Quando il carcere soffre e dice “basta” la risposta si riduce alla repressione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 novembre 2025 I disordini al Bassone di Como rivelano un sistema penitenziario al limite, tra sovraffollamento, tensioni continue e personale insufficiente. ma il governo risponde con nuove pene e nessun intervento. Pochi giorni fa, al carcere Bassone di Como, oltre centocinquanta detenuti hanno preso il controllo dell’istituto per diverse ore. Una rivolta partita al mattino da un tentativo di evasione, poi degenerata in protesta violenta che ha coinvolto due sezioni intere. Tre agenti feriti, uno forse preso in ostaggio prima di mettersi in salvo. Un detenuto straniero di ventiquattro anni schiacciato tra i battenti di un cancello, portato via in codice rosso con una sospetta lesione spinale. Fuori dal carcere il cordone di sicurezza interforze. Dentro, il caos. Poi l’intervento del Gruppo di Intervento Regionale da Milano, il ritorno alla normalità verso le otto di sera, le ambulanze che rientrano. E il sindacato di polizia penitenziaria che parla di “situazione molto grave” e chiede “interventi immediati” dagli organi ministeriali. La domanda è: quali interventi? Perché la risposta del governo è già scritta, nero su bianco, nel decreto sicurezza approvato ad aprile e diventato legge. È una risposta che non guarda alle cause, ma solo agli effetti. Non si chiede perché scoppiano le rivolte, ma come punirle meglio. L’articolo 26 del decreto introduce il nuovo reato di rivolta penitenziaria. Pena: da uno a otto anni di reclusione. Non serve la violenza. Basta la “resistenza passiva” se commessa da tre persone che “impediscono il compimento degli atti dell’ufficio”. Tre detenuti che condividono la stessa cella sovraffollata e si rifiutano di obbedire a un ordine della polizia penitenziaria, in modo non violento, rischiano otto anni aggiuntivi. Senza accesso ai benefici penitenziari, perché la rivolta viene equiparata ai reati di mafia e terrorismo. Antigone, l’associazione che monitora le carceri italiane, lo ha detto chiaro durante un’audizione alla Camera: è il ritorno al regolamento carcerario fascista del 1931. Quello in cui “i detenuti devono passeggiare in buon ordine e parlare a voce bassa”, in cui “sono assolutamente proibiti i canti, le grida, le domande e i reclami collettivi”. La trasformazione del detenuto in corpo docile che deve solo obbedire. Testa bassa, camminare lungo i muri, silenzio. Ma se guardiamo a Como, capiamo che questa norma non avrebbe impedito niente. Anzi. Centocinquanta persone hanno partecipato alla rivolta. Con il nuovo reato, tutti rischiano anni aggiuntivi di carcere. Chi è entrato per pochi mesi per un furto potrebbe rimanerci otto anni. Il sovraffollamento, già ingestibile, diventa una bomba a orologeria. Perché le rivolte non nascono dal nulla. Nascono da condizioni che nessuna legge sulla sicurezza si preoccupa di affrontare. Il carcere Bassone di Como, come quasi tutti gli istituti italiani, è sovraffollato. Le sezioni sono piene oltre la capienza. I servizi non bastano. Gli agenti sono in numero insufficiente e lavorano sotto pressione costante. E quando succede qualcosa - un tentativo di evasione, un provvedimento disciplinare - la tensione esplode. Non è un problema di ordine pubblico. È un problema strutturale. Eppure il decreto sicurezza va nella direzione opposta. Più reati, più pene, più repressione. Non solo per la rivolta in carcere, ma anche nei centri di permanenza per i migranti. Stessa logica, stesso fallimento annunciato. Invece di ridurre i tempi di trattenimento, di rendere più umane le condizioni, di garantire accesso ai trattamenti sanitari e alla comunicazione con l’esterno, si punta tutto sulla minaccia della sanzione penale. Antigone usa parole pesanti: “militarizzazione della detenzione amministrativa”. E aggiunge che l’amministrazione, invece di prevenire le cause delle rivolte, “opta inesorabilmente e unicamente per la minaccia della sanzione penale quale illusoria panacea di tutti i problemi”. Illusoria, appunto. Perché la storia ci insegna che più si inaspriscono le pene, più si crea tensione. E la tensione, in un ambiente chiuso e sotto pressione come il carcere, non si dissolve. Esplode. A Como è esplosa ieri. Esploderà ancora, da qualche altra parte, domani o dopodomani. E la risposta sarà sempre la stessa: più anni di galera. Un circolo vizioso che non porta da nessuna parte se non verso un sistema carcerario sempre più autoritario, sempre più lontano dall’idea di rieducazione scritta nella Costituzione. Gli agenti di polizia penitenziaria lo sanno bene. Sono loro a subire le conseguenze di questo sistema. Loro a trovarsi in mezzo alle rivolte, a rischiare la pelle. E quando chiedono “interventi immediati”, non parlano solo di ordine pubblico. Parlano di organico insufficiente, di strutture inadeguate, di un sistema che non regge più. Ma il governo risponde con un codice penale più severo, non con riforme che restituiscono dignità e funzione rieducativa della pena. La verità è che il decreto sicurezza non serve a prevenire le rivolte. Serve a gestire la paura. A dare l’impressione che si stia facendo qualcosa, che il problema sia sotto controllo. Ma il problema non è sotto controllo. È solo spostato un po’ più in là, compresso, lasciato marcire. Finché non esplode di nuovo, come è accaduto a Como. E allora torneremo a leggere gli stessi comunicati, le stesse dichiarazioni, le stesse richieste di interventi urgenti. Senza mai guardare alla radice del problema. Perché guardare alla radice significherebbe ammettere che il carcere così com’è non funziona. E che nessuna legge sulla sicurezza potrà mai cambiarlo. Ragazza di 24 anni in cella incinta, vince la banalità del male di Simona Musco Il Dubbio, 17 novembre 2025 “Bene così!”, twitta entusiasta Matteo Salvini, vicepremier e ministro delle Infrastrutture, il cui spirito, per quanto traslocato nella sede di un altro ministero, sembra ancora radicato nel Viminale. La causa di questa esultanza è una notizia che rimbalza rapidamente sui suoi social: l’arresto di una donna di 24 anni, di origine slava, accusata dalla procura di Venezia di borseggiamento. Una donna incinta, per di più. Il post, accompagnato da un simbolico applauso virtuale, non manca di mostrare l’immancabile immagine a corredo di tutti i suoi tweet: una foto, realizzata con intelligenza artificiale, che ritrae il pancione di una donna, mentre la stessa tiene in mano un portafogli e un cellulare, quasi esibendoli con fare provocatorio. Un’immagine che non lascia spazio a interpretazioni: parla direttamente alla pancia - quella vera - di un elettorato leghista che si nutre di paura e di ordine, soprattutto quando si tratta di stranieri e comportamenti devianti. La vicenda si inserisce nel quadro del decreto Sicurezza, approvato con rapidità mentre la discussione era in corso al Parlamento, e che ha modificato, tra le altre cose, anche le modalità di detenzione per le donne in gravidanza o con figli minori di un anno. Il decreto, in effetti, ha introdotto l’obbligo - e non più la facoltà - di eseguire la custodia cautelare in strutture di custodia attenuata per queste donne, limitando di fatto le possibilità di ricorrere a misure alternative alla detenzione. Tuttavia, il giudice conserva comunque la discrezione di valutare l’interesse preminente del minore, anche in caso di condotte particolarmente gravi da parte della madre. Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno, aveva commentato il decreto dichiarando: “Non vogliamo penalizzare le donne incinte, ma non possiamo tollerare che la condizione di maternità venga strumentalizzata per compiere reati, come nel caso delle borseggiatrici”. E la 24enne arrestata a Venezia, secondo Salvini, rappresenta proprio il paradigma di tale abuso. Le reazioni, tuttavia, non si sono fatte attendere. Sandro Ruotolo, membro della segreteria nazionale del Partito democratico, ha condannato con fermezza il tweet di Salvini: “Se ne vanta sui social il vicepremier e leader della Lega, Matteo Salvini, - dice Ruotolo - di aver mandato in carcere una borseggiatrice incinta, arrestata a Venezia nonostante lo stato di gravidanza. Sa che esistono le misure alternative alla detenzione, previste proprio per tutelare la maternità e i diritti dei minori? Che futuro avranno quei bambini?”. Un interrogativo che pone in luce la contraddizione di un sistema che, pur invocando la sicurezza e l’ordine, rischia di sacrificare la protezione dei più vulnerabili: i bambini. Nel frattempo, dentro la Lega, è una vera e propria festa. Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari e quello all’Interno Nicola Molteni rivendicano con orgoglio il successo della linea dura voluta dal loro partito. “Le norme volute dalla Lega - commentano - funzionano. Avanti con decisione contro il detestato fenomeno dei borseggi. La Lega - aggiungono - ha già depositato una proposta per ripristinare la procedibilità d’ufficio in tutti i casi di furto con destrezza e che fa parte del pacchetto pronto per il nuovo provvedimento che il governo adotterà sulla sicurezza. Ciò consentirà alle forze dell’ordine e alla magistratura di intervenire in modo più rapido ed efficace, senza costringere le vittime a presentare querela o a sostenere adempimenti burocratici”. Anche Paolo Siani, medico e parlamentare del Pd, ha commentato l’arresto e la successiva esultanza di Salvini. “Senza fare sconti di pena a nessuno e senza lasciare impunite le donne che commettono reati - ha dichiarato Siani - è fondamentale che si rispetti l’interesse supremo del minore, come sancito dall’articolo 3 della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, che l’Italia ha ratificato. Questo principio deve guidare ogni istituzione, tribunale e autorità pubblica, nell’adottare misure che tutelino appieno i diritti dei bambini”. L’appello di Siani richiama la necessità di garantire una giustizia che non calpesti i diritti fondamentali dei minori, anzi, che li metta al primo posto. Non solo le voci politiche si sono alzate contro l’iniziativa: anche il Massimario della Cassazione, con una relazione che poi è finita sotto il mirino della politica, aveva già evidenziato i rischi di un provvedimento che potrebbe ledere i diritti del minore, violare la Costituzione e le convenzioni internazionali, nonché discriminare le donne più vulnerabili. La preoccupazione è quella di un ritorno a un modello punitivo, che sacrificando la funzione rieducativa della pena, minaccia di indebolire la protezione del legame madre-figlio, il quale dovrebbe rimanere, nonostante tutto, un pilastro imprescindibile del nostro sistema giuridico. In questo scenario, la sicurezza appare come un concetto sfocato e ambiguo: una promessa di ordine che, però, rischia di compromettere i diritti delle persone più deboli. E mentre il governo di Salvini e compagni gongola, la società civile, i giuristi e i progressisti si interrogano se, davvero, la “sicurezza” debba passare attraverso una violazione dei diritti umani e la criminalizzazione di chi, per legge, dovrebbe essere protetto. Criminalità e sicurezza: cos’è propaganda e cosa realtà? di Milena Gabanelli Corriere della Sera, 17 novembre 2025 Quindici nuovi reati, ma agenti sottorganico (e pene inapplicabili): cosa si sta facendo davvero contro la criminalità? È il 6 novembre e Giorgia Meloni consegna ai social la sua irritazione per le critiche rivolte al governo che non avrebbe investito nulla sulla sicurezza: “Negli ultimi tre anni abbiamo già assunto circa 37.400 agenti nelle Forze di Polizia e prevediamo, da qui al 2027, altre 31.500 assunzioni. Abbiamo sbloccato investimenti fermi da tempo e potenziato mezzi, strutture e tecnologie, previsto strumenti più rapidi ed efficaci e introdotto pene più severe”. È vero, sono stati introdotti 15 nuovi reati, dai rave al blocco stradale da parte di manifestanti, all’occupazione abusiva, e aumentate le pene, per esempio fino a 5 anni di reclusione nei casi di accattonaggio con minori. Ma basta rispondere a ogni problema con nuove fattispecie di reato o inasprimenti di pena? Dopo tre anni si possono valutare i risultati andando a vedere le risorse stanziate e le forze in campo. Le Forze di Polizia - Il turn over dell’organico, bloccato nel 2010 dal governo Berlusconi poi confermato da Mario Monti, è stato sbloccato nel 2016 dal governo Renzi. Veniamo a oggi con i dati del ministero dell’Interno: a fine 2023 c’era un buco di organico nella Polizia di Stato di 10.271 unità. A fine 2024 era salito a 11.340. L’anno prossimo entreranno 4.500 nuovi agenti, ma in 6.000 andranno in pensione. La finanziaria prevede un taglio del 25% del turnover. Nel corso degli anni una decina di scuole di Polizia sono state chiuse, e questo si scontra con la necessità di reclutare rapidamente nuove forze: i corsi di formazione durano fra i 4 e 6 mesi invece di 12. E poi i giovani agenti (quelli che la patente ce l’hanno, perché il bando non ne prevede l’obbligo) vengono sbattuti sulle volanti: oggi 6.851 agenti hanno meno di 25 anni, mentre gli oltre 20mila che superano i 55 sono destinati principalmente al lavoro d’ufficio. Non va meglio con i Carabinieri, sottorganico di 12mila unità; alla Guardia di finanza mancano 5.905 uomini; infine, nella Polizia municipale, negli ultimi anni sono andati in pensione in 8.000, e rimpiazzati solo la metà (dati Anci). 