Se le chiavi della cella le tiene Roma di Luigi Manconi e Federica Delogu La Repubblica, 1 novembre 2025 Sulle attività esterne in carcere ora decide il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). Ecco le nuove regole per accedere a corsi e laboratori. Il 21 ottobre scorso, con una circolare, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), ha modificato le regole da rispettare per ottenere l’autorizzazione alle attività educative, culturali e ricreative nelle carceri italiane. Nello specifico ciò che viene modificato è che, per i “soli” istituti in cui è presente una sezione di 41 bis, alta sicurezza o di collaboratori di giustizia (ossia i circuiti a gestione dipartimentale), anche quando nelle attività sono coinvolti detenuti di media sicurezza, sarà necessario inviare una richiesta di autorizzazione non più alla direzione del carcere, bensì all’autorità centrale: ovvero al Dipartimento stesso. Fino ad ora la richiesta, sottoposta all’istituto, veniva in seguito approvata dal magistrato di sorveglianza, dopo il parere positivo della direzione dello stesso istituto. Dunque d’ora in poi le associazioni, le cooperative e tutti gli enti che intendono proporre attività rivolte alle persone recluse non si confronteranno con l’istituzione più prossima, ma dovranno, con un non meglio specificato “congruo anticipo”, rivolgersi alla direzione generale del Dap a Roma. E fornire una serie di indicazioni molto dettagliate. Una notizia che, a prima vista, potrebbe apparire di poco conto, una mera modifica burocratica nell’iter di autorizzazione, ma che in realtà nasconde un passo ulteriore da parte dell’amministrazione penitenziaria verso una sempre maggiore, e preoccupante, chiusura delle carceri rispetto al mondo esterno. L’autorizzazione in capo al Dipartimento significa infatti un accentramento decisionale che non prende in considerazione, e dunque svilisce, la conoscenza delle situazioni specifiche che hanno le direzioni e i provveditorati regionali. Le attività all’interno degli istituti di pena, già limitate rispetto ai numeri della popolazione carceraria, hanno un significato importante per la vita reclusa: costituiscono uno spazio di autonomia per le persone detenute che permette loro di mantenere un contatto con il mondo esterno, rompere la routine senza scelta delle giornate prigioniere e, in genere, confrontarsi con qualcosa di nuovo anche rispetto al passato fuori dal carcere. Parliamo nella pratica di corsi, incontri, presentazioni, laboratori che ora rischiano di perdersi nella burocrazia ministeriale e non tenere conto delle realtà dei luoghi in cui le carceri sorgono, i loro rapporti con le realtà del territorio e il terzo settore. E questo avviene, peraltro, in un momento in cui il sistema penitenziario italiano vive una gravissima crisi, con numeri di suicidi ormai da anni elevatissimi (nonostante il calcolo al ribasso dello stesso ministero), dati drammatici di sovraffollamento e una strutturale carenza di personale che si riflette, in particolare, nella mancanza di scorte per il trasporto in ospedale per visite mediche. E proprio su questo aspetto sanitario il Dipartimento era intervenuto, una decina di giorni prima, con una nota che definiva “pendolarismo ospedaliero” il trasporto di pazienti alle visite specialistiche richieste dai medici e, pur riconoscendo nella gestione sanitaria “uno dei fronti più sensibili e delicati” e chiedendo una maggiore collaborazione tra i settori professionali dei penitenziari, sosteneva che “è indispensabile che il ricorso ai trasferimenti esterni venga circoscritto ai soli casi indifferibili e documentati da certificazioni puntuali”. In sostanza, il medico, come poi si legge più avanti nella stessa circolare, deve chiamare il 118 solo nei casi di effettivo pericolo di vita. Con questa nuova circolare invece il Dap assume il monopolio della scelta, certo burocratizzando e spersonalizzando la procedura di autorizzazione, ma soprattutto consegnando più chiaramente l’immagine di carcere che persegue: un luogo chiuso che non dialoga con la società libera. E dunque appare scontata la domanda su quale tipo di futuro viene prospettato per chi questo carcere lo vive, talvolta per lunghissimi anni. Studiare o imparare un mestiere in carcere sarà più complicato di Luca Sofri ilpost.it, 1 novembre 2025 Per organizzare le attività culturali adesso ci sono regole più restrittive, che rischiano di ostacolare i pochi esempi positivi. Una recente circolare del DAP (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che dipende dal ministero della Giustizia) ha reso più complicate le procedure per organizzare attività culturali, educative e ricreative all’interno di alcuni tipi di carceri. Da ora in poi l’autorizzazione non andrà più chiesta alla direzione del singolo carcere, ma al DAP. È una cosa che potrebbe allungare i tempi per organizzare queste attività, e più in generale ostacolarle e rendere tutto più farraginoso. Le attività culturali ed educative sono fondamentali per un corretto reinserimento delle persone detenute. Ci rientrano cose molto diverse tra loro, dai corsi universitari alla formazione professionale, dal teatro ai corsi di fumetto o di cucina. La circolare dice tra le altre cose che le richieste per organizzare attività culturali ed educative in carcere vanno presentate con “congruo anticipo” (non è specificato di quanto tempo) indicando data e durata dell’iniziativa, spazi utilizzati, numero e nomi dei detenuti che parteciperanno, parere della direzione ed elenco dei nomi di altri partecipanti che non siano detenuti. Passaggi burocratici in più significano tempo in più, ma al di là di questo i requisiti contenuti nella circolare “sono facili da scrivere ma difficili da realizzare”, dice Alessio Scandurra dell’associazione Antigone, che si occupa da anni di diritti delle persone detenute. Non sempre quando si avvia un’attività culturale in carcere si sanno in anticipo tutti questi dettagli: l’attività può cominciare con un certo numero di detenuti e può continuare con un numero più ampio, anche a seconda di quanto attira l’interesse di altri detenuti. Più in generale le singole direzioni hanno una conoscenza più approfondita della loro struttura, delle sue esigenze e possibilità, e dei percorsi rieducativi dei detenuti all’interno. Per alcune attività in particolare i requisiti contenuti nella circolare potrebbero complicare ancora di più le cose. Prendiamo il carcere Marassi, a Genova, al cui interno c’è un teatro (il Teatro dell’Arca) dove le persone detenute mettono in scena spettacoli accessibili a tutti, anche a persone esterne al carcere, al termine di corsi di formazione teatrale. Già ora per poter assistere ci sono procedure più complicate di quelle previste in un teatro ordinario (bisogna arrivare mezz’ora prima e fare la fila per mostrare i propri documenti, visto che si entra in un carcere). Visto che la circolare del DAP chiede di fornire “con congruo anticipo” anche i nomi di tutte le persone non detenute che partecipano alle attività, non è chiaro se in un caso come quello del teatro la lista debba includere anche i nomi del pubblico. E nel caso, non è chiaro come dovrebbe fare il carcere a sapere molto tempo prima (quanto?) la lista del pubblico, prima ancora di sapere se lo spettacolo si può fare. Secondo Scandurra la circolare “è un altro passo nella direzione di una chiusura, o comunque di un irrigidimento, rispetto a quel poco che in carcere funziona”. Sul Manifesto il presidente di Antigone Patrizio Gonnella ha ricordato il caso di Cesare deve morire, un film dei fratelli Taviani che vinse l’Orso d’oro al Festival di Berlino nel 2012. In quel film recitarono Cosimo Rega e Salvatore Striano, all’epoca entrambi detenuti a Rebibbia, a Roma. Rega è morto nel 2022, mentre Striano continua a fare l’attore. “Il film fu girato a Rebibbia quando il direttore di allora, Carmelo Cantone, accolse in carcere un uomo di teatro come Fabio Cavalli”, scrive Gonnella. “Quelle storie straordinarie e riuscite di emancipazione sociale, culturale, ma anche professionale oggi non sarebbero più possibili. Se ai tempi di Cesare deve morire quella circolare fosse stata in vigore, avremmo avuto due criminali in più e due bravi attori in meno”. Le carceri interessate dalla circolare sono quelle con dentro sezioni dell’Alta Sicurezza (il reparto in cui sono recluse persone arrestate per reati associativi, come mafia e traffico di sostanze) e quelle in cui sono reclusi collaboratori di giustizia e detenuti al 41-bis. Il 41-bis è il cosiddetto “carcere duro”, il regime detentivo previsto per particolari tipi di reati associativi e basato sull’isolamento della persona detenuta. In questi tipi di carcere era già prevista una gestione più centralizzata del DAP sull’organizzazione complessiva: la circolare ribadisce ed esplicita questo punto anche per le attività culturali, su cui finora le singole direzioni avevano mantenuto un buon margine di discrezionalità. Le attività culturali hanno un documentato effetto positivo sulle persone detenute e sul loro percorso di reinserimento in società, che teoricamente dovrebbe essere l’unico fine della pena detentiva (che non è punire, appunto, ma rieducare e reinserire: lo dice la Costituzione). Negli anni sono stati fatti studi che dimostrano come queste attività riducano il rischio di recidiva, cioè di reiterazione del reato, e favoriscano una serie di effetti virtuosi e benefici sulla salute mentale delle persone detenute, sulla loro autostima e capacità di imparare a fare cose nuove (diverse dai reati per cui sono state arrestate e condannate). Nelle carceri italiane ci sono un’emergenza umanitaria e una situazione insostenibile: la gran parte è sovraffollata e in condizioni igieniche insostenibili, cosa che causa a chi è costretto a starci problemi di salute mentale che portano a frequenti atti di autolesionismo e suicidi. Nel 2024 si sono suicidate 91 persone detenute, il dato più alto mai registrato. In carcere le condizioni sono difficili anche per chi ci lavora, per via di carenze di personale ed episodi di violenza e aggressioni anche nei confronti degli agenti: condizioni che a loro volta alimentano suicidi tra gli stessi agenti. Per tutti questi motivi le carceri italiane sono anche un luogo criminogeno: cioè anziché mettere le persone detenute nella condizione di tornare libere e non compiere più reati fanno il contrario. Le carceri che invece si sono distinte per attività che hanno creato condizioni migliori per le persone al loro interno sono poche, e hanno potuto farlo proprio grazie alla sensibilità di singole direzioni che ne hanno permesso la realizzazione. Nell’ultimo anno il DAP ha limitato in vari modi il margine di discrezionalità delle direzioni delle carceri. Lo scorso maggio aveva vietato ai detenuti dell’Alta Sicurezza di partecipare alle attività di Ristretti Orizzonti, storica rivista del carcere di Padova scritta da persone detenute; in maniera simile, in altre carceri era stato vietato ai detenuti dell’Alta Sicurezza di frequentare i corsi universitari organizzati per chi sta in carcere. La circolare sulle attività culturali va nella stessa direzione. Circolare DAP iniziative culturali: a Padova annullato evento progetto Kutub Hurra (libri liberi) di AltraCittà, Granello di Senape-Ristretti Orizzonti, Un Ponte per Ristretti Orizzonti, 1 novembre 2025 È stato, nel pomeriggio del giorno 29 ottobre annullato un evento previsto per il 30, un evento che era programmato da mesi nell’ambito del progetto Kutub Hurra (libri liberi) attivo da due anni e mezzo nella Casa di reclusione e nella Casa circondariale di Padova, oltre che in altri istituti penitenziari in Italia, realizzato dall’Associazione “Un Ponte per” e dall’Associazione tunisina “Lina ben Mhenn”. Questa cancellazione è avvenuta sulla base della Circolare n. 0454011.U del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del 21 ottobre 2025, che subordina all’approvazione dello stesso DAP la realizzazione di ogni iniziativa negli istituti in cui è presente una sezione di Alta Sicurezza, anche se l’iniziativa non riguarda la stessa Alta Sicurezza. Il progetto Kutub Hurra ha permesso due anni e mezzo fa l’acquisizione da parte della biblioteca della Casa di Reclusione e alla fine del 2024 da parte della biblioteca della Casa Circondariale di 50 libri in arabo per ogni istituto, di contenuto laico e la creazione di un gruppo di lettura in arabo importanti per la popolazione reclusa arabofona e non. All’evento previsto e annullato dovevano partecipare (già autorizzate ex art. 17 OP) due signore tunisine e due signore libiche, attive nei loro paesi nell’ambito dei diritti civili. Nel pomeriggio alle 17,30 era programmato un evento pubblico sugli stessi temi. Queste persone dovevano consegnare altri 100 libri in arabo per i detenuti che partecipano all’attività, e raccontare la bellezza di questo progetto, che prevede un’inversione di ruoli culturali tra nord e sud del mondo, con la consegna di libri di cultura laica da parte di un’associazione tunisina per le carceri italiane. Per il 30 mattina la richiesta era stata fatta da tempo dal Garante comunale delle persone private della libertà in collaborazione con le cooperative AltraCittà e Orizzonti e con l’associazione Granello di senape ODV ed erano state applicate le procedure previste prima della circolare citata. Questo annullamento ci preoccupa e ci interroga sul futuro della ricchezza culturale che caratterizza la Casa di Reclusione di Padova. Una riforma garantista voluta dai campioni del giustizialismo: il referendum non risolverà nulla di Piero Sansonetti L’Unità, 1 novembre 2025 La riforma voluta dalla destra giustizialista (questo è il paradosso) scioglie un nodo costituzionale ma non affronta le ragioni vere dell’eccesso di potere dei Pm. La riforma della magistratura è stata approvata dal Senato, ora sarà sottoposta a referendum, e io - personalmente - ho un dubbio amletico. Votare sì al referendum - sì alla riforma - perché condivido il principio che l’ha ispirata, oppure non votare sì perché il referendum ormai si è politicizzato e se voti sì, di fatto, dai un voto di approvazione per questo governo che credo sia - dopo il governo Tambroni del 1960 - il peggiore che la Repubblica abbia mai visto? La riforma nasce da una contraddizione politica molto forte. Quella - che attraversa tutta la storia della seconda e della terza repubblica, ma anche gli ultimi anni della prima repubblica - tra garantismo e giustizialismo. Perché dico contraddizione? Perché a varare questa riforma è stato il governo più giustizialista degli ultimi anni. È il governo che ha istituito il reato di rave, poche settimane dopo l’insediamento. È il governo che ha istituito decine di nuovi reati. È il governo che ha vietato anche la resistenza non violenta. È il governo che ha inasprito le condizioni nelle carceri. È il governo che ha aumentato le pene. È il governo che ha varato decreti spazzanaufraghi, condannando a morte centinaia di migranti. È il governo che vuole riportare in Albania delle persone che non hanno commesso reati. È il governo che inzeppa i Cpr. È il governo che spalleggia un tagliagole come Almasri. È il governo che perseguita i senzatetto. E chissà quante altre cose mi sono scordato. Dopodiché decide di sostenere questa riforma di separazione delle carriere che effettivamente è, finalmente, una riforma che dà piena attuazione all’articolo 111 della Costituzione. Dal punto di vista tecnico a me non sembra che sia possibile muovere alcuna critica alla parte della riforma che stabilisce la separazione delle carriere, e quindi, finalmente, l’istituzione di un giudice terzo che non