La prigione dell’abbandono. I suicidi in carcere di Priscilla Rucco L’Identità, 19 novembre 2025 Il carcere italiano non è solo sovraffollato: è totalmente lontano dal significato di umanità. Le celle sono piccole, condivise da più persone, con un tempo minimo all’aria aperta e un accesso ridotto alle attività. Secondo “Antigone”, nel 2024 la capienza regolamentare delle carceri italiane è di circa 51 mila posti, ma i detenuti sono oltre 61 mila. Una compressione che uccide e nemmeno troppo lentamente. I numeri dei suicidi sono in costante crescita, ma restano un dramma comunque inascoltato: 74 morti in meno di un anno, un dato mai così alto. In media, quasi uno ogni settimana. Eppure questi dati non fanno notizia, ma riempiono la cronaca. Le carceri non sono solo luoghi di detenzione, ma anche specchi che riflettono il nostro grado di in-civiltà. E se dentro le celle si muore così tanto, vuol dire che qualcosa nel sistema deve cambiare e anche rapidamente. Chi sono le persone che si suicidano in carcere? - Non esiste un profilo unico. Uomini e donne, giovani e adulti, italiani e stranieri: chiunque può soccombere alla disperazione. Le donne sono una minoranza (circa il 4-5% della popolazione detenuta), ma non per questo meno esposte. Le cinque donne suicidate nel 2023 raccontano un dolore spesso doppio: la colpa e l’abbandono come madri. Molti suicidi avvengono nei primi giorni di detenzione, quando il trauma dell’arresto incontra l’assenza di supporto psicologico adeguato e la vergogna. Il carcere non è preparato ad accogliere la fragilità: eppure le richieste di aiuto ci sono, solo che spesso restano inascoltate dietro le sbarre. Quali sono le cause di questa escalation? - La verità è che il sistema penitenziario italiano non regge più e da molto tempo ormai. Lo denunciamo spesso a L’identità. Esiste solo uno psicologo ogni cento detenuti in molte strutture; l’ascolto è delegato a volontari, cappellani o agli educatori già sovraccarichi. La riforma penitenziaria promessa da anni si blocca tra mancanza di fondi e scarsa volontà politica. A questo si aggiungono celle sovraffollate, isolamento, mancanza di attività, conflittualità costante, e un generale senso di abbandono. Nei primi mesi del 2024 la media è tragica: quasi un suicidio ogni quattro giorni. E quando il sistema non offre alternative, il vuoto psicologico diventa letale. Cosa si può fare per prevenire i suicidi? - Serve una strategia strutturale, non interventi emergenziali. Rafforzare i servizi psicologici e psichiatrici, ridurre il sovraffollamento tramite misure alternative alla detenzione, garantire attività formative e lavorative. E soprattutto: ascoltare. Ogni detenuto dovrebbe essere valutato e seguito fin dai primi giorni, quando il rischio è più alto. La prevenzione non è solo clinica, è umana: significa ricostruire legami, creare spazi di dialogo, formare il personale, e non lasciare nessuno solo nel momento più vulnerabile della sua vita. Oggi il dramma dei suicidi in carcere resta quasi invisibile: non fa rumore, non porta consenso e non genera un confronto o un dibattito. Eppure un carcere dove si muore così tanto riguarda tutti, perché racconta il livello reale di civiltà del Paese. Informare, raccontare, dare voce alle storie e ai numeri è il primo passo per costringere la politica ad agire. La Circolare che ha scosso le coscienze di chi conosce il carcere di Antonella Cortese* Ristretti Orizzonti, 19 novembre 2025 Il mese di novembre si è annunciato burrascoso per le persone detenute delle carceri italiane. Ci avviciniamo a dicembre, il mese più lungo e disperante dell’anno per chi vive in detenzione pari quasi ai mesi estivi, in particolare al temuto caldo agosto. Normalmente durante le festività le associazioni, in accordo con la direzione del carcere, organizzano incontri, spettacoli, pranzi e cene anche stellate, colloqui, feste con le famiglie con l’obiettivo di stemperare la solitudine e il senso di abbandono che qualsiasi visitatore può percepire anche solo entrando in carcere per poche ore. Quest’anno ci avviciniamo alle feste natalizie con ancora più timori che qualcosa possa accadere tra chi vive nelle “camere di pernottamento” in quegli istituti penitenziari in cui sia presente l’AS, la sezione dell’Alta Sicurezza. La circolare che ha scosso le coscienze di chi conosce il carcere, delle persone che lo vivono direttamente, di coloro che lo frequentano a vario titolo (avvocati, volontari, personale interno, ministri di culto, ecc.) emanata il 21 ottobre e firmata dal direttore Ernesto Napolillo, centralizza le autorizzazioni allo svolgimento delle attività gestite da persone esterne al carcere adducendo ad una necessità di sistematizzazione e di controllo. Precisa il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari: “L’obiettivo è di uniformare le procedure degli eventi trattamentali che coinvolgono istituti con circuiti di alta sicurezza, soprattutto per garantirne la replicabilità e promuovere la partecipazione nel pieno rispetto delle esigenze di sicurezza”. Inoltre, la circolare fa riferimento a un poco chiaro invio delle richieste al Ministero “in tempi congrui”. La riflessione spontanea è che ci sono voluti 40 anni di durissimo lavoro per trasformare in azioni concrete la legge n. 354 promulgata il 26 luglio 1975 che con l’art. 17 disciplina la possibilità per persone esterne, come volontari di associazioni, di entrare negli istituti penitenziari per partecipare alle attività di rieducazione, previa autorizzazione del magistrato di sorveglianza su parere favorevole del direttore. L’obiettivo dell’art. 17 è di promuovere il reinserimento sociale dei detenuti e favorire i contatti tra la popolazione carceraria e la società esterna. Non certo per buonismo, ma per necessità. In altre parole, per dare concretezza alla funzione riabilitante della detenzione come da dettato costituzionale con l’art. 27. A buon senso, chi meglio del direttore di un carcere o del magistrato di sorveglianza, che conoscono la struttura in cui operano, può stabilire se sia il caso o meno di concedere permessi per le attività “trattamentali” svolte insieme a persone esterne? In questi 40 anni molti risultati sono stati ottenuti, molte le persone che hanno goduto del diritto di impiegare il tempo detentivo dandogli un senso, investendo nello studio, nello sport, nella formazione, nel teatro e in tanto altro. Il carcere è riabilitativo? È risocializzante? Sottraendo e limitando le attività, come già sta succedendo in molti istituti, oltre a violare la Costituzione, si mira ad eliminare il senso di umanità della persona e del suo contesto di vita privandola completamente della possibilità di elaborare il proprio agito, come sovente accade grazie anche alle attività e ai laboratori realizzati con volontari esterni. E se il problema si chiama ‘sicurezza’, questa circolare la compromette seriamente fomentando un clima isolante e rabbioso in cui la sensazione di essere in un luogo in cui è stata “buttata la chiave” si trasforma in realtà. Nella maggioranza dei casi, al termine della pena, le persone escono dal carcere; se sono state solo in cattività senza alcuna attività da svolgere e nessun contatto con il mondo esterno, ne usciranno ancora più compromesse e disadattate. E allora che ce ne facciamo del prezioso art. 27 della Costituzione se lo svuotiamo di contenuto? Non è solo un problema di chi sta in galera, ma ci coinvolge tutte e tutti perché è anche di errori e orrori, riparazioni e redenzioni che è fatta la nostra vita e la comunità in cui viviamo della quale, tra l’altro, il carcere è parte integrante anche se non ci piace pensarlo. *Liberi dentro Eduradio & TV “Il carcere è lo specchio della società”: cosa rivela davvero l’Italia dietro le sbarre adnkronos.com, 19 novembre 2025 Assuefatto all’idea di una esistenza senza speranza. Youssef, marocchino di 43 anni, è morto a fine ottobre dopo aver inalato troppo gas nella sua cella nel cercare di Bollate. Le ipotesi sono due: che abbia voluto ‘farsi’, stordirsi, ma abbia esagerato, oppure che abbia cercato - con successo - di suicidarsi. In entrambi i casi, la sua storia rimanda alla mancanza di prospettiva che spesso accomuna chi vive recluso, raccontata dalla giornalista Francesca Ghezzani nel suo libro ‘Il silenzio dentro’: un’inchiesta costruttiva e non pietosa, realista ma non disfattista, della complessa situazione delle carceri italiane. Youssef, infatti, è solo uno dei tantissimi ‘episodi’ che attraversano le cronache, destinati a non lasciare traccia, né nell’opinione pubblica né sulle politiche dedicate ai penitenziari. Come vedremo, in Italia ci sono anche cose che funzionano bene. E, sebbene i problemi del sistema penitenziario siano molti, le direzioni verso cui andare sono note. Ghezzani le ha spiegate a Demografica Adnkronos, partendo da una considerazione, sottolineata da Assunta Corbo, giornalista e speaker TedX, nella prefazione: il carcere è lo specchio della società. E se è così, cosa rivela di noi il sistema carcerario italiano? Diverse cose. Intanto, che siamo fondamentalmente disinteressati all’argomento, anche perché riteniamo quel mondo qualcosa di molto lontano da noi, popolato da scarti della società, spesso immaginati come nei più classici film - tatuati e palestrati, ‘ceffi’ da galera. Eppure, dietro alle sbarre ci finiscono anche persone che non avrebbero mai pensato di finirci e che invece sono state travolte dal vortice di quella che Ghezzani descrive come ‘criminalità della sfiga’. La ‘criminalità della sfiga’ - Ghezzani le ha incontrate, girando per i penitenziari di tutta Italia: ad esempio, persone che prima erano rispettabilissime ma che si sono trovate in difficoltà dopo aver perso il lavoro. Oppure che sono nate e vissute in mezzo alla criminalità e dunque non hanno avuto a disposizione alternative, “non avendo altre forme da imitare se non la malavita”. Per usare l’espressione di uno degli intervistati dalla giornalista nel suo libro, Enrico Sbriglia, ex dirigente di carcere oggi presidente dell’Osservatorio Internazionale sulla Legalità di Trieste, “le carceri si sono trasformate in grandi caravanserragli”. Dice Sbriglia: “Sono piene di folli, di disadattati, di uomini e donne che hanno delinquito perché espunti dal mondo del lavoro, perché scarto delle crisi economiche, della perdita di lavoro, di mancanza di case; oppure di giovani, indigeni o stranieri, (…) verso i quali la scuola e le istituzioni formative tradizionali hanno fallito la propria missione”. La deterrenza non funziona - Il nostro sistema carcerario ci mostra anche un’altra cosa: abbiamo un approccio punitivo. Ed è invece interessante notare come non ci sia un effetto deterrenza. Non è l’idea della punizione, in altre parole, a frenare le persone in procinto di compiere un reato, come conferma Ghezzani. Lo dimostra anche il tasso di recidiva, che per l’Italia è impietoso: siamo “al 68,7% e la gente che c’è dentro è di solito addirittura alla quinta recidiva consecutiva”, fa sapere la giornalista sottolineando come le recidive contribuiscano al sovraffollamento nelle carceri, che a sua volta “esaspera completamente l’ambiente interno, il personale, i condannati”. Anche da questo punto di vista i numeri parlano chiaro: il tasso di affollamento tocca a livello nazionale il 132,6%, ma si tratta di una media: a San Vittore a Milano l’affollamento effettivo ha raggiunto il 225%, a Brescia Canton Monbello il 205%, a Taranto il 195%. Si contano ormai 59 istituti con un tasso superiore al 150%. La funzione che la nostra Costituzione assegna al carcere, ovvero quella di rieducare il condannato, sembra davvero lontana dalla realtà. Affollamento, recidive e suicidi: tutto è collegato - Tasso di recidiva e sovraffollamento sono i dati che più di tutti ci aiutano a inquadrare il problema del sistema carcerario italiano. “Sono le due facce della stessa medaglia”, spiega Ghezzani, perché con le celle piene “il personale, già carente, non riesce a stare dietro a tutti”, e perché “il tasso di recidiva è una causa e una conseguenza del sovraffollamento: le persone escono, non sono state rieducate, incappano nella recidiva e affollano le celle”. Consideriamo anche che “la maggior parte delle persone è dentro per droga e se non ci sono delle misure deflattive (alternative alla giustizia, mirano a ridurre il carico di lavoro dei tribunali, ndr) o un’opera di prevenzione non riesci ad abbassare i numeri. Numeri che erano scesi dopo la sentenza Torreggiani nel 2013 (la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per il sovraffollamento carcerario, definendolo un trattamento inumano e degradante, ndr), ma ora stiamo ritoccando dei record”. Ci sono anche altre conseguenze: i suicidi. Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), nel 2024 62 detenuti si sono tolti la vita in carcere dall’inizio dell’anno e fino al 6 agosto. Di altre 15 morti la causa è ancora da accertare. “Chiaramente se le persone non vengono rieducate, non vengono assistite individualmente, hanno pochi metri quadrati a disposizione, siamo al livello in cui le donne non hanno gli assorbenti, lo spazio fisico diventa invivibile e porta a preferire la morte”. A questo si aggiunge il fenomeno della ‘gate anxiety’, cioè l”ansia da cancello’, quello che porta verso la libertà. Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio di Antigone sulle carceri, ha evidenziato a Ghezzani che la maggior parte dei suicidi succede pochi giorni prima della rimessa in libertà. “La libertà fa più paura del carcere, perché se non c’è stato un processo di rieducazione e reinserimento quando escono non hanno alcun punto di riferimento”, sottolinea la giornalista. I problemi del sistema carcerario italiano - Ghezzani enuclea tre problemi del sistema carcerario italiano: “Uno, il reinserimento delle persone tornate in libertà. Due, i familiari con cui non si sa se nel frattempo abbiano intrattenuto o meno rapporti. Terzo, la sicurezza della collettività perché, se queste persone non si reintegrano, la prima cosa che fanno è delinquere di nuovo”. Fermo restando che c’è anche chi “non ha alcuna intenzione di prendere una via retta e appena escono delinquono di nuovo. Su questo, bando all’ipocrisia: sono i carcerati i primi a dirtelo”. A tal proposito la giornalista ha raccolto l’esperienza di Mirko Federico, un attivista che racconta come non si sia redento grazie al carcere, ma “nonostante il carcere”. Cioè, “non grazie non al sistema, ma grazie a ergastolani che gli hanno fatto capire il valore della vita e di doversela riprendere in mano una volta uscito”. Federico denuncia anche “il grande impatto emotivo: una volta che una persona ha superato la porta del carcere non è assolutamente più lo stessa. E la rieducazione è scritta solo sulla Carta costituzionale”. Anche i tempi burocratici hanno il loro peso: le richieste di lavoro, ad esempio, hanno un iter così lungo e a volte prevedono parametri tali che alla fine non si concretizzano. Basti pensare che solo per avere un colloquio con un direttore di un penitenziario è facile che ci vogliano 6 mesi. Servirebbe invece una maggiore collaborazione tra lo Stato e il mondo delle imprese, come Antigone chiarisce all’autrice del libro. Cosa si può fare: tre parole chiave - Per ogni problema c’è una soluzione, dice la saggezza popolare. E se il problema è complesso, come è il caso del sistema carcerario italiano, anche la soluzione dovrà essere articolata. Ma esiste. La direzione la sintetizza Ghezzani in tre parole chiave: reinserimento lavorativo, formazione, sport. L’ultimo può forse sorprendere ma, come sottolinea la giornalista, lo sport “ti permette di rispettare il prossimo e le regole, di avere consapevolezza di te stesso all’interno di una squadra; ti permette di sfogare la rabbia, la noia, di fatto è disciplina che poi può essere riportata post condanna”. Un altro aspetto sorprendente è la fede: “Don Ciotti dice che la fede è qualcosa che accomuna, apre la speranza e quindi abbatte quelle barriere che di fuori la fede a volte crea”, racconta l’autrice del libro. E dal sacro al profano, anche l’intelligenza artificiale potrebbe essere utilizzata, ad esempio per supervisionare l’umore dei detenuti in modo più puntuale rispetto a quello che la carenza di personale riesce a fare ad oggi. Ci sono poi ‘esperimenti’ come le Transition Houses lituane, carceri aperte per la preparazione al rilascio. Ghezzani spiega che in Parlamento c’è un disegno di legge, però è una soluzione molto costosa, mentre “ammassare le persone sicuramente costa molto meno”. Il già citato Sbriglia propone invece un modello di carcere europeo, che diventi - lo chiarisce a Ghezzani - “il prototipo non solo sul piano strutturale, ma anche organizzativo e di servizi alla persona, che occorre assicurare a ogni detenuto e non perché siamo buoni e generosi, ma semplicemente perché ci consideriamo “civili ed europei”. Ci sono anche cose che funzionano - Ma intanto in Italia ci sono anche cose che funzionano. In primis, “una certa partnership tra il mondo universitario e il mondo carcerario, con persone che si laureano mentre scontano la loro pena”, spiega la giornalista. Poi funziona sicuramente la storia di Pino Cantatore, cofondatore di bee.4, che ha inserito in carcere una realtà come il call center che permette ai condannati di lavorare e di quindi produrre reddito e di crearsi una professione. Oppure l’impegno di Oscar La Rosa, cofondatore di Economia Carceraria, che realizza progetti aprendo o gestendo laboratori in carcere o assumendo detenuti che possono lavorare all’esterno. “Il risultato è un peso minore economico per la società, inoltre se lavori le giornate passano prima, trovi un posto nella società e senti di poter fare anche delle cose belle”. Ancora, Maria Giovanna Santucci, giornalista e docente, ha portato in carcere la possibilità di cucinare e le persone “attraverso un piatto si sono raccontate, si sono sentite accettate. E anche questo è un processo volto alla consapevolezza di sé, dei propri sbagli e del reinserimento”, racconta Ghezzani aggiungendo che funzionano anche il teatro o progetti ‘particolari’ come la pet therapy e lo yoga della risata. E le storie belle da raccontare, nonostante tutto, ci sono. Ad esempio, quella del vicedirettore di ‘Voci di dentro’, Claudio Bottan, attivista che adesso si occupa di sociale e che una volta uscito dal carcere ha conosciuto Simona, malata di Sla, con la quale ha avviato un’amicizia. Oggi i due, fra le altre cose, vanno nelle scuole a raccontare la vita in carcere e quella sulla sedia rotelle. “Siamo la prova vivente che non è mai finita e che un futuro nuovo è sempre possibile”, dice Bottan a Ghezzani. E questo è anche il messaggio finale del libro, che “non assolve né condanna”, come avvisa Corbo nella prefazione. Il senso de ‘Il silenzio dentro’, continua, “vive nella parola rispetto”, per l’essere umano e per la possibilità di rinascere. Con una consapevolezza: “Il carcere, per funzionare davvero, non può essere solo luogo di punizione. Deve tornare a essere un luogo di cura”. Perché nessun detenuto sia più assuefatto all’idea di una esistenza senza speranza. Nordio: “Molti suicidi quando si sta per uscire” Il Roma, 19 novembre 2025 “Paradossalmente, anche se nessuno lo sa, molti suicidi avvengono non quando si entra in carcere, quando ti crolla il mondo addosso, ma accadono quando stai per essere liberato. E questo è significativo, perché dimostra che molto spesso la paura, l’incertezza di un mondo esterno nel quale non sei abituato a vivere, quando esci dal carcere ti dà una tensione, un’ansia che ti porta al gesto fatale. Mentre sapere che quando esci hai già un lavoro, una retribuzione, un posto, che non finisci sulla strada, elimina e riduce grandemente la recidiva e dà anche a queste persone un significato di speranza, che poi è il nostro obiettivo”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, a margine di una visita al carcere di Secondigliano con il candidato del centrodestra alle elezioni regionali in Campania, Edmondo Cirielli. A proposito del carcere di Secondigliano, Nordio ha aggiunto: “Ho visto delle cose straordinarie, dei laboratori dove i detenuti costruiscono chitarre e liuti, l’idraulico che costruiva e riparava degli ingranaggi, ho visto il verniciatore, insomma tutte quelle cose che secondo me dovrebbero connotare il carcere. Perché imparare un lavoro in carcere è importante e altrettanto importante, e noi stiamo operando in questo senso, è poter trovare il lavoro per chi esce dal carcere, un’occupazione stabile e gratuita. Il compito degli enti pubblici, a cominciare della Regione, dovrebbe essere anche quello di trovare subito un trait d’union perché questi mestieri sono tra l’altro utili non solo per il detenuto, che si riabilita e si rieduca secondo il dettato costituzionale, ma sono utili anche per la società, perché sono professioni che gli italiani non vogliono più fare. Per esempio nel mio Nord-Est mancano 150mila posti di artigiani. Sono sicuro che anche qui c’è la possibilità di trovare subito un lavoro retribuito” ha chiuso Nordio. Sempre più giovani in carcere: “Colpa del decreto Caivano” ansa.it, 19 novembre 2025 Radicali e Nessuno Tocchi Caino: Istituti vecchi e sovraffollati. ll Decreto Caivano approvato nel settembre 2023 “ha trasformato la giustizia minorile in senso repressivo: ha reso più semplice la custodia cautelare, ha ridotto le misure alternative, ha ampliato i margini di intervento preventivo della polizia”. I numeri parlano chiaro: da 392 ragazzi reclusi nell’ottobre 2022 siamo passati a 586 nel giugno 2025. Oltre l’80% è in custodia cautelare, quindi non condannato, e la maggior parte dei reati contestati riguarda furti e rapine, non delitti gravi contro la persona. Oggi 9 Ipm, istituti penali per minorenni su 17 sono in sovraffollamento. I dati arrivano da un report dei Radicali e di Nessuno Tocchi Caino. “Le condizioni degli istituti per minori siano gravemente deteriorate a seguito di una serie di interventi legislativi, rispetto allo stato della giustizia minorile di appena qualche anno fa”, ha detto Filippo Blengino, segretario di Radicali Italiani, presentando oggi i dati alla Camera. “L’abolizione del carcere minorile rappresenta il minimo in un sistema che ormai appare sempre più punitivo nei confronti dei ragazzi che vi entrano, privati della libertà personale, di ogni prospettiva, talvolta persino della vita”, ha aggiunto Sergio D’Elia, Segretario di Nessuno Tocchi Caino. “La strada da seguire è quella delle organizzazioni internazionali, dei trattati che definiscono gli standard per il trattamento dei minori sottoposti alla custodia dello Stato”, ha aggiunto Elisabetta Zamparutti, Tesoriera di Nessuno Tocchi Caino. “Il ministro Nordio sostiene che con i provvedimenti cosiddetti svuota carceri - ha concluso Fabrizio Benzoni di Azione - si sarebbe potuto arginare il fenomeno dell’autolesionismo e dei suicidi. Eppure, proprio nell’ultima settimana, la cronaca ci restituisce un quadro ben diverso, che smentisce quella previsione”. Le condizioni degli Ipm - si legge nel report - sono estremamente critiche: carenze di iniziative di reinserimento sociale, carenza di attività scolastiche e lavorativa. Il sovraffollamento ha raggiunto livelli record: In alcune strutture i ragazzi dormono con i materassi a terra, in altre i cavi della corrente sono pericolosamente esposti. I ragazzi vivono in celle perlopiù multiple, irrispettose della loro intimità e della loro dignità. Mancano educatori, psicologi e mediatori culturali. Nelle carceri ci sono 26 bambini con le loro mamme. Il Garante: “Possibile non ci sia alternativa?” dire.it, 19 novembre 2025 Il Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, lancia l’allarme dopo un sopralluogo nel carcere di Avellino. E dice: “Servono più agenti di Polizia penitenziaria donne”. “Attualmente in Italia si trovano 28 donne madri detenute, alcune delle quali in stato di gravidanza, e 26 bambini che vivono con loro all’interno di istituti penitenziari o negli Istituti a Custodia Attenuata per Madri (Icam). Le presenze sono distribuite tra le case circondariali femminili di Rebibbia (Roma) e Bollate (Milano), oltre che negli Icam di Milano, Torino, Venezia e Lauro (Avellino), strutture concepite per offrire un ambiente detentivo più idoneo alla presenza di minori ma che, come emerso durante la visita del Garante regionale, presentano ancora gravi criticità sul piano sanitario, organizzativo e strutturale”. È quanto si legge in una nota del Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, che oggi ha fatto visita all’Icam di Lauro (AV). “All’Icam di Lauro sono presenti 8 detenute madri, di cui 4 in gravidanza (tre tra il quarto e il sesto mese e una in prossimità del parto) e sei bambini di età compresa tra i 2 e i 5 anni. I più piccoli frequentano il nido di Palma Campania, mentre i più grandi frequentano l’asilo di Lauro. Le visite ginecologiche vengono effettuate all’ospedale di Nola e Avellino- fa sapere il Garante- mentre le visite pediatriche vengono invece effettuate ad Avella, con notevoli difficoltà organizzative legate alla disponibilità dei nuclei di traduzione (scorta) e ai tempi di ricevimento degli specialisti”. L’ultima volta, ad esempio, una visita è saltata “perché sono arrivati tardi in studio, perché la pediatra a mezzogiorno se n’è andata. In altre circostanze invece, o non si trovavano gli agenti in numero sufficiente per andare. Come si fa ad ovviare a tutto questo? Innanzitutto, facendo venire a Lauro almeno più agenti di polizia penitenziaria donne”. All’interno della struttura operano 23 unità di polizia penitenziaria, di cui solo 9 donne, un numero insufficiente. Il Garante ribadisce: “È necessario aumentare il numero di agenti di polizia penitenziaria donne- prosegue Ciambriello- figura indispensabile per garantire e favorire la comunicazione dei disagi e dei bisogni delle detenute, assicurando un accompagnamento più adeguato, una maggiore tutela della loro intimità e un rapporto fiduciario che oggi risulta spesso difficile da instaurare”. Durante la visita, particolare attenzione è stata dedicata alla situazione di una giovane madre all’ottavo mese di gravidanza, apparsa “provata e dolorante a causa di complicazioni cliniche con infezioni”. La donna ha sei figli piccoli che non vede da tempo perché residenti a Roma. Il Garante e lo staff hanno incontrato donne che devono scontare pochi mesi di detenzione: una detenuta otto mesi (per la quale si sta cercando una sistemazione alternativa presso un istituto religioso) e un’altra tredici mesi. “Com’è possibile- si chiede il garante campano- che non ci sia una forma alternativa al carcere per una donna in questo stato? Sicuramente ha commesso degli errori, ma bisogna dare la possibilità e la speranza al nascituro. È possibile che non ci siano altre alternative al carcere? Ribadisco il concetto che, anche se questo è ciò che la politica giustizialista invoca, io resto convinto che il carcere non sia la soluzione, per cui è necessario mettere in campo risposte diverse. Quali colpe hanno i bambini di madri detenute? Perché il ministro Salvini, più che sventolare rosari e immagini e vivere il clericalismo di facciata, non dà risposte vere alla dignità di questi bambini senza colpe che sono in carcere?”. Senza fare sconti di pena “a nessuno, e senza voler lasciare in libertà donne che hanno commesso un reato, è necessario il superamento del carcere per le donne incinte e con bambini al di sotto dei tre anni e l’alternativa in case-famiglia protette. Domani scriverò al manager dell’Asl di Avellino chiedendogli che sia garantita la presenza stabile di un’equipe medica in loco, con un pediatra, un ginecologo, un assistente sociale, e uno psicologo, anche per l’accompagnamento alla genitorialità. Hanno cioè bisogno di una struttura operativa semplice che dia risposte immediate. Scriverò anche al provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Campania che la detenzione non può e non deve annullare diritti fondamentali legati alla salute, alla dignità e al futuro. Quindi: aumento di presenza degli agenti di polizia penitenziaria donne, di personale educativo, amministrativo e di sostegno, un progetto di trattamento e di inclusione sociale, che coinvolga in particolare i bambini presenti”, conclude Ciambriello. Separazione delle carriere: le ragioni del sì, le ragioni del no di Piero Sansonetti L’Unità, 19 novembre 2025 A me pare che la separazione non sia tanto una riforma costituzionale quanto la semplice applicazione della Costituzione. In particolare dell’articolo 111della Costituzione che - al secondo comma - dice così: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità davanti a un giudice terzo e imparziale”. La Costituzione non chiede solo l’imparzialità del giudice, chiede esplicitamente che sia terzo. Quindi che non sia né un collega dell’avvocato, né un collega del Pm. In realtà, deliberando la separazione delle carriere, il Parlamento non ha operato una vera e propria riforma costituzionale. Si è limitato ad aggiustare la Costituzione, dando finalmente piena attuazione al suo articolo 111, che prevede che il giudice sia “terzo” rispetto al Pm e rispetto alla difesa, e quindi, necessariamente, che non possa essere collega né del Pm, né dell’avvocato. Del resto che le cose debbano andare in questo modo, per dare un minimo di credibilità alla giustizia, appare evidente a chiunque si limiti ad usare la logica. C’è qualcuno che non farebbe un salto sulla sedia se si decidesse che il giudice che emette la sentenza, anziché essere un magistrato, sia un avvocato? Non è una domanda paradossale, è la domanda che serve per far capire bene in che cosa consiste la separazione delle carriere. Ma cerco di essere ancora più chiaro. Trascrivo qui il brano dell’articolo 111 della Costituzione che riguarda questo argomento. Si tratta del secondo comma di quell’articolo: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale”. Immagino che chiunque possa notare quel doppio aggettivo: “terzo e imparziale”. Dicono molti sostenitori del No che un giudice è comunque imparziale. Benissimo, ammesso anche che sia così (e purtroppo non sempre è così) la Costituzione non si accontenta dell’imparzialità ma pretende che il giudice sia terzo. Ora sfido chiunque a spiegarmi cosa si possa intendere con l’aggettivo terzo se non una persona che non ha niente a che