Se in carcere è vietato anche il pranzo di Natale di Fulvio Fulvi Avvenire, 18 novembre 2025 L’allarme di associazioni e cooperative dopo i “no” alle attività dietro le sbarre. Il sottosegretario Ostellari: non limitiamo, ma creiamo un modello che valorizza percorsi positivi. Arrivano altri “no” alle attività trattamentali in carcere organizzate da soggetti esterni, mentre i tempi delle altre autorizzazioni si allungano. Con la circolare del Dap (Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria) del 21 ottobre scorso, firmata dal direttore Ernesto Napolillo, che obbliga associazioni e cooperative a inviare dettagliate richieste “in tempi congrui” non più al direttore dell’istituto penale ma al Ministero, cominciano a fioccare i “no” ai nullaosta per lo svolgimento di eventi culturali, iniziative educative, laboratori di formazione a favore di detenuti di alta e media sicurezza. Terzo settore e addetti ai lavori criticano il provvedimento. “L’obiettivo è di uniformare le procedure degli eventi trattamentali che coinvolgono istituti con circuiti di alta sicurezza, soprattutto per garantirne la replicabilità e promuovere la partecipazione nel pieno rispetto delle esigenze di sicurezza - spiega il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari -. Non si tratta di escludere o limitare, ma di creare un modello condiviso e partecipato che valorizzi le esperienze positive”, precisa il senatore leghista. Intanto, però, a Milano Opera è stato annullato un incontro di Bookcity che vedeva coinvolto il laboratorio di lettura “Fine pena ora”, coordinato da Donatella Civardi e Giovanna Musco. “Erano state raccolte 150 adesioni, il direttore aveva autorizzato l’evento a luglio - commenta Musco -, nessuna spiegazione è stata data finora se non il riferimento all’applicazione della circolare. La Camera penale che patrocinava l’iniziativa ha chiesto le motivazioni”. Saltati anche tutti gli spettacoli della Compagnia teatrale Opera Liquida che erano in programma fuori dalla struttura carceraria milanese, dove, sempre a causa della circolare, non si è potuta tenere una piéce. Preoccupazione è stata espressa anche da Marcella Reni, dirigente di Rinnovamento nello Spirito e presidente dell’associazione Prision Fellowship Italia onlus che, ogni 18 dicembre, organizza nelle carceri italiane il pranzo di Natale “ALTrA Cucina” con chef stellati e rispettive équipe che preparano i piatti per i detenuti: “Non abbiamo ancora ottenuto le autorizzazioni per entrare nei 56 istituti che quest’anno ospiteranno l’iniziativa, i tempi si dilatano e abbiamo già ricevuto due “no” dai direttori proprio a causa della circolare. Non vorremmo che dopo 12 anni - aggiunge Reni - questa opportunità di incontro tra mondo esterno e carcere, venga compromessa: l’anno scorso coinvolse 9mila detenuti di 49 istituti, 600 volontari e 52 cuochi stellati”. Dal ministero della Giustizia negano rifiuti e rallentamenti: “Dal 21 ottobre 2025, data della circolare emessa dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, le attività trattamentali nel circuito della media sicurezza non hanno registrato rallentamenti o dinieghi. Sono state infatti concesse, dalla Direzione Generale, 139 autorizzazioni su 139 richieste”, ha affermato Nordio tre giorni fa. Il ministro tuttavia apre a modifiche: “Attiveremo confronti con la magistratura di sorveglianza, il Garante, le Camere penali e il terzo settore, per monitorare gli effetti della circolare e adottare eventuali misure integrative”, Sull’argomento interviene anche il Conams (Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza): “Vista la drammatica situazione in cui versano gli istituti penitenziari, ove il sovraffollamento non accenna a diminuire e la strutturale carenza di attività trattamentali rende più penosa e isolante la carcerazione, la scelta adottata dal Dap rischia di consegnarci un carcere dove le occasioni di confronto con l’esterno, le opportunità di formazione e le possibilità di crescita culturale in favore dei detenuti saranno sempre meno. Tutto ciò - conclude il documento dei magistrati - ci consegna un deciso arretramento rispetto al modello di esecuzione penale che l’ordinamento penitenziario, proprio nell’anno del suo cinquantenario, aveva immaginato e previsto”. “La circolare va in controtendenza rispetto alla legge (l’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario, che attribuisce il potere di autorizzazione al direttore dell’istituto e al magistrato di sorveglianza), ed è contro ogni logica e razionalità” commenta Luigi Pagano, già direttore a San Vittore e attualmente Garante comunale delle persone private della libertà personale a Milano. “Roma non può dire “decido io” senza concordare con i territori, perché il ministero non può avere contezza delle singole realtà dove si svolge l’azione penitenziaria, e il suo criterio di giudizio non può essere sempre lo stesso per tutti - spiega -; il provvedimento del Dap sembra rispondere a un’idea del carcere come interdizione rinunciando all’azione educativa, così si torna indietro di 40 anni, è un ulteriore giro di chiavistelli”. I familiari delle vittime di mafia e terrorismo impegnati in attività di rieducazione dei detenuti hanno inviato una lettera al ministro della Giustizia, Carlo Nordio: “Esprimiamo al Guardasigilli il nostro disagio e la nostra sofferenza personale per le norme restrittive che limitano e contingentano queste feconde relazioni tra detenuti e cittadini, soprattutto quando vengono sottoposte in via obbligatoria a una impersonale e spesso soffocante centralizzazione burocratica”, dice ad Avvenire uno dei promotori, Paolo Setti Carraro. La lettera è già sul tavolo del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Si rimuovano gli ostacoli ai confronti con l’esterno di Francesco Cajani* Avvenire, 18 novembre 2025 A che titolo entriamo in carcere? Ero seduto tra il pubblico di Bookcity Milano alla presentazione del libro “Fragili dentro. Storie di detenuti in un sistema da riformare” e del dialogo al quale hanno preso parte la professoressa Claudia Mazzucato e il dottor Setti Carraro, nella sede della Avvocatura comunale. Si è fatto, inevitabilmente, cenno alla recente circolare del direttore generale del Dap. Qui la voce di Setti Carraro si è fatta ancora più seria, quando ne ha scandito alcuni passaggi: “Ogni richiesta di autorizzazione di attività di carattere trattamentale trasmessa a questa direzione generale dovrà… contenere, in modo chiaro ed esplicito, i seguenti elementi informativi: l’elenco dei nomi e dei titoli dei partecipanti della comunità esterna”. E in quel momento tutto mi è sembrato chiaro. Mazzucato, insieme al professor Adolfo Ceretti e a padre Guido Bertagna, massime autorità in materia di giustizia riparativa in Italia e, quantomeno per me, preziosa fonte di ispirazione nei miei irrequieti anni tra una laurea in giurisprudenza e una professione ancora tutta da immaginare: ma quando entrano in un carcere sono Guido, Adolfo e Claudia. I loro titoli cosa contano? E mentre penso a tutto questo sento Claudia ribadire: “Quella che poi si sente riparata, quando esco dal carcere, sono io”. Allo stesso modo Paolo che, nonostante tutti quei bambini fatti nascere e quegli uomini operati d’urgenza in giro per il mondo in guerra, non era riuscito a togliere i punti di sutura dal suo personale dolore per la perdita di una sorella. Ma a giugno 2023, alla fine del suo primo anno di frequentazione settimanale dentro il carcere di Opera, ha scritto una lettera aperta nella quale descrive chirurgicamente il processo di una “emancipazione reciproca, dal trauma e dal dolore, tra persone ristrette”. Anche qui la sua laurea, in medicina, ha contato poco. Così come il suo vestito di vittima, che Paolo è riuscito finalmente a dismettere, con convinzione. E penso anche agli insegnanti entusiasti delle ultime letture collettive del racconto “Denaro falso” di Lev Tolstoj che abbiamo organizzato la primavera scorsa, quando abbiamo in due carceri milanesi non solo i liceali del Tito Livio ma anche i tecnici informatici del Torricelli. Una esperienza formativa indimenticabile. Del resto, l’art. 17 dell’ordinamento penitenziario, da 50 anni, non fa distinzioni: “Sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari… tutti coloro che avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti, dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”. Ovviamente, fino al 20 ottobre scorso, con l’autorizzazione e secondo le direttive del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole e sotto il controllo del direttore: l’uno e l’altro oggi, invece, bypassati da meccanismi di centralizzazione burocratica. Una persona, alcune settimane fa, in una occasione pubblica mi ha presentato come un pubblico ministero che fa anche il volontario in carcere. Avrei voluto correggerla, sostituendo a volontario la parola cittadino. Perché da tempi non sospetti penso che il carcere, in quanto Istituzione, debba essere utile non solo a chi sta dentro ma anche a chi sta fuori. E come cittadini abbiamo tutti titolo per poter beneficiare di tale possibilità, anche se non portiamo sopra il cuore il peso di affetti morti ammazzati ma solo, sottopelle, la fatica di ferite ancora da rimarginare. Cambiando il carcere iniziando da se stessi. Proprio in quanto cittadini, dobbiamo auspicare che nel sistema penitenziario vengano al più presto rimossi quegli ostacoli che impediscono occasioni di confronto con l’esterno, e tramite esse opportunità reciproche per ricucire gli strappi del nostro tessuto sociale. *Componente del comitato scientifico “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine” Le attività culturali nelle carceri? Sono l’unico modo per non far morire l’anima di Giuliana Musso* facebook.com, 18 novembre 2025 Penso al sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro che ha deciso di limitare pesantemente tutte le attività culturali che si svolgono nelle sezioni AS, Alta Sicurezza, dei nostri carceri italiani. Ma perché? Perché? È l’unico modo che hanno questi uomini di ritrovarsi dentro, di rimettersi in piedi, di dare senso alla propria responsabilità, di provare ad avere rapporti con persone che non siano né guardie, né detenuti. L’unico modo per non far morire l’anima, mentre la vita scorre e si paga per i crimini commessi, e di uscire, ormai anziani, con qualcosa di positivo da dare a sé stessi e alla comunità. E parliamo di un sistema carceri in Italia che ha ben altri problemi, urgenti e drammatici sia per il personale di polizia, che dovremmo tutelare e sostenere molto di più, che per i detenuti... ma questo signore si preoccupa di limitare le attività culturali. Che cosa sono poi queste spaventose attività da limitare? Sono corsi di pittura, di studio, di teatro... Due ore o poco più alla settimana, dentro a giornate e giornate sempre uguali, all’infinito, per un tempo infinito... Penso che sicuramente questo signore non abbia mai visto uno spettacolo in carcere, non abbia mai visto lo sforzo che fanno per capire un testo, per leggere ad alta voce una poesia, per muoversi insieme agli altri, per rispettare le regole del gioco del teatro. Non ha visto gli occhi spalancati, i silenzi, le lacrime, le emozioni, i balbettii di persone che stanno in carcere magari da più di 30 anni. Penso a loro. Quelli che ho conosciuto. Per due anni, grazie al lavoro di tutor svolto per il progetto “Per Aspera ad Astra”, ho potuto entrare in carcere con i formatori della compagnia Matricola Zero, che svolgono questa attività da 6 anni ormai. Tutti giovani professionisti, seri, dedicati e che ci mettono l’anima! Io ho seguito, ogni tanto, le due docenti principali, due artiste bravissime, nelle lezioni che tenevano con alcuni detenuti della sezione AS. La prima volta ero spaventata all’idea di incontrare un gruppo di uomini che avevano commesso crimini terribili. Perché se uno è in Alta Sicurezza ha sicuramente commesso atti terribili. Mi aspettavo quantomeno durezza, mascolinità tossica, atteggiamenti manipolativi. Nulla di più lontano da quello che ho trovato. In due anni non ho mai, mai visto o percepito nel gruppo un minimo gesto o sguardo o un pensiero che lo fosse, anzi, ho incontrato uomini umili, gentili e super rispettosi, grati dell’opportunità