Si potrà ancora fare cultura nelle carceri? di Livia Montagnoli artribune.com, 20 novembre 2025 Il pasticcio del Governo che rischia di ostacolare le attività dei detenuti. È in vigore da poco meno di un mese la circolare del Dap che obbliga numerosi istituti penitenziari d’Italia a sottoporre l’organizzazione di attività ed eventi in carcere a un’autorizzazione centralizzata. Scoraggiando progetti portati avanti da anni da cooperative, associazioni, mondo dell’educazione e dal Terzo settore. Essenziali per i detenuti. Per i detenuti delle carceri italiane, il 21 ottobre 2025 rischia di essere uno spartiacque da ricordare. Con la Circolare n. 454011, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha cambiato le regole per l’organizzazione dall’esterno di un’attività in carcere. Alla Direzione generale del Dap sono ora avocate le pratiche di autorizzazione per eventi educativi, culturali e ricreativi in tutte le carceri che hanno anche reparti di Alta Sicurezza, Collaboratori di Giustizia e 41-bis. Fino a prima della Circolare, come stabilisce l’art. 17 della legge 354/1975, la domanda per portare dall’esterno un’attività in carcere andava presentata al direttore dell’istituto penitenziario in cui si sarebbe voluto operare, che esprimeva parere sull’istanza e la trasmetteva al magistrato di sorveglianza per l’autorizzazione. Ora, l’autorizzazione per gli eventi di carattere trattamentale, anche se rivolti ai soli detenuti afferenti al circuito di Media sicurezza, ma comunque allocati in uno degli istituti di cui sopra, dovrà passare dalla direzione generale di Roma. Inoltre, specifica la circolare, la richiesta dovrà pervenire “con congruo anticipo” e contenere necessariamente i seguenti dati: spazi utilizzati, durata dell’iniziativa, lista dei detenuti da coinvolgere, elenco dei nomi e dei titoli dei partecipanti della comunità esterna, parere della direzione. Una mazzata sulle carceri italiane, già provate da problemi noti, reiterati e ancora mal gestiti: sovraffollamento, fatiscenza delle strutture, carenza di personale. E sì, anche eccesso di burocrazia. Ciononostante, la circolare firmata da Ernesto Napolillo, a capo della Direzione generale dei detenuti e del trattamento, muove nella direzione di ulteriori complicazioni burocratiche, indebolendo il potere decisionale dei singoli istituti. In Italia sono 190 gli istituti ordinari distribuiti su tutto il territorio nazionale: di questi, 12 prevedono sezioni per il 41-bis, ma molto più numerose sono le strutture penitenziarie che ospitano reparti speciali di Alta Sicurezza (sebbene la percentuale di detenuti sottoposti a questo regime, sul totale della popolazione carceraria, sia minima: circa 8.800 persone). Il nuovo provvedimento, dunque, complicherà lo svolgimento di qualsivoglia attività organizzata con l’esterno - in primis i molteplici progetti culturali consolidati nel tempo - per i detenuti di molti istituti. Eventi, iniziative educative, laboratori di formazione in carcere subiranno un prevedibile rallentamento, quando non saranno annullati per la difficoltà di far quadrare autorizzazione e tempistiche organizzative. E diffusa è la preoccupazione di chi con il carcere e i detenuti ha a che fare tutti i giorni: “Dalle celle chiuse alle carceri chiuse, è un attimo. Un balzo all’indietro di più di quarant’anni”, chiosa il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa. “Questa circolare è certezza di una scarsa contezza reale dei contesti carcerari, trasforma le autorizzazioni della magistratura di sorveglianza in orpelli, elementi ancillari” gli fa eco il Garante campano, Samuele Ciambrello “Ci sono iniziative trattamentali di cooperative, associazioni, enti locali e non si comprende la gestione diretta della Direzione generale degli istituti con i circuiti di Alta Sicurezza. Ma allora i direttori e i responsabili del Prap sono semplici amministratori di condominio?”. “Il ministro Nordio sostiene che tutte le richieste finora sottoposte al Dap di Roma sono state autorizzate, 139 su 139. A patto che sia vero, quante altre non sono state presentate a monte?” sottolinea Valentina Calderone, che è Garante per i detenuti di Roma “Il monitoraggio delle prime settimane già restituisce diversi problemi, ripensamenti: se tutto diventa più complicato, chi finora ha proposto e lavorato su queste attività e iniziative è scoraggiato a proporle e portarle avanti. Si parla genericamente di tempi congrui, non si delineano procedure specifiche. Questa confusione ha gettato nello sconforto e nel panico le direzioni, che si trovano a dover gestire iniziative proposte da anni in funzione di parametri improvvisamente cambiati”. Un esempio pratico? “Volendo organizzare un’iniziativa in carcere aperta al pubblico, invitando 150 persone, finora il singolo istituto faceva in modo di chiudere la lista dei partecipanti con una settimana d’anticipo, per organizzare gli ingressi secondo i criteri di legge. Con l’obbligo di autorizzazione centralizzata, quanto tempo prima sarà necessario organizzarsi?”. Così, restando a Roma, gli spettacoli organizzati dalla Compagnia Teatrale La Ribalta nel carcere di Rebibbia, previsti per i prossimi 24 e 25 novembre, non si faranno: “La Compagnia opera da vent’anni nell’istituto romano, ma in queste condizioni il regista non se la sente di procedere, col rischio di intoppi dell’ultimo secondo. Il cambio di regole imposto dalla Circolare rischia di alterare anche alleanze e collaborazioni avviate da tempo tra associazioni culturali e istituti penitenziari. Di certo, per fortuna, chi entra in carcere è abituato alle complicazioni, non si lascia scoraggiare facilmente e svolge il suo lavoro con molta convinzione: in questa fase c’è tensione, c’è chi invoca una protesta delle direzioni carcerarie, loro stesse penalizzate sotto il profilo dell’autonomia gestionale e decisionale. Sarà necessario monitorare con attenzione, registrare l’andamento delle cose e produrre una documentazione da presentare per eventuali accertamenti giuridici sulla legittimità del provvedimento. Personalmente spero in un passo indietro dell’esecutivo”. Intanto, a Milano Opera è stato annullato un incontro di Bookcity con il laboratorio di lettura Fine pena ora, coordinato da Donatella Civardi e Giovanna Musco. E sono saltati anche gli spettacoli della Compagnia Teatrale Opera Liquida, in programma fuori dalla struttura carceraria milanese. Ma anche l’iniziativa l’ALTrA Cucina, che ogni anno organizza il pranzo di Natale in oltre cinquanta carceri italiane, in collaborazione con noti chef, rischia di complicarsi: su 56 istituti, già 2 hanno comunicato la propria defezione, temendo lungaggini e complicazioni per ricevere l’autorizzazione. Dinamica che potrebbe ripetersi sempre più di frequente: a Parma, salta il progetto che da alcuni anni metteva a confronto gli studenti di un liceo classico con i detenuti, per discutere di giustizia riparativa; a Padova, nel carcere che molti anni fa ha tenuto a battesimo - e continua a tutelare - una esemplare esperienza di cooperazione tra società esterna e contesto carcerario (leggasi Cooperativa sociale Giotto) all’ultimo secondo è stato annullato, all’inizio di novembre, un incontro di lettura che avrebbe dovuto coinvolgere detenuti maghrebini. E traballa anche l’erogazione della formazione universitaria garantita da 47 atenei impegnati con circa 2.000 studenti universitari detenuti in 120 istituti penitenziari. Accanto alla formazione, infatti, le università sono impegnate in attività di valorizzazione delle conoscenze (“terza missione”) con progetti e iniziative culturali rivolte all’intera la popolazione detenuta. Uno strumento prezioso per la rieducazione e il reinserimento sociale e lavorativo, in coerenza con i diritti fondamentali sanciti dalla Carta costituzionale e con l’Ordinamento penitenziario vigente, gestito non senza difficoltà per assicurare il rispetto delle esigenze penitenziarie, in collaborazione con le direzioni, le aree pedagogico-educative e alla polizia penitenziaria. Ora, la circolare “rischia di ridurre drasticamente l’agibilità didattico-culturale in seno agli Istituti”. Lo esplicita, in una nota ufficiale, la Conferenza Nazionale Universitaria delle /dei Delegati delle/dei Rettori per i Poli Penitenziari (Cnupp), che esprime “grande preoccupazione per le misure adottate dal Dap che mettono a rischio un patrimonio di esperienze, di civiltà e di cultura al servizio del benessere della società, e in particolare la stessa presenza dell’Università in carcere e il diritto allo studio. Chiamiamo il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a un confronto costruttivo che consenta alle 47 università associate alla Cnupp di continuare a lavorare per garantire l’accesso allo studio universitario delle persone in esecuzione di pena”. In questo contesto, “sembra sempre più chiaro che Ministero della Giustizia e Dap vogliano accordare centralità principalmente alla custodia: la cosa più importante è il comparto sicurezza, a discapito dell’area trattamentale. Un’indicazione non di poco conto rispetto al criterio che guida le decisioni dell’esecutivo, tanto più che questa circolare è solo l’ultima di una serie di provvedimenti ravvicinati che hanno inasprito le condizioni dei detenuti” prosegue Calderone “Uno per tutti, per il circuito di Media sicurezza si è deciso che le persone che non partecipano alle attività debbano restare chiuse nelle stanze. Peccato che queste attività non siano garantite a tutti, innanzitutto per mancanza di spazi. Dovremmo tutti ricordarci che il trattamento è fatto dalla società esterna: le attività che ora rischiano di saltare sopperiscono a molte mancanze della vita in carcere”. E anche il Coordinamento dei magistrati di sorveglianza definisce allarmante ciò che sta succedendo: “Imponendo un forte livello di centralizzazione, la circolare rischia di compromettere molti dei progetti faticosamente portati avanti da cooperative, associazioni, mondo dell’educazione e di tutto il Terzo settore, con un aggravio notevolissimo circa i tempi di definizione delle autorizzazioni e la conseguente inevitabile riduzione delle attività trattamentali, che dovrebbero invece rappresentare l’asse portante di una reclusione volta alla risocializzazione”. Rivedere la Circolare sulle attività educative nel rispetto della costituzione e dell’ordinamento penitenziario di Giunta e Osservatorio Carcere dell’UCPI camerepenali.it, 20 novembre 2025 Gli accorgimenti burocratici non siano l’occasione per soffocare le istanze del trattamento rieducativo nel nome di una distorta concezione della sicurezza e della legalità. La circolare del 21 ottobre a firma del direttore generale detenuti e trattamento, Ernesto Napolillo, sulle attività educative della comunità esterna al carcere è stata al centro di un incontro tenutosi al Ministero della Giustizia. In quella sede, l’Unione delle Camere Penali Italiane ha ribadito le proprie critiche e riserve sulla circolare che, ponendosi in contrasto con l’art. 17 Ordinamento Penitenziario, che attribuisce il potere di autorizzare gli eventi culturali, ricreativi ed educativi, proposti dalla comunità esterna al carcere, al magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, rischia, attraverso la centralizzazione dell’iter autorizzativo, di limitare gli ingressi nelle carceri per attività educative, culturali e ricreative, della società esterna Alla decisione centralizzata, poi, si è aggiunta una serie di presupposti, requisiti e condizioni analiticamente elencati che rischiano di rendere impraticabile, per eccesso di zelo, lo svolgimento di attività culturali, educative e ricreative e, quindi, il contatto tra i detenuti e il mondo esterno al carcere, determinando, al contempo, lo stallo o la cancellazione di una serie di attività già programmate. Eventi sportivi, teatrali, letterali, laboratoriali a rischio per una circolare che, però, non può derogare né il dettato costituzionale, né l’ordinamento penitenziario. La stessa prescrizione, secondo la quale presso gli istituti che ospitano circuiti di alta sicurezza, collaboratori di giustizia e 41 bis, le attività trattamentali offerte da soggetti e associazioni esterne, anche se destinate ai soli detenuti in media sicurezza, necessitano, in via esclusiva, di autorizzazione da parte del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, rischia di comprimere le già limitate opportunità di trattamento. Un carcere sempre più chiuso rappresenta la negazione di ogni forma di recupero. Un carcere opaco rappresenta sempre più un luogo di segregazione e di isolamento sociale, di negazione di relazionalità, di esclusione dalla comunità civile. Un carcere blindato costituisce la precondizione per ogni forma e condotta di illegalità. Le esigenze della sicurezza devono essere garantite senza sacrificare gli spazi di libera partecipazione all’offerta formativa, fatta di occasioni di socialità, di condivisione del pensiero, di studio, di evoluzione nel rapporto con la società esterna; diversamente verrebbe tradito, inesorabilmente, il progetto luminoso dell’ordinamento penitenziario, approvato cinquant’anni orsono, che chiarisce, in linea con i principi costituzionali, che non può esistere punizione senza finalizzazione al recupero e alla restituzione nella società. L’Unione delle Camere Penali ha sollecitato, in occasione dell’incontro appositamente fissato al Ministero della Giustizia, la necessità di rivedere la circolare del 21 ottobre, ribadendo che l’autorizzazione agli ingressi in carcere della comunità esterna avvenga, al