fare né col primo (l’accusa) né col secondo (la difesa). Nella Costituzione c’è scritto terzo, non secondo e mezzo. Io credo che la discussione si dovrebbe chiudere qui. Nel senso che se davvero si vuole mantenere la carriera unica tra accusa e giudici occorre abolire o comunque modificare questo articolo della Costituzione. Oggi noi ci troviamo di fronte a un funzionamento del processo che non è costituzionale, quindi, in sostanza, non è legale, e non assicura all’imputato, e alla difesa, i diritti costituzionali. A me la cosa sembra piuttosto grave. L’obiezione che sento spesso è questa: ma i casi di passaggio dalla funzione di Pm alla funzione di giudice sono molto rari. Dunque per questi pochi casi vogliamo cambiare la Costituzione? Ho due risposte a questa domanda. Una formale e una sostanziale. Quella formale è la seguente: ma se questa riforma è così poco importante da non meritare la modifica della costituzione, allora perché scaldarsi tanto per impedirla? Se la riforma non è importante come fa ad essere così importante il referendum? È inspiegabile. La seconda risposta è sostanziale. Non è il passaggio raro di funzioni che preoccupa, è la vicinanza e spesso la complicità tra il Pm e il suo collega giudice. Parliamo dei Gip. Che sono giudici. Quante volte un Gip dà torto a un Pm? I dati li ha forniti l’altro giorno il ministero. Oltre il novanta per cento delle decisioni dei Gip accolgono la richiesta dei Pm. In alcuni casi (proroga delle intercettazioni) si arriva al 99 per cento dei casi. È normale che sia così? È giusto che sia così? Beh, se è normale e giusto possiamo persino pensare ad abolire la figura del Gip e concedere direttamente al Pm la decisione di intercettare o arrestare una persona che lui sospetta che sia colpevole. Cosa che in realtà, nella sostanza già avviene. Poi c’è l’altro argomento forte di questa campagna referendaria. Chi è contro la riforma sostiene che in questo modo si indebolisce la magistratura. Ma questo evidentemente non è vero. Semplicemente si riequilibrano i poteri all’interno della magistratura. La magistratura giudicante rafforza la propria autonomia, che è prevista e imposta dalla Costituzione. Si sottrae all’influenza e al notevole potere politico dei Pm, realizzato soprattutto con l’aiuto delle correnti della magistratura. E questo consolidamento della magistratura giudicante e della sua indipendenza certamente è un fattore positivo. Si indebolisce invece il potere del Pm, che soprattutto vedrà (forse) ridotte le possibilità di arrestare la persona spostata, di chiedergli di confessare, di influenzare i giudici. (Io lo chiamo “potere di sopraffazione”, ma forse esagero). A me sembra anche questo un fattore positivo. Si dice che però i Pm, isolati, perderanno la cultura della giurisdizione e si incattiviranno. E perché mai? Se non hai più potere sui colleghi giudici diventi più cattivo? Un magistrato cattivo è evidentemente un magistrato in malafede. Se un magistrato è in malafede è un pessimo magistrato, a prescindere dalla divisione delle carriere. Ce ne sono molti in giro? Temo che tra i Pm ce ne sono parecchi, (ma forse anche qui mi sbaglio). Ultimo argomento: i magistrati difendono i “poveri” e i deboli anche dagli assalti del potere politico. Lo abbiamo visto anche recentemente negli scontri tra magistratura e governo sul destino dei migranti. Vero. Ma a difendere i migranti sono stati soprattutto i giudici, non i Pm. Continueranno a farlo con la separazione delle carriere e lo faranno in una situazione di maggiore libertà. Anche questo è un fattore positivo. Infine. Si dice che con questa riforma si tende a subordinare l’ufficio del Pm al potere politico. Questo semplicemente non è vero. Non è scritto in nessuna riga della riforma. L’autonomia del Pm è assolutamente garantita dalla Costituzione. Sarebbe meglio non portare in campagna elettorale argomenti falsi. Un referendum tra le luci delle carriere separate e le ombre del sorteggio al Csm di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 19 novembre 2025 È appena iniziata una polemica aspra e incomprensibile sulla legge costituzionale che prevede la divisione delle carriere dei magistrati sottoposta al referendum della prossima primavera perché non spiega ai cittadini di che si tratta. Si è dato inizio anzi tempo a una campagna elettorale che usa argomenti strumentali che non hanno a che vedere con la legge. Il merito pur essendo complesso è facilmente comprensibile se viene spiegato nel suo vero significato, e dunque proviamo a precisare e a fare un’”operazione verità”. Nel 1989 il legislatore ha deciso di cambiare le norme del codice di procedura penale preferendo il cosiddetto “rito accusatorio” a quello “inquisitorio” in vigore dall’epoca fascista. La stessa parola “accusatorio” mette in evidenza che il processo debba svolgersi tra chi accusa (il pm), chi difende (l’avvocato) e chi decide (il giudice). Tutti i giuristi a quell’epoca e in particolare il ministro della Giustizia Giuliano Vassalli ritenevano che il nuovo processo per poter funzionare aveva bisogno di una “distinzione” tra le parti in causa. Ma anche tanti partiti e gruppi politici erano convinti di dove modificare la Costituzione. Negli anni ‘ 80 e ‘ 90 la riforma era sollecitata dalla commissione Bicamerale e fu fatta propria dal Ppi erede della Dc che nel gennaio 1994 nel documento fondamentale del nuovo partito prevedeva la difesa dell’indipendenza, del ruolo del Csm e della divisione delle carriere. Nei primi anni questa mancata distinzione ha reso subito inadeguato e ibrido il processo anche perché profondamente modificato dalla Corte Costituzionale. Nel 1989 il legislatore ha fatto un passo avanti e ha modificato l’art. 111 della Costituzione stabilendo che “ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti in condizioni di parità davanti al giudice terzo e imparziale”. Un passo avanti che poneva le premesse per una modifica dei “ruoli” (il “ruolo” è più elegante di “carriera” come certamente avrebbe detto Concetto Marchesi, che aveva perfezionato nel 1948 sul piano linguistico il testo della Costituzione) che sia pure tardivamente è stato stabilito dal Parlamento e per il quale è stato chiesto il referendum. I magistrati sanno più di tutti che questo è un principio sacrosanto del processo, è il cuore del sistema accusatorio, che se approvato dovrà cambiare le modalità e la struttura delle indagini e del dibattimento applicando finalmente e puntualmente le norme del codice di procedura penale. I magistrati si ribellano in maniera così marcata a questa nuova norma? Perché preferiscono sempre lo status quo, non avendo mai accettato nessuna legge che servisse a perfezionare le norme dell’ordinamento giudiziario, e perché hanno acuito il contrasto con il potere legislativo che è una caratteristica ormai costante da molti anni: Non c’è dubbio che da molti anni la prevalenza del giudiziario sul legislativo e sul sistema politico nel suo complesso è nei fatti e non è solo un fenomeno italiano come abbiamo spiegato mille volte. Ne risente l’equilibrio dei poteri stabilito della nostra Costituzione per cui l’” autonomia” che doveva tutelare l’indipendenza ha determinato una separatezza fuori dall’armonia istituzionale necessaria per la democrazia. La magistratura ha assunto un ruolo diverso lungo questi anni e ritiene di non essere più “soggetta alla legge” ma di dirimere le questioni sociali esercitando una funzione etica per far vincere il bene sul male, quindi non ritiene di accertare le responsabilità individuali, ma di praticare un controllo di legalità generale: questa la vera patologia. Quindi non è più un “ordine” ma un “potere” che come tutti i poteri dovrebbe essere regolato senza intaccare l’indipendenza valore indispensabile per la garanzia della libertà e per la democrazia. Sostengo da anni che l’”autonomia” ha avuto la prevalenza sull’”indipendenza”! Questo fenomeno è complesso e non può essere liquidato attribuendo alla magistratura una volontà di far politica per osteggiare il governo e il “potere” politico, anche se da molti anni il Parlamento approva leggi nelle quali anche per la loro imperfezione delegano al magistrato la soluzione di problemi. Questo lento percorso dura dagli anni ‘ 70 ma lo scontro tra la politica e la magistratura è ricorrente dall’epoca dei greci e dei romani come ci spiega con argomenti scientifici in maniera mirabile il professor Ortensio Zecchino in un suo prezioso libro dal titolo “Il perennne conflitto tra i signori del diritto”. E per spiegare che non si tratta di un problema solo italiano basta citare una frase del libro di Robert H. Bork, professore di diritto Costituzionale alla Yale University il quale dice che “il giudice legislatore è una realtà. I rischi dello Stato di Diritto per la traslazione dell’autorità legislativa verso organismi non eletti dal popolo, dunque non rappresentativi e politicamente irresponsabili, oltre che non sottoposti a controlli istituzionali, incrina le fondamenta su cui sono basate le democrazie occidentali… e stanno portando alla graduale ma incessante sostituzione del governo dei rappresentanti eletti con quello dei giudici nominati”. La lunga citazioni per dimostrare quanto è complesso il problema che naturalmente non può essere risolto con il rifiuto della giurisdizione come il governo mostra di fare. Queste valutazioni valgono a inquadrare le problematiche e il significato che il referendum può avere, perché la “separazione dei ruoli” dei magistrati è un timido inizio per affrontare il problema del rapporto e dell’equilibrio tra i poteri che è condizione per la democrazia. Il governo in maniera del tutto anomala ha dunque presentato la legge costituzionale e il Parlamento ha ratificato pedissequamente senza modificare una virgola, il che è un precedente non virtuoso, anzi pericoloso. Il Parlamento che dovrebbe essere protagonista nelle modifiche la Costituzione è stato spettatore inerte. Ma la stessa rigidità è stata messa in atto dai magistrati che non hanno accettato il confronto. Dunque al referendum non si vota per un processo più spedito e più celere si vota per un processo più vero ed efficiente. E quindi non bisogna inventarsi diversivi per sollecitare populismi vari. Se il ministro della Giustizia Carlo Nordio, dice che questa riforma gioverebbe anche alla sinistra nel momento in cui andasse al governo, perché fa recuperare alla politica il primato costituzionale dà un significato politico a una modifica di sistema come abbiamo detto, che non rafforza il governo e se lo facesse sarebbe profondamente sbagliato. D’altra parte sorprendono tante dichiarazioni di persone addette ai lavori e di assoluto livello come Gianrico Carofiglio che sostiene che “se venisse approvata, avremmo giudici e pubblici ministeri intimiditi e un sistema costituzionale sbilanciato a favore della peggiore politica. Molti processi non verrebbero più fatti, e per i cittadini sarebbe più difficile, ogni giorno, difendersi dalle prepotenze del potere”. Dichiarazioni incredibili senza motivazione che in verità non valgono neppure come propaganda elettorale. È stato detto ancora in maniera sorprendente che c’è il rischio di indebolire lentamente il sistema unitario della democrazia, per cui sotto il controllo di legalità il cittadino resta senza protezione”?! C’è poi chi ritiene che il pm svolga le indagini a difesa della collettività. Una tesi superata che non risponde alle finalità del nuovo processo. Si invoca l’obbligo del rispetto della legge e la mitica cultura della giurisdizione che deve essere comune a tutti giudici, pm e avvocati! Ed ancora si teme che la riforma dia più potere al pm il che è molto difficile rispetto alla situazione attuale. La verità è che bisogna acquisire una diversa e nuova cultura che in verità non è stata acquisita da nessuna delle parti in causa e si è andati avanti per oltre trenta anni con la insoddisfazione di tutti che riconoscono che il processo non è trasparente, non risponde alle esigenze della giustizia. Ma passiamo agli altri articoli della legge, per i quali il contrasto con la magistratura è ancora più forte. Nel modificare la normativa del Csm che prevede la votazione da parte dei magistrati per i suoi componenti, si è stabilito il “sorteggio” che come ho ripetuto più volte avvilisce e snatura il ruolo che il Consiglio ha nell’ambito della Costituzione. Una elezione determina pur sempre una rappresentanza anche se il mio amico Augusto Barbera ritiene che quel consiglio sia solo un organo di garanzia. Potrei dire, con un po’ di polemica, che, in questo caso serve ancor più il voto, perché un organo di garanzia è pur sempre rappresentativo delle volontà degli elettori che hanno un riferimento costante istituzionale appunto di organo di tutela. Per un organo costituzionale il sorteggio è uno sgorbio che toglierà valore e significato all’istituto e questo nessuno può negarlo. Ma poi diciamo ancora: come si può immaginare che il semplice sorteggio elimini le correnti che accentueranno il loro valore negativo perché la stragrande maggioranza dei magistrati fa parte delle correnti e ognuno seguirà con più accanimento le pretese dei vertici. È una soluzione, negativa e quindi disarmonica; e se è vero questo, come è vero, perché il Pd e la stessa Associazione dei magistrati non hanno messo in difficoltà il governo e la maggioranza del Parlamento accettando la divisione dei ruoli e pretendendo la eliminazione del sorteggio?! Per ottemperare alla operazione verità dico che l’Associazione aveva il dovere di proteggere il Csm e sé stessa non stando arroccata su una questione che è fondamentale per il funzionamento del processo. L’ultima osservazione sulla Alta Corte disciplinare che supera, si spera, la corporazione e rompa la “separatezza” anche se l’impossibilità per l’interessato di ricorrere alla Corte di Cassazione è un punto negativo. Queste le luci e le ombre con una spiegazione affrettata ma puntuale della legge: speriamo che almeno alla vigilia del referendum si rispetti l’elettore eliminando le strumentalizzazioni. Separazione delle carriere, al Coa di Roma le ragioni del sì e quelle del no di Valentina Stella Il Dubbio, 19 novembre 2025 Alla Sala Avvocati della Cassazione confronto serrato tra favorevoli e contrari alla riforma Nordio, nel pieno dell’avvio della campagna referendaria. Cassazione, Sala Avvocati: 4 a favore e 4 contrari visivamente contrapposti nell’emiciclo dei relatori. “Separazione delle carriere: Sì o No?” è il titolo del match, uno dei primi grandi dibattiti sulla riforma costituzionale dall’inizio ufficiale della campagna referendaria. L’evento organizzato dal Coa di Roma ha preso il via con i saluti del vertice Alessandro Graziani, che ha auspicato un “confronto serrato, aperto, leale”. E così è stato. Ha preso poi la parola Antonino Galletti, consigliere del Cnf, che ha evidenziato “l’importanza di un tavolo tecnico di confronto sul tema della riforma, prezioso affinché tutti possano farsi un’opinione al di fuori delle chiacchiere da bar o da salotto televisivo”. Ha chiuso Davide Bacecci, presidente dell’Unione Ordini forensi del Lazio, che ha ricordato come “avvocati e magistrati, in un corpo unico della giurisdizione e