che avevano, corretti, impegnati. Dico qualcosa di più perché l’ho sentito: ho incontrato un qualcosa di “innocente” nel loro modo di fare, come se portassero in sala una parte di sé un po’ bambina, a tratti ingenua quasi... ma per questo pulita. Forse “ri-pulita” da tutta quella vita spesa dentro al carcere? Non lo so. Non si aveva tempo di parlare del passato e delle vicende giudiziarie, mai. Solo di tanto in tanto una parola faceva intuire una vicenda personale. Ricordo il giorno in cui il più giovane del gruppo, che poteva avere circa 45/50 anni, mi disse che lui era quello che aveva fatto meno anni di tutti. Ne aveva fatti “solo” 24. Mi ricordo con altri, davanti a un caffè della macchinetta, brevi cenni, due parole sui figli o sui nipoti. Per il resto si parlava di teatro, della storia di Geppetto e del suo folle amore per questo burattino/bambino tutto da inventare. Si parlava del senso sovversivo di ogni atto di cura gratuito e di gentilezza. Si imparava a maneggiare un burattino, a cantare una ninna nanna in coro, a recitare il gatto e la volpe, a ricordare qualcosa di buono vissuto nell’infanzia. Si sarebbero dovute fare tre repliche di questo splendido spettacolo, una per gli interni e una anche per pochi esterni, su invito. Io avevo invitato mia figlia. Ma no, non è stato possibile perché la “stretta” di questo signore era già in atto. Un’unica replica, e ci è andata bene. E allora via che si va in scena: musiche, costumi, burattino, una pera di legno che sembra vera, due proiettori... il piccolo auditorium di cemento diventa un teatrino. Chi c’era a vedere lo spettacolo lo scorso 5 novembre, ha riso, ha pianto, ha applaudito. Anche il personale, anche io. Che dire ancora? Un pensiero grato a tutte le persone, professionisti e volontari che in Italia dedicano il loro tempo e la loro arte a chi è recluso nelle carceri. Grazie ancora e un applauso grande a Matricola Zero, Federica, Alice, Maria Celeste, Marco e tutti gli altri. Grazie a tutti gli uomini e le donne della Polizia Penitenziaria che accolgono, sorridono, e, per quel che possono, si mettono in gioco. Grazie a chi amministra e dirigere perché non credo sia un lavoro facile quando è fatto con coscienza. Grazie a tutti coloro che le organizzano queste iniziative e che le finanziano. Nel nostro caso il Teatro Stabile del Veneto e la fondazione Cariparo. Grazie a chi mi ha fatto fare questa esperienza d’arte, di cura e di gentilezza. Non la dimenticherò. Geppetto, quel folle folle amore Liberamente tratto da Collodi e F. Stassi Regia e laboratorio Federica Chiara Serpe Testi Marco Mattiazzo e Federica Chiara Serpe Aiuto regia Alice Centazzo Voce di Ettore, registrazioni e ambienti sonori Leonardo Tosini Costumi Giulia Negrin Burattino Cristina Cason - L’Aprisogni Foto Serena Pea Tutoraggio artistico Giuliana Musso Teatro Stabile del Veneto - Teatro Nazionale Matricola Zero Fondazione Cariparo #acri Compagnia della Fortezza #perasperaadastra *Attrice Donne in detenzione, una Convenzione per proteggere la salute di Teresa Olivieri Italia Oggi, 18 novembre 2025 Cosa prevede l’intesa siglata dai ministri della Giustizia Carlo Nordio e della Salute Orazio Schillaci, dalla rappresentante di Think Pink Italy Alba Di Leone e dalla presidente della Fondazione Severino, Paola Severino. “Questa Convenzione ci permette di unire le forze per portare alle donne detenute non soltanto un messaggio, ma strumenti concreti di tutela della salute. Perché la salute è un diritto che deve arrivare ovunque, e insieme possiamo davvero andare più lontano”, così Paola Severino, Presidente della Fondazione Severino ha presentato la partnership sulla salute delle detenute. “Il nuovo Progetto nasce con l’obiettivo di favorire l’accesso alla prevenzione come diritto universale, contribuendo in modo concreto al miglioramento della qualità di vita in queste comunità più più vulnerabili”, ha fatto eco la presidente di Komen Italia, Alba di Leone. La scorsa settimana, il 7 novembre, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il ministro della Salute Orazio Schillaci, la rappresentante di Think Pink Italy Alba Di Leone e la presidente della Fondazione Severino, Paola Severino hanno firmato la Convenzione per la Promozione della Prevenzione e della Tutela della Salute della Donna detenuta, un accordo che pone al centro il diritto alla salute delle donne recluse e avvia un programma pluriennale di prevenzione all’interno degli istituti penitenziari. L’intesa, valida fino a giugno 2027 e rinnovabile, impegna le parti a sviluppare e attuare iniziative coordinate per migliorare l’accesso alla prevenzione e alla diagnosi precoce delle principali patologie femminili, con particolare attenzione ai tumori. Prevenzione primaria e personale penitenziario - Una delle linee principali del progetto riguarda la prevenzione primaria, con incontri dedicati alla corretta alimentazione, all’esercizio fisico, alla riduzione del fumo e alla gestione dello stress. Le attività saranno aperte anche al personale penitenziario. Le partecipanti compileranno un questionario sui propri stili di vita e potranno sottoporsi, su base volontaria, a valutazioni fisiche e psicologiche, come peso, composizione corporea e livello di stress. I dati raccolti serviranno per attivare percorsi di counseling individuale e di gruppo, finalizzati a migliorare la qualità della vita durante la detenzione e a ridurre il rischio di malattie croniche, incluse quelle oncologiche. Prevenzione oncologica con le Unità Mobili - La Convenzione prevede inoltre un programma di prevenzione oncologica attraverso le Unità Mobili di Think Pink Italy, dotate di ecografi e mammografi ad alta tecnologia, che raggiungeranno direttamente gli istituti penitenziari femminili o le sezioni che ospitano donne recluse. Durante le giornate dedicate alla prevenzione saranno offerti gratuitamente esami come mammografie, ecografie e altri controlli utili alla diagnosi precoce dei tumori più frequenti nella popolazione femminile. Le iniziative saranno accessibili anche al personale di polizia penitenziaria e amministrativo. Il ruolo della Fondazione Severino - La Fondazione Severino ETS curerà il coordinamento operativo con il Ministero della Giustizia e con le direzioni degli istituti, organizzando le attività e monitorando l’impatto del progetto attraverso la raccolta e l’analisi dei dati. Il referendum sulle carriere e il riformismo smarrito di Vittorio Minervini* Il Dubbio, 18 novembre 2025 In politica le rotture non avvengono all’improvviso. Si preparano nel tempo, spesso in modo silenzioso. La posizione assunta oggi dalla sinistra italiana in materia di giustizia rientra in questo schema. È l’esito di un inesorabile distacco dei progressisti dalla loro stessa tradizione riformista, da quel cammino che negli anni Settanta e Ottanta era iniziato e si era quasi compiuto: il percorso di adeguamento del processo penale italiano agli standard europei. Quella stagione aveva, tra i tanti progetti di evoluzione sociale del Paese, un obiettivo preciso: uscire definitivamente dall’impianto della normazione fascista, per costruire un processo accusatorio fondato sulla terzietà del giudice e sulla separazione delle funzioni. Giuliano Vassalli, che di quella riforma fu l’artefice, ricordava che “il processo è la barriera che la civiltà oppone all’arbitrio”. Era una linea culturale chiara, condivisa in larga parte della Sinistra riformista. La forza delle idee si incrina nella scorsa legislatura, con la mancata conclusione della riforma dell’ordinamento penitenziario elaborata dalla commissione del ministro Orlando. Il lavoro era completo, la maggioranza parlamentare presente. Venne meno la decisione politica: il carcere non porta voti e le elezioni erano vicine. Le conseguenze sono oggi drammaticamente evidenti: sovraffollamento, condizioni inadeguate degli istituti, incapacità strutturale di rispettare i principi costituzionali sul trattamento dei detenuti. Una rinuncia che rappresentò l’allontanamento dalla tradizione umanitaria che la Sinistra ha sempre rivendicato argomenti che, in bocca dei giuristi, fanno un po’ sorridere perché sono di una illogicità disarmante. Prima sostengono che i pm finiranno sotto l’Esecutivo - previsione assente nella riforma - e quindi saranno debolissimi. Allo stesso tempo ci dicono che diventeranno troppo forti, troppo autonomi perché avranno un loro CSM e quindi faranno quello che gli pare. Un po’ contraddittorio non pensa? Il tutto - e questo è il terzo punto - mentre proclamano che la separazione è inutile perché di fatto già c’è dopo la riforma Cartabia e la faccenda riguarderebbe una ventina di magistrati l’anno. Il che decapita in una volta sola altri due pericoli che invocano. In primo luogo, se già c’è, non dovrebbe essere così pericolosa come viene dipinta. Ma poi, se davvero i passaggi di carriera tra pm e giudici sono una manciata ogni anno, cade la favola della comune “cultura della giurisdizione” che impedirebbe oggi ai pm di diventare superpoliziotti. Se già oggi uno che inizia a fare il pm continuerà a farlo per tutta la sua vita professionale dove se la formerà la cultura comune con il giudice? Nei consigli giudiziari? Nelle riunioni di corrente? Penso che se un imputato dicesse in fila queste tre cose immediatamente il processo si bloccherebbe perché si riterrebbe necessario valutare la capacità di stare in giudizio di uno che utilizza la logica in una maniera così incredibile. L’altra obiezione è che siamo sempre di più in una deriva autoritaria della maggioranza di Governo. Il concetto dell’unitarietà della magistratura è un concetto che venne presentato a sua eccellenza Mussolini dall’allora ministro Grandi, che glielo illustrò proprio come segno distintivo di un ordinamento conforme allo spirito dello stato autoritario. È una vera truffa quella di chi tenta di scambiare la separazione tra giudice e pm - peraltro presente nella stragrande maggioranza dei Paesi Il paradosso diventa più evidente sul tema della separazione delle carriere. La riforma appena licenziata in via definitiva dal Parlamento e oggi al centro del dibattito non nasce in contrapposizione alla cultura progressista, ma ne rappresenta la continuità. In un processo di autentica contrapposizione tra accusa e difesa, nella parità dei ruoli tra la pretesa punitiva dello Stato e la tutela del diritto alla difesa “un giudice terzo non può appartenere allo stesso ordine del pubblico ministero”. Una posizione che nel panorama europeo appare quasi ovvia, ma che in Italia sta producendo fratture politiche profonde, non per la diversità di vedute sull’architettura ordinamentale ma per la volontà di far prevalere la mera contrapposizione partitica. La risposta che una parte della Sinistra offre oggi è principalmente reattiva: definisce la propria posizione non sulla base della coerenza con il proprio percorso storico, ma come contrappunto all’attuale governo. Ne consegue un atteggiamento di difesa dell’esistente, anche quando l’esistente è un assetto ordinamentale risalente agli anni più bui della nostra storia del secolo breve, criticato per decenni dalle forze progressiste. Zagrebelsky ricordava che “le garanzie non appartengono a una parte politica”. È una verità semplice, ma oggi oscurata da una dinamica politica fortemente polarizzata. Il risultato è una contraddizione che riguarda più l’identità - o l’incapacità di ricordare quale sia - che il merito delle riforme. La Sinistra, nel timore di conferire un vantaggio politico all’avversario, finisce per contrastare la definitiva conclusione di un progetto che essa stessa aveva avviato. Così facendo, rinuncia a un tratto essenziale del proprio patrimonio culturale: l’idea di essere forza riformatrice, divenendo invece attore di mera reazione. Il referendum sulla separazione delle carriere, in questo contesto, assume il ruolo di un test. Non per misurare la capacità della Destra di imporre un’agenda, ma per valutare quanto la Sinistra sia ancora in grado di riconoscere e completare la propria. È una questione di coerenza politica prima ancora che di tecnica giuridica. È una prova della solidità o fragilità di un’identità che appare oggi incerta. Ma qualche voce critica ora si è levata: come cantava Leonard Cohen, “There is a crack/ that’s how the light gets in.” C’è una crepa, è così che entra la luce. *Consigliere Cnf “Sì alle carriere separate per garantire il giusto processo”. Parla Michele Vietti di Ermes Antonucci Il Foglio, 18 novembre 2025 “Non è possibile immaginare che il pm condivida col giudice la partecipazione allo stesso percorso di carriera e la soggezione allo stesso Consiglio superiore”, dice l’ex vicepresidente del Csm, favorevole anche alla creazione dell’Alta corte disciplinare. Perplessità sul sorteggio. “Sono favorevole alla separazione delle carriere tra pm e giudici”, dice al Foglio Michele Vietti, ex sottosegretario alla Giustizia ed ex vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. “La riforma - spiega - si colloca in linea con la riforma del processo del 1989 in senso accusatorio e con la riforma dell’articolo 111 della Costituzione del 1999. Entrambe stabiliscono che il pubblico ministero è una parte del processo e che in quest’ultimo accusa e difesa devono confrontarsi su un piano di parità. Di conseguenza, non è possibile immaginare che il pm condivida col giudice la partecipazione allo stesso percorso di carriera e la soggezione allo stesso Csm”. “È giusto ricordare che stiamo parlando di una riforma ordinamentale della magistratura, e non di una riforma della giustizia, questo per non caricare il dibattito pubblico di una serie di aspettative che poi rischiano di essere deluse”, sottolinea Vietti, secondo cui, dopo la separazione delle carriere, “andrà fatta una riflessione ulteriore sul ruolo del pm nella fase delle indagini. Va ripensato il rapporto tra pm e polizia giudiziaria. Tramite la direzione della pg, che non ha autonomia (come invece aveva prima della riforma del 1989), il pm dispone di tutti i mezzi di prova, soprattutto le intercettazioni. Questo permette al pm di accumulare durante le indagini un arsenale di ‘munizioni’ impressionante, mentre la difesa rischia di arrivare a dibattimento a mani vuote”. Per Vietti, “negli ultimi anni l’esondazione del pm dal suo ruolo è spesso emersa in maniera evidente. Il codice vigente stabilisce che il pm deve cercare anche le prove a favore dell’indagato e deve chiedere il rinvio a giudizio solo in caso di ragionevole previsione di condanna. Sono due parametri che purtroppo non vediamo sempre rispettati. L’innamoramento del pm alle proprie tesi accusatorie fa sì che spesso si assista a richieste di rinvio a giudizio poi smentite in modo anche molto pesante dal giudice con archiviazioni o assoluzioni”. Vietti è favorevole anche all’istituzione dell’Alta corte disciplinare: “Purtroppo l’introduzione di incompatibilità dentro al Csm tra le funzioni amministrative e quelle disciplinari non ha funzionato o si è dimostrata scarsamente praticabile. È bene che il Consiglio, che è organismo rappresentativo della corporazione, svolga la funzione di governo della magistratura, e che invece l’attività disciplinare sia affidata a un organismo terzo”. Al contrario, Vietti non è convinto del sorteggio per l’elezione dei componenti del Csm: “Per svolgere il ruolo di consigliere occorre una vocazione specifica che è fatta di professionalità, competenza e attitudine, qualità che non rientrano necessariamente nella formazione del magistrato. Insomma, non tutti i magistrati sono fatti per andare a far parte dell’organo di governo autonomo delle toghe”, spiega. E a chi fa notare che le correnti non sembrano aver garantito questa selezione dei “migliori”, Vietti replica: “Sono stato al Csm due volte, nel 1998 come consigliere e nel 2010 come vicepresidente, e nella mia esperienza le correnti, con tutti i loro limiti, un po’ di selezione l’hanno sempre fatta. Del resto, se a noi avvocati dicessero di estrarre a sorte i nostri rappresentanti al Consiglio dell’ordine e al Consiglio nazionale forense cosa risponderemmo?”. “Mi auguro che la campagna referendaria non sia caratterizzata da toni accesi, per quanto il referendum sia di per sé uno strumento ‘polarizzante’”, dice Vietti, augurandosi che “tutti adottino buon senso per spiegare soprattutto ai cittadini cosa contiene veramente la riforma. E lascerei riposare in pace Falcone e Borsellino…”. La riforma costituzionale sarà tra i temi al centro del forum annuale promosso dalla Fondazione Iniziativa Europa, di cui Vietti è presidente, che si terrà venerdì 21 e sabato 22 a Stresa (Vb), intitolato: “Lo tsunami d’oltreoceano, discontinuità e scenari d’Occidente”. “Con l’imminenza del referendum non potevamo fare a meno di trattare la riforma costituzionale, con ospiti di rilievo come il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il viceministro Francesco Paolo Sisto, il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, il segretario dell’Anm Rocco Maruotti e il presidente dell’Unione camere penali Francesco Petrelli”, dice Vietti. “Il tema centrale del forum sarà però costituito dallo scenario geopolitico: ci si interrogherà su quali sono le conseguenze del cambio di governo negli Stati Uniti, dell’avvento del trumpismo, delle sue politiche economiche e di difesa, delle sue strategie interventiste o attendiste, e come tutto ciò impatta sul ruolo dell’Unione europea”, spiega Vietti. “Cerchiamo di stimolare un dibattito che aiuti l’Europa a recuperare il suo ruolo e a essere protagonista sul piano internazionale”. Prevista la partecipazione anche di Paolo Gentiloni (ex premier, oggi commissario europeo), Raffaele Fitto (vicepresidente esecutivo Commissione europea), Pina Picierno (vicepresidente Parlamento europeo), i ministri Guido Crosetto, Matteo Piantedosi e Luca Ciriani, numerosi ambasciatori (e anche Luigi Di Maio, rappresentante speciale Ue nel Golfo). Intercettazioni, il “filtro” dei gip non esiste: richieste dei pm accolte nel 94% dei casi di Errico Novi Il Dubbio, 18 novembre 2025 Da tempo Enrico Costa si batte perché le valutazioni su giudici e pm siano legate alla statistica. E non gli si potrebbe dar torto. Anche se la sua proposta di introdurre un “fascicolo del magistrato” negli iter che il Csm segue per promuovere o bocciare (cosa rarissima) le toghe è stato in gran parte depotenziato, con l’attuazione della riforma Cartabia. Ma ora l’ex viceministro della Giustizia e oggi deputato di Forza Italia offre una base quantitativa al dossier decisivo della politica giudiziaria, la separazione delle carriere. Lo fa attraverso un’interrogazione parlamentare rivolta al guardasigilli Carlo Nordio per conoscere i dati sulle intercettazioni autorizzate dai gip. Nella replica a Costa, il ministero di via Arenula rende noto che le richieste di autorizzare le “captazioni telefoniche o ambientali” avanzate dalle Procure sono accolte, dai giudici per le indagini preliminari, nel 94% dei casi. Il tasso raggiunge il 95% quando si tratta di “intercettazioni disposte con urgenza”. Le sezioni gip dei Tribunali hanno detto sì addirittura al 99% delle istanze di prorogare gli ascolti. Numeri disarmanti. Che non a caso ricordano quel 99% di giudici promossi dall’attuale Csm nelle valutazioni di professionalità. I dati ottenuti da Costa, soprattutto, individuano il nodo cruciale delle distorsioni alla base della riforma Nordio. E sì, perché non c’è passaggio che certifichi in modo plastico, più del via libera quasi indiscriminato dei gip alle intercettazioni, la scarsa autonomia di una parte dei magistrati giudicanti dai colleghi requirenti. Non c’è altro focus sul processo penale che attesti così platealmente l’urgenza di “affrancare” il giudice dalla “contiguità professionale” col pm, anche con una modifica rivoluzionaria come quella che, a inizio primavera, sarà sottoposta a voto popolare. È così per un motivo semplice e sottile nello stesso tempo: esiste un legame stretto fra le intercettazioni e quel controllo dei pm sulle carriere dei giudici che la riforma punta a stroncare. Quel nesso ha una definizione ben nota: si chiama processo mediatico. È attraverso l’enfasi mediatica assicurata, innanzitutto dalle intercettazioni, alle loro indagini infatti, che i pubblici ministeri guadagnano una visibilità pubblica incomparabilmente superiore al “peso” dei giudici. Ed è anche grazie a quel protagonismo mediatico che gli stessi pubblici ministeri vantano una sostanziale egemonia nell’Anm e nelle sue correnti. Ma proprio in virtù di tale egemonia i pm continuerebbero a condizionare le nomine ai vertici degli uffici giudicanti, se la riforma non neutralizzasse l’influenza delle correnti attraverso il sorteggio dei togati. Il nesso potrà spezzarsi solo nel momento in cui i componenti magistrati dell’eventuale futuro “Csm dei giudici” decideranno in libertà, in un plenum senza pm, forti di una nomina ottenuta con l’estrazione a sorte, non condizionata dunque da quelle correnti Anm in cui le Procure vantano una chiara supremazia “politica”. Nel momento in cui cadesse quel meccanismo, è probabile che se Enrico Costa interrogasse ancora il ministero per conoscere il tasso di accoglimento, da parte dei gip, delle richieste di autorizzare gli “ascolti” presentate dei pm, i dati sarebbero un po’ meno “bulgari” del 94% emerso grazie all’interrogazione dei giorni scorsi. Il che limiterebbe l’incidenza mediatica delle indagini, incidenza che, in particolare nelle inchieste sui presunti casi di malaffare politico, si realizza soprattutto con lo scandalismo delle intercettazioni anticipate a mezzo stampa. Ed è anche grazie a questa specifica rivoluzione eventualmente prodotta dalla separazione delle carriere, che la delegittimazione della politica attuata, per via giudiziaria, a partire da Mani pulite si attenuerebbe almeno. Con chiaro beneficio per la salute della democrazia. Costa, nel tweet su “X” con cui ha dato notizia dell’interrogazione sugli ascolti, scrive: “Il tasso “bulgaro” di accoglimento dimostra che il gip non fa il suo lavoro e si limita a timbrare le richieste della Procura. Uno scandaloso appiattimento, che incide sensibilmente sulla spesa pubblica, visto che il costo annuo delle intercettazioni ha superato i 270 milioni di euro. A questo punto non resta che ribattezzare il gip “giudice inutile passacarte”. Certo, la disfunzione è anche in termini di costi. Che però sono, appunto, innanzitutto costi democratici. A proposito di Mani pulite, è difficile dimenticare come l’inchiesta del ‘92-’93 vide come attore non protagonista proprio un gip, Italo Ghitti, che, come ricordato nei mesi scorsi dal magistrato Guido Salvini, tendeva ad accogliere praticamente tutte le richieste di misure cautelari avanzate dal mitico pool. Insomma, il rapporto anomalo fra pubblici ministeri e giudici per le indagini preliminari distorce l’impatto del processo penale sull’equilibrio fra i poteri dai tempi in cui al vertice della Procura di Milano c’era Francesco Savero Borrelli. E questo dimostra quanto vera sia l’affermazione del presidente Ucpi Francesco Petrelli secondo cui la vera domanda, sulla separazione delle carriere, è com’è possibile che sia arrivata solo ora. Oggi alla Camera, si è presentato alla stampa un altro comitato per il Sì. Ne fa parte la senatrice di FI Stefania Craxi, figlia del leader che più di ogni altro da Mani pulite fu massacrato. Con lei, alcuni testimoni di quel Psi che questi 33 anni hanno ridotto a sbiadito ricordo, ossia Fabrizio Cicchitto, Claudio Signorile e Alfredo Venturini. Dire che questo comitato referendario dimostri come la separazione delle carriere serva anche a chiudere un assurdo squilibrio fra i poteri iniziato nel 1992, potrebbe andare oltre le intenzioni dei promotori. Ma un po’ vero forse lo è. Oltraggio a pubblico ufficiale, nessun reato se non sono presenti civili e l’offesa resta “interna” di Pietro Alessio Palumbo Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2025 L’offesa per essere considerata “oltraggiosa” deve colpire il decoro dell’istituzione pubblica e non del singolo pubblico ufficiale e la presenza di terzi estranei alla funzione pubblica o all’atto da compiere è elemento necessario. La sentenza n. 35233/2025 della Corte di cassazione introduce una significativa precisazione sull’elemento costitutivo della “presenza di più persone” nel delitto di oltraggio a pubblico ufficiale. La Corte chiarisce che tale requisito non può ritenersi integrato quando i soggetti presenti siano unicamente altri pubblici ufficiali intenti