poesia oltrepassa ogni barriera - ha detto - è un ponte che ci unisce alla comunità che sta fuori”. Profonda e partecipata l’analisi dell’On. Stefania Pezzopane, presidente del Premio, che ha definito questa sezione “un’edizione speciale”, necessaria per ricordare che il carcere è un mondo a parte “ma che a parte non lo è affatto”. La letteratura e l’arte, ha sottolineato, diventano strade possibili per la rinascita. A portare i saluti del Comune dell’Aquila è stata la consigliera Gloria Nardecchia, in rappresentanza del Sindaco Pierluigi Biondi, la rappresentante della Direzione Communication di Bper Banca Lorena De Vita, sponsor del Premio ha ribadito l’impegno dell’istituto nel sostenere progetti culturali dal profondo valore sociale. Il segretario del premio Giuliano Tomassi ha poi dato avvio alla consegna simbolica delle targhe ai vincitori del concorso. Prima dell’annuncio dei risultati, Liliana Biondi, membro della Giuria tecnica, ha letto le poesie premiate: il secondo posto ex aequo è andato a un detenuto della Casa Circondariale di Sulmona con la poesia “Liberi” e l’altro proveniente dalla Casa Circondariale di Pisa con la poesia “Amore per sopravvivere”. Primo posto attribuito a un autore della Casa Circondariale di Volterra (Pi) con la poesia “Non era amore” sul tema della violenza delle donne. Per ragioni di tutela dei detenuti, i nomi dei vincitori non sono stati divulgati, ma l’emozione suscitata dai testi è stata il vero centro di questa sezione. La musica come respiro, il momento particolarmente apprezzato quello, grazie a Fabio Iuliano, docente e giornalista, che ha seguito negli ultimi mesi un gruppo di detenuti in un percorso di formazione sonora. Con uno di loro si è esibito in due brani dal vivo; toccante l’interpretazione di “No woman, no cry” di Bob Marley, che ha fatto vibrare la sala di una partecipata intensità. Il momento più coinvolgente dell’incontro è arrivato con l’intervento di Somaia Ramish, poetessa afgana costretta all’esilio nei Paesi Bassi e considerata “pericolosa” dal regime talebano per la sua libertà e per la sua parola. “Essere qui è un’emozione enorme - ha detto -. Ringrazio voi tutti per avermi dato l’opportunità di partecipare a questo Premio. Sono stata forzata a lasciare l’Afghanistan, e ora non ho una patria. Ovunque io vada cerco una casa. E oggi, grazie a questa accoglienza, sento di averla ritrovata.” La poetessa ha raccontato come la scrittura sia diventata per lei l’unico luogo possibile per custodire la sua terra e dare voce alle donne afgane costrette al silenzio: “Attraverso me, state dando voce a tutte le donne dell’Afghanistan.” La lettura in lingua persiana di alcune sue poesie - melodica, intensa, di una bellezza quasi ipnotica - ha lasciato la sala in un silenzio emozionato, carico di gratitudine. Roma. Ipm di Casal del Marmo, il Pastificio Futuro dedica un murale a Papa Francesco di Natalia Distefano Corriere della Sera, 21 novembre 2025 “Al carcere minorile si impasta la speranza”. Il laboratorio artigianale, diretto da Alberto Mochi Onori, è un modello di economia sociale e rieducativa di successo che produce una tonnellata di pasta a settimana e dà lavoro a sei giovani detenuti. La storia del Pastificio Futuro nasce da un abbraccio. Quello tra padre Gaetano Greco, a lungo cappellano del carcere minorile di Casal del Marmo, e papa Francesco. “Era il 2013, il Pontefice venne all’istituto penale nel giorno del giovedì santo e lavò i piedi ai giovani detenuti. Poi disse: “Non lasciatevi rubare la speranza”. Da quel messaggio è germogliato un progetto di rinascita, l’idea di offrire ai ragazzi un luogo alternativo al carcere, dove poter imparare un mestiere e immaginare una nuova vita dopo la detenzione”, racconta Alberto Mochi Onori presidente della Gustolibero società cooperativa sociale onlus. Quel posto ora esiste, proprio al di là del muro di cinta del carcere minorile: è il Pastificio Futuro, laboratorio artigianale che produce una tonnellata di pasta a settimana e dà lavoro a sei giovani detenuti. E quell’abbraccio tra padre Gaetano e papa Francesco oggi è diventato un murale firmato da Giovanna Alfeo, lungo 80 metri, che riempie di colore e speranza i confini grigi dell’istituto minorile. la presentazione dell’opera d’arte, realizzata con il coinvolgimento - pennelli alla mano - anche di alcuni detenuti di Casal del Marmo, è stata l’occasione per fare un bilancio del progetto a due anni dall’inaugurazione. E dopo il lascito di Bergoglio, che nel suo testamento si è ricordato del sogno di padre Gaetano e dei suoi ragazzi andati “fuori strada”. Di quel pastificio di trincea, costruito a un passo dal perimetro di cemento e filo spinato del penitenziario, a cui da devoluto la sua eredità da 200mila euro. Il progetto, diretto da Mochi Onori, rappresenta un modello di economia sociale e rieducativa di successo: “Con i suoi 500 metri quadrati di superficie, una pressa che può produrre fino a 220 kg all’ora di pasta e quattro essiccatori, il Pastificio Futuro è un’azienda che potrebbe già occupare fino a venti ragazzi - spiega il direttore - e produrre ogni giorno fino a 4mila confezioni da 500 grammi di altissima qualità”. Buona in tutti i sensi, insomma. “Per aumentare la produzione, e di conseguenza il numero di giovani assunti regolarmente - aggiunge Mochi Onori - con le donazioni produciamo pasta per i più bisognosi. Ad esempio i detenuti che parteciperanno al Giubileo delle Carceri il prossimo 14 dicembre. Tutto per attivare un circolo virtuoso di solidarietà”. Poi c’è la distribuzione nei ristoranti, la vendita in negozi selezionati o direttamente nel laboratorio a Casal del Marmo (in via Barellai 140), dove è stato allestito uno store aperto al pubblico che ha il sapore del presidio di civiltà. Il murale racconta tutto questo attraverso l’omaggio alle due figure che hanno innescato il progetto. “Quando sono arrivata qui, questo muro massiccio mi ha turbata - ricorda l’autrice dell’opera. Ho pensato di spalancarci una lunghissima finestra di colori che racconta la possibilità di guardare oltre i limiti, trasformando il seme in pane”. All’inaugurazione presente il cardinale Baldassarre Reina vicario di Roma: “Siamo a ridosso di una struttura che, dal punto di vista sociale, segna una sconfitta. Dentro ci sono ragazzi che hanno sofferto, sbagliato, ma ora cercano un percorso di recupero. Al Pastificio imparano a impastare anche il futuro”. Milano. Oggi presentazione del libro di Luigi Pagano, nuovo Garante dei detenuti milanopost.info, 21 novembre 2025 Oggi, venerdì 21 novembre, alle ore 17.30, presso la libreria San Paolo di via Pattari, Pagano illustrerà le motivazioni per cui basterebbe l’applicazione coerente delle leggi per fare una “Rivoluzione normale”. A parlarne con lui: Daria Bignardi, giornalista e scrittrice; Don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano e Pino Cantatore, direttore generale della coop. sociale “Bee.4 Altre Menti”. Per l’autore, le leggi già esistenti applicherebbero alla pena il dettato dell’art. 27 della Costituzione (che definisce che essa deve mirare al recupero e al reinserimento del detenuto nella società), ma non vengono rispettate e applicate. Se ciò avvenisse, potremmo dire che, se proprio abbiamo bisogno di un carcere, esso sarebbe all’altezza della civiltà di un Paese democratico. Il libro vede la prefazione di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi e la postfazione di Arnoldo Mosca Mondadori. Luigi Pagano ha prestato servizio in qualità di Direttore presso diversi Istituti (le Case di Reclusione di Pianosa, Alghero e dell’Asinara, e le Case circondariali di Nuoro, Piacenza, Brescia e Taranto) prima di approdare, nel 1989, alla direzione della Casa circondariale di Milano San Vittore, dove è rimasto sino al 2004. Dal