di là e oltre l’istruttoria dell’amministrazione penitenziaria, sempre ad opera della magistratura di sorveglianza, previo parere del direttore, in tempi certi e limitati, anche per l’amministrazione, per consentire lo svolgimento delle attività autorizzate. A tal fine, dando seguito alla opportunità offerta dalla interlocuzione con gli uffici competenti, si provvederà a trasmettere al Ministero una nota contenente l’indicazione delle criticità rilevate nella circolare e una serie di concrete proposte di revisione del testo. Mettere in carcere i ragazzini non è la soluzione, è parte del problema di Vincenzo Scalia L’Unità, 20 novembre 2025 I tragici fatti di corso Como, a Milano, con un giovane accoltellato da un gruppo di altri ragazzi in seguito al furto di una banconota da 50 euro, sembrano essere la ciliegina sulla torta per chi, a destra e a sinistra, riscopre la vocazione securitaria. A maggior ragione, vista la giovane età degli aggressori, legittimerebbe il varo del decreto Caivano, che ha ampliato il ruolo della sfera penale nel trattamento della devianza minorile. A una riflessione più accurata, però, si approda ad altre conclusioni. In particolare, quella che il carcere e le altre misure contenitive, non rappresentano la soluzione, bensì il problema, in quanto rimuovono la necessità di sciogliere dei nodi che aggrovigliano la società italiana odierna. La messa in atto di comportamenti violenti viene ascritta ai giovani, che infrangerebbero la patina di una società pacificata e armoniosa, secondo i desiderata del mercato. In realtà, ci insegna Wolfgang Sofsky, la violenza, nella modernità, non scompare mai del tutto. Si rimuove, si occulta, ma si ripropone sotto altre forme in contesti diversi. In una società permeata in profondità dalla competizione della società di mercato, disegnata sulla logica binaria dell’inclusione e dell’esclusione, è inevitabile che la violenza si manifesti. Soprattutto, quando gli adulti inscenano le ronde, vogliono ampliato il diritto alla legittima difesa, ritengono che la proprietà sia più sacra della vita. I giovani, con la fluidità e l’indefinitezza che li contraddistingue, recepiscono questa ondata di risentimento che pervade la società, e lo restituiscono sotto forme cruente, ancorché mediate dai social. Non è casuale che gli aggressori volessero realizzare un video delle conseguenze delle loro gesta per poi caricarlo. Al risentimento, si mescola l’aspetto espressivo, il voler manifestare la propria presenza, uscendo dalle maglie sempre più strette della marginalità che rende, tra le altre cose, anonimi. Un’esigenza espressa in forme violente e pericolose. Inoltre, nella rappresentazione dei fatti tragici di corso Como, troviamo un elemento di novità. L’apparato mediatico italiano, da trent’anni, si affanna a cercare la nazionalità o l’etnia degli aggressori, con la convinzione di trovarci un rom, un migrante, un rifugiato. Stavolta, la categorizzazione etnico-razziale, non viene utilizzata. Viene perciò sostituita da un altro tipo di schema binario, che parte dallo status della vittima. Si sottolinea che il giovane aggredito fosse un bocconiano, ovvero studente di una delle università più prestigiose d’Italia, destinata alle future élite. In altre parole, si tira fuori la differenziazione di classe, in una contrapposizione schematica tra i bravi ragazzi che vogliono trovarsi un posto nella società di mercato, e i selvaggi, marginali, perditempo, che li minacciano. Ecco che, dopo trent’anni di securitarismo spinto, emerge il convitato di pietra della sicurezza. I sicuri devono essere quelli che si integrano o tentano di integrarsi nella società neoliberista. La minaccia proviene sempre da chi dispone di minori risorse materiali, simboliche e relazionali. Soprattutto, che siano italiani contro migranti, rom e rifugiati, che siano bocconiani contro maranza, si punta sempre a tracciare un confine tra chi è ammesso al consesso civile e chi ne va escluso. Siamo in presenza della negazione esplicita dei conflitti laceranti che attraversano la società contemporanea. Si preferisce dividere, escludere, rimuovere, piuttosto che intervenire in profondità per sanare le fratture esistenti. Evitando di rendersi conto che il cumulo di zone rosse, Daspo, presidi di polizia, misure repressive, carcerazione di massa, lungi dal risolvere i conflitti, finiscono per esacerbarli, in quanto creano un bacino di esclusione permanente all’interno del quale si forma il brodo di coltura di nuove forme di devianza e violenza. Oppure, chi evita di farlo, lo sa. Altrimenti, come farebbe a prendere voti? Anche a sinistra. E ci dispiace molto sottolinearlo. “Delmastro non vincerà: in 3 anni il Governo ha causato danni irreversibili”, parla Ilaria Cucchi di Angela Stella L’Unità, 20 novembre 2025 “I problemi non nascono con questo Governo ma in tre anni ha causato danni forse irreversibili. Continueremo a visitare le prigioni e a denunciare, gli anticorpi della nostra democrazia resistono. Oltre a me, ci sono diversi parlamentari a denunciare la situazione delle carceri e ugualmente la società civile, nonostante le difficoltà, fa un lavoro straordinario, varcando quel confine ogni giorno per portare un po’ di speranza. Il ministero può rendere le cose più complicate, faticose. Ma questa forza non la può spezzare nemmeno Delmastro”. Senatrice Ilaria Cucchi (Avs), cosa pensa della circolare del Dap che accentra a Roma le richieste per le attività trattamentali esterne? Sembra una circolare studiata a tavolino per aumentare le sofferenze di chi il carcere lo vive ogni giorno. Al cittadino che non ha mai visto una cella può sembrare un piccolo passo, che non cambia nulla. Ma io le carceri le conosco, le ispeziono spesso, e so bene quanto la burocrazia possa essere letale nel disumanizzare i rapporti che si creano al loro interno. Un’attività che viene a saltare, magari all’ultimo, è un danno per tutti. Per i detenuti significa una possibilità in meno di pensarsi “fuori”, di trovare una via di riscatto. Per il personale significa fare i conti con la tremenda frustrazione che ne deriva: un malessere profondo, che subiscono gli stessi agenti. Alla fine ha vinto Delmastro? Se va detto che i problemi in carcere non nascono con Delmastro, è altrettanto vero che in questi tre anni si sono registrati passi indietro che rischiano di diventare irreversibili sul fronte dei diritti umani. Un accanimento motivato da un unico obiettivo: parlare alla pancia della gente, sperando che la propaganda finisca per valere più della realtà. Delmastro però non ha vinto, lo voglio sottolineare, perché gli anticorpi della nostra democrazia resistono ancora. Oltre a me, ci sono diversi parlamentari a denunciare la situazione delle carceri e ugualmente la società civile, nonostante le difficoltà, fa un lavoro straordinario, varcando quel confine ogni giorno per portare un po’ di speranza. Il ministero può rendere le cose più complicate, faticose. Ma questa forza non la può spezzare nemmeno Delmastro. Che ne pensa di come il Ministro Nordio sta gestendo la questione carcere? Io e Carlo Nordio siamo sempre stati lontani politicamente. Eppure, sentendo le sue dichiarazioni in campagna elettorale, speravo davvero che, anche nel caso in cui fosse andata al potere la destra, avrebbe dedicato le sue energie a riportare un po’ di dignità in carcere. Dopo tre anni, mi sono convinta che abbia un fratello gemello: non si spiega altrimenti la totale marcia indietro rispetto all’idea della depenalizzazione, che allora sembrava la sua stella polare. In questi anni la destra ha criminalizzato tutti i suoi nemici, facendo del carcere non l’ultima spiaggia del sistema, ma una tappa necessaria per tutte le categorie di persone che si vuole combattere. Un’idea profondamente illiberale, le cui conseguenze drammatiche sono oggi sotto gli occhi di tutti. In generale in materia di giustizia qual è il suo giudizio su questo Governo? Pessimo, perché il governo Meloni non ha niente a che fare con l’idea di Giustizia. Lo Stato dovrebbe dare risposte ai bisogni dei cittadini in modo che, come prevede la nostra Costituzione, ciascuno e ciascuna di noi si realizzi nella vita insieme agli altri. Le politiche della destra, a partire da quelle in tema di Giustizia, vanno invece nella direzione esattamente opposta: alimentano paura, odio e discriminazione; frammentano la popolazione in parti non comunicanti, che si guardano con sospetto, senza alcuna fiducia reciproca. Chi ci guadagna in una società del “tutti contro tutti”? Nessuno. Separazione delle carriere: il vero obiettivo è quello di un giusto processo o di voler ‘ricondurre’ la magistratura? Parlo, prima che da parlamentare, da persona che ha vissuto sulla propria pelle 15 anni di processi. Il problema non è la separazione delle carriere: è il sottodimensionamento del personale, i tempi lunghissimi che portano il cittadino a non credere nelle istituzioni, a sentirsi abbandonato dallo Stato. La riforma della destra è uno spot, un modo per dire agli elettori che di Giustizia si stanno occupando quando in realtà il loro obiettivo è nascondere la polvere sotto il tappeto. Solo che di polvere se ne sta accumulando sempre di più. E questo significa che la deriva non è più dietro l’angolo: ci siamo già dentro. Che idea si è fatta del caso Almasri? Quella che si sono fatti i cittadini ascoltando due ministri della Repubblica che, in Parlamento, raccontano due versioni diverse dei fatti, per poi arrivare a smentirsi, più volte - tutto questo, senza che a nessuno venisse in mente non dico di fare un passo indietro, ma almeno di chiedere scusa. L’immagine che esce dal caso Almasri è quella di un governo che non ha rispetto delle istituzioni e manca di qualsiasi credibilità, in Italia come all’estero. I Cpr in Albania al momento sono un fallimento ma la premier ha garantito che ‘funzioneranno’. Che ne pensa? Sto seguendo il caso di un ragazzo con problemi psichiatrici che, detenuto nel Cpr di Milano per più di nove mesi, è stato preso di forza e trasferito nella notte nel Cpr in Albania. Da lì, sono sicura che sia stato fatto tornare indietro, ma non ho più avuto informazioni sulle sue attuali condizioni, con il ministero dell’Interno che continua a rimpallarsi la responsabilità a livelli diversi. Ora, in cosa può funzionare un sistema in cui tutto questo non solo è ammesso, ma è la norma? Che voto darebbe sulla politica migratoria di questo Governo? L’unico voto possibile, zero. I giovani scappano dall’Italia perché qui non hanno un futuro. Le persone che arrivano, invece, che tra l’altro porterebbero un grandissimo valore aggiunto per una società anziana come la nostra, non siamo capaci di accoglierle. La politica migratoria del governo Meloni di fatto non esiste. Cosa ne pensa del nuovo pacchetto sicurezza lanciato dalla Lega qualche giorno fa? Rilanciare la propaganda è il modo con cui la Lega nasconde il proprio fallimento politico. Non contenti delle critiche provenienti dai massimi esperti sul dl sicurezza, hanno deciso di fare un passo in più per schiantarsi ancora contro lo Stato di diritto e le istituzioni internazionali, contro cui punteranno il dito in cerca di nuovi nemici. Conosciamo benissimo il loro gioco. E non ha mai portato a niente di buono. In generale crede che si vada sempre più verso uno Stato di Polizia? Non è Ilaria Cucchi a crederlo. Sono le istituzioni internazionali, a partire dall’Onu, che lo denunciano. Il 25 novembre è la Giornata contro la violenza sulle donne. Per quanto concerne il reato di femminicidio, davvero serve la leva penale? La minaccia del carcere non ha mai bloccato un femminicida. Oggi sappiamo perfettamente che dobbiamo educare alla sessualità e agli affetti, diffondere la cultura del consenso. Mesi fa ho presentato un disegno di legge proprio su questo: purtroppo, come testimoniano le recenti dichiarazioni di Valditara, la destra non ne vuole sapere. Addirittura, propongono di chiedere il consenso della famiglia per educare, quando è proprio in ambito familiare che molto spesso nasce la violenza. Una proposta fuori dalla realtà. La Cassazione dice sì al referendum: è conto alla rovescia di Valentina Stella Il Dubbio, 20 novembre 2025 Ammesso il quesito sulle carriere separate, il voto non potrà andare oltre la Pasqua, fissata per il 5 aprile. E intanto è bagarre sulle parole di Nordio sulla P2. L’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di Cassazione, ha ammesso le richieste di referendum da parte della maggioranza e dell’opposizione sulla riforma della separazione delle carriere. L’ordinanza, che porta la data del 18 novembre, verrà comunicata al Presidente della Repubblica, ai presidenti delle Camere, al presidente del Consiglio e al presidente della Corte costituzionale e verrà inoltrata entro cinque giorni dal deposito, “ai delegati dei parlamentari richiedenti” (Centro destra alla Camera: Simonetta Matone, Enrico Costa, Sara Kelany; centro desta al Senato: Marcello Pera, Pierantonio Zanettin, Enrika Stefani. Centro sinistra alla Camera: Luana Zanella, Chiara Braga, Riccardo Ricciardi; centro sinistra al Senato: Francesco Boccia, Francesco De Cristofaro, Stefano Patuanelli). Il quesito da sottoporre a referendum, si legge nell’ordinanza, in base alle suindicate quattro richieste e conformemente a quanto stabilito dall’art. 16 della legge n. 352 del 1970, sarà: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare” approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 253 del 30 ottobre 2025?”