abbia niente a che fare con il magistrato dell’accusa. E soprattutto che non possa più avere una carriera condizionata in qualche modo dalla forza politica del Pm, che spesso la esercitano con spavalderia. Non so se la separazione risolverà il problema. Il problema c’è, ed è grosso come una casa. Inutile conteggiare i pochi trasferimenti da una carriera all’altra. Il problema è la complicità tra Pm e giudici. Che in genere (ma non sempre) non riguarda tanto i giudici che emettono la sentenza, ma riguarda in modo clamoroso la contiguità tra Accusa e Gip. I Gip che non timbrano silenziosi la richiesta di arresto, o di rinvio a giudizio, che viene loro da un Pm, si contano sulle dita di una mano. Tanto che noi giornalisti spesso ce ne scordiamo. Scriviamo che Gratteri ha arrestato tot persone, o che Davigo, o Scarpinato, o Di Matteo. In realtà ciascuno di loro, per arrestare, ha bisogno di un Gip. Non può farlo direttamente. Meglio se oltre al Gip ha anche un giornalista. E le statistiche dicono che il Gip amico non manca quasi mai, e in genere non manca neanche il giornalista amico. La separazione delle carriere non risolve in radice questo problema. Resteranno molti Gip che per pigrizia o per amicizia continueranno a fare copia-incolla con le richieste dei Pm. Così come esistono nei tribunali dei giudici che invece di scrivere la sentenza per esteso, fanno copia incolla, senza discutere, di brani lunghissimi della requisitoria. Trasformando il giudizio nel semplice accoglimento dell’accusa, senza motivazioni. (Ne ho constato in questi giorni un caso clamoroso). La separazione delle carriere probabilmente non cancellerà questi vecchi mali, ma comunque afferma un principio e cancella il contrasto tra l’attuale ordinamento e la Costituzione. Credo che le riforme più importanti sarebbero altre due, soprattutto. La responsabilità civile del magistrato, che inchiodi ogni magistrato alle sue responsabilità. E la riduzione ai minimi termini della carcerazione preventiva, che metta fine allo strapotere - personale, fisico, di ricatto - che i magistrati hanno nei confronti dei cittadini, e che spessissimo esercitano con spavalderia e talvolta persino con sadismo. Falsificando e deviando la ricerca della verità. Sono queste le due riforme più importanti, insieme a una profonda revisione del codice penale, che dimezzi i reati e almeno dimezzi le pene, e renda una extrema ratio il ricorso alla detenzione. Ma queste riforme non si faranno mai. La destra le vede come fumo negli occhi, la sinistra non avrà mai il coraggio. Perciò, nonostante questa buona riforma, la macchina della giustizia non cambia molto. E non cambierà molto il potere dei magistrati. Semplicemente sarà un pochino ridotta la loro licenza a spadroneggiare. Ed è questo che non piace alle Procure. E questa paura dei Pm viene tradotta, e nobilitata, nel timore che i Pm perdano la loro indipendenza e diventino funzionari del governo. Questo però non è scritto da nessuna parte. Se così fosse l’Italia allineerebbe il suo sistema a quello francese (che comunque non è che sia del tutto fuori dai canoni della democrazia, e che recentemente ha portato all’imprigionamento dell’ex presidente Sarkozy) ma così non è: il Pm resta del tutto indipendente e non perde niente dei suoi poteri legittimi. Perde solo la sua possibilità di condizionare la magistratura giudicante e di ledere l’indipendenza del magistrato giudicante. In ogni caso, questo referendum non risolve lo scontro tra garantisti (che sono molto pochi) e giustizialisti. Che in realtà è l’urto tra due idee diverse della democrazia. La prima idea ha il suo pilastro nel diritto, e ritiene che il diritto sia lo strumento per rendere uguali i cittadini e salvaguardarne la dignità. La seconda è basata sull’etica, e considera l’etica superiore al diritto, e il sospetto uno strumento importante per la macchina della giustizia. Il garantismo protegge i cittadini dai soprusi del potere giudiziario, ma forse non può fare altrettanto per proteggerli dai soprusi del potere economico. Il giustizialismo è esattamente l’opposto. Oggi, anche su questo giornale, a cinquant’anni di distanza, ricordiamo la vita e il pensiero di uno dei più grandi intellettuali del Novecento (non ho scritto la parola “italiano” perché penso che Pier Paolo Pasolini appartenga al mondo). Poco prima di morire Pasolini scrisse sul Corriere della Sera un articolo bellissimo intitolato “Io so ma non ho le prove”. Era uno scritto contro la Dc e il governo, fondato sull’esposizione di una serie di certezze, infamanti per il governo, fondate solo sui sospetti. Era una specie di manifesto, altissimo, del giustizialismo. Gli rispose nientemeno che Aldo Moro (uno dei politici più profondi del Novecento) con un discorso memorabile pronunciato alla Camera nel 1977, dopo la morte di Pasolini e un anno prima di essere processato e giustiziato dalle Brigate rosse, nel quale difendeva a spada tratta il suo partito e i diritti della politica e concludeva con un anatema caduto nel vuoto: “Non ci lasceremo processare nelle piazze”. Erano altri tempi. E oggi i pochi difensori del garantismo e i molti difensori del giustizialismo, non si avvicinano certo a quelle vette di pensiero, di passione, di retorica. Però lo scontro è sempre lì. Tra due idee di società, di popolo, di giustizia. Il referendum non risolverà questo scontro. Riuscirà Meloni a liberare il referendum dalla bagarre politica? di Paolo Delgado Il Dubbio, 1 novembre 2025 L’ordine di scuderia, a Palazzo Chigi, è chiaro: restare sul merito della riforma. Ma non sarà facile. La campagna referendaria sarà dura e il rischio di una sconfitta comunque cocente è concreto. Governo e maggioranza non hanno ancora messo a punto una strategia comunicativa precisa ma alcuni punti fermi sono già stati fissati: quelli che Giorgia Meloni ha riassunto nell’intervista al Tg1 rilasciata la sera stessa dell’approvazione della riforma. Il primo punto, il più importante e anche il più irrealizzabile, ordina di evitare ogni politicizzazione estrema dello scontro. Significa prima di tutto sgombrare il campo dall’eventualità di una crisi di governo in caso di sconfitta. Del resto, proprio la necessità di evitare una eccessiva personalizzazione dello scontro ha convinto Giorgia Meloni a cambiare strada in piena corsa, riponendo nel cassetto “la madre di tutte le riforme”, il premierato, per puntare sulla riforma della giustizia, bandiera di Forza Italia che la coinvolge direttamente molto di meno. Su questo fronte Giorgia può farcela. Comunque vada lei resterà in sella, pur se barcollante in caso di sconfitta. Mantenere al suo posto Carlo Nordio però sarebbe in compenso quasi impossibile e le dimissioni di un ministro chiave come quello della Giustizia ammaccherebbe parecchio la squadra di governo e la sua immagine. Molto più proibitivo il tentativo di circoscrivere la sfida agli aspetti tecnici della riforma: separazione delle carriere, riforma del Csm, nomine dei consiglieri per sorteggio. La materia è per la stragrande maggioranza degli elettori ostica, difficilmente comprensibile, pochissimo coinvolgente. L’opposizione, che deve chiamare alle urne quanto più possibile i suoi potenziali elettori, non ha alcun interesse a giocarsi la partita su un terreno così arido e destinato a scaldare poco dal punto di vista emotivo. Punterà tutto sulla necessità di frenare una manovra complessiva di cui la riforma verrà indicata come primo passo, quella che mira a eliminare i controlli sull’esecutivo e a svuotare si sostanza il bilanciamento dei poteri. È un tema che con la lettera della riforma ha pochissimo a che vedere. In compenso è in grado di mobilitare l’elettorato ed Elly già lo brandisce: “Vogliono avere le mani libere e ritenersi al di sopra della legge”. Volente o nolente la replica non potrà che essere la difesa del diritto del governo a operare senza essere puntualmente bloccato dall’intervento della magistratura, tema già messo automaticamente in campo sia dalla premier che da Nordio. Lo scontro sarà su questo piano molto più che su quello delle “tecnicalità”, è inevitabile che vada così e si tratterà di uno scontro del tutto politico. Sarà persino più impossibile evitare che il fronteggiamento si configuri come conflitto tra centrodestra e magistratura, dunque oggi come scontro tra il governo, il potere esecutivo, e il potere giudiziario. È lo scenario che preoccupa di più il Colle, il cui intervento è stato probabilmente decisivo per impedire lo scontro diretto tra governo e Corte dei conti. Ma è una deriva alla quale sarà quasi impossibile sottrarsi. La premier è decisa a cercare di evitarlo, sia per non irritare troppo Mattarella, sia perché la reazione dell’elettorato a uno scontro frontale con la magistratura è ancora una minaccia, nonostante il calo di popolarità netto dei togati negli ultimi anni. La consegna, per la maggioranza, è di evitare attacchi diretti contro la magistratura e puntare invece sulla necessità di garantire parità tra le parti nel processo con la separazione e di ridimensionare il potere delle correnti con il sorteggio. Il frontman in questo caso deve essere Nordio, che si è già detto pronto a un confronto televisivo con l’Anm e ha promesso ai togati che comunque i decreti attuativi saranno scritti insieme. Ma con la stragrande maggioranza delle toghe in trincea contro la riforma e l’intero centrodestra più spezzoni vari dell’opposizione a favore sarà praticamente impossibile che il referendum non si profili come ordalia tra due poteri, quello della politica e quello della magistratura, che si fronteggiano da quasi 35 anni. Un passaggio importante, nel vademecum dei sostenitori della riforma, riguarda l’accusa di voler subordinare il pm all’esecutivo. La Russa, tra i più preoccupati per il responso delle urne, è il più esposto nel negare ogni tentazione del genere, di fronte alla quale, ha assicurato, sarebbe pronto a fare scudo col suo corpo. In realtà la riforma non presuppone affatto un successivo passaggio del genere ma l’argomento è troppo prezioso e utile perché il Fronte del No non lo sfrutti e anche per questa via la sfida referendaria diventerà essenzialmente politica. Alla fine nessuno dei leader abbandonerà comunque il proprio posto. Se sconfitta Giorgia resterà premier, se battuta Elly rimarrà segretaria del Pd. Ma una delle due sarà una regina dimezzata e quale sarà delle due lo decideranno gli elettori. Verso l’ordalia del referendum, con il rischio che perdano tutti di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 1 novembre 2025 Dopo il via libera del Senato al ddl costituzionale sulla separazione delle carriere in magistratura, uno spettro si aggira nelle stanze della politica. Il suo nome è “referendum confermativo” ed è lo strumento predisposto dall’articolo 138 della Carta per mettere gli elettori in grado di confermare o respingere una legge di revisione costituzionale approvata dalle Camere senza la maggioranza qualificata dei due terzi. Nel caso di specie, si tratta di una riforma cavallo di battaglia del centrodestra dai tempi del federatore Silvio Berlusconi, portata quasi a dama dall’attuale coalizione di Governo. Tralasciando il tema della sua opportunità e utilità, ben sviscerato da Avvenire, è bene riflettere sul malsano abbrivio del dibattito che - in un appuntamento divisivo per definizione perché basato sull’aut aut - rischia di tramutare il voto di primavera in una partita in cui, alla fine, perdono tutti. Nella teoria dei giochi, una situazione “lose-lose” è quella da cui nessun giocatore trae un effettivo vantaggio, indipendentemente dal risultato. Nella partita referendaria che partiti, toghe e cittadini si apprestano a giocare, i piani inclinati si intersecano. Su quello politico il giocatore a capotavola è la presidente del Consiglio. Sebbene il ministro Nordio e il presidente del Senato Ignazio La Russa ripetano che “il referendum deve considerarsi come un quesito sul piano tecnico” e non un “Meloni sì o Meloni no”, quel binario pare quasi inevitabile. La giornalista francese Françoise Giroud (che fu sottosegretaria di Stato con Jacques Chirac) annotava come “in un referendum, il popolo non risponde mai alla domanda che viene posta, dà solo la sua adesione o il suo rifiuto a colui che la pone”. Giorgia Meloni è una politica troppo navigata per non esserne consapevole. E la sua convinzione sul fatto che il voto debba “essere una consultazione sulla giustizia” e che “non ci saranno in ogni caso conseguenze per il Governo”, potrebbe incrinarsi di fronte a un risultato sgradito. Questo referendum non è protetto dal paracadute del quorum e al momento, nei sondaggi i potenziali sì e no si equivarrebbero. Certo, una “personalizzazione” meloniana della campagna potrebbe spostare l’asticella a favore del Governo. Ma se nelle Idi di marzo andasse male, lei potrebbe pagare un conto salato (Renzi docet). Sul fronte del No, a rischiare è invece un centrosinistra che deve trovare una voce propria, per non regalare al Governo l’argomento di un’opposizione alleata delle “toghe rosse”. E la stessa Anm, col suo Comitato per il No, rischia di vedersi cucita addosso l’etichetta di “magistratura politicizzata” che non sarebbe semplice scrollarsi dopo, comunque vada: più gli atteggiamenti delle toghe saranno barricadieri, da comizio, i commenti “politici” anziché “tecnici” e più quel rischio aleggerà su una categoria che sta restaurando faticosamente la credibilità incrinata dalla vicenda Palamara. L’ultimo piano riguarda quei 46 milioni di aventi diritto al voto che sempre meno diventano elettori: vivranno per 5 mesi assordati dai proclami dei due schieramenti, in un clima venefico e fra toni da ordalia che non li aiuteranno a focalizzare le reali ragioni pro o contro la riforma. E tuttavia, se dovessero astenersi, finirebbero per essere i primi perdenti per aver rinunciato a esprimersi su un cambiamento epocale. Da qui a marzo, dunque, occorreranno attenzione, toni pacati, argomentazioni chiare e rispetto per le ragioni altrui, da una parte e dall’altra. E fra i cittadini servirà desiderio di informarsi per decidere al meglio. In caso contrario, a prescindere da chi vinca, a perdere sarà la democrazia. Referendum giustizia, cosa dicono i sondaggi sull’orientamento degli italiani di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 1 novembre 2025 Con percentuali diverse, prevalgono i sì alla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati approvata definitivamente dal Parlamento. Se si votasse oggi per il referendum costituzionale sulla riforma della giustizia prevarrebbero i “sì”. È quanto emerge dagli ultimi sondaggi effettuati. In base al più recente, realizzato da Izi, azienda di analisi e valutazioni economiche e politiche, la maggioranza degli elettori (il 57,8%) ammette di non sapere di cosa si tratta, mentre il 70,9% degli elettori, tra coloro che sono più informati, sono favorevoli alla legge ed il 21,9% contrari. Gli elettori di governo sono plebiscitari nella risposta, il 99% vuole la riforma della magistratura, mentre gli elettori di opposizione la rifiutano (81,6% elettori Pd e Avs e 79,4% M5S dicono di no). Meno marcata la vittoria dei sì secondo un altro sondaggio realizzato un paio di settimane prima del via libera definitivo della riforma dall’Istituto Noto per il programma televisivo “Porta a Porta”. Il 57% degli italiani confermerebbe la riforma. Il 22% sarebbe contrario, il restante 21% sarebbe indeciso (“non saprei”). Quanto alla partecipazione, il 60% degli italiani dichiara che andrà a votare, mentre il 23% non si recherà alle urne. C’è poi una percentuale del 17% di indecisi. Al voto tra marzo e aprile 2026 - Mancano cinque o sei mesi al