giugno 2004 al 2019 ha ricoperto diversi incarichi dirigenziali come Provveditore Regionale dell’Amministrazione penitenziaria in Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria, nonché come Vice-Capo Dipartimento, negli anni 2012-2015. A lui si devono, tra l’altro, l’ideazione della Casa di Reclusione di Milano-Bollate, di cui è stato il primo direttore, negli anni 2000-2002, la realizzazione nel 2002 del progetto “La Nave”, sezione a trattamento avanzato per i detenuti tossicodipendenti all’interno dell’Istituto di San Vittore, nonché l’ideazione e la realizzazione nel 2006, a Milano, del primo Istituto a Custodia Attenuata per Madri detenute (ICAM), che avrebbe dovuto preludere alla chiusura della Sezione nido del carcere di San Vittore. Insignito di diverse onorificenze, tra cui l’Ambrogino d’oro del Comune di Milano nel 2000, ha ripercorso i suoi “quarant’anni di lavoro in carcere” nel volume Il Direttore, pubblicato dalla Casa editrice Zolfo nel 2020. Novara. “Sprigionare pensieri”: un progetto di rinascita per i detenuti di Monica Curino sdnews.it, 21 novembre 2025 Sette ospiti del carcere di via Sforzesca coinvolti, incontri curati da una psicologa forense e criminologa, da una psicoterapeuta e da un insegnante di scuola media. Obiettivo dare vita a un percorso di ripensamento della propria vita e di ricostruzione dell’identità attraverso il gruppo e lo strumento della scrittura, della narrazione. Sono gli ingredienti del progetto “Sprigionare pensieri”, promosso dalla Fondazione Franca Capurro per Novara, realtà nata nel 2007 per ricordare l’imprenditrice edile, già presidente dell’Associazione Industriali. Un’iniziativa condotta nella casa circondariale negli ultimi mesi e che, come spiegano gli operatori e la stessa direttrice del carcere Annamaria Dello Preite, “ha fornito esiti significativi e, a volte, anche inattesi. Sorprese positive e che hanno colpito tutti”. A illustrare il progetto, alla sede di Confindustria, Carlo Robiglio, presidente di Confindustria Novara Vercelli Valsesia, Filippo Arrigoni, presidente della Fondazione Franca Capurro e figlio dell’ex presidente Ain, e la direttrice Dello Preite. Con loro Elisabetta Sebastiani, responsabile area trattamentale del carcere novarese, Giuliana Ziliotto, psicologa e coordinatrice del progetto, e Marella Basla, psicoterapeuta e consulente tecnico di Tribunale e Procura. “Un progetto dalla grande valenza sociale - ha esordito Robiglio - e realizzato da una Fondazione a cui siamo particolarmente vicini, ricordando una persona come Franca, sempre disponibile con gli altri e sempre gioiosa. Un progetto che ha fornito opportunità ai detenuti”. Arrigoni: “Per me è una grande soddisfazione oggi consegnare alla direttrice del carcere alcuni supporti informatici per rafforzare le competenze digitali degli ospiti di via Sforzesca. Ma sono ancora più orgoglioso - ha detto - di come, a 20 anni esatti dalla scomparsa, sia ricordata ancora in questo modo la mia mamma. Ricordarla così mi dà una grande emozione”. Per quanto riguarda il progetto “era da molto tempo che volevamo proporre qualcosa all’interno della nostra casa circondariale. Spesso mi è capitato di passare davanti coi miei bambini. Il carcere è lì, in tutta la sua evidenza, ma non si può vedere il contenuto, è difficile capire cosa c’è dentro. Così, parlando con Ziliotto, è nato questo progetto, che ha avuto una parte psicologica e una educativa. Verona. A pranzo, ospite la povertà: in San Zeno tavoli di amicizia di Francesco Oliboni Verona Fedele, 21 novembre 2025 Un gruppo nutrito di senza dimora. Mamme sole con i loro bambini e donne fragili. Anziani, persone con disabilità, giovani con varie problematiche. Famiglie del territorio con diverse difficoltà. Migranti, richiedenti asilo e rifugiati. Ex detenuti e addirittura alcune persone attualmente in carcere, ma con un permesso speciale. E ad accompagnarli c’erano tutti i loro educatori, volontari, operatori del sociale, in alcuni casi anche sacerdoti e religiose. Le meravigliose formelle bronzee sulle porte della basilica di San Zeno hanno visto passare davanti a loro ben trecento persone sabato 15 novembre in quello che è stato chiamato Giubileo Speranza e Povertà. Trecento ospiti accolti con un immenso calore umano da circa 70 giovani, del gruppo di Young Caritas Verona, degli scout di Bovolone e della Gioventù canossiana. E le parole che si udivano all’ingresso in basilica erano tutte di stupore e meraviglia per la bellezza di quel luogo ricco di opere d’arte e di storia, per l’allestimento, per il clima di famiglia che si è venuto a creare in pochi minuti. Quattro storie segnate dalla fragilità, ma alimentate da tanta speranza, hanno accompagnato la prima parte della mattinata. Quattro storie molto diverse: migrazione, carcere, disabilità, solitudine, assenza di un tetto sotto il quale dormire; ma quattro storie che hanno tutte ricondotto le persone ad un denominatore comune, appunto la speranza. Che non è mai venuta meno, anche grazie alla vicinanza di persone che si sono affiancate e hanno teso una mano. Ciascun racconto di vita è stato intervallato dal canto, molto appassionato, di un giovane veronese, Giovanni Signorato. Sulle parole “Credo negli esseri umani” di Marco Mengoni, che riecheggiavano in quella immensa basilica, più di qualche lacrima ha solcato il volto delle persone presenti. Poi è arrivato il momento del pranzo, nella chiesa inferiore, con una battuta di don Matteo Malosto, direttore della Caritas diocesana, che ha portato ancora più entusiasmo nei commensali: “Credo che nessuno di noi abbia mai mangiato in un ristorante più bello di questo”. L’Associazione Piccola Fraternità di Isola della Scala ha pensato ai risotti, mentre la Casa di riposo Fondazione Marangoni di Colognola ai Colli al pollo con le verdure. Anche la scelta di chi ha organizzato il menù non è stata casuale. Alla fine, tutti hanno lasciato la basilica soddisfatti. Conclude don Malosto: “Caritas, San Vincenzo, Adoa, Fondazione Opera Famiglia Canossiana Nuova Primavera, associazione La Fraternità, i frati di San Bernardino e del Barana: è una delle prime volte che come Chiesa di Verona, insieme al Terzo settore e alle comunità religiose, organizziamo qualcosa insieme. Questo sicuramente è stato il primo frutto fondamentale dello Spirito Santo: avere la profezia di fare del bene, ma di farlo insieme”. Detenuti e migranti, quel difficile compito di garantirne i diritti di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 21 novembre 2025 Un volume di Mauro Palma offre l’occasione per tornare sull’efficacia e sulla capacità di intervento dell’Autorità. “Caro parlamento” (Editoriale scientifica, pp. (316, euro 27) raccoglie le relazioni annuali al Parlamento, un’introduzione di Marco Ruotolo e un testo conclusivo degli stessi autori. Niente più delle cronache politiche degli ultimi giorni - l’affondo del “partito di maggioranza relativa” contro il presidente della Repubblica, il governo che copre gli attacchi fino a sfiorare uno scontro tra alte cariche - testimonia come le istituzioni siano fatte dagli uomini e dalle donne che le incarnano almeno quanto e talvolta assai più che dalle leggi che le regolano. È particolarmente vero per istituzioni di recente formazione, che non hanno a sostegno rodate consuetudini, che cominciano cioè a muoversi su un terreno dove le prassi sono tutte da scrivere - si sa che le prassi sono spesso più cogenti delle norme scritte. Questa è la natura del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, che opera da meno di dieci anni, otto dei quali retti tra mandato e proroghe dal primo collegio: il presidente Mauro Palma e le componenti Daniela De Robert ed Emilia Rossi. I tre firmano adesso un libro - “Caro parlamento” (Editoriale