nello stesso atto d’ufficio, poiché l’offesa non si proietta all’esterno dell’amministrazione. L’episodio, se confinato in ambito strettamente amministrativo, non realizza quella lesione dell’onore e del prestigio che la norma mira a prevenire. La decisione ridefinisce la soglia di tipicità della condotta, spostando l’asse del reato dalla mera pronuncia offensiva al suo contesto relazionale: ciò che rileva non è solo “cosa si dice” ma “davanti a chi” viene detto. Un orientamento che restituisce coerenza sistematica alla tutela dell’immagine della pubblica funzione. Il caso concreto risolto - La vicenda nasce da un episodio di ricorrente tensione tra cittadino e pubblici agenti. Una sanzione per divieto di sosta accende una reazione scomposta: parole concitate, un gesto di stizza, un bollettario strappato e gettato via. La discussione si sposta poi all’interno di un ufficio pubblico, dove la pretesa di ottenere l’annullamento del verbale degenera in nuovi toni accesi e in un contatto fisico con l’agente che aveva elevato la multa. Nessun civile era presente; solo personale in divisa, impegnato nelle stesse funzioni. In primo grado l’imputato era stato assolto, ma in appello la condotta era stata riqualificata come oltraggio ai sensi dell’articolo 341-bis del Codice penale, con relativa condanna. Ma la Cassazione ribalta la decisione: mancando la percezione esterna dell’offesa, il fatto non sussiste. La lesione, afferma la Corte, resta interna al rapporto personale e non si estende alla sfera pubblica che il reato intende proteggere: il prestigio dello Stato. Il principio di diritto espresso è di notevole impatto sistematico. La Suprema Corte individua nell’esteriorità del contesto comunicativo l’elemento qualificante dell’oltraggio. L’offesa deve verificarsi “in presenza di più persone” non in senso meramente numerico ma funzionale: il pluralismo percettivo deve garantire che la lesione si rifletta sul prestigio dell’istituzione. Quando i soli presenti sono soggetti che operano nello stesso procedimento o nello stesso atto d’ufficio, l’offesa rimane chiusa nel circuito istituzionale e non produce quella perdita di autorevolezza che giustifica l’intervento penale. Ne deriva una distinzione netta tra la tutela dell’onore personale e quella del decoro istituzionale: la prima è affidata agli ordinari strumenti civilistici o alle contravvenzioni minori, la seconda richiede una diffusione effettiva dell’offesa nella sfera sociale. La pronuncia valorizza, dunque, la componente comunicativa del reato, configurando l’oltraggio come una condotta che si consuma nella relazione con un pubblico, reale e non virtuale. Non basta la semplice idoneità di una frase a ledere la reputazione del funzionario pubblico, ma occorre che essa sia percepita da persone estranee alla funzione in corso, in grado di cogliere il significato offensivo e di rifletterlo sul prestigio dell’amministrazione. In tal modo la Cassazione recupera la dimensione pubblicistica della norma, sottraendola a interpretazioni che rischiavano di trasformarla in un presidio di tutela soggettiva del singolo funzionario. È un passo di chiarezza, che delimita l’area del penalmente rilevante e restituisce al diritto penale la sua funzione di extrema ratio, coerente con il principio di offensività. Sotto il profilo applicativo, la sentenza impone un accertamento rigoroso: il giudice di merito deve verificare non solo la natura e il contenuto dell’offesa, ma anche la qualità dei presenti e il contesto spazio-temporale in cui la condotta si è manifestata. La semplice compresenza di altri agenti o impiegati pubblici non soddisfa il requisito della pluralità di persone, poiché questi partecipano alla stessa funzione e non rappresentano il pubblico a cui si riferisce la norma. La portata innovativa del principio è evidente: il requisito della “pubblicità” dell’offesa diventa non una mera condizione ambientale, ma un elemento sostanziale che definisce la ragion d’essere del reato. In prospettiva, la decisione potrebbe incidere profondamente sulla prassi giudiziaria, riducendo le contestazioni per oltraggio a quei soli casi in cui l’offesa si proietti concretamente nella sfera collettiva. Il messaggio è chiaro: la dignità del pubblico ufficiale coincide con la credibilità dell’istituzione solo quando la condotta offensiva diventa visibile alla comunità. La sentenza afferma, in sostanza, che il prestigio della funzione non è un bene autoreferenziale, ma vive nella relazione con i cittadini. Il reato di oltraggio, allora, non punisce la mancanza di rispetto verso la persona, ma la frattura che si apre nella percezione sociale dell’autorità pubblica, la trasparenza e l’autorevolezza dello Stato. Puglia. Regione e Garante a tutela della genitorialità dei detenuti gnewsonline.it, 18 novembre 2025 Evitare la presenza di bambini in carcere, tutelando al contempo la genitorialità e l’infanzia, in linea con la normativa europea e nazionale. Questo riguarda i minori che hanno seguito oltre le sbarre il genitore che sta scontando una pena. Ma quando i minori hanno un altro genitore fuori dal carcere oppure non hanno più l’età per continuare a vivere dentro, allora è necessario guardare oltre quelle sbarre, cercando di curare i rapporti tra genitori e figli, evitando quello sfilacciamento che può essere determinato dalla mancata condivisione oltre che di spazi, anche di dialogo, di ore trascorse assieme. Tutto ciò che aiuta ad alimentare fra genitore e figlio il rapporto umano che ci accompagnerà per tutta la vita. Quali che siano le modalità in cui si trova a crescere. Ma anche, allo stesso tempo, proprio perché di rapporto biunivoco si tratta, il legame tra genitori e figli che rappresenta un presidio essenziale di stabilità emotiva, è capace di incidere positivamente oltre che sul benessere psico-sociale del minore, anche sul percorso detentivo dell’adulto. A tale scopo, il Dipartimento per il Welfare della Regione Puglia e l’Ufficio del Garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale hanno deciso di intraprendere una nuova azione con l’obiettivo di promuovere progettualità, realizzate dagli enti del Terzo Settore, che favoriscano il mantenimento e il miglioramento della relazione tra genitori detenuti e figli minori; interventi fondamentali per garantire continuità affettiva, sostenere percorsi educativi e contribuire a processi di reintegrazione sociale più solidi e responsabili. L’Ufficio del Garante ha sviluppato negli anni una rete di esperienze virtuose, capaci di rendere gli spazi di incontro più accoglienti, di valorizzare il tempo condiviso tra genitori e figli e di sostenere, attraverso percorsi dedicati, la crescita affettiva dei minori coinvolti. In tale quadro, la sinergia con il Dipartimento Welfare consente di evitare duplicazioni, ottimizzare la governance e rafforzare la coerenza delle politiche regionali. Firenze. Un carcere-volano per l’emergenza Sollicciano Corriere Fiorentino, 18 novembre 2025 Il progetto dell’Ance che vorrebbe sfruttare un magazzino dismesso per 120 posti. Una proposta concreta per l’emergenza Sollicciano, il sovraffollato carcere fiorentino che ha bisogno di urgenti lavori di riqualificazione. Arriva da Ance Toscana e dall’Associazione Firenze Domani, in collaborazione con la Fondazione per la Formazione Forense dell’Ordine degli Avvocati di Firenze, e si tratta dell’idea di recuperare il magazzino dismesso di 5.000 mq situato tra Sollicciano e Gozzini per realizzare un “carcere-volano” da 120 posti letto. Questa struttura permetterebbe di ospitare i detenuti durante la ristrutturazione progressiva dei due istituti in essere e poi di aumentare la capienza complessiva del carcere. Nel dettaglio il progetto prevede 713 posti letto regolamentari complessivi contro gli attuali 651, indice di sovraffollamento medio dal 151% al 91% con azzeramento dell’emergenza, 62 posti disponibili per nuove accoglienze e 50 milioni di euro di investimento in 10 anni, il tutto da realizzare attraverso lo strumento legislativo del partenariato pubblico-privato. Il progetto è stato sviluppato da Finanza e Progetti, Studio Zevi e Deloitte Financial Advisory Real Estate e l’autofinanziamento dei costi privati è previsto attraverso gestione dei servizi mensa, lavanderia, formazione, sport, manutenzioni, con l’impiego dei detenuti formati nei servizi interni. La proposta è stata presentata ieri al convegno “Ripensare il carcere a partire dagli spazi di detenzione. Strumenti finanziari per una soluzione in Partenariato Pubblico Privato”. “Il nostro settore può mettere a disposizione le competenze per dare soluzioni al tema delle condizioni carcerarie e della inadeguatezza delle strutture, superando la difficolta della pubblica amministrazione per i finanziamenti - afferma Rossano Massai, presidente di Ance Toscana - da qui l’idea di proporre un modello di partenariato pubblico privato, un sistema di realizzazione dell’opera pubblica che prevede il contributo di operatori privati. Un modello che può essere applicato a tutti gli istituti”. “Non è tollerabile che una Regione protagonista sui diritti come la Toscana abbia carceri come Sollicciano. Gli strumenti ci sono, le competenze sono pronte: serve la volontà politica”, sottolinea Vincenzo Di Nardo, presidente di Firenze Domani e vicepresidente Ance Toscana. Milano. Dalla cella alla sartoria: le detenute cuciono toghe e borse di lusso di Edoardo Venditti La Stampa, 18 novembre 2025 Il progetto che unisce formazione, lavoro e riabilitazione. La cooperativa “Alice” che coordina il progetto: “Cerchiamo di accostare il concetto di bellezza a un contesto dove di bello non c’è nulla”. Quartiere Stadera, Milano Sud. “Guarda che bella foto, io ero un po’ più giovane”. Una signora di mezza età stringe tra le mani il suo cellulare, nello schermo una foto che la ritrae con alcune colleghe: in mezzo a loro c’è il presidente della Corte d’Appello di Milano, Giuseppe Ondei, che indossa sorridente la sua nuova toga. Bellissima, con il cordoniere color oro e il bavero bianco. Elegante e raffinata, come solo le antiche tecniche artigianali sanno rendere. Quelle mani che stringono il cellulare, sono le stesse che quella toga - qualche anno fa - l’hanno realizzata. Filo dopo filo, cucitura dopo cucitura. “Anche Paola Severino è venuta a farsi la toga da noi”, racconta un’altra con un leggero accento sudamericano. A parlare sono infatti le artigiane della Sartoria San Vittore, un marchio nato oltre trent’anni fa dalla Cooperativa Alice. Qui le toghe vengono confezionate a mano da donne detenute all’interno delle carceri di Milano Bollate e di Monza, oppure in un laboratorio esterno dove lavorano una decina di sarte in regime di semilibertà, ai domiciliari o in situazioni di fragilità. Ed è proprio in questo laboratorio “fuori”, a Milano sud, che sei donne sono ora chine sulle proprie postazioni da cucito. C’è chi è intenta a ricamare, chi a tagliare stoffe, chi a rammendare. L’odore è quello aromatico dei tessuti pregiati allo stato grezzo, l’atmosfera è quella rilassata e rilassante dei luoghi di lavoro dove tutti si danno da fare senza rinunciare a una battuta e a qualche chiacchiera. L’obiettivo è chiaro: aiutare queste e tante altre donne a rifarsi una vita oltre la detenzione. Ma tutto parte da una premessa fondamentale: “Senza lavoro non c’è riabilitazione - spiega Laura Radice di Cooperativa Alice -. Quando hai un contratto, ti proietti anche mentalmente in un’idea di futuro. In fin dei conti, si tratta solo di dare una speranza a chi vuole cambiare vita”. Le statistiche sulla recidiva criminale le danno ragione: in Italia, circa il 70 per cento di chi ha finito di scontare la pena torna a delinquere, ma i tassi di recidiva calano al 2 per cento per quei detenuti che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale. Il lavoro come strumento di riabilitazione, dunque, come mezzo di accompagnamento a una realtà all’aria aperta, lontano dalle sbarre. Ma soprattutto un modo per rimanerci nel tempo, lontano dalle sbarre. È così che nel 1992 è nata Cooperative Alice e il suo brand Sartoria San Vittore. Che, come racconta Laura, deve il nome al fatto che “il progetto è partito inizialmente all’interno del carcere San Vittore di Milano con i detenuti che realizzavano