Nordio: “No agli indulti. Pronte misure alternative per oltre 10mila detenuti” di Chiara Catone La Discussione, 16 novembre 2025 Il sovraffollamento delle carceri resta una delle emergenze più gravi del sistema penitenziario italiano, ma secondo il Ministro della Giustizia Carlo Nordio le soluzioni non possono passare da strumenti “lineari e automatici”, come indulti o amnistie generalizzate. Le esperienze del passato, spiega, dimostrano l’inefficacia di questi interventi nel lungo periodo. Nordio cita l’indulto del 2006, varato dal Governo Prodi, quando la popolazione detenuta ammontava a 60.710 persone. Il provvedimento portò alla liberazione del 36% dei detenuti, con un calo immediato delle presenze. Tuttavia, il sollievo fu di breve durata: già nel febbraio 2008 i detenuti erano risaliti a 51.195, per poi raggiungere 63.472 nel luglio 2009, superando il livello precedente all’indulto. A tutto ciò si aggiungeva un dato particolarmente critico: una recidiva del 48% entro tre anni. “Questi numeri dimostrano che le misure automatiche non funzionano”, osserva il ministro, “rendendo necessario adottare interventi che tengano conto delle specificità trattamentali dei singoli”. In questa direzione, il Ministero ha avviato un monitoraggio che ha individuato 10.105 detenuti definitivi come potenziali beneficiari di misure alternative alla detenzione, purché con pena residua inferiore ai 24 mesi, condannati per reati non ostativi ai sensi dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario e privi di sanzioni disciplinari gravi negli ultimi 12 mesi. Per gestire il percorso, è stata istituita una task force che ha attivato un dialogo costante con la magistratura di sorveglianza e con i singoli istituti penitenziari, con l’obiettivo di accelerare l’esame delle posizioni individuali. “La collaborazione istituzionale sta consentendo un iter più veloce delle pratiche già incardinate davanti ai tribunali di sorveglianza - spiega Nordio - grazie allo scambio di dati e informazioni sui singoli detenuti”. Un approccio che punta a sbloccare un numero significativo di casi, alleggerendo progressivamente il peso sulle strutture penitenziarie e, al tempo stesso, garantendo percorsi più coerenti e personalizzati rispetto alle esigenze trattamentali dei detenuti. Nordio: 10.105 detenuti potrebbero avere le misure alternative ansa.it, 16 novembre 2025 L’indulto non è uno strumento risolutivo del sovraffollamento delle carceri, per questo, e in attuazione delle leggi esistenti, il ministro della giustizia Carlo Nordio punta alle misure alternative per oltre 10mila detenuti condannati in via definitiva e che potenzialmente hanno i requisiti per ottenere il beneficio. A tal fine, il ministero ha costituito una task force che ha avviato interlocuzioni con la magistratura di sorveglianza e i penitenziari per favorire la fruizione delle misure alternative da parte di chi ne ha diritto e così deflazionare le presenze nelle carceri. “Il sovraffollamento carcerario - rileva il ministro Nordio in un comunicato - lede la dignità della persona ma misure lineari e automatiche, come la storia ci insegna, non sono strumenti risolutivi. Nel luglio 2006, con il Governo Prodi, la popolazione detentiva era pari a 60.710 detenuti. Con l’indulto del 2006 furono rimessi in libertà il 36 % dei detenuti. Risulta però che già nel febbraio 2008 le presenze detentive aumentarono nuovamente a 51.195 e nel luglio 2009 a 63.472, in misura addirittura superiore a quella registrata tre anni prima, mantenendo peraltro una crescita costante. Inoltre, nel giro di soli tre anni fu registrata una recidiva del 48%. Questi numeri dimostrano che le misure lineari e automatiche non funzionano, dovendosi diversamente adottare misure che tengano conto delle specificità trattamentali dei singoli detenuti”. “In questa direzione e in attuazione della normativa già esistente, abbiamo accertato che 10.105 detenuti cosiddetti definitivi - con pena residua sotto i 24 mesi, per reati diversi dagli ostativi di cui all’articolo 4 bis O.P. e che negli ultimi 12 mesi non hanno riportato sanzioni disciplinari gravi - sono potenzialmente fruitori di misure