non in un derby calcistico, siano al servizio dei cittadini”. Con la moderazione del direttore del Dubbio, Davide Varì, ha preso così il via la sfida tra le due squadre. Prima a intervenire Giovanna De Minico, ordinaria di Diritto costituzionale alla Federico II di Napoli: “Un Csm diviso è un Csm indebolito, a maggior ragione se gli viene sottratto il potere disciplinare. Il vero obiettivo della riforma è sullo sfondo: non c’è scritto, questo bisogna ammetterlo, ma ci sarà un pm con spalle più robuste, con un Csm tutto suo”. Da qui sarà inevitabile “porre il pm sotto l’Esecutivo, e il legislatore potrà farlo senza attivare il 138 della Costituzione, senza passare dall’obbligatorietà alla discrezionalità dell’azione penale: basterà prevedere semplicemente una riduzione delle norme penali a favore dei colletti bianchi”. Ha “replicato” Carlo Morace, componente del coordinamento Ocf: “Un contraddittorio è tale solo con l’equidistanza del giudice da pm e avvocato, e questo lo dice la Corte costituzionale. Dopodiché non si può giudicare una riforma con il processo alle intenzioni: per avere un pm sotto il controllo del governo servirebbe una modifica costituzionale, insieme a una riscrittura dell’articolo 69 dell’ordinamento giudiziario”. Si è poi passati a discutere dell’Alta Corte disciplinare. Giuseppe Tango, della giunta Anm, ha ricordato: “Anni 70, il Parlamento ha da poco approvato lo Statuto dei lavoratori ma larghi segmenti dell’imprenditoria non rispettano le nuove regole. Contano su interpretazioni della legge in grado di annacquare le novità, accreditate da dirigenti degli uffici giudiziari, sovente omogenei, all’epoca, alle classi dominanti del tempo. A Milano tre pretori smentiscono con le loro sentenze quelle convinzioni. Le reazioni non fanno attendere: il presidente della Corte d’appello li accusa di fare politica, dispone il loro trasferimento nelle sezioni penali. Il ministro della Giustizia avvia l’azione disciplinare. Viene investito il Csm, che li assolve da ogni addebito. L’indipendenza e l’imparzialità dei giudici erano salve, grazie al Csm. Con la riforma non sarà così, se pensiamo solo che nell’Alta Corte nessuno vieterà di avere collegi con una maggioranza di laici”. Ha risposto Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato per il Sì della Fondazione Einaudi: “Una riflessione critica sull’autodichia della magistratura diventa una tragedia costituzionale. Invece la riforma è l’esito fisiologico della vicenda Palamara: una soluzione alla giustizia disciplinare andava trovata, visto il fortissimo condizionamento politico da parte dell’Anm. Non capisco perché un organo disciplinare che manterrà la maggioranza togata dovrebbe essere un problema. Sentiamo da parte degli avversari un continuo lanciare allarmi per una riforma che sarebbe incostituzionale. Abbiamo dovuto sgolarci per dire che l’articolo 104 resta immutato. Dobbiamo essere seri verso i cittadini”. È stata poi la volta del dibattito sul sorteggio. Il primo a intervenire il professor Giorgio Spangher: “Quando non si riesce a spiegare una cosa si sposta la questione su una deriva autoritaria a cui si andrebbe incontro. Io il giorno dopo il referendum rimarrò a vivere in Italia, ve lo assicuro”. E poi rivolto alle toghe: “Seguo i vostri Cdc, non potete negare un certo collateralismo tra correnti e partiti, e questo si riverbera nel Csm. Quando ero consigliere, una volta, per quattro posti di pm, quattro correnti si misero d’accordo e ognuna ebbe il suo procuratore. E allora è giusto fare il sorteggio per tutti, perché tutti si devono svincolare dalle correnti”. Parola a Gaspare Sturzo, del Cdc dell’Anm: “Noi magistrati non veniamo da Marte, professor Spangher, ma dalle vostre aule, dove ci avete insegnato il diritto che abbiamo praticato negli studi legali, fianco a fianco ai voi avvocati, prima del concorso in magistratura. Avere a cuore il bene comune della giustizia è un dato comune a tutti noi, ma questa riforma non risolve nulla. Non introduce alcuna responsabilità per i componenti del Csm per i misfatti descritti da Spangher. Mira solo, come ha detto qualcuno, a “spezzare le reni” all’Anm. Con il sorteggio si vuol privare la magistratura del diritto all’elettorato attivo e passivo, per responsabilità altrui. Nella storia italiana, a mia memoria, la perdita del diritto di scegliere con il voto è stata una vittima collaterale di tangentopoli, con l’eliminazione delle preferenze. Prima, qualcosa di simile, ci riporta ai plebisciti su liste bloccate nel 1926, e poi alla selezione per censi di categoria nelle nomine alla Camera dei fasci e delle corporazioni”. Tocca a Rocco Maruotti, segretario Anm: “Il caso Palamara è venuto fuori grazie ad altri magistrati che hanno indagato. Da quello scandalo poi, grazie a molti concorsi, la magistratura si è rinnovata. Il pericolo dell’assoggettamento del pm all’Esecutivo lo facciamo derivare dall’interpretazione autentica delle recenti dichiarazioni di Meloni, Nordio, Mantovano”. E rivolto a Spangher: “In questi anni la componente laica del Csm avrebbe dovuto portare il punto di vista della società civile, e invece nulla è stato fatto. Lo ha ammesso lo stesso professore dicendo che ha contributo a quel gioco”. E poi contro Caiazza: “Quando lei era presidente dell’Ucpi nel 2019 ha firmato un comunicato contro la riforma Bonafede che prevedeva il sorteggio. Adesso improvvisamente siete a favore. E allora sorteggiate anche i presidenti di Coa e Ucpi”. Ha concluso i lavori Francesco Petrelli, presidente Ucpi: “Il controllato, il pm, e il controllore, il giudice, non possono stare nello stesso organismo. Una cosa del genere non è tollerata da nessuna altra parte”. E rivolto a Maruotti: “Non mi preoccuperei tanto che Caiazza ha cambiato idea sul sorteggio ma che Gratteri, il vostro frontman, non l’abbia cambiata. Nonostante i vari moniti di Mattarella, le correnti hanno continuato a operare al Csm. Il primo presidente è stato eletto con un solo voto di scarto. Questo significa che le correnti non hanno mai smesso di essere cartelli elettorali”. Assolti, ma invisibili: Costa e Matone contro la gogna di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 19 novembre 2025 Due proposte di FI e Lega chiedono di imporre ai giornali la stessa evidenza data alle indagini: per l’azzurro “serve correttezza”, per la Fnsi è “una resa dei conti”. Serve una legge per dire ai giornali come comportarsi davanti ad una assoluzione? Sì. E ne sono profondamente conviti i deputati Enrico Costa (FI) e Simonetta Matone (Lega) che hanno presentato due proposte di legge in materia di pubblicità delle sentenze di proscioglimento ed assoluzione. Il testo, incardinato presso la Commissione giustizia di Montecitorio, si prefigge lo scopo di “riequilibrare” una prassi informativa che, mentre amplifica la notizia dell’indagine, spesso relega - quando va bene - l’innocenza in poche righe. “Dobbiamo ristabilire la corretta informazione”, ha dichiarato ieri Costa durante le audizioni in Commissione. “Si vogliono regolare i conti con la magistratura da parte della lobby degli avvocati”, ha esordito Alessandra Costante, segretaria della Federazione nazionale della stampa, testimonial involontaria della necessità di una legge sul punto. Il problema è noto. Le prime pagine e i prime time irrompono sulle case degli italiani con arresti, perquisizioni, avvisi di garanzia. Poi, quando la giustizia archivia o proscioglie, la stessa vicenda scompare o riaffiora in forma marginale. “Una notizia originariamente completa e vera diventa non aggiornata, quindi parziale e sostanzialmente non vera”, aveva precisato la Cassazione già nel lontano 2012. Il codice deontologico dei giornalisti, all’articolo 24, impone che l’assoluzione sia resa pubblica “con appropriato rilievo e adeguata tempestività”. Ma gli obblighi deontologici, da soli, non hanno cambiato gli esiti pratici e quanto affermato da Costante ieri ne è la plastica rappresentazione. In assenza di un cambio di passo, anche in considerazione del fatto che l’ottanta percento dell’informazione giudiziaria in Italia, come da una ricerca delle Camere penali, sposa ciecamente le tesi accusatorie dei pm, il ddl Costa obbliga quindi le testate a pubblicare la notizia dell’assoluzione o del proscioglimento con modalità analoghe a quelle utilizzate per dare notizia dell’indagine, e consente al Garante della privacy di ordinare tale pubblicazione a richiesta dell’interessato. La proposta Matone rafforza ulteriormente l’impianto, prevedendo sanzioni in caso di omissione e introducendo un elemento aggiuntivo: la possibilità per l’assolto di ottenere la “non visibilità ai motori di ricerca e sulla rete internet” delle informazioni relative alla precedente condizione di indagato o imputato. Una forma estesa di diritto all’oblio che, ad oggi, rimane di difficile realizzazione. Proprio sul perimetro di questo diritto si sono concentrate le audizioni ieri. Gian Luigi Gatta, ordinario di diritto penale alla Statale di Milano, ha richiamato la necessità di un equilibrio. “Reputazione, riservatezza e diritto all’oblio devono essere bilanciati con la libertà di cronaca giudiziaria”, ha ricordato. Gatta ha messo in guardia soprattutto dalla previsione del ddl Matone sulla “non visibilità online” delle notizie pregresse. Una misura che potrebbe comportare la cancellazione dagli archivi digitali, rendendo irraggiungibili pagine di cronaca giudiziaria anche nei casi in cui altre persone coinvolte siano state condannate o non abbiano chiesto la rimozione. “È una limitazione sproporzionata del diritto di cronaca”, ha osservato, ricordando che strumenti già esistono: la deindicizzazione introdotta dalla riforma Cartabia del 2022 che rende la notizia meno rintracciabile pur senza cancellarla. Il professore ha suggerito alla Commissione di mantenere come testo base la proposta Costa, rafforzandone alcune parti ma senza irrigidimenti. In particolare, risulta “eccessivo” imporre alla stampa l’obbligo di garantire “lo stesso spazio e la stessa evidenza” riservati alla notizia dell’indagine: una prescrizione che collide con la libertà delle scelte editoriali e potrebbe costringere un direttore a mettere in apertura un’assoluzione anche in giornate dominate da eventi di tutt’altra rilevanza. Per l’Anm, invece, il nuovo diritto alla “buona fama” ipotizzato nel testo Matone è un istituto superfluo, perché la tutela della riservatezza e del diritto all’oblio è già garantita dall’ordinamento. Marcello De Chiara, numero due dell’Anm, ha inoltre rilevato criticità tecniche: la formula “indagato prosciolto” poco precisa, l’assenza di una disciplina delle spese per la pubblicazione, che non possono gravare né sull’assolto né sul direttore, la genericità della previsione sulla non visibilità online, “probabilmente inattuabile” nella pratica. La pubblicazione della notizia del proscioglimento non è comunque un “rimprovero” alla stampa ma uno strumento per completare correttamente l’informazione senza entrare nel merito della linea editoriale. Durante la giornata di ieri sono poi stati auditi i giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, fondatori di “errorigiudiziari.com”, favorevoli al ddl. “Sono 100mila i soggetti vittime di errori e travolti dalla gogna mediatica”, hanno ricordato i due cronisti che da anni raccontano le storie di persone arrestate ingiustamente. “E quasi tutti hanno voglia di far sapere che sono stati assolti o archiviati”, hanno aggiunto, sottolineando che ciò “ha effetti positivi proprio in termini di riabilitazione e fornisce loro una ventata di fiducia per il futuro”. Milano. Inchiesta sulle carceri: il triste primato di San Vittore e le violenze al Beccaria di Katia Del Savio mitomorrow.it, 19 novembre 2025 “Nessuno conosce veramente una nazione finché non è stato nelle sue prigioni. Una nazione non dovrebbe essere giudicata dal modo in cui tratta i suoi cittadini più in alto ma da come tratta quelli più in basso”. Sono le parole dell’ex presidente sudafricano Nelson Mandela, che passò 27 anni della sua vita in carcere. Partiamo da questa visione per fare il punto sul complesso tema del sistema delle carceri a Milano, una città che detiene alcuni primati come quello del più sovraffollato d’Italia, il San Vittore (il 225% rispetto alla capienza regolare), il più grande della Lombardia, l’istituto di Bollate, e il minorile più popoloso d’Italia, il Beccaria, nell’occhio del ciclone di un’indagine su violenze che sarebbero state commesse dal 2021 al 2024. Solo lo scorso 28 ottobre nel carcere Bollate è stato trovato morto un detenuto che si ritiene abbia inalato “volontariamente” del gas, mentre il 10 ottobre, nella stessa giornata San Vittore ha registrato due decessi. Le indagini si sono mosse nella direzione dell’uso di stupefacenti. Con i suoi 91 casi, il 2024 è stato l’anno record di suicidi nelle prigioni italiane e fino al 1° ottobre 2025 le persone che si sono tolte la vita in stato di detenzione sono state 65 (ma da quella data ci sono stati ulteriori casi, l’ultimo il 13 novembre nel carcere di Pavia). Proprio giovedì scorso a Montecitorio si è tenuta una cerimonia per ricordare i 50 anni della legge sull’ordinamento penitenziario emanata per mettere in pratica l’articolo 27 della Costituzione che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Come riportato da alcuni quotidiani, in quell’occasione il ministro della Giustizia, Nordio, sottolineando che “il sovraffollamento carcerario lede la dignità della persona” ha sostenuto la tesi che “i suicidi non sono per niente collegati al sovraffollamento” ma che, anzi, è una “forma di controllo reciproco”. Del tema suicidi in carcere aveva tra l’altro parlato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel discorso di fine anno del 31 dicembre 2024. Da allora sono passati 11 mesi e 13 dal nostro precedente approfondimento sulle “nostre prigioni”. Torniamo quindi sul tema con le testimonianze di tre figure diverse che ruotano intorno agli istituti penitenziari e con l’aiuto dei dati. San Vittore e non solo: gli istituti penitenziari di Milano Casa Di Reclusione Milano-Bollate - L’istituto di Bollate con i suoi oltre 1.300 detenuti è il più grande della Lombardia. Essendo stato pensato per ospitare detenuti beneficiari di un trattamento avanzato, presenta alcune peculiarità che lo rendono unico nel suo genere fra cui ampi spazi dedicati alle attività lavorative che attraggono numerosi datori di lavoro esterni. Casa Circondariale Di San Vittore - La Casa Circondariale, fortemente sovraffollata, costituisce forse il principale punto di immissione di nuove presenze nel sistema penitenziario italiano, ovvero uno degli istituti dove sono maggiori gli ingressi per nuovi arresti. In molte stanze di pernottamento non è rispettato il limite dei tre metri quadri a persona fissato dalla Corte di Strasburgo. Casa Di Reclusione Di Milano-Opera - La struttura è considerata uno degli istituti più importanti e sorvegliati di tutto il continente europeo. All’interno presenti tutte le sezioni tipiche del carcere giudiziario e penale con esclusione del carcere femminile e minorile. A Opera sono infatti presenti aree dedicate a tutti i regimi e circuiti carcerari speciali