scientifica, pp. (316, euro 27) - che raccoglie le relazioni annuali al Parlamento, un’introduzione di Marco Ruotolo e un testo conclusivo degli stessi autori. Proprio Ruotolo spiega perché il Garante, istituito finalmente dopo un lungo dibattito ma anche un po’ in corsa per venire incontro a una sentenza di condanna dell’Italia della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha un rilievo costituzionale che discende dal valore del bene che presidia: la libertà personale, le cui limitazioni intervengono sul confine dei diritti fondamentali della persona umana. Queste funzioni di controllo, scrive Ruotolo, nella pratica si sono dimostrate più efficaci quando sono state esercitate nel confronto con i poteri che tendono a limitare i diritti, scongiurando lo scontro e la delegittimazione dell’istituzione di garanzia. E il conseguente rischio “di non riuscire più a frenare o a bloccare l’altrui abuso di potere proprio quando esso risulti più evidente”. Il punto è dunque che il Garante deve tenere al suo ruolo (e manutenerlo) per conservare “la forza sostanziale” in grado di consentirgli di intervenire in maniera efficace, non potendo fare affidamento solo sulle norme scritte. L’autorevolezza anche oltre l’autorità formale, in poche parole, che nel caso di istituzioni “nuove” conta anche per disegnare gli esatti confini del proprio campo di intervento. La materia delle migrazioni, per esempio, che un po’ alla volta il primo collegio è riuscito ad assorbire nella sua competenza. Cosa quanto mai necessaria, posto che è proprio nelle incerte pieghe della “detenzione amministrativa”, negli scarsamente inquadrabili (dal punto di vista del diritto) hotspot, negli aeroporti e nei voli dei rimpatri forzati e persino nei fantasmatici “locali idonei a disposizione delle questure” che si consumano pesanti violazioni dei diritti delle persone recluse. Mauro Palma, che i lettori del manifesto ben conoscono, come primo presidente del Garante ha portato con sé tutta l’esperienza accumulata dagli anni di Antigone fino alla presidenza del comitato europeo in seno al Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura. Purtroppo oggi siamo al punto che il governo Meloni, mal sopportando qualsiasi controllo sul suo “modello Albania”, programmi di affidare al Garante della Privacy - sottraendola quindi al Garante delle persone private della libertà personale - la competenza sulle strutture dove con il nuovo patto europeo sulle migrazioni i richiedenti asilo saranno confinati in un teorico limbo e in una praticissima galera. Naturalmente l’area principale di intervento del Garante, che il libro consente di recuperare alla memoria, è stata quella più canonica della detenzione penale. Del resto in Italia non è più possibile neanche parlare di “emergenza carceri”, tale è il livello non solo di sovraffollamento ma di generale espansione dell’area penale. Nella quale oggi - tra detenuti, misure alternative e “liberi sospesi” - ci sono nel nostro paese più di 250mila persone. Per avere un paragone sono più di tutti i medici in servizio. Vite nascoste alla pubblica vista e conoscenza, tenute in un’oscurità dei diritti e dell’informazione dove è più facile ignorarle. Se per entrarci in contatto il Garante deve lavorare dal basso, in ogni singola cella, per illuminarle tutte deve potersi muovere ben in alto. Scheda. Oggi a Roma l’assemblea di Antigone - Oggi, dalle 10 alle 18 a Roma (Sala Ilaria Alpi, via Monti di Pietralata 16) si terrà si terrà l’Assemblea organizzata da Antigone “Garanti. 1997-2025. Da quando Antigone propose l’istituzione dei Garanti alla necessità odierna di nuove prospettive”. L’apertura dei lavori sarà di Patrizio Gonnella, seguirà una relazione di Stefano Anastasia e le conclusioni di Mauro Palma. Un momento di riflessione e condivisione delle esperienze dei Garanti. Interverranno inoltre numerosi Garanti da tutta Italia. Per partecipare, è necessario inviare una mail a: segreteria@antigone.it. Riforma della giustizia e sanità: serve un dibattito pubblico più sincero di Renato Balduzzi Avvenire, 21 novembre 2025 I temi del dibattito pubblico italiano di queste settimane (quelli veri, non i diversivi, talvolta “sconfinanti nel ridicolo”, che qualche settore della politica non cessa di inventare) soffrono di una sorta di sindrome del riduzionismo. Non mi riferisco, evidentemente, alla logica necessità di presentare tali temi, soprattutto quando implicano risvolti importanti di natura tecnica, in una forma linguistica che permetta anche ai non addetti ai lavori di poterne percepire il nucleo di senso, ma alla tendenza a isolare - talvolta ad arte - un profilo dell’argomento operando su di esso una sorta di sineddoche, di parlare di una parte per il tutto: operazione già di per sé problematica, ancora più grave quando l’elemento così isolato non corrisponde o non corrisponde con esattezza all’oggetto, volta a volta, della discussione stessa. Prendiamo la cosiddetta riforma della giustizia, che meglio sarebbe chiamare riforma della magistratura e del Csm, visto che in essa di cambiamenti nel funzionamento della “giustizia” non v’è traccia: viene presentata come vertente anzitutto sulla “separazione delle carriere” tra giudici e pubblici ministeri, quando - e tale profilo sta emergendo nelle pressoché quotidiane esternazioni di questo o quel protagonista della vicenda - appare sempre più palese che si tratti di una resa dei conti tra un pezzo del mondo politico (con un pezzo dell’avvocatura), da un lato, e la magistratura penale, dall’altro. E dunque come tale andrebbe valutata dall’opinione pubblica, anche e soprattutto in vista del referendum costituzionale. Facendo eccezione per il tema della difesa del Paese rispetto ai comportamenti aggressivi e minacciosi di Stati esteri, riassunte con grande chiarezza e lucidità nel comunicato stampa di qualche giorno fa del Consiglio supremo di difesa, e volgendo lo sguardo all’altro grande tema di questi giorni, cioè la sanità (all’interno della più ampia discussione sulla prossima legge di bilancio), ritroviamo la medesima tendenza. In luogo di discutere apertamente sul se e sui caratteri del Ssn, il dibattito pubblico è sviato dall’enfasi posta sulle richieste di alcune regioni di accedere all’autonomia differenziata, cioè senza i limiti dei principi fondamentali della legislazione statale. Tali richieste, che includono anche la disciplina dei fondi sanitari cosiddetti integrativi (in realtà sempre più chiaramente sostitutivi), nonché dei ticket sanitari e delle regole sui professionisti che operano nel settore, sembrano orientate più alla soddisfazione di esigenze dei produttori di beni e servizi sanitari che non al consolidamento di un assetto equo del sistema. In tal modo, tuttavia, si indeboliscono i principi fondamentali del Ssn, a partire da quelli di universalità e di globalità, quest’ultimo inteso, secondo l’ispirazione della legge 833/1978, come intimo collegamento tra prevenzione, cura e riabilitazione. In questa discussione distorta, nella quale vengono a disperdersi le pure apprezzabili intenzioni ministeriali in tema di assistenza sanitaria territoriale e di Case della comunità, è difficile individuare il nodo di fondo, quello di prendere sul serio la nuova sanità territoriale, utilizzando bene l’importante categoria dei medici di famiglia, rendendo attrattiva la cruciale professione degli infermieri di famiglia e di comunità e valorizzando le “farmacie di servizi” (purché siano davvero tali...). Insomma, un dibattito pubblico più sincero si impone. Mettere il sesso nelle mani dei giudici con leggi vaghe è contro lo stato di diritto di Ester Viola Il Foglio, 21 novembre 2025 La riforma che introduce il principio del “consenso libero e attuale” non è inutile: sistema delle schifezze semantiche, è vero, ma