. Dunque nessun riferimento all’espressione “separazione delle carriere”: ipotesi a cui aspirava il centrodestra per poter proporre agli elettori un quesito più mediaticamente spendibile. Questo invece farà gioco all’Anm che potrà più facilmente dire che il cuore della modifica costituzionale non è tanto la divisione tra pm e giudici quando la riscrittura dell’assetto della magistratura. Ora però tutti si stanno chiedendo quando potrà essere indetto il referendum. Con l’ordinanza Piazza Cavour fa ufficialmente partire il conto alla rovescia che ci porterà alle urne e, norme e calcolatrice alla mano, non si potrà andare oltre Pasqua 2026 che è fissata per il 5 aprile. Vediamo perché. Su questo parla chiaro l’articolo 15 della Legge 25 maggio 1970, n. 352: “Il referendum è indetto con decreto del Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei Ministri, entro sessanta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza che lo abbia ammesso. La data del referendum è fissata in una domenica compresa tra il 50° e il 70° giorno successivo all’emanazione del decreto di indizione”. Quindi, dato che l’ordinanza è del 18 novembre, il range temporale che si apre è tra gennaio e marzo perché leggendo la legge appare chiaro che la macchina si è ufficialmente messa in moto e non occorre più aspettare che qualcuno raccolga ad esempio le 500 mila firme. Considerato pure che nessun partito, da quanto appreso in questi ultimi giorni, aveva l’intenzione e la voglia di farlo è presto detto che entro la fine di marzo ci esprimeremo sul ddl Nordio. Fonti sia di Palazzo Chigi che di via Arenula fanno sapere che si discuterà nei prossimi giorni su quando convocare il Consiglio dei Ministri. Anche perché la decisione della Cassazione è arrivata nel bel mezzo della bufera tra la premier e Mattarella. Comunque la data più plausibile, come suggerisce il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, è quella di inizio marzo. Pensare di tenere il referendum nel primo mese del 2026 è quasi impossibile sotto diversi punti di vista, basti pensare che col freddo le persone potrebbero rimanere a casa. Da scartare forse anche l’ultima domenica di marzo che sarebbe quella delle Palme. È difficile immaginare che si voglia portare i cittadini alle urne in un giorno di festività, con l’ipotesi che in molti partono per la settimana pasquale. Sicuramente per il Governo prima si fa e meglio è. Al contrario per l’Anm sarebbe conveniente procrastinarlo per far sgonfiare tutte le polemiche nate in queste settimane e per portare avanti una sempre più performante campagna comunicativa. E quest’ultima come procede? Dopo lo scivolone di Gratteri su Falcone, ieri anche Nordio è inciampato ma su Licio Gelli. Il Guardasigilli due sere fa all’esterno del carcere di Secondigliano (Napoli), dove era in visita con il candidato del centrodestra alla presidenza della Regione Campania, Edmondo Cirielli, ha detto rispetto alle parole del procuratore generale di Napoli, Aldo Policastro, secondo cui la riforma della giustizia metterebbe in pratica il piano della P2: “Io non conosco il piano della P2. Posso dire che, se l’opinione del signor Licio Gelli era un’opinione giusta, non si vede perché non si dovrebbe seguire perché l’ha detto lui. Le verità non dipendono da chi le proclama, ma dall’oggettività che rappresentano” aveva concluso Nordio. Per l’ex procuratore Armando Spataro, intervistato da Repubblica, le “parole di Nordio sono inaccettabili, la P2 era eversiva”. Mentre per il presidente del M5S, Giuseppe Conte, “le sue uscite estemporanee non sorprendono più, sono uscite sincere come quando ha detto che la legge sulla separazione delle carriere tornerà utile per qualsiasi forza si troverà al governo”. A stigmatizzare l’espressione del Ministro anche Angelo Bonelli di Avs e Andrea De Maria del Pd. Insomma chiunque davanti ad un microfono può incappare in qualche defaillance. E allora i faccia a faccia vanno ponderati con attenzione. Come anticipato ieri dal Fatto Quotidiano Fd’I starebbe pensando per la kermesse di dicembre di Atreju ad un dibattito tra Nordio e un big contrario alla riforma. L’ex pm di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, ha declinato l’invito perché parteciperà solo ad incontri organizzati dalla Fondazione Luigi Einaudi che ha promosso il comitato per il Sì di cui fa parte. L’altra ipotesi potrebbe essere un Nordio contro Gratteri ma le domande sono due: Nordio è pronto a fronteggiare uno tosto come Gratteri? E quest’ultimo è pronto a farsi rivedere in pubblico dopo le gaffe su Falcone? Santalucia: “Vogliono colpire il potere giudiziario. Ma la partita è aperta” di Valentina Stella Il Dubbio, 20 novembre 2025 Il presidente di Sezione della Cassazione critica la separazione delle carriere: “Riforma politica che riduce i controlli e rende i cittadini più fragili”. Giuseppe Santalucia, presidente di Sezione in Cassazione, già presidente dell’Anm, come spiegherebbe a un cittadino perché votare No? Lo farei offrendo il senso politico di questa riforma, così come illustrato dalla presidente Meloni e dal ministro Nordio: è una riforma che serve a ridimensionare il potere giudiziario e l’efficacia dei suoi poteri di controllo. Basti pensare alle dichiarazioni rese dalla premier sulla Corte dei Conti e a quelle del Ministro stupito “che una persona intelligente come Elly Schlein non capisca che questa riforma gioverebbe anche a loro, nel momento in cui andassero al governo”. Si riferisce anche al Sottosegretario Mantovano per cui la magistratura va “ricondotta”? Certamente. Queste dichiarazioni duramente franche dimostrano qual è l’atteggiamento della politica, con buona pace delle anime belle dell’Unione Camere penali che parlano ancora di terzietà del giudice. Un atteggiamento della politica che, a mio giudizio, è antistorico. Sembra che non si siano fatti i conti, non interamente, con quella grande riforma che è stata la Costituzione, che ha frammentato la sovranità in più centri istituzionali, superando modelli ottocenteschi in cui la politica pretendeva una assoluta supremazia sulle altre funzioni dello Stato. Valerio Spigarelli accusa di illogicità gli argomenti di voi contrari: il pm ora diventa più forte, ora perde indipendenza... Non c’è nessuna contraddizione: sono ambedue gli effetti di un’alterazione dell’equilibrio della Costituzione del 1948. Una enfatizzazione del ruolo del pm sarà inevitabile e, per porre riparo a quella ipervalorizzazione dell’accusa, già a livello di legge ordinaria sarà ben possibile, e conseguente, un ridimensionamento forte della figura del pm. Lo si farà creando una gerarchia interna e allentando il rapporto con la polizia giudiziaria, la quale è il collegamento con l’Esecutivo da cui dipende gerarchicamente. Quando parla di gerarchia, intende un super procuratore sul modello pensato anche da Marcello Pera? Sì, certo, anche lui ha detto che sarà inevitabile andare in questa direzione. Penso appunto alla eliminazione della cosiddetta diffusività del potere giudiziario. Mentre oggi le procure in qualche modo partecipano di questo potere diffuso, domani si dovrà creare un vertice in modo tale che si ridimensioni il potere inquirente. Sono le parole del Professor Pera che, con una lucidità encomiabile, ha detto ciò che penso anch’io. Ma se già oggi i passaggi di funzione tra pm e giudici sono bassissimi, cade la questione della cultura della giurisdizione... La cultura della giurisdizione non risiede soltanto nei passaggi funzionali, è appunto di contesto culturale che verrà meno. Quindi ci sarà nel tempo un mutamento culturale tra le due magistrature, e molti sperano e confidano anche nella rottura dell’unità associativa. Il consigliere del Csm Andrea Mirenda, va ripetendo che non è il sorteggio ad umiliare il Consiglio ma il correntismo... Il correntismo per carità è un male, però c’è un problema di misure, di proporzione. Non posso rispondere a quel problema creandone uno assai più grande. Questo è quello che non accetto nelle parole del consigliere Mirenda. Che idea si è fatto della campagna referendaria di queste settimane? Penso anche alle fake news su Falcone e Borsellino... Secondo me è molto triste usare Falcone e Borsellino, da una parte e dall’altra. Per il resto io non capisco perché il mondo dei giuristi teorici e pratici si stia dividendo su questo. Il senso politico della riforma non può essere accantonato e marginalizzato con ragionamenti che, rispetto al cuore della vicenda, degraderei a marginali disquisizioni tecniche, quelle su terzietà e equidistanza del giudice, su cui la Corte costituzionale si è espressa più volte, ribadendo che sono già presenti nel nostro sistema. Potrebbe essere utile chiedere al Ministro Nordio, che ha già dichiarato di essere a buon punto nella scrittura delle leggi di attuazione, di mettere a disposizione di tutti le bozze. Sarebbe un atto di trasparenza apprezzatissimo e darebbe a tutti contezza della vera direzione di marcia della riforma. Lei è rimasto colpito anche quindi dalla posizione di Augusto Barbera? Più che sorpreso, mi sembra che si legga questa riforma attraverso le lenti di un dibattito datato, dei tempi della bicamerale degli anni novanta se non ancora più risalenti. Bisognerebbe leggerla invece nel contesto temporale in cui viviamo, guardando a tutto ciò che sta avvenendo in gran parte dell’occidente. Si usa un vecchio armamentario per leggere una riforma che ha un tono e un registro molto chiaro, che è quello che ci hanno detto i politici, con una franchezza che, ripeto, io ho apprezzato. Alcuni magistrati attraverso interviste pubbliche si stanno schierando per il Sì. È un problema per l’Anm? Che singoli magistrati possano essere favorevoli alla riforma non mi sorprende. Non è un problema di categorie professionali e di interessi di categoria. È infatti sbagliato pensare che la magistratura nel suo complesso sia contraria alla riforma perché questa priverebbe i magistrati di privilegi. Se fosse così potrebbe stranire il favore di singoli magistrati. Ma, appunto, così non è. È invece una riforma che interessa la nostra comunità nazionale e che renderà il cittadino comune più debole e meno tutelato. Altro, invece, il discorso per il cittadino potente. Lui sì che potrà trarre vantaggio. Lei è preoccupato che al momento in Pd non sia sceso fortemente in campo? Non conosco i fatti e le dinamiche interne del Pd. Ho sentito più volte l’onorevole Schlein fare dichiarazioni pubbliche che ho apprezzato. Spero che quella sia la linea nel suo partito. Non sono preoccupato, confido molto nella saggezza dei cittadini. Quando si è trattato di toccare la Costituzione sono stati sempre estremamente saggi e cauti. Tuttavia al momento i sondaggi vi danno sotto di 10 punti... Sono convinto che questi sondaggi saranno ribaltati. È facile avere qualche punto in più se si domanda a un cittadino qualsiasi “vorresti una giustizia migliore?”. La stessa domanda la potremmo fare per la sanità: “vorresti una sanità migliore?”. Tutti diremmo “sì certo”. Ma quando si tratterà di votare credo che questo semplicistico approccio sarà superato dagli elettori. L’ha detto anche la Presidente Meloni in qualche uscita pubblica: “noi siamo per una giustizia migliore, i cittadini che vogliono una giustizia migliore voteranno a favore”. Questa semplificazione del gioco porta chiaramente qualche vantaggio in più ai fautori del Sì, ma si scioglierà come neve al sole nell’urna. Il presidente Cesare Parodi si è ritirato dal dibattito con Nordio per evitare l’effetto politicizzazione. Lei avrebbe fatto lo stesso? Io avrei fatto ciò che avremmo deciso collettivamente. Non ci sono solisti nell’Anm. Ma a prescindere dalla decisione unitaria lei cosa avrebbe suggerito? Mi rendo conto che oggi il gioco a cogliere in fallo un fantomatico avversario è quotidiano. Ci accusano di occupare i palazzi perché facciamo una manifestazione assembleare, ci accusano di avere una concezione proprietaria della giustizia, ci accusano dell’impensabile. Tutte queste accuse che stanno piovendo adesso sono il sintomo del nervosismo tra i fautori della riforma e mi fanno capire che forse un po’ più di prudenza è necessaria per non prestare il fianco a inutili polemiche. Quando parla di “gestione proprietaria” si riferisce alle parole di Spigarelli? Sì, ma è una delle tante voci che si aggiunge a questa rappresentazione della magistratura totalmente lontana dalla realtà. Credo che la magistratura in questo sia assolutamente coerente, sta facendo una battaglia di grande testimonianza ideale e culturale. Penso anche che certe battaglie si debbano fare perché hanno valore in sé al di là del risultato. Resterà la testimonianza, che non sarà infeconda, di una magistratura all’altezza del suo ruolo e della sua storia. Quindi sbaglia Spigarelli a dire che siete stati contrari sempre a tutto? Io non condivido ovviamente la lettura di Spigarelli, che ho sempre molto apprezzato per acume e per intelligenza. Mi sembra che anche lui legga il presente senza approfondirne l’esame. Io non ho mai usato nell’argomentare il mio dissenso, come pure si potrebbe fare, il piano di Rinascita democratica del capo della P2, ad esempio. Dobbiamo piuttosto chiederci: cosa stiamo facendo in questo momento storico, in cui il potere giudiziario è avversato in molte democrazie post- liberali? Come si fa a ignorare questo vento che spira sempre più potente in molte parti del nostro mondo contro la reale effettiva indipendenza del potere giudiziario? Intervista a Francesco Petrelli sul Sì delle Camere Penali alla riforma della giustizia di Giuseppe Ariola L’Identità, 20 novembre 2025 “La