2024: reati in aumento - La comparazione dei dati forniti dal Dipartimento di Polizia Criminale e del 2024 rispetto al 2023 (analizzati da Istat e dal Sole 24ore), confermano una tendenza in calo da tempo degli omicidi, ma in aumento i furti (3%), i reati legati agli stupefacenti (3,9%), le violenze sessuali (7,5%), le lesioni dolose (5,8%), le rapine (1,8%). Sono i reati che più influiscono sulla percezione di sicurezza dei cittadini. Il primo e secondo posto per numero di crimini lo incassano Roma e Milano, ma la statistica si fa sul numero dei reati rapportati a quello dei residenti e le grandi città sono popolate da studenti, lavoratori pendolari, turisti, che ne raddoppiano la popolazione. Su Milano per esempio gravitano ogni giorno 3 milioni di persone a fronte di 1,4 milioni di residenti. Per questo motivo le altre città dove i reati di allarme sociale sono cresciuti di più sono: Firenze, Bologna, Torino. Sul primo semestre del 2025 a livello nazionale c’è invece una tendenza generale al calo (meno 4,9%), ad eccezione dei furti in esercizi commerciali. La situazione poi ovviamente cambia da provincia a provincia: a Bergamo sono in aumento le lesioni dolose, minacce e violenze sessuali; a Milano i furti con strappo; a Bologna i danneggiamenti; a Brescia i reati legati agli stupefacenti. Nelle province di Firenze, Aosta, Alessandria, Asti, Bolzano, Foggia, Gorizia, Lecco, Lodi, La Spezia, Massa Carrara, Pistoia, Monza e Brianza, Novara, Padova, Pordenone, Prato, Reggio Emilia, Sondrio, Trento, Varese, Vercelli, il numero totale dei reati negli ultimi sei mesi è salito. Per sapere se questa tendenza si conferma o meno bisognerà attendere l’anno prossimo, quando sarà disponibile il consolidato su tutto il 2025. Occorre poi precisare che si tratta sempre di numeri relativi ai reati rilevati, e non a quelli reali perché spesso le vittime non denunciano: c’è la convinzione di perdere tempo e non risolvere nulla. Pene più severe ma inapplicabili - Il decreto Sicurezza presentato come scudo a maggior protezione dei cittadini si scontra con un contesto dove non è cambiata una virgola. Aumentare le pene non serve a nulla se poi non si è in grado di applicarle. Per i piccoli reati in flagranza commessi da incensurati (spaccio, borseggio, furto, danneggiamenti) c’è l’arresto e l’immediata rimessa in libertà, con la conseguente reiterazione del reato. La norma prevede di destinarli a un periodo di lavori socialmente utili, ma mancano le strutture disponibili e gli uffici che se ne devono occupare. Le misure a seguito di indagini invece devono fare i conti con la riforma Nordio che impone la convocazione prima dell’arresto, e succede che l’indagato magari non si presenta al giudice: 22 borseggiatrici a Venezia sono scappate. Il sistema giudiziario, da tempo in grave affanno per carenza di organico, è rimasto tale; mentre quello penitenziario è al collasso: carceri sovraffollate, suicidi in costante aumento, percorsi di reinserimento e pene alternative praticamente paralizzati. Oggi oltre 100.000 persone, condannate in via definitiva a pene inferiori ai quattro anni, attendono ancora l’assegnazione di una misura alternativa, come i servizi di pubblica utilità. Con gravi ripercussioni anche sulla giustizia minorile, dove la situazione è ancor più grave e delicata. Fronte migranti - Il 34,7% dei reati è commesso da stranieri, di cui il 70% da irregolari e quasi sempre connessi ad una condizione di marginalità. Non ha aiutato lo smantellamento del sistema integrato di accoglienza per i richiedenti asilo gestito dagli enti locali insieme al ministero dell’Interno. E tantomeno l’azzeramento dei pochi centri di integrazione e l’eliminazione dell’insegnamento della lingua italiana nei Cas. Il “blocco navale” invocato a gran voce per fermare ogni approdo non c’è stato, anche perché di impossibile attuazione. L’operazione “Albania” si è rivelata un fallimento, tanto prevedibile quanto costoso. Al di là della retorica sulle procedure accelerate, il vero nodo resta quello dei rimpatri effettivi, che richiedono una forte e persistente collaborazione dei Paesi di origine. Dopo 3 anni di continuità di governo la realtà è lontana dalle aspettative. Nonostante gli sforzi rivendicati, i risultati restano modesti: le percentuali di incremento, per quanto sbandierate, sono inferiori a quelle degli anni passati. I rimpatri fra il 2017 e 2019 sono stati 19.400, quelli del governo Meloni al 31 luglio 2025 sono stati in tutto 13.600. La colpa è sempre dei sindaci - I minori stranieri non accompagnati sono in aumento: 16.500 al 30 giugno di quest’anno, la maggioranza sono maschi. E lo Stato li scarica sui Comuni. La spesa sostenuta per i servizi resi nel triennio 2023-2025 è pari a 200 milioni di euro, ma finora il ministero dell’Interno ha erogato solo il 35%. I comuni della Sicilia, Campania, Emilia Romagna, Lombardia (dove c’è la maggior concentrazione di minori) si trovano con buchi di bilancio e la gestione di un impegno delicato, con evidenti ricadute sulla coesione sociale, sicurezza e decoro urbano. La responsabilità dei sindaci è creare situazioni che fermino il degrado e di investire nei centri di aggregazione giovanile per frenare l’espansione delle baby gang. I reati commessi da minori non sono mai stati così drammaticamente alti. Ai Comuni sono stati tagliati 2 miliardi di euro di trasferimenti. Dal Fondo Nazionale Sicurezza sono stati distribuiti in tutto, su tutti i Comuni, 25 milioni di euro per l’installazione di telecamere, provvedere all’illuminazione delle zone buie, e rigenerare le aree problematiche. Per l’edilizia popolare nemmeno un euro. E mentre si diffonde la legge del più forte, la Polizia municipale è cronicamente sottorganico. E i cittadini se la prendono con i sindaci. Ma come funziona la macchina di sicurezza pubblica? Ognuno per conto proprio - Il Ministro dell’Interno è l’Autorità nazionale di ordine e sicurezza pubblica, e definisce le strategie da applicare sul territorio, che vanno di pari passo con l’autorità giudiziaria. Il suo braccio esecutivo è il Capo della Polizia: a lui fanno riferimento la polizia stradale, postale, ferroviaria, questure, commissariati, e le strutture interforze (Interpol, direzione antidroga, antimafia, cooperazione internazionale), a loro volta composte anche da carabinieri e finanzieri. Sul territorio, dove la percezione del cittadino sulla sicurezza è diretta, c’è il prefetto che recepisce le direttive del ministro e quelle operative del capo della Polizia. Per esempio: il ministro può spingere i provvedimenti di espulsione o alla cattura dei borseggiatori. L’operatività è affidata al questore, che per legge (n. 121 del 1981), deve coordinare poliziotti, carabinieri, Guardia di finanza, vigili urbani. In che modo? Il prefetto convoca il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica in cui siedono tutti, anche il sindaco del capoluogo, e si individuano le priorità. A questo punto immaginiamo che in una grande città, per esempio Milano, ci sia un’unica centrale operativa dove il questore, a cui tutti rispondono, indica le zone problematiche da coprire e quanti poliziotti, carabinieri, finanzieri e polizia municipale devono ruotare nel corso della giornata. Nella realtà, ci spiega l’ex direttore generale di Pubblica Sicurezza Franco Gabrielli, ricevuta la direttiva, la città viene divisa in zone, nell’ambito delle quali ognuno opera rispondendo al proprio capo: i carabinieri al Comando provinciale dei carabinieri (ministero Difesa), la Guardia di finanza al Comando provinciale della guardia di finanza (Mef), e la Polizia municipale al Sindaco. Oggi molto si regge su rapporti di forza e relazioni personali tra gli attori; quando gli ingranaggi scorrono, il sistema regge, ma in caso di attriti diventa ingestibile Le resistenze degli apparati - Concretamente: la chiamata al 112 per una rapina in corso Venezia viene smistata dall’operatore alla Polizia, perché in quel momento opera in quella zona. La volante arriva, i rapinatori scappano verso piazzale Loreto, che è sotto il controllo dei carabinieri. L’agente che si mette all’inseguimento, deve chiamare la sua centrale, che avvisa il comando dei carabinieri. Quindi succede che più macchine convogliano nella stessa zona, dove ognuno però risponde al proprio Comando, perché di fatto un coordinamento unico non c’è, a causa delle resistenze degli apparati. Le stesse resistenze che impediscono alla Polizia municipale di accedere alla banca dati interforze, nonostante sia prevista per legge dal 2017. Vuol dire che se la Municipale ferma un’auto per un controllo, deve chiedere alla propria centrale, che a sua volta chiede alla questura o al comando provinciale dei carabinieri di verificare al terminale la targa dell’auto e il nome del fermato. Una triangolazione che richiede un tempo sufficiente a mettere in pericolo gli ignari vigili perché magari si tratta di un pericoloso ricercato, o a consentirne la fuga. Inoltre viene ingolfata l’intera macchina operativa. L’esito di tutto questo è una dispersione di risorse e certamente non una maggior sicurezza, in un periodo in cui, purtroppo, nella società rischia di appalesarsi la legge del più forte. Una realtà che comporta un cambio di paradigma sul fronte dell’organizzazione delle forze di polizia e delle attività di prevenzione. Secondo gli operatori che stanno in prima linea, affrontare questo tema in modo propagandistico potrebbe portare a situazioni fuori controllo. Italia Paese sicuro? I dati “reggono”. Ma è boom di minori denunciati di Emilio Minervini Il Dubbio, 17 novembre 2025 Nel 2024 le denunce salgono a 2,38 milioni: furti, rapine e violenze sessuali in crescita, minori sempre più coinvolti. Aumentano i delitti denunciati in Italia: nel 2024 sono stati 2.38 milioni, dato che segna un aumento dell’1,7% rispetto al 2023 e del 3,4% dal 2019 e, pur rimanendo inferiore dalle cifre di dieci anni fa di 15 punti percentuali, segna il quarto anno