esistenti oggi in Italia: 41-bis, E.I.V. (elevato indice di vigilanza), A.S. (alta sicurezza). L’Istituto Penale per Minorenni “Cesare Beccaria” accoglie minori (14/18 anni) e giovani adulti (18/25 anni) italiani e stranieri, sottoposti a provvedimento restrittivo da parte delle Autorità Giudiziarie minorili. Situato nella periferia milanese (in zona Bisceglie) è uno degli Istituti Penali Minorili più importanti e il più popoloso d’Italia con un tasso di affollamento del 150%. Il criterio principale della collocazione dei ragazzi è quello della “progressione trattamentale”. Vi sono quindi 5 gruppi “comuni”, collocati nella zona ordinaria che si articola in cinque sezioni, che a loro volta si sviluppano su tre piani. Ognuna delle 5 sezioni ospita tra i dodici e i tredici ragazzi, distribuiti in celle da uno a quattro posti. Al momento sono in corso le indagini sulle supposte violenze commesse da da decine di agenti tra il 2021 e il 2024 nei confronti di 33 minorenni reclusi nel carcere. Dopo i primi arresti avvenuti nell’aprile del 2024, a ottobre l’indagine si è allargata, coinvolgendo in tutto 51 persone, la maggiorate agenti e comandanti della polizia penitenziaria, ma anche dirigenti, medici, infermieri dell’istituto. Le accuse parlano di maltrattamenti, torture, pestaggi, isolamento prolungato di minori in condizioni degradanti, falsificazione di referti e omissioni consapevoli. Non solo, nel registro degli indagati sono stati inseriti anche l’attuale cappellano del Beccaria, don Claudio Burgio e il suo predecessore don Gino Rigoldi con l’ipotesi di “omessa denuncia”. Simona Silvestro (Consigliera segretaria dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia): “Tanti i detenuti con gravi patologie psichiche, tuteliamoli anche con misure alternative”. Il nostro sistema penitenziario si trova di fronte ad un collasso umanitario. Circa il 40% dei detenuti presenta problemi di dipendenza patologica, circa il 30% disagio psichico, più del 40% è di origine straniera. E così il carcere diventa l’ultima fermata per situazioni di grave marginalità, patologia psichiatriche e fallimenti migratori, ma non può essere la risposta. Simona Silvestro è consigliera segretaria dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia e responsabile gruppo di lavoro sulla psicologia penitenziaria. Come si svolge il suo e quali obiettivi persegue? “Coadiuvo il percorso di riabilitazione e sostegno dei detenuti, agendo nella dimensione relazionale-educativa. L’obiettivo è garantire la continuità terapeutica e il collegamento con il territorio. I partecipanti ai laboratori vicini al fine pena vengono indirizzati a percorsi individuali per supportarli nella difficile transizione tra l’interno e l’esterno dell’istituto”. Qual è la situazione negli istituti di pena? “Il sovraffollamento, unito al cambiamento della popolazione (più persone con gravi patologie psichiche e traumi multipli) e alla carenza di personale, genera un grosso affaticamento per gli operatori. Questo contesto rischia di non riuscire più a garantire la tutela e la cura dei detenuti. L’emergenza più grave è l’aumento costante dei suicidi, un tasso 25 volte superiore rispetto alla società esterna”. Cosa andrebbe fatto in concreto per migliorare la salute dei detenuti? “È indispensabile intervenire sui momenti più critici. L’ingresso (dove si concentra un alto tasso di suicidi) e il rilascio a fine pena richiedono il potenziamento dei presidi di accoglienza e dei servizi di preparazione graduale. È poi necessario abolire forme di segregazione e isolamento, che hanno gravi effetti psichici. La Lombardia sta investendo con il Piano Regionale per la prevenzione del rischio suicidario, ma è cruciale agire a livello nazionale. Occorre decongestionare gli istituti e promuovere programmi di cura intensivi territoriali”. Carceri a Milano, Cesare Bottioli (Segretario della Fp CGIL Milano): “Le condizioni della Polizia penitenziaria non aiutano la convivenza con i detenuti” Delle molte figure che abitano e compongono la complessità degli Istituti di pena milanesi, quella della polizia penitenziaria è forse quella più controversa. Si parla spesso di carenza di personale, di retribuzioni inadeguate e anche di episodi negativi di violenze fatte e subite all’interno delle carceri. Cesare Bottiroli è il segretario della Fp Cgil Milano. Quali sono i maggiori bisogni e problemi per la polizia penitenziaria nelle carceri milanesi? “Il sovraffollamento carcerario va di pari passo alla carenza di personale civile e di sicurezza come la polizia penitenziaria che è uno dei maggiori problemi, con turni di lavoro e condizioni abitative difficili. Gli agenti hanno problemi economici, per cui a volte risiedono all’interno delle caserme delle carceri, e di povertà di personale che porta a turni difficoltosi, a ridurre vigilanza e sicurezza”. Come reagire di fronte a casi di abusi, come quelli successi al carcere minorile Beccaria? “Chiunque commetta un abuso di questo genere non può mai essere giustificato, è qualcosa da stigmatizzare. Segnaliamo però le condizioni retributive, lavorative e strutturali spesso inadeguate, che possono portare, sbagliando, a generare una reciproca violenza tra detenuti e agenti”. Quali i benefici del decreto Carceri di Nordio che prevede assunzioni in polizia penitenziaria? “Gli effetti del decreto non si sono visti a Milano, sono arrivate poche nuove assunzioni, una goccia in un vaso vuoto. Se esistesse un carcere capace effettivamente di rieducare il detenuto potrebbe sicuramente portare un beneficio. La società non entra all’interno delle carceri e questo crea un problema di connessione con tutto il resto del mondo. Il personale è stremato dall’incapacità di far fronte alle esigenze quotidiane, che spesso porta alla piaga del suicidio dei detenuti ma anche degli agenti, rovinando la vita di molte famiglie. Bisognerebbe enfatizzare di più l’aspetto rieducativo del carcere”. Stefano Simonetta (Referente del Progetto Carcere dell’Università Statale): “Il più grande polo universitario carcerario d’Europa con l’aiuto degli studenti-tutor” Ieri pomeriggio alle 16.30 all’Università Statale è andata in scena “La più grande evasione della nostra storia”, un evento che traccerà il bilancio di 10 anni del Progetto Carcere dell’ateneo milanese. Simonetta, professore ordinario di Storia della Filosofia Medievale, Prorettore ai Servizi per gli studenti e Diritto allo studio è anche il Referente di Ateneo per il Progetto Carcere. Dieci anni di Progetto Carcere alla Statale. Un bilancio? “Portare l’università nelle carceri è un esercizio del diritto allo studio. I nostri poli di riferimento sono Bollate e Opera, ma abbiamo tenuto corsi anche a San Vittore, al Beccaria e in altre carceri lombarde. Il progetto ruota intorno a tre cose: poter studiare gratis se si è reclusi; andare a far lezione all’interno del carcere insieme a studenti della Statale (su base volontaria, ma abbiamo molte più richieste dei posti disponibili); attivare studenti-tutor che affianchiamo gli studenti ristretti (abbiamo quasi 800 disponibilità da tutte le facoltà)”. Parliamo di numeri? “Nel 2015 c’erano 4 studenti in carcere, oggi sono 181. In dieci anni hanno frequentato oltre 300 studenti e una trentina di loro si sono laureati, aiutati dall’avvicendamento di circa 1.000 studenti-tutor esterni. Tra i poli universitari penitenziari siamo il più grande sia in Italia che in Europa, dove nessuno ha numeri pari ai nostri, soprattutto nel novero degli studenti che entrano nelle carceri”. Come è iniziato il progetto? “Ero andato a far sostenere degli esami in carcere a 2 di quei 4 studenti originari e uno di loro, un ragazzo albanese, ha fatto uno degli esami più belli che io abbia mai sentito in vita mia. Poi ci siamo fermati a parlare di tutte le difficoltà che ci sono nello studiare in carcere, compreso il fatto che spesso lui stesso fosse visto molto male da parte degli altri detenuti. E ho pensato: facciamo qualcosa! Da allora la Statale stipula una convenzione, che si rinnova ogni 3 anni, con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Lombardia”. Milano. Compie 10 anni il “Progetto carcere”: 24 i detenuti laureati, oggi 175 gli iscritti di Gioia Locati Il Giornale, 19 novembre 2025 Compie dieci anni il progetto Carcere dell’Università Statale. Il Polo penitenziario universitario più grande d’Italia e, tra i più importanti in Europa, conta al momento 175 iscritti (9 studentesse e 166 studenti) fra le persone con libertà vigilata (i cosiddetti “ristretti”), che provengono da 8 carceri e frequentano 34 corsi di laurea. I tutor coinvolti sono 170, quest’anno gli iscritti hanno già sostenuto 250 esami. In un decennio il progetto ha permesso a 24 persone in esecuzione penale di laurearsi, ha coinvolto 600 tutor, 35 docenti titolari di corsi, oltre a moltissimi altri insegnanti che hanno contribuito con singole lezioni. Sono stati organizzati 55 laboratori, per un totale di oltre mille ore di lezione, che si sono svolti negli istituti penitenziari coinvolgendo anche studenti esterni, quasi milleduecento, che hanno potuto confrontarsi direttamente con la realtà carceraria. Gli iscritti prediligono i corsi triennali e su tutti Filosofia - il dipartimento in cui il progetto è nato - seguito da Scienze Politiche, Scienze Umanistiche per la Comunicazione, Scienze dei Servizi Giuridici e Giurisprudenza. La maggior parte degli universitari “ristretti” ha più di trent’anni, ma vi è un nutrito gruppo over 60. Provengono soprattutto dal circuito di media sicurezza, ma il progetto raggiunge anche chi si trova in alta sicurezza, nel regime del 41 bis, in comunità o in misure alternative. Dal 2022 è nato anche il primo Osservatorio sul diritto allo studio in carcere del nostro Paese. Due i risultati ottenuti dall’Osservatorio: la decisione del Consiglio Regionale di sollevare tutti gli studenti universitari ristretti in Lombardia dal pagamento della tassa regionale per il diritto allo studio e la stipula di un contratto di comodato tra Ateneo e Casa di Reclusione di Opera per fornire PC e stampanti. “Il Progetto Carcere ci ha regalato un primato nazionale che ci rende davvero orgogliosi - ha detto la rettrice Marina Brambilla - realizza un dettato costituzionale, insegna e dà consistenza a una solidarietà giusta e necessaria, forma e allena alla coesione sociale nella pratica dell’insegnamento e dell’amicizia, nutrendo una delle identità più importanti di questa università”. Milano. Raffaele e i 175 studenti-detenuti: “L’università mi ha dato la libertà” di Simona Ballatore Il Giorno, 19 novembre 2025 Numeri e voci del “polo penitenziario” della Statale. Raffaele entra nell’aula magna dell’università Statale: è “in permesso”, a febbraio si laureerà qui in Scienze dei beni culturali con una tesi sulla preistoria, ha una storia pesante alle spalle. “Ho 67 anni - racconta - sono chiuso da 40. Praticamente ho svolto tutti gli studi in “cattività”. Ma, in fondo, credo di essere più libero adesso che mai: io sono “dentro” da quando ero nel grembo di mia mamma, ho perso solo del tempo, non sono mai stato bambino, a 6-7 anni dovevamo già portare il “pane” in casa. Quanti sbagli abbiamo fatto in quegli anni, altro che i ragazzi d’oggi. L’università mi ha dato la libertà”. Raffaele è tra i 175 studenti-detenuti della Statale di Milano che, da dieci anni, porta avanti il “Progetto Carcere”: il suo Polo Penitenziario Universitario è il più grande in Italia e tra i più grandi a livello europeo. Si sono già laureati in 24, gli attuali 175 iscritti, detenuti in otto istituti penitenziari, sono seguiti da 170 tutor, giovani che li accompagnano negli studi e non solo. “Tramite la mia tutor, Isabella, sto scoprendo per la prima volta il mondo - conferma Raffaele -: viaggia, mi manda foto, mi spiega cosa c’è lì fuori”. “Abbiamo costruito un ponte civico che unisce la Statale e quella particolare porzione della comunità circostante che sono gli istituti penitenziari con lo scopo di portare quotidianamente l’università in carcere, mettendo chi vi è ristretto in condizione di esercitare in concreto il proprio diritto allo studio”, spiega Stefano Simonetta, prorettore e referente del Progetto Carcere. Filosofia, il dipartimento in cui il progetto ha affondato le sue radici, è il corso più frequentato, seguito da Scienze Politiche, Scienze Umanistiche per la Comunicazione, Scienze dei Servizi Giuridici e Giurisprudenza. La maggior parte degli studenti ristretti ha più di trent’anni, tanti sono gli over 60 come Raffaele. “È un progetto fondamentale per le persone ristrette, aiutate a riprendere il corso della propria vita con un bagaglio di conoscenza e competenza utile a dare il proprio contributo positivo alla società, recuperando fiducia e autostima - spiega la rettrice, Marina Brambilla. Ma non è da meno per i nostri studenti: è un’esperienza formativa e di crescita personale e umana di inestimabile valore sociale”. Raffaele guarda oltre, si prepara alla laurea, in carcere ha preso anche l’abilitazione per diventare operatore sanitario: “Mi manca un ultimo step, ho una famiglia “fuori” che mi aspetta e tanti nipotini. Mi hanno preparato già i bigliettini da visita: il tempo che riavrò sarà per loro, non voglio sprecarlo”. Foggia. Scuola, comunità e carcere uniscono le forze per tutelare i figli dei detenuti immediato.net, 19 novembre 2025 Un modello educativo innovativo nato in Capitanata punta a garantire diritti, inclusione e sostegno ai minori con genitori reclusi, rafforzando la rete tra istituzioni, docenti e servizi del territorio. Scuola, comunità e carcere possono costruire insieme una responsabilità condivisa per garantire i diritti dei figli di detenuti. È emerso a gran voce durante il seminario “La scuola come presidio dei diritti e della relazione” che ha segnato la chiusura del progetto “Bambini oltre le sbarre”, promosso dall’associazione Lavori in Corso e sostenuto dall’Ufficio del Garante regionale delle persone private della libertà personale. L’incontro, andato in scena martedì 18 novembre nella Sala della Ruota di Palazzo Dogana a Foggia, ha rappresentato un momento importante che ha visto diverse istituzioni ritrovarsi e riflettere su un tema attuale e urgente. Con “Bambini oltre le sbarre”, Lavori in Corso introduce in Puglia un modello innovativo che unisce scuola, comunità e istituzioni penitenziarie in un’unica strategia educativa, oggi riconosciuto come riferimento per lo sviluppo di interventi provinciali e regionali. L’iniziativa ha anche consolidato il ruolo di Lavori in Corso come realtà di riferimento regionale per la tutela dei minori con genitori detenuti, grazie a un modello territoriale che integra carcere, scuola, comunità educante e servizi sociali. Al seminario hanno partecipato autorevoli rappresentanti istituzionali e del mondo educativo tra cui Piero Rossi, Garante regionale della Puglia dei Diritti delle Persone sottoposte a Misure Restrittive della Libertà; Paolo Giovanni Grieco, prefetto di Foggia; Giuseppe Di Leo, Direttore Ufficio Locale di Esecuzione Penale Esterna (ULEPE) di Foggia; Milena Carducci, Delegata Ufficio Scolastico Territoriale di Foggia; Pasquale Trivisonne, Dirigente I.C. “Bozzini Fasani” di