scelta di istituire un comitato per il Sì è l’esito di un percorso naturale perché l’Unione delle Camere Penali coltiva questa riforma da oltre un trentennio, giungendo poi nel 2017 anche a raccogliere 72 mila firme per una sua proposta di riforma costituzionale della giustizia di iniziativa popolare. Possiamo dire, con un certo orgoglio, che quella riforma depositata in Parlamento è stata poi l’impronta genetica della riforma Nordio”. Non nasconde una certa soddisfazione l’avvocato Francesco Petrelli, presidente dell’Unione delle Camere Penali e alla guida del comitato referendario dei penalisti per il Sì alla riforma della giustizia. Cosa prevedeva quella proposta? “Avevamo già immaginato il sistema dei due Consigli Superiori della magistratura, il Csm dei pubblici ministeri e Csm dei giudici. Entrambi presieduti dal Capo dello Stato quale massima garanzia di autonomia e di indipendenza”. Si può dire che il comitato per il Sì al referendum parte da lontano... “Anche nel 2017, al fine di raccogliere quelle firme, fondammo un comitato. Scendemmo nelle strade, uscimmo dai nostri studi e facemmo una straordinaria esperienza parlando con i cittadini, spiegando il significato di quella riforma. Un nuovo comitato per il sì è l’evoluzione di quella scelta. La nostra idea è proprio quella di uscire ancora una volta dai nostri studi per fornire ai cittadini tutte quelle informazioni che una campagna referendaria, purtroppo molto conflittuale e polarizzata, potrebbe far passare in secondo piano. Vogliamo far comprendere che non si tratta di una contesa partitica, nè di uno scontro tra maggioranza e opposizione e tanto meno di un conflitto tra avvocatura e magistratura. Far comprendere che si tratta di una riforma trasversale, pensata per una giustizia migliore, negli interessi del Paese, è il compito del nostro comitato”. Eppure c’è la tendenza a politicizzare il referendum... “La polarizzazione dello scontro è un danno per la politica del paese. Perché il tifo da stadio non aiuta a far crescere la consapevolezza di certe scelte importanti come sono quelle che riguardano la giustizia penale. Se si riesce a rompere questo accerchiamento, allora si riesce a fare della buona informazione, soprattutto smentendo alcune parole d’ordine che circolano nel fronte del No. La prima è quella relativa ai destini del pubblico ministero, su cui si sentono versioni diametralmente opposte all’interno dello stesso fronte. Da un lato abbiamo il dottor Gratteri che dice che questa riforma trasformerà il pubblico ministero in un sonnolento burocrate e che le procure saranno indebolite. Dall’altra parte c’è il presidente dell’Anm, il dottor Parodi, che dice esattamente il contrario, cioè che questa riforma trasformerà il pubblico ministero in un super poliziotto che coltiverà soltanto finalità contrarie agli interessi della giustizia”. Questo significa che? “Quando di una stessa norma si danno delle interpretazioni così divergenti vuol dire che si tratta di opinioni che sono evidentemente fondate su di una avversione di tipo ideologico e non, invece, come dovrebbe essere, su un’analisi tecnica del testo”. Lei cosa ne pensa? “Che è falso che questa riforma serva a indebolire i giudici e i pm o a renderli dipendenti dalla politica. Si tratta di una affermazione così priva di fondamento che per smentirla basta leggere il quesito approvato dalla Corte di Cassazione. All’articolo 3 del testo si dice che la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composto da magistrati di carriera giudicante e di carriera requirente. Più chiaro di così un testo della Costituzione non potrebbe essere”. Questa riforma non va nella direzione già prevista dalla Costituzione in merito alla terzietà del giudice oltre che in scia con quanto sancito dal Codice Vassalli? “È riconosciuto da tutti i costituzionalisti ed i processualisti che esiste inevitabilmente un nesso tra il tipo di governo, di organizzazione della magistratura e il modello processuale di un Paese. Per essere franco, è per questo motivo che sono sorpreso dal fatto che la magistratura e parte importante della sinistra difendano un ordinamento che abbiamo ereditato dal fascismo. Perché fu l’ordinamento giudiziario del Guardasigilli Grandi del 1941 a volere “l’unità spirituale della magistratura”. Un modello, però, compatibile con lo Stato autoritario del ventennio, e con un codice inquisitorio, ma non con la Costituzione Repubblicana. Poi, con il Codice Vassalli il Paese ha fatto una scelta fondamentale, voltando pagina rispetto al modello autoritario e antidemocratico del processo inquisitorio, e adottando un codice accusatorio. Successivamente, con la modifica dell’articolo 111 della Costituzione, è stato affermato il principio della parità delle parti davanti al giudice terzo”. C’è chi - anche qualche comitato per il No - sostiene che la riforma della giustizia sia punitiva nei confronti dei magistrati... “La riforma tende solo a realizzare una giustizia più equilibrata e più trasparente attraverso la netta distinzione tra giudice e pm, una distinzione di cui il cittadino evidentemente oggi non può beneficiare sapendo che chi è arbitro della sua libertà condivide con il suo accusatore un’unica organizzazione, progressioni di carriera e disciplina. La riforma opera un riequilibrio che non ha nulla di punitivo nei confronti della magistratura, anzi tende a legittimare la magistratura rendendola più forte, più indipendente e soprattutto più autorevole”. Idillio a Montecitorio. Sì corale alla legge che riscrive il reato di stupro di Francesca Spasiano Il Dubbio, 20 novembre 2025 Primo via libera alla Camera alla proposta bipartisan di Pd-FdI: la riforma introduce il principio di consenso “libero e attuale” nella fattispecie di violenza sessuale. Dimenticatevi la bagarre. La scontro sull’educazione sessuale che aveva incendiato l’Aula appena una settimana fa è già un lontano ricordo, ora che a Montecitorio torna il sereno. Di più: una parentesi d’idillio tra tutte le forze politiche, che oggi hanno votato all’unanimità, con 227 voti a favore, la proposta di legge che riforma il reato di violenza sessuale. Ora la parola passerà al Senato per il via libera definitivo. Ma il grosso del lavoro è già fatto, come certifica il lungo applauso che si è sollevato dai banchi della maggioranza e dell’opposizione. Dopo le parole dell’ex presidente della Camera Laura Boldrini, che per prima ha proposto la legge. E quelle di Carolina Varchi, che l’ha “ereditata” come relatrice di Fratelli d’Italia insieme alla dem Michela Di Biase. Loro l’accoro bipartisan raggiunto in commissione Giustizia, che una settimana fa aveva approvato all’unanimità il testo licenziato alla Camera dopo i colloqui diretti tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein. Con una telefonata decisiva tra le due leader, si racconta, che aveva dato il via libera alla riforma che introduce anche in Italia il principio del consenso “libero e attuale”. Il testo approvato sostituisce per intero l’articolo 609-bis del codice penale, che attualmente fonda la definizione di stupro sulla costrizione tramite violenza, minaccia o abuso di autorità. Tali condotte restano invariate, ma il paradigma ora si rovescia, introducendo il consenso come elemento principale della fattispecie, che prevede pene da sei a dodici anni di carcere. Il modello è già consolidato in ventuno Paesi europei, da ultimo con la legge approvata in Francia. Perché lo richiede la Convenzione di Istanbul, ratificata dal Parlamento italiano nel 2013. Da allora si è cercato di allineare anche il nostro Paese alla nuova concezione di violenza, che “rompe” con l’idea di una forza fisica invincibile per contemplare le condizioni di “paralisi” o terrore in cui si può trovare la vittima. La Cassazione aveva già ampliato il campo, anticipando in qualche modo il legislatore. Ma il principio del consenso ora è messo nero su bianco, e non senza qualche voce critica, nel mondo dei giuristi, per l’impatto che la riforma potrà avere sul processo penale e le garanzie difensive. Ne ha dato conto, nel suo intervento in Aula, anche Carolina Varchi. Per la quale “questa riforma ha la pretesa di eliminare dal campo la confusione, perché su un reato così delicato, che genera un allarme sociale, non ci può essere un dubbio interpretativo e non ci può essere una esagerata discrezionalità”. “Il consenso deve essere libero, attuale ed effettivo: non simulato, non viziato e sempre contestuale alla condotta. È una riforma ormai indispensabile per tutelare davvero la libera autodeterminazione della persona”, ha aggiunto l’esponente di FdI. Che ha chiarito: “Seguiamo l’evoluzione dei comportamenti sessuali mettendo al centro la libertà della persona. Vogliamo evitare sentenze difficilmente comprensibili che nel passato hanno dato la sensazione di lasciare impunite le violenze sessuali”. A partire dalla più famosa, la cosiddetta “sentenza sui Jeans” (Cassazione penale, 10 febbraio 1999, n. 1636). Ma anche le più recenti, da Busto Arsizio a Macerata, che hanno sollevato un acceso dibattito per la tendenza, nei casi di stupro, a porre la donna sul banco degli imputati. “Oggi diciamo basta. Basta alle sentenze nei casi di stupro in cui l’accusato viene assolto perché lei “doveva sapere cosa aspettarsi”, perché lei aveva già avuto rapporti e quindi era “in condizione di immaginarsi i possibili sviluppi della situazione”. Basta a “se manca il dissenso non c’è violenza”“, ha scandito Boldrini. Per la quale alcune delle obiezioni di chi paventa una eccessiva burocratizzazione dei rapporti sessuali (“dovremo compilare dei moduli prima di metterci a letto?”) rientrano in una “becera campagna di fake news”. “L’unica cosa che serve è un sì. Un sì libero ed esplicito”, ha chiosato l’esponente dem. A cui si aggiungono le parole della relatrice del Pd, Di Biase, per la quale la riforma rappresenta “una rivoluzione culturale, prima ancora che giuridica”. Di “piccola grande rivoluzione” parla anche la segreteria dem Schlein, che intercettata dai cronisti in Transatlantico si dice “felicissima”. Ma l’entusiasmo è condiviso anche dalle esponenti del centrodestra, come la senatrice e vice presidente del Senato Licia Ronzulli. E Deborah Bergamini, vicesegretario nazionale di Forza Italia, per la quale “l’approvazione del provvedimento che rafforza la tutela delle vittime di violenza sessuale rappresenta un passo avanti di grande civiltà”. Torino. La Garante dei detenuti Diletta Berardinelli: “Il Cpr è peggio del carcere” di Rebecca De Bortoli La Stampa, 20 novembre 2025 Visita alla struttura di Torino con il sindaco Stefano Lo Russo: “Mettere nello stesso spazio persone che hanno commesso reati e altre che sono trattenute solo per la mancanza di un permesso di soggiorno è profondamente ingiusto e poco lungimirante”. “Il CPR a volte è molto peggio di un carcere”. Non usa mezzi termini Diletta Berardinelli, nuova Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Torino, insediata da pochi mesi. È quanto afferma al termine del sopralluogo effettuato oggi alle 15.45 nel Centro di Permanenza per i Rimpatri, insieme al sindaco Stefano Lo Russo. “Almeno in un istituto penitenziario - aggiunge - esistono attività. Qui invece ci sono persone che trascorrono fino a tre mesi senza alcuno stimolo. Non è così che si affrontano i flussi migratori: la libera circolazione per motivi economici non può essere trattata come un reato”. Monitoraggio caso per caso - Dalla riapertura della struttura si registrano circa 360 ingressi, 200 dimissioni e appena 40 rimpatri. “Dati che mostrano l’enorme impiego di risorse”, osserva la Garante, ricordando che, nonostante gli sforzi dei gestori, il centro “resta una struttura indecorosa che annienta la dignità umana”. Berardinelli ha avviato un monitoraggio caso per caso: “Valuto le singole situazioni per capire come intervenire, considerando la storia personale e gli aspetti amministrativi e giuridici, così da evitare che restino trattenute persone che non dovrebbero esserlo”. “Situazione critica” - Il sindaco Lo Russo condivide le preoccupazioni della Garante: “Da un punto di vista funzionale il CPR è identico a un carcere. Le persone sono trattenute in spazi recintati, sorvegliati da un numero molto elevato di forze dell’ordine, e vi trascorrono le giornate in attesa della definizione del loro status giuridico”. Ribadisce poi che queste strutture “non rappresentano una soluzione al tema dei flussi migratori”. Nel centro torinese sono attualmente presenti 67 persone, un numero vicino alla capienza massima prevista dalla convenzione con la prefettura, pari a 70. Secondo la Garante la situazione interna è “oggettivamente critica”. “Ingiusto mettere insieme chi non commette reati e chi sì” - Nel CPR convivono persone con percorsi radicalmente diversi: migranti senza permesso di soggiorno, individui con precedenti penali e uomini e donne che vivono in Italia da decenni senza alcun trascorso giudiziario. “Ho incontrato persone che parlano perfettamente italiano e non hanno mai commesso reati”, sottolinea Lo Russo. “Mettere nello stesso spazio persone che hanno commesso reati e altre che non hanno mai avuto problemi con la giustizia, ma che sono trattenute solo per la mancanza di un permesso di soggiorno, è profondamente ingiusto e poco lungimirante”, affermano congiuntamente il sindaco e la Garante. Il nodo della gestione delle patologie psichiatriche - Lo Russo aggiunge: “Invece di contenere la pericolosità sociale di chi commette reati, si rischia di creare situazioni di degrado che colpiscono anche chi