alternative alla detenzione in carcere”, rileva Nordio. “Di conseguenza, il Ministero, ha istruito una task force che ha già attivato interlocuzioni con la magistratura di sorveglianza e con i singoli istituti penitenziari per favorire la definizione delle posizioni. La collaborazione istituzionale sta consentendo un iter più veloce delle pratiche già incardinate innanzi i Tribunali di sorveglianza, attraverso lo scambio di dati e notizie riguardanti i singoli detenuti, conclude il Ministro della giustizia Nordio. Carcere come tortura? Il rischio di tradire i principi democratici di Antonio Nesci unosguardosutorino.it, 16 novembre 2025 Nel 2025, parlare di carcere come luogo di tortura può sembrare un’esagerazione. Eppure, i rapporti delle associazioni per i diritti umani, le denunce dei garanti dei detenuti e le statistiche ufficiali ci raccontano un’altra verità: in troppi istituti penitenziari, le condizioni di vita sono così gravi da ledere i diritti fondamentali dell’individuo. La detenzione, se vissuta senza strumenti di riscatto, è già una forma dura di punizione. Quando a questa si aggiungono il sovraffollamento, l’assenza di privacy, la mancanza di cure mediche e la negazione di relazioni affettive, si sfocia in una condizione che somiglia più alla tortura che alla giustizia. Le immagini dei pestaggi di Santa Maria Capua Vetere, emerse nel 2021 e mai davvero dimenticate, restano scolpite nella memoria collettiva. Non si tratta di episodi isolati, ma della punta dell’iceberg di un sistema che in molte sue articolazioni ha smarrito il senso del limite. La violenza, fisica o istituzionale, non può mai diventare parte del sistema penitenziario. E chi difende questi abusi in nome del rigore sta di fatto minando la legalità stessa dello Stato. Le carceri non sono zone franche. Non possono essere luoghi in cui i diritti si sospendono. Al contrario: sono proprio i contesti in cui la forza dello Stato deve mostrarsi più matura, più equa, più umana. E questo vale anche per chi vi lavora: agenti di polizia penitenziaria lasciati soli, malpagati, sottoposti a turni massacranti, inseriti in un sistema che non li tutela e che li espone a un logoramento continuo. La tortura non è solo una questione di manganelli. È anche la detenzione in celle con 10 persone e 4 letti. È l’attesa di mesi per una visita medica. È il non sapere se si uscirà mai diversi da come si è entrati. È il silenzio istituzionale che circonda tutto questo. La vera sfida è restituire senso alla detenzione. Garantire regole, tutele, formazione. Offrire una via per cambiare. Perché uno Stato che tollera la tortura, anche sotto forma di degrado, è uno Stato che ha smesso di essere giusto. Destra e sinistra iniziano a interrogarsi sul da farsi in caso di sconfitta nel referendum sulla giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 16 novembre 2025 La campagna elettorale è già cominciata, e sia nel centrodestra che nel centrosinistra hanno iniziato a fare qualche calcolo per capire come provare a vincere, naturalmente, ma per capire anche come provare a non perdere. Il referendum è lontano, certo, ma la campagna elettorale è già cominciata, e destra e sinistra, da tempo, hanno iniziato a fare qualche calcolo per capire come provare a vincere, naturalmente, ma per capire anche come provare a non perdere, nel caso di sconfitta. Per vincere la partita referendaria, la destra, quella più di buon senso, ha capito che politicizzare troppo il referendum rischia di allontanare dal voto chi non si considera di destra, e considera una riforma garantista come un patrimonio anche progressista, e in questo senso trasformare la riforma in bandiera del berlusconismo o una lotta contro i magistrati sarebbe un errore di cui la maggioranza potrebbe pentirsi. Come vincere non è facile. Ma anche cosa fare in caso di sconfitta non è semplice. La destra, in caso di vittoria del No, non farà rivoluzioni, e proverà a blindare il suo consenso cambiando la legge elettorale. La sinistra, in caso di vittoria del Sì, è possibile che sia tentata dal trasformare un referendum che potrebbe essere su Meloni in un referendum su Schlein, e i giochi di potere