lo fa in superficie. Ci siamo accorti tutti che esiste (e ubbidiamo a) un automatismo irresistibile di coscienza comune: c’è un problema, scriviamo una legge, si risolve il problema. Mi piace questa fiducia religiosa nella potenza della norma, questa piissima illusione me la tengo anch’io. La riforma sistema delle schifezze semantiche, è vero, ma lo fa in superficie. E tenendosi parecchie crepe sui muri portanti che il parlamento ha preferito ignorare, non sciupiamo vi prego questa bella giornata d’unità nazionale. Si deve vedere come sarà precisata, per adesso bisogna come al solito farsi andare bene il passo avanti simbolico e culturale. Dunque: l’Italia si sarebbe desta. La riforma dell’articolo 609-bis del Codice penale introduce il principio del “consenso libero e attuale” come elemento centrale del reato di violenza: è stupro ogni atto sessuale compiuto senza un consenso espresso o desumibile chiaramente dalla volontà della persona, consenso che deve essere presente nel momento dell’atto e sempre revocabile. La nuova norma allinea l’Italia ai modelli europei, pur mantenendo le ipotesi aggravate tradizionali. In assenza di consenso, la pena prevista resta la reclusione da sei a dodici anni. In Parlamento grandi plausi e un riposante voto ecumenico: strette di mano Meloni-Schlein, tutti contenti. Abbiamo fatto la cosa giusta, si passi all’incasso. E certo, sulla carta è bellissimo. Il consenso diventa l’asse della definizione. Se il consenso non c’era, è stupro. Fine dell’antropologia. Grande svolta culturale, aggiungono. Chissà cosa cambierà. Non molto, cambierà. Nelle chat del calcetto e padel circola un modello di autocertificazione per “consenso scopata occasionale”. Poi solite battute, solite foto, solite femmine. Prima cosa. “Consenso libero e attuale”. Sulla carta va bene: chiaro, moderno. Elastico. Vediamo quanto è elastico facendo il crash test con un po’ di domande del demonio. Che significa? Qual è il grado dell’attuale? Tocca ai giudici? È ancora la parola di uno contro la parola di un’altra? Per il futuro i ventenni finiranno per regolarsi come già oggi consigliano nei college americani: messaggio al pomeriggio il cui l’interessato alla copula in serata scrive all’altra parte se dopo cena c’è una vaga possibilità. E anche quello può non bastare, ma almeno è un inizio di difesa in ipotesi di denuncia. Fossi un ragazzo, mi abituerei all’idea. Che vuol dire “libero”? Come si dimostra? Come si revoca? Se tacito vale, quando vale? La definizione resta nelle mani dei giudici di merito. Seconda cosa. Il testo approvato prevede la stessa pena (da sei a dodici anni) per tutto. Bisognava fare così. È accordo politico per accontentare e non ragionamento giuridico: se tocchiamo le pene rischia di saltare la norma, quindi non tocchiamo niente. Ma punire allo stesso modo ciò che è diverso porta, nell’esperienza di ogni giurista, perfino quelli scarsi, a un solo risultato: hai sentenze di burro. L’ultimo punto controverso è sui casi di minore gravità, che a me per il momento pare un distillato di arbitrio. L’attenuante “nei casi di minore gravità” resta un concetto di fantasia. Una categoria senza perimetro, affidata alle percezioni del singolo magistrato. Anche qui, rovesciata la ratio della riforma: se mancano criteri chiarissimi, tutto può diventare meno grave. E alcune condotte del primo comma rischiano di essere trattate automaticamente come “fatti seri ma non abbastanza, serie B”. Quello che si era detto di voler superare. La riforma non è inutile, si deve vedere come sarà precisata, per adesso tocca come al solito farsi andare bene il passo avanti simbolico e culturale. Ricordando però che mettere il sesso nelle mani dei giudici con leggi vaghe alla lunga può essere anche un colpo notevole contro una passione chiamata stato di diritto. Quando gli adolescenti si rifugiano nell’AI per battere paure e isolamento di Chiara Saraceno La Stampa, 21 novembre 2025 Due ricerche sugli adolescenti, promosse rispettivamente da “Save the Children” (Atlante dell’Infanzia a rischio 2025: Senza Filtri) e dall’impresa sociale “Con i bambini” che gestisce il fondo di contrasto alla povertà educativa (Vivere da adolescenti in Italia), pur diverse per campione, metodi e temi affrontati, nel loro insieme offrono una lettura della situazione degli adolescenti che va oltre stereotipi e semplificazioni. E pongono diversi interrogativi agli adulti che, nei loro diversi ruoli e funzioni, con gli adolescenti interagiscono e hanno responsabilità per il contesto in cui gli adolescenti vivono. Come i loro coetanei dieci-venti anni fa, gli adolescenti intervistati per “Con i bambini” oggi mettono la famiglia, l’amicizia, l’amore, star bene con se stessi, tra le cose più importanti nella vita. Carriera, successo, soldi, vengono dopo. Ma molto dopo vengono anche la scuola e l’istruzione, oltre che l’impegno sociale, un campanello d’allarme, specie per quanto riguarda la scuola, che meriterebbe qualche riflessione sulla stessa, prima che sugli adolescenti. Il desiderio di stare bene con sé e nelle relazioni più prossime, inoltre, è accompagnato da un forte senso di insicurezza, se non disagio. Solo una minoranza, infatti, si sente per lo più soddisfatta della propria vita, mentre la maggioranza è preoccupata per il proprio futuro e un terzo lo vede con pessimismo. Anche nella ricerca di “Save the children” emerge un diffuso sentimento di malessere. Meno della metà degli adolescenti dichiara di sentirsi bene psicologicamente, con un forte divario tra ragazze e ragazzi: sono le prime a sentirsi peggio, a patire di più il senso di inadeguatezza legato alle proprie e altrui aspettative, anche rispetto al proprio corpo. Non stare bene con se stesse/i produce anche comportamenti a rischio. Il 9% si è isolato volontariamente, il 31% ha praticato “binge drinking” nell’ultimo mese, e il 12% nell’ultimo anno ha assunto psicofarmaci senza prescrizione. E c’è anche chi si affama e chi si taglia. Non sempre questo disagio trova riconoscimento e ascolto, o gli/le adolescenti trovano qualcuno di cui si fidano per parlarne. Il ricorso all’Intelligenza artificiale per cercare sostegno emotivo, e l’idea diffusa che sia meglio confrontarsi con un soggetto virtuale che non con una persona reale, sono segnali della difficoltà che molti adolescenti sperimentano a trovare nella loro vita quotidiana spazi e occasioni di ascolto non giudicanti. È un dato che emerge anche dalla indagine di “Con i bambini”, in cui non solo una maggioranza di intervistati non si sente capita dagli adulti, ma un quarto vorrebbe poter parlare con uno psicologo, mentre poco meno di un terzo già lo fa, o lo ha fatto. Colpisce che sia il mondo reale che quello virtuale siano sperimentati come spazi rischiosi da molti adolescenti, che hanno subìto o temono di subìre qualche tipo di violenza in entrambi i contesti, come aveva già rilevato un’Indagine Istat sugli adolescenti due anni fa. Il 43% degli e delle adolescenti intervistati per “Con i bambini” teme di essere vittima di qualche forma di violenza quando è fuori casa. E, secondo la ricerca di “Save the Children”, il 47,1% dei 15-19enni è stato/a vittima di cyberbullismo, con un aumento di 16 punti percentuali rispetto al 2018. D’altra parte, la vita on line coinvolge tutte le dimensioni, incluse quella delle relazioni intime e sessualità: il 30% dei 15-19enni ha praticato ghosting; il 37% visita siti porno per adulti (54,5% ragazzi, 19,1% ragazze); l’8,2% usa app di incontri. Eppure in Parlamento e fuori c’è chi pensa che a scuola non si debba parlare di emozioni, affettività, sessualità, salvo che con il permesso dei genitori, lasciando che gli e le adolescenti se la sbroglino da soli, e che basti vietare il cellulare a scuola per risolvere la questione della formazione