consecutivo di aumento delle denunce e il secondo in cui sono superati i livelli pre-pandemici. A delineare il quadro relativo alla sicurezza in Italia sono le statistiche della banca interforze del dipartimento di Pubblica sicurezza del ministero dell’Interno, fornite in esclusiva al Sole 24 Ore nell’ambito del rapporto annuale sulla qualità di vita. I furti compongono la maggioranza dei reati denunciati: rappresentano il 44% del totale e sono aumentati del 3% rispetto al 2023, spinti dall’aumento dei furti in abitazione, saliti del 4,9%, dei furti di automobili, cresciuti dell’1,7%, e dei furti con destrezza con un più 0,6%. Per quanto riguarda le altre fattispecie di reato si è registrato l’incremento dei delitti di strada rispetto all’anno precedente, tra cui le rapine, aumentate del 1,8%, i reati legati agli stupefacenti, saliti del 3,9%, le violenze sessuali drammaticamente cresciute del 7,5%, le lesioni dolose, lievitate del 5,8%, e i danneggiamenti incrementati dell’1,6%. Scendono invece il contrabbando, giù del 38%, gli incendi dolosi, calati del 5,3%, e le truffe informatiche, diminuite del 6,5%, anche se su quest’ultimo dato potrebbe pesare la scarsa propensione alla denuncia della fattispecie. Nel 2024 sono state denunciate o arrestate 828.714 persone, dato che presenta un delta positivo su quello relativo al 2023 ma diminuito del 3% rispetto al 2019. I minori segnalati sono stati 38.247, numero cresciuto del 16% rispetto al 2023 e di circa il 30% dal 2019. Secondo le statistiche un arrestato ogni quattro per rapina ha meno di 18 anni. Mentre le persone di cittadinanza straniera denunciate o arrestate nel 2024 sono state 287.396, numero che ha subito un incremento dell’8,1% rispetto al periodo pre-pandemico. Gli stranieri rappresentano circa un terzo delle persone segnalate e per certe fattispecie di reato, in particolare reati predatori come il furto con destrezza, il furto con strappo o le rapine in pubblica via, l’incidenza supera il 60%. I dati provvisori relativi al primo semestre del 2025 però indicano un calo del 4,9% delle denunce rispetto allo stesso periodo del 2024 e fanno ben sperare, anche se bisognerà aspettare l’impatto sulle statistiche delle 14 nuove fattispecie di reato introdotte con il Dl 48/2025 (Decreto sicurezza), convertito in legge lo scorso giugno. Nella classifica stilata dal quotidiano meneghino sull’Indice della Criminalità, Milano è in testa a quota 225.786 reati denunciati e un rapporto di 6.952 ogni 100mila abitanti, con una media di 618 reati denunciati ogni giorno. Sul podio troviamo anche Firenze (64.392 con 6.507 ogni 100mila abitanti) e Roma (270.407 con 6.401 ogni 100mila abitanti), seguite da Bologna (61.816 con 6.055 ogni 100mila abitanti) e Rimini (20.425 con 5.995 ogni 100mila abitanti). Inoltre, Milano, Roma e Firenze da sole raccolgono il 23,5% dei reati rilevati. Le città metropolitane sembrano fare da catalizzatrici dei fenomeni criminali: su 14 città metropolitane presenti in Italia, ben 7 si trovano nelle prime dieci della classifica stilata dal Sole24Ore e tutte insieme pesano per quasi la metà dei reati denunciati in tutta la penisola: il 47,9%, registrando un aumento del 3,9% rispetto al periodo 2009-2019. Per avere un quadro più chiaro del fenomeno però bisogna contestualizzare i dati che lo definiscono. Le città metropolitane ospitano il 36,2% dell’intera popolazione italiana - circa 21 milioni di abitanti sui quasi 59 milioni di cittadini italiani totali residenti sul territorio nazionale - nelle ore diurne inoltre i grandi centri attirano pendolari, studenti, turisti che, sommandosi agli abitanti, portano la popolazione delle città ad aumentare esponenzialmente. Ad esempio Roma, nel corso del 2024, ha registrato 22 milioni di arrivi, numero rimasto stabile quest’anno anche se solo durante la scorsa estate sono stati registrati 1,7 milioni di arrivi nella Capitale. Mettendo a confronto i dati relativi al 2019 e al 2024 però si nota come i reati denunciati nell’area metropolitana del capoluogo lombardo siano diminuiti del 2% e rimangono in ogni caso al di sotto dei dati relativi al 2006 (290.652) e al 2014 (258.559). Il discorso è invece opposto per le altre città che occupano i piani alti della classifica: lo scorso anno Firenze ha visto aumentare le denunce del 7,4% rispetto al 2023 e bisogna andare indietro di diciassette anni per trovare dati superiori a quelli del 2024. A Roma le denunce sono cresciute del 5,9% dal 2023 e del 23% rispetto al 2019 raggiungendo i livelli registrati nel biennio 2013/2014. Bologna segna un aumento significativo nell’ultimo anno - il 9,6% - ma rimane comunque al di sotto ai dati del precedente decennio. Un discorso a parte va a fatto per i reati commessi dai minori per i quali esiste un pre e un post pandemia: dal 2020 al 2024 il numero dei minori denunciati, fermati o arrestati è stato in costante aumento. Nel 2019 sono stati segnalati 29.544 minori, mentre lo scorso anno sono arrivati a 38.247, il dato più alto registrato negli ultimi dieci anni. Nel complesso i minori segnalati rappresentano meno del 5% del totale e le denunce nei loro confronti si legano alle fattispecie predatorie come la rapina: una segnalazione su cinque coinvolge un minore e aumenta a uno su quattro per le rapine perpetrate in pubblica via. Anche per quanto riguarda la criminalità minorile il governo è intervenuto con il decreto Caivano (l.n. 159/23), che ha inasprito le pene legate ad alcune fattispecie di reato e ha ampliato quelle per cui è prevista la custodia cautelare in carcere. L’effetto del decreto è stato quello di aumentare drasticamente gli ingressi negli Istituti penali per minorenni (Ipm). Nel corso del 2023 sono stati registrati 1.143 ingressi negli Ipm, cifra record degli ultimi 15 anni, mentre i minori detenuti a inizio del 2024 erano 500, per trovare un numero simile bisogna andare indietro di 10 anni, in particolare gli ingressi per reati legati agli stupefacenti nel 2023 sono aumentati del 37,4%. Fino a pochi anni fa, per vedere, ascoltare o leggere notizie di cronaca relative alla criminalità bisognava fare affidamento, a meno di casi eclatanti, sulla “coda” dei telegiornali, dei radiogiornali o sulle pagine di cronaca locale dei quotidiani. Ora basta accedere ad un social network per trovarsi sbattuto in faccia il video di turno della rapina, furto o pestaggio diventato “virale” nelle ore precedenti e in certi casi pubblicato dagli stessi esecutori del reato. Questi video poi vengono rilanciati da pagine che dichiarano di voler fare “vera informazione”, secondo il mantra lanciato da Musk “you are the media now”, che vorrebbe trasformare in reporter ogni persona munita di un telefono, spesso giocando sulla facile leva della rabbia, dell’indignazione e della paura per perseguire fini economici e politici. Con la retorica delle città sotto assedio la destra non si accorge di distruggere l’interesse nazionale di Errico Novi Il Dubbio, 17 novembre 2025 È un governo di destra. Così lo definiscono, o almeno lo considerano, le prime linee di FdI e Lega. Dovrebbe dunque tenere, per “statuto”, all’immagine del Paese, o della “Nazione”, comunque vogliamo definire l’Italia. Bene. Siamo sicuri che un simile, indispensabile prerequisito di qualsiasi destra sia compatibile con un altro ricorrente assioma delle politiche conservatrici, vale a dire l’investimento sulla sicurezza a colpi di nuovi reati e pene continuamente al rialzo? Il quesito sembra legittimo. Perché l’Italia come “Paese insicuro”, infestato dall’illegalità, dalla corruzione come dai criminali di strada, quest’idea sotterranea e spesso sfacciata, stride in modo clamoroso con la difesa dell’interesse nazionale. Ed è semplice spiegare perché, a cinque mesi dalla definitiva conversione in legge dell’ennesimo decreto sicurezza (il numero 48 del 2025). Il grado di illegalità, per esempio di corruzione, dei Paesi è da decenni affidato a una insensata metronomia: le graduatorie stilate da agenzie come Transparency, che ha quartier generale rigorosamente a Berlino. Graduatorie che si basano, uno pensa, su un instancabile lavoro di raccolta dati dalla magistratura e dal ministero. Macché: la fonte, unica, di tali classifiche, che di solito ci scaraventano in posizioni di poco superiori al Rwanda, sono le interviste. La percezione. Noi siamo un paese corrotto in virtù della cosiddetta corruzione percepita. Lo dice, quasi inascoltato, da anni, Gian Maria Fara, inventore e presidente dell’Eurispes. Ora, con la sicurezza è più o meno la stessa cosa. È dai tempi dell’ultimo Berlusconi che il metro della criminalità di strada, almeno il “dato” sul quale si basano le scelte politiche in campo penale, sono le sensazioni. Le interviste. A volte i format televisivi, trasmissioni che setacciano l’Italia a caccia di esempi e videoclip orientati sempre nella stessa direzione. Fino a produrre nel legislatore spinte, compulsioni irrefrenabili, come quella che ha portato a introdurre, nel codice, attraverso il già citato decreto 48/2025, fattispecie come la “occupazione arbitraria di immobili”, ampiamente perseguibili con le norme già in vigore. Qual è il punto? Che con la “retorica della (in)sicurezza”, con le forzature legislative basate sulle impressioni, si legittima proprio il metodo con cui la berlinese Transaparency descrive l’Italia come il più schifosamente corrotto dei Paesi occidentali. Si conferma un approccio, una logica basata sul rumore di fondo, sul vociare dei media, piuttosto che sulla realtà. E c’è un’aggravante: perché per la corruzione, certo, il raffronto sarebbe complicato, considerato che in Paesi in cui le indagini sul malaffare pubblico sono condotte da prosecutor sotto il controllo dell’Esecutivo (in Spagna, Francia e, guarda caso, in Germania, oltre che nei Paesi anglosassoni), il tasso di corruzione politica risulterà sempre invariabilmente inferiore al nostro, e quindi anche se Transaperency girasse per i palazzi di giustizia anziché nei bar, cambierebbe poco. Ma sulla sicurezza, caspita: ogni anno il Viminale sforna dati basati sugli atti formali, cioè sulle denunce e le condanne, e quei dati dicono che la realtà è un’altra, con i reati di strada nettamente inferiori rispetto all’Italia di dieci anni fa. E invece noi ci basiamo sulle voci da caffè o da bacheca social, sforniamo decreti sicurezza ed eleviamo così al rango di oracoli elementi del tutto inattendibili, nonostante lo stesso governo abbia a disposizione i numeri reali. È una forma sofisticatissima di masochismo. Un masochismo di destra, anti-nazionalista, a voler usare le categorie della destra. Lo chiediamo con il tono e le parole del grande Luciano De Crescenzo: “Ma vi siete fatti bene i conti? Ma vi conviene?”