Lucera e Angelica Di Salvo, Ph. D. in Neuroscience and Education - Università di Foggia (intervenuta in video collegamento). La partecipazione del prefetto Paolo Giovanni Grieco ha sottolineato il rilievo istituzionale del tema, richiamando la necessità di una collaborazione stabile tra Stato, scuola e comunità per prevenire forme di esclusione e marginalità e per rafforzare la coesione sociale a partire dalla tutela dei soggetti più vulnerabili. Per Lavori in Corso Aps sono intervenuti Umberto Di Gioia (presidente), Antonietta Clemente (avvocata e criminologa), Mara De Troia (psicologa) e Maria Pagliarella (pedagogista), che hanno illustrato le diverse fasi del progetto e i risultati innovativi raggiunti. Oltre sessanta docenti, collegati da remoto tramite la piattaforma Google Meet, hanno seguito il seminario. “Siamo orgogliosi di aver creato un modello di formazione - che speriamo possa essere replicato non solo a livello provinciale ma anche regionale - dedicato agli insegnanti delle scuole rispetto al tema dei diritti dei figli dei genitori detenuti. Bambini invisibili non solo alla società ma alle loro stesse famiglie e alla scuola, che non conosce questo tipo di problematica”, ha affermato Antonietta Clemente, che ha aggiunto: “Attraverso la scuola vogliamo rilevare i loro bisogni perché siamo convinti che bambini tutelati portano con sé famiglie più forti e, di conseguenza, società più sicure”. Durante il percorso progettuale Lavori in Corso ha ricevuto dal Centro per il Libro e la Lettura (Cepell) il riconoscimento nazionale del Maggio dei Libri, a testimonianza del valore della lettura come strumento di relazione affettiva tra genitori detenuti e figli, cuore metodologico delle attività realizzate nel carcere e nell’ULEPE. In provincia di Foggia sono oltre 1000 i minori con un genitore colpito da un provvedimento di condanna, un segreto difficile da gestire che, spesso, si trasforma in stigma proprio sui banchi di scuola. “La scuola ha il compito di garantire che la dimensione dell’accoglienza sia reale per tutti, a maggior ragione quando una persona vive una condizione di vulnerabilità oltre che di fragilità, perché connessa alla psicologia dell’età evolutiva di un bambino e di una bambina”, ha sostenuto il Garante Piero Rossi, convinto che progetti di questo genere siano di importanza vitale per l’integrazione, anche perché messi in campo da professionisti esperti in materia. L’I.C. “Bozzini-Fasani” di Lucera è stato l’istituto “pilota” dove ha preso il via la sperimentazione del modello, che ha visto un percorso di formazione e sensibilizzazione rivolto a oltre sessanta docenti della scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado. “La scuola ha il compito di garantire il diritto all’istruzione, deve assicurare la frequenza e il successo formativo anche ai ragazzi meno fortunati”, ha ribadito il dirigente scolastico Pasquale Trivisonne, ringraziando Lavori in Corso per il prezioso lavoro messo in campo. Il progetto si inserisce, inoltre, in un quadro di confronto nazionale e internazionale sul tema dei minori con genitori detenuti, ambito nel quale Lavori in Corso collabora con enti di ricerca e con reti specializzate in diritti dell’infanzia e giustizia familiare. Un lavoro di rete perché la scuola, da sola, non basta. È necessaria una comunità, consapevole e solidale, per garantire ai figli dei detenuti non solo un presente sereno, ma anche un futuro libero da pregiudizi. “Fare rete significa diventare più forti e questo progetto ha una valenza educativa formidabile, perché mette al centro il minore che vive una realtà difficile”, ha ribadito Milena Carducci, sottolineando l’importanza del sostegno istituzionale e della rete tra scuola, comunità e istituzioni penitenziarie, necessari per garantire continuità al progetto e ampliamento anche alle altre scuole del territorio e della regione. Il progetto “Bambini oltre le sbarre” ha promosso numerose attività finalizzate a sostenere il diritto allo studio e la relazione affettiva dei bambini con genitori in esecuzione penale, come i laboratori di lettura espressiva presso la Casa Circondariale e l’Ufficio Locale di Esecuzione Penale Esterna di Foggia, nonché la gestione dello “Spazio Giallo”, un ambiente protetto dedicato ai bambini che visitano i parenti detenuti. “Progetti come questo sono importanti perché consentono di utilizzare al meglio l’esecuzione della pena, rendendola propositiva sul piano delle relazioni umane. Poter colloquiare, dialogare con i propri figli e trovare una dimensione serena è fondamentale perché dà la possibilità di sperimentare aspetti relazionali che altrimenti non verrebbero neanche presi in considerazione”, ha evidenziato Giuseppe Di Leo. Lavori in Corso ha annunciato che il modello sperimentale sarà strutturato e proposto nel 2026 alle scuole della provincia di Foggia, per essere poi esteso nel 2027 a livello regionale. Un percorso che potrà crescere solo attraverso il coinvolgimento attivo dei dirigenti scolastici e dei docenti, chiamati a riconoscere i bisogni di questi bambini e a orientare il cambiamento educativo nei territori. Parma. Oltre il muro del silenzio, orizzonti narrativi da dentro il carcere parmatoday.it, 19 novembre 2025 La serata organizzata da “Potere al popolo” Fidenza per venerdì 21 novembre presso il circolo Ex Macello, in via Mazzini 3 (Fidenza) cercherà di spalancare una finestra sulla condizione della popolazione carceraria in Italia. Oggi migliaia di persone detenute restano senza voce, in apnea. La crisi del sistema penitenziario è solo una delle criticità che le riforme dell’attuale Governo hanno aggravato. A fine agosto 2025 il sistema penitenziario è tornato a contare oltre 63.000 persone detenute per meno di 47.000 posti realmente disponibili - un tasso di sovraffollamento che ha superato il 135%. Il numero di decessi all’interno delle carceri è esorbitante: 246 nel 2024 e 199 al 21 ottobre del 2025. Tra questi i suicidi “certificati” come tali sono 68, cinque volte in più di quelli dei cittadini “liberi”. Nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per le condizioni inumane e degradanti delle nostre carceri. Nel 2024 i tribunali di sorveglianza hanno accolto 5.837 istanze da persone detenute riconoscendo loro condizioni contrarie all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani: “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. “Oggi si contano quasi 6.000 condanne l’anno - si legge in una nota. Il decreto sicurezza del Governo Meloni ha segnato un cambio di paradigma: da uno Stato di Diritto si stanno creando le basi per l’affermazione di uno Stato di prevenzione fondato sul panpenalismo che pensa di risolvere tutti i problemi sociali attraverso la legge penale. Si tenta di capitalizzare il consenso, introducendo reati e aggravanti che avrebbero l’obiettivo di salvaguardare la “sicurezza” dei cittadini. Ma l’effetto concreto del decreto sicurezza è invece l’aver determinato un costante stato di insicurezza e di paura. Una riforma che ha la chiara intenzione di colpire il dissenso. Tra le norme più pericolose presenti nel testo che mirano a cancellare le basi del nostro Stato di diritto, vi sono il nuovo delitto di rivolta penitenziaria e le norme riguardanti la detenzione per donna madre con prole inferiore ad un anno o in stato di gravidanza. In sintesi, se le persone detenute che condividono la stessa cella sovraffollata in condizioni detentive inumane e degradanti, si rifiutano di obbedire all’ordine di un agente penitenziario, anche con modalità non violente, si configurerà il delitto di rivolta con una possibile condanna da due a otto anni di reclusione”. Tutti questi temi saranno affrontati nella serata grazie al dialogo con gli ospiti: Enrico Rizzo (Oltre il muro), Natalia Rinaldi (operatrice sanitaria) e Hisam Allawi (mediatore culturale). Bologna. I detenuti vanno a teatro “Per motivi spettacolari” di Amalia Apicella Il Resto del Carlino, 19 novembre 2025 L’iniziativa nasce da un’idea condivisa tra Alessandro Bergonzoni e la Camera penale di Bologna. “Uscire non sia solo un premio, ma un diritto per accedere a ballo e canto”. Biglietti per il teatro gratuiti, messi a disposizione dei detenuti che dispongano di permessi premio o siano stati ammessi a misure alternative. Sarà poi la Rocco D’Amato, assieme all’ufficio esecuzione penale esterna, a individuare chi potrà assistere alle recite, anche in compagnia di amici o famigliari. Si intitola Uscire per motivi spettacolari il progetto nato da un’idea dell’attore Alessandro Bergonzoni e promosso dalla Camera penale Franco Bricola con l’Osservatorio diritti umani, carcere ed altri luoghi di privazione della libertà. I principali teatri cittadini ci sono tutti: Comunale, Arena del Sole e Moline, Duse, Celebrazioni, Dehon e Oratorio San Filippo Neri. “L’uscita non deve essere solo un permesso o un premio - sottolinea Bergonzoni -, ma un diritto di poter usufruire di teatro, ballo, canto, comicità”. Il progetto si ispira idealmente al percorso artistico e umano da lui tracciato nel suo Viaggio nello spazio (in presenza di gravità). Questo perché, come spiega l’attore, “milioni di chilometri sembrano dividere lo ‘spazio’ carcerario dal pianeta città, dai suoi abitanti, i suoi teatri e gli spazi culturali artistici. Le prigioni sono al colmo? Cominciamo a colmare quelle distanze”. Il teatro è solo la prima delle iniziative pensate. “Vorremmo portare anche i quadri della Pinacoteca in carcere - aggiunge Bergonzoni - con critici che raccontino l’arte ai detenuti, offrendo loro la possibilità di conoscere opere che altrimenti non potrebbero vedere. Con il trombettista Paolo Fresu spero riusciremo a organizzare un concerto nel cortile, la musica non è imprigionabile, può arrivare a ogni cella. Mi piacerebbe anche portare nello stesso spazio un gruppo di bambini dell’asilo, perché i detenuti non sentano soltanto il rumore dei chiavistelli, ma anche le voci dei più piccoli. So bene di parlare di cose difficilissime e utopiche, ma sono un artista e l’arte non può essere solo per qualcuno”. L’iniziativa prende avvio in un momento in cui “il carcere è vicino al collasso: a Bologna abbiamo superato gli 820 detenuti - spiega l’avvocato Luca Sebastiani, responsabile dell’osservatorio Diritti umani, carcere ed altri luoghi di privazione della libertà -. Stiamo raggiungendo numeri simili a quelli che portarono la Corte europea dei diritti umani a condannare l’Italia nel 2013 per condizioni inumane e degradanti. Con le uscite per motivi spettacolari, apriamo metaforicamente le barriere del carcere e consentiamo ai detenuti di potersi sedere accanto a qualsiasi altro cittadino”. Napoli. Detenuti e diritti, convegno al Circolo Unione Corriere del Mezzogiorno, 19 novembre 2025 Le persone detenute e i loro diritti al centro di una riflessione a più voci al Circolo dell’Unione, in via San Carlo 99 a Napoli. La serata di venerdì prossimo sarà dedicata a un tema delicato: “Carcere e detenuti: dalla funzione rieducativa a quella riabilitativa della pena”. Appuntamento alle 19.15 per un dialogo fra addetti ai lavori che affrontano il tema da diversi punti di vista, nella prospettiva di una giustizia che tenda soprattutto a reinserire pienamente, una volta scontata la pena, le persone detenute nella comunità degli uomini liberi. Ai lavori prenderanno parte Aldo Policastro, procuratore generale Corte di Appello di Napoli; Patrizia Mirra, presidente del Tribunale di sorveglianza; Irma Conti, avvocato membro del collegio del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale; Simona Di Monte, avvocato generale Corte di Appello di Napoli; Giulia Russo, direttrice casa circondariale Poggioreale “Giuseppe Salvia”. A moderare l’incontro sarà Maria Rosaria Covelli, presidente Corte di Appello di Napoli. Il secolo liquido di Zygmunt Bauman di Massimiliano Padula Avvenire, 19 novembre 2025 Il 19 novembre 1925 nacque a Poznan il sociologo che descrisse l’indebolimento delle strutture durevoli a favore di forme di esistenza transitorie, mobili e reversibili. Esistono intellettuali così significativi da trascendere il ruolo di semplici studiosi per diventare delle vere e proprie icone del tempo contemporaneo. Uno di questi è Zygmunt Bauman, di cui oggi ricorre il centenario dalla nascita. La sua città natale, Poznan in Polonia, era una sorta di predestinazione. Ricca di storia e miscuglio di stili architettonici, il suo nome deriverebbe dal verbo polacco poznac, ossia conoscere. E della conoscenza, Bauman è stato uno straordinario divulgatore, rendendo l’analisi della società un esercizio “pop”, prêt-à-porter e quindi alla portata di (quasi) tutti. Dello studioso morto nel 2017 si potrebbe scrivere tanto. A partire dalla sua continua ricerca di libertà. Nato in una famiglia ebraica, emigrò dal suo Paese più volte a causa delle persecuzioni naziste prima e poi in seguito alle epurazioni antisemite del regime comunista. Il suo approdo definitivo fu Leeds, in Inghilterra, dove insegnò Sociologia all’università fino alla pensione. Le radici ebraiche e i continui esodi plasmarono profondamente le idee del giovane Zygmunt, che abbandonò le seduzioni del marxismo ortodosso (pur non rifiutandone la matrice critica) convinto dell’impossibilità che una sola idea potesse plasmare e garantire l’ordine sociale. È in questo quadro che si colloca il contributo teorico di Bauman alla comprensione della transizione tra modernità e postmodernità. La prima, radicata nei paradigmi ottocenteschi del progresso, della razionalità e della libertà, aveva fornito alla sociologia un repertorio concettuale relativamente stabile. Con la postmodernità, invece, tali certezze si dissolvono: le istituzioni perdono rigidità, le identità si fanno fluide, i legami sociali diventano meno vincolanti. Bauman elabora questa trasformazione attraverso la celebre metafora della “liquidità”, che descrive l’indebolimento delle strutture durevoli a favore di forme di esistenza transitorie, mobili e reversibili. La liquidità non è, però, soltanto una constatazione interpretativa, ma un cambiamento strutturale che richiede un ripensamento epistemologico della sociologia, chiamata a dotarsi di strumenti capaci di cogliere l’instabilità come cifra costitutiva della contemporaneità. La sua vasta produzione scientifica opera precisamente in questa direzione, proponendo un ampliamento del campo sociologico oltre i confini universitari. Accanto a figure come Ulrich Beck, Anthony Giddens e Manuel Castells, Bauman contribuisce a delineare una sociologia “pubblica”, orientata non solo alla diagnosi dei fenomeni sociali, ma anche alla formulazione di prospettive normative. Tale orientamento comprende la denuncia delle disuguaglianze prodotte dalla globalizzazione, l’attenzione per le soggettività marginalizzate, la promozione della tolleranza e la ricerca di strategie per la gestione dei conflitti. Questa attenzione per la dimensione etica del vivere collettivo favorì, negli ultimi anni, una significativa convergenza con alcuni temi centrali del magistero di papa Francesco. I due si incontrarono ad Assisi nel 2016 in occasione di un meeting interreligioso sulla pace. In quell’occasione Bauman tenne un