ad un uso responsabile dello strumento. In entrambe le ricerche emerge anche la domanda di spazi per la socialità e per le attività di tempo libero. Come pure le forti diseguaglianze sociali che attraversano gli e le adolescenti. Diseguaglianze di genere, che mostrano le ragazze più vulnerabili non solo al disagio psicologico, ma al rischio di violenza, inclusa quella on line. Diseguaglianze etniche e di cittadinanza, che vedono gli stranieri più vulnerabili a giudizi negativi e aggressioni fisiche e on line. Diseguaglianze socio-economiche, che spesso sono anche diseguaglianze nei contesti fisici di vita. Chi vive in periferia o in aree disagiate denuncia più spesso la mancanza di spazi sicuri e accessibili in cui incontrare amici. fare attività di tempo libero, praticare sport, di scuole adeguatamente attrezzate, spazi verdi, servizi sociali, persino pulizia delle strade e degli spazi pubblici. Sono differenze che attraversano a volte la stessa città, separando mondi e opportunità di crescita, come emerge dalla ricerca di Con i bambini. Non stupisce che chi vive nei contesti più disagiati sia anche più pessimista verso il futuro. Invece di continuare a lamentarsi della scarsità demografica delle giovani generazioni, di criminalizzarne ogni comportamento di protesta, di stupirsi per le fiammate di violenza che vedono protagonisti giovanissimi, sarebbe il caso di prendersi cura dei contesti in cui vivono, creare occasioni di ascolto, eliminare le disuguaglianze socialmente costruite che comprimono le opportunità, la fiducia, le aspettative di troppi di loro. Migranti. Il governo spagnolo apre due Centri di detenzione in Mauritania di Pablo Fernández e José Bautista* meltingpot.org, 21 novembre 2025 Dal 17 ottobre scorso la Mauritania dispone di due nuovi centri di detenzione per migranti, uno situato a Nouakchott, capitale del Paese, e l’altro a Nouadhibou, al confine con il Sahara occidentale occupato illegalmente dal Marocco. Entrambi i centri sono stati avviati dalla Fondazione per l’Internazionalizzazione delle Amministrazioni Pubbliche (Fiap), un’agenzia di cooperazione del governo spagnolo che dipende dal Ministero degli Affari Esteri. Le autorità spagnole affermano che questi spazi sono ispirati ai Centri di Assistenza Temporanea per Stranieri (Cate) delle Isole Canarie e ammettono che, a differenza della Spagna, priveranno della libertà anche i minori, compresi i neonati in fase di allattamento, cosa che la legislazione spagnola proibisce. Una fonte spagnola coinvolta nella creazione di questi centri afferma che, nonostante il loro nome ufficiale, “si tratta ovviamente di centri di detenzione” e precisa che i bambini saranno trattenuti lì solo se accompagnati da un familiare. Due fonti mauritane confermano questa affermazione. La FIAP, il governo mauritano e la Delegazione dell’Unione Europea in Mauritania non rispondono a nessuna delle domande formulate per questo articolo. Il centro di detenzione costruito dal governo spagnolo a Nouakchott dispone di almeno 107 posti, comprese due culle per neonati, secondo i documenti della FIAP a cui ha avuto accesso questa indagine, mentre quello di Nouadhibou avrà almeno 76 posti, oltre ad altre due culle. I lavori e le forniture per la realizzazione di questi edifici sono stati finanziati con fondi spagnoli e del Fondo fiduciario di emergenza dell’Unione Europea, attraverso il progetto di polizia Associazione Operativa Congiunta (POC, acronimo francese), guidato dalla FIAP. Il presidente della Repubblica Islamica di Mauritania, Mohamed Ould El Ghazouani, accoglie il presidente Pedro Sánchez all’aeroporto di Nouakchott. Per comprendere la storia dietro le carceri per migranti che la Spagna ha aperto in Mauritania, bisogna risalire al 15 maggio 2024, quando 15 governi dell’Unione Europea hanno inviato una lettera alla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, chiedendo di seguire l’esempio di Giorgia Meloni, presidente del governo italiano, che ha avviato un centro di detenzione per migranti in Albania. Il governo spagnolo non ha firmato quella missiva, ma una settimana prima, l’8 maggio 2024, aveva assegnato all’impresa edile CADG i lavori per allestire due centri di detenzione per migranti in Mauritania. Tre mesi dopo, nell’agosto 2024, il presidente spagnolo e la presidente europea si sono recati in Mauritania e hanno promesso di inviare oltre 500 milioni di euro al governo militare del generale Mohamed Ould El Ghazouani. La FIAP non specifica se abbia messo in atto alcun meccanismo o protocollo per impedire alle autorità mauritane di maltrattare e torturare i detenuti. Negli ultimi anni, l’esecutivo presieduto da Pedro Sánchez ha anche aumentato il trasferimento di intelligence e attrezzature di polizia al regime mauritano con l’obiettivo di reprimere la partenza di imbarcazioni dirette alle Isole Canarie. Questo subappalto del controllo migratorio a paesi terzi, noto come “esternalizzazione delle frontiere” e attuato attraverso la FIAP, ha portato la Mauritania a raddoppiare i raid per arrestare i migranti. Agenti della Guardia Civil e della Polizia Nazionale Spagnola dispiegati nel paese partecipano a queste operazioni, che includono perquisizioni domiciliari senza autorizzazione giudiziaria e arresti arbitrari per motivi razziali. L’apertura di due centri di detenzione per migranti ha comportato una spesa totale di almeno 1.080.625 euro di fondi europei, secondo i documenti ufficiali a cui ha avuto accesso questa indagine. Tutti i contratti sono stati assegnati senza gara pubblica da parte della FIAP e hanno beneficiato di finanziamenti europei. La Mauritania è diventata una delle priorità finanziarie della FIAP in coincidenza con l’aumento del flusso migratorio sulla “rotta delle Canarie”. Senza andare oltre, il 1° novembre questa agenzia ha erogato 160.000 euro (senza gara d’appalto) per acquistare un numero indeterminato di veicoli 4×4 e droni con visori notturni per la polizia mauritana. In una comunicazione della FIAP successiva alla pubblicazione di questo articolo, l’agenzia nega categoricamente che l’appalto sia stato aggiudicato senza gara pubblica e sostiene che i contratti sono stati aggiudicati con “procedura pubblica” in base alla prima disposizione aggiuntiva della legge sugli appalti pubblici che regola i contratti all’estero. Questa agenzia di cooperazione del Ministero degli Affari Esteri, coinvolta nello scandalo di corruzione noto come “caso Mediador” o “caso Tito Berni”, non specifica se abbia messo in atto alcun meccanismo o protocollo per impedire alle autorità mauritane di maltrattare e torturare i detenuti, né fornisce il regolamento che ne disciplinerà il funzionamento. Sul suo sito web, la FIAP riconosce che questi centri contribuiranno a “determinare se [i migranti detenuti] sono vittime di tratta, minori non accompagnati, persone vulnerabili o richiedenti protezione internazionale” e assicura che i detenuti rimarranno in custodia per un massimo di 72 ore. L’inaugurazione di entrambi gli spazi ha avuto luogo lo scorso 17 ottobre alla presenza di agenti della Polizia Nazionale spagnola, rappresentanti dell’Unione Europea e del ministro dell’Interno mauritano. La Spagna conta più di 80 funzionari e agenti della Guardia Civil, della Polizia Nazionale e del CNI dispiegati in modo permanente in Mauritania. Tre fonti con accesso a questi centri di detenzione affermano che le carceri per migranti della FIAP in Mauritania sono già pronte ma non sono ancora entrate in fase operativa, quindi nessun migrante detenuto avrebbe pernottato in esse per il momento. Inizialmente era prevista anche la partecipazione all’inaugurazione del commissario Abdel Fattah, capo dell’Ufficio per la lotta contro l’immigrazione clandestina e la tratta di esseri umani della polizia