non ha mai avuto comportamenti criminali, ostacolandone poi l’inserimento sociale”. La criticità più grave riguarda la gestione delle patologie psichiatriche. “Esiste un vuoto normativo - spiega Berardinelli -: queste persone non sono idonee alla permanenza nel CPR, ma una volta dimesse non vengono prese in carico da alcun servizio. Restano sole, pur soffrendo di problematiche importanti”. “Struttura detentiva a tutti gli effetti” - Lo Russo ricorda che “la prefettura di Torino ha siglato con l’Asl un protocollo per la presa in carico da parte dei servizi sanitari”. Inoltre, la Garante segnala che “la recente sentenza del Consiglio di Stato impone un aggiornamento del capitolato sanitario per colmare le lacune nella gestione di questi casi. Attendiamo i prossimi passaggi, la legge impone di intervenire”. Secondo Berardinelli, “nemmeno i recenti lavori di ristrutturazione modificano la natura del centro: si tratta a tutti gli effetti di una struttura detentiva, con stanze collettive da sei posti, spazi delimitati e sorveglianza costante”. Lo Russo conclude: “Non possiamo pensare di gestire l’immigrazione attraverso luoghi che rischiano di creare degrado anche in chi non ha mai commesso reati. Con strutture di questo tipo si rendono più difficili i percorsi di inclusione. Oggi persone con diagnosi psichiatriche vengono rilasciate senza presa in carico e circolano in città, mettendo a rischio se stesse e gli altri”. Reggio Emilia. Bocchi (FdI): “Garantire un’assistenza sanitaria adeguata ai detenuti” di Giorgia Tisselli cronacabianca.eu, 20 novembre 2025 Il consigliere evidenzia che frequenti episodi di trascuratezza medico-sanitaria sono segnalati all’interno degli istituti penitenziari. Chiarezza sulla situazione dell’assistenza sanitaria negli istituti di detenzione. Priamo Bocchi (FdI), in un’interrogazione, chiede alla Regione di fare chiarezza in merito al tragico episodio avvenuto nel carcere di Reggio Emilia e, in generale, sulla situazione dell’assistenza sanitaria negli istituti di detenzione della regione. “Il 10 aprile 2022, nel carcere di Reggio Emilia, dov’era arrivato il giorno prima, moriva il detenuto Giuseppe Convertino di 39 anni. Dall’autopsia emerse che il trentanovenne morì per edema polmonare emorragico dovuto a un’insufficienza respiratoria provocata da un’intossicazione acuta da metadone - spiega il consigliere -. Dalle indagini svolte risulterebbe, infatti, che al detenuto fosse stata prescritta una dose iniziale di metadone da 100 mg, eccessiva e non commisurata alle condizioni del detenuto e ai protocolli medici. Per tali fatti il Tribunale di Reggio Emilia ha chiesto il rinvio a giudizio per un medico e un’infermiera, accusati di omicidio colposo, in cooperazione, nell’esercizio dell’attività sanitaria”. Questo episodio, commenta Bocchi “è il più tragico che si è registrato recentemente, ma altri e frequenti episodi di trascuratezza medico-sanitaria sono segnalati all’interno degli istituti penitenziari”. Il meloniano ricorda che alla sanità penitenziaria regionale sono destinati complessivamente 16,9 milioni di euro, così ripartiti: 3,9 milioni di euro all’Ausl di Bologna, 3,5 milioni all’Ausl di Parma, 2,6 milioni all’Ausl di Modena, 2,3 milioni all’Ausl Romagna, 1,7 milioni all’Ausl di Piacenza, 1,5 milioni all’Ausl di Ferrara e 1,3 milioni a quella di Reggio Emilia e che a queste risorse si aggiungono i 510 mila euro del Fondo sanitario nazionale per sostenere gli oneri relativi al personale negli Istituti penitenziari. In definitiva, Bocchi chiede alla Giunta se non ritenga che il criterio di ripartizione dei fondi, in base al numero di detenuti in ogni provincia, debba essere modificato prevedendo che il carcere di Parma, promosso a carcere a incarico superiore, con Servizio Assistenza Intensificata e una sezione paraplegici, sia dotato di maggiori risorse. Infine, chiede quali azioni abbia intenzione di intraprendere al fine di garantire un’assistenza sanitaria adeguata ai detenuti. Cassino (Fr). Il Garante: “Sovraffollamento del 175%: no all’ottava branda nelle celle” di Laura Martellini Corriere della Sera, 20 novembre 2025 L’allarme lanciato da Stefano Anastasìa. Alcune reti aggiunte dopo il crollo della volta della seconda rotonda di Regina Coeli. Il garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Lazio, Stefano Anastasìa, ha effettuato oggi con il suo staff un’approfondita visita di monitoraggio alla casa circondariale di Cassino. E ne è emerso un quadro allarmante: “L’istituto soffre per un sovraffollamento del 175% (163 detenuti per 93 posti regolamentari effettivamente disponibili). Un’epidemia di scabbia si è apparentemente appena esaurita. “L’istituto - ha dichiarato Anastasìa - è in grave sofferenza per sovraffollamento. Dopo il crollo della volta della seconda rotonda di Regina Coeli - ha proseguito - in alcune stanze è stata aggiunta l’ottava branda, in letti a castello (in palese violazione dei parametri della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della Cassazione), che solo oggi è stata liberata dagli occupanti. Ringraziando la direzione, il comando della polizia penitenziaria, l’area educativa e l’area sanitaria per la disponibilità e la cortesia mostrate nel corso della visita. Invierò loro una relazione con la segnalazione di criticità e raccomandazioni, evidenziando - ha concluso - fin da ora, la necessità di rinunciare in via definitiva all’ottava branda nelle camere detentive”. Matera. Emergenza sanitaria e sovraffollamento. Il carcere visto da dentro di Maria Clara Labanca* napolimonitor.it, 20 novembre 2025 La scorsa estate, a seguito di ripetute tensioni createsi all’interno del carcere di Matera, una certa attenzione mediatica si concentrava sul funzionamento dell’istituto e sulle sue criticità. Dopo una visita alla casa circondariale, la garante regionale per i detenuti Tiziana Silletti denunciava una situazione insostenibile in termini di sovraffollamento, con 197 detenuti a fronte di 132 posti (dato coerente con quello di tutte le strutture della regione Basilicata, che si attesta sul 144 per cento). Poche settimane dopo, l’associazione Luca Coscioni, che aveva lavorato a un report sulla situazione sanitaria delle carceri della regione, comunicava che l’azienda sanitaria materana non aveva fornito alcuna documentazione a dispetto della richiesta di accesso civico agli atti. Con il passare dei mesi, a dispetto di una situazione rimasta pressappoco immutata, l’interesse per le condizioni del corpo detentivo dell’istituto materano sembra essersi sopito. Nel tentativo di rialzare il livello di attenzione su quanto accade in quel carcere, e ovviamente in tanti altri istituti del paese, pubblichiamo a seguire un resoconto della dottoressa Maria Clara Labanca, medico penitenziario e membro dell’associazione Yairaiha. *** Celle sovraffollate, personale sanitario insufficiente e accesso alle cure estremamente limitato: questa è la realtà quotidiana del carcere di Matera. La struttura, progettata per centotrenta posti, ospita stabilmente oltre centosettanta detenuti, con punte superiori alle duecento unità. In questo contesto, il diritto alla salute dei detenuti risulta sistematicamente compromesso. Il presidio sanitario funziona in maniera frammentaria. La mattina non è presente alcun medico, e a volte il peso della gestione di casi clinici complessi ricade sugli infermieri, costretti a intervenire senza supervisione diretta. Le visite mediche, effettuate nel pomeriggio, si svolgono in modo molto concitato a causa della carenza di personale di polizia che limita gli spostamenti dei detenuti. Questo comporta un aumento del rischio di diagnosi incomplete, visite superficiali e ritardi nella presa in carico di patologie rilevanti. Di notte, tutte le emergenze ricadono su un unico medico, senza supporto infermieristico, compromettendo ulteriormente la capacità di intervento tempestivo. La salute mentale dei detenuti è un ambito particolarmente critico. Lo psichiatra effettua interventi solo due ore a settimana, a fronte di un numero elevato di soggetti con disturbi psichici spesso associati a problemi di tossicodipendenze. In assenza di percorsi terapeutici strutturati, molti di essi vengono trattati con psicofarmaci senza adeguato inquadramento diagnostico, aumentando il rischio di effetti collaterali e senza risolvere le problematiche esistenti. Inoltre, alcuni agenti penitenziari esercitano pressioni indebite sui medici affinché somministrino sedativi o ipnotici, trasformando il trattamento psichiatrico in strumento di controllo piuttosto che in intervento terapeutico. Non sono neanche infrequenti episodi di tensione tra personale sanitario e di polizia penitenziaria, di fronte a un rifiuto da parte del medico nella prescrizione di questa tipologia di farmaci. La carenza di supporto psicologico e di personale qualificato determina un peggioramento dei disturbi psichici, con ricadute sulla sicurezza interna e sul benessere dei detenuti. Le visite specialistiche rappresentano un ulteriore fattore di criticità. Consultazioni come quelle gastroenterologiche, infettivologiche o oculistiche possono richiedere mesi di attesa, talvolta oltre un anno. Le carenze nell’ambito del Nucleo Traduzioni, incaricato di accompagnare i detenuti agli appuntamenti esterni, provoca rinvii sistematici. Anche quando l’azienda sanitaria fissa regolarmente gli appuntamenti, questi spesso non vengono rispettati perché non viene presa visione delle comunicazioni e delle prenotazioni, privando i detenuti delle cure pianificate. Molti detenuti si trovano in condizioni di grave criticità clinica a causa di patologie acute o croniche, ma la presa in carico è frequentemente ritardata o inadeguata. Il trasferimento verso strutture idonee è subordinato alla produzione di documentazione che attesti l’incompatibilità con il regime detentivo, determinando ritardi nell’accesso a interventi sanitari appropriati e, in alcuni casi, esiti clinici sfavorevoli. Le strutture e le attrezzature sanitarie risultano insufficienti. Mancano cartelle cliniche informatizzate, dispositivi diagnostici e terapeutici adeguati e personale specializzato in grado di utilizzarli. La combinazione di infrastrutture carenti e organico ridotto compromette la tempestività nell’identificazione e nel trattamento delle patologie, riducendo significativamente la qualità della presa in carico sanitaria. Il sovraffollamento e la carenza di personale di sicurezza aggravano ulteriormente la situazione. Le quattro sezioni della struttura - Accoglienza, Giudiziario, Sirio e Pegaso - ospitano centinaia di persone in spazi inadeguati e obsoleti. Le carenze di personale complicano la gestione dei piantonamenti ospedalieri e delle udienze, spesso impossibili da svolgere tramite collegamento da remoto. Tuttavia, il carcere di Matera è solo l’emblema di un sistema penitenziario in crisi. Sovraffollamento, carenze di personale e un presidio sanitario inadeguato espongono quotidianamente i detenuti a rischi clinici significativi. Senza interventi strutturali urgenti, la detenzione rischia di trasformarsi in un tempo sospeso, in cui i diritti fondamentali, primo fra tutti quello alla salute, restano sistematicamente negati. *Associazione Yairaiha Ets Udine. Al centro Balducci si parla di condanne, pene e carcere udinetoday.it, 20 novembre 2025 Venerdì 21 novembre alle 18 la Sala Petris del centro Balducci di Zugliano ospiterà Conoscere per superare i pregiudizi e costruire rete sul territorio. L’evento segna la costituzione ufficiale della Conferenza regionale volontariato e giustizia del Friuli Venezia Giulia Odv, che da anni opera attraverso la collaborazione di diverse realtà territoriali per dare concretezza ai percorsi di risocializzazione delle persone private della libertà, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche dell’esecuzione della pena e sull’importanza dell’ascolto delle vittime di reato. La Crvg ha l’obiettivo di coordinare e sostenere le attività di volontariato nel settore giustizia della regione e di mantenere un confronto con la Conferenza nazionale per la condivisione di tematiche e la promozione di progetti comuni. È il frutto di un’ampia collaborazione che prosegue da anni tra le realtà di volontariato regionale, tra cui molte in provincia di Udine. Il suo obiettivo è abbattere le barriere del pregiudizio e rafforzare le reti di sostegno sul territorio per una comunità più equa e solidale e garantire, così, maggior sicurezza e benessere sociale. L’appuntamento sarà l’occasione per parlare di giustizia e comunicazione in un contesto di volontariato attivo. All’introduzione a cura di Paolo Iannaccone, presidente del centro Balducci, seguiranno - moderati da Elisabetta Burla, garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale del Comune di Trieste e precedente portavoce della CRVG Fvg, gli interventi di Ornella Favero, presidente della Cnvg, giornalista e direttrice della rivista Ristretti orizzonti, che affronterà il tema dell’affettività in carcere, ed Elton Kalica, dottore di ricerca in Scienze sociali e redattore di Ristretti orizzonti, che affronterà il tema dell’esecuzione della condanna e umanità della pena. Lucca. Spettacolo realizzato nelle carceri per la giornata contro la violenza sulle donne luccaindiretta.it, 20 novembre 2025 In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne il prossimo martedì (25 novembre) l’auditorium Vincenzo Da Massa Carrara ospiterà alle 20,30 lo spettacolo Fermati, voglio solo parlarti!, spettacolo ad ingresso libero fino ad esaurimento posti, che