per il futuro candidato premier, nel campo largo, potrebbero partire. Per chi suona la campana? Chissà. Maruotti (Anm): “Riforma non contribuisce a efficienza giustizia” Ansa, 16 novembre 2025 “Questa riforma non contribuirà in alcun modo all’efficienza della giustizia. I processi non si accorceranno di un giorno. Le sentenze non potranno essere più giuste in virtù di una riforma che in realtà si limita a cercare di redistribuire diversamente i poteri dello Stato, a porre le condizioni per un controllo da parte dell’esecutivo sull’esercizio dell’azione penale fondamentalmente e quindi sulla magistratura prima inquirente e giudicante poi attraverso un meccanismo molto semplice: si indebolisce il Csm che è l’organo previsto dalla Costituzione per garantire autonomia ed indipendenza dei magistrati”. Lo ha detto Rocco Gustavo Maruotti, segretario nazionale dell’Associazione nazionale magistrati, partecipando questa mattina a Foggia ad un convegno organizzato dal dipartimento di giurisprudenza dell’università dedicato alla “crisi” della figura del giudice e alla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere. Per Maruotti, sono tre i modi attraverso cui il Csm viene indebolito: “dividendolo in due, prevedendo il sorteggio dei suoi componenti ed escludendo la funzione disciplinare che viene attribuita ad un’altra Corte, quindi ad un tribunale speciale. Questo non arrecherà alcun vantaggio ai cittadini”. “Il tema - continua Maruotti - non è l’imparzialità e terzietà del giudice dal pubblico ministero ma la terzietà del giudice dalla politica. La politica deve essere pensata come un fiume in piena e la magistratura rappresenta i suoi argini. La magistratura non ostacola, al di là di quello che dicono la premier Meloni o il ministro Nordio, l’attività del Governo ma fa sì che queste attività vengano svolte nell’ambito delle norme previste dal Parlamento. Siamo all’inizio di una campagna referendaria che abbiamo deciso di affrontare costituendo un nostro comitato per evitare di mischiarci con la politica dei partiti di opposizione che sostengono anche loro il no a questa riforma e siamo solo all’inizio. I sondaggi dimostrano che al momento dopo il fuoco di fila del Governo c’è un vantaggio certo del sì. Abbiamo ancora cinque mesi davanti, il referendum sulla riforma Renzi nel 2016 partiva anche quello con un vantaggio del si del 10%. Dopo tre mesi il trend cambiò. Quindi se avremo tempo e modo di spiegare ai cittadini la riforma, la possibilità di cambiare trend sicuramente ci sarà “. Se i dem cambiano rotta di Marcello Sorgi La Stampa, 16 novembre 2025 Sembra fatta apposta per bruciare sul traguardo il governo, che si accinge a varare un nuovo “decreto sicurezza”, la “svolta securitaria” di Schlein davanti all’assemblea dei sindaci di centrosinistra, che da tempo, anni verrebbe da dire, premono sul Pd per ottenere politiche del genere. Ma quando si parla di questo, basta interrogare i primi cittadini, la prima frontiera è quella dell’immigrazione clandestina - trascurata da Schlein - che affligge molte città del Nord e del centro Italia amministrate da sindaci Pd o da coalizioni simil “campo largo”, che dovrebbero presto sentire le conseguenze dell’accordo bipartisan Meloni-Schlein sulla violenza sessuale. Mentre è abbastanza scontata la convergenza sulle assunzioni e sui miglioramenti salariali per le forze dell’ordine, non è detto che questo possa avvenire per la politica dei “nuovi reati” inaugurata fin dalla nascita dall’attuale governo con il decreto “anti-rave”, e perseguita in molti casi - qui Schlein non ha torto - senza effettivi risultati concreti, nel senso che l’individuazione di nuove figure di reati si risolve, nella maggior parte dei casi, in un aggiornamento di quanto è già previsto nel codice penale, e non sempre, purtroppo, soprattutto tra i giovani, funziona da deterrente. Ma che un partito - il maggior partito di centrosinistra - che si candida al governo debba avere un programma chiaro in materia di sicurezza, non ci sono dubbi. E la scelta della segretaria di snocciolare le sue proposte davanti ai sindaci è opportuna. Lascia intendere anche che, malgrado in questi