referendum (“si terrà tra marzo e aprile 2026” ha detto il Guardasigilli Carlo Nordio) con cui gli italiani decideranno se approvare la riforma della Giustizia, che ha appena avuto il via libera definitivo dal Parlamento. Nel frattempo una serie di tappe precedono la chiamata alle urne per i cittadini. Il referendum cosiddetto “costituzionale”, diverso da quello “abrogativo”, è innanzitutto una consultazione con la quale si acconsente o meno ad operazioni - già approvate dal Parlamento - di revisione, integrazione o modifica della Costituzione. Trattandosi di una legge di rango costituzionale, per evitare il referendum ed essere direttamente approvata in Parlamento, la riforma avrebbe invece dovuto ottenere la maggioranza dei due terzi dei componenti delle due Camere, nelle seconde deliberazioni. A chiedere ora la consultazione popolare potranno essere cinque Consigli regionali, un quinto dei membri di ciascuna delle due Camere o cinquecentomila elettori. Lunedì parte la raccolta delle firme della maggioranza - Intanto i parlamentari di maggioranza si sono già attivati per la richiesta del referendum e dalla prossima settimana partirà la raccolta delle firme: per i deputati servono in tutto 80 firme, 41 al Senato. L’ufficio centrale per il referendum, presso la Cassazione verificherà poi la regolarità e il numero delle firme. Successivamente la la Corte Costituzionale verificherà se la legge può essere oggetto di referendum. La formulazione del quesito, il cui testo nella sostanza sarà quello della legge oggetto della consultazione, dovrà essere stabilita dalla Corte costituzionale. I magistrati costituzionalisti hanno il compito di valutare un quesito secondo i parametri di chiarezza, omogeneità e comprensibilità per i votanti. Con la domanda verrà chiesto all’elettore se intende confermare o respingere la legge costituzionale sottoposta a referendum, attraverso le uniche due opzioni possibili: ‘Sì’ o ‘No’. Dopo aver superato il vaglio di questa serie di condizioni, spetterà infine al presidente della Repubblica indire il referendum. Alle urne gli elettori decideranno se confermare o meno la riforma e, a differenza del referendum ‘abrogativo’, non servirà alcun quorum di partecipazione. La legge si riterrà approvata se riceve la maggioranza dei voti validamente espressi. Csm, la prima volta di un sorteggio (ma la politica continuerà a decidere) di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 1 novembre 2025 L’organo di giustizia disciplinare di una categoria non era mai stato sottratto all’elezione da parte dei propri appartenenti. Di Pietro contro Gratteri, Falcone oppure Borsellino, il ponte di Messina ed Enzo Tortora, il professor Vassalli e a momenti pure Pericle l’ateniese: sotto i fumogeni di questo gioco delle figurine, che galvanizza i favorevoli e ipnotizza pure i contrari alla legge spacciata come “separazione delle carriere” tra giudici e pm (0,21% in 5 anni) e tra pm e giudici (0,83%), scolora un fatto: e cioè che, con l’indignata autorevolezza anticorrentismo di chi ha riempito il ministero della Giustizia proprio di ex questuanti e ex compagni di chat correntizie di Palamara, l’approvata riforma costituzionale di iniziativa governativa stabilisce - nel separare due Consigli superiori della magistratura tra pm e giudici - il sorteggio dei loro membri, nonché dei membri di una nuova Alta Corte destinata a sottrarre al Csm la giustizia disciplinare sulle toghe. È la prima volta che il sorteggio entra nell’individuazione dei rappresentanti di un organo di rilevanza costituzionale, peraltro in contrasto con la raccomandazione che l’organo consultivo “Greco” dei 47 Paesi del Consiglio d’Europa ha rivolto in passato (ad esempio a Bulgaria, Portogallo, Slovacchia Azerbaijan, Montenegro) affinché almeno metà dei componenti di queste istituzioni sia costituita da magistrati eletti dai loro pari. È la prima volta che dalla giustizia disciplinare di una categoria viene esclusa l’elezione da parte dei propri appartenenti (come avvocati, ingegneri, giornalisti). È la prima volta che nella procedura di revisione costituzionale il governo dichiara (e ottiene) che il Parlamento nelle quattro letture neppure ritocchi una sola riga. Ed è la prima volta che succede con una truffa delle etichette, cioè con sorteggio vero solo per i componenti togati (estrazione secca su platea generale di magistrati, in un trionfo del grillino “uno vale uno” ora imbracciato dalla destra), e con sorteggio invece finto per i componenti laici, estratti su una rosa scelta e votata dai partiti in Parlamento: basterà che nella futura legge ordinaria (a cui per i dettagli attuativi rimanda la riforma costituzionale) la maggioranza restringa il listino dei sorteggiabili a un listino contenuto, se non addirittura all’esatto numero di componenti laici, ed ecco che per loro il sorteggio (finto) diventerà una elezione (vera), con ben diversi legittimazione, peso, competenza. Questa distorsione si sommerà alla sorteggiabilità all’Alta Corte disciplinare solo di magistrati con funzioni di legittimità, quindi con iniezione nel sistema di una dose di gerarchia stridente con la pure costituzionale norma per la quale invece “i magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni”. E si aggiungerà alla regola per cui il magistrato condannato dall’Alta Corte disciplinare sarà espropriato del diritto riconosciuto dalla Costituzione a qualunque cittadino di ricorrere in Cassazione, perché potrà impugnare la sentenza solo davanti alla medesima Alta Corte, e cioè solo davanti a “colleghi” di quelli che hanno preso la decisione impugnata: il che, per chi propaganda la grossolana retorica del giudice condizionato dalla “colleganza” col pm, é esilarante contraddizione, al pari del fatto che a esercitare l’azione disciplinare contro i giudici resterà come oggi, oltre che il Guardasigilli, il vertice dei pm intanto però separati dai giudici, e cioè il procuratore generale della Cassazione. Quando a gennaio 2025 la riforma fu votata al Senato in prima lettura, il ministero della Giustizia festeggiò pubblicando sulla home page una spettacolosa grafica di due togati con la parrucca in una bolgia di pugni alzati, bandiere tricolori e astanti urlanti, salvo poi precipitarsi a rimuoverla come “non intenzionale pubblicazione” di una “simulazione con Intelligenza artificiale, non appropriata” e “non autorizzata”. Ma preveggente. Nordio: “Contro la riforma solo slogan” di Ermes Antonucci Il Foglio, 1 novembre 2025 Intervista al ministro della Giustizia: “La legge non indebolisce, ma rafforza l’autonomia delle toghe”. Schlein e sinistra “dimenticano la propria storia”. Dall’anm “attivismo politico inopportuno”. “se vince il No, non mi dimetto”. La prima battaglia, quella dell’approvazione della riforma della giustizia in Parlamento, si è chiusa, adesso inizia quella referendaria. Come festeggia il ministro Carlo Nordio? Non con uno spritz, come qualche malizioso potrebbe pensare, ma chiudendo con le proprie mani 1.200 agnolotti. “Li mangerò questo fine settimana con la mia famiglia e i miei amici”. Il ministro risponde al Foglio dalla sua casa di Treviso, esprimendo la sua soddisfazione per il traguardo - atteso da oltre trent’anni - raggiunto giovedì al Senato, ora da confermare al referendum. Difende la sua riforma dagli “slogan senza alcun fondamento” avanzati dalle opposizioni e dalla magistratura associata: “Non c’è nessun assoggettamento della magistratura alla politica”. Si stupisce che a questa campagna di disinformazione, in cui il governo viene accusato di volere “mani libere per prendere pieni poteri”, partecipi anche “una persona seria come Schlein”. Sottolinea il voltafaccia della sinistra su un tema, la separazione delle carriere, che la storia dimostra appartenere alla tradizione politica della sinistra. Evidenzia “l’inopportunità” della creazione di un Comitato del “no” da parte dell’associazione nazionale magistrati, che rischia di intaccare il principio di imparzialità della magistratura e di politicizzarla ulteriormente. Promette che non risparmierà forze nella campagna referendaria dei prossimi mesi, e avvisa: “Se la riforma non passerà ne resterò deluso ma non mi dimetterò”. Ma non solo. Inevitabile cominciare proprio dall’accusa rivolta al governo dalle opposizioni e dall’Anm di voler indebolire l’indipendenza della magistratura e prendere “pieni poteri”. “Sono slogan di pura enfasi verbale che non significano nulla. Perché è sufficiente leggere il testo costituzionale per capire che la magistratura mantiene intatta la sua autonomia e indipendenza e che non vi è nessuna interferenza del potere politico”, risponde Nordio. “La separazione delle carriere esiste in tutti i paesi democratici, l’istituzione dell’alta corte di giustizia rende realmente indipendente la magistratura da se stessa e dalla sua giustizia domestica, il sorteggio libera i magistrati dalle ipoteche delle loro correnti che ne condizionano la vita”. Partiamo dalla separazione delle carriere. C’è chi sostiene che l’intento della riforma sia indebolire l’autonomia delle toghe perché la separazione tra pm e giudici nei fatti già esiste… “La separazione delle carriere ha poco a che vedere con il transito da una funzione all’altra, ma invece è incentrata sul fatto che attualmente, nello stesso Consiglio superiore della magistratura, i magistrati requirenti, cioè gli accusatori, danno i voti ai giudici, cioè a quei magistrati che devono essere e apparire terzi e imparziali. Tutto ciò non solo è irragionevole ma contrasta con i princìpi elementari del processo accusatorio. Infatti quando provo a spiegare la situazione attuale ai miei colleghi di altri paesi, come Gran Bretagna e Stati Uniti, dove la democrazia è nata, o non mi capiscono o ci ridono dietro”. La seconda grande novità è l’istituzione dell’alta corte disciplinare, a cui verrà affidata la giurisdizione disciplinare nei confronti dei magistrati. Un’altra misura che, per alcuni, mira a ridurre l’indipendenza dei magistrati…. “Anche questo è uno slogan che non solo non ha nessuna giustificazione razionale e non è mai stato spiegato, ma è contraddetto dalla stessa legge”, dice Nordio. “Innanzitutto perché l’alta corte è formata dagli stessi magistrati, che però non vengono eletti dalle persone che devono essere giudicate ma sono indipendenti perché sono sorteggiate. Il sorteggio non avviene tra passanti di strada, ma in un canestro di professionisti, magistrati, avvocati e professori universitari che sono per definizione tutti molto esperti, preparati e onesti. L’alta corte evita una follia oggi esistente. Nell’attuale Csm esiste una sezione disciplinare che è formata da persone elette da quelli che un domani saranno giudicati. Persone, aggiungo, alle quali gli appartenenti eletti al Csm sono andati a chiedere e qualche volta implorare i voti durante le votazioni del Csm. Per cui è normale che, come accade per esempio in politica, chi ha dato il voto a una determinata persona si senta un domani in diritto o comunque legittimato ad andare a chiedere un favore in cambio. Come tutti sanno, e io lo so perché dopo quarant’anni in magistratura possono ingannare tutti ma non me, si crea una stanza di compensazione in cui le condotte gravi rimangono impunite, e di tanto in tanto viene punito qualche magistrato per dare un esempio formale, magari per ritardi nel deposito delle sentenze, con pene e sanzioni molto morbide come la censura. Mentre episodi gravissimi come lo scandalo Palamara vengono messi sotto il tappeto”. Terza novità fondamentale: il sorteggio per l’elezione dei componenti dei due Csm. Secondo l’anm un metodo che toglierà credibilità, e quindi autonomia sul piano istituzionale, ai futuri Csm… “La credibilità del Csm è già stata ampiamente criticata dalle più alte cariche dello stato, che hanno parlato di una modesta etica di molti magistrati. In secondo luogo tutti sanno che il Csm è oggi un’organizzazione di distribuzione di poteri attraverso il sistema correntizio. Non lo dico solo io. L’ha detto anche Di Matteo e in un certo senso anche Gratteri, che è favorevole al sorteggio. L’ex procuratore antimafia Roberti, del Pd, ha detto che era un mercato delle vacche. La magistratura ha raggiunto un terzo della credibilità che aveva ai tempi della lotta al terrorismo e poi di Mani Pulite. Non dipende dagli attacchi della politica, dipende dal fatto che si è screditata da sé. E questo discredito, ripeto, è emerso con lo scandalo Palamara ma soprattutto col fatto che non hanno voluto fare chiarezza e tutto è rimasto come prima. È per questo che siamo dovuti intervenire con il sorteggio dei consiglieri”. Ma se la riforma venisse confermata al referendum, le garanzie dei cittadini nel processo si indeboliranno o si rafforzeranno? “Le garanzie saranno rafforzate al massimo perché finalmente avranno la possibilità di vedere dei magistrati che non saranno vincolati, o lo saranno molto meno, alle correnti, alle quali oggi devono appartenere perché altrimenti non fanno carriera. La prima domanda che fa il cliente quando va dall’avvocato, e questo lo sanno anche i magistrati, è: “Ma il giudice di che corrente è?”. La segretaria Elly Schlein ha detto come il Pd cercherà di convincere gli italiani a votare “no” al referendum: “Se pensi che i giudici debbano obbedire a chi governa allora conferma la riforma, se invece pensi che anche chi governa, come tutti, debba rispettare la legge e la Costituzione allora vota no”…. “Mi stupisco di come una persona intelligente come Schlein possa dire cose che non sono minimamente presenti nella riforma né nello spirito nelle nuove norme”, risponde Nordio. “Sono slogan che non hanno nessun fondamento. Anzi, è previsto il contrario: una separazione delle carriere, con un’alta corte di giustizia assolutamente imparziale, è il contrario dell’assoggettamento della magistratura all’esecutivo. Poi se vogliono fare un processo alle intenzioni perché non hanno altri argomenti lo facciano pure”. Uno dei padri della riforma del codice del 1989, Giuliano Vassalli, era socialista e voleva la separazione delle carriere. Alla Bicamerale D’alema diversi esponenti del Pds proposero la separazione delle carriere. Nel 2019 Maurizio Martina presentò una mozione per diventare segretario del Pd, alla quale aderirono tanti alti dirigenti del partito, che prevedeva la separazione delle carriere. La sinistra si è dimenticata che questa riforma fa parte della sua storia? “Io non sono di sinistra, ma sono un liberale puro e quindi non mi permetterei mai di dare consigli a una persona di sinistra. Posso solo notare che la tradizione culturale della sinistra è proprio quella garantista di difendere il più debole, e davanti al giudice l’indagato-imputato è sempre il più debole, anche se è ricco e potente. Per questo, ripeto, trovo enfatico e anche sorprendente sentire certe affermazioni da una persona seria come Schlein, che non è un grillino analfabeta come ne ho sentiti mercoledì alla Camera. Uno ha confuso il codice penale con quello di procedura penale, un altro ha detto che la rapina deve essere ricondotta tra i reati perseguibili d’ufficio, come se adesso fosse perseguibile a querela di parte”. L’anm ha istituito un comitato per il “no”. Ritiene che si tratti di un’iniziativa di carattere politico? “La creazione di un comitato ha sempre un minimo di connotazione politica. Non ho mai detto e non dico che il comitato sia illegittimo. Penso semmai che è inopportuno nell’interesse della magistratura, perché più la magistratura si espone con delle iniziative che vengono necessariamente interpretate come iniziative politiche, e più fa cadere la credibilità della sua imparzialità”. La riforma è stata approvata senza