ha l’obbiettivo di trasformare un luogo di detenzione in un laboratorio di consapevolezza collettiva frutto del percorso teatrale che la compagnia Experia e Empatheatre portano avanti da anni negli istituti carcerari di Lucca, San Gimignano e Massa. L’iniziativa nasce all’interno del progetto Fuori e dentro le mura, che ha l’obbiettivo di creare un ponte tra la comunità esterna e chi vive un periodo di detenzione, favorendo connessioni utili al reinserimento e offrendo alla società la possibilità d’ interrogarsi su stigma, responsabilità e dinamiche collettive. La scelta di portare questo spettacolo sul territorio si lega a una riflessione più ampia sul senso del 25 novembre condotta dall’amministrazione comunale e dalla commissione per le pari opportunità: “Vogliamo che il 25 novembre non sia una ricorrenza da segnare in calendario - dice l’assessora Madalina Golea - ma il culmine di un percorso: mesi fa abbiamo incontrato l’associazione Experia, che ci ha illustrato il lavoro portato avanti nelle carceri e la scelta di dedicare questo progetto proprio alla violenza di genere. Da quell’incontro è iniziato un percorso di riflessione sul tema che culmina in questo spettacolo. Dobbiamo portare la sensibilizzazione nei luoghi meno comuni e offrire spazio a questo lavoro significa riconoscere che anche nei luoghi più complessi possono nascere consapevolezze capaci di interrogare e arricchire l’intera comunità”. “La commissione per le pari opportunità - aggiunge la presidente, Grazia Mara - ha scelto di sostenere questo spettacolo perché ricorda a tutti e tutte che la violenza di genere non è un fatto isolato, un raptus, ma il risultato di dinamiche profonde che riguardano tutta la società. Portare sul territorio il lavoro nato dentro le carceri significa riconoscere che anche nei contesti più fragili possono maturare percorsi di consapevolezza e di cambiamento. Il 25 novembre è per noi memoria e responsabilità: quella di continuare a interrogarci su ciò che possiamo fare, ciascuno e insieme, per prevenire la violenza e costruire relazioni più giuste”. Negli ultimi cinque anni, Empatheatre e Experia hanno, infatti, creato gruppi composti da detenuti con permessi di uscita e cittadini, concentrandosi sui temi più sensibili dell’attualità. La violenza di genere è uno dei temi più sentiti all’interno del carcere, fino a portare alla creazione del reading teatrale proposto a Porcari, costruito e rielaborato nei laboratori di San Gimignano e Massa. Al termine dello spettacolo è previsto, inoltre, un momento di confronto anche sul tema della giustizia, intesa come responsabilità sociale, prevenzione e possibilità di recupero. Piano economia sociale, record di proposte dal mondo del non profit di Paolo Foschini Corriere della Sera, 20 novembre 2025 Più di cento tra risposte, proposte e documenti inviati. E un “record di consultazioni”, sul sito del Ministero dell’economia e finanze, per il testo del Piano nazionale dell’economia sociale. “Segno evidente che di questo strumento c’era un grande bisogno”: a dirlo è Gabriele Sepio, che nella redazione del Piano ha svolto un ruolo di coordinamento tecnico. Più di cento tra risposte, proposte e documenti inviati. E un “record di consultazioni”, sul sito del Ministero dell’economia e finanze, per il testo del Piano nazionale dell’economia sociale. Il “segno evidente che di questo strumento c’era un grande bisogno e che esso tocca le corde di un mondo che lo aspettava da molto tempo”: a dirlo è Gabriele Sepio, che nella redazione del Piano ha svolto un ruolo di coordinamento tecnico. Il documento era stato varato dal governo a metà ottobre scorso e il Ministero aveva lasciato tempo fino al 12 novembre affinché organizzazioni di categoria, sindacati, Enti del terzo settore, mondo cooperativo, delle cooperative e così via potessero esprimere le proprie valutazioni. “La risposta così ampia è la testimonianza - sottolinea Sepio - di un interesse che accomuna modelli pur diversi tra loro come quelli della cooperazione, dello sport, del Terzo settore, degli enti religiosi, delle fondazioni di origine bancaria, del credito cooperativo, delle imprese sociali. E il denominatore comune sta nel riconoscimento del primato della persona nonché degli interessi collettivi e generali della società”. Certo, quello compiuto finora è solo il primo passo. Peraltro portato a termine dopo una esplicita sollecitazione da parte dell’Unione europea i cui dati di crescita - ricorda lo stesso Sepio - dimostrano che l’economia sociale ingloba di anno in anno settori di economia sempre più rilevanti: è il motivo è evidente, visto che con l’aumento dei bisogni (età della popolazione, povertà, disuguaglianze, migrazioni, emergenza casa) è inevitabile dover mettere a punto un sistema (anche) economico e non solo sociale che di questi bisogni si faccia carico. Non a caso l’economista Paolo Venturi aveva definito, sulle pagine di Corriere Buone Notizie, l’arrivo del Piano come uno “spartiacque”. Le prossime tappe, a questo punto, sono l’approvazione definitiva del Piano e la progressiva messa a punto della sua traduzione pratica. Molto rilevante a questo proposito, come aveva sottolineato Venturi e come ribadisce ora Sepio - è il fatto che il Piano nel suo insieme sia in carico al Mef: in primo luogo perché “questa è la conferma che l’economia sociale è sì definita da un perimetro previso ma non è un recinto scollegato dal resto”; e poi perché appunto al Mef spetterà il ruolo di “coordinamento e raccordo con altri Ministeri, ciascuno dei quali copre settori parziali dell’economia sociale”. Un passaggio fondamentale in questo senso - conclude il coordinatore tecnico - è la costituzione di una “Direzione dedicata” all’interno del Ministero con una delega specifica sull’economia sociale: “Non è la prima volta che una tale delega viene assegnata, ma è la prima volta che viene stabilizzata”. Essere “Liberi di scegliere”: la battaglia sui minori per affrancarli dalla mafia di Chiara Daina Corriere della Sera, 20 novembre 2025 In 10 anni tolti alla criminalità 200 ragazzi. Il programma coinvolge spesso le mamme. Ddl per consentire il cambio di generalità. L’idea di Roberto Di Bella. L’aiuto di Libera. Ci sono dei boss dell’ndrangheta che dal carcere gli scrivono lettere per ringraziarlo di aver tolto i loro figli dalla spirale della criminalità organizzata e avergli permesso di rifarsi una vita. Non se lo aspettava Roberto Di Bella quando nel 2012, da presidente del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria, mise in piedi il progetto “Liberi di scegliere” per dare un’alternativa esistenziale ai minori provenienti da famiglie mafiose e fu tacciato dai clan di “deportare i bambini”. Ma dopo più di dieci anni la svolta culturale è incominciata, anche dietro le sbarre, e oggi si aspira a rendere obbligatorio in tutti gli uffici giudiziari del Paese il sistema di protezione di questi bambini e adolescenti, che prevede il loro allontanamento da casa se vengono indottrinati e coinvolti nel narcotraffico e altre attività illecite oppure se la loro vita è in pericolo. A prevederlo è un disegno di legge bipartisan che verrà licenziato nelle prossime ore dalla Commissione parlamentare antimafia. Intanto, negli ultimi cinque anni il progetto dal distretto giudiziario reggino si è esteso anche a Catania, Palermo, Napoli, Milano e Catanzaro, grazie a protocolli d’intesa sottoscritti con diversi ministeri, tra cui quello della Giustizia, la Cei, Libera e altre associazioni. “Liberi di scegliere”, attraverso la sinergia tra istituzione pubblica e privato sociale, aiuta i minori e le madri che vivono in contesti di stampo mafioso ad affrancarsi dalla mentalità criminale e a costruirsi un futuro diverso. L’équipe di assistenti sociali e volontari di Libera, con il supporto delle Caritas locali, aiuta i bambini a frequentare la scuola e seguire attività culturali e sportive. Mentre nei casi più gravi, procura un alloggio fuori dalla regione di origine, occupandosi dell’inserimento scolastico e lavorativo e fornendo sostegno psicologico, sociale ed economico finché c’è bisogno. “Avevo visto troppi giovani finire agli arresti, o morire, per aver seguito le orme malavitose dei fratelli più grandi e dei padri - racconta Di Bella, che attualmente presiede il Tribunale dei minorenni di Catania -. Non esistono vite segnate per sempre: lo Stato, prima che il ragazzo commetta reati, può offrire una via di uscita verso la legalità, l’autodeterminazione e la felicità che ancora non conosce, perché cresciuto in un mondo chiuso e violento, fatto di logiche criminali e obbedienza totale al clan familiare”. Patrizia Surace, coordinatrice del progetto, fa un primo bilancio: “Ad oggi abbiamo preso in carico circa 200 minorenni, di cui la metà inseriti nel programma con le proprie madri, e 34 donne in tutto, alcune diventate collaboratrici o testimoni di giustizia”. Il magistrato sottolinea che “tre boss apicali hanno deciso di collaborare con le autorità giudiziarie dopo l’intervento a tutela dei figli e, nel caso di un nonno, dei nipoti”. Ma in certi casi si corre il rischio di essere rintracciati. “Vivo col terrore che gli affiliati del mio ex, rinchiuso al 41 bis, trovino me e i miei figli. È già successo due volte e siamo dovuti scappare. Io ho fatto la mia parte, denunciando e abbandonando la mia terra, ora lo Stato mi deve garantire protezione”. A sfogarsi è la ex moglie di un camorrista, bloccata in un limbo: “Qui ci siamo inventati nomi di fantasia, solo i dirigenti scolastici e i medici conoscono la nostra identità. Faccio la volontaria perché non posso registrare un contratto di lavoro con le mie generalità”. Cambiare nome - La senatrice Vincenza Rando, prima firmataria della proposta di legge che verrà depositata in Senato, spiega che “l’approvazione del testo di legge è importante perché consente a queste persone di cambiare nome e cognome, come per i collaboratori di giustizia, e introduce un fondo per formare operatori e assicurare la stabilità degli aiuti durante il percorso di autonomia”. La sfida più grande è l’educazione dei ragazzi. “Sono diffidenti e vedono l’intervento del Tribunale come una punizione. Per incoraggiarli a scoprire i loro talenti devono potersi fidare - riferisce la coordinatrice Surace. Il dialogo inizia quando gli offriamo occasioni concrete di crescita, come gli studi in psicologia, un corso professionale da cuoco, meccanico, estetista, la possibilità di giocare a calcio e fare teatro”. La legalità nella società va coltivata, innanzitutto, con i semi della cultura. I film stessi fungono da strumenti educativi. Come quello ispirato al progetto antimafia di Di Bella, uscito nel 2019 e prodotto anche dalla Rai, dal titolo “Liberi di scegliere”. “Tanti ragazzi prendono il coraggio di cambiare vita dopo averlo guardato”, rivela il magistrato. “Antonino”, invece, è il titolo del cortometraggio di Angelo Campolo, che dirige l’associazione culturale Daf Project e a Messina organizza laboratori di teatro per giovani strappati alla mafia. Antonino è uno di questi. “Prima non potevo leggere, né parlare o decidere come vestirmi. La dignità che ti dà la libertà non è negoziabile” scandisce l’ex moglie del boss, ora libera di scegliere. Milano, lo studente di Ingegneria che di notte addestra i maranza: “La violenza mi fa star bene” di Allegra Ferrante Corriere della Sera, 20 novembre 2025 Figlio unico di un notaio del centro, nipote di una delle famiglie storiche della borghesia milanese, ora è in cura psichiatrica. A maggio è stato incastrato da due minorenni che aveva istigato a rapinare un passante. Il coltello brilla un istante sotto i neon in via di Tocqueville. Non gli serve toccarlo. Ne misura la geometria: “Questo no. Te lo portano via alla prima perquisa”. Si muove con sicurezza. “È lui, il milanese”, lo annunciano. Filippo (nome di fantasia) è l’istruttore di un piccolo branco di maranza: li aggancia, li fa sentire scelti, li addestra a scippi e rapine. Ha vent’anni, studia Ingegneria gestionale al Politecnico, media del 28. Figlio unico di un notaio del centro, nipote di una delle famiglie storiche della borghesia milanese, quelle con il cognome inciso sulle targhe di ottone e sugli inviti della Triennale. “La psichiatra dice che sono un curatore della violenza altrui”. Il Corriere ha ascoltato il suo racconto. Ore 23. Angolo via Rosales. Filippo si apposta, scuote un pacchetto intonso di sigarette elettroniche. È il richiamo. Quando due sedicenni gli si avvicinano - cappucci tirati, occhi che sfuggono - lui sorride. “Non fate i cani sciolti”. Li adesca così. Regali calibrati: un paio di auricolari, scarpe della Nike appena uscite nei negozi, gli dà quell’attenzione mai sperimentata. “Parlo con loro, li ascolto”. Poi l’ordine asciutto: “Voi seguite. Io comando. Imparate”. Li trascina nei parcheggi retroilluminati di via de Cristoforis. È lì che li plasma. Prima la scelta della preda: “I vestiti mentono. È dalle mani che capite se va abbattuto o evitato”. Poi i colpi veri: aggressioni feroci, violenza secca da marciapiede. E mentre i minorenni fanno il giro dell’isolato per strappare una collanina, lui resta appoggiato al muro. “Non voglio i soldi”, ripete. Il bottino se lo fa riportare, sì, più per rituale che per guadagno. Non colpisce mai in prima persona, lo fa fare agli altri. La sua diagnosi parla chiaro: disturbo borderline con tratti antisociali. Lui la riduce così: “Di notte finalmente esisto”. Da sei mesi, ogni martedì alle 18, si siede nello studio di una psichiatra in zona Cadorna e inizia a parlare. “Non faccio male perché non mi conviene. Ma dentro mi sale...”