mauritana. Fattah, incaricato di ricevere e gestire i dispositivi per il controllo dei flussi migratori che la Spagna fornisce alla Mauritania attraverso la FIAP, alla fine non ha partecipato alla cerimonia perché è stato sollevato dal suo incarico dopo che si è scoperto che riceveva tangenti dai trafficanti di esseri umani che organizzano i cayucos dirette alle Canarie, in cambio di informazioni errate fornite alla Guardia Civil, come rivelato da un’indagine di porCausa e dai quotidiani El País e Le Monde. Nel 2022 Fattah è stato insignito della medaglia al merito di polizia dal ministro dell’Interno, Fernando Grande-Marlaska. Questo ufficiale della polizia mauritana, cugino dell’ex presidente Mohamed Ould Abdel Aziz, è libero e non ha accuse a suo carico. Falcon Consultores, la società che ha redatto lo studio tecnico di queste carceri, non ha risposto alle domande poste per questo articolo. CADG, che ha realizzato i lavori e fornito anche arredi e attrezzature, sottolinea di avere “regole severe” per evitare pratiche corrotte e conflitti di interesse in conformità con le “norme etiche internazionali” e chiede di risolvere le questioni relative a queste carceri per migranti con la FIAP. In Mauritania entrambe le società sono anche aggiudicatrici di diversi contratti di TRAGSA, un’azienda di proprietà dello Stato spagnolo. Da quando Pedro Sánchez è arrivato alla Moncloa, TRAGSA è responsabile di diversi contratti relativi al controllo dell’immigrazione, come i lavori di ammodernamento delle recinzioni di confine di Ceuta e Melilla. Essendo costituita come società privata, i giornalisti non possono richiedere informazioni sui suoi contratti e sulle sue attività ai sensi della legge sulla trasparenza. In risposta alle domande poste, TRAGSA riconosce di aver ricevuto “un incarico dalla FIAP per la realizzazione del progetto costruttivo e l’esecuzione dei lavori dei centri di detenzione temporanea a Nouakchott e Nouadhibou” e chiarisce che successivamente, su richiesta della FIAP, “è stato deciso” e alla fine non ha eseguito tali lavori. FIAP sostiene che la risoluzione del contratto sia avvenuta in termini amichevoli e ha inviato il fascicolo che lo dimostra successivamente alla pubblicazione dell’articolo su El Salto. Il team di giornalisti che ha redatto questa informazione ha inviato alcune domande anche alle autorità della Mauritania, tramite il Ministero dell’Interno e l’ambasciata a Madrid. Il governo mauritano non ha risposto a nessuna delle domande poste né ha chiarito cosa intende fare con i migranti privati della libertà nelle due prigioni costruite dalla Spagna. Abbandoni nel deserto sponsorizzati dalla Spagna e dall’UE - Il regime mauritano effettua retate - con il sostegno e le informazioni fornite dalla Guardia Civil, dalla Polizia Nazionale e dal CNI - per arrestare arbitrariamente persone di colore, compresi bambini in età lattante. Le autorità mauritane utilizzano quad, veicoli 4×4, droni e dispositivi tecnologici forniti dalla FIAP per effettuare questi arresti. I migranti arrestati vengono privati di tutti i loro effetti personali (compresi documenti d’identità e telefoni), condotti in carcere e sottoposti a soggiorni di diversi giorni in condizioni disumane, senza cibo, acqua né accesso ai servizi igienici. Almeno due agenti della Polizia Nazionale spagnola si recano settimanalmente in questi centri, a Nouakchott e Nouadhibou, per rilevare le impronte digitali e scattare fotografie ai detenuti. L’ottenimento di questi dati non è banale: dal 2003 la Spagna e la Mauritania hanno un accordo in base al quale le autorità spagnole possono espellere cittadini di paesi terzi verso la Mauritania. Ogni settimana la Polizia Nazionale spagnola di stanza in Mauritania riceve liste con i nomi e cognomi delle persone che gli agenti mauritani abbandonano in zone remote. Infine, i detenuti vengono abbandonati in zone remote come Gogui, al confine desertico con il Mali, un territorio con un’alta presenza dell’organizzazione jihadista JNIM, affiliata ad Al Qaeda nel Sahel. Tra i migranti che subiscono questi abbandoni nel deserto spiccano persone con profilo di richiedenti asilo in fuga dalla guerra in paesi come il Mali o il Niger e dalla violenza politica in nazioni come la Guinea Conakry. Ogni settimana la Polizia Nazionale spagnola di stanza in Mauritania riceve liste con i nomi e cognomi delle persone che gli agenti mauritani abbandonano in zone remote. Le prove a sostegno di queste informazioni sono contenute in un’inchiesta giornalistica coordinata da Lighthouse Reports, con la partecipazione di porCausa, e in un ampio rapporto dell’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch. L’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni sono a conoscenza di questi abusi, secondo documenti interni a cui porCausa ha avuto accesso. Tra queste vittime ci sono giovani come Sady Traoré, un giovane musicista maliano fuggito da Bamako (Mali) dopo aver ricevuto minacce per aver organizzato concerti contro il colpo di Stato militare nel suo Paese. Traoré ha deciso di stabilirsi temporaneamente in Mauritania, ma dopo essere stato abbandonato due volte nel deserto dalle forze mauritane, ha deciso di emigrare in Spagna. Questo giovane è arrivato alle Canarie nel gennaio 2024 e da allora non ha potuto esercitare il suo diritto di chiedere asilo. Traoré attualmente dorme sotto un ponte in una località vicino a Valencia e sopravvive svolgendo lavori occasionali come bracciante nel settore agricolo. Il Comitato spagnolo di aiuto ai rifugiati (CEAR) sta cercando di aiutarlo a ottenere un appuntamento per richiedere l’asilo. *Fundación Porcausa La tragica distanza tra bimbi e diritti di Martina Marchiò* La Stampa, 21 novembre 2025 Un modo per capire che mondo stiamo costruendo è misurare la distanza tra i diritti dei bambini sanciti dalle norme internazionali e la realtà di tutti i giorni nelle scuole e nelle pediatrie di molti angoli della Terra. Oggi questa è distanza è enorme. Tragica. Milioni di bambini in 56 Paesi con conflitti attivi vedono i loro diritti sistematicamente calpestati. Istruzione e salute chimere, sfruttamento e violenza routine. Solo nel 2025, ben 118 milioni di bambini hanno sofferto la fame, di questi 63 milioni a causa di conflitti armati. I bambini non sono solo vittime collaterali: sono diventati bersagli mirati. Nella Striscia di Gaza, dove ho lavorato con Medici Senza Frontiere nel 2024 e nel 2025, il corpo dei bambini è un campo di battaglia. Il genocidio a Gaza, con la morte di oltre 20mila bambini, rileva una strategia agghiacciante: l’eliminazione sistematica delle generazioni future. Più di un bambino all’ora è stato ucciso a Gaza dal 7 ottobre 2023 a oggi. Così il corpo dei bambini viene usato come messaggio di annichilimento, di umiliazione, di sofferenza estrema inferta al singolo per colpire un intero popolo. Questo attacco sistematico all’infanzia si manifesta in primo luogo con attacchi mirati sui bambini: negli ospedali supportati da Msf sono arrivati bambini che riportavano colpi precisi di cecchini israeliani sulla testa e sul petto. I chirurghi si sono meravigliati di questa precisione, dovuta alla scelta di mirare deliberatamente a quelle parti del corpo. Molti di questi bambini non sono sopravvissuti, altri hanno subito amputazioni. Non avevo mai visto così tanti civili amputati come a Gaza: oltre 15.000 persone hanno perso gli arti, tra cui più di 4.000 minori. Spesso non possiamo fornire una carrozzina o delle stampelle, perché Israele ne blocca tuttora l’ingresso considerandole a doppio uso. C’è poi l’uso della fame come arma. Tutto ciò che poteva portare a un’autoproduzione di cibo a Gaza è stato distrutto, cucine e forni comunitari sono stati bombardati, così come serre e mulini, campi agricoli e ulivi