giorni si sia riacceso il dibattito su chi dovrà essere l’anti-Meloni alle elezioni politiche del 2027, e malgrado - s’intuisce - la candidatura di Schlein non viene data assolutamente per scontata, non solo da Conte, che si sta preparando ad avanzare la propria, ma anche, ed era meno prevedibile, all’interno del Pd, Schlein non ha alcuna intenzione di mollare. Ed anzi si prepara a scrollarsi di dosso l’uniforme movimentista, a cominciare da una maggiore cautela sul referendum sulla giustizia, che per la verità finora era stata lei stessa a cucirsi addosso, per passare al grigio ministeriale che - se gli elettori lo vorranno - potrebbe indossare dalla primavera 2027. In questo senso la “svolta securitaria” è senz’altro un primo passo. La svolta di Schlein sulla sicurezza: “È una priorità, non inseguiamo gli slogan della destra” di Luca Monticelli La Stampa, 16 novembre 2025 Pressing dei sindaci progressisti, Sala: “Servono misure concrete”. “Non è mai successo nella storia del Pd che un segretario dedicasse oltre dieci minuti di intervento al tema della sicurezza”. La sintesi è di Matteo Lepore, sindaco di Bologna, al termine della prima assemblea degli amministratori democratici e progressisti voluta da Elly Schlein nel capoluogo emiliano. La leader dem ha appena parlato dal palco dell’ex capannone industriale di Dumbo, dove ha garantito ai sindaci che la sicurezza è un tema in cui il partito crede fermamente. “Per noi la sicurezza è una priorità reale, non un tema da campagna elettorale permanente”. Schlein sostiene che “esiste un diritto a vivere sicuri, noi non dobbiamo rincorrere la destra ma opporre la nostra visione”. La relazione della leader è stata lunga, ha toccato diversi temi e ha chiuso i lavori sulle città su cui i primi cittadini si sono confrontati, sia in tavoli tematici sia in dibattiti sul palco della kermesse. Il sindaco di Milano Beppe Sala, poco prima che Schlein prenda la parola, si rivolge alla platea: “Mettiamo da parte questo dibattito sulle leadership delle persone, basta, non se ne può più, quel che conta è la leadership delle idee”. E poi direttamente a lei: “Nel territorio c’è una grande rete di amministratori progressisti nell’animo che vogliono dare un contributo per vincere. Non ci sono ricette magiche, però occorre essere coraggiosi e affrontare temi delicati e urticanti”. Sala si riferisce alla sicurezza nelle città: “Se non tiriamo fuori qualche idea nuova è inutile. Non basta dire che mancano le risorse. Oggi se uno spacciatore viene arrestato a Milano si fa un giorno e poi è di nuovo fuori a piede libero a vendere morte”. Lo sfogo del primo cittadino milanese si conclude con un appello: “Elly abbiamo apprezzato gli sforzi che hai fatto per guidare il partito, fai uno sforzo ulteriore per aprire il Pd e il centrosinistra agli amministratori, a chi ha dimostrato voglia di vincere e di lottare. Non aprire solo a chi parla e basta”. Questa iniziativa, a ridosso dell’assemblea Anci, la segretaria l’ha pensata proprio per riavvicinare i sindaci: “Siamo qui per colmare la distanza tra gli amministratori e il partito. Scambiatevi i numeri di telefono, fate squadra, fate rete”. Dopo ha incontrato Romano Prodi, “io ascolto sempre con grande attenzione il professor Prodi, lo leggo con attenzione” ha detto Schlein, ospite a “In altre parole” su La 7. E dai territori è arrivata la spinta a parlare di sicurezza, lo ha detto a questo giornale il presidente dell’Anci Gaetano Manfredi. La svolta sulla sicurezza che Schlein aveva annunciato c’è, ed è un tassello necessario per creare una vera alternativa di governo, per occupare il centro degli schieramenti e rassicurare i riformisti, anche se tra loro qualcuno resta scettico. Una buona parte degli amministratori accoglie con favore la linea: “È l’approccio giusto, siamo tutti molto soddisfatti”, osserva Stefano Lo Russo, primo cittadino di Torino e coordinatore dei sindaci dem. Schlein illustra così la sua visione: “La nostra idea è chiara, sicurezza vuol dire prevenzione e repressione, due pilastri inscindibili. Da una parte la prevenzione: i presidi sociali dei territori e delle comunità per ridurre la marginalità. Dall’altra