costumi scenici per il Teatro La Scala o La Fenice di Venezia”. Quel laboratorio nel corso degli anni ha chiuso i battenti, ma l’eredità è proseguita nelle carceri di Bollate e Monza. E come una qualsiasi impresa che cerca di stare sul mercato, barcamenandosi tra astratte oscillazioni di domanda e offerta, la Cooperativa ha deciso nel tempo di ampliare la produzione: dalle toghe forensi all’artigianato di lusso, sempre mantenendo il nome originario. Ma perché, tra tante attività, proprio quella di cucire e modellare tessuti? “Per accostare simbolicamente il concetto di bellezza a un contesto, quello carcerario, in cui di bello non c’è proprio nulla - aggiunge Laura -. Cerchiamo di sconfiggere gli stereotipi che pesano in questo ambiente. Ai nostri artigiani diciamo: non siete dei delinquenti, siete professionisti che producono bellezza, che sia una pregiata toga di un giudice o una borsa di Armani o di Zanellato”. Non solo: qui c’è anche l’idea di dare il proprio contributo per salvare il Made in Italy, quello vero, tramandando tecniche e maestrie antiche altrimenti destinate a perdersi entro pochi anni. La rivincita dell’uomo sulle macchine, insomma, la rivincita dell’umanità sul cinismo sociale. L’equazione, suffragata dai dati, dice che per cambiare vita serve il lavoro. Ma è anche vero che non c’è lavoro senza formazione: motivo per cui il progetto di Cooperativa Alice parte sempre con l’attivazione dentro il carcere di corsi di sartoria - della durata di circa sei mesi - tenuti da maestri artigiani che vantano esperienze con brand come Armani, Jil Sander e Renato Corti. Con tutte le difficoltà del caso, basti pensare ai rigidi controlli all’ingresso e al trasporto dei macchinari “dentro”. Poi, al termine dei corsi, c’è l’assunzione dei detenuti selezionati, indipendentemente che siano in carcere o in regime di semilibertà. Con contratto regolare, come magari non hanno mai visto prima, con stipendio nel rispetto dei contratti collettivi nazionali, con malattie, ferie e tredicesima. Al momento, sono circa quindici i detenuti assunti dalla Cooperativa Alice. “Paradossalmente la parte più delicata del percorso carcerario è riavvicinarsi alla libertà quando la pena sta per finire”, conclude Laura. E non lo dice tanto per dire, ma basandosi su anni di esperienza nel settore della riabilitazione dei detenuti. “Quando sono dentro non devono pagare bollette o affitto, spesso non hanno mai lavorato regolarmente e non sono a conoscenza di tutta una serie di responsabilità come, per esempio, dover comunicare che non si può venire a lavoro quando si sta male. Rimangono le difficoltà, certo, ma questa sartoria per loro è innanzitutto un processo di rieducazione che li prepara a tornare alla vita fuori”. Alle spalle di Laura c’è una teca di vetro che contiene diversi prodotti realizzati dalla Sartoria San Vittore. Tra tutti spicca un pupazzo colorato, assemblato nelle sue varie parti con diversi pezzi di stoffe riciclate. “Rappresenta un assolotto, un animale che si rigenera sempre”, spiega Laura. Rigenerarsi, insomma. Proprie come le sarte nell’altra stanza alle prese con tessuti, ago e filo. Si sente ritmico il rumore delle macchine da cucito. È un suono bianco, un suono che sa di libertà. Torino. In ricordo di Maria Teresa Pichetto, che portò la cultura in carcere di Franco Prina otto.unito.it, 18 novembre 2025 Tra le fondatrici del Polo universitario per studenti detenuti: l’eredità di una docente che ha creduto nel diritto allo studio per tutti. Maria Teresa Pichetto è stata professoressa ordinaria di Storia delle dottrine politiche in quella che era la Facoltà di Scienze Politiche. Allieva di Luigi Firpo, ha accompagnato la nascita e la crescita della Facoltà nei vari passaggi della sua lunga carriera. Autrice di molti studi su J. Stuart Mill, le sue opere hanno spaziato sul pensiero di Saint-Simon, di Joseph de Maistre, di Locke, sul socialismo prima di Marx, sulle radici dell’antisemitismo e su figure come Massimo d’Azeglio, Vittorio Alfieri, Giovanni Botero, Carlo Tancredi Falletti di Barolo. Ma accanto all’impegno nella didattica e nella ricerca, Maria Teresa (Lilli, anche per noi) è stata protagonista, prima come docente e collaboratrice, poi e fino al 2013 come responsabile istituzionale in qualità di Delegata del Rettore, del lungo percorso compiuto dall’Ateneo torinese per offrire a persone detenute l’opportunità di seguire gli studi universitari. Un percorso che iniziò negli anni ‘80, quando per la prima volta alcuni detenuti “politici” chiesero di aprire un dialogo con alcuni docenti della Facoltà di Scienze Politiche con l’obiettivo di riprendere gli studi interrotti. Da questi primi contatti si sviluppò la convinzione, nei docenti di quella Facoltà, che fosse possibile intraprendere un vero e proprio percorso progettuale non solo per rispondere a pochi detenuti particolarmente interessati, ma per promuovere presso tante persone private della libertà, a Torino e sull’intero territorio nazionale, la prospettiva e la concreta possibilità di studiare. Un percorso che portò a costituire, in accordo con l’amministrazione penitenziaria, nella Casa Circondariale di Torino, una sezione “dedicata”, un vero e proprio Polo Universitario Penitenziario. Dove fosse possibile incontrare i docenti, seguire lezioni, svolgere seminari, studiare e sostenere esami, pervenire al conseguimento della laurea. Prima in Scienze Politiche, in seguito anche in Giurisprudenza, poi, sempre più, in molti altri corsi di laurea triennali e magistrali di interesse delle persone ristrette. Con l’unico vincolo di possedere i titoli che danno accesso all’università, come qualunque altro cittadino o cittadina italiana. In questo progetto, che parte dagli anni ‘80 ed arriva a oggi (con uno sviluppo che ha portato ad avere iscritti all’Università di Torino, in questo Anno Accademico, più di 170 detenuti e detenute ristretti in 7 istituti piemontesi), Maria Teresa Pichetto si è sempre impegnata, insieme a tante e tanti colleghe e colleghi. Ispirata certo ai valori cristiani che ne animavano tutti gli impegni di volontariato e di promozione culturale che oggi qui sono stati evocati, ma sempre anche ai principi che insieme a tante altre università che hanno seguito l’esempio di Torino ci sforziamo di promuovere e difendere: i principi che stanno scritti nella nostra Costituzione (pensiamo all’art. 3 sull’uguaglianza e sulla pari dignità di tutti i cittadini e all’art. 34 sull’accesso ai più alti gradi di istruzione) che si declinano nell’affermazione e nella pratica, attraverso l’impegno in carcere delle università, del diritto a perseguire gli studi universitari anche da parte di chi è privato della libertà personale, ma che non per questo cessa di essere titolare di tutti gli altri diritti. In nome dell’uguaglianza di tutti i cittadini e del loro essere meritevoli di veder rispettata la loro dignità non in modo astratto, ma in quanto lo Stato e le sue istituzioni (dunque anche le università), si impegnino a rimuovere gli ostacoli che quella uguaglianza e quei diritti negano. E ancora, ispirati da un altro articolo della stessa Costituzione, l’art. 27 (“le pene devono tendere alla rieducazione dei condannati”), cui si dà attuazione nella misura in cui si offrono alle persone detenute opportunità di crescita personale, di rielaborazione della propria vicenda, di maturazione attraverso uno sguardo sul mondo e sugli altri diverso e più consapevole. Tutte cose che la cultura e lo studio possono offrire, diventando in questo modo occasioni e strumenti di conoscenza e stimoli che possono favorire il riscatto e un positivo reinserimento sociale e che dunque, se si vuole ridurre la recidiva, dovrebbero essere garantiti a tutti. In questa direzione è andato l’impegno di Maria Teresa, con costanza rara per più di quarant’anni, dunque anche dopo il pensionamento, soprattutto nella Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, ma anche, negli ultimi anni, nella Casa di Reclusione Rodolfo Morandi di Saluzzo, dove si è aperta una nuova sezione dedicata al Polo Universitario per detenuti di Alta Sicurezza, spesso con pene lunghe e con una vitale esigenza di dare un senso - anche attraverso lo studio - a un tempo altrimenti vuoto. Una presenza, quella della professoressa Pichetto, caratterizzata da grande rigore nell’insegnamento e dal non venir mai meno al principio di trattare gli studenti detenuti come gli altri studenti universitari, pretendendo lo stesso impegno richiesto a tutti. Ma ponendosi, nei loro confronti, con grande attenzione e sensibilità per le condizioni da essi vissute e per le specificità del contesto in cui si insegna. Insieme a quel garbo e quella gentilezza che la caratterizzavano e che proprio in quel contesto, nelle relazioni, spesso sono assenti. Tratti che tutti le riconoscevano, le direzioni degli Istituti, il personale dell’area trattamentale, gli agenti della Polizia penitenziaria. Ma soprattutto gli studenti e i “suoi” laureati. Uomini spesso segnati da vicende tragiche, autori di reati anche gravi, giovani e meno giovani, che l’aspettavano e sempre le hanno riservato attenzione, rispetto, direi affetto e riconoscenza per un impegno mantenuto anche ad una età avanzata. Non posso non ricordare con ammirazione che a me, subentrato a lei nel 2013 come delegato del Rettore, per tutti questi anni ha continuato a offrire la propria disponibilità a tenere lezioni. E ancora pochi giorni fa promise alle tutor del progetto che - dopo il viaggio che doveva intraprendere - sarebbe tornata in carcere. Nel suo libro, dal titolo emblematico Se la cultura entra in carcere, ha offerto una testimonianza importante di quale può essere il senso civico e valoriale che deve animare quanti svolgono il ruolo di trasmissione del sapere e della cultura: portare saperi e cultura anche in un luogo come il carcere, perché quel luogo è parte della società, è parte della comunità locale, del territorio su cui esplica le sue missioni l’Università. Non può dunque essere ignorato da chi vi vive e vi insegna. E più ampiamente non può essere lasciato alla deriva come “un mondo a parte”, in cui chi lo abita (i detenuti, ma anche chi vi lavora) non merita attenzione. Un contesto solamente di punizione e di sofferenza, che nega speranza e opportunità di riscatto, come sempre più, in questi tempi, qualcuno lo vorrebbe. Maria Teresa Pichetto è stata in questo senso esempio per la comunità accademica, ma anche per tutti noi, come cittadini. Grazie Lilli. Venezia. A Mestre si parla di donne e detenzione veneziatoday.it, 18 novembre 2025 Parte “Sutura”, progetto dell’associazione Closer per incentivare il dibattito sul tema attraverso la letteratura. Primo appuntamento a Mestre il 19 novembre. Con il progetto Sutura, l’associazione Closer propone a Mestre un percorso culturale dedicato a donne e detenzione. A partire da mercoledì 19 novembre, con un primo incontro da Pickles (corte Legrenzi, ore 18.30), prenderà vita un ciclo di letture aperte al pubblico che punta a tenere vivo il dibattito sul tema del carcere. Il 19 novembre si comincia con il libro “Prigione” di Emmy Hennings (L’Orma editore): in un clima conviviale, l’associazione racconterà dell’urgenza di parlare di carcere e dell’importanza di farlo attraverso la letteratura. Sarà poi possibile acquistare il libro al Giralibri, libreria con sede nella stessa corte Legrenzi. Sempre il Giralibri ospiterà il secondo incontro, giovedì 11 dicembre alle ore 19.30: in questo caso sarà un dibattito, moderato da Closer, tra le persone che avranno letto Prigione. Ogni libro proposto da Sutura sarà accompagnato da due appuntamenti: il primo, della durata di circa un’ora, avrà carattere introduttivo e conoscitivo, favorendo la nascita del gruppo; il secondo, di massimo due ore, sarà incentrato sul confronto e la discussione collettiva sui temi emersi dalla lettura. Con Sutura, spiegano dall’associazione, “rinnoviamo l’impegno a generare spazi di partecipazione culturale nei quali la lettura diventa gesto collettivo, pratica di relazione e pensiero condiviso”. La stessa lettura sarà condivisa, in parallelo, anche nel carcere femminile della Giudecca. L’intenzione è coinvolgere di volta in volta librerie e luoghi diversi di Mestre e Venezia, in modo da allargare