discorso su “migrazioni e integrazione” spiegandone le cause e le conseguenze come la “globalizzazione dell’indifferenza”, concetto più volte espresso da Bergoglio. In tale contesto il sociologo individuava, tra i possibili antidoti alla deriva individualistica, il recupero del sacro come ambito capace di offrire riferimenti valoriali non soggetti al flusso delle mode e della volatilità culturale. La sua riflessione si intrecciava anche con considerazioni sulla sfera privata, in particolare sul tema dell’amore e dei legami affettivi. La lunga e stabile relazione con la moglie Janina costituiva, nella sua testimonianza personale, una risposta concreta alla tendenza delle relazioni “liquide” alla precarietà e al disimpegno. Attraverso queste analisi Bauman mostrava che la liquidità non deve essere interpretata come un destino inesorabile: è possibile istituire spazi di solidità, restituendo centralità alla dignità delle persone e alla loro felicità. Che per Bauman è un’esperienza che nasce nella quotidianità, nei rapporti, nel confronto e nella negoziazione. È in questa dimensione micro-sociale che egli intravedeva le premesse necessarie per la tenuta della convivenza nella società contemporanea. Nel contesto post-pandemico e in un’epoca segnata da guerre diffuse, il suo pensiero invita a ripensare le forme della comunità e della responsabilità reciproca. Richiamarsi oggi alla lezione di Bauman significa, forse, esplorare la possibilità di restare umani in un mondo ipercomplesso e sempre più difficile da decodificare. Cinquant’anni di referendum: un vademecum verso il voto sulla giustizia di Emilia Patta Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2025 In libreria “Le stagioni del referendum, la democrazia diretta tra populismo e social media”. Da Cheli proposte per riformare lo strumento, da Ceccanti e Clementi l’invito a non politicizzare i referendum costituzionali. Ben 81 volte in poco più di 50 anni, dal 1974 con il primo e importantissimo voto popolare in favore del divorzio fino al giugno scorso con il voto fallito per mancanza di quorum sul Jobs act e sulla cittadinanza. I referendum abrogativi giunti alla fase conclusiva son stati 77, quelli costituzionali solo 4: due le riforme approvate dagli italiani (la riforma del Titolo V nel 2001 e la riduzione del numero dei parlamentari nel 2020) e due quelle bocciate (le grandi riforme della seconda parte della Costituzione volute da Silvio Berlusconi nel 2006 e da Matteo Renzi nel 2016). Cheli: uno strumento da riformare per evitare la fuga dalle urne - Quando mancano ormai poche settimane al referendum confermativo sulla riforma costituzionale targata Nordio che introduce la separazione delle carriere tra Pm e giudici e divide in due il Csm (si voterà tra fine marzo e inizio aprile), la storia dello strumento principe della democrazia diretta nel nostro Paese è ripercorsa criticamente in un volume appena pubblicato per i tipi di Giappichelli a cura di Anna Chimenti dal titolo Le stagioni del referendum, la democrazia diretta tra populismi e social media. Autorevoli i contributi ospitati, principalmente di costituzionalisti, a partire dalla parte introduttiva affidata ad Enzo Cheli, il quale tra l’altro rilancia alcune proposte di riforma dello strumento per superare “l’astensionismo referendario usato programmaticamente” allo scopo di far fallire i referendum abrogativi, come accaduto quasi sempre negli ultimi 25 anni: “Alcuni correttivi e aggiustamenti alla disciplina vigente sono necessari e possono riassumersi in queste finalità primarie - scrive Cheli -: nell’introduzione a fianco del referendum abrogativo di un referendum propositivo legato all’esercizio del potere di iniziativa legislativa popolare; nell’aumento del peso della domanda referendaria con un incremento del numero dei soggetti richiedenti da coinvolgere attraverso l’utilizzo delle tecniche digitali; nell’eliminazione o abbassamento del quorum strutturale”. Solo quattro fin qui i voti sulle riforme costituzionali: l’attenzione degli italiani - Particolarmente d’attualità, visto il referendum confermativo sulla giustizia di primavera, è il capitolo sul voto degli italiani sulle riforme costituzionali di Stefano Ceccanti e Francesco Clementi. In questo caso, a differenza dei referendum abrogativi, non è previsto quorum, ma è un fatto che tre volte su quattro il 50% è stato superato, fino al arrivare al 64% di affluenza nel 2016 (solo nel 2001 ad esprimersi sulla riforma federalista del Titolo V fatta dal centrosinistra fu poco più del 34% degli italiani). Segno che quando si tratta della Costituzione gli italiani vogliono dire la loro con chiarezza, e chissà che non sia così anche sul referendum sulla giustizia. Ceccanti e Clementi: agire contro il rischio politicizzazione dei referendum costituzionali - Il rischio di politicizzazione del referendum è tuttavia ancora più forte nel caso dei referendum sulle riforme costituzionali, come insegna il caso di Renzi che chiamò al voto politico sul suo governo e fu costretto per questo a dimettersi da Palazzo Chigi dopo la sconfitta. Da qui il warning di Ceccanti e Clementi, con un occhio al prossimo appuntamento referendario che rischia di trasformarsi in un voto pro o contro il governo Meloni perdendo così di vista le questioni di merito: “Il referendum costituzionale è uno strumento prezioso della democrazia italiana, pensato dai costituenti come garanzia di equilibrio e partecipazione. Tuttavia, la sua applicazione concreta ha mostrato limiti, distorsioni e usi impropri, che ne hanno ridotto l’efficacia e aumentato il rischio di conflittualità politica - scrivono Ceccanti e Clementi -. Serve dunque che sia gestito meglio proprio per non indebolire la sovranità popolare, ma rafforzarla, rendendola uno strumento effettivo di partecipazione responsabile, in una democrazia costituzionale matura, il cui giudizio sia effettivamente sul merito delle innovazioni proposte e non un “test” sul governo pro tempore”. Mancina: la diffidenza del Pci ha segnato la prima stagione referendaria - Politicamente significativo è poi il capitolo a cura di Claudia Mancina, filosofa, dal titolo “Le sinistre e i referendum”, dal quale emerge come il Pci fin dai tempi di Palmiro Togliatti e le sue successive trasformazioni abbia avuto un atteggiamento sostanzialmente conservativo verso le innovazioni proposte dai quesiti: dalla riluttanza iniziale sul divorzio, soprattutto per il timore di compromettere il rapporto con la Dc in tempi di compromesso storico e più in generale il rapporto con l’elettorato cattolico, fino alla netta sconfitta politica nel referendum sulla scala mobile voluto dall’allora premier Bettino Craxi. Dal sì di Occhetto ai referendum elettorali di Segni - L’eccezione importante c’è però con la stagione dei referendum sulla legge elettorale dei primi anni Novanta, con il movimento di Mario Segni volto a introdurre un sistema maggioritario, abbracciati con successo dal segretario Achille Occhetto proprio negli anni della Svolta e della trasformazione del Pci in Pds. Al ritorno a posizioni conservatrici dopo la stagione di Renzi - Una spinta riformatrice che si è interrotta con la sconfitta di Renzi al referendum del 2016: “La sconfitta di Renzi mise una pietra tombale sulle iniziative di riforma costituzionale da sinistra, lasciandole in eredità alla destra. Si concludeva così un lungo percorso al cui termine, per un paradosso della storia, il Pd si ritrova su quella sponda del conservatorismo costituzionale che era stato tipico della vecchia Dc e del vecchio Pci”. Chiaro, anche se non esplicito, il rammarico di Mancina per le posizioni attuali del Pd schleiniano, dal no alla separazione delle carriere, che pure ha fatto parte negli anni scorsi del dibattito democratico, fino al no al dialogo sul premierato. L’Europa dei volontari: coinvolti 550 mila giovani per 7 mila progetti finanziati di Giulio Sensi Corriere della Sera, 19 novembre 2025 Esiste anche un’Europa del volontariato, attiva e silenziosa, che agisce in nome della solidarietà. Ha sfaccettature e numeri diversi in ogni Paese ed è impossibile imbrigliarla in una statistica ufficiale. L’unico programma specifico dell’Unione europea che sostiene direttamente il volontariato è il Corpo europeo di solidarietà: è rivolto ai giovani e, sempre senza grossi clamori, ha visto un boom di adesioni dalla sua nascita nel 2021. “È cresciuto - spiega Barbara Eglitis dell’European solidarity corps resource centre di Salto Youth, la rete di sette Centri che lavorano su aree prioritarie europee nell’ambito del settore giovanile - fino a diventare uno dei programmi giovanili di maggior successo dell’Ue, con una domanda che ormai supera di gran lunga il suo budget. Offre ai giovani l’opportunità di impegnarsi in iniziative di volontariato locali, i Progetti di solidarietà. Di questi progetti, 794 sono già stati implementati in Italia con durata variabile da due settimane a un anno, individualmente o in gruppo”. Dal 2021 quasi 550 mila giovani hanno espresso interesse a partecipare, portando a circa 7 mila i progetti finanziati, con 3600 organizzazioni attive e 65 mila opportunità di volontariato in tutta Europa. L’ultimo rapporto della Commissione europea sui Corpi di solidarietà certifica che per il 98% dei partecipanti ha avuto un impatto positivo sulla propria vita, il 97% delle organizzazioni riferisce benefici duraturi e il 96% delle comunità locali riconosce cambiamenti positivi per la collettività. “Questi numeri - aggiunge Eglitis - confermano ciò che molti di noi vedono ogni giorno: il volontariato costruisce ponti tra persone, settori e Paesi, favorendo al contempo una genuina coesione sociale e solidarietà. Se andiamo oltre le storie individuali vediamo che il Corpo di solidarietà contribuisce anche direttamente a diverse priorità politiche chiave dell’Ue. Tutto questo a un costo limitato per l’Unione europea quantificato in 5.159 euro per volontario. “In sostanza - aggiunge ancora Eglitis - il Corpo europeo di solidarietà, attraverso il Volontariato transfrontaliero e i Progetti di solidarietà, ha dimostrato di essere molto più di un programma. È un’espressione viva dei valori dell’Europa: empatia, cooperazione e responsabilità condivisa. In un momento in cui la solidarietà appare più essenziale che mai dimostra che i giovani e le organizzazioni di volontariato che li sostengono non sono solo pronti a contribuire, ma stanno già aprendo la strada”. Gabriella Civico è direttrice del Centro europeo del volontariato (Cev), la rete europea di oltre sessanta organizzazioni dedicate alla promozione e al supporto dei volontari e del volontariato in Europa a livello europeo, nazionale o regionale. Il nuovo board è stato nominato a ottobre e l’Italia si è distinta per due ingressi su dieci eletti: Nicolò Triacca di Csvnet e Maddalena Recla del Csv Trentino. “I principi comuni condivisi - spiega Civico - sono che si tratta di un’attività a beneficio dell’intera società senza fini di lucro. Esistono differenze nei quadri legali riguardo alle cause che possono essere sostenute, all’età dei volontari, all’obbligo o meno di un’organizzazione formale e alla possibilità di aver luogo nei settori profit, non profit o pubblico”. Ci sono poi diversi programmi finanziati: Erasmus Plus, Cerv (Cittadini, uguaglianza, diritti e valori), Europa creativa, Life. “L’Ue - prosegue Civico - sostiene il volontariato giovanile anche tramite questi fondi, con attività in settori quali l’istruzione, i diritti umani, la cultura e l’ambiente”. Dal 2014 una città è designata annualmente dal Cev come Capitale europea del volontariato, un riconoscimento per le iniziative solidali attivate per far crescere in Europa la cultura del volontariato. Recentemente l’Italia è stata protagonista con due Capitali designate (Padova nel 2020 e Trento nel 2024). In questo 2025 la staffetta è passata a Mechelen in Belgio e nel 2026 sarà Maia in Portogallo. Ma c’è di più. Il 2026 è già stato proclamato dalle Nazioni Unite “Anno internazionale dei volontari”. Un segno, anche questo, che l’azione solidale si sta definendo come parte essenziale della società civile. “In Europa - spiega Pietro Vittorio Barbieri, vicepresidente del Gruppo società civile organizzata del Comitato economico e sociale europeo (Cese) - il volontariato è soprattutto ricondotto all’idea di impegno civico. Recentemente è nata Civil society Europe, un’organizzazione che unisce a livello europeo ventiquattro network esistenti. Si stanno unendo per lavorare insieme. Come Cese sosteniamo tutto questo e stiamo cercando di negoziare con la Commissione europea per allargare gli spazi per la società civile”. E i rapporti con le istituzioni? “Con la Commissione e il Parlamento - risponde Barbieri - il dialogo è ben strutturato, molto più complicato invece con il Consiglio europeo. Ma c’è sempre più bisogno di un’Europa di pace. La voce della società civile può costruirla”. Perché questo è sicuro: il futuro e la sopravvivenza dell’Europa dipendono anche dai volontari, dai suoi cittadini attivi. Cpr come manicomi: il no radicale nel nome di Basaglia di Diletta Bellotti L’Espresso, 19 novembre 2025 Una volta aperti, i tentativi di rendere i Cpr luoghi umani sono del tutto vani”, ha spiegato Gianpaolo della Brigata Basaglia, lo sportello solidale di sostegno psicologico e sociale nato durante la pandemia da Covid-19. L’assemblea che analizza vari aspetti della società, dalle carceri ai Cpr, in ottica basagliana, lo scorso 29 ottobre ha partecipato all’evento “Panopticon: le pratiche sanitarie di salute mentale nei Cpr e nel sistema di accoglienza territoriale”, che si è svolto a Trento, dove la Regione vuole aprire un nuovo Centro di permanenza per il rimpatrio. Durante l’assemblea si è parlato dei Cpr come “massima espressione delle pratiche neomanicomiali” e delle possibili forme di lotta e resistenza contro l’apertura di due nuove strutture in Trentino Alto-Adige. Secondo la Brigata Basaglia è necessario che questo si faccia recuperando la memoria del movimento antimanicomiale. “Infatti - ha spiegato Eugenia della rete - la violenza psichiatrica e istituzionale è profondamente radicata e legata a un’idea di rapporti di potere all’interno dei contesti di cura”. In altre parole, ciò che assomiglia al manicomio tende a riprodursi e la violenza dei Cpr traccia continuamente la linea di ciò che una società è disposta ad accettare, proprio come il carcere e il manicomio. Le resistenze contro i Cpr sul territorio sono tutt’altro che una novità. Già a ottobre 2024 si era tenuta a Trento una partecipata assemblea regionale per rilanciare la campagna “No ai Cpr” con una forte spinta “abolizionista”: i Centri non sono riformabili e i fondi destinati alla loro gestione devono invece essere investiti in accoglienza e inclusione sociale, “settori già penalizzati dalle politiche della giunta Fugatti”. La chiamata di collettivi e associazioni sul territorio continua a essere quella di boicottare le collaborazioni professionali con i Cpr: “Centri che, in primis, sono luoghi di violazione dei diritti umani e di tortura, dove le persone sono rinchiuse e sottoposte a condizioni disumanizzanti e umilianti”. In tutti i nodi della rete