la repressione: il controllo attraverso gli sforzi quotidiani delle forze dell’ordine che ringrazio. È questo equilibrio che crea davvero la sicurezza, non gli slogan vuoti”. Il governo, evidenzia, “alimenta paura, sforna un decreto Sicurezza dopo l’altro, eppure i reati sono aumentati. La ricetta securitaria della destra è sbagliata e fallimentare”. Arriva anche un richiamo sulla riforma della polizia locale: “Dicono che è in dirittura d’arrivo ma sono loro che la tengono bloccata da più di due anni, si prendano la responsabilità”. Il problema delle risorse è emblematico: “Il governo taglia i fondi, alza l’età pensionabile degli agenti e non assume, c’è un deficit di organico in tutta Italia”. Dal tavolo tematico sulla sicurezza è spuntata una proposta per limitare l’accesso alle armi: “È troppo facile per un minorenne comprare un coltello online, bisogna intervenire”. La garanzia dell’ordine pubblico per sei italiani su dieci vale la scelta del voto di Alessandra Ghisleri La Stampa, 16 novembre 2025 Tra le donne il senso di paura sale al 70%. Per i cittadini spetta alla politica dare risposte. C’è una parola che, più di altre, torna ciclicamente al centro del dibattito pubblico, attraversa le campagne elettorali, plasma i discorsi politici e penetra nel linguaggio quotidiano: sicurezza. Un termine che non è più soltanto sinonimo di ordine pubblico o controllo del territorio, ma è diventato il termometro con cui gli italiani misurano la fiducia nel presente e la speranza nel futuro. È il tema che rassicura e spaventa allo stesso tempo, che unisce e divide, che sembra offrire risposte semplici a problemi complessi. Sarà davvero così? O la sicurezza rischia di diventare, ancora una volta, una parola svuotata, consumata dall’uso politico e dalle promesse non mantenute? Secondo i più recenti sondaggi di Only Number, il 64.4% dei cittadini dichiara di sentirsi meno sicuro rispetto a tre anni fa, una percezione che tra le donne sfiora il 70.0%. Una paura diffusa, alimentata da cronache che mescolano violenza urbana, incertezze economiche e vulnerabilità sociale. Ed è proprio su questo terreno che trova spazio la politica, spesso pronta a trasformare l’insicurezza in strumento di consenso. Non stupisce, allora, che il 57.6% degli italiani consideri la sicurezza un elemento decisivo nella scelta di voto, con un’incidenza ancora più alta tra gli over 65 anni, la fascia di popolazione che più si reca alle urne e più teme di perdere protezioni e punti di riferimento. Tuttavia, la sicurezza non può essere ridotta a un tema di ordine pubblico o a una semplice retorica della paura. Spesso si confonde la sicurezza con la percezione di essa influenzata da esperienze personali, informazioni, degrado urbano, presenza di conflitti sociali. È evidente che in questo caso si rimanda il tema alla cura degli spazi, alla presenza delle istituzioni sul territorio, al dialogo, alle comunità attive. La sicurezza non è soltanto assenza di reati: è la possibilità di vivere in un ambiente che non metta a rischio la salute, la stabilità economica e la qualità della vita. Esiste una sicurezza economica, che riguarda la solidità del lavoro, la capacità di arrivare a fine mese, la fiducia nelle istituzioni fiscali e previdenziali. C’è poi una sicurezza sociale, fatta di reti di solidarietà e di comunità che non lasciano soli i più fragili. E c’è anche una sicurezza sanitaria, che la pandemia ci ha insegnato a non dare mai per scontata: l’accesso equo alle cure, la prevenzione, la tutela di sistemi sanitari pubblici in grado di proteggere tutti. Oggi la nostra vita quotidiana si intreccia con identità digitali che alimentano nuove preoccupazioni: frodi online, violazioni dei dati personali, cyberbullismo. Anche per questo un cittadino si sente davvero sicuro quando percepisce una pubblica amministrazione vicina, efficace e trasparente. Perché la fiducia nelle istituzioni, in tutte le sue forme, è a tutti gli effetti un elemento decisivo della sicurezza. Quando la Premier Giorgia Meloni afferma che “la difesa è sempre legittima”, intercetta un sentimento diffuso di vulnerabilità personale che attraversa diversi strati