alcuna modifica rispetto al testo inizialmente licenziato in Consiglio dei ministri. Crede che il governo avrebbe potuto mostrare in Parlamento maggiore apertura al confronto con le opposizioni? “Poiché conosciamo benissimo i tempi che occorrono per una riforma costituzionale, cioè tra i due e i tre anni tra iter parlamentare e referendum, si sarebbe subito dovuto iniziare con un dialogo costruttivo. Diciamo la verità: c’è stato un niet, cioè un no assoluto e pregiudiziale da parte dell’anm, che ha subito fatto uno sciopero dopo una visita di cortesia. Sul piano politico, ci è stato risposto che sulla separazione delle carriere e sul sorteggio del Csm non ci poteva essere alcuna trattativa. Allora non vedo su che altro avremmo potuto trattare. Che le opposizioni non avessero nessuna intenzione di instaurare un dialogo costruttivo lo si è visto nelle commissioni, dove hanno fatto di tutto per ritardare i tempi. Hanno chiamato in audizione decine e decine di persone per procrastinare i tempi. Fino all’ultimo hanno sperato che questa riforma non si sarebbe fatta e invece noi l’abbiamo fatta”, dice soddisfatto Nordio. Ministro, nei prossimi mesi sarà chiamato ovunque per dibattere della riforma e del referendum. Ha intenzione di girare l’Italia? “Compatibilmente con gli impegni di governo. Ho accettato questo gravoso incarico, sottraendomi dai miei amati libri, dal mio sport e dalla famiglia, perché volevo realizzare queste riforme. Quindi adesso certo che mi spenderò, compatibilmente ovviamente con gli impegni ministeriali”. Ma se il referendum andrà male e vincerà il “no”, si dimetterà? “Se la riforma non venisse approvata resterei sicuramente deluso, ma non metterei in difficoltà il governo con le mie dimissioni. Come ha detto la premier, e come insisto io, questo referendum non ha e non deve avere un significato politico ‘Meloni sì-meloni no’. In caso di sconfitta non cambierebbe nulla, salvo ovviamente il mio rammarico personale”. “No alla separazione”, per la sua campagna l’Ann sceglie un prof di Mario Di Vito Il Manifesto, 1 novembre 2025 Il costituzionalista Grosso alla guida del comitato delle toghe. Ma nello scontro mediatico già emerge la leadership di Gratteri. Ha il volto rassicurante, il tono di voce pacato e l’eloquio raffinato, Enrico Grosso, avvocato penalista, docente di diritto costituzionale a Torino, presidente onorario del comitato lanciato dall’Anm per sostenere il no al referendum sulla riforma della giustizia, previsto per la prossima primavera. Il problema è che il dibattito pubblico non funziona così e per accorgersene basta prestare appena un minimo di attenzione verso volti, toni ed eloquio di chi lo frequenta abitualmente. Tutto il contrario rispetto a un Grosso, presentato ufficialmente ieri nella sede dell’Anm al quinto piano del palazzaccio della Cassazione, che parla della separazione delle carriere come di uno “specchietto per le allodole” perché in realtà si parla di una “riforma della garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura”. E poi argomenta: “Il punto vero è che si tocca è il Csm sotto tre profili fondamentali: viene duplicato e depotenziato, sorteggiato nella componente togata e gli viene sottratta la funzione disciplinare. Questo serve a realizzare il disegno complessivo di indebolire il principio di autonomia e indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello stato e in particolare da quello politico”. Anche il giudice Antonio Diella, presidente esecutivo del comitato, fa professione di ragionevolezza. “La nostra sfida, bellissima, è quella di uscire dai convegni per parlare con i cittadini - dice -, non andremo a riporto di nessuna forza politica, vogliamo dimostrare di non essere una casta né una corporazione”. Dall’altra parte abbiamo già visto quali sono i toni. L’ultimo esempio è eloquente: la Corte dei conti boccia il ponte sullo Stretto di Messina e la premier Meloni risponde dicendo che ci penserà la riforma della giustizia a pareggiare i conti. L’intento punitivo del governo verso i magistrati (peraltro quelli contabili non sono minimamente toccati dalla faccenda, ma non importa) è palese. E non passerà giorno, da qui fino al referendum, senza che si parli di casi di malagiustizia, indagini ormai assurde su cold case di decenni fa, dossieraggi sulle vere o presunte stranezze personali di questo o di quel giudice. Questo sarà il dibattito, inutile farsi illusioni. Così, chi in realtà ha già preso le redini del gioco e non le mollerà è Nicola Gratteri, procuratore di Napoli e volto televisivo capace di attrarre share da partita della nazionale di calcio. Il suo frasario è eloquente: “Quando c’è un governo di destra, mi dicono che sono di sinistra. Quando ce n’è uno di sinistra, dicono che sono di destra. I colleghi mi danno del fascista”; “Stanno demolendo il codice di procedura penale, potremo indagare solo i ladri di polli”; “Gli errori giudiziari? Chi mangia fa molliche”. Con la soglia d’attenzione corrente - stimabile in pochi secondi - lo stile gladiatorio di Gratteri funziona alla grande, quello colto di Grosso molto meno. Sarà sconsolante, ma è un dato di fatto. Il Comitato “Sì separa” messo su dalla Fondazione Einaudi a sostegno della riforma, conta tra le sue file un gran numero di persone ben allenate al ritmo televisivo, dal presidente Gian Domenico Caiazza a Claudio Velardi, da Ernesto Galli Della Loggia a Pierluigi Battista, fino a quello che quasi inevitabilmente sarà il frontman, Antonio Di Pietro, corteggiatissimo dal governo, anche se lui assicura che farà campagna di testa sua (e c’è da credergli, almeno su questo). Resta il piano del merito del discorso, che nonostante tutto è il più importante, perché la materia è delicata e riguarda da vicino quello che accade nei tribunali del paese. E così se chiediamo a Grosso perché secondo lui la stragrande maggioranza delle associazioni forsensi, piene di suoi colleghi avvocati, sostenga il sì alla riforma, la risposta è molto chiara. “La separazione delle carriere è uno slogan caro a molti, a partire dall’Unione delle camere penali - sostiene il costituzionalista -, si sono fatti coinvolgere perché così potranno dire di aver realizzato questo loro obiettivo. Ma la separazione è già nei fatti dopo la riforma Cartabia e la vera partita è un’altra”. Quella che punta al Csm e alla demolizione dell’attuale ordine giudiziario. “Questa cosa dovrebbe preoccupare per primi gli avvocati”, conclude Grosso. La strada verso il referendum è tracciata. Nel comitato dell’Anm l’ultima discussione riguarda la possibilità di raccogliere le firme per indire la consultazione. Non ce n’è bisogno, in realtà: parlamentari sia di maggioranza sia di opposizione possono supplire l’incomodo dell’organizzazione dei banchetti e molti si sono detti disponibili a farlo. Ma la febbre già sale: Pd, M5s e Avs vogliono partire subito. Saranno mesi lunghissimi. L’oblio della “apparenza d’imparzialità” del magistrato di Nicolò Zanon* Il Riformista, 1 novembre 2025 I Palazzi di giustizia sono di tutti noi, non dell’Anm o dei soli magistrati. Luoghi in cui si amministra la giustizia, in cui deve regnare la neutralità. E, in riferimento a quest’ultima, per non offuscare la fiducia di cui deve godere la magistratura nella società, è essenziale il valore della stessa apparenza d’imparzialità. Chiediamoci, allora: quale immagine di imparzialità avranno, alla fine, questi magistrati, dopo l’attiva partecipazione a una durissima campagna referendaria? Inoltre, dal modo in cui si atteggia e presenta le proprie iniziative, il comitato per il No dell’Anm finisce per sembrare una organizzazione che “rappresenta” la totalità della magistratura italiana. Una magistratura schierata compattamente contro una revisione costituzionale adottata dal potere legittimo, quello di revisione previsto all’art. 138 della nostra Costituzione. Tutto viene infatti presentato come se l’ordine giudiziario, oggetto delle proposte di modifica di una parte significativa della Costituzione, voglia farsi soggetto politico che ostacola e si oppone a quelle modifiche. Se è lecito spingere il paradosso agli estremi, è come se a fronte di una proposta di modifica che tenda a limitare il bicameralismo perfetto, il Senato o la Camera (non alcuni partiti, ma proprio gli organi costituzionali della rappresentanza politica!) costituissero un comitato per opporsi alla limitazione dei propri poteri. Da tutto questo, come minimo, deriva all’osservatore una sensazione di disagio, la percezione che sta accadendo qualcosa di profondamente sbagliato. Ci vorrebbero, ma se ne sono finora sentiti davvero pochi, magistrati che facessero vibrare una voce dissonante, non tanto sul “no” alla riforma, ma proprio su questa creazione di un comitato dell’ANM, che finisce per essere assimilato all’intero ordine giudiziario. Anche se c’è qui un ulteriore paradosso: magistrati che fanno della sacrosanta discrezione la cifra del proprio lavoro, come potrebbero sentirsi a proprio agio nel dover assumere pubblicamente posizioni di rottura con i propri colleghi? Oppure, ci vorrebbe, in un mondo ideale e a stigma di questo ingresso dell’ANM in campagna referendaria, una presa di posizione del CSM (per farlo giocare in casa: attraverso una “pratica a tutela” dell’imparzialità dell’ordine giudiziario!): ma chi seriamente può crederci? Sappiamo bene, purtroppo, che la componente togata del CSM è, quasi del tutto (e in quel “quasi” si annida una timida speranza), la trasposizione dell’ANM in ambito istituzionale, e, del resto, una delle ragioni che hanno mosso la riforma è proprio la rottura di questa perniciosa identificazione. La sensazione di disagio si aggrava alla luce di alcuni eventi ai quali abbiamo assistito nelle ultime settimane: Palazzi di giustizia di varie città utilizzati come vere e proprie sedi di iniziative dirette a presentare ai cittadini il comitato per il No e i suoi argomenti, con il coinvolgimento di compagnie variegate di celebrities (cantanti, attori, scrittori: e però, queste adunate elettorali di ricchi e famosi non portano quasi mai bene…). Il culmine di questi eventi è stato l’utilizzo dell’aula magna della Corte di cassazione: qui il valore simbolico dell’iniziativa è stato spinto all’estremo e la questione si fa seria assai. I Palazzi di giustizia sono di tutti noi, non dell’ANM, e nemmeno dei soli magistrati. Sono i luoghi in cui si amministra la giustizia, imparzialmente e per tutti, e sono soprattutto luoghi in cui deve regnare la neutralità politica delle istituzioni e degli apparati amministrativi di supporto, richiesta dallo stesso articolo 97 della nostra Costituzione. Attenzione: la legge n. 28 del 2000 (soprattutto l’art. 9, comma 1) in tema di comunicazione istituzionale fa divieto alle amministrazioni pubbliche di svolgere attività di comunicazione durante i periodi di campagna elettorale: scopo di queste norme è quello di evitare che le pubbliche amministrazioni forniscano, attraverso modalità comunicative e contenuti informativi non neutrali, una rappresentazione suggestiva, a fini elettorali, dell’amministrazione e dei suoi organi titolari. Vero che qui si ha a che fare con apparati di supporto all’amministrazione della giustizia, e vero che non siamo formalmente in un periodo di campagna elettorale. Ma la ratio di quella legislazione ammonisce: non si dovrebbero usare a fini di parte i luoghi adibiti all’amministrazione della giustizia, con modalità suggestive, in vista di obiettivi elettorali, in violazione degli obblighi di neutralità politica, in spregio al pluralismo e alla libertà di voto degli elettori. Alla fine, se la magistratura utilizza partigianamente i Palazzi di giustizia, possono accadere due cose, di significato opposto, ma entrambe negative: da un lato, il messaggio divulgato da quelle sedi rischia di acquistare, proprio perché da lì proviene, un indebito plusvalore di legittimità e verità, che in realtà inganna; dall’altro, il messaggio finisce per coinvolgere nel gorgo della polemica e della parzialità gli stessi luoghi in cui si amministra la giustizia. Nessuno di noi conosce ovviamente l’esito del referendum. C’è però da temere, per l’ordine giudiziario ostaggio di queste linee di comportamento dell’ANM, che le cose finiranno male, qualunque sia l’esito. Perché facendosi così palesemente soggetto politico di parte, la magistratura rischia di gettare alle ortiche quel che le resta della fiducia dei cittadini. *Ordinario diritto costituzionale, ex giudice della Consulta “I pieni poteri sono quelli di alcuni pm. La sinistra che espone cartelli? Una tristezza infinita” di Ginevra Leganza Il Foglio, 1 novembre 2025 Parla Gaia Tortora. “L’aula è come sempre un Asilo Mariuccia - aggiunge - e la sinistra mi fa una tristezza infinita”. La giornalista di La7, figlia di Enzo Tortora, si spiega, tra lo sconforto e il raccapriccio: “Io non sono un cartello”. L’opposizione, al di là delle sfumature, tende a pensare che la riforma della giustizia del governo Meloni arrischierà il regime democratico. Separazione delle carriere e simulacri fascisti: che effetto le fa? “Io ho toccato con mano, insieme a mio padre, il livello di violenza del potere giudiziario che non risponde di nulla. Ecco, questo sistema, semmai, è il contrario della democrazia. È facile scrivere un cartello, con una frasetta infantile. Ma io non sono una frasetta”. I pieni poteri sono quelli dei pm che possono mandare in carcere un cittadino senza prove? “Sì, è così. Ciò detto, questa non è la ‘riforma della giustizia’, ma la riforma di una sua parte. Non è la soluzione definitiva a tanti problemi, ma è un passo in avanti di un lungo cammino. E questo va riconosciuto al ministro Nordio”. Lei, però, ha scelto di non far parte del Comitato per il sì. Perché? “Perché io sono un comitato esistente. Sono il comitato di me stessa. E credo sia la cosa più bella. Me l’hanno chiesto in parecchi, in realtà. Ma preferisco essere libera di andare dove desidero, quando lo desidero. Di dire quello che credo o di non dire niente se il livello del dibattito resta quello di adesso: basso”. Cosa la inorridisce del dibattito? “La politicizzazione e la polarizzazione dello scontro”. A tal proposito, la separazione delle carriere, se ci sarà, si legherà indissolubilmente al governo Meloni. Sarà un successo della prima premier donna, di destra. E tuttavia non è storicamente un obiettivo della sua parte politica, questo…. “Ecco. Il dibattito è fuorviante perché i riferimenti della separazione sono appunto Pisapia e Vassalli. Non proprio due estremisti neri. L’opera del ministro Nordio è meritoria, certo, ma è l’esito di un cammino iniziato nel 1988. E non, dopo, con Silvio Berlusconi...nessuno in Forza Italia si offenda”. La sinistra italiana sta consegnando una battaglia di civiltà all’avversario? “Sì. Il referendum sulla disciplina della responsabilità civile dei magistrati ci fu nell’87, in seguito alla vicenda di mio padre. Io posso anche comprendere la politicizzazione in virtù di una strategia politica, ma in questo caso non ha senso. E penso che neppure il centrodestra dovrebbe politicizzare il referendum”. A cominciare da Matteo Renzi, ex premier ed ex fervente sostenitore della separazione, è straniante che alcuni esponenti cosiddetti riformisti ora la boicottino. O no? “Cosa posso dire se non che la sinistra la butta in caciara sempre? Basterebbe ricordare la storia per destrutturare lo scontro che si sta apparecchiando. E se poi il refrain è quello per il quale la separazione delle carriere non risolve di un centimetro i problemi della giustizia, si è del tutto fuori fuoco”. Perché? “Perché, come ho detto, questa non è la riforma della giustizia, bensì di una sua piccola ma