territoriale contro l’apertura dei Cpr è condivisa l’analisi per cui il malessere dei detenuti nei Cpr venga gestito non in un’ottica di cura ma di contenzione, anestetizzando le risposte o i tentativi di resistenza. Per esempio, ha spiegato Pierpaolo “con l’uso massiccio di psicofarmaci allo scopo di calmare la popolazione del Cpr e non di permettergli di curarsi da qualcosa che è generato dall’istituzione stessa”. La Brigata Basaglia ha anche sottolineato come il ruolo di psicologia e psichiatria non sia assolutamente neutro e “possa anzi trasformare le problematiche e il malcontento sociale in colpa, medicalizzazione e criminalizzazione. Contiene e reprime persone che soffrono di giustizie sistemiche e strutturali”, nei Cpr come nelle carceri. Nella sua analisi la Brigata Basaglia non dimentica qual è stato il ruolo della psicologia durante i nazifascismi in Europa, il modo in cui la cura e la scienza siano state assoggettate e controllate per giustificare e incentivare stragi e colonialismo. E ritiene che le recenti politiche siano un chiaro campanello d’allarme: “Si decide di portare sempre di più la psichiatria nelle carceri in un’ottica contenitiva e repressiva. Ci sono sempre più forze dell’ordine nei servizi di cura della saluta mentale. C’è una nostalgia manicomiale”, ha spiegato Gianpaolo. Ma, “in tempi bui e sempre più bui”, la Brigata Basaglia rivendica il “volere tutto, compresa l’utopia”. Il fine vita in Italia terra di nessuno di Guido Boffo Il Messaggero, 19 novembre 2025 Sappiamo poco delle condizioni che hanno spinto le gemelle Kessler, Alice ed Ellen, a scegliere il suicidio assistito per congedarsi dalla vita esattamente come l’avevano vissuta. Insieme. Ma da quel poco che sappiamo, in Italia non avrebbero avuto accesso a questa opportunità. In attesa di un intervento legislativo del Parlamento, tanto auspicabile quanto improbabile, i requisiti stabiliti dalla Consulta con la sentenza 242 del 2019 (caso Cappato/Dj Fabo) sono molto stringenti. Per farsi aiutare a morire, devono ricorrere le seguenti condizioni: una patologia irreversibile, sofferenza fisica e psicologica intollerabile, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale o una condizione clinica equivalente, verifica dell’Asl di competenza e parere di un comitato etico. E pensare che anche in Germania il suicidio assistito è oggetto di un inconcludente dibattito parlamentare. Esattamente come è successo da noi, un anno dopo per la precisione, la Corte Costituzionale di Karlsruhe ha fatto da supplente. Ma la sentenza del 2020 non fissa paletti, se non quello di una “decisione libera e responsabile” e riconosce espressamente un diritto al morire autodeterminato, come espressione del diritto alla personalità. La conseguenza è che il parlamento tedesco può, anzi deve intervenire secondo gli auspici dei giudici, ma senza svuotare quel “diritto alla morte”, prevedendo ad esempio che il paziente sia un malato terminale tenuto in vita dalle macchine o una procedura eccessivamente lunga e burocratica che renda difficoltoso accedere al farmaco letale. Il legislatore è chiamato a introdurre dei filtri ed evitare gli abusi, ma l’impostazione della Corte tedesca non sembra compatibile con una valutazione in termini di razionalità oggettiva dei motivi alla base della scelta di suicidarsi. Non importa perché le gemelle Kessler l’abbiano fatto, se a causa della depressione di una delle due o di qualche altra malattia, e il rispetto che si deve a un epilogo così toccante e drammatico non giustifica alcun giudizio morale, tantomeno il voyeurismo. Quello che conta, come spiega il portavoce dell’associazione che le ha seguite, è che la loro decisione fosse maturata da un tempo sufficiente, che non vedessero alternative e che fosse libera. Condizione, quest’ultima, incompatibile con una patologia neuropsichiatrica. Per accertarsene sono state seguite da un medico e da un legale, non da un comitato etico. In Italia il suicidio assistito è un’eccezione al reato di istigazione e aiuto al suicidio, una via strettissima presidiata dallo Stato. In Germania non è ancora il “liberi tutti” di molti Paesi nordici, ma una procedura discreta e rapida che non trova nel diritto inalienabile alla vita un ostacolo (quasi) insormontabile. Il diritto alla vita e alla morte sono le facce della stessa medaglia, entrambi disponibili. I numeri riflettono la giurisprudenza: i media tedeschi stimano tra 1000 e 1200 casi nel 2024, da noi - secondo i dati diffusi dall’associazione Luca Coscioni - quindici persone hanno ottenuto via libera alla morte assistita e una decina vi hanno fatto ricorso. L’Italia è indietro o avanti? L’Italia è in mezzo, nella terra di nessuno. Troppo delicato l’argomento, troppe le sensibilità in gioco. Non ci sono maggioranze e opposizioni quando si tratta di fine vita, ma partiti trasversali. E l’ombra lunga del Vaticano. La decisione delle gemelle Kessler ha riaperto il dibattito, ma da qui al termine della legislatura le priorità sono altre e la proposta di legge della maggioranza, per certi versi più restrittiva della sentenza della Corte Costituzionale, è finita su un binario morto (anche poco assistito, per la verità). Quello che ci sembra discutibile è che la questione venga affrontata con leggi regionali - sinora di Toscana e Sardegna, impugnate alla Consulta dal governo - come se davanti alla vita e alla morte ci potessero essere cittadini di serie A e B, alcuni più tutelati e altri meno, alcuni più liberi e altri meno. D’altra parte, prima o poi il tema non potrà più essere eluso, soprattutto in un Paese che invecchia a ritmi sostenuti e fatica a garantire l’universalismo del diritto alla salute. Potremmo allora trovarci nella condizione scomoda di dover scegliere tra uno Stato etico, se non confessionale, e uno Stato libertario. O sperare che la classe politica, realizzando che le elezioni non si vincono o si perdono sulla sofferenza della gente e sul mistero dell’esistenza, trovi finalmente un’intesa su alcuni principi fondamentali: quello per cui la vita va difesa finché è umanamente possibile; la formazione di una libera volontà va sempre garantita, vigilata, verificata; vanno tutelate le persone fragili, i minori, nella loro vulnerabile autodeterminazione; e bisogna assolutamente impedire che su una scelta tanto estrema pesino fattori economici, marginalità sociali, difficoltà di cura. Questo e altro, lasciando il resto alla libertà di coscienza e di obiezione. Perché nessuna legge, nessun partito, nessuna sfera pubblica, per quanto pervasiva e occhiuta, può spingersi in fondo all’animo umano. Minori e droghe, le catene di Mantovano di Leopoldo Grosso Il Manifesto, 19 novembre 2025 Nel discorso conclusivo della Conferenza nazionale sulle droghe tenutasi a Roma il 7-8 novembre scorso, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, e principale regista della costruzione dell’intera iniziativa, on. Mantovano, ha riproposto la necessità, già messa in minoranza dagli operatori nei gruppi preparatori, di istituire “percorsi terapeutici riabilitativi obbligatori per minori tossicodipendenti”, “con il consenso dei genitori”, per “dare una risposta alle famiglie disperate”. La proposta, che a prima vista può evocare la vecchia stagione dei vituperati Riformatori chiusi nel 1988, comporta più controindicazioni che benefici. Per i minorenni con disturbo d’uso di sostanze e che al contempo sviluppano comportamenti altamente problematici all’interno del mondo familiare, già esistono dispositivi che tengono conto delle situazioni di grave difficoltà. Il Tribunale per i minori può predisporre d’autorità, in base all’accertamento degli elementi raccolti dalle denunce dei genitori o dalla richiesta dei servizi psichiatrici, il collocamento del ragazzo o della ragazza in comunità. L’altro dispositivo è il TSO, estendibile ai minorenni, con l’aggiunta di un passaggio col giudice tutelare. In entrambi i casi, Il fatto che esista un Ente “terzo”, con apposite competenze, funge da elemento di garanzia indispensabile, contro i possibili abusi, rispetto all’accesso obbligatorio in una struttura chiusa deputata alla cura. Proprio in quanto strumenti di eccezionalità (anche per i costi: un piccolo Comune, con un singolo inserimento in struttura per 12 mesi, spende la grande parte del budget a disposizione), di norma compete invece al sistema dei servizi sociosanitari delle Asl e dei Comuni farsi carico sul territorio della gestione della problematica, spesso con risorse di personale e di servizio inadeguate. Il compito è duplice: con i minori si stabilisce un piano di cura sull’uso problematico di sostanze e si co-progettano le iniziative sociali utili a rimodulare un diverso stile di vita; con le famiglie si porta avanti un sostegno e un accompagnamento di medio-lungo periodo, in modo che non siano lasciate sole e possano essere aiutate nelle difficili decisioni che tocca sempre prendere nella gestione della quotidianità di un figlio altamente problematico. I risultati positivi non sono mai “certi”, soprattutto sul breve periodo, ma anche l’inserimento obbligatorio prolungato in strutture chiuse, al di là del contenimento forzato del primo periodo che può consentire alle famiglie di rifiatare rispetto allo stress quotidiano a cui sono sottoposte, rischia di produrre nel tempo effetti iatrogeni anziché i benefici auspicati dalle migliori intenzioni. La perdita di libertà con l’inserimento in struttura contro la propria volontà, per ragazzi ancora minorenni, dà luogo a un inevitabile vissuto di violenza subita e di ribellione. Il disturbo d’uso di sostanze si caratterizza a quell’età più come stile di abuso che non una dipendenza conclamata, saldamente instaurata. Il fatto che non si autoriconoscano come consumatori problematici, contribuisce ad irrigidire ed esasperare ulteriormente il carattere dicotomico del pensiero e del sentire adolescenziale, che tende a contrapporre bianco e nero, vittima e carnefice, proiettando sempre sugli altri la responsabilità e la “colpa” dei propri comportamenti e delle proprie scelte. Una struttura che priva della libertà intensifica i meccanismi psichici oppositivi, già difficili da trattare anche con le persone adulte, da lungo tempo provate dall’uso problematico. Il rischio è quello di un’escalation simmetrica con il risultato di precludere la costruzione di rapporti di fiducia, presupposto di ogni percorso di recupero. La comunità, per risultare terapeutica, richiede di essere liberamente e volontariamente scelta, giorno per giorno. Medio Oriente. Se i “terroristi” uccisi a Ramallah avevano 30 anni in due di Luca Foschi Avvenire, 19 novembre 2025 Le storie di Bilal e Mohammad: per l’esercito israeliani i due ragazzini erano armati di molotov. Ma il loro villaggio denuncia una messa in scena dei coloni. Il corpo di Bilal è supino. Un braccio disteso, l’altro sul petto, la testa coperta dal passamontagna adagiata sui sassi. A mezzo metro la piccola bottiglia di vetro. Una plastica nera ne avvolge il collo, dentro un liquido lattiginoso. Mohammad è riverso sul limitare della vigna, un piede poggiato sul tubo d’irrigazione, una cuffia e il cappuccio della felpa sul volto cianotico. La morte dei due ragazzi è nelle foto scattate dall’esercito israeliano, che giovedì scorso, quando l’uccisione è avvenuta, ha descritto l’episodio come “l’eliminazione di due terroristi che si preparavano a compiere un attacco nell’insediamento di Karmei Zur”. Bilal Sabarnah e Mohammad Ayyash avevano 15 anni, erano amici inseparabili e compagni di classe nella scuola superiore di Beit Ummar, piccolo centro di 23.000 abitanti a 40 chilometri da Ramallah. La cittadina, gemellata a Ivrea e dedita prevalentemente all’agricoltura, è assediata dalle colonie illegali israeliane: Karmei Zur, Bat Ayin, Kfar Etzion, Efrat, la strada 60 a est. Quasi ogni notte una casa viene visitata dai soldati, messa a soqquadro e sconvolta dalle urla, dalle percosse, dalle umiliazioni, dall’abbaio feroce dei cani. La verità di Beit Ummar sull’assassinio di Bilal e Mohammad è diversa da quella offerta dalla ripetitiva velina israeliana. La racconta ad Avvenire il sindaco Nasri Sabarnah nella sala municipale dove gli uomini sono raccolti per piangere Bilal: “Le famiglie qui sono povere, i ragazzi dopo la scuola sono andati a lavorare nei campi per guadagnare 10 shekel, circa tre euro. Piovigginava, faceva freddo, per questo indossavano la cuffia e il passamontagna”. A ucciderli non è stato l’esercito, ma la guardia della colonia di Karmei Zur. Ha fermato la macchina sulla strada che cinge la collina, e sparato. I ragazzi erano distanti almeno 200 metri. Poi i coloni hanno collocato la molotov per giustificarsi. Non sarebbe la prima volta. C’erano altri agricoltori che lavoravano, nei campi vicini: “Ma voglio accettare per un attimo che Bilal e Mohammad avessero cattive intenzioni. Cosa potevano fare a 200 metri dalle reti che proteggono la colonia? In passato li avrebbero arrestati, o mirato alle gambe. Ma ora, con i ministri Ben-Gvir e Smotrich al potere, l’ordine è quello di uccidere”. In ottobre gli attacchi dei coloni sono stati 260. Circa otto al giorno: incendi di automezzi, campi e case, furti, ferimenti, omicidi. Mai così dal 2006. La settimana scorsa perfino il presidente israeliano Isaac Herzog è stato costretto a definire i misfatti dei coloni “gravi e sconvolgenti”. Ma le reprimende di Tel Aviv si manifestano solo quando i “giovani delle colline” resistono con violenza al contenimento di esercito e polizia. Per il resto si assiste a un’azione incontrastata e sostenuta dalle forze estremiste dell’esecutivo, ignorata dal sistema giudiziario. Nella sala silenziosa entra il padre di Bilal, Baran, i grandi occhi celesti cerchiati di rosso, le spesse mani ruvide del contadino. I servizi segreti lo hanno appena rilasciato, era stato prelevato all’alba per un interrogatorio: “Mi hanno minacciato. Chiunque si avvicini alla rete, uomo, donna, vecchio, dovesse anche avere un anno, loro lo uccideranno”, riesce a dire. “Sono sindaco da 14 anni, abbiamo degli amici dentro le colonie. Anche loro sono spaventati dalla deriva di Israele. Abbiamo bisogno di un altro Rabin, dei Paesi arabi, della comunità internazionale. Il futuro è oscuro”, afferma Nasri Sabarnah. La grande officina di famiglia si affaccia sulla casa di Mohammad Ayyash. Ci lavorava il padre prima di morire, sei anni fa. Ora alla madre Huda restano tre giovani ragazze e due gemelli di cinque anni, Ali e Sara: “Mohammad aveva paura dei coloni e dell’esercito. Era un bravo bambino. Voleva diventare in fretta uomo per aiutare me e le sorelle”, racconta nel salotto dove riceve le visite di cordoglio. Secondo l’Onu, sono 211 i minori palestinesi che l’esercito israeliano e i coloni hanno ucciso dal 7 ottobre 2023 al 13 novembre 2025 in Cisgiordania (West Bank). I corpi di Bilal e Mohammad non sono ancora stati restituiti alle famiglie. Sugli attacchi dei coloni è intervenuto anche il vicario generale del Patriarcato latino di Gerusalemme, monsignor William Shomali: “Estremisti, spesso armati, stanno esercitando una pressione sistematica per rendere insostenibile la vita delle comunità palestinesi, spingendole all’esodo forzato”.