della società. Tuttavia, una visione integrata della sicurezza sposta l’attenzione dal “difendersi dai pericoli” al creare le condizioni affinché quei pericoli si riducano o non si manifestino affatto, permettendo al cittadino di vivere con fiducia, benessere e libertà. La vera sfida di una democrazia matura non è armare la paura, bensì disinnescarla, trasformando la difesa individuale in una protezione collettiva. La sicurezza, quella autentica, non nasce dall’isolamento, ma dalla fiducia reciproca. E tutto questo non è un’utopia: è un progetto possibile, che molte comunità già dimostrano di poter costruire ogni giorno. Non è solo il diritto di sentirsi al sicuro nelle proprie case, ma anche quello di vivere in un Paese che non lascia indietro nessuno - economicamente, socialmente, “sanitariamente”. Se la sicurezza è il cuore delle nostre paure, deve anche diventare il motore delle nostre responsabilità e solo una politica capace di guardare alla sicurezza a tutto tondo potrà davvero restituire agli italiani non soltanto protezione, ma anche fiducia, perché Sicurezza è il vero parametro del nostro tempo. E allora la domanda resta aperta: saranno davvero in grado i partiti e i loro rappresentanti di comprenderne a fondo tutte le sfumature, tutte le leve, tutti i significati? O anche questa volta la sicurezza diventerà solo una parola consumata, svuotata, sfilacciata dal troppo uso e dal poco ascolto? Perché la sicurezza non si conquista gridando, ma costruendo. E se è vero che la paura divide, è altrettanto vero che la fiducia, quando diventa bene comune, può restituirci il senso profondo di saper vivere insieme. Maltrattamenti della madre contro il figlio, non scatta il reato nei confronti del marito di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2025 La derivazione della sofferenza patita e della prostrazione inflitta a causa della condotta tenuta verso un altro familiare non può essere affermata de plano senza ulteriori accertamenti. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 37220/2025 - ha accolto il ricorso di una donna contro l’ordinanza che le aveva applicato le misure dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento alla parte offesa, cioè suo marito, con l’accusa di maltrattamenti derivanti da condotte violente e vessatorie contro il loro figlio. Le tesi della ricorrente - La ricorrente contestava l’illogicità della decisione del Giudice delle indagini preliminari e del tribunale del riesame di applicarle tali misure limitative personali perché dalle denunciate condotte maltrattanti - come asserito dal proprio marito e da alcuni familiari di lui dirette contro il loro figlio - il giudice abbia invece ritenuto vittima del reato il padre. Le determinazioni della Suprema corte - Non si può, infatti, far derivare la prova della sofferenza patita dall’uomo - e la sua condizione di vittima - per condotte maltrattanti abituali attribuite a sua moglie in danno del figlio, soprattutto in un contesto di coppia non funzionale e causa di una psicoterapia congiunta dei due adulti. Non viene quindi argomentato in alcun modo dal Gip e dal tribunale per quale motivo avessero individuato nel marito della ricorrente la parte offesa dal reato contestato in base a comportamenti rivolti al figlio della coppia. Come conclude la Suprema Corte è illegittimamente privo di motivazione l’automatismo tra comportamenti della madre verso il figlio e la prostrazione del padre in qualità di vittima. Spezzando così illogicamente la connessione causale tra condotta vessatoria ed effetti sulla persona verso cui è agita la violenza. In fondo i giudici - dice la Cassazione - hanno sovrapposto la sofferenza del marito per il deterioramento del rapporto coniugale e l’offesa rivolta verso un altro familiare. Calabria. Carceri sempre più esplosive. “Servono interventi radicali, ora” di Piero Gaeta Gazzetta del Sud, 16 novembre 2025 L’analisi dello psichiatra Nicola Pangallo, coordinatore della sanità penitenziaria dell’Asp di Reggio. “Subiamo un’inadeguata gestione regionale, quotidianamente affrontiamo decisioni “cervellotiche” Occhiuto pensi a un piano diretto e risolutivo, prima che la