il gruppo e raccogliere prospettive sempre più ampie. Per aderire all’iniziativa è necessario scrivere a info@associazionecloser.org. Napoli. “Carcere e detenuti”: dialogo sulla funzione rieducativa della pena al Circolo dell’Unione Il Mattino, 18 novembre 2025 Nella serata di venerdì 21 novembre, al Circolo dell’Unione in via San Carlo 99 a Napoli, ci sarà un dialogo fra addetti ai lavori sul tema: “Carcere e detenuti: dalla funzione rieducativa a quella riabilitativa della pena”, nella prospettiva di una giustizia che tenda soprattutto a reinserire pienamente, una volta scontata la pena, le persone detenute nella comunità degli uomini liberi. Dopo i saluti del Presidente del Circolo Nazionale dell’Unione Avv. Giuliano Buccino Grimaldi, ad aprire la discussione sarà Aldo Policastro, procuratore generale presso la Corte di Appello di Napoli. Seguiranno, moderati da Maria Rosaria Covelli, presidente della Corte di Appello di Napoli, i diversi interventi. La presidente del Tribunale di sorveglianza, Patrizia Mirra fornirà un sintetico quadro delle modalità di esecuzione della pena per poi soffermarsi su quella espiata in carcere. Irma Conti, si soffermerà in maniera analitica sui compiti e delle responsabilità del GNPL (Garante nazionale persone private della libertà). Infine, la direttrice della casa circondariale di Poggioreale, Giulia Russo approfondirà gli aspetti riguardanti la gestione del detenuto in carcere nell’ottica di un percorso che porti alla sua riabilitazione. “Ci interessa confrontarci con i temi caldi del nostro tempo - dichiara Giuliano Buccino Grimaldi, il presidente del Circolo - Quest’incontro nasce dall’esigenza di capire a che punto siamo con l’applicazione dell’art. 27 della nostra Costituzione, secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. “Tutto è nato dall’incontro con l’avvocato Conti - precisa Emanuele de Montemayor, consigliere delegato agli eventi culturali - Mi sorprese per la sua straordinaria competenza e la invitai al Circolo. Così, abbiamo costruito quest’evento che mira a guardare da diversi punti di vista i diritti delle persone detenute”. Roma. La funzione rieducativa della pena e il valore dello sport nel trattamento penitenziario csiroma.it, 18 novembre 2025 Fondazione Giovanni Paolo II per lo sport, Università Europea di Roma, Rete Sport & Legalità e CSI Roma presentano un convegno sul ruolo della pratica sportiva nelle carceri per promuovere educazione e qualità della vita. Mercoledì 19 novembre, dalle ore 10.30 alle 13.00, presso l’Aula Magna dell’Università Europea di Roma, si terrà il convegno dal titolo “La funzione rieducativa della pena e il valore dello sport nel trattamento penitenziario”. L’iniziativa, organizzata dalla Fondazione Giovanni Paolo II per lo Sport, dall’Università Europea di Roma, dalla rete di magistrati “Sport e Legalità” e dal Centro Sportivo Italiano CSI-Roma, nasce con l’intento di offrire un’occasione di riflessione condivisa sui temi della giustizia, della dignità umana e dei percorsi di recupero, inserendosi nel più ampio contesto dell’Anno Giubilare e della missione formativa e sociale dell’università. Il convegno si propone di mettere in luce il contributo del diritto e dello sport come strumenti capaci di sostenere la crescita personale e la responsabilità civica, favorendo un confronto costruttivo tra mondo accademico, magistratura e istituzioni sportive. Il programma, arricchito dalla partecipazione di autorevoli rappresentanti delle istituzioni, offrirà un quadro approfondito sul trattamento penitenziario e sul ruolo dello sport nei processi di rieducazione e reinserimento. La giornata sarà aperta dai saluti del prof. P. Pedro Barrajon, LC, magnifico rettore dell’Università Europea di Roma.L’introduzione sarà affidata a Aniello Marone, pro-rettore all’Internazionalizzazione e coordinatore del CDS in Giurisprudenza dell’Università Europea di Roma. A seguire, il prof. Carmelo Leotta, professore associato di diritto penale presso l’Università Europea di Roma, offrirà una relazione introduttiva dal titolo “La funzione rieducativa della pena”. Quindi gli interventi istituzionali di suor Alessandra Smerilli (segretaria del Dicastero per Sviluppo Umano Integrale) e di Riccardo Turrini Vita (garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale) sul tema “Il ruolo delle istituzioni nel dialogo tra sport e carcere”. Il convegno proseguirà con la tavola rotonda, dal titolo “Il valore dello sport nel trattamento penitenziario”, a cui parteciperanno: Massimiliano Atelli, presidente della Commissione indipendente per la vigilanza sui bilanci delle società professionistiche; Sergio Sottani, procuratore generale della Corte di Appello di Perugia e portavoce della rete dei magistrati “Sport e legalità”; Ernesto Napolillo, direttore generale dei detenuti e del trattamento; Antonella Baldino, amministratore delegato dell’Istituto per il Credito Sportivo e Culturale; Maria Spena, consigliere d’amministrazione Sport e Salute. Momento chiave del convegno sarà la presentazione della 2^ edizione dei Giochi della speranza, con gli interventi di Fabrizio Basei, rete dei magistrati “Sport e legalità”, Irene Marotta, responsabile Gruppo sportivo Fiamme Azzurre, e Oriana Tantimonaco, direttore Ufficio V Direzione Generale detenuti. Il convegno sarà moderato da Daniele Pasquini, presidente della Fondazione Giovanni Paolo II per lo sport e CSI Roma. Reggio Emilia. Teatro Carcere, aperte le iscrizioni per lo spettacolo “Una vite è caduta a terra” stampareggiana.it, 18 novembre 2025 Sono aperte le iscrizioni per partecipare allo spettacolo “Una vite è caduta a terra”, l’opera interamente scritta e realizzata dai detenuti del reparto maschile degli Istituti penitenziari di Reggio Emilia, in programma il prossimo 12 dicembre alle 18.30. Lo spettacolo “Una vite è caduta a terra”, realizzato insieme alla Compagnia teatrale MaMiMò, rientra tra le attività promosse da Comune di Reggio Emilia e Istituti penitenziari di Reggio Emilia nell’ambito del progetto triennale “Territori per il reinserimento Emilia-Romagna”, finanziato da Cassa delle Ammende e Regione Emilia-Romagna, in collaborazione con il Ministero dell’Interno e il Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna, nell’ambito del festival Trasparenze di Teatro Carcere, percorso tra gli spettacoli del Coordinamento Teatro Carcere Emilia -Romagna, formato delle compagnie che operano con progetti teatrali nelle carceri della regione Emilia-Romagna. Oltre a “Una vite è caduta a terra”, lo scorso 8 novembre è andata in scena “La casa del cielo”, l’opera scritta e interpretata dalle detenute transgender del reparto Orione dell’Istituto penitenziario reggiano. Entrambi gli spettacoli sono frutto dei laboratori teatrali condotti da MaMiMò nei mesi scorsi. L’esperienza, ormai decennale, fa del teatro un’opportunità di cambiamento e uno strumento per riflettere, raccontarsi, lavorare e relazionarsi con gli altri. Attraverso il lavoro teatrale, le persone detenute riscoprono l’ascolto, la disciplina creativa, la fiducia nel gruppo, la possibilità di essere altro e la scena diventa non solo espressione artistica, ma un atto in grado di dare voce a chi è invisibile, rompere l’isolamento e creare ponti tra dentro e fuori. La rappresentazione - “Una vite è caduta per terra” interroga i confini tra fatica, desiderio e senso della vita. Un gruppo di uomini vive e lavora in condizioni estenuanti, isolato dal mondo, come su una piattaforma in mezzo al mare. Per non soccombere all’alienazione e alla ripetizione meccanica, alzano lo sguardo verso le nuvole, figure effimere che diventano la traccia dei loro desideri, la possibilità di immaginare un senso al sacrificio quotidiano. Ma c’è un capo, immensamente ricco, che non conosce più alcun desiderio. Le nuvole, per lui, sono scomparse. In preda a una crisi esistenziale, cerca di costringere gli operai a consegnargli i loro motivi di vita, privandoli dell’unica libertà che resta, ovvero la ricerca di un senso alla propria esistenza. Eppure le nuvole non sono mai uguali a se stesse, proprio come i desideri: appena realizzati, presto svaniscono. Ci sarà, allora, dietro le nuvole, qualcosa cui possiamo davvero aggrapparci?” Parteciperanno i detenuti Ahmed, Anass, Angelo, Bruno, Danae, Davide, Gaetano, Khalil, Marco, Mattia e Sofia. La regia è Gian Marco Pellecchia, la drammaturgia di Paolo Bruini, testo realizzato con il contributo dei partecipanti al laboratorio. Con la collaborazione di: Danae Bilotti, Jeane Santos Dias, Sofia Gandolfi, Giulia Pirelli, Nyx Rota, Stefano Viani. Il Festival - In programma fino al 22 dicembre 2025 in Emilia-Romagna, è organizzato dal Teatro del Pratello con il sostegno del MIC. Otto le città della regione in cui si articola la nuova edizione: Bologna, Castelfranco Emilia, Ferrara, Forlì, Modena, Parma, Ravenna, Reggio Emilia. Nella sua quinta annualità, il festival compone in cartellone i primi esiti del progetto triennale (2025-2027) che il Coordinamento Teatro Carcere, sostenuto dalla legge 13 della Regione Emilia - Romagna, porta avanti in 15 sezioni detentive di 8 Istituti Penitenziari, sui 10 presenti in regione, su un titolo comune: ARTAUD, gli artisti nei luoghi di reclusione, tema declinato secondo la poetica di ciascun regista e approfondito e sviluppato nell’arco della triennalità, confrontandosi con opere diverse e comuni. “La figura di Artaud, le sue opere, la sua vita, sono un paradigma perfetto, un caleidoscopio attraverso il quale guardare il rapporto tra creatività e luoghi di reclusione e tentare di esplorarlo in plurime direzioni” precisa il Coordinamento. Le 13 sezioni detentive coinvolte sono: Bologna (Sezione Femminile), Ferrara (sezione maschile), Forlì (sezione maschile e sezione femminile), Ravenna (sezione maschile), Parma (sezione maschile), Castelfranco Emilia (Sezione maschile), Modena (sezioni maschili e sezione femminile), Reggio Emilia (sezioni Zeta, maschile e transgender) e Istituto Penale per i minorenni di Bologna. Per prenotarsi, occorre registrarsi entro il 21 novembre al seguente link: https://istanze.comune.reggioemilia.it/rwe2/module_preview.jsp?MODULE_TAG=SOCI_028 Firenze. Un teatro contro la mafia: le poltrone del “Puccini” fanno rivivere la memoria di Riccardo Arena La Stampa, 18 novembre 2025 Una fila di 62 sedute porterà il nome (e la storia) di personaggi che hanno perso la vita per mano della criminalità organizzata: “Siamo un luogo di arte ma anche di coscienza”. Una città, un teatro: Firenze e il Puccini, dove da oggi, martedì 18 novembre, una fila di poltrone sarà dedicata a 62 vittime delle mafie, per un ricordo permanente di chi ha perso la vita per mano della criminalità organizzata, nel nome di una resistenza collettiva che il capoluogo toscano vive attraverso il teatro che sorge in zona Cascine. Il numero di ciascuno dei 62 posti a sedere dedicati sarà accompagnato dal nome di una vittima, che verrà riprodotto anche sul biglietto di ingresso; ci sarà pure un QR code che rimanderà a una pagina web in cui si parla del personaggio chiamato in causa. La scelta - Le vittime delle mafie sono ovviamente molte di più: i nomi scelti al Puccini hanno valore simbolico e in parte riconducono proprio a Firenze, come i componenti della famiglia Nencioni, tra cui Nadia di 9 anni e Caterina di 50 giorni, rimasti uccisi nella strage di via de’ Georgofili del 27 maggio 1993 o come Rossella Casini, la giovane fiorentina rapita, torturata e gettata nella tonnara di Palmi per aver osato rompere il silenzio imposto dalla ‘ndrangheta e cercato di sottrarre il fidanzato a un destino di violenza e morte. L’elenco completo dei nomi delle vittime, raccolto dall’associazione Libera, però, sarà valorizzato attraverso un’installazione semipermanente di video mapping nel foyer del teatro. “La cultura non dimentica” - “Ogni volta che si accende una luce sul palcoscenico, si spegne un po’ di buio nel mondo - dicono dal Teatro Puccini -. Dedicare una fila alle vittime di mafia è il nostro modo per dire che la cultura non dimentica, che il teatro è un luogo di coscienza oltre che di arte”. Il Puccini, nato come dopolavoro dei Monopoli di Stato, si è via via trasformato, grazie anche al contributo di Sergio Staino. I posti saranno riservati in