secolari. Dal 7 ottobre 2023 a fine ottobre 2025 a Gaza 150 bambini sono morti per malnutrizione. Ho visto bambini raccogliere foglie tra le macerie per avere qualcosa da mettere sotto i denti, o cercare cibo tra i rifiuti. Per non parlare dei neonati prematuri o a basso peso, da madri malnutrite: 5 o 6 bambini nella stessa incubatrice. Portare nel proprio grembo una vita in un contesto di morte, distruzione e sfollamento forzato, ha un impatto enorme su di loro. Alcune manifestano problemi legati all’allattamento, e Israele ha continuato - anche dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco - a bloccarci l’ingresso del latte in polvere. Questo si lega a un quadro più ampio di negazione delle nascite: a Gaza abbiamo assistito alla distruzione sistematica di strutture sanitarie legate al parto e alla gravidanza. Alcune donne con gravidanze a rischio vivono con la paura costante di ritrovarsi lontane da un ospedale durante il parto, a causa dello sfollamento continuo e della distruzione degli ospedali. Infine, il genocidio a Gaza ha colpito l’infanzia attraverso la negazione dell’istruzione: le scuole sono state bombardate con lo scopo di interrompere l’educazione e quindi cancellare il futuro dei bambini. Nei nostri ambulatori spesso riceviamo bambini che ci dicono di non riuscire più a sognare. Un giorno un bambino ci ha detto di non sapere più che cosa diventerà da grande, perché non è rimasto più nulla a Gaza. Tutti questi bambini e adolescenti che non conoscono altro se non violenza, occupazione, distruzione si portano dietro un trauma lungo due anni. Alcuni bambini parlando con i nostri psicoterapeuti chiedevano di morire per raggiungere un familiare che non c’è più, o per non soffrire più. Se la Giornata Mondiale dei Diritti dei Bambini appena trascorsa si limiterà a una cerimonia retorica, cancelleremo il futuro dei bambini. I bambini di Gaza hanno bisogno di cibo, cure e scuole. Hanno bisogno di futuro. *Coordinatrice medica di Medici Senza Frontiere Pena di morte. Il mito del boia affascina anche la destra israeliana di Adolfo Sansolini Il Riformista, 21 novembre 2025 Negli Usa le esecuzioni aumentano, Cina e Iran al vertice. Strumento di deterrenza del crimine o vendetta? Nel dibattito sulla pena di morte una delle vittime continua a essere il buonsenso, sepolto sotto tumuli di populismo. Qualcuno sfugge a questa tentazione, dimostrando che le montagne si possono smuovere. Nata in Louisiana nel 1939 e divenuta suora a 18 anni, nel 1982 Helen Prejean iniziò a corrispondere con Elmo Patrick Sonnier, poco più che trentenne, condannato a morte per il brutale assassinio e lo stupro di una diciottenne e l’assassinio del suo ragazzo. Sonnier le chiese di incontrarlo nel carcere della Louisiana in cui era nel braccio della morte già da quattro anni. Nacque una frequentazione durata fino a quando fu ucciso sulla sedia elettrica. Suor Helen era presente anche in quel momento, come le aveva chiesto. Da allora, ha continuato a offrire accompagnamento spirituale ad altri condannati a morte e dopo anni di questo servizio decise di riportare quelle esperienze in un libro, Dead Man Walking, pubblicato nel 1993 quando i favorevoli alla pena di morte erano l’80% in America e il 90% in Louisiana. Nel 1995 dal libro venne ricavato un film, che guadagnò l’Oscar a Susan Sarandon, e nel 2000 un’opera, composta da Jake Heggie, che è divenuta la più rappresentata al mondo fra le contemporanee. Il mese scorso è uscita in America una nuova versione del libro, stavolta a fumetti, per avvicinare al tema un pubblico diverso. Suor Helen ha fondato il “Ministry Against the Death Penalty” (Pastorale Contro la Pena di Morte), una piccola squadra di donne che mira a porre fine alla pena capitale “promuovendo programmi creativi, di riflessione ed educativi che risveglino i cuori e le menti, ispirino il cambiamento sociale e rafforzino l’impegno della nostra democrazia nei confronti dei diritti umani”. La strada da percorrere è ancora lunga, ma secondo un sondaggio Gallup effettuato nell’ottobre del 2024, in America i favorevoli alle esecuzioni sono scesi al 53%. La percentuale cala ulteriormente fra i giovani, in maggioranza contrari. Finalmente, i democratici sono in maggioranza abolizionisti. L’incontro di una suora con un detenuto nel braccio della morte ha fornito un impulso imponente a livello globale su questo tema. Fra le democrazie, gli Stati Uniti continuano a distinguersi negativamente. L’anno scorso sono state uccise 25 persone in 9 stati, 22 con iniezione letale e tre per asfissia da azoto, in massima parte in Alabama, Texas, Missouri e Oklahoma. Dopo oltre un decennio, le esecuzioni sono tornate anche in Utah, South Carolina e Indiana. Quest’anno ci sono già state 41 uccisioni, di cui 15 in Florida, e altre sei sono programmate entro la fine dell’anno. É il numero più alto degli ultimi dieci anni. Dal 1977 in America ci sono state 1.648 esecuzioni. Il picco fu nel 1999, l’anno in cui vennero uccise 98 persone. Donald Trump ha sollecitato un ricorso maggiore alla pena capitale per compiacere il suo elettorato più estremista, sostenendo che sia “uno strumento essenziale per scoraggiare e punire coloro che commettono i crimini più efferati”, anche se la sua efficacia non è mai stata provata. A pochi isolati dalla Trump Tower a New York, nel dicembre 2022 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con 125 voti a favore, 37 contrari e 22 astensioni ha approvato una risoluzione sulla moratoria mondiale delle esecuzioni. È la decima approvata dal 2007, con un numero crescente di adesioni rispetto al passato ma poco effetto sulle tendenze globali. Secondo Amnesty International, l’anno scorso nel mondo ci sono state 1.518 esecuzioni documentate, con il 92% compiuto da Iran, Iraq e Arabia Saudita. Rappresenta un incremento del 32% dal 2023. Si tratta però di una stima largamente al ribasso perché esclude Cina, Corea del Nord e Vietnam che non rilasciano cifre. Solo in Cina, che attualmente fa parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, si stimano migliaia di esecuzioni ogni anno. Si sottraggono al conteggio anche i rastrellamenti e le esecuzioni sommarie compiuti da Hamas e da altri gruppi terroristici in vari Paesi. Nonostante l’incremento degli anni recenti, negli ultimi trent’anni in tutti i continenti sono continuati ad aumentare i Paesi abolizionisti, ormai oltre il 70%. Ci sono quindi buone ragioni per sperare, accanto a segnali negativi sufficienti per suggerire di non abbassare la guardia. Notizie negative giungono anche dalla destra governativa israeliana, che è riuscita a far passare in prima lettura alla Knesset una legge che prevede la pena di morte per i terroristi che attentano alla sicurezza dello Stato. Questo tentativo di sfruttare la tensione popolare successiva all’attacco del 7 ottobre 2023 ha ancora bisogno di due letture prima di divenire legge. Il ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben-Gvir, che si oppone alla tregua con Hamas, ha celebrato l’approvazione della proposta in prima lettura. L’idea incontra però l’opposizione di organizzazioni rabbiniche sia progressiste che conservatrici e delle associazioni per i diritti umani, perché foriera di ulteriori tensioni e probabili spargimenti di sangue. In Israele la pena di morte non è mai stata abolita ufficialmente ma è stata applicata una sola volta nel 1962 con l’esecuzione di Adolf Eichmann. É prevista solo per crimini di guerra, genocidio o alto tradimento, e impone l’unanimità dei giudici, con possibilità di commutazione da parte dei comandi militari. Di fatto, esiste solo sulla carta. Gli accordi di pace hanno iniziato a spezzare la spessa catena di violenza nel Medio Oriente. Nelle prossime settimane il governo Netanyahu dovrà scegliere se