fondamentale parte”. La controprova del fatto che non è, per sua natura, una riforma di destra (ma trasversale) è forse nel “sì” di non pochi uomini di sinistra e nel “no” di Nicola Gratteri che non oserebbe definirsi tale… “Voteranno sì Goffredo Bettini, Stefano Ceccanti. E poi Sabino Cassese che non so dove si colloca, e che non colloco perché non ho la sindrome di Travaglio. Questo solo per dire che se si restasse nel merito si capirebbe che non ci sono allarmi democratici o anticostituzionali. La Costituzione e l’articolo 104 garantiscono l’indipendenza della magistratura”. Suo padre Enzo Tortora avrebbe fatto parte del comitato per il sì? “Quando ho detto che io stessa sono un comitato vivente, un po’ scherzavo. Ma non troppo. Mio padre è suo malgrado un comitato. Io sono libera e liberale come lui. Libero, liberale e poi Radicale. Perché i Radicali sono stati gli unici a offrirgli la possibilità di portare avanti la sua battaglia”. “L’Anm resti fuori dall’arena politica. La magistratura non può farsi partito” di Valentina Stella Il Dubbio, 1 novembre 2025 Parla Claudio Galoppi, segretario di Magistratura indipendente: “Serve un approccio tecnico alla riforma, non uno scontro pro o contro il governo. La partita è ancora aperta”. L’Anm parli tecnicamente della riforma, abbandoni i connotati ideologici e non si faccia coinvolgere nello scontro pro o contro governo. La partita è ancora aperta. A dirlo in questa intervista è Claudio Galoppi, segretario di Magistratura Indipendente. Toghe “non cadete nell’abbraccio mortale delle opposizioni” auspica Nordio. È d’accordo? Non si deve cadere nell’abbraccio di nessuna forza politica perché qualunque perdita di terzietà è mortale per l’autonomia della magistratura, un bene prezioso che oggi va salvaguardato ad ogni costo. L’Anm sembra “una succursale” del Pd, dice il suo collega del gruppo dei CentoUno Andrea Reale. Condivide? Mi sembra un giudizio ingeneroso e infondato nella sua generalizzazione, che tuttavia prende spunto da atteggiamenti di una parte della magistratura connotati ideologicamente: è un atteggiamento incompatibile con l’idea stessa di giurisdizione che deve rifuggire da qualunque forma di condizionamento culturale o addirittura politico-partitico. Il senatore Marcello Pera ha detto in Aula: o “l’Anm perde il referendum e allora diventa un piccolo e irrilevante soggetto che si aggiungerà al Campo largo. Oppure vince e che cosa diviene? Diventa soggetto politico egemone nella lotta di liberazione contro la dittatura del governo Meloni”. Come commenta? È il lucido giudizio che scolpisce la situazione che si verrebbe a creare se l’Anm non si tenesse lontana dalla dimensione strettamente politica alla quale si vuole ridurre il dibattito referendario: è per questo che io ho insistito sul fatto che la partecipazione dell’Anm a tale dibattito dovrà essere di natura tecnica, per spiegare i limiti strutturali di questa riforma che rischia di ottenere addirittura un effetto contrario a quello perseguito. Secondo lei al momento l’Anm sta conducendo la comunicazione con i toni giusti o avrebbe qualche consiglio da dare? Il consiglio è quello ora espresso: non farsi coinvolgere nello scontro pro o contro il governo in carica. Il presidente onorario del Comitato del No è il costituzionalista e avvocato Enrico Grosso. Approva questa scelta o avrebbe suggerito un altro nome o un altro profilo? Non è mio compito dare suggerimenti o indicazioni. Si tratta di un giurista autorevole che potrà dare un contributo significativo in questa delicata fase. Dopo la bocciatura della Corte dei Conti del ponte sullo Stretto, dal governo sono arrivate le solite accuse verso una magistratura che invade le scelte politiche. Che ne pensa? Prima di esprimere un giudizio occorre, per serietà, attendere le motivazioni sottese al giudizio negativo espresso dalla Corte dei Conti. È certo però che il reciproco rispetto istituzionale è la condizione essenziale per un confronto e un dibattito leali e proficui. Il sottosegretario Mantovano due giorni fa in una intervista al Corriere della Sera ha detto che “ancora oggi le nomine più significative avvengono tenendo conto anche della militanza correntizia” quindi ben venga il sorteggio. È d’accordo con la diagnosi e con la cura? Sono ben note le derive negative del correntismo, ma non dimentichiamo che alla base vi è comunque il dato ineliminabile delle diversità culturali che caratterizzano le divisioni presenti nella stessa società civile. In ogni caso il meccanismo del sorteggio non sembra certo la soluzione al problema: non tutti i magistrati hanno la capacità di gestire un’attività complessa come quella svolta dal Csm, così si rischia di attribuire un enorme potere a persone non adeguatamente strutturate per tale funzione; per non dire poi che i “sorteggiati” inevitabilmente formeranno della “aggregazioni” (è nella dinamica stessa del funzionamento degli organismi collegiali) in base a criteri tutt’altro che trasparenti ed adeguati alla importanza del ruolo rivestito. Insomma, il sorteggio, cioè l’eliminazione per i soli magistrati ordinari dell’elettorato attivo e passivo, è lo strumento con il quale si vuole svilire il governo autonomo della magistratura. Il ministro Nordio dice: “Non abbiamo paura del referendum”. Secondo lei dovrebbe, invece? La partita è aperta? La partita è aperta perché è difficile fare previsioni in quanto le appartenenze ai due schieramenti sono trasversali. Sarà nostro compito spiegare la posta in gioco e soprattutto far capire a ogni cittadino che questa riforma non risolve nessuno dei problemi che davvero riguardano il funzionamento della giurisdizione, dalla durata dei processi alla qualità delle decisioni. Quando prevenire è peggio che punire: il caso delle interdittive antimafia di Giovanni Francesco Fidone* L’Unità, 1 novembre 2025 Quando parlo di interdittive antimafia, e lo faccio spesso vista la mia professione, sento sempre la necessità di una premessa, per non scadere in equivoci: quella che leggerete è una critica all’istituto, per come concepito all’interno del nostro ordinamento giuridico, e non di certo alle finalità che intende perseguire. La mafia è un fenomeno che va contrastato con ogni forza e ogni strumento possibile, entro i confini del nostro stato di diritto. Ma gli strumenti delle interdittive, oltre a rivelarsi troppo spesso inefficaci sul piano pratico, determinano storture che travolgono vite di persone, aziende e diritti fondamentali. La logica su cui si fondano questi provvedimenti è la medesima dello scioglimento dei consigli comunali ex art. 143 del Tuel, cioè quella del “più probabile che non”. Tutto si fonda su un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico: nessun accertamento di responsabilità, in capo a nessuno, ma un atto con finalità di prevenzione che ha più o meno gli effetti della peste bubbonica. La giurisprudenza amministrativa è piena di decine e decine di casi di aziende che sono state colpite da interdittiva per le più disparate ragioni e che sono risultate, all’esito di lunghi procedimenti giudiziari, assolutamente distanti da qualsiasi forma di contiguità mafiosa. Le conseguenze di questi provvedimenti, tuttavia, sono disastrose e comportano, letteralmente, l’interruzione della vita di aziende e imprenditori, senza limiti ragionevoli di tempo. Se le Prefetture di tutta Italia applicano in maniera altamente discrezionale l’istituto è perché la norma lo consente. E ciò determina nelle Amministrazioni una inevitabile e comprensibile predisposizione a emettere il provvedimento, tanto, al più, sarà un Giudice Amministrativo ad annullarlo. Tanto nessuno risarcirà nessuno e nessuno pagherà per gli anni di vita di cui gli sfortunati protagonisti di queste vicende sono stati, ingiustamente, privati. Perché la tutela risarcitoria, in questo campo, è assai residuale e sono rarissimi i casi in cui all’annullamento di una interdittiva fa seguito un ristoro dei danni patiti. Senza contare quanto statuito dal Consiglio di Stato con l’Adunanza Plenaria n. 3 del 2022: nella lettura più conforme alla norma sia chiaro, riconobbe titolo a conseguire un risarcimento dei danni solo alle società e non ad amministratori e soci. Come se questi provvedimenti non incidessero sulla vita degli amministratori, dei soci e delle persone che vivono dietro il soggetto giuridico colpito. Nel corso della mia vita professionale ho affrontato tantissimi casi di aziende colpite da interdittiva per le più disparate ragioni e assolutamente distanti da qualsiasi forma di contiguità mafiosa. Ricordo, fra tutti, il caso emblematico dell’azienda colpita da interdittiva, a causa di un dipendente ritenuto contiguo a soggetti che avevano commesso “reati spia” e cioè sintomatici del rischio di contaminazione criminale. L’azienda licenziò immediatamente il dipendente e, oltre al contenzioso davanti ai Giudici Amministrativi, avviò una concreta opera di “self cleaning”. Un giorno, il titolare dell’azienda invitò l’ex dipendente a un convegno organizzato da “Nessuno tocchi Caino” proprio sul tema delle interdittive: un’occasione per approfondire una questione dai contorni poco chiari, che lascia alle Prefetture campo libero alle più disparate interpretazioni sui rischi di contaminazione criminale di un’azienda. Di ritorno dal convegno, il titolare della ditta e l’ex dipendente furono fermati a un posto di blocco di routine, che si concluse dopo pochi secondi di controllo. Al momento della rivalutazione della posizione della ditta, mesi dopo, la Prefettura indicò quale indice di contiguità mafiosa il fatto che l’imprenditore e l’ex dipendente fossero insieme in auto, nonostante nel corso del procedimento amministrativo fossero state fornite tutte le giustificazioni del perché (ricevute dell’hotel, invito al convegno sulle interdittive, locandine). Non mi stanco di dirlo: il nostro paese ha bisogno di strumenti concreti ed efficaci nella lotta alla criminalità organizzata e non di quello che spesso si trasforma in una caccia alle streghe. Sarebbe ora di ancorare l’emissione dell’interdittiva a presupposti giuridici certi, che siano rigidamente tipizzati o, ancora, sarebbe ora di introdurre strumenti di limitazione della discrezionalità di cui godono le Amministrazioni e di far prevalere il principio di certezza del diritto. E allora, le associazioni, i partiti, i movimenti, possono farsi propulsori di una battaglia di civiltà, perché l’istituto diventi autentico presidio di legalità e venga per questo opportunamente rivisto nelle aule a ciò deputate. E, soprattutto, perché prevenire non diventi, davvero, peggio che punire. *Avvocato amministrativista Lecce. Detenuto di 25 anni si impicca, era tossicodipendente e con problemi psichici Corriere Salentino, 1 novembre 2025 Tragedia nel reparto infermeria del carcere di Lecce, dove un detenuto di 25 anni, di origine straniera ma adottato da una famiglia salentina, si è tolto la vita. Secondo le prime ricostruzioni, il giovane - tossicodipendente e con una personalità fragile - aveva già mostrato in passato segnali di disagio. Lo rende noto il segretario generale aggiunto dell’Osapp, Pasquale Montesano. “Nonostante i tempestivi soccorsi della Polizia penitenziaria e del personale sanitario, ogni tentativo di rianimazione - riferisce - è stato vano. La casa circondariale di Lecce ospita oltre 1.000 detenuti a fronte di una capienza di gran lunga inferiore, configurandosi tra gli istituti più sovraffollati d’Italia. La Polizia penitenziaria, inoltre, conta circa 150 unità mancanti rispetto alla pianta organica, in una situazione ormai divenuta ingestibile sia dal punto di vista operativo che umano”. “Con quest’ultimo tragico episodio, sale a 68 il numero complessivo dei detenuti suicidatisi dall’inizio del 2025, ai quali si aggiunge un internato in una Rems e tre operatori penitenziari. Se, per rispetto verso altri drammatici teatri, non vogliamo parlare di un vero e proprio bollettino di guerra di certo - aggiunge - siamo di fronte a una tragedia che vi si avvicina molto, nella sostanziale indifferenza della politica di maggioranza”. “Il sistema penitenziario italiano è al collasso, con le regioni del Sud tra le più penalizzate. Oggi non bastano più proclami o annunci: serve subito un ‘decreto carceri’ per deflazionare la densità detentiva, rafforzare la Polizia penitenziaria, potenziare la sanità penitenziaria e prevenire - conclude Montesano - un disastro che, in molte realtà del Paese, è già in corso. Prima che accada l’irreparabile, il governo deve agire con urgenza e consapevolezza”. Milano. Rinchiuso in carcere per 10 anni in sedia a rotelle e senza fisioterapia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 novembre 2025 In carcere a Opera per 10 anni in sedia a rotelle e senza fisioterapia: la Cedu condanna l’Italia per trattamento disumano. La sentenza arriva secca, l’ennesima: l’Italia condannata per trattamento disumano e degradante. La Prima Sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo ha accertato che il nostro Paese ha violato l’articolo 3 della Convenzione nei confronti di Teodoro Crea, detenuto presso la casa di reclusione di Opera dal marzo 2016, e difeso dall’avvocato Pasquale Loiacono. Parliamo di un uomo nato nel 1939, costretto in sedia a rotelle da ventiquattro anni per le conseguenze di una ferita d’arma da fuoco, che ha trascorso oltre un decennio di detenzione senza ricevere in modo costante quella fisioterapia che ogni singolo perito nominato dalle autorità giudiziarie aveva indicato come necessaria. Non è una storia di incompatibilità assoluta con il carcere. È la storia di un trattamento terapeutico promesso e mai garantito, di cicli di riabilitazione iniziati e poi abbandonati, di prescrizioni mediche rimaste sulla carta mentre un uomo cadeva diciassette volte in sette anni secondo quanto documentato nel suo dossier sanitario. La vicenda inizia il 23 maggio 2014 con l’ordinanza di custodia cautelare del giudice di Reggio Calabria. Teodoro Crea viene rinchiuso nel penitenziario di Parma. L’emiplegia del lato sinistro del corpo, causata nel 2001 da un colpo d’arma da fuoco, lo ha reso dipendente dalla sedia a rotelle per ogni gesto della vita quotidiana. Sei procedimenti penali porteranno a condanne definitive per 27 anni, 4 mesi e 17 giorni per associazione di tipo mafioso. L’11 agosto 2014 un perito nominato dal giudice stila un rapporto chiaro: lo stato di salute di Crea è compatibile con la detenzione a tre condizioni. Assistenza quotidiana del personale sanitario. Trattamento costante da un fisioterapista. Terapia farmacologica adeguata. Quattro mesi dopo, nessuna delle tre misure è stata attuata dall’amministrazione penitenziaria. Il 23 dicembre 2014 il medico di Parma firma un rapporto allarmato: Crea è caduto più volte dalla sedia a rotelle, non può essere detenuto in quella prigione per le barriere architettoniche. Il 4 novembre 2015 il tribunale di Palmi ordina il trasferimento immediato. Il 16 marzo 2016 Crea arriva a Opera, in una cella per disabili nel servizio di assistenza intensiva. Ed è a Opera che la storia prende una piega paradossale. Il dossier medico registra un primo ciclo di fisioterapia nel novembre 2014 a Parma, interrotto per le difficoltà di movimento. Nel 2015 e 2016 seguono due cicli di sedute bisettimanali. Un nuovo ciclo tra maggio e giugno 2017. Nel 2018 un ciclo da gennaio a febbraio, poi ad aprile i medici prescrivono urgentemente un altro ciclo che parte in ottobre ma si ferma per l’aggravamento della patologia polmonare. L’ultimo ciclo va dal 14 al 25 gennaio 2019. Poi più nulla. Un rapporto del 30 agosto 2023 parla di ‘ diversi cicli interrotti dalla pandemia Covid- 19’ e riferisce