. La ricetta securitaria non funziona: servono inclusione sociale, prossimità dei servizi, città più vivibili di Valeria Valente* Il Dubbio, 17 novembre 2025 Le città italiane sono più insicure, anche se al governo c’è il centrodestra da ormai tre anni, che ha fatto della sicurezza, nella teoria, il suo cavallo di battaglia. Secondo la banca dati interforze del Dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno, nel 2024 i reati hanno fatto registrare un aumento dell’1,7% rispetto all’anno precedente, con un incremento ancora più rilevante (+3,84%) della microcriminalità di strada, come le rapine ma anche la violenza sessuale (+7,5%) e i furti, anche in appartamento (+4,9%). Roma, Milano e Firenze occupano il podio del nuovo indice della criminalità del Sole 24 ore, perché è nelle prime tre grandi città italiane che si concentra il 23,5% dei 2,38 milioni di illeciti rilevati. È dunque allarme sicurezza, come farebbe pensare il discorso pubblico dell’Esecutivo Meloni e soprattutto il suo continuo ricorso a nuove fattispecie penali? In realtà, a ben guardare, se da un lato si conferma una crescita dei reati, già iniziata a partire dalla fase post Covid e in coerenza con una situazione di criticità economica e sociale, i valori restano lontani da quelli di 10 anni fa (-15% rispetto al 2014). Una fotografia variegata, dunque, che ci dà ragione, come Pd, di un atteggiamento di maggiore cautela, ma che conferma che le ricette del governo della destra sono totalmente inefficaci. La sicurezza è importante per i cittadini, è il presupposto per l’esercizio delle libertà fondamentali. Ma non si produce sicurezza, come fa la destra, ricorrendo a nuovi reati mentre si continua a parlare “alla pancia” del Paese e a soffiare sul fuoco delle incertezze e delle paure dei cittadini, senza però mettere in campo politiche efficaci e risorse. A fronte di vari provvedimenti sulla sicurezza, culminati con il celebre decreto, convertito nella legge 80/2025, che ha istituito ben 14 nuove fattispecie di reato e 9 aggravanti, anche con profili discutibili e di varia inumanità, con il governo Meloni le risorse per il comparto sono progressivamente diminuite. Come abbiamo rilevato come Pd nella Commissione Affari costituzionali del Senato in un parere alla manovra 2026, le misure adottate dal governo sono largamente insufficienti per consentire alle forze del comparto sicurezza di disporre dei mezzi e del personale necessari per poter svolgere un’effettiva attività di prevenzione e di tutela della sicurezza dei cittadini. Viene garantito almeno il turn over al 100% dei pensionati, ma i carichi di lavoro e la carenza di personale e mezzi rimangono gravi. In particolare le forze di Polizia lamentano un deficit dell’organico generale che si aggira attorno al 10% e ancora maggiore del personale sanitario, tecnico e dei ruoli intermedi, con un fabbisogno di risorse umane stimato in 12 mila allievi agenti, 2000 vice ispettori e 100 medici nel triennio. Non solo. A questo si aggiunge una miopia che possiamo definire storica del centrodestra, che riesce a produrre risposte solo securitarie senza considerare l’enorme ruolo della prevenzione, che in questo settore si gioca soprattutto sulla capacità delle città di includere, integrare, anche attraverso l’urbanista socialmente sostenibile, generare opportunità di occupazione, formazione ed educazione, cultura, sport, soprattutto nell’attuale difficile congiuntura economica. La lotta alla baby gang in crescita si combatte, specie nei grandi centri urbani, anche con interventi di questo tipo. Voci di spesa sulle quali però l’Anci continua a lamentare tagli ai Comuni, confermati dalla nuova legge di Bilancio in discussione al Senato. Come ha sottolineato il presidente Gaetano Manfredi all’assemblea annuale, le tre grandi priorità dei centri urbani trascurate dalla manovra sono il welfare locale e l’assistenza agli studenti disabili, la sicurezza sui cui servono anche risorse per assumere i vigili urbani e la casa, a partire dal sostegno agli affitti per le famiglie in difficoltà. Tutto questo nell’ambito di una manovra finanziaria che non stanzia fondi sufficienti per la sanità, per il welfare, per il caro affitti, per il sostegno economico e sociale dei cittadini e delle famiglie meno abbienti, alle prese con difficoltà che creano emarginazione, non solo per i migranti ma anche per gli italiani. È proprio dal disagio sociale che può nascere l’insicurezza, sia reale che percepita. Ma con tutta evidenza la destra considera irrilevante il concreto miglioramento delle condizioni di vita delle persone, nelle città, perché costoso da affrontare, mentre gli interventi sul codice penale assicurano una risonanza mediatica a invarianza di spesa. Proprio per questi motivi il Pd ha dedicato la due giorni a Bologna “Città democratiche e progressiste”, con la segretaria Elly Schlein, ai sindaci e alle amministrazioni locali, per parlare soprattutto di sicurezza e ordine pubblico. La sicurezza non si garantisce alle cittadine e ai cittadini promulgando nuove leggi penali e cavalcando lo scontro sociale, ma con l’inclusione sociale, il presidio del territorio, la prossimità dei servizi, la vivibilità delle città. *Senatrice del Partito Democratico “Zone rosse”, i nuovi confini urbani di Marica Fantauzzi Il Dubbio, 17 novembre 2025 Create per limitare l’accesso a determinate aree per soggetti considerati pericolosi, sono al centro di una crescente contestazione giuridica e sociale. In Italia esistono intere aree urbane sottratte alla libera circolazione delle persone. O meglio, di alcune persone. La piazzetta di periferia o la via principale di un quartiere possono essere interdette a soggetti considerati pericolosi, tanto da predisporne l’allontanamento. Dal 2024 le zone rosse possono essere attivate dal prefetto, teoricamente per un periodo di tempo limitato e per ragioni straordinarie, in quartieri considerati problematici poiché segnati da episodi di microcriminalità. Questo, a oggi, sarebbe il modo più adeguato per garantire la convivenza civile all’interno delle nostre città. O questo almeno è quanto sostiene il ministero dell’Interno quando auspica che sempre più città adottino queste misure. Le prime a sperimentarle - per direttiva ministeriale - sono state Bologna, Firenze e Napoli, poi, nel 2025, anche Roma, Milano, Perugia e Venezia. In quest’ultima città, il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, presieduto dal prefetto Darco Pellos, ha riattivato la zona rossa a seguito dell’accoltellamento di un giovane. Secondo Pellos, tali misure “hanno dato dei risultati apprezzabili e sono provvedimenti accolti favorevolmente dai cittadini”. Garantirebbero alla collettività di poter fruire degli spazi pubblici, senza “subire pregiudizio da comportamenti posti in essere da parte di soggetti o gruppi di persone, già denunciati per attività illegali o violente. Comportamenti che, sebbene non costituenti violazione di legge, possano essere da ostacolo al pieno godimento delle aree cittadine”. La nota della prefettura di Venezia chiarisce bene come la direttiva abbia carattere preventivo e che quindi si rivolga a persone che potenzialmente rappresentano un pericolo, limitandone o vietandone la circolazione sulla base di una segnalazione. Ampliando il contesto storico in cui queste misure sono state varate, molti osservatori hanno sottolineato come le zone rosse siano in perfetta continuità con strumenti come il foglio di via obbligatorio e il daspo urbano. La creazione di aree interdette - spesso in coincidenza con eventi politici, sportivi o di alto profilo - traduce in pratica strutturale una politica dello spazio, immaginata per essere straordinaria, fondata sulla selezione e sull’esclusione. A contare, quindi, non è tanto la sicurezza in sé, quanto la sua percezione e narrazione. Non sembra essere trascorso troppo tempo, quindi, da quando l’allora sindaco di Milano, Gabriele Albertini, nel 1997 disse: “In fondo i dati non sono poi così importanti (…) ciò che conta è la percezione dei milanesi. Magari la microcriminalità è stazionaria, ma vedere lo spacciatore nel giardino dove porto il bambino mi dà la sensazione di non essere protetto (…) Le operazioni che stiamo tentando per ridurre il disagio di certe zone a mio giudizio migliorano la percezione di sicurezza”. A proposito di scarsa attenzione ai dati, secondo il ministero dell’Interno, quelli pubblicati sugli allontanamenti disposti grazie alle zone rosse ne dimostrerebbero l’efficacia. A Firenze, ad esempio, ci sono stati 6.217 controlli e 68 allontanamenti, a Napoli 2.854 controlli e 11 allontanamenti. Eppure, questi numeri non dicono nulla a proposito del tasso di microcriminalità che, seppure in lieve crescita nell’ultimo anno, resta inferiore a quello della gran parte dei Paesi europei. Secondo Andrea Chiappetta, che fa parte del team legale che ha promosso il ricorso contro le zone rosse a Napoli e che ha messo insieme un arcipelago di associazioni impegnate sul territorio, questi provvedimenti creano delle vere e proprie frontiere interne. “Non tutti coloro che attraversano la città possono godere liberamente di ogni zona della città stessa, ma c’è un accesso differenziato in base a principi del tutto discriminatori e che non hanno una loro ragion d’essere”. È dalla città partenopea, quindi, che prende forma la prima iniziativa contro la direttiva ministeriale. Per Chiappetta è stato un vero e proprio processo di liberazione dal basso: un intreccio tra saperi professionali, accademici, movimenti autonomi del centro cittadino che si sono incontrati e hanno dato vita a quella che definisce “una prassi costituzionalmente orientata contro un indirizzo politico difforme”. A luglio il Tribunale amministrativo regionale della Campania ha annullato l’ordinanza del prefetto di Napoli che prorogava fino al 30 settembre le zone rosse in città, affermando l’illegittimità dell’ordinanza prefettizia per difetto dei presupposti richiesti dall’articolo 2 del Testo Unico delle Leggi di pubblica sicurezza, ribadendo che non sussistono né una situazione eccezionale né nuovi elementi tali da giustificare l’adozione reiterata di poteri straordinari. “La pronuncia - si legge nel comunicato dell’Associazione per gli Studi giuridici sull’immigrazione - richiama con forza il principio per cui l’eccezione non può diventare regola ordinaria e ribadisce che la libertà di circolazione, garantita dall’articolo 16 della Costituzione, non può essere compressa per ordinanza”. A quarant’anni dal Trattato di Schengen, l’Italia riscopre i confini, ma al suo interno. Da Napoli la palla ora passa alle altre città d’Italia. Reggio Calabria. “Occorre il contributo della società per il reinserimento delle persone detenute” di Anna Foti ilreggino.it, 17 novembre 2025 La magistrata di sorveglianza Cinzia Barillà spiega: “A noi la responsabilità di valutare, alla comunità quella di accogliere e di offrire opportunità. Solo così garantiremo alla persona di riscattarsi e di tornare libera migliore di come è entrata in carcere”. “La possibilità di avere un riscatto sociale e di mettersi alla prova con un’attività lavorativa fuori dal carcere consente a loro di guardare oltre quel periodo di detenzione, ad un futuro più concreto di riscatto quando poi usciranno, e garantisce il recupero della libertà a persone che, dopo avere commesso un reato, tornano in società migliori di come sono entrate in carcere”. Il contesto è quello in cui nel carcere Giuseppe Panzera di Reggio, tanto nel plesso San Pietro e che in quello di Arghillà, latitano le opportunità di lavoro esterno, a fronte di un grave sovraffollamento. Sono in tutto sono oltre 560 i detenuti a fronte meno di 450 posti di fatto disponibili. Secondo i dati diffusi dall’osservatorio Carceri dell’Unione Camere Penali ad Arghillà su 294 posti regolamentari, 13 non sono disponibili, a fronte di 364 persone detenute. Al Panzera di Reggio su 180 posti regolamentari, 13 non sono disponibili, mentre i detenuti totali sono 199. “La situazione detentiva nelle carceri di Reggio rispecchia la crisi odierna delle carceri. Il sovraffollamento, purtroppo - prosegue la magistrata di sorveglianza, Cinzia Barillà - non implica soltanto che in una camera detentiva ci siano più persone di quante ne sarebbero previste. Significa anche che l’attenzione di educatori, magistrati, medici e personale deve essere prestata a un numero maggiore di persone. Sono di più, dunque, le persone detenute da assumere in custodia e in cura. Occorre fare rete e investire sull’esecuzione penale esterna con un coinvolgimento attivo della società civile per esempio per le offerte di lavoro e la