maniera preferenziale ad associazioni, scuole e organizzazioni che ne faranno richiesta gratuita; in caso di vendita del biglietto corrispondente, parte del ricavato sosterrà attività di contrasto e di informazione sulla criminalità organizzata. Stamattina è prevista anche la piantumazione, all’ingresso del teatro, di due ulivi, in una sorta di gemellaggio ideale con il Giardino della memoria Quarto Savona Quindici, realizzato sul luogo della strage di Capaci dall’associazione fondata da Tina Montinaro, vedova del capo scorta del giudice Giovanni Falcone, Antonio Montinaro. La giornata di oggi 18 novembre sarà aperta dallo spettacolo “Il paese nelle mani - Cronaca d’Italia in sette stragi”, di Nicola Zavagli, con Beatrice Visibelli. Al termine, oltre 600 studenti delle scuole medie e superiori della città metropolitana di Firenze si confronteranno con Fiammetta Borsellino, Giovanni Chinnici, Tina Montinaro e Sauro Ranfagni, cugino di Rossella Casini. Al dibattito daranno un contributo l’Associazione tra i familiari delle vittime della strage dei Georgofili, la Fondazione Giovanni Falcone e l’Associazione Amici di don Peppe Diana. Alle 12 la cerimonia ufficiale con l’intervento delle autorità, quando verranno scoperte le poltrone su cui fino ad allora sarà posto il Tricolore. La giornata si concluderà alle 21 con “Fiore di campo. La mafia non è musica”, con Luisa Impastato e la Nuova Orchestra Pedrollo: un racconto dedicato all’importanza della scelta e alla storia dell’attivista antimafia e giornalista Peppino Impastato, ucciso il 9 maggio del 1978 a Cinisi, non lontano da Capaci e da Palermo. L’ingresso è gratuito. Monza. Emis Killa e Lazza in carcere per parlare di musica milanotoday.it, 18 novembre 2025 I due rapper hanno avuto la possibilità di dialogare con gli ospiti della casa circondariale per un progetto finanziato da una cosa discografica: di cosa si tratta. La musica come strumento di sensibilizzazione e di riscatto sociale è arrivata nel carcere di Monza tramite due ospiti d’onore: i rapper Emis Killa e Lazza, al secolo Emiliano Giambelli e Jacopo Lazzarini. La visita è avvenuta venerdì nell’ambito del progetto “Free for music”: l’iniziativa finanziata dall’etichetta discografia Orangle Record avvenuta con la supervisione di Paolo Piffer, consigliere comunale per il gruppo Civicamente, che da sempre conosce il mondo delle carceri, lavorandoci come educatore. Il progetto - “Free for Music” nelle intenzioni della casa discografica, è un progetto che vuole favorire il reinserimento sociale e stimolare una maggior consapevolezza di sé attraverso la musica, accompagnando i detenuti a una migliore gestione delle loro emozioni. I due rapper hanno risposto alle numerose domande dei detenuti, raccontando la loro personale esperienza. La musica oltre le mura del carcere - Il progetto “Free for music” non si è limitato al solo incontro con Lazza ed Emis Killa: i partecipanti, durante la fase del progetto, si sono impegnati settimanalmente nella scrittura dei testi e nella produzione di brani musicali che affrontano temi quali libertà, famiglia, riscatto personale e reintegro nella società. E in tal senso la casa discografica ha spiegato come i brani prodotti all’interno del laboratorio non siano destinati a rimanere dentro le mura del carcere: l’obiettivo del progetto è infatti anche quello di commercializzare i brani all’esterno, trasformando le parole dei detenuti in un ponte di comunicazione con la società. Assegno di inclusione: l’Inps rafforza i controlli per evitare truffe, coinvolti gli Uepe Il Messaggero, 18 novembre 2025 Verifiche dirette negli uffici giudiziari per confermare la misura che sostituisce da due anni il reddito di cittadinanza. L’Inps ha avviato una nuova procedura di controllo per contrastare le irregolarità nell’erogazione dell’Assegno di inclusione (Adi), il contributo economico destinato alle persone considerate “inabili al lavoro” e in condizione di svantaggio. La misura, in vigore da circa due anni al posto del Reddito di cittadinanza, prevede che possano beneficiarne anche soggetti sottoposti a misure alternative alla detenzione, come ex detenuti, persone in semi-libertà o inserite in comunità di recupero. L’intervento dell’Inps e il ruolo degli Uepe - Con un messaggio pubblico diffuso nei giorni scorsi, l’Istituto ha annunciato l’estensione del proprio sistema informatico di validazione delle certificazioni anche agli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe). Gli uffici che seguono i percorsi alternativi alla detenzione potranno ora collegarsi direttamente alla piattaforma Inps e confermare lo stato di chi è in carico a programmi di reinserimento, percorsi terapeutici o altre misure penali non detentive. Come funzionava finora e cosa cambia - In passato, l’Inps verificava la documentazione presentata attraverso richieste di conferma agli enti certificatori, come Asl o servizi sociali. Con la nuova procedura, invece, l’Istituto potrà ottenere riscontri diretti dagli uffici giudiziari competenti, che conoscono con precisione la situazione penale del richiedente. Questa integrazione non sostituisce gli altri controlli, ma ne rafforza la credibilità, aggiungendo un ulteriore elemento di verifica. La procedura amministrativa - Il nuovo sistema prevede che gli Uepe rispondano alle richieste di validazione utilizzando un canale telematico dedicato. In caso di mancata risposta entro i termini previsti, l’Inps potrà attivare misure operative per evitare il blocco delle domande, ma la responsabilità di fornire riscontro resta in capo all’ufficio territoriale. Obiettivo: trasparenza e correttezza - L’Inps invita i richiedenti seguiti da un Uepe a indicare correttamente nella domanda l’ufficio competente e a fornire la documentazione necessaria, come provvedimenti giudiziari o attestazioni ufficiali. Lo scopo è duplice: da un lato evitare abusi del sistema e dall’altro assicurare che chi si trova realmente in situazione di svantaggio continui a ricevere il sostegno previsto dalla legge. Il Governo cieco sulla palude del fine vita di Francesca Schianchi La Stampa, 18 novembre 2025 A sei anni dalla prima sentenza della Corte Costituzionale, la discussione è ferma in Senato: si aspetta una nuova decisione sul testo approvato in Toscana. Chi l’ha più vista una legge sul fine vita? La chiese la bellezza di sei anni fa la Corte costituzionale: tre governi, due legislature e infinite, inconcludenti chiacchiere dopo, siamo ancora alle battute iniziali. E ora, per paradosso, il suo destino è appeso ancora una volta a una sentenza della Consulta. Già, perché una proposta c’è, giace in Senato, scritta dalla destra e parecchio contestata dalle opposizioni: solo che è congelata. Formalmente in attesa di un imprescindibile parere della commissione Bilancio: in realtà, anche e soprattutto della decisione che la Corte prenderà, da qui a fine mese, in merito al testo approvato dalla regione Toscana e impugnato dal governo. Perché è andata così: siccome i giudici da anni chiedono al legislatore di intervenire con una legge e da anni il Parlamento fa melina, la Toscana la primavera scorsa si è arrangiata da sola. A quel punto, il governo Meloni ha impugnato la legge dicendo: il suicidio assistito non è competenza delle regioni. Compito della Corte costituzionale, ora, decidere chi abbia ragione: il 4 novembre c’è stata l’udienza pubblica, a colpi di, per riassumere, “solo il Parlamento può decidere” sostenuto dall’avvocato dello Stato, e “tocca intervenire per colpa dell’inerzia del legislatore” dell’avvocato della Toscana. Se la Corte dovesse dar ragione allo Stato, il provvedimento regionale decadrebbe definitivamente. Ma se desse ragione alla Toscana, che è stata seguita a ruota dalla Sardegna un paio di mesi fa, potrebbe aprirsi una slavina in altre regioni che solo la legge nazionale può fermare. Piaccia o no a chi, in Parlamento, sembra voler rinviare in eterno per non occuparsene mai. Gli scontri sulla proposta del governo - Riprendere il filo del testo al Senato porterà a sicuri scontri tra schieramenti. La proposta su cui si sta lavorando è considerata insufficiente non solo dalle opposizioni, ma anche da alcuni malati: nel pieno dell’estate, Laura Santi, la giornalista umbra malata di sclerosi multipla che ha ottenuto il permesso al suicidio assistito, ha lasciato in eredità un toccante video in cui critica punto per punto la legge. Prima di tutto, l’esclusione del Servizio sanitario nazionale dalla prestazione, voluta con forza dalla destra. E poi, l’idea di un comitato etico nazionale di nomina governativa a sovrintendere la decisione: nel frattempo, però, un emendamento lo ha soppresso. Ma anche i criteri elencati per ottenere il via libera, più restrittivi di quelli previsti dalla sentenza della Consulta. Pesante come un macigno il parere di Santi: “Quella proposta di legge non va emendata, va proprio bocciata: perché non vuole regolare il fine vita, vuole escludere questo diritto”. Un’opinione condivisa da molti nelle opposizioni, che considerano il testo troppo condizionato da mondi cattolici estremamente conservatori. In particolare, vedono l’ombra del sottosegretario Alfredo Mantovano nelle pieghe di quella proposta. Tanto che c’è chi, anche tra quelli che si battono per una legge, ritiene che sia meglio nulla di quel testo. Si interrogano le opposizioni: “Finora, chi è stato citato in giudizio per aiuto al suicidio è stato sempre assolto - ragiona un dem che sta lavorando al provvedimento - ma se la legge fissasse paletti più rigidi di quelli della Corte, siamo sicuri che sarà ancora così?”. Sopravvive però una speranza: il ricorso al voto segreto in Aula. Potrebbe portare, sono convinti da sinistra, la maggioranza a sgretolarsi. E modifiche migliorative, scommettono, potrebbero passare con l’aiuto di franchi tiratori di destra. Tre italiani su quattro favorevoli all’eutanasia - Perché è chiaro a tutti che il tema è delicato e trasversale. E coinvolge la società: prima dell’estate, l’Associazione Luca Coscioni ha depositato in Senato 74 mila firme per una sua proposta di iniziativa popolare. Qualche mese fa, proprio quando la legge subì uno stop “perché merita più tempo e attenzione”, dissero dalla Commissione sfidando il ridicolo - dopo sei anni di attesa di una decisione - su queste pagine venne pubblicato un sondaggio di Only numbers diffuso da Alessandra Ghisleri. Il 75,3 per cento degli italiani si dichiara favorevole anche alla legalizzazione dell’eutanasia. Tre italiani su quattro: forzatamente, ci sono in mezzo persone di destra e sinistra, atei e cattolici. La società aspetta: è il Parlamento che ha paura a prendersi una responsabilità. E, ancora una volta, spera siano i giudici della Corte a farlo. Le gemelle Kessler e la libertà di scelta che in Italia non c’è di Elena Loewenthal La Stampa, 18 novembre 2025 Non è dato sapere perché l’abbiano fatto, Alice ed Ellen. Di scegliere il suicidio assistito insieme dopo una lunga vita trascorsa insieme, sopra il palco e fuori dal palco. Certo è che doveva esserci, fra loro e con chi a loro è stato più vicino in vita, un cerchio degli affetti tanto stretto quanto tenace, e chissà quanto si sono immaginate e quanto si sono parlate di quelle ceneri che hanno chiesto di tenere tutte insieme, loro due e la mamma e il cagnolino. Ma noi non dobbiamo né vogliamo entrare in quel loro mondo intimo e prezioso. Così come non dovremmo entrare nel perché del gesto che le ha portate ieri via alla vita, insieme, dopo 89 anni trascorsi insieme - da gemelle, sorelle, persone che si sono volute bene. Questo confine fra il gesto, la loro scelta di morire, e il perché di questa scelta è proprio ciò che definisce il diritto civile cui le gemelle Kessler hanno potuto disporre nel loro Paese e che per altro verso avrebbero fatto molta fatica ad “ottenere” qui in Italia. Perché la libertà di morire, e morire per propria mano nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, è nel nostro Paese ancora una delicata, ardua e non di rado impossibile passeggiata sul filo - dell’assenza legislativa, delle decisioni di un tribunale o di un altro, dello stigma di un certo, come dire, disprezzo. Mentre altrove è, semplicemente ma non per questo disinvoltamente, l’esercizio di un diritto. Civile, umano. Verrebbe