che Crea è ‘ in attesa di un medico rieducatore per un nuovo ciclo’. In attesa dopo quattro anni dall’ultima seduta. Nel frattempo le perizie si susseguono. Il 24 settembre 2020 la Corte d’appello nomina due periti che concludono: lo stato di salute è compatibile con la detenzione se c’è assistenza costante e un percorso di fisioterapia. Aggiungono una frase pesante: se è impossibile garantire questi trattamenti in carcere, la migliore alternativa è trasferirlo in una struttura di cure con servizi di assistenza e rieducazione. È il 2020. L’ultimo ciclo di fisioterapia risale a diciannove mesi prima. Tra il 2015 e il 2022 i medici riferiscono di circa diciassette cadute. Crea tenta di spostarsi da solo, di raggiungere il bagno in modo autonomo. Cade. Ogni volta il personale gli ricorda che un assistente è disponibile. La Corte di Cassazione, nell’ultima sentenza del 14 marzo 2023, scrive che le cadute sono ‘ legate alla volontà del richiedente di spostarsi in modo autonomo’. Come se voler andare in bagno senza chiedere aiuto fosse una colpa invece che un bisogno di conservare un minimo di dignità. Dal 2015 al 2023 Crea chiede ripetutamente la sostituzione del carcere con gli arresti domiciliari. Tutte le richieste respinte. I giudici italiani si riferiscono alle perizie che parlano di assistenza medica sufficiente. Ma di quale trattamento si parla, se la fisioterapia prescritta da tutti i periti non viene più somministrata? Il 7 febbraio 2022 Crea, assistito dall’avvocato Pasquale Loiacono del foro di Palmi, chiede alla Corte europea una misura provvisoria. Vuole che Strasburgo ordini all’Italia di metterlo in condizioni di ricevere le cure necessarie. Il 10 febbraio la richiesta viene respinta. Il 28 maggio deposita il ricorso e arriva la sentenza. I giudici Frédéric Krenc, Raffaele Sabato e Alain Chablais osservano che nessun perito ha mai detto che Crea non potesse essere detenuto. Quindi il mantenimento in carcere non è incompatibile in sé con l’articolo 3. Ma - ed è un ‘ ma’ decisivo - Crea soffre di una patologia invalidante che richiede fisioterapia regolare. La Corte deve verificare se lo Stato ha protetto la sua integrità fisica somministrando cure appropriate. E qui emerge il problema. ‘ Gli elementi del dossier dimostrano che i medici periti non hanno smesso di affermare che la partecipazione a cicli regolari di fisioterapia era necessaria per alleggerire la sofferenza del richiedente’, scrive la Corte. È stato anche sottolineato che in caso di impossibilità di fornire questi trattamenti in carcere, Crea avrebbe dovuto essere trasferito in una struttura adeguata. Il governo italiano, rappresentato dall’avvocato dello Stato D’Ascia, sostiene che Crea ha beneficiato di un percorso medico adeguato e che ha avuto accesso alla fisioterapia fino alla pandemia. Fornisce rapporti sanitari sulle altre patologie. Ma la Corte nota un’assenza decisiva: il governo ‘ non fornisce alcun documento che dimostri che il richiedente avrebbe avuto accesso alle cure fisioterapiche in maniera costante fino alla pandemia di Covid- 19, né che avrebbe avuto l’occasione di riprendere tali cure, almeno fino al 12 febbraio 2024’. Quasi un anno prima della sentenza, cinque anni dopo l’ultimo ciclo documentato. La Corte osserva che dopo il trasferimento a Opera Crea ha ricevuto cicli puntuali di fisioterapia. Ma ‘ nessun elemento indica una ripresa dei trattamenti dopo il 2019, nonostante le prescrizioni reiterate dai periti e dai medici del penitenziario’. Senza prove ulteriori, la Corte non può concludere che Crea ha beneficiato delle cure necessarie. La conclusione è netta: ‘ Le autorità hanno fallito nel loro obbligo di assicurare al richiedente il trattamento medico adatto alla sua patologia. Il trattamento ricevuto ha ecceduto il livello inevitabile di sofferenza inerente alla detenzione ed ha rappresentato un trattamento disumano e degradante’. Crea non ha chiesto un risarcimento. La sentenza si limita ad accertare la violazione dell’articolo 3. All’unanimità. È una condanna che si aggiunge alla lunga lista di sentenze con cui Strasburgo ha stigmatizzato le condizioni di detenzione in Italia. Ma questa volta non si parla di sovraffollamento o celle anguste. Si parla di una terapia prescritta da tutti - periti, giudici, medici del carcere - e poi tradita nella pratica quotidiana. Teodoro Crea ha 86 anni. È dietro le sbarre dal 2014, a Opera dal 2016. L’ultima fisioterapia documentata risale a gennaio 2019, sei anni e mezzo fa. Le perizie dicono che quella fisioterapia è necessaria per alleviare le sue sofferenze. La Corte europea ha stabilito che non garantirgliela equivale a un trattamento disumano e degradante. Ora tocca all’Italia decidere cosa fare di questa condanna e cosa fare per evitarne altre. Un sistema penitenziario degradante, con l’aggiunta del grave sovraffollamento. Da quest’ultima constatazione nasce la nuova campagna di Antigone, “Inumane e degradanti. Il carcere italiano è fuori dalla legalità costituzionale”, accompagnata da una petizione pubblica rivolta al Parlamento e al Governo. Sassari. Svolta nell’inchiesta sul detenuto ucciso dal compagno di cella: indagato un agente di Luca Fiori La Nuova Sardegna, 1 novembre 2025 Il poliziotto penitenziario è accusato di omicidio colposo per la morte di Graziano Piana. C’è una svolta clamorosa nell’inchiesta sulla morte di Graziano Piana, il detenuto sassarese di 51 anni ucciso nella notte tra il 26 e il 27 luglio del 2022 nel carcere di Bancali dal compagno di cella, che lo aveva aggredito nel sonno con uno sgabello e un bastone. Su quella tragedia si riaccendono i riflettori a oltre tre anni di distanza con un nuovo indagato, un agente della polizia penitenziaria, in servizio - la notte della tragedia - come assistente capo coordinatore con funzioni di sorveglianza generale. Per lui l’accusa formulata dalla Procura della Repubblica di Sassari è di omicidio colposo. Secondo il sostituto procuratore Paolo Piras l’agente avrebbe commesso gravi errori nella gestione del nuovo giunto a Bancali, Giuseppe Pisano, il 30enne di Austis che quella notte colpì prima con uno sgabello alla testa Piana e poi con un bastone, uccidendolo. Il 51enne morì poche ore dopo, nel reparto di Rianimazione dell’ospedale “Santissima Annunziata”. Pisano, arrestato il giorno prima per ubriachezza molesta e maltrattamenti in famiglia, soffriva di disturbi psichiatrici gravi. Un quadro che - secondo l’accusa - avrebbe dovuto spingere il personale del carcere a non collocarlo in cella con altri detenuti. Le relazioni dei carabinieri e le consulenze psichiatriche evidenziavano infatti un rischio elevato di comportamenti violenti. Per il 30enne a marzo del 2023 il giudice dell’udienza preliminare Sergio De Luca aveva pronunciato la sentenza di assoluzione, perché incapace di intendere e volere al momento dell’omicidio, accogliendo la richiesta formulata dal pubblico ministero Angelo Beccu. Il gup aveva anche disposto che l’imputato venisse ricoverato, per un periodo minimo di cinque anni e fino a un massimo di 24, in una Rems. Sia Claudia Granieri, il perito nominato dal giudice, che Pietro Pietrini, quello del pubblico ministero, avevano concordato sulla totale incapacità dell’indagato e sulla sua elevata pericolosità sociale. L’agente finito sotto inchiesta avrebbe invece autorizzato l’ingresso e la sistemazione in cella con Piana, senza segnalare il pericolo né al medico di turno né allo staff multidisciplinare, e senza disporre particolari misure di sorveglianza. Un’omissione che per la Procura di Sassari ha avuto conseguenze fatali. L’accusa nei confronti dell’agente, assistito dall’avvocato Marco Palmieri, è fondata su una lunga serie di presunte violazioni di regolamenti interni e circolari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che impongono massima cautela nell’accoglienza dei detenuti affetti da disturbi mentali. Il processo, davanti al gup Gian Paolo Piana, cercherà ora di chiarire se la morte di Graziano Piana potesse essere evitata. La prima udienza è stata fissata per aprile. I familiari di Piana, rappresentati dagli avvocati Paolo Spano e Vittorio Campus, dopo anni di attesa sperano che il nuovo procedimento possa chiarire se - con una più attenta applicazione delle regole di sicurezza - Graziano sarebbe ancora con loro. Monza. Visita nell’inferno del carcere: “Un pugno nello stomaco” di Barbara Calderola Il Giorno, 1 novembre 2025 Gli amministratori del Vimercatese con l’associazione Nessuno tocchi Caino alla casa circondariale. Il garante dei detenuti Roberto Rampi: “Troppi ospiti sono fantasmi, servono scelte impopolari”. Più di 700 persone,722 per l’esattezza, per 441 posti, 93 hanno meno di 25 anni, la media delle pene è di 5. Bastano pochi dati per capire “il pugno allo stomaco” rimediato dagli amministratori del Vimercatese visitando il carcere di Monza. Mercoledì, giornata di impegno per sindaci e consiglieri di Agrate, Usmate Velate e Burago accompagnati da Nessuno tocchi Caino e da Roberto Rampi, garante dei detenuti. In serata un Consiglio comunale aperto ha chiuso l’iniziativa “Verso la fine della pena”. Rita Bernardini in aula ha snocciolato i numeri. “A Monza in cella sono in 3 in 9 metri quadrati, a cui va tolto lo spazio per letti e mobili, posto sufficiente per una persona al massimo due - ha sottolineato la presidente di Nessuno tocchi Caino -. In 200 hanno bisogno di cure psichiatriche, 350 sono tossicodipendenti. Metà dei detenuti sono stranieri, molti dei quali irregolari, quindi senza documenti. Fantasmi, persone che non esistono. E che una volta fuori non avranno diritto a nulla e torneranno a delinquere. Serve un cambio di paradigma”. “Solo entrando in cella si può capire - ha aggiunto la tesoriera Elisabetta Zamparutti. I penitenziari sono affollati anche soprattutto a causa dei reati di droga, cioè del proibizionismo”. “Sono convinto che la stragrande maggioranza delle persone creda che il carcere e le sofferenze che infligge siano giuste - ha sottolineato Rampi -. Basta entrarci una volta per capire invece che non è così. Ecco perché un ruolo come il mio deve essere innanzitutto politico. Perché la politica ha il compito di fare delle scelte, anche impopolari; ha il compito di attivare le persone, anche e soprattutto attraverso la conoscenza. E proprio la visita compiuta è un’azione di diritto alla conoscenza”. La chiave di volta secondo lui è il lavoro, “unico strumento in grado di dare dignità e un futuro a chi spesso non ha alternative”. Al termine l’impegno di creare, proprio in Brianza Est, “quella rete che consenta di offrire una possibilità dopo la detenzione, un futuro a chi ha sbagliato”. Coda polemica della minoranza di centrodestra che ha puntato l’indice sull’appuntamento “trasformato dal centrosinistra in un comizio”. Per protesta i gruppi hanno lasciato l’aula. Lecco. Un confronto sulla giustizia riparativa: il carcere come rinascita di Claudio De Natale laprovinciaunicatv.it, 1 novembre 2025 A Palazzo delle Paure, un incontro dedicato alla possibilità di reinserimento sociale per chi ha vissuto l’esperienza del carcere. Protagonista la giornalista Luisa Bove, insieme a esperti e operatori del settore per riflettere su un tema complesso quanto attuale. Un incontro per discutere e approfondire i temi della giustizia riparativa, volta a favorire il reinserimento nella società di chi ha commesso reati e vissuto l’esperienza del carcere. Di questo e molto altro si è parlato giovedì 30 ottobre a Palazzo delle Paure, durante un incontro pubblico che è stato anche l’occasione per presentare il nuovo libro di Luisa Bove, intitolato Respiro. Il carcere oggi tra condanna e riscatto. La serata si è aperta con la proiezione di un breve filmato che ha introdotto il concetto di giustizia riparativa: un approccio che non punta a punire, ma a riabilitare le persone attraverso il dialogo tra rei, vittime e cittadini comuni. L’iniziativa, promossa da “L’Innominato - Tavolo lecchese per la giustizia riparativa” e mediata da Luigi Farina, ha visto diversi interventi. La scrittrice e giornalista Luisa Bove ha spiegato il significato del titolo del suo libro: “Il respiro è qualcosa di fondamentale in questo ambito: il reo, metaforicamente, lo perde nel momento in cui è oppresso tra le mura del carcere e lo riacquista quando riprende a vivere al di fuori. Nel mio libro ho raccontato storie vere, ma anche approfondito i diversi tipi di giustizia e realizzato interviste per comprendere cos’è il carcere e come lo si affronta”. Ha preso poi la parola Luigi Pagano, ex direttore di istituti penitenziari e attuale garante dei diritti delle persone private della libertà di Milano. Pagano si è soffermato sul tema della rieducazione e sul grave problema dei suicidi: “Lo scopo del carcere è rieducare, ma spesso è davvero complicato riuscirci. Una delle problematiche più gravi è quella del suicidio, non solo tra i detenuti ma anche tra gli agenti penitenziari. In tutta onestà, al momento è impossibile porvi un rimedio rapido ed efficace”. La direttrice della Casa circondariale di Lecco, Luisa Mattina, ha ribadito l’importanza del carcere come luogo di rieducazione e non di punizione, sottolineando come “oggi la pena non debba limitarsi a castigare chi ha commesso un crimine, ma favorire un cambiamento positivo”. Ha ricordato inoltre come l’istituto lecchese stia lavorando molto in questa direzione. È poi intervenuta Luisa Trimarchi, direttrice dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Como, Lecco e Sondrio, che ha spiegato nel dettaglio il valore della giustizia di comunità, basata su incontri tra rei, vittime e cittadini imparziali: “I tassi di recidiva dei partecipanti sono molto inferiori rispetto a chi non ha mai preso parte a questi percorsi”. A chiudere la serata, gli interventi di Bruna Dighera, dell’associazione “L’Innominato”, che ha posto l’accento sulle vittime e sul valore terapeutico di questi incontri anche per loro, e di Franco Lozza, un cittadino che ha partecipato a un percorso di giustizia riparativa, il quale ha raccontato “il ruolo fondamentale di una terza persona che funga da ponte per creare dialogo e connessione tra reo e vittima”. La serata è stata, come ha ricordato Mattina, “un’importante occasione per affrontare una tematica spesso trascurata, quella di un mondo quasi a parte, che sembra non esistere ma che invece è un pezzo molto rilevante della nostra società”. Cuneo. Scambio simbolico di “doni” tra la San Vincenzo e i detenuti nella Casa circondariale laguida.it, 1 novembre 2025 I detenuti del Cerialdo hanno realizzato un mosaico per ringraziare i Vincenziani dell’ecografo regalato. Una presenza silenziosa e attiva, iniziata all’inizio degli anni ‘50 e proseguita nel tempo fino ad oggi, seppur in forme e modalità differenti a seconda delle necessità e delle possibilità. Il rapporto tra la San Vincenzo e la Casa Circondariale di Cuneo ha fatto da sfondo al riuscito incontro dal titolo esemplificativo “La cura dentro le mura” organizzato venerdì scorso - 24 ottobre 2025, ndr - al Centro Incontri della Provincia, nel corso del quale c’è stata anche la consegna ai Vincenziani di un mosaico raffigurante il logo della Società di San Vincenzo De Paoli realizzato dai detenuti del carcere del Cerialdo con l’aiuto tecnico della Scuola Edile di Cuneo, come ringraziamento simbolico per l’ecografo Mindray MX5 donato dalla Società di San Vincenzo de Paoli Consiglio Centrale di Cuneo ODV alla Casa Circondariale di Cuneo in occasione del 170° anno di presenza in città dell’Associazione a servizio dei più bisognosi (1855-2025). L’incontro “La cura dentro le mura” ha visto una nutrita partecipazione di rappresentanti del mondo del