continuare questo percorso, oppure allinearsi alle pratiche del trumpismo più estremo e delle dittature islamiste. Come ricordato spesso da suor Helen Prejean, nel Talmud è scritto che chi salva una singola vita salva il mondo intero. Potrebbe divenire la base per proporre la cancellazione della pena di morte dall’ordinamento israeliano piuttosto che la sua estensione. Brasile. Rio de Janeiro, nella favela dei narcos dove il popolo si ribella di Eloisa Gallinaro La Stampa, 21 novembre 2025 A Rocinha le gang dettano legge ma la gente non si arrende e prova a rinascere. Balli, street art, murales e cooperative di moto taxi: “Punteremo sul turismo per tornare liberi”. Helena ha 11 anni e una passione, la capoeira. Ma anche un sogno. Che l’antica lotta-danza degli schiavi diventi disciplina olimpica fra qualche anno, quando sarà cresciuta. Intanto, si allena al ritmo trascinante delle percussioni volteggiando leggera con gli altri ragazzini della sua squadra in un piccolo locale arrampicato alla fine di una serie quasi infinita di gradini sconnessi. “Due anni fa un nostro bravissimo allievo è venuto in Italia con un gruppo per far conoscere questa specialità”, ci tiene a sottolineare con orgoglio Marcelo, l’istruttore, mentre guarda soddisfatto le piroette acrobatiche dei suoi pulcini. Siamo a Rocinha, area Sud di Rio de Janeiro, la più grande favela del Brasile dove la capoeira non è solo uno sport ma un modo per togliere bambini e ragazzi dalla strada insegnando loro a esprimersi anche con altre attività. Sono gli stessi ragazzi di questo centro sociale che hanno disegnato il murale della mini palestra dove si allenano: i suonatori di berimbau, strumento principe della capoeira, accanto a una montagna di case colorate, una sull’altra. È un’istantanea della favela, anzi della comunità, come preferiscono chiamarla qui. Arrampicata sulla collina, un dedalo di vicoli bui tra case in muratura e baracche di lamiera unite da intrecci inestricabili di cavi elettrici quasi ad altezza d’uomo, Rocinha è cresciuta in maniera incontrollata ai margini della Tijuca, la più grande foresta urbana del mondo. Impossibile orientarsi da soli. Il moto taxi è il mezzo più rapido per arrivare in cima e anche una discreta fonte di reddito: sono in molti i ragazzi che ne hanno fatto il proprio lavoro, sfrecciando su e giù con passeggeri per lo più senza casco lungo la ripida strada principale tra montagne di spazzatura e cani randagi. Poi si può proseguire solo a piedi nel labirinto tra un viavai continuo e una miriade di micro lojas che vendono di tutto. “Per evitare guai è meglio non tirare fuori i cellulari e non fare foto”, ammonisce Milena, guida locale che qui è di casa. “Non è un problema di scippi. È solo che grandi e piccoli boss dei narcos girano tranquilli e non vogliono essere fotografati casualmente e magari postati sui social dove potrebbero essere riconosciuti e localizzati”. Per il resto, “qui si è al sicuro anche da stupri e rapine perché le regole stabilite da chi controlla la favela sono ferree e vengono fatte rispettare”, spiega ancora Milena, e traduce: “Sicurezza significa che c’è una sola fazione al comando e quindi non ci sono scontri e sparatorie tra bande diverse”. In realtà, dopo l’arresto nel 2011 di Antonio Francisco Bonfim Lopes detto Nem, uno dei capi della fazione Amigos Dos Amigos (Ada) che aveva controllato per decenni la favela, la situazione si è fatta instabile per il comando di Rocinha, anche se tutti gli indizi portano a John Wallace da Silva Viana, alias Johnny Bravo, leader locale del Comando Vermelho (Cv), la più potente organizzazione criminale del Brasile che, oltre al narcotraffico, gestisce il racket delle estorsioni e il contrabbando di armi permeando l’intero tessuto sociale. Secondo la Folha de Sao Paulo, perfino i ragazzi dei moto-taxi pagano al gruppo 150 reais (circa 25 euro) al mese - che qui non sono pochi - per poter operare ad altri livelli i leader della gang nel Mato Grosso danno ai vertici di Cv 80 mila reais (13.000 euro) al mese per nascondersi nelle favelas di Rio, tra le quali Rocinha e la vicina Vidigal. Attualmente non ci sono scontri, la polizia si fa vedere occasionalmente, in basso, all’entrata, ma non mette piede nei becos, i vicoli, e la comunità è stata finora considerata “pacificata”, una definizione molto in uso da queste parti per indicare il livello di sicurezza delle favelas. In luglio è stato anche demolito un complesso di edifici completo di bunker, tunnel sotterranei e attico con piscina che erano serviti da base ai narcos di Comando Vermelho e da rifugio ai latitanti provenienti da altri Stati brasiliani. Una calma che sembra destinata a non durare. A quanto riferito dal quotidiano O Globo, il governatore dello Stato di Rio Claudio Castro avrebbe pianificato per dicembre 10 operazioni di polizia a Rocinha e in altre favelas - Cidade de Deus, Complexo de Israel, Marè - simili al controverso maxi blitz nelle baraccopoli Penha e Alemao contro Comando Vermelho che a fine ottobre ha provocato almeno 121 morti. Rocinha, scrive il quotidiano citando fonti del governo statale, è uno dei principali centri di distribuzione della droga e dà rifugio anche a criminali che vengono da fuori. La cosa triste, commenta amara Milena, è che “questa guerra politica uccide sempre i poveri delle periferie”. Di poveri, a Rocinha, ce ne sono migliaia. Nessuno sa quanti, come nessuno sa quanta gente ci viva. Le cifre ufficiali parlano di oltre 70 mila persone, secondo altre stime gli abitanti arrivano a 200 mila. In condizioni sempre più precarie man mano che si sale verso la cima della collina, dove si affastellano tuguri senza fogne e spesso senz’acqua e dove i narcos hanno vita facile nel reclutare manovalanza a basso costo. Ma la rassegnazione non abita qui e la vivacità culturale di questa comunità è sorprendente. Oltre all’onnipresente capoeira, ci sono scuole di samba, centri di cultura afro-cubana, concerti improvvisati di funk carioca in locali sempre molto frequentati. Maria ci apre le porte della sua casa: una specie di antro buio e pieno di scale, una sorta di torre con una stanza sopra l’altra, qui un letto, là una vecchia credenza. In cima un’esplosione di luce. Maria e la sua famiglia hanno costruito una terrazza con una vista mozzafiato sulla baia di Rio e stanno attrezzando un piccolo bar: tè, caffè, brigadeiros (palline con cioccolato e latte condensato), una panca e qualche tavolino per i visitatori accompagnati dalle guide locali. Una risorsa che la gente sta imparando a sfruttare. I giovani organizzano tour per far conoscere la realtà della favela approfittando anche degli straordinari panorami che si aprono improvvisi tra le case, dal Pan di Zucchero al monte del Corcovado con la statua del Cristo Redentore. Le moto taxi di Rocinha si spingono fino alla vicina favela di Vidigal - regno dei narcos ma anche imperdibile meta turistica - attraverso lo spettacolare percorso dell’Avenida Niemeyer lungo l’Atlantico e poi su per ammirare dall’alto e ancora più da vicino le iconiche viste di Rio. Sono queste immagini, assieme al sovraffollamento della favela, a ispirare i murales che nascondono gli intonaci scrostati e a dare linfa all’arte che non ti aspetti. Per esempio quella di Marcos, alias Wark Rocinha, che con il suo angelo, alter ego artistico simbolo di accoglienza e sicurezza, ha dato un’impronta non solo alla favela ma a tante parti di Rio ed è arrivato fino al Mausa Vauban, santuario della street art a Neuf-Brisach, non lontano da Strasburgo. Nella comunità ha fondato il Wark Institute con l’obiettivo di dare slancio alla formazione culturale dei giovani attraverso l’arte. Il risultato è la vita della favela raccontata a colori sui muri, narrazione visiva che inizia a vincere sul grigio della povertà.