da dire “primario”. Per il quale non c’è bisogno di giustificazioni, di motivazioni da passare al vaglio di commissioni, di impervie procedure talora più sfiancanti della malattia e delle sofferenze che hanno condotto a una decisione così drastica. Per questo noi non dobbiamo né vogliamo sapere come mai, per quali ragioni più o meno comprensibili le gemelle Kessler hanno deciso di chiedere e hanno ottenuto il suicidio assistito insieme. Non dovremmo chiedercelo mai, questo perché - e invece partire dal presupposto che se una persona, o due, arriva a una decisione del genere è perché ha delle ragioni “pesanti” sulle quali sarebbe giusto e doveroso non indagare, non esercitare alcuna curiosità, più o meno morbosa (come capita invece spesso). Ma questo rispetto - della persona, del dolore e del desiderio, dell’affetto e del diritto - è possibile solo là dove questo diritto civile è tale di fatto e non solo di nome. Dove la libertà e la responsabilità dell’individuo trovano voce anche di fronte alla scelta di morire. E dove quel momento drastico di passaggio dalla vita alla morte per scelta non ha bisogno di narrazione perché è un diritto. Che è anche diritto al silenzio, prima e dopo. Migranti. Schiavi a Catania: al lavoro nei campi per 1,26 euro all’ora di Frank Cimini L’Unità, 18 novembre 2025 Siamo ben oltre lo sfruttamento dei lavoratori immigrati. L’operazione anti caporalato della procura di Catania con tre persone arrestate perché li costringevano a vivere nel degrado, tra i topi, senza servizi igienici e con paghe da un euro e 26 centesimi l’ora, dice che si può parlare di riduzione in stato di schiavitù anche se l’accusa non viene formalmente contestata. Le accuse sono tratta di esseri umani, intermediazione illecita, sfruttamento del lavoro e atti di crudeltà su animali. Il giudice delle indagini preliminari ha disposto la custodia cautelare in carcere. Le indagini hanno consentito di individuare alcuni cittadini stranieri assistiti da associazioni anti-tratta. I rapporti di collaborazione tra queste associazioni, la polizia e la procura rappresentano la chiave di volta di una efficace strategia contro i moderni schiavisti, spiega il capo dei pm catanesi Francesco Curcio. Approfittando dello stato di necessità in cui versava un cittadino marocchino i tre poi arrestati lo inducevano a trasferirsi dalla Francia a Ramacca. Nel catanese il migrante veniva costretto a lavorare come altri 14 ore al giorno nei campi per un compenso pari a 550 euro mensili progressivamente aumentato a 650 euro a infine a 800 euro. La vittima era alloggiato in uno stabile fatiscente attiguo al deposito del mangime per animali, illuminato con un cavo di fortuna volante, senza riscaldamento e servizi igienici. Per lavarsi doveva prendere l’acqua con un contenitore da un sito di raccolta esterno. Per i bisogni fisiologici c’era l’aria aperta. Le assurde e penosissime condizioni di igiene in cui versavano i lavoratori venivano aggravate dalla presenza di topi, circostanza che costringeva una delle vittime a predisporre nella “stanza” un po’ di esche per topi. In tali condizioni, al fine di non far emergere la presenza sul territorio degli sfruttati e per evitare che si recassero in ospedale, in un caso di ascesso al collo veniva praticato un foro usando un ago preventivamente riscaldato. Tra i tre indagati finiti in carcere c’era chi aveva contribuito all’instaurazione del rapporto di lavoro, chi aveva svolto il ruolo di intermediario e chi svolgeva il ruolo di guardiano per impedire che gli sfruttati scappassero dal luogo di lavoro. Una delle vittime era costretta ad assistere all’abbattimento di alcuni cani solo perché non avevano obbedito: violenza e minaccia indiretta. Un cane era stato trascinato con una corda legato a un’auto sempre come “esempio”. Medio Oriente. 98 palestinesi morti in carcere tra torture, abusi e omissioni di Michele Giorgio Il Manifesto, 18 novembre 2025 Lo rivela un rapporto della ong israeliana “Medici per i diritti umani”. I crimini peggiori commessi nel centro di detenzione di Sde Teiman nel Neghev. Novantotto prigionieri palestinesi morti negli ultimi due anni. È il dato più alto degli ultimi decenni di decessi tra i palestinesi rinchiusi nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani. Questo numero include 94 casi documentati tra il 7 ottobre 2023 e l’agosto 2025 e altri quattro registrati tra ottobre e novembre. Queste e altre cifre, pubblicate ieri da Medici per i diritti umani (Phri) nel rapporto “Deaths of Palestinians in Israeli custody: enforced disappearances, systematic killings and cover-ups”, fotografano un sistema carcerario che, già criticato e sotto accusa prima del 7 ottobre 2023, ha mostrato con l’inizio della reazione di Israele all’attacco di Hamas un’escalation senza precedenti. Phri sottolinea che la maggioranza dei palestinesi provenienti da Gaza e deceduti in detenzione non era classificata dalle stesse autorità israeliane come combattente: erano semplici civili. Inoltre, questi dati lanciano l’allarme sui rischi in carcere per gli altri prigionieri, alla luce anche della politica del pugno di ferro nelle prigioni di massima sicurezza voluta dal ministro della Sicurezza Itamar Ben Gvir, promotore di una proposta di legge per la condanna a morte dei “terroristi palestinesi”. Nel corso dei primi otto mesi dopo il 7 ottobre 2023, un prigioniero palestinese è morto in media ogni quattro giorni, scrive Phri. E la cifra ufficiale potrebbe essere più bassa del numero reale. Di centinaia di persone arrestate a Gaza non si hanno informazioni certe e in passato l’esercito ha negato detenzioni poi diventate pubbliche con la morte degli arrestati. Diciotto cittadini di Gaza morti in custodia restano tuttora senza identità e molte famiglie non hanno informazioni sulla sorte dei propri cari. I referti medici consultati dai ricercatori di Phri descrivono un insieme di pratiche che includono percosse violente, malnutrizione, rifiuto delle cure, mancata somministrazione di farmaci per malattie gravi e condizioni di detenzione insopportabili. I risultati di dieci autopsie parlano chiaro: costole rotte e lacerazioni interne. “Siamo di fronte a una politica ben precisa” dice al manifesto Oneg Ben Dror, che ha partecipato all’inchiesta svolta da Phri “lo indicano le prove di decessi causati da tortura e mancato intervento medico. Queste morti vanno descritte per quello che sono: uccisioni di palestinesi durante la detenzione”. Le mancate indagini, aggiunge Ben Dror, “sui responsabili di queste morti trasformano la legge israeliana in una foglia di fico e in uno strumento di occultamento”. Il centro di detenzione di Sde Teiman emerge come quello con il più alto numero di decessi: 29. Di questo luogo si è parlato molto nelle ultime settimane per la vicenda dei cinque soldati incriminati per torture e lesioni aggravate, dopo la diffusione di un video che documenta abusi sessuali su un prigioniero palestinese, autorizzata dalla procuratrice militare Yifat Tomer Yerushalmi. Quest’ultima è stata arrestata a inizio mese con l’accusa di aver permesso la pubblicazione di immagini segrete e di aver procurato un danno allo Stato di Israele. Oltre ai cinque incriminati, soltanto un altro soldato è stato finora condannato a una pena di sette mesi per aggressione a detenuti. Sde Teiman è seguito, per numero di palestinesi deceduti, dalle prigioni di Ketziot, Megiddo e Nitzan. Cinque detenuti sono morti dopo essere stati trasferiti all’ospedale Soroka di Beersheva. L’elenco delle vittime include 68 prigionieri di Gaza, 23 della Cisgiordania e tre palestinesi di Israele, oltre a sette casi avvenuti prima del trasferimento in carcere. Nel carcere di Megiddo le autopsie hanno rivelato emorragie interne e traumi compatibili con cadute violente o con aggressioni fisiche. Omar Daraghmeh, 58 anni, è morto nel 2023 a causa di una grave emorragia. Un mese dopo Abdul Rahman Marai è stato ucciso da fratture alle costole e allo sterno. Secondo un testimone era stato picchiato da un gruppo di quindici agenti per diversi minuti con colpi concentrati alla testa. Lo scorso marzo è morto Walid Ahmed, 17 anni, in uno stato di denutrizione estrema, con ferite trascurate e infezioni intestinali. Un destino simile ha subito Mohammed Al Sabbar, 21 anni, deceduto nel febbraio 2024. Venezuela. Alberto Trentini detenuto, ora si muove l’Europa: “Impegno per la sua liberazione” di Anna Maselli Corriere del Veneto, 18 novembre 2025 Kaja Kallas: “Stiamo affiancando il governo”. I Verdi: “Tajani si svegli e faccia come Parigi”. Caso Trentini, si muove l’Unione Europea. La vicepresidente della Commissione europea Kaja Kallas ha confermato l’impegno delle istituzioni per la liberazione di Alberto Trentini, l’operatore umanitario originario del Lido di Venezia e arrestato in Venezuela 368 giorni fa. Dopo l’accorato (e polemico) appello lanciato dalla madre Armanda Colusso sabato mattina da Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, giunge a stretto giro la risposta di Bruxelles: “Accogliamo con favore la risposta dell’alta rappresentante Kaja Kallas”, dicono i deputati dei Verdi Cristina Guarda, Ignazio Marino, Leoluca Orlando e Benedetta Scuderi. Le assunzioni di responsabilità - L’auspicio è che il peso specifico del vecchio continente possa valere più di quanto la Farnesina non stia già facendo in uno scenario sempre più complicato dalle tensioni fra Trump e Nicolás Maduro, presidente del Venezuela. “La Commissione sta lavorando a fianco delle autorità italiane - proseguono gli europarlamentari -. Kallas ha ribadito che verranno intraprese tutte le vie diplomatiche disponibili per chiedere l’immediata e incondizionata liberazione di Trentini e degli altri cittadini europei detenuti arbitrariamente in Venezuela”. Nell’anniversario del suo arresto la mamma di Alberto ha espresso indignazione verso il governo italiano, accusato di non aver fatto abbastanza, specialmente nei primi sei mesi, in cui “non c’è stato alcun contatto con il governo venezuelano”, e di essere stata fin troppo paziente. Mentre i Verdi incalzano la premier Giorgia Meloni e il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, “affinché si assumano le proprie responsabilità”, in Francia plaudono alla liberazione di Camilo Castro, l’insegnante di yoga arrestato a giugno mentre si trovava al valico di Paraguachón, al confine tra Venezuela e Colombia. Cercava di rinnovare il visto di residenza ma è stato prelevato e portato nel carcere di El Rodeo I, lo stesso in cui si trova Trentini. Le analogie - Le analogie fra i due: entrambi cittadini europei, entrambi trattenuti senza accuse formali e quindi “ostaggi” di un regime che cerca di ottenere riconoscimento politico dai governi stranieri. E allora sorge spontanea la domanda: perché Castro è stato liberato e Trentini no? Secondo quanto riportato da “Repubblica” a facilitare le trattative sarebbe stato il diverso approccio dell’Eliseo verso il Venezuela: Parigi ha condannato apertamente le manovre militari statunitensi nei Caraibi che rischiano di trasformare la zona in una polveriera e, di sicuro, non contribuiscono a creare un clima favorevole al rilascio dei detenuti. “Il caso Trentini non può essere derubricato o dimenticato”, sottolineava domenica il deputato e leader di Alleanza Verdi e Sinistra, Angelo Bonelli. “Chiedo alla presidente Meloni e al ministro Tajani di agire con la stessa determinazione e lo stesso metodo mostrato dalla Francia. L’appello disperato di Armanda Colusso Trentini è il grido di un Paese intero che dobbiamo fare nostro. Dopo un anno Alberto è ancora in una cella. Questo silenzio istituzionale è inaccettabile”. “Notizia che dà speranza” - Il presidente francese Emmanuel Macron è riuscito nell’intento di liberare Castro: “Una notizia che dà speranza - prosegue Bonelli - ma che evidenzia ancora di più la mancanza di un’azione adeguata da parte del nostro governo”. Secondo il senatore veneziano Raffaele Speranzon si potrebbe coinvolgere a livello mediatico la principale oppositrice di Nicolás Maduro, María Corina Machado, ma Bonelli è di tutt’altro avviso: “La richiesta di un intervento militare statunitense avanzata dalla Machado non è coerente con il profilo di chi ha ricevuto un Premio Nobel per la Pace”.