carcere, a partire dal direttore della Casa Circondariale di Cuneo Domenico Minervini, l’educatore Gaetano Lucio Pessolano, il responsabile sanitario Pasquale Clemeno, il responsabile della medicina penitenziale dell’Asl Cn1 Giuseppe Bafumo, la direttrice sanitaria per i Carceri dell’Asl Cn1 Gloria Chiozza, il garante dei detenuti Alberto Valmaggia e i rappresentanti di altre associazioni che operano nel carcere del Cerialdo, a cui va aggiunta Serena Palio in rappresentanza della Scuola Edile di Cuneo. Tra gli altri interventi quello in videoconferenza della Responsabile Settore Carcere e Devianza Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV Antonella Caldar, mentre Franco Prina ha tracciato un bilancio di cinquant’anni di riforme alla luce dei principi costituzionali, dall’ordinamento penitenziario alle riforme più recenti e Alberto Valmaggia si è soffermato sul ruolo del territorio per la tutela dei diritti, in particolare sull’ascolto e sull’offerta di opportunità ai detenuti. Per l’occasione è stata anche allestita la mostra fotografica “I Volti della povertà in carcere” (Editrice EDB), con i testi di Rossana Ruggero e le fotografie di Matteo Pernaselci. “La nostra storia registra una presenza attiva nella cura dentro le mura del Carcere di Cuneo - ha detto il presidente dell’associazione Società di San Vincenzo de Paoli ACC Cuneo ODV, Piergiovanni Ramasco-Vittor -. Già nel 1952 i Confratelli facevano delle visite quindicinali ai carcerati, nella giornata carnevalesca del Martedì Grasso del marzo 1954 erano stati mandati cibo e bevande ai detenuti e nella stessa serata era stata organizzata la proiezione di un film. Nel novembre del 1955 avevano preparato un pranzo in carcere, con tutti i detenuti riuniti in un’unica tavola e serviti dai Vincenziani. Anche se questa presenza fisica è poi dovuta cessare con il trasferimento nel nuovo carcere di massima sicurezza del Cerialdo, la San Vincenzo non ha mai smesso di provvedere alle necessità dei carcerati con interventi di vario genere. In particolare, si è resa disponibile all’accoglienza con una convenzione con il Tribunale di Cuneo per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità e con un accordo di collaborazione con l’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) di Cuneo. Naturalmente oltre all’assistenza che possiamo offrire tramite questi accordi, la San Vincenzo resta sempre disponibile a collaborare con enti ed associazioni che operano direttamente all’interno delle carceri di Cuneo, Fossano e Saluzzo”. Dietro le sbarre, le città diventano visibili di Antonio Sanfrancesco Famiglia Cristiana, 1 novembre 2025 A “Destini Incrociati” l’arte incontra la giustizia, e il palcoscenico diventa un ponte tra dentro e fuori. Dietro le sbarre, dove il tempo spesso si ferma e i giorni si somigliano, c’è chi sceglie di far entrare la luce. È quella del teatro, che accende sguardi, restituisce voci, riapre immaginari. È lo spirito che anima Destini Incrociati, la rassegna nazionale di teatro in carcere giunta alla sua undicesima edizione, in programma dal 12 al 15 novembre tra Firenze, Livorno e l’isola della Gorgona. Quest’anno il tema è “Le città visibili”, un titolo che evoca la possibilità di scorgere - dietro le mura - le mappe interiori, i desideri e le memorie di chi cerca un riscatto attraverso la scena. A promuovere l’iniziativa è il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, insieme al Teatro Popolare d’Arte, con il sostegno del Ministero della Cultura e della Regione Toscana, in accordo con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità. Un teatro che attraversa i confini - La rassegna si aprirà il 12 novembre a Firenze, nel Saloncino della Pergola, con l’incontro “Il senso del teatro in carcere”. Sarà un pomeriggio dedicato al valore educativo, civile e umano della scena dietro le sbarre, con gli interventi dei rappresentanti istituzionali e di esperti come Jean Trounstine, pioniera del teatro in carcere femminile negli Stati Uniti, Bruno Mellano, già garante dei detenuti in Piemonte, e Claudio Sarzotti, sociologo e direttore del Museo della Memoria Carceraria di Saluzzo. La giornata si chiuderà con la performance musicale Innocentevasione, firmata dal gruppo I Cella Musica, formazione nata dietro le mura ma oggi libera di esibirsi anche all’esterno: detenuti, agenti e musicisti insieme, uniti dal linguaggio universale delle note. Dal 13 novembre, il testimone passa a Livorno, città che da anni accoglie il teatro come strumento di reinserimento. La mattina si apre con una tavola rotonda su Le prospettive del teatro in carcere, con gli interventi di Vito Minoia, presidente del Coordinamento Nazionale, e docenti di diverse università italiane. Poi spazio alle parole e alla scena. Nella Casa Circondariale Le Sughere andrà in scena Moby Dick, adattamento firmato da Lara Gallo e Francesca Ricci: la balena diventa specchio delle paure e delle speranze dei detenuti, simbolo di una ricerca di senso e sopravvivenza. Nel pomeriggio, il Nuovo Teatro delle Commedie ospita Sangue Giusto - Addentro, ispirato a Il bar sotto il mare di Stefano Benni, nato dal laboratorio teatrale nella Casa di Reclusione di Civitavecchia e diretto da Ludovica Andò e Veronica Di Marcantonio. Qui il mare diventa metafora del carcere: chi entra non può uscire facilmente, ma può raccontare, trasformare il dolore in parola, e la parola in libertà. La giornata si chiude con Ali, spettacolo della Compagnia Teatrale Talibè diretta da Alessandro J. Bianchi. In un luogo indefinito, forse una cella, forse una mente, forse un’anima collettiva, prende vita la riflessione su un’umanità alla ricerca di un nuovo centro. Perché il teatro, anche dietro le sbarre, non smette di cercare il futuro. La Gorgona, l’isola che parla - Il 14 novembre, la rassegna approda in un luogo simbolico: l’isola della Gorgona, l’unica colonia penale ancora attiva in Italia. Qui, tra mare e silenzio, il Teatro Popolare d’Arte presenta La città invisibile, diretto da Gianfranco Pedullà. Il testo nasce da un laboratorio di scrittura condotto da Chiara Migliorini, che ha intrecciato le parole dei detenuti con suggestioni tratte da Italo Calvino e dagli arcani dei Tarocchi. È un viaggio poetico e simbolico, dove l’isola diventa mappa di memoria, identità e desiderio di trasformazione. Il pomeriggio prosegue con un incontro dedicato a Il teatro del mare e con la presentazione di due volumi che raccontano vent’anni di esperienze tra arte e pena: Utopie nel mezzo di Stefano Tè (Teatro dei Venti) e Altrimenti il carcere resta carcere di Ornella Rosato e Alessandro Toppi. La sera, al Centro Artistico il Grattacielo di Livorno, la compagnia AlphaZtl porta in scena Lady UP, performance di teatrodanza diretta da Vito Alfarano con Francesca De Giorgi, giovane danzatrice con sindrome di Down, insieme ai detenuti della Casa Circondariale di Brindisi. È la storia di una diva che sale sul palco e, passo dopo passo, abbatte ogni stereotipo: femminile, fisico, sociale. Un teatro che non rappresenta, ma rivela. Chiude la giornata la rassegna video Teatro carcere in movimento, con cinque opere provenienti da istituti di Lecce, Venezia, Modena, Brescia e Roma Rebibbia: un viaggio per immagini attraverso le molte forme della rinascita. Voci che diventano libertà - L’ultimo giorno, sabato 15 novembre, riporta il pubblico dentro la Casa Circondariale Le Sughere, dove Giallo Mare Minimal Teatro presenta Testimonianze, racconto a più voci di esperienze nate e cresciute dietro le mura.mSegue la proiezione de Il Filo di Arianna, documentazione video del laboratorio Labirinti, coordinato da Michalis Traitsis e Gianfranco Pedullà, che esplora i linguaggi del teatro in carcere come strumento di conoscenza e cura. Nel pomeriggio, la seconda sessione della rassegna video Teatro carcere tra sogno e realtà offrirà sette nuove opere: storie di vite sospese, desideri, gesti quotidiani che si fanno drammaturgia. Accanto, un laboratorio formativo a cura di AGITA, ente riconosciuto dal Ministero dell’Istruzione, aprirà la riflessione agli operatori e ai docenti che ogni giorno lavorano nei contesti scolastici e riabilitativi. La chiusura, alle 21, sarà affidata alla voce intensa della cantautrice Erica Mou, con un concerto che suggellerà l’intera rassegna. Un ultimo atto simbolico, tra parole e musica, per ricordare che anche dietro le sbarre la vita continua a cercare la sua melodia. Quando il teatro diventa ponte - Destini Incrociati non è solo una rassegna teatrale, ma un laboratorio di umanità. Ogni spettacolo, ogni parola detta in scena, diventa un gesto di riconciliazione: con sé stessi, con gli altri, con la società. Il titolo di quest’anno - Le città visibili - racchiude il senso profondo dell’iniziativa: costruire ponti tra dentro e fuori, rendere visibili le comunità che vivono dietro le mura, ma che attraverso l’arte trovano voce, dignità e speranza. Nelle parole di uno dei promotori, “il teatro in carcere non è un privilegio, ma un diritto alla bellezza, alla consapevolezza, alla libertà”. E così, per quattro giorni, tra Firenze, Livorno e la Gorgona, le città visibili non saranno solo quelle tracciate sulle mappe, ma quelle che nascono ogni volta che un detenuto sale su un palco e pronuncia, finalmente, la propria verità. Migranti. Quei fantasmi dei Cpr sono persone di Rete Mai più lager No Cpr L’Unità, 1 novembre 2025 La deriva manicomiale del Cpr di via Corelli è conclamata, come quella di tutti i Cpr di Italia e di Albania, dove l’utilizzo degli smartphone viene vietato, in piena violazione della legge, e dai racconti che riceviamo accade ancora di peggio. Noi abbiamo visibilità di quel che accade a Milano perché una ordinanza del Tribunale del 2021 riconobbe il diritto dei detenuti di mantenere gli smartphone. A Gradisca, lo stesso gestore di Milano, Ekene, consente l’utilizzo, salvo ovviamente punire e trasferire chi viene scoperto a trasmettere immagini fuori. Da quando nel settembre 2020, in pieno covid, ha riaperto il Cpr di via Corelli, le segnalazioni sono sempre le stesse: presenza di persone con malattie mentali, anche per lunghissimi periodi, che quindi fruttano moltissimo per il gestore che guadagna per ogni giorno di presenza in più. Ed è difficile farsi sottoscrivere un mandato a difendere da persone in questa situazione, condannate a restare abbandonate e vedere peggiorare la propria situazione psicofisica. Il sistema di gestione di queste persone consiste nell’inondarle di sedativi. Ma come ormai sapete non solo le uniche. E questo è un enorme, gigante problema. I sedativi vengono somministrati a chiunque senza diagnosi specifica, in dosi massicce. “Quel giorno che ho calmato afferrandolo quel ragazzo enorme che si agitava forse hanno capito quanto sono forte, se voglio. Da allora, per circa una settimana finché non sono uscito, hanno iniziato a darmi dei sedativi, ma mentre gli altri prendevano 5 gocce a me ne davano 20. Le prendevo alle 15 e alle 20. Ora sono uscito, ma ancora, alle 15 e alle 20 mi sento agitato e sento il bisogno di prenderle ma non le prendo, anche perché non so cosa fosse, era questo nella foto (Valium). Mia nipote si è laureata in neurologia e dice che è perché ho improvvisamente smesso di prendere i sedativi, quando mi hanno rilasciato, mentre avrei dovuto scalarli. L’altro giorno ho attraversato la strada con il rosso senza accorgermene. L’altra sera a cena sono scoppiato a piangere davanti ai miei figli, è stato terribile. Un’altra volta, da mia sorella, ho improvvisamente chiuso gli occhi e mi sono ritrovato a pensare “quando mi rilasciano? voglio uscire e tornare dai miei figli”, invece ero già fuori. Sono preoccupato, ho bisogno di un supporto”. Sono tantissime le storie come queste, e molto peggiori, quando la somministrazione è durata per settimane o mesi. I Cpr producono disagio, quantomeno psichico (sono “psicopatogeni”), e producono tossicodipendenze a non finire. E’ questo che vuole il Ministero dell’Interno o la Prefettura di Milano? “Quando ritardano nella distribuzione della “terapia”, ci sono persone che impazziscono, cominciano ad urlare e a sbattere calci e pugni sulla porta. Un ragazzo ha strappato una porta pesantissima perché voleva la sua “terapia” che non arrivava.” Per prendere la “terapia”, ti chiamano in infermeria e controllano che tu l’abbia assunta tutta. Se te la danno da prendere dopo, a volte è la polizia che viene a controllare. “Apri la bocca, fammi vedere” spesso gli agenti di polizia (i primi interessati a che si mantenga l’”ordine” con questo modo molto sbrigativo) si fanno zelanti. “Uno una volta ha aperto la porta blindata perché si era accorto che una persona aveva fatto scivolare il sedativo dal bicchierino invece di ingerirlo. L’ha portato con la forza in infermeria a prenderlo davanti al personale medico e a loro”. Sembrano scene di un film americano di 50 anni fa. Invece è Milano, oggi. Migranti. Un cuore di carta ha oltrepassato le sbarre di Rete Mai più lager No Cpr L’Unità, 1 novembre 2025 Non puoi rinnovare il permesso di soggiorno perché per un problema burocratico non arriva un documento. Finisci dentro. Dopo decenni di regolarità. L’abominio dei Cpr, in particolare di quello di Milano, arriva a negare la consegna delle lettere ai detenuti, in quanto potenzialmente utili ad appiccare incendi. Questo grande bellissimo cuore di cartoncino rosso ha invece eccezionalmente oltrepassato i muri e le porte blindate di quel lager, per finire nelle mani del papà lì rinchiuso, che ha potuto portare orgoglioso con sé in cella le parole dei figli che così avevano voluto accompagnare il cibo che la mamma aveva portato nel centro per lui. Quella sera, E., al nostro centralino era scoppiato in lacrime. Li aveva sentiti al telefono tante volte, ma quel gesto concreto lo aveva toccato. Aveva paura di non vederli più, aveva paura che perdessero la casa perché non poteva più pagare l’affitto. Il pensiero dei quattro bambini soli, con la mamma con problemi di salute, era il suo primo pensiero costante, da quando quel giorno era stato convocato in commissariato con un pretesto per finire nella trappola: “Sei nella mia zona e non puoi andare in giro senza documenti”, questa la giustificazione dell’agente mentre sistemava le carte per spedirlo all’inferno. Dopo decenni di regolarità, E. non aveva potuto rinnovare il permesso a causa di un documento che doveva provenire dal suo paese dell’America Latina, e che non arrivava mai. I Cpr di Italia sono pieni di papà, presi a caso per strada, che avrebbero diritto a un permesso e non lo sanno o che per qualche problema burocratico non riescono ad avere. Ma la tecnica è quella: ti sbattono dentro. Poi a provare che avresti i requisiti per un permesso ci devi pensare tu. E ci puoi riuscire solo se non sei fragile e non soccombi alle violenze quotidiane, se resti lucido, se sei fortunato ed entri in contatto con un legale in gamba tra i tanti sciacalli in toga che si aggirano anche lì. Questa una delle differenze dal carcere, forse la più terribile: sai che il giorno X tornerai a casa; in Centro per il rimpatrio stai senza sapere “quando” e neppure “se” uscirai. In televisione vediamo le scene strazianti dell’Ice (la United States Immigration and Customs Enforcement) che negli Stati uniti separava i padri da deportare, dalle loro famiglie in lacrime. Qualcosa di molto simile accade anche nelle nostre città da oltre 25 anni, ma non ci scandalizza, perché non finisce in TV. I Centri per il rimpatrio, con il loro orrore invisibile, vanno aboliti subito. Annunci e minacce: i test sulle armi nucleari sono un caso di Francesco Palmas Avvenire, 1 novembre 2025 Le parole di Trump, che poi ha fatto