situazione degeneri in maniera irreversibile” Violenza, suicidi, proteste. Questa è la narrazione attuale del sistema penitenziario. E il nostro territorio? “La realtà reggina è quasi unica nella sua complessità. All’interno della nostra provincia sono presenti cinque istituti penitenziari, due a Reggio (Panzera ed Arghillà), Locri, Palmi, Laureana di Borrello, diversi per utenza, grandezza, affollamento. Queste diversità incidono sulla gestione quotidiana da parte degli operatori e, specialmente, sulla vita intramuraria dei detenuti. Dal punto di vista sanitario, che rappresenta il mio nucleo di pertinenza, nonostante le tante differenze, la gestione è univoca specialmente sul piano delle criticità: enormi richieste di prestazioni esterne, carichi importanti di visite specialistiche, carico crescente di tensioni legate a recriminazioni incongrue e disagi strumentali”. Ma cosa può giustificare le continue aggressioni? “Tentare di trovare soluzioni semplici a questioni complesse è un gioco assolutamente rischioso. Non ho alcuna intenzione di aggiungermi alla pletora di persone che pontifica sul mondo penitenziario (spesso senza averne alcuna reale conoscenza), ma è chiaro si debba considerare una realtà multifattoriale che ha contributo a consolidare l’attuale situazione: l’evoluzione (o involuzione) della società, la contrapposizione tra il pensiero forcaiolo e giustizialista che mira alle pene estreme e quello buonista che porta a considerare il detenuto vittima dello stato, le oggettive difficoltà logistiche (istituti vecchi e sovraffollati) e di personale, sia custodiale che sanitario, in un sistema penitenziario anacronistico e superato. A mio parere serve una rivoluzione culturale che superi l’attuale concezione penitenziaria, fin dalle sue basi più profonde. Ma questo, qui e adesso, diventa solo un esercizio filosofico”. Reggio Calabria. La fame come ultimo appello, i detenuti di San Pietro chiedono diritti di Paola Suraci Corriere della Calabria, 16 novembre 2025 A Reggio Calabria 47 detenuti rinunciano al cibo per denunciare strutture fatiscenti e condizioni di vita al limite. I Garanti chiedono risposte immediate. Rifiutano il cibo da oltre dieci giorni. La protesta, iniziata con 23 detenuti della sezione “Scilla” del carcere di San Pietro a Reggio Calabria, oggi coinvolge 47 uomini, tutti appartenenti al circuito di alta sicurezza. Un gesto estremo, ma preciso e determinato, con cui denunciano le condizioni di vita che considerano insopportabili: celle anguste, corridoi scrostati, spazi comuni ridotti al minimo e cortili esterni privi di riparo dal sole cocente o dalla pioggia. Ogni gesto quotidiano, dal camminare all’aria aperta al semplice trascorrere del tempo fuori dalla cella, diventa una prova costante. La vicenda è seguita da vicino dai garanti dei detenuti: Giovanna Russo, Garante regionale dei diritti delle persone detenute per la Calabria, e Giuseppe Aloisio, Garante comunale dei detenuti di Reggio Calabria. Entrambi hanno visitato più volte la sezione, parlando con i detenuti e verificando le loro condizioni di salute. Russo spiega: “Stiamo monitorando attentamente la situazione. Abbiamo verificato che ogni giorno i detenuti vengano sottoposti a controlli da parte dell’area sanitaria dell’istituto. A tal proposito, manteniamo un contatto diretto e costante con la direzione e con l’amministrazione penitenziaria, ricevendo aggiornamenti continui sull’evoluzione degli eventi”. La protesta in un silenzio che pesa - L’amministrazione penitenziaria, dunque, in collaborazione con i garanti, monitora quotidianamente i detenuti, garantendo assistenza sanitaria e tutela dei diritti fondamentali. Dietro ai protocolli e ai numeri ci sono uomini che chiedono solo ciò che dovrebbe essere naturale: vivere in sicurezza, in ambienti dignitosi e puliti, con la possibilità di svolgere le attività quotidiane minime senza rischi. Lo sciopero della fame a San Pietro non è un episodio isolato. È il simbolo delle criticità che affliggono molte carceri italiane, tra edifici vecchi, sovraffollamento e strutture fatiscenti. La presenza dei garanti Russo e Aloisio è fondamentale: rappresentano