. Quando li vede colpire, si calma. “È come se la violenza fosse mia. Mi fa stare bene”. Eppure, alla luce del giorno, nulla tradisce il ruolo che si è costruito: lezioni, appunti ordinati, caffè presi con misura. La sera rientra tardi senza far rumore, posa lo zaino nella stanza ben rifatta dai domestici. Nell’ultima seduta, lo specialista scrive: “Tendenza a creare micro-gruppi manipolati per compensare vuoto identitario”. Con il monito: “Rischio di condotte etero-aggressive indirette”. Il venerdì che rovina il suo gioco arriva a maggio. Davanti a un minimarket in via Borsieri all’Isola, tre dei ragazzi che lui ha formato accerchiano un uomo: vogliono il suo orologio. Una spinta di troppo, un piede che scivola, una testa che batte sull’asfalto. Due minorenni vengono fermati vicino ai binari di Garibaldi. In questura pronunciano il suo nome. “È l’ingegnere. Senza di lui non avremmo fatto nulla”. Alle 7.40, due auto civetta si fermano sotto il palazzo elegante liberty in cui abita. La portinaia non si insospettisce: crede siano tecnici del boiler. Gli agenti salgono, bussano. Filippo apre in felpa. Sul tavolo, gli appunti di Analisi. “Fate piano”. Chi sono gli aggressori di corso Como: l’oratorio a Monza, le pose da maranza e le coltellate di Federico Berni Corriere della Sera, 20 novembre 2025 I magistrati: “Disumana indifferenza”. Il calcio, la palestra per rafforzare un fisico ancora mingherlino, la scuola. E quel vizio di “alzare le mani” e darsi pose da “maranza”, da “gente dei quartieri difficili”, che sembra stridere con il loro retroterra di ragazzi cresciuti giocando a “Fortnite” e frequentando l’oratorio estivo nella periferia tranquilla di Monza. Eppure sarebbero stati pronti a “colpire di nuovo”, dopo aver quasi ucciso un ragazzo poco più grande di loro, “indifferenti all’altrui sofferenza” secondo quanto emerso dalle ultime novità investigative. Chi li ha visti dopo che la polizia ha bussato a casa loro per eseguire un ordine di carcerazione per tentato omicidio, ha notato in alcuni di loro un’evidente vulnerabilità, pelle e ossa in tuta e ciabatte, lo sguardo basso. Hanno ridotto in fin di vita un 22enne studente della Bocconi a calci e pugni, colpendolo con due coltellate che gli hanno provocato danni irreversibili, rendendolo con alta probabilità invalido per il resto dei suoi giorni. I magistrati parlano di “disumana indifferenza”, e peraltro, da quanto risulta dagli atti dell’inchiesta e dalle intercettazioni, erano anche pronti a “cimentarsi nuovamente”, nello “sfogare” quella loro violenza “gratuita” per portarsi a casa la prossima volta più di una banconota da 50 euro (il bottino della rapina allo studente ndr). E di quei propositi di altre violenze in stile “arancia meccanica” ne parlavano tra loro, coi poliziotti a pochi metri di distanza che li registravano. I fatti risalgono al 12 ottobre, durante un’uscita serale da Monza nei locali della zona di corso Como, uno dei poli del divertimento milanese, per festeggiare il compleanno di uno dei tre minorenni del gruppo. Quella sera sarebbero stati respinti all’ingresso da qualche club, ed è finita con un brutale pestaggio, sfociato quasi in omicidio. Vicenda che gli indagati sono riusciti a rendere ancora più grave, con i commenti intercettati dalla polizia nella sala d’attesa della Questura di Milano, quando si auguravano che il ferito morisse (“se serve vado a staccargli i cavi”) o si vantavano delle loro gesta (“Io anche voglio vedere il video, voglio vedere se ho picchiato forte”). I cinque ragazzi ripresi nel video di un impianto di videosorveglianza mentre picchiano potranno dare la loro versione al gip. Due hanno 18 anni, gli altri 17. Sono tutti di Monza, figli di quello che una volta si sarebbe chiamato ceto medio, anche se oggi certe categorie sono più sfumate. Uno dei 17enni, figlio di un agente di commercio, studia al Mosè Bianchi, un istituto che contempla vari indirizzi didattici, senza particolari sofferenze scolastiche (giusto un debito recuperato in estate). Un altro gioca a calcio in una società sportiva monzese e vive in un elegante condominio (il padre sarebbe un bancario), dove la famiglia è chiusa a riccio. Il terzo vive a poche centinaia di metri in linea d’aria. Anche lui cresciuto frequentando l’oratorio e giocando ai videogame, ma, ricordano sempre i giovani della stessa zona, con il vizio di menare le mani (“un bullo”). I parenti tutelano la loro privacy. Oltre il tabù: la scelta delle Kessler di Mauro Covacich Corriere della Sera, 20 novembre 2025 L’uscita di scena delle gemelle e le domande sulla vita che riguardano tutti. La scelta delle gemelle Kessler ci offre un dono a cui è difficile rinunciare, la possibilità di parlare di un vero tabù, il suicidio. A ben vedere, nel caso delle due signore quasi novantenni, non si tratta infatti di suicidio assistito, anche se tecnicamente viene definito così, bensì della decisione che Ellen e Alice hanno preso ritenendo di aver vissuto abbastanza e di potersi accordare una fine volontaria. Due donne sane, agiate e soddisfatte della lunga esistenza condotta fin lì. Niente a che vedere con le persone afflitte da una grave malattia che chiedono un fine vita dignitoso perché costrette a sofferenze inaudite, documentate da cartelle cliniche, oltre che dalle loro dichiarazioni disperate. Ma niente a che vedere nemmeno con chi compie il cosiddetto gesto estremo per una delusione amorosa, un senso profondo di fallimento, una grave depressione, o una più impalpabile inconciliabilità con la vita, inconciliabilità che magari con l’assistenza e le cure adeguate di uno psicoterapeuta si sarebbe potuta attenuare, se non proprio risolvere. Qui si tratta invece del tipo di suicidio che ci fa più paura, perché attiva in noi il sistema immunitario della nostra cultura, in un modo o nell’altro figlia del Cristianesimo. Qualcosa che, a prescindere dall’essere credenti, tocca nel profondo il valore che noi attribuiamo alla vita, la sua sacralità. Sentiamo ingiusto e quasi blasfemo che qualcuno possa essersi semplicemente stancato di esistere, che un essere umano come noi senta di aver compiuto la sua avventura terrestre e preferisca la morte a un’altra colazione, a un’altra passeggiata, a un’altra sigaretta contemplando le folli picchiate delle rondini al tramonto, insomma le tante piccole cose che rendono gradevole, o perlomeno accettabile, la nostra giornata. Chi è cresciuto in un Paese cattolico, anche se ateo, inconsciamente sente la vita come un dono e la accetta nella sua interezza, con tutte le avversità che spesso comporta. Ma c’è anche chi ne coglie l’insensatezza, uno scrittore come Albert Camus, ad esempio, che la paragona alla fatica di Sisifo, ovvero la condanna a una ripetizione insulsa e inane. Oppure gente ispirata dalla poetica di Giacomo Leopardi, che punta il dito sul fatto incontestabile che siamo stati gettati sulla terra senza la nostra volontà né uno straccio di spiegazione. In ogni caso, il gesto delle gemelle Kessler non si inscrive in queste filosofie negative verso la vita, la loro non è una protesta, nemmeno una critica. Non c’è traccia di nichilismo nel loro passato, semmai di un convinto slancio vitale. Il che schiude la possibilità di una prospettiva per noi nuova e al tempo stesso in dialogo con altre culture, lontane nello spazio o nel tempo, eppure prossime al nostro destino e per nulla sacrileghe. Lo Shintoismo, ad esempio, è la religione dominante in Giappone, per la quale il suicidio è una pratica ammessa, considerando la vita come un passaggio verso la separazione del corpo dallo spirito, che abbandonerà la terra per riposare nello Yomi, il Mondo dell’Oscurità. Ma neanche il Buddismo, ancorché sostenuto da un’escatologia diversa, condanna il suicidio. Per non dire dei nostri antichi avi stoici, greci e romani. Lo stoicismo non solo ammetteva il suicidio, ma lo riteneva la scelta più giusta nei casi in cui l’individuo riteneva compiuta la parte che il Logos universale gli aveva destinato. Gli stoici sostenevano che la relazione tra l’uomo e l’Universo è la stessa di un cane legato a un carro. Il cane ha due possibilità: seguire la marcia del carro o resisterle. La strada sarà la stessa, ma adeguandosi all’andatura del carro il cane procederà senza dolore. Quando il cane non sarà più in grado di stare al passo col carro, piuttosto che farsi trascinare nella polvere potrà gettarsi tra le ruote. “Ducunt volentem fata nolentem trahunt”, il destino guida chi lo accetta e trascina chi è riluttante, così pensava Seneca, senza che la sua condotta abbia mai lasciato credere che non amasse la vita. È probabile che Ellen e Alice abbiano avvertito che il Fato iniziava a trascinarle e, riassaporando tutti momenti belli che hanno vissuto, abbiano preferito privarci della loro compagnia prima che il carro di un trantran di colpo svuotato di senso finisca per schiacciarle. Ci mancheranno, ma dobbiamo far tesoro della loro ultima cruciale esperienza, guardarla in faccia senza paura. Non chiamatelo dramma. Quella delle Kessler è una scelta legittima: da noi lo sarebbe? di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 20 novembre 2025 Il loro caso mostra quanto sia urgente una legge in Italia. Le gemelle Alice ed Ellen Kessler hanno avuto, come trovo scritto, una vita meravigliosa nel mondo della danza e poi la loro storia diviene un “drammatico errore”, (Ansa) perché hanno deciso di restare unite nella “danza della morte”. Nulla, invece, di “drammatico”. Le gemelle Kessler insieme e nel rispetto delle condizioni della Corte costituzionale tedesca hanno voluto fare l’ultimo percorso della vita, essere pienamente consapevoli di quel tratto terminale che non poteva avvenire casualmente, ma di cui dovevano essere pienamente proprietarie. Spesso si dice che non è importante morire presto o tardi, ma morire bene. E morire bene significa sfuggire al pericolo di vivere male. Credo che la vita delle Kessler sia stata bella e altrettanto bella e commovente la loro morte. Legittimo il desiderio che non fosse questa a prenderle in un momento ignoto, “in un mondo - come ebbe a dire Dj Fabo - senza colori”, ma che fossero loro ad affrontarla insieme e in un momento stabilito. È pressoché scontato chiedersi se quello che è lecito in Germania lo sia anche in Italia. Nel nostro Paese il “bene vita”, il “fine vita” sono argomenti da tempo centrali nella discussione del biodiritto. Argomentazioni controverse, ideologie contrapposte in merito alla regolazione di come morire, in un’era caratterizzata dall’avanzamento delle tecnologie biomediche che configurano inedite condizioni di esistenza. La legge n. 219/2017 “Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento” ha introdotto una regolazione sul rifiuto e rinuncia ai trattamenti sanitari sulla base dell’autonomia del soggetto, sul dovere di astenersi da ostinazione irragionevole di cure sproporzionate, sulla liceità della sedazione profonda e delle disposizioni anticipate di trattamento. Con la sentenza n. 242/ 2019 la Corte Costituzionale è intervenuta sulla questione del suicidio assistito, dichiarando incostituzionale la norma 579 c. p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Una sentenza avvalorata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha conosciuto una evoluzione, il cui approdo finale è rappresentato dall’esplicito riconoscimento del diritto di ciascuno di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà. Rimane che non è data nessuna possibilità per chi soffre di malattie psichiatriche. Tuttavia, la pronuncia della Cassazione ha determinato un passaggio dal “lasciar morire”, già recepito dalla L. n. 219/ 2017, “all’aiuto a morire medicalizzato”, ora non punibile, qualora sussistano le procedure e le condizioni del paziente indicate nella sentenza. Pertanto, viene dalla Corte mantenuto il reato di aiuto al suicidio, attribuendo valore alla vita e ci si allontana, comunque, da una diversa situazione: quella in cui il soggetto si avvalga per la sua morte del prodotto letale somministrato da un terzo (un medico, un familiare, un amico, ecc.). Per il nostro ordinamento questo è ancora un atto criminoso, definito come “omicidio del consenziente” (art. 580 c. p.) e generalmente indicato come eutanasia. Resta, comunque, che malgrado l’invito della Corte al legislatore di consolidare e precisare alcuni passaggi della sentenza entro un anno, ancora a distanza di sei anni manca una normativa e i progetti di legge, nel condividere a fatica i principi della Corte, tendono a porre ulteriori limiti all’aiuto al suicidio e alla modifica dell’art. 579 c. p. La proposta al Parlamento può anche suscitare una qualche perplessità in quanto, come è stato osservato, dovrebbe essere hic et nunc di spettanza della Corte decidere su delicate questioni di costituzionalità, evitando di correre il rischio di situazioni paradossali. Non era affatto scontato, infatti, che il legislatore accogliesse l’invito della Corte di disciplinare normativamente l’aiuto al suicidio. Tanto più che non è la prima volta che il Parlamento ignora o lascia troppo a lungo senza risposta le indicazioni della Corte costituzionale. La necessità allora non può che essere che in sede parlamentare si faccia un passo avanti, non lasciando che “l’aiuto al suicidio” continui a restare nel vago di diverse letture giurisprudenziali o di normative regionali, in merito al contenuto, ai limiti, agli organi di controllo e all’ampiezza delle “condizioni scriminanti” contenute nel corpo della