retromarcia, hanno aggiunto confusione a un dibattito che divide le potenze: quali sono i numeri da conoscere per capire i possibili rischi. Ha dell’allarmante l’ordine che il presidente statunitense, Donald Trump, ha rivolto giovedì al suo Dipartimento della guerra, mentre era in volo su un elicottero presidenziale. L’incauto presidente ha chiesto al Pentagono di riprendere immediatamente i test di armi nucleari, su un piano di parità con le altre potenze atomiche. Non è chiaro se Trump si riferisse a potenziali detonazioni sotterranee o all’accelerazione dei lanci di prova dei vettori della triade nucleare statunitense. Rivela una certa approssimazione il presidente, essendo i test fisici di competenza del Dipartimento dell’energia, con gli stessi scienziati del Laboratorio di Los Alamos che esprimono dubbi sull’utilità pratica dei test, sostituiti quasi ovunque dalle simulazioni con supercomputer, sfruttanti modelli matematici nello studio relazionale fra la struttura microscopica dei materiali e il comportamento macroscopico di un’arma, sotto l’azione di fortissime pressioni deformanti. Puntuale, come sempre, anche la smentita a sé stesso. Ieri ha infatti aggiustato il tiro: “Faremo dei test, sì, e se altri Paesi li faranno. Se loro lo faranno, lo faremo anche noi”. Della serie, scusate scherzavo, è tutto come prima. Ma la leggerezza nasconde però la sostanza. Sospetti sugli altri - Pur avendo firmato il trattato del 1996 che bandisce i test nucleari, Washington non l’ha mai ratificato e l’ordine trumpiano sovvertirebbe pure una moratoria nazionale ultraventennale. L’Amministrazione sospetta russi e cinesi di condurre prove fisiche di nuove armi, ma i plurimi sensori dell’Organizzazione del trattato bandente gli esperimenti atomici non hanno mai “sniffato” anomalie. Lapidario, l’ex ministro della Difesa, Sergeij Shoigu, attuale segretario del consiglio di sicurezza russo, ha confermato che “i test non si sono mai fermati in nessun paese, nemmeno per un giorno, nemmeno per un’ora, ma si sono svolti nell’ambito dell’uso della tecnica di calcolo, con modelli matematici”. Ci troviamo in un momento estremamente delicato nella competizione nucleare fra i 9 Paesi detentori di armi atomiche: Russia, Usa, Cina, Francia, Regno Unito, India, Pakistan, Israele e Corea del Nord, accomunati da una molteplicità di programmi di aggiornamento nucleare, rinnovo di sistemi e per alcuni di essi potenziale incremento di testate. Le reazioni alle dichiarazioni - I sopravvissuti giapponesi alle bombe atomiche del 1945 non hanno nascosto il risentimento per le dichiarazioni filo-test nucleari del presidente americano e la Confederazione nipponica delle organizzazioni delle vittime delle bombe atomiche e all’idrogeno, insignita del Nobel per la Pace nel 2024, ha lanciato l’allarme su un potenziale effetto domino tra le potenze nucleari. Terumi Tanaka, fra i leader dell’Organizzazione degli hibakusha, ha affermato che le armi nucleari non dovrebbero essere mai usate come merce di scambio nell’arena politica. Un idem sentire lo accomuna a Shiro Suzuki, sindaco di Nagasaki, fermo nel respingere le parole trumpiane perché “minano la volontà di coloro i quali hanno lavorato instancabilmente per un mondo libero dalle armi nucleari. È assolutamente inaccettabile”. La stessa Cina ha invitato gli Stati Uniti a rispettare il precipitato disposto del Trattato sull’interdizione completa degli esperimenti nucleari, non ancora in vigore. La banalizzazione - La guerra in Ucraina ha banalizzato la retorica nucleare ed è stato laboratorio di prova di missili russi, armabili potenzialmente non solo con testate convenzionali. Ad agosto, Mosca avrebbe attaccato l’Ucraina con 23 cruise duali 9M729, il cui sviluppo aveva mandato in frantumi il trattato bilaterale con Washington sulle forze nucleari intermedie. Russia che ha provato sul campo ucraino anche l’intermedio balistico Oreshnik. Ma di missili a doppia capacità abbonda pure la Cina, ferma nel ribadire che non utilizzerà per prima l’arma finale, con un bemolle risalente ad alcune dichiarazioni di funzionari di partito e all’ultimo rapporto del Pentagono, secondo il quale la strategia nucleare cinese sussumerebbe la possibilità di ricorrere alle armi nucleari come risposta ad un attacco non nucleare che minacci la sopravvivenza delle forze strategiche, del comando e controllo nazionale o che si approssimi per devastazioni agli effetti strategici di un attacco nucleare. Gli arsenali a disposizione - Secondo le stime della Federazione degli scienziati americani, concordi con l’ultimo rapporto dell’Istituto per gli studi sulla pace di Stoccolma, sarebbero immagazzinate nei bunker delle 9 potenze atomiche 9.614 testate nucleari, per oltre quattro quinti di matrice russo-statunitense. Quasi 4mila sarebbero attualmente dispiegate e 2.100 fra quelle russe, statunitensi, britanniche e francesi sarebbero pronte all’uso, nell’immediatezza di un ordine di lancio. Configura la possibilità di un lancio su allerta anche il nuovo corso cinese, il cui arsenale potrebbe lievitare dai 600 ordigni attuali a un migliaio nel giro di un quinquennio, facendo registrare il tasso di proliferazione nucleare mondiale maggiore. Donald Trump ha più volte ribadito di voler associare in un sistema pattizio di nuova generazione non solo Mosca ma anche Pechino, rinegoziando a tre il trattato bilaterale con Mosca sulle armi nucleari strategiche (New Start), in scadenza nel 2026. Così, in uno scenario di crescente opacità sulla reale disponibilità di armi nucleari, di potenziale espansione degli arsenali e di tramonto degli accordi di disarmo, ci sono pure potenze non nucleari, dotate dell’occorrente per l’esserlo in breve tempo, e stati paria come l’Iran, bombardati di recente nell’infrastruttura e nelle menti del programma militare nazionale dell’atomo, inviso alla comunità internazionale e, soprattutto, al duo israelo-americano. Stati Uniti. “Non c’è alcuna giustizia nel condannare a morte un detenuto” di Sonia Sotomayor L’Unità, 1 novembre 2025 In Florida, dopo 46 anni di detenzione, un uomo sta per essere condannato a morte. In Italia qualcuno sta provando a salvargli la vita. Nel marzo del 2018 Federica si imbatte in un post della Comunità di Sant’Egidio: “Vuoi corrispondere con un condannato nel braccio della morte?”. È un’iniziativa per rompere l’isolamento dei detenuti in attesa di esecuzione negli Stati Uniti. Federica decide di rispondere, più per curiosità che per convinzione: “Nella peggiore delle ipotesi, mi sarei allenata con l’inglese”. Pochi giorni dopo riceve un nome: Bryan Frederick Jennings, 67 anni, da oltre 46 rinchiuso nel braccio della morte in Florida. È stato condannato per un omicidio avvenuto nel 1979, quando ne aveva 20. Tre processi, tre verdetti non unanimi, nessuna prova diretta. Prima di scrivergli, Federica cerca la sua storia online. Scopre che la vittima era una bambina. “Mi sono detta: se è questo, non ce la faccio. Ma poi ho guardato la sua foto. Non mi metteva paura. E ho deciso di scrivergli lo stesso”. Da quella prima lettera è nato uno scambio che va avanti da otto anni. All’inizio Bryan viveva isolato in una cella di meno di tre metri quadrati, da cui poteva uscire solo due volte a settimana per due ore d’aria. Poi, dopo una serie di ricorsi collettivi, i detenuti hanno ottenuto di poter usare un tablet per comunicare via mail e fare brevi telefonate. “All’inizio pensavo di portargli un po’ di vita”, racconta Federica. “Ma in realtà è stato lui a portarla a me”. Nel 2022 il suo avvocato d’ufficio muore all’improvviso. Da allora Bryan rimane senza difesa legale, bloccato in un limbo giudiziario. Federica inizia a studiare il suo caso da sola, leggendo gli atti processuali trovati online. Scopre che non esistono prove dirette: nessun testimone oculare, nessun DNA, solo dichiarazioni di informatori poi ritrattate. Scrive un riassunto della vicenda e lo invia a decine di studi legali americani, chiedendo una difesa gratuita. Quasi nessuno risponde. “Nelle uniche volte in cui qualcuno si è degnato di rispondermi mi è stato detto semplicemente che non se la sentivano di prendersi sulle spalle una storia processuale così lunga e complicata”. Il 10 ottobre 2025, nella Giornata mondiale contro la pena di morte, il governatore della Florida firma l’ordine di esecuzione. La data è fissata per il 13 novembre. Solo allora lo Stato assegna un nuovo avvocato a Bryan, dandogli meno di un mese per studiare 46 anni di atti. “È come dire: hai un difensore, ma non hai davvero una difesa”, spiega Federica. Dopo la firma, Bryan viene trasferito nella sezione “death watch”, dove finiscono i detenuti con una data di esecuzione fissata. È composta da tre celle, isolate dalle altre. Ogni volta che un detenuto viene giustiziato, gli altri si spostano di cella. Bryan è già arrivato all’ultima. Gli hanno tolto il tablet e ridotto le telefonate. “Mi dice che sta bene, che si era preparato da tempo. Ma quando lo hanno portato nella nuova sezione mi ha scritto che quella camminata attraverso il carcere è stata dura. Poi ha aggiunto che è più preoccupato per me che per sé”. Intanto, la Comunità di Sant’Egidio e l’associazione Floridians for Alternatives to the Death Penalty hanno lanciato petizioni e appelli per sospendere l’esecuzione. “Dopo 46 anni nel braccio della morte”, dice Federica, “credo che Bryan abbia già pagato. Ucciderlo adesso non serve a niente. È solo un modo diverso di infliggere dolore”. La pena di morte è ancora legale in 27 stati americani, ma viene applicata solo da una parte di essi. Secondo il Death Penalty Information Center (2025), circa 2.100 persone sono nel braccio della morte. Nel 2024 negli Stati Uniti si sono svolte 25 esecuzioni, concentrate soprattutto in Texas, Florida, Alabama e Missouri. Nel 2024, la Florida ha introdotto una legge che consente di infliggere la pena di morte anche senza verdetto unanime della giuria - una misura criticata da organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International e Human Rights Watch (AP News, 2024). Mentre stati come California, Oregon e Pennsylvania hanno sospeso o abolito la pena capitale, altri la stanno rilanciando. “Sono anni che partecipo ad attività di advocacy contro la pena di morte, scrivo articoli, pensieri, cerco di dare il mio contributo alla diffusione di una diversa cultura. Non è giustizia. Uccidere una persona non restituisce nulla, non ripara niente, non rende la società più sicura. È solo lo Stato che fa ciò che vieta agli altri, infliggendo dolore anche ai familiari e alle persone care del condannato, alimentando un ciclo di morte che non porta mai davvero alla fine di nulla”, conclude Federica. E cita le ultime parole di Anthony Boyd, giustiziato in Alabama il 23 ottobre 2025: “It’s not about closure, because closure comes from within, not an execution”. Israele. Silurata l’avvocata militare: ha diffuso video degli abusi dell’Idf su detenuti palestinesi di Gabriella Colarusso La Repubblica, 1 novembre 2025 Yifat Tomer-Yerushalm ha ammesso di aver autorizzato la fuga di notizie che ha inchiodato cinque soldati. Il caso può avere ripercussioni enormi perché avrebbe dovuto difendere l’esercito israeliano dalle accuse per crimini di guerra a Gaza presso la Corte Internazionale di Giustizia e la Corte Penale Internazionale. La donna che sta facendo tremare l’esercito israeliano si chiama Yifat Tomer-Yerushalmi, ha 50 anni, tre figli, è una giurista di formazione e ha servito trent’anni nelle Forze armate arrivando fino ai vertici della gerarchia: maggiore generale, è stata fino a ieri l’avvocato militare generale, ovvero il legale più alto in grado delle Israel Defense Forces (Idf). Si è dimessa, dopo giorni di sospetti, accuse e indiscrezioni, con una lettera consegnata al capo di stato maggiore Zamir in cui si assume la responsabilità per la fuga di notizie che ha svelato gli abusi su un detenuto palestinese da parte di cinque riservisti. Parliamo dell’ormai famigerato video, mandato in onda da Channel 12 nell’agosto 2024, in cui si vedono i militari mentre circondano il prigioniero a Sde Teiman, carcere militare nel deserto del Negev, lo sottopongono a pestaggi e violenze. Il Jerusalem Post, quotidiano vicino alla destra israeliana e non sospettabile di antipatie per le Forze armate, scrive che “secondo quanto riportato” nelle carte dell’inchiesta ancora in corso, tre le accuse c’è anche quella di violenza sessuale: “il detenuto presentava gravi lesioni interne, tra cui costole rotte e lacerazione rettale”. I sospettati furono arrestati nel luglio del 2024, un mese prima della fuga di notizie, ma i fermi scatenarono la furia dell’ultradestra israeliana che fece irruzione nel penitenziario accusando i poliziotti che avevano arrestati i riservisti di voler “screditare l’esercito”. “Ho approvato la diffusione di materiale ai media nel tentativo di contrastare la falsa propaganda rivolta contro le autorità militari incaricate dell’applicazione della legge”, ha scritto l’avvocato nella lettera di dimissioni. “Ho dovuto agire in difesa dell’ufficio legale contro una campagna di delegittimazione illegale e falsa. Gli ufficiali dell’avvocatura militare si sono trovati ad affrontare attacchi personali, duri insulti e persino minacce reali. Tutto questo perché abbiamo vigilato sullo stato di diritto nelle Idf”. Ora un’indagine è stata aperta anche sulla fuga di notizie e sull’ufficio legale dell’esercito. L’ex ministro della Difesa Gallant ha accusato Yifat Tomer-Yerushalmi, anche lei sotto inchiesta, di aver mentito per coprire i responsabili del leak: “Le chiesi perché non fossero stati identificati, mi disse che l’indagine era lunga perché decine di persone erano state esposte al video”. Il ministro della Difesa Katz si è scagliato contro l’avvocato militare rea di calunniare l’esercito, ma secondo la stampa israeliana le accuse contro i cinque riservisti si basano su prove solide. Semmai, scrive il giornalista di Haaretz Amos Harel, “i critici sostengono che Tomer-Yerushalmi e il suo team abbiano mostrato troppa poca determinazione durante la guerra nell’indagare su ulteriori sospetti di crimini di guerra e abusi nei centri di detenzione e a Gaza”. Sde Teiman è una base militare nel deserto del Negev che è stata trasformata in un centro di detenzione durante il conflitto, ci finiscono i palestinesi arrestati in “detenzione temporanea” anche senza un ordine del tribunale. Diverse inchieste di stampa hanno denunciato abusi e violenze nella base, con i detenuti bendati, picchiati, lasciati senza cure mediche adeguate. Proprio nel giorno in cui scoppia lo scandalo, il ministro della sicurezza, leader dell’ultradestra, Ben Gvir, si fa fotografare in un carcere non identificato, davanti a prigionieri di Hamas stesi a pancia a terra con le mani legate, mentre chiede “la pena di morte per i terroristi”. L’avvocato militare verrà rimpiazzato ma il caso può avere ripercussioni più ampie perché Tomer-Yerushalmi è stata il legale dell’esercito israeliano durante tutta la guerra a Gaza e aveva in carico la difesa dell’Idf dalle accuse per presunti crimini di guerra presso la Corte Internazionale di Giustizia e la Corte Penale Internazionale. È un tema su cui hanno messo gli occhi anche oltreoceano. Il Washington post ha diffuso in esclusiva i contenuti di un rapporto riservato dell’Ispettore generale del dipartimento di Stato Usa: rivela che unità militari israeliane a Gaza avrebbero commesso “centinaia” di potenziali violazioni della legge americana sui diritti umani, la Leahy, storica legislazione che vieta agli Stati Uniti di fornire supporto di sicurezza a eserciti stranieri che si macchino di gravi violazioni dei diritti umani.