possibilità di impiego utile dei detenuti. Non è un’utopia, è piuttosto l’unico modo per investire sulla loro messa alla prova. I cattivi fateli fare a noi. Le persone che potrebbero fruire delle opportunità di lavoro esterno sono persone che hanno superato una serie di vagli, con riferimento sia al reato commesso che al percorso rieducativo in detenzione. Hanno diritto ad avere la loro possibilità”. I percorsi trattamentali dovrebbero, dunque, essere implementati anche con attività di lavoro esterno, oltre che con corsi di formazione professionale che, secondo i dati rilevati dall’associazione Antigone, fanno molta fatica. Reti e sinergie fuori dal carcere per il carcere - “Se noi ci limitassimo alla sola attività istituzionale dovremmo rivolgerci al Dap e all’ufficio di Esecuzione penale esterna, che fanno un lavoro meritorio e al di sopra delle loro possibilità, non avremmo possibilità di favorire alcun miglioramento. I fondi che lo Stato riserva attraverso il Dap sono quelle indispensabili per pagare gli psicologi e le attività di supporto all’area educativa. Noi dobbiamo andare oltre - prosegue ancora la magistrata di sorveglianza, Cinzia Barillà - e lo facciamo creando sinergie entrando in rete con Prefettura, Confindustria, Confcommercio, con chiunque possa contribuire a superare queste barriere e questi pregiudizi. Non lo facciamo in un’ottica manichea e solidaristica ma perchè crediamo nella rieducazione come valore costituzionale e solo rimboccandoci un pò tutti le maniche, mettendoci al lavoro possiamo sperare in qualche risultato. Noi abbiamo la fortuna di poter contare su un grandissimo aiuto da parte del volontariato. Il volontariato nutre il nostro carcere e ci dà la possibilità di inserire attività di riflessione, di cinema alle quale anche noi come distretto abbiamo partecipato”. La lunga attesa - E dunque senza il volontariato, che non richiede risorse e economiche ma solo un grande impegno della società civile, tante attività non potrebbero essere svolte con conseguenze dirette sulla vita delle persone ristrette e private della libertà personale. Occorre, tuttavia, che vi sia anche uno slancio anche da parte dei segmenti in grado di contribuire fuori attraverso opportunità di reinserimento lavorativo. Il terreno futuro sul quale iniziare a costruire una nuova esistenza nella prospettiva della libertà, va preparato ancora prima di finire di scontare la pena. Ciò rientra nella funzione rieducativa della pena, prevista dalla nostra Costituzione. “La vita in carcere è chiaramente scandita dai ritmi costrittivi particolarmente afflittivi. Nel periodo Covid, e anche in qualche periodo precedente, con il cosiddetto regime a stanze aperte, il detenuto poteva stare più di otto ore fuori dalla cella, quantomeno muovendosi liberamente all’interno della sezione. Gradualmente tutto è tornato a un regime restrittivo più ferreo. Ciò significa che spesso un detenuto fuori dalla stanza, nella maggior parte dei casi occupata da 7-8 persone, sta solo due ore per la socialità e quattro di aria. Tutto il resto della giornata è scandito da una lunga attesa - conclude la magistrata di sorveglianza, Cinzia Barillà - che le attività trattamentali devono occupare, attuando la funzione rieducativa della pena. Ecco perchè occorre migliorare e occorre fare rete per fare di più insieme”. L’articolo 27 della Costituzione e il ruolo della società civile Seppure una riflessione sull’emergenza occupazionale endemica alle nostre latitudini e sulla necessità di maggiori investimenti dello Stato sui percorsi trattamentali - si vedrà quale sarà l’impatto di questo nuovo (ennesimo) piano carceri - sia doverosa, la sensibilizzazione della società civile su questo tema è essenziale. Non vi è altro modo per alimentare un senso di comunità capace di costruire ponti che uniscano e non muri che isolino. Giustizia è consentire di riparare, di rimediare. Giustizia è insegnare a imparare dagli errori, è insegnare a ricominciare. Il carcere, in uno stato di Diritto, è strumento solo e soltanto di questa Giustizia. Catanzaro. Laboratori artigianali all’Ipm, così insegniamo l’arte del pizzaiolo ai giovani detenuti catanzarochannel.it, 17 novembre 2025 L’iniziativa è frutto di un protocollo d’intesa con l’associazione “Un raggio di Sole”. L’obiettivo è formare professionalità in vista del ritorno in società. È stato firmato nei giorni scorsi un protocollo d’intesa tra l’associazione “Un Raggio di Sole”, presidente Piero Romeo, e l’Istituto Penale Minorile “Sandro Paternostro” di Catanzaro, direttore Francesco Pellegrino, per l’avvio del progetto, previsto domani, dal titolo “Libertà e Legalità” - Pizzaiolo. L’iniziativa è finanziata dal Fondo di Banca Bper Bene Comune e ha come obiettivo la riabilitazione e la reintegrazione sociale dei giovani detenuti. La formazione si pone come scopo l’abbattimento della recidiva, trasformandoli in risorsa sociale. Nello specifico, l’attività si svolgerà con la fattiva collaborazione della direzione dell’Istituto che ha condiviso appieno l’idea di svolgere lavoro vero e portare professionalità per creare percorsi volti al futuro inserimento nella società civile. Verrà creato un laboratorio artigianale dove i giovani detenuti, sotto la supervisione degli educatori dell’Istituto, da un tutor, Mario Pasceri, da un esperto pizzaiolo, Cristiano Binanti, e da un volontario del servizio civile dell’associazione, impareranno l’arte del pizzaiolo. Ai giovani detenuti, con turnazioni di cinque per volta, frequentante il corso, verrà riconosciuto un gettone incentivante di effettiva presenza. Inoltre, a fine progetto, verrà rilasciato un attestato di frequenza da poter utilizzare una volta tornati liberi alla vita quotidiana e sociale. Andria (Bat). Detenuti al lavoro nella produzione d’olio d’oliva di Aldo Losito Gazzetta del Mezzogiorno, 17 novembre 2025 Un altro tassello di crescita nel progetto diocesano del carcere alternativo, che ad Andria ha un nome imprescindibile: “Senza sbarre”. È stato siglato ieri mattina, un accordo tra la cooperativa sociale “A mano libera” e l’azienda andriese olivicola “Olio Levante”. Si tratta di un altro passaggio importante che segna il futuro della cooperativa sociale, portandola verso una maggiore autonomia. “Senza Sbarre” è un progetto nato nel 2018 che riguarda il reinserimento di detenuti ed ex detenuti nelle carceri pugliesi e italiane, ammessi a programmi alternativi alla detenzione, all’interno di un cammino di rieducazione e inclusione sociale, attraverso l’accoglienza residenziale e semi-residenziale. Il quartier generale della Masseria di San Vittore (ai piedi di Castel del Monte), al momento ospita una decina di detenuti, ma in passato ne ha anche avuti il doppio. Questi sono già protagonisti della lavorazione, produzione e commercializzazione di taralli che portano il nome della stessa cooperativa “A mano libera”. Oltre ai taralli, adesso il marchio identificherà anche la massima eccellenza del territorio: l’olio extravergine d’oliva. Le olive raccolte nei 58 ettari che circondano la sede della cooperativa, saranno molite nell’azienda Cassetta che provvederà all’imbottigliamento ed etichettatura. Quindi si adopererà anche per veicolare il prodotto nei propri canali commerciali. “Questa partnership con Olio Levante conferma l’importanza di avere al nostro fianco, partner di alto livello che possano sostenerci sotto il profilo della qualità - dice don Riccardo Agresti, presidente di “A mano libera” -. Questo ci permette di ottenere le garanzie e le certificazioni necessarie a darci maggiore consistenza sul mercato. La famiglia Cassetta ha dimostrato una grande sensibilità per i progetti sociali, indicando una proficua direzione di marcia anche per altri attori economici. Il nostro obiettivo è realizzare una vera e propria azienda dove i nostri ospiti possano diventare dipendenti stipendiati, seguendo le linee che ci indicano Costituzione Italiana e Vangelo”. L’accordo rappresenta un modello virtuoso di collaborazione tra settore sociale e impresa, con l’obiettivo comune di promuovere l’inclusione lavorativa attraverso la valorizzazione della qualità agroalimentare italiana. “In questa maniera dimostriamo la nostra volontà di essere un’azienda vicina alla comunità, contribuendo attivamente allo sviluppo del territorio - aggiunge l’amministratore unico di Olio Levante, Riccardo Cassetta. Fornire ingredienti, mettere a disposizione competenza, dare garanzie di qualità e trasformare la loro materia prima, significa concretamente ampliare gli spazi operativi della cooperativa, assicurandole una presenza forte e indipendente sui mercati”. Un mese fa “Senza sbarre” è diventata aps, associazione di promozione sociale, con presidente il magistrato Giannicola Sinisi, che da sempre ha assicurato il supporto tecnico-giuridico al progetto della diocesi di Andria. A sostenere ogni passo del progetto c’è l’associazione Antiracket del presidente Felice Gemiti. “Si tratta una sfida importante, perché questo progetto sociale incontra un imprenditore che sta interpretando fino in fondo la Costituzione Italiana - commenta Giannicola Sinisi -. La famiglia Cassetta, infatti, sta contribuendo al progresso sociale e spirituale della comunità. E questo darà un impulso fortissimo alla nostra attività”. Andria (Bat). Il progetto “Senza Sbarre” giunge a Trento, illustrato ai volontari delle carceri andriaviva.it, 17 novembre 2025 Il progetto diocesano “Senza Sbarre”, giunge a Trento, così da mostrarsi sempre più con la sua diffusione, una concreta alternativa alla detenzione in carcere. Don Riccardo Agresti e l’ex magistrato della procura barese Giannicola Sinisi, rispettivamente direttore generale e presidente della fondazione che si rifà al programma di rieducazione e reinserimento dei detenuti ed ex carcerati voluto dal vescovo delle diocesi di Andria Mons. Luigi Mansi, sono stati ospiti nei giorni scorsi della Consulta regionale dei volontari del Trentino Alto Adige. E’ stata Lucia Fronza Crepaz, rappresentante del Consiglio Direttivo dell’Associazione culturale “Scuola di preparazione sociale di Trento” nonché componente delle Consulta, ad accogliere gli ospiti andriesi, che erano con la Commissaria del Governo per la provincia Autonomia di Trento, Prefetto Isabella Fusiello insieme a Pina Marmo, nella veste di delegata per le relazioni con il terzo settore dell’APS “Senza Sbarre”. “Abbiamo iniziato qualche mese fa un ciclo di formazione sugli aspetti riguardanti la rieducazione ed il recupero dei detenuti -ha commentato Fronza Crepax-. Abbiamo così voluto concludere con un incontro motivazionale questo scottante argomento e chi meglio di don Riccardo Agresti e Giannicola Sinisi potevano motivarci sul perché essere volontari nel mondo del carcere. La risposta è stata che non può salvarsi una persona che è autrice di un reato contro la società, se la società non compie il primo passo. Concretamente con la motivazione religiosa e quella laica, abbiamo avuto la possibilità di comprendere meglio la funzione che la società deve avere per ricucire quello che un reato lacera”. “Siamo stati ben lieti -sottolinea Don Riccardo Agresti- di essere stati invitati dalla consulta regionale dei volontari del Trentino Alto Adige per illustrare a quanti vanno nelle carceri per offrire solidarietà e aiuto, la nostra felice esperienza. Portare conforto a questi nostri fratelli serve a dare loro speranza per avviare un percorso di redenzione e di reinclusione all’interno della società. È stato molto importante aver partecipato a questo loro ultimo incontro nella sede di rappresentanza della Città di Trento. L’esperienza che stiamo vivendo sin dal 2017 ad Andria con il progetto diocesano “Senza Sbarre”, ha fatto meglio comprendere a questi nostri amici del Trentino Alto Adige in cosa consiste questo modello diverso di misura alternativa al carcere, che si manifesta attraverso l’accoglienza, la residenzialità ed il lavoro ma non di meno con la Parola del Signore”. “La partecipazione a questo incontro - ha proseguito Giannicola Sinisi - era finalizzata a dare motivazioni agli operatori del volontariato per la giustizia del Trentino Alto Adige. Un gruppo di giovani volenterosi, persone già impegnate nel campo del sostegno e dell’accoglienza per i condannati delle carceri della regione, a cui abbiamo portato il nostro incoraggiamento, basato sull’esperienza vissuta quotidianamente con il progetto diocesano “Senza Sbarre”. L’incontro è stato molto seguito. Durante la nostra disamina abbiamo cercato di dare quella spinta motivazionale di cui c’è bisogno per affrontare un impegno così serio”. Trieste. Il giornalismo che entra in carcere: gli eventi del Premio Luchetta 2025 di Paolo Bencich nordestnews.it, 17 novembre 2025 Un confronto aperto, intenso, che attraversa i confini visibili e invisibili del carcere per riflettere sul potere della parola come strumento di libertà e di riscatto. È questo il senso dell’incontro “Voci oltre il muro: donne e diritto/dovere di raccontare”, in programma mercoledì 19 novembre alle 17.30 al Teatro Miela di Trieste, nel corso delle giornate che anticipano le Giornate del Premio Luchetta, in collaborazione con Bonawentura nell’ambito del festival S/Paesati, che prenderanno il via il 21 e proseguiranno fino al 23 novembre. L’appuntamento - realizzato in collaborazione con la Conferenza Basaglia - riunisce Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti, Elton Kalica, redattore della testata, Giovanna Del Giudice, psichiatra e presidente della Conferenza Basaglia, Fabiana Martini, giornalista, ed Elisabetta Lippolis, formatrice. Un dialogo a più voci per indagare il ruolo del giornalismo come spazio di relazione, di formazione e di rinascita, capace di dare voce a chi troppo spesso ne è privo. Al centro del dibattito l’esperienza di “Ristretti Orizzonti”, il giornale della Casa di Reclusione di Padova e dell’Istituto di Pena Femminile della Giudecca, considerato una delle realtà più significative nel panorama del giornalismo penitenziario italiano. Nato dall’incontro tra giornaliste e giornalisti volontari e persone detenute, Ristretti Orizzonti è un laboratorio editoriale e umano che, da oltre venticinque anni, unisce scrittura, riflessione e formazione. Attraverso un lavoro quotidiano di redazione condivisa, detenuti e volontari imparano a raccontare la vita dentro le mura, a dar voce ai silenzi e a costruire - parola dopo parola - un ponte di comprensione tra il “dentro” e il “fuori”. Un percorso che non solo contribuisce alla risocializzazione delle persone recluse, ma che al tempo stesso sensibilizza l’opinione pubblica sulle condizioni di vita in carcere e sul diritto all’informazione come diritto umano fondamentale. In questo modo, il giornalismo penitenziario diventa esercizio di responsabilità civile: un modo per restituire senso e dignità alle storie individuali, trasformandole in conoscenza collettiva. L’incontro si inserisce nel calendario di “Aspettando il Premio Luchetta”, il cartellone di appuntamenti che da martedì 18 a giovedì 20 novembre anticipa le Giornate del Premio giornalistico internazionale Marco Luchetta, che inizierà la stessa settimana dal 21 al 23 novembre, sempre al Teatro Miela. Il tema delle carceri - oggi più che mai urgente, alla luce dell’emergenza che attraversa il sistema penitenziario italiano e delle profonde criticità strutturali che lo accompagnano - sarà al centro anche delle Giornate del Premio Luchetta. Se ne discuterà domenica 23 novembre alle 11, nel panel “Cattiva gioventù o cattiva società?”, condotto dalla giornalista Gioia Meloni. Un appuntamento che riunirà Raffaella Calandra de Il Sole 24 Ore, vincitrice nella categoria Stampa italiana con l’inchiesta “Mai così tanti ragazzi in carcere, affollati anche gli istituti per minori”; Gaia Mombelli di Sky TG24, finalista nella categoria Reportage con “La cattiva strada”; e Valeria Verdolini dell’Associazione Antigone, realtà che da anni si impegna a garantire e tutelare i diritti nel sistema penale e penitenziario. Un confronto necessario per restituire complessità, responsabilità e prospettiva a un tema troppo spesso lasciato ai margini del dibattito pubblico. Latina. Concerti e percorsi educativi in carcere per costruire comunità mondoreale.it, 17 novembre 2025 La Provincia di Latina rafforza il proprio impegno a sostegno delle persone più fragili, con particolare attenzione alla popolazione carceraria. Le iniziative avviate delineano un percorso concreto di inclusione, formazione e giustizia riparativa, volto a costruire una comunità più attenta e solidale. Grazie all’approvazione del nuovo piano di dimensionamento scolastico, è stato attivato su proposta del Liceo Artistico “Buonarroti” un Percorso di Istruzione per Adulti, indirizzo audiovisivo e multimediale, dedicato ai detenuti della casa circondariale di Latina. L’iniziativa offrirà competenze tecniche e creative utili sia alla crescita personale sia alla futura reintegrazione sociale e lavorativa. Contestualmente, la Provincia ha ottenuto l’accreditamento come Centro per la Giustizia Riparativa, un luogo istituzionale che consentirà a vittime, autori di reato e comunità di incontrarsi in modo volontario e sicuro per avviare percorsi di riconciliazione, responsabilizzazione e riparazione del danno, integrando il sistema penale con strumenti capaci di prevenire la recidiva e ricostruire rapporti compromessi. Nell’ambito della rassegna organizzata dalla Provincia in tutti i comuni del territorio ed in vista delle festività natalizie, uno dei concerti dell’Orchestra Tartini sarà eseguito direttamente all’interno del carcere di Latina, un gesto dal forte valore simbolico che porta cultura e normalità anche in un luogo segnato dalla privazione della libertà. Iniziative come queste dichiara il Presidente della Provincia di Latina, Gerardo Stefanelli, rappresentano il senso più autentico del nostro impegno: “costruire una comunità che non si limita ad amministrare, ma che tende la mano a chi vive condizioni di fragilità. L’istruzione, la giustizia riparativa, la cultura non sono concessioni, ma strumenti fondamentali per restituire dignità, responsabilizzare e offrire a tutti la possibilità di ricominciare. È così che si costruisce un territorio che non lascia indietro nessuno. Un gesto simbolico e concreto che porta cultura, bellezza e normalità anche in un luogo segnato dalla privazione della libertà. La musica unisce e avvicina -sottolinea il Presidente. -Portare un concerto di Natale in carcere è un segno di rispetto e di apertura. È il modo con cui la Provincia testimonia che anche lì c’è una comunità che merita attenzione e mi sento di ringraziare i responsabili della struttura e il maestro Cipriani per aver reso possibile tutto questo. Portare il tour di concerti che celebrano il 90’ anniversario della istituzione della Provincia di Latina anche nella casa circondariale vuol dire riconoscere che anche lì c’è un pezzo della nostra comunità che richiede attenzione e presenza.” Le iniziative presentate dimostrano un impegno istituzionale forte e coerente. La Provincia di Latina, sotto la guida del Presidente Stefanelli, ribadisce la propria visione: una comunità inclusiva, in cui nessuno davvero nessuno viene lasciato solo. Le azioni messe in campo confermano una visione istituzionale chiara e coerente: quella di una Provincia inclusiva, capace di riconoscere ogni persona come parte integrante della comunità. Milano. “Un giorno tra i detenuti, fianco a fianco: ho capito di avere le loro stesse domande” di Donatella Mega ilsussidiario.net, 17 novembre 2025 Chi si sia detenuti o che si viva fuori dal carcere, c’è un bisogno che accomuna tutti gli uomini e li fa sentire vicini. Dopo mesi di silenzio, seguiti alla vicenda di Emanuele - di cui scrissi a maggio sulle vostre pagine - torno a raccontare le mie personali esperienze legate al mondo carcerario. La vicenda di Emanuele, che tanto mi ha turbata, mi ha costretta a ripensare il mio sguardo sulla realtà del carcere, che da anni mi riguarda da vicino: “Che cos’è l’uomo perché te ne curi?” (Salmo 8) è la provocazione che mi ha accompagnato in questi mesi. Dopo un episodio come questo, quelle parole mi sono apparse di una concretezza mai prima sperimentata. Come disse il beato Rosario Livatino, primo giudice elevato agli onori degli altari nel 2021, in occasione di un sopralluogo a seguito di un omicidio, regolamento di conti fra mafiosi, che non suscitava la pietà di nessuno: “Di fronte a un uomo che muore, chi crede prega; chi non crede, sta in silenzio”. Io, che mi definisco una donna di fede, ho fatto silenzio. E in quel silenzio ho cominciato a guardare il carcere anche con gli occhi di chi lo vive da fuori. Chi esce dal carcere è di una fragilità paradossale, spesso peggiore di quella di chi vi rimane dentro: buttato in mezzo a una strada, come se la libertà fosse solo assenza di sbarre. È una prigionia forse ancora più dura, simile a quella che vive - senza accorgersene - chi si dice libero, ma ha prigioni interiori ancora più pesanti. Il detenuto che esce, invece, ne è consapevole: sente addosso l’assenza di affetti, di un lavoro, di un tetto, e soprattutto il marchio dentro di sé. Non si libera facilmente dello sguardo che ha imparato a rivolgersi, fino a non sapere più chi è davvero. La solitudine di chi esce può essere più devastante della carcerazione: è un vuoto terribile, che ti rimane addosso. Di questo abbiamo parlato nel secondo incontro del ciclo francescano “Le nostre prigioni interiori / Dal buio alla luce”, tenutosi nel carcere di Bollate lo scorso 8 novembre, condotto dalla psicologa Enrica Sarrecchia. L’incontro, promosso dalla Cappellania su iniziativa dell’Associazione di volontariato Incontro e Presenza e dell’Ordine Francescano Secolare, in occasione dei Centenari francescani 2025/2026, ha visto la partecipazione di un centinaio di detenuti e volontari. Il filo conduttore dell’incontro è stato il desiderio dell’uomo di cercare un senso. Una riflessione ispirata al pensiero di Viktor Frankl, lo psicologo austriaco che visse l’orrore dei campi di concentramento e portò la psicologia su un piano più spirituale, indicando la mancanza di senso come la vera patologia della modernità: la prigionia del non-senso. “Siamo responsabili delle nostre sofferenze”, ha detto la psicologa citando Frankl, “nel senso che la libertà ultima di ogni uomo è poter decidere cosa fare di fronte alle sfide della vita: soccombere e maledire, oppure reagire e cercare un senso. Non puoi forse cambiare le circostanze, ma puoi decidere come affrontarle”. La resilienza come un fiore che nasce da un terreno arido contro la resistenza come passiva accettazione dell’aridità. È la ricerca del senso dell’esistenza ciò che rende un uomo libero. Mentre la relatrice parlava, mi sono sorpresa a guardarmi intorno: volontari e detenuti seduti uno accanto all’altro. Li riconosci, perché li conosci, ma senza separazioni non potresti distinguerli. Quel giorno, tra l’altro, non c’erano nemmeno le guardie a garantire la sicurezza: eravamo tutti lasciati alla libertà di decidere cosa fare, perché nessuno ci controllava. fino a sederci vicino. La percezione netta è stata quella di una prossimità assoluta, non solo fisica ma esistenziale. Ciò che vale per loro - la ricerca di un senso, anzi del senso - vale anche per me. Questa è la coscienza di una prossimità