sentenza. Anche se non deve essere sottovalutato il rischio che nei confronti del malato terminale si possa determinare l’aspettativa di una scelta verso la morte ritenuta socialmente o, peggio, economicamente preferibile, penso che ciò non dipenda necessariamente dalla liceità o meno delle scelte eutanasiche o dalla possibilità di consentire al paziente di accettare o rifiutare i trattamenti terapeutici, anche salva vita, ma dall’attuale cultura della morte. Il modo cioè con cui una società tratta i morenti. Migranti. I governi Ue frenano sulla redistribuzione. Cipro fa da sponda all’Italia: la solidarietà è necessaria di Marco Bresolin La Stampa, 20 novembre 2025 Nicosia guiderà la presidenza dell’Unione da gennaio e punta a chiudere i negoziati sul Patto. Il ministro Ioannides: “Non basta pagare, l’onere dell’accoglienza va condiviso”. Parte tutto in salita il negoziato tra i governi Ue per mettere in pratica il piano della Commissione, che ha chiesto agli altri Stati membri di aiutare l’Italia, la Spagna, la Grecia e Cipro, vale a dire i Paesi che secondo Palazzo Berlaymont si trovano ad affrontare una pressione migratoria “spropositata”. Il primo incontro a livello tecnico tra gli esperti delle 27 capitali ha visto emergere una netta resistenza all’ipotesi di redistribuire i richiedenti asilo (almeno 30 mila) dai quattro Paesi mediterranei. E il muro non riguarda soltanto gli Stati Visegrad, che avevano manifestato pubblicamente la loro indisponibilità: nessuno, per il momento, ha offerto la disponibilità ad accogliere i richiedenti asilo che si trovano nei Paesi Ue più esposti ai flussi. “Ci sono disaccordi” ammette Nicholas Ioannides, viceministro del governo cipriota e responsabile del portafoglio sulle politiche migratorie. Da gennaio sarà Nicosia a guidare la presidenza di turno dell’Unione e dunque a cercare un compromesso tra gli Stati membri sul meccanismo di solidarietà messo sul tavolo dalla Commissione e sulla chiusura degli altri dossier legislativi che verranno integrati nel Patto migrazione e asilo, la cui entrata in vigore è prevista per giugno. “Cipro ha bisogno della redistribuzione - spiega il cipriota -. Ma molti altri Paesi hanno posizioni diverse. Non è che non intendano far parte del meccanismo di solidarietà, ma sono contrari alla redistribuzione. Capisco le loro preoccupazioni, che sono assolutamente legittime, ma il meccanismo di solidarietà è uno strumento indispensabile per tutti gli Stati membri e in particolare per quelli di frontiera, come Cipro”. Il nuovo Patto prevede l’obbligo di contribuire per tutti i Paesi, lasciando però libera la scelta se farlo con l’accoglienza oppure pagando 20 mila euro per ogni richiedente asilo rifiutato. “Noi chiediamo la redistribuzione e non soltanto i fondi” insiste Ioannides. Nicosia teme che un’ondata migratoria possa portare le strutture dell’isola al collasso. “Già oggi - prosegue l’esponente del governo - i richiedenti asilo rappresentano il 5% della nostra popolazione, molto più della media Ue. Se scoppiasse una nuova crisi, noi non saremmo in grado di gestire un flusso di migliaia di migranti. Non avremmo spazio nelle nostre strutture per ospitarle e per offrire loro condizioni di vita decente, dunque avremmo bisogno di redistribuirli nei Paesi che hanno maggiori capacità”. La prossima settimana i ministri dell’Interno dei Med5 - vale a dire Italia, Grecia, Cipro, Malta e Spagna - si ritroveranno a Malta proprio per fare il punto e coordinare le loro posizioni in vista del negoziato con gli altri Paesi. “Questo formato ci ha già permesso di promuovere alcune idee comuni e di portarle a livello Ue”. Proprio la presidenza cipriota dovrà condurre i negoziati con il Parlamento su alcuni dossier legislativi relativi alle cosiddette “soluzioni innovative”, in primis quello che prevede i centri per i rimpatri fuori dal territorio Ue, ma anche sui concetti di “Paese terzo sicuro” e “Paese d’origine sicuro”. Si tratta di aspetti considerati controversi da molte associazioni umanitarie perché vedono una stretta ai limiti del diritto. Nonostante l’interesse a promuovere una linea rigorosa, Cipro vuole però avanzare con molta cautela su questo dossier: “Vogliamo che le soluzioni innovative abbiano solide basi giuridiche, perfettamente in linea con i princìpi Ue e con il diritto internazionale”. Medio Oriente. Esecuzioni in 90 giorni e niente appello. Ecco la pena di morte targata Israele di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 20 novembre 2025 Il disegno di legge che vuole introdurre in Israele la pena di morte per i terroristi “che uccidono ebrei in quanto ebrei” con un’esecuzione prevista entro novanta giorni dalla condanna e senza alcuna possibilità di appello, segna un punto di non ritorno nella deriva autoritaria che sta attraversando lo Stato ebraico. È una rottura profonda con la cultura giuridica democratica nel suo complesso, che considera il diritto al ricorso un cardine irrinunciabile e una tutela minima contro l’arbitrio dello Stato. Il fatto che la misura sia promossa apertamente dal ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir, leader di Otzma Yehudit e figura simbolo della nuova destra radicale israeliana, mostra la direzione politica verso cui si sta cercando di spingere il paese: una giustizia più rapida, più dura, meno verificabile, fondata su un’idea di sicurezza che prevale su quella di garanzia. Persino delle dittature conclamate dilatati tra sentenza e pena. In Iran il ricorso alla Corte Suprema è una tappa obbligata; in Arabia Saudita l’esecuzione può avvenire in tempi relativamente brevi (massimo due anni) ma solo dopo tre gradi di giudizio; in Cina la Corte Suprema Popolare è tenuta a confermare personalmente ogni condanna, una procedura che allunga i tempi e introduce un filtro ulteriore. Il modello israeliano proposto dall’ala più estremista del governo Netanyahu si collocherebbe dunque non soltanto al di fuori degli standard liberaldemocratici, ma addirittura a un livello di minore garantismo rispetto a sistemi apertamente autoritari. È un dato storico e politico notevole che impedisce di ridurre il dibattito a una semplice misura di sicurezza: ciò che è in gioco è una ridefinizione del rapporto tra Stato e cittadino, tra potere e diritti, tra violenza legale e controllo democratico. La pena di morte in Israele, dal processo Eichmann in poi, è rimasta una possibilità prevista dalla legge ma praticamente inutilizzata: l’esecuzione del pianificatore della Shoah venne accompagnata da appello alla Corte Suprema e da una petizione di grazia, a testimonianza di un sistema che, pur di fronte a un imputato colpevole di atrocità inenarrabili, non rinunciò all’idea che la giustizia debba essere verificabile, controllabile, contestabile La proposta attuale, invece, è concepita in senso opposto: una procedura abbreviata, identitaria, che distingue le vittime sulla base della loro appartenenza etnica e concentra potere nelle mani di giudici militari o civili potenzialmente sottoposti a pressioni politiche. L’identità della vittima diventa parte della definizione stessa del reato e della pena, un cambiamento profondo nel modo in cui lo Stato concepisce la neutralità del diritto. Questo scarto emerge in un contesto politico già segnato da tensioni esasperate tra governo e sistema giudiziario. Negli ultimi anni, la coalizione guidata da Netanyahu ha cercato di ridimensionare i poteri della Corte Suprema, tentando di sopprimere il diritto di veto sulle leggi e presentandola come ostacolo alla volontà popolare. Lo stesso vale per la polizia: Ben- Gvir, in particolare, ha più volte auspicato una “normalizzazione” dei rapporti tra governo e forze dell’ordine, chiedendo un allargamento del potere esecutivo nella gestione della sicurezza interna. I paesi che ancora oggi mantengono la pena di morte, dagli Stati Uniti all’India, prevedono tempi lunghissimi per arrivare all’esecuzione proprio perché l’irreversibilità della pena capitale deve permettere alla difesa la possibilità di inoltrare i ricorsi. Nel complesso degli ultimi 100 anni solo regimi di guerra e dittature militari hanno adottato meccanismi come quelli oggi discussi a Gerusalemme, e sempre in contesti di sospensione o svuotamento delle garanzie costituzionali. Che una misura simile venga invece introdotta per via legislativa ordinaria, come parte della politica interna di un paese formalmente democratico, è un segnale inequivocabile della trasformazione in corso. La tensione tra sicurezza e democrazia è un tema costante nella storia di Israele, ma ciò che sta avvenendo oggi è diverso: il bilanciamento sembra rompersi non più a favore di misure temporanee o eccezionali, bensì di un nuovo paradigma. La pena di morte nella sua versione più estrema e vendicativa diventa così il simbolo di uno Stato che si percepisce in guerra anche dentro i propri confini, che riduce il ruolo della giustizia a quello di un braccio armato dell’esecutivo e che misura la sua forza non nella capacità di garantire diritti, ma nella rapidità con cui riesce a sopprimerli. È in questo cupio dissolvi che prende sostanza la deriva autoritaria: non in un singolo provvedimento, ma nel cambiamento complessivo della cultura politica di una nazione che, dalle macerie di Gaza al ritorno del boia, ha smarrito se stessa, pronta a sacrificare i diritti in nome della sicurezza, e sempre meno disposta a considerare i principi della democrazia come il fondamento della vita politica. Primato negativo per Cuba: quasi cento detenzioni arbitrarie dal 2019 di Estefano Tamburrini Avvenire, 20 novembre 2025 I numeri choc del Gruppo di lavoro Onu. Lia, bimba di un anno e due mesi, è nata per miracolo dopo aver patito - mentre in era in grembo - la prigionia della mamma, l’attivista cubana Lisdani Rodríguez Isaac, scarcerata in extemis, sotto libertà condizionata, dal regime ereditato da Miguel Díaz Canel. Lisdani, arrestata per presunti oltraggi e disordini pubblici, viveva una gravidanza a rischio causa “placenta previa”. Rimaneva però sotto condizioni detentive inadeguate, senza cure e sotto pressioni, anche se sottili, affinché abortisse, secondo l’ong Prisoners defenders. Lia però è nata sana, quando sua madre godeva già di libertà condizionata, detta Licencia extrapenal. Per poter restare fuori dalla cella Lisdani “esegue lavori forzati”, è “perennemente sorvegliata”, e “non può uscire dalla città”. La sorella, Lisdiani, anche lei attivista, nelle medesime condizioni. La loro Licencia è appesa a un filo, sotto costanti minacce di reclusione, e potrebbe essere revocata in qualsiasi momento. Quello di Lisdani è uno dei 93 casi di detenzioni arbitrarie registrati a Cuba dal 2019 al 2025 e denunciati dall’apposito Gruppo di lavoro istituito presso le Nazioni Unite, nelle Opinions 46/2025 e 57/2025, sottolineando la carenza di un “giusto processo”, oltre a “violazioni di diritti umani” e “reati di lesa umanità”, tra cui “torture”, “persecuzioni” e “sparizioni forzate”. Le cifre sono state diffuse dal dossier mensile di Prisoners defenders, che offre tutela giuridica alle vittime di persecuzione politica nell’Isola, presentato a Madrid. Le quasi cento vittime sono state detenute per aver esercitato “diritti internazionalmente tutelati”, come le libertà confessionale, di stampa o di associazione, e concedono all’Avano il primato globale di “detenzioni arbitrarie” certificate dalla Nazioni Unite. Seguono l’Egitto con 93, Bahrein con 70 e Cina a quota 53. Cuba è il Paese che ha ricevuto tre richiami dall’Onu, per oltre sessanta prigionieri politici. Il gruppo lavoro Onu preme anche per il rilascio definitivo di 49 persone detenute durante le proteste che l’11 luglio 2021 hanno infiammato le strade dell’Avana. Tra le irregolarità processuali denunciate vi è la sottoposizione di casi civili a Tribunali militari, misura che viola le disposizioni internazionali in materia. È capitato anche che difensori d’ufficio - assegnati dallo Stato - si prestassero per chiedere la condanna dei loro rappresentati. Tra i casi più emblematici: il legale Manuel Guzmán Montejo che - si legge nel dossier “ha chiesto di condannare i loro rappresentati”, Oscar Luis Ortiz e Yerandis Rillo Pao, per il reato di “sedizione”. Il dossier denuncia anche l’inosservanza degli accordi tra l’Avana e la Santa Sede, con la scarcerazione di decine di prigionieri, là dove i detenuti sarebbero stati sottoposti a “rilascio condizionato coercitivo”. L’Isola conta inoltre 193 sparizioni forzate dal 2012 e su cui l’Onu ha chiesto a Palazzo della Revolución di intraprendere “azioni urgenti”. Tra i desaparecidos c’è il nome di Daisel González Alvarez, arrestato a luglio 2021 e del quale si è persa ogni traccia. “Non ci sono neppure informazioni sulla sua eventuale uscita dal Paese”, denuncia l’Ong. In generale il carcere rappresenta “un meccanismo di controllo sociale” che colpisce anche “comunità religiose, gruppi di quartiere, organizzazioni locali, movimenti cittadini e intere famiglie”, sostengono gli attivisti dell’organizzazione, che lamentano le “notevoli carenze degli strumenti” di cui dispongono le Nazioni Unite, che non vantano “alcun potere di coercizione sugli Stati”, ma devono sperare nel Soft power della diplomazia. Dal canto suo il regime dell’Avana tace. Nessuna replica alle denunce Onu. Una mezza vittoria, per Prisoners defenders, che rinnova il suo appello al “rilascio e al condono della pena” di almeno 49 detenuti, a cui andrebbero risarciti i danni in quanto “non avrebbero mai dovuto essere sottoposte a processo” per le loro idee politiche.