il ponte tra i detenuti e le istituzioni, assicurando che le loro voci non rimangano inascoltate e che le istanze della protesta siano seguite concretamente. Nella sezione “Scilla”, ogni giorno scorre tra corridoi silenziosi, celle anguste e gesti che parlano di fatica e resistenza. I detenuti continuano a resistere, trasformando la loro protesta in un richiamo urgente alle istituzioni: servono interventi concreti, manutenzione e ristrutturazione, prima che la situazione peggiori ulteriormente. In questo silenzio che pesa, la voce dei 47 uomini di San Pietro ricorda che la dignità e i diritti non possono essere sospesi dietro le sbarre. Como. Carcere Bassone sfollato dopo la rivolta: via 30 detenuti, mandati anche in Sardegna di Paola Pioppi Il Giorno, 16 novembre 2025 Continuano gli sfollamenti dei detenuti che giovedì hanno partecipato alla rivolta scoppiata in due sezioni della casa circondariale Bassone. Nel mirino sono finiti almeno 50 nomi, soggetti che hanno scatenato o anche solo preso parte alla violenta protesta, degenerata in gravissimi danneggiamenti delle sezioni coinvolte. Molti di loro sono ancora da identificare, in quanto fin dai primi minuti, i detenuti hanno preso di mira e sfasciato le telecamere presenti nei corridoi o puntate verso le celle. Ma in molti casi, gli agenti sono stati in grado di vederli. Innanzi tutto i poliziotti che erano presenti al momento dello scoppio della rivolta - sei dei quali rimasti contusi e uno ferito, con una frattura del naso causata da un nordafricano che lo ha preso a pugni in faccia - hanno visto chi si è armato e ha commesso aggressioni e danneggiamenti. Ma anche i colleghi accorsi da altre parti del carcere, barricati dietro i vetri dei portoni in metallo presi a mazzate e distrutti, hanno potuto identificare molti rivoltosi, tutti di origine nordafricana, collocati nelle sezioni prima e quarta, che si trovano una sopra l’altra. In poche ore, sono stati almeno 30 i detenuti identificati e allontanati dal Bassone: i primi in strutture carcerarie vicine, tra cui Varese. Gli altri saranno mandati in Piemonte, Sardegna e altre regioni, come avallato dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Un’azione non solo punitiva nei confronti di chi ha generato il caos, ma necessaria per spezzare i sodalizi che hanno consentito di far partire un’azione coordinata e pretestuosa. Tra le tante reazioni giunte nelle ultime ore, il sovraffollamento viene indicato come una delle condizioni principali che stanno alla base di fenomeni di questo genere, ma non solo: “Abbiamo anche evidenziato la mancanza di personale sia relativamente alla Polizia penitenziaria che agli educatori e al personale medico - dicono Luigino Nessi e Gianluca Giovinazzo di Sinistra italiana Como - A questi problemi si aggiunge un’alta presenza di detenuti psichiatrici o comunque problematici che non ricevono una adeguata assistenza e che, soprattutto, non dovrebbero stare in un istituto penitenziario”. Firenze. “Ripensare gli spazi del carcere”, la proposta dei costruttori toscani per Sollicciano di Manuela Plastina La Nazione, 16 novembre 2025 Pubblico e privato insieme per ristrutturare l’istituto e rivoluzionarne la gestione. L’idea di Ance Toscana. Un progetto di riqualificazione per il carcere di Sollicciano, con il coinvolgimento anche degli stessi detenuti. Che sia una rivoluzione non solo per gli spazi fisici - attualmente in pessime condizioni - ma anche per come essi vengono utilizzati e concepiti. Un ripensamento, quindi, dell’intero sistema carcere: non una mera punizione, ma un percorso di riabilitazione. Nel nome di quel reinserimento sociale e di quella rieducazione ricordata - ma non abbastanza evidentemente - dall’articolo 27 della Costituzione. È la proposta, che coinvolgerebbe pubblico e privato, che verrà fuori domani dal convegno organizzato nelle stanze del tribunale, da Ance Toscana: “Ripensare il carcere a partire dagli spazi di detenzione. Strumenti finanziari per una soluzione in Partenariato pubblico”. L’iniziativa nasce da un lavoro che l’associazione ha condotto negli ultimi due anni sull’edilizia carceraria, anche in collaborazione con il P.