vera. E ho pensato che, se è vero che senza senso la vita è una prigionia, è altrettanto vero che da soli non ce la facciamo. Me lo ha ricordato un detenuto al termine dell’incontro, quando ha detto: “Ho incontrato persone nel cui sguardo mi sono sentito rinascere. Mi hanno guardato come nemmeno io riuscivo a guardarmi, e hanno riacceso in me una speranza che credevo spenta. È stato attraverso l’incontro con i volontari di Incontro e Presenza che ho scoperto di avere una responsabilità: rispondere di ciò che ho, che amo, che soffro. E anch’io divento un punto di luce per gli altri in carcere, perché non sia più solo un luogo buio, ma di possibilità: essere mani piene di fiori da donare agli altri”. Chi vive la prigionia conosce solo passato e presente: un passato che non può più cambiare, un presente che è buio, e un futuro che non esiste. Mi sono venuti in mente i versi di una canzone di Vasco Rossi - “Voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha” - e il titolo di un testo di don Luigi Giussani, “L’incontro che accende la speranza”. È talmente vero che senza senso un uomo non può vivere che, paradossalmente, lo cerca anche quando ha già deciso che non c’è, anche contro ogni evidenza “apparente”. L’evidenza più vera, infatti, è il desiderio che ci troviamo addosso: qualunque situazione affrontiamo, qualunque male ci abbia colpiti o di cui siamo stati complici, questa esigenza è innata. Ce l’abbiamo addosso sia noi, che ci reputiamo “a posto”, fuori dalle sbarre, sia chi ha sbagliato - anche gravemente - e ne sta subendo le conseguenze. È anche vero che il senso non lo si trova da soli, a meno che non si sia un Gandhi o un Martin Luther King, capaci di un atto titanico di introspezione, umanamente quasi impossibile. Per la maggior parte di noi, poveretti e senza forze, il senso nasce solo da un incontro, ma non uno qualunque: un incontro capace di far breccia nella domanda di significato che è, in fondo, domanda di infinito. Ciò che rimane umanamente percorribile è la mendicanza: domandare che questo incontro diventi avvenimento nella nostra vita. È lo scopo della caritativa che don Giussani chiedeva ai suoi come gesto principe per scoprire il senso della vita e non soccombere alle circostanze, anche le più drammatiche. La mendicanza è la più alta espressione umana di libertà: nessuno può togliercela, ed è ciò che ci permette di scoprire la nostra natura di uomini. Un altro detenuto ha ricordato che gli incontri con i volontari sono come l’arte del kintsugi, quella che ricompone i cocci ormai distrutti con la polvere d’oro: “Noi siamo quei cocci, e i volontari gli artigiani che, meticolosamente e instancabilmente, lavorano su di noi. Con la loro speranza riaccendono la nostra”. Il carcere, come ogni circostanza estrema, costringe a riconoscersi come bisogno d’infinito: sia chi vi entra per un delitto, sia chi vi entra per tentare di ricostruire i cocci, prima di tutto i propri. E solo chi è infinito può rispondere a questo bisogno. Assegno di inclusione: arriva la nuova stretta, verifiche dell’Inps sugli ex detenuti di Giacomo Andreoli Il Messaggero, 17 novembre 2025 Scattano nuove verifiche dell’Inps per evitare le truffe sull’Assegno di inclusione (Adi), il contributo che da circa due anni ha sostituito il Reddito di cittadinanza per i cosiddetti “inabili al lavoro”. Il nuovo intervento riguarda ex detenuti, persone in semi-libertà e i condannati per reati, ma ammessi a misure alternative al carcere (come le comunità di recupero). Le norme che regolano l’Adi, infatti, prevedono che possa riceverlo chi è in “condizioni di svantaggio” (sempre se rispetta anche i requisiti economici come le basse soglie Isee), compresi i condannati che non si trovano in istituti penitenziari o quelli che possono uscirne per parte della giornata per meriti e magari svolgere anche lavori di pubblica utilità. Il meccanismo - Con un messaggio pubblico dello scorso mercoledì, l’Istituto di previdenza ha disposto l’estensione di un servizio informatico già esistente, quello di validazione delle certificazioni richieste per l’accesso all’Adi, coinvolgendo ora anche gli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe). In pratica, gli uffici che seguono i percorsi alternativi alla detenzione potranno collegarsi alla piattaforma Inps e confermare direttamente se una persona è effettivamente in carico a misure alternative, programmi di reinserimento o percorsi terapeutici. Questo passaggio è pensato per rendere più puntuale e sicura la verifica delle condizioni di svantaggio dichiarate nelle domande. Fino a oggi l’istruttoria dell’Inps si basava soprattutto sulla richiesta di conferma alle amministrazioni che avevano rilasciato le attestazioni: per esempio Asl o servizi sociali dove era stato dichiarato l’inserimento in un programma di cura. L’intervento appena comunicato amplia il perimetro dei controlli e mette in contatto diretto l’Inps con chi gestisce l’esecuzione penale esterna, cioè gli uffici che conoscono la situazione giudiziaria e l’effettiva esecuzione della misura. Questo non significa che la certificazione penitenziaria sostituirà gli altri controlli, ma che rappresenterà una prova in più e più solida della condizione dichiarata. La trasparenza - Dal punto di vista amministrativo la procedura prevede che l’ente chiamato a validare la certificazione risponda attraverso il servizio telematico. In caso di mancata risposta entro i termini tecnici previsti, sono previste misure operative per evitare il blocco permanente delle pratiche, ma la responsabilità di fornire riscontro spetta all’ufficio territoriale competente. Per questo motivo chi è seguito dall’Uepe dovrebbe accertarsi che l’ufficio territoriale sia informato e in grado di utilizzare il servizio, presentando al contempo tutta la documentazione utile, come provvedimenti giudiziari o attestazioni ufficiali. La nuova stretta dell’Inps rende quindi più rigorosa la fase di accertamento delle condizioni penitenziarie, e allo stesso tempo rende più trasparente il raccordo tra le istituzioni che rilasciano le attestazioni e l’ente previdenziale, che eroga il sussidio. Per chi si occupa di assistenza sociale e per gli stessi potenziali beneficiari la raccomandazione pratica dell’Istituto di previdenza è di curare la documentazione e di segnalare correttamente, nella domanda Adi, l’ufficio che ha in carico la pratica penale esterna. Solo così la nuova procedura potrà svolgere la funzione prevista: smascherare le frodi e nel contempo garantire che chi è davvero in situazione di svantaggio continui a ricevere il sostegno previsto dalla legge. Migranti. Giubileo dei poveri, Momodu: “Speranza è guardarsi con occhi diversi” di Roberta Barbi vaticannews.va, 17 novembre 2025 In occasione della giornata di ieri, raccontiamo la storia di un giovane originario del Gambia, oggi 30enne, arrivato in Italia in cerca di un futuro migliore e per sfuggire alla violenza, finito in prigione ma riscattatosi in un nuovo percorso di vita grazie alla Comunità Giovanni XXIII: “In carcere ci sono più poveri che delinquenti”. Quella di Momodu purtroppo è una storia simile a quelle di tanti invisibili che arrivano nel nostro Paese senza trovare quello che cercavano. Storie disperate che qualche volta - come in questo caso - finiscono bene. Momodu vive in Gambia in un contesto violento in cui il padre lo picchia e la madre tace, per quella complicità ugualmente colpevole che accompagna ancora alcune culture. A 16 anni decide di fuggire da povertà e violenza e intraprende un rocambolesco viaggio lungo un anno che lo porterà in Italia. Qui, però, incontra altra povertà, altra violenza, rifiuto, e poi la droga: “Quando si è abituati al male non si può che fare il male”, è l’amara considerazione di chi, oggi, è consapevole, di aver compiuto alcune azioni semplicemente perché solo quelle aveva vissuto nella sua vita. E poi, giustamente, arriva il conto: “In carcere la maggior parte dei reclusi sono poveri come me che cercano di sopravvivere - racconta ai media vaticani - tanti veri delinquenti sono fuori”. La lente per interpretare nel modo giusto la storia di Momodu come molte altre storie di questo tipo, va ripescata nel passato più remoto del protagonista: “Avevo un rapporto molto difficile con mio padre - ricorda - ho subito molto, in silenzio, e il mio silenzio veniva interpretato come noncuranza, assenza di sofferenza, ma non era così Soffrivo tanto, poi, a 15 anni ho iniziato a reagire…”. Approda al dolore e alla povertà la ricerca delle motivazioni che hanno spalancato per questo ragazzo così giovane le porte del carcere: “Ce ne sono troppi come me dietro le sbarre - dichiara - non solo stranieri, anche italiani, perché la sofferenza la provano tutti…”. Come minore non accompagnato, nel nostro Paese Momodu finisce in comunità, poi, a 18 anni, inizia a collezionare reati e finisce ben due volte in carcere; la seconda volta nella casa circondariale di Forlì. Qui, dopo tre anni di detenzione, incontra la Comunità Giovanni XXIII che gli offre l’esperienza delle Cec, le comunità educanti con i carcerati: “I miei genitori erano morti a distanza di due giorni l’uno dall’altro, mio fratello era stato ucciso in discoteca - racconta ancora - sentivo l’abbandono, avevo perso la speranza e sono arrivato anche a tentare due volte il suicidio”. La Comunità lo sistema in stanza con un ragazzo disabile e questo cambia tutto: “Aveva bisogno di me, dovevo occuparmi di lui in tutto - ricorda con l’entusiasmo di chi per la prima volta scopre di essere prezioso e indispensabile per qualcuno - e piano piano questo ha fatto tornare nella mia vita la speranza”. Oggi Momodu si sta ricostruendo; presto andrà a lavorare assieme a due ragazzi con disabilità in un punto di ristoro a Rimini: “Sono molto contento, non credo che avrò difficoltà, lavoro bene con i disabili, sono persone speciali - conclude - la mia vita è cambiata quando ho iniziato a guardarmi non con i miei occhi, ma con gli occhi degli operatori e con gli occhi delle persone che avevano bisogno di me. È allora che la speranza è tornata”. Duemila italiani detenuti all’estero. Amnesty: “Alcuni sono veri ostaggi” di Giulia Posperetti Il Giorno, 17 novembre 2025 Non solo il cooperante veneto Trentini: nelle prigioni venezuelane altri quindici nostri connazionali. Da anni non si hanno più notizie dell’ingegnere Obiang Esono, originario della Guinea Equatoriale. “Vive la liberté, vive l’égalité et vive la fraternité”. All’indomani del primo anniversario dell’arresto di Alberto Trentini - il 46enne cooperante veneziano fermato in Venezuela il 15 novembre 2024 senza accuse né spiegazioni -, dopo cinque mesi, il 41enne francese, insegnante di yoga, Camilo Castro, detenuto nel suo stesso carcere, la struttura di massima sicurezza dove finiscono gli oppositori politici ‘El Rodeo I’, nella periferia di Caracas, ha potuto riabbracciare la sua famiglia a Parigi. “Fino ad agosto il nostro governo non aveva ancora avuto alcun contatto telefonico con il governo venezuelano. Per Alberto - ha detto sabato la madre del cooperante italiano, Armanda Colusso Trentini - non si è fatto quel che era necessario”. Se Castro è stato liberato le ragioni vanno ricercate nei rapporti tra la Francia e il Venezuela. Mercoledì scorso, dopo l’arrivo della più grande portaerei del mondo, la USS Gerald R. Ford, e del suo gruppo d’attacco nella regione, la Francia ha condannato ufficialmente le operazioni militari americane nei Caraibi, affermando che violano il diritto internazionale. Una dichiarazione, quella del ministro degli Esteri francese Jean-Noel Barrot in occasione del vertice G7 in Canada, che ha, probabilmente, contribuito a oliare il meccanismo creando un canale preferenziale per Castro. “Di fatto si tratta di detenzioni di ostaggi. E chi tiene qualcuno in ostaggio - commenta il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury - chiede qualcosa in cambio: in ballo può esserci una questione economica, uno scambio di prigionieri o la richiesta di determinate dichiarazioni. Penso che il fatto che la Francia abbia espresso una posizione, che è la stessa di Amnesty, sull’illegalità degli attacchi che gli Stati Uniti stanno portando avanti da settembre, possa aver fatto la differenza. Dopodiché credo che chiunque, a partire da Trentini, dovrebbe essere scarcerato se non c’è alcun motivo che ne giustifichi la detenzione. Se, invece, si agisce accettando la logica che si tratta di vittime di una sorta di sequestro di persona, bisogna prendere atto che si entra in un campo che non ha più a che fare con i diritti umani, ma con la politica. In questo scenario la domanda è se il nostro governo possa fare quello che ha fatto la Francia, dati i rapporti che ha con gli Stati Uniti”. In attesa che Donald Trump tolga il riserbo sui suoi prossimi passi, le opzioni sul tavolo - da un’offerta di esilio al presidente venezuelano Nicolas Maduro, al suo arresto, fino a un attacco diretto al Venezuela - preannunciano un clima di crescente tensione che, sul fronte diplomatico, lascia poco spazio di manovra anche all’Italia. Attualmente sono oltre 2mila gli italiani detenuti all’estero. Ma - stando ai dati aggiornati al 2024 - se circa 1650 si trovano in prigioni europee, 244 sono nelle carceri di Paesi extra Ue, 166 nelle Americhe, 23 nei Paesi del Mediterraneo e Medio Oriente, 22 nell’Africa sub-sahariana e 77 in Asia e Oceania. Una quindicina, secondo quanto affermato dal ministro degli Esteri Antonio Tajani, sono detenuti in Venezuela. A parte Trentini gli altri, come il giornalista Biagio Pilieri, leader del partito moderato di opposizione Convergencia, sono italo-venezuelani. Tra i casi ‘dimenticati’ figura Fulgencio Obiang Esono, un ingegnere italiano di origini equatoguineane, condannato nel 2019 a 60 anni di carcere con l’accusa infondata di aver parte, nel 2017, a un tentato colpo di stato contro il presidente Teodoro Obiang. La percezione di una disparità di trattamento, dall’attenzione mediatica alla velocità di risoluzione dei casi, è tangibile. Ma perché ciò accade? “Dipende da diversi fattori - spiega Noury -. Dalle relazioni con il Paese dove la persona è detenuta alla presenza di un’ambasciata italiana. Ma anche le campagne della società civile e il clamore mediatico hanno il loro peso”. La Tunisia viola i diritti di migranti e rifugiati grazie all’Unione europea di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2025 Amnesty ha documentato arresti e detenzioni su base razziale, maltrattamenti e torture, intercettamenti in mare ed espulsioni di migliaia di persone verso l’Algeria e la Libia. “Continuavano a colpire la nostra barca di legno con lunghi bastoni appuntiti, l’hanno bucata… C’erano almeno due donne e tre neonati senza giubbotti di salvataggio. Li abbiamo visti annegare e poi non abbiamo più visto i corpi. Non ho mai avuto così tanta paura”. “Siamo arrivati nella zona di confine con la Libia verso le sei del mattino… Un ufficiale tunisino ha detto: ‘Andate in Libia, là vi uccideranno’. Un altro ha aggiunto: ‘O nuotate o correte verso la Libia’. Ci hanno restituito un sacco pieno dei nostri telefoni distrutti…”. “Ci hanno presi uno per uno, ci hanno circondati, ci hanno fatto sdraiare, ci hanno ammanettati… Ci picchiavano con tutto ciò che avevano: mazze, manganelli, tubi di ferro, bastoni di legno… Ci hanno costretti a ripetere più volte ‘Tunisia mai più, non torneremo mai più’. Ci colpivano e prendevano a calci ovunque.” Queste sono solo alcune delle testimonianze raccolte in un rapporto di Amnesty International sulle violazioni dei diritti umani commesse dalle autorità tunisine nei confronti di persone migranti, richiedenti asilo e rifugiate. Leggendole, si comprende fino a che punto l’Unione europea sia disposta a chiudere occhi e orecchie pur di ridurre le partenze irregolari verso l’Europa. Il Memorandum di cooperazione tra Unione europea e Tunisia, firmato nel 2023, ignora volutamente le conseguenze devastanti della cooperazione con la Libia (con la quale l’Italia ha appena accettato rinnovare il Memorandum del 2017). Incuranti dello spregio del diritto internazionale in nome del controllo delle migrazioni, funzionari europei parlano di un successo, citando la diminuzione degli arrivi via mare di persone provenienti dalla Tunisia. La cooperazione tra Unione europea e Tunisia è stata avviata proprio mentre le autorità locali avevano iniziato progressivamente a smantellare le tutele per le persone rifugiate, richiedenti asilo e migranti - in particolare per quelle provenienti dall’Africa subsahariana - adottando pericolose prassi di polizia razziste. Galvanizzate dalla retorica razzista di esponenti politici, primo tra tutti il presidente Kais Saied, le autorità tunisine hanno effettuato arresti e detenzioni su base razziale, maltrattamenti e torture (compresi gli stupri), intercettamenti in mare pericolosi e sconsiderati ed espulsioni collettive di decine di migliaia di persone rifugiate e migranti verso l’Algeria e la Libia. Il tutto, accompagnato dalla repressione contro gli organismi che forniscono assistenza alle persone migranti, richiedenti asilo e rifugiate. A partire dal maggio 2024, le autorità hanno arrestato almeno otto operatori di ong e due ex funzionari locali che avevano collaborato con esse. La prossima udienza del processo al personale di una di queste, il Consiglio tunisino per i rifugiati, è fissata tra una settimana. Amnesty International ha indagato su 24 intercettamenti in mare e ha raccolto le testimonianze di 25 persone rifugiate e migranti che hanno descritto comportamenti pericolosi, sconsiderati e violenti da parte della guardia costiera tunisina: speronamenti, manovre ad alta velocità che hanno rischiato di far capovolgere le imbarcazioni, colpi inferti a persone e imbarcazioni con manganelli, lancio di gas lacrimogeni da distanza ravvicinata e la mancata valutazione individuale delle necessità di protezione al momento dello sbarco. Nonostante le persistenti preoccupazioni per la mancanza di trasparenza nei dati sugli intercettamenti, nel 2024 le autorità tunisine hanno smesso di pubblicare statistiche ufficiali dopo aver istituito, con il sostegno dell’Unione europea, una zona di ricerca e soccorso marittimo. In precedenza, avevano riferito un aumento significativo degli intercettamenti. Dal giugno 2023 in poi le autorità tunisine hanno avviato espulsioni collettive di decine di migliaia di persone rifugiate e migranti, perlopiù provenienti dall’Africa subsahariana, dopo arresti su base razziale o intercettamenti in mare. Amnesty International ha accertato che, tra giugno 2023 e maggio 2025, sono state effettuate almeno 70 espulsioni collettive, che hanno riguardato oltre 11.500 persone. Le forze di sicurezza tunisine hanno sistematicamente abbandonato persone migranti, richiedenti asilo e rifugiate - anche donne incinte e bambini - in aree remote e desertiche ai confini con la Libia e l’Algeria, senza acqua né cibo, spesso dopo aver loro confiscato telefoni, documenti d’identità e denaro, esponendole così a gravi rischi per la vita e la sicurezza. Dopo la prima ondata di espulsioni, tra giugno e luglio del 2023, almeno 28 persone migranti sono state trovate morte lungo il confine libico-tunisino e 80 risultano disperse. Amnesty International ha inoltre documentato 14 casi di stupro o altre forme di violenza sessuale da parte delle forze di sicurezza tunisine, alcuni dei quali avvenuti durante perquisizioni corporali o denudamenti forzati condotti in modo umiliante, tali da configurare tortura. Ogni giorno in cui l’Unione europea continua a sostenere l’offensiva della Tunisia contro i diritti delle persone migranti e rifugiate e di chi le difende, senza una revisione sostanziale della cooperazione in corso, i leader europei rischiano di rendersi complici. *Portavoce di Amnesty International Italia Medio Oriente. All’Onu si vota oggi il Piano su Gaza: che ne sarà della Striscia? di Luca Foschi Avvenire, 17 novembre 2025 La bozza di risoluzione americana delinea una gestione provvisoria del territorio: organi politici transitori, disarmo delle milizie e una “Forza internazionale di stabilizzazione”. La contro-risoluzione di Mosca, appoggiata da Pechino. Il presente nel fango, il destino nel Palazzo di Vetro. Mentre l’inverno si abbatte su Gaza, nella sede centrale dell’Onu a New York si affrontano due posizioni che vorrebbero dare forme diverse all’immediato futuro della Striscia. Fonti diplomatiche hanno reso noto che oggi il Consiglio di Sicurezza voterà la bozza di risoluzione presentata la settimana scorsa dagli Stati Uniti ai 15 membri che lo compongono. Il documento descrive la costituzione degli organi politici e amministrativi provvisori, il disarmo delle milizie palestinesi e la formazione della “Forza internazionale di stabilizzazione”. La risoluzione prevede un mandato fino al 2027 per il cosiddetto “Comitato della pace”, un organo esecutivo presieduto dal presidente americano Trump. Contrariamente alla prima versione circolata, il testo contiene un vago riferimento a un futuro Stato palestinese. Gli Stati Uniti, accompagnati da Gran Bretagna, Egitto, Turchia, Arabia Saudita e altri Paesi a maggioranza araba e musulmana hanno chiesto venerdì al Consiglio di sicurezza “una rapida adozione”. È la chiara, repentina replica alla contro-risoluzione depositata dalla Russia di Putin (e appoggiata dalla Cina) giovedì, che mostra perplessità sul “Comitato della pace”, chiede espliciti riferimenti alla soluzione a due Stati e rassicurazioni sull’integrità territoriale di Gaza. Il Guardian ha rivelato che Washington starebbe pianificando una divisione della Striscia in una zona verde, sotto controllo israeliano e internazionale, dove partirebbe subito la ricostruzione, e in una rossa che rimarrebbe disseminata di rovine. Il New York Times ha reso noto che l’inviato speciale americano Steve Witkoff incontrerà Khalil al-Hayya, il più importante negoziatore di Hamas. Sotto la pioggia incessante, che ha travolto gli sfollati nelle tendopoli, continuano i bombardamenti israeliani, in particolare nell’area di Gaza city. Insufficiente è ancora il flusso degli aiuti e tende nuove, ostacolato anche dalla chiusura dei valichi di Karem Shalom e al-Awja. In serata il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha avuto una conversazione a telefono con il presidente russo Vladimir Putin. I due, così ha riferito il Cremlino, hanno discusso l’evoluzione della situazione a Gaza, il programma nucleare iraniano e questione siriana. Intanto In una dichiarazione pubblicata nella notte da Hamas a nome delle fazioni palestinesi, si afferma che la risoluzione presentata dagli Stati Uniti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è “pericolosa” e “un tentativo di sottomettere la Striscia di Gaza all’autorità internazionale”. La dichiarazione afferma che le fazioni respingono qualsiasi clausola relativa al disarmo di Gaza o che leda “il diritto del popolo palestinese alla resistenza”. Viene respinta anche qualsiasi presenza militare straniera all’interno della Striscia, che costituirebbe - viene detto nella dichiarazione - una violazione della sovranità palestinese. “Qualsiasi forza internazionale deve essere direttamente subordinata alle Nazioni Unite e operare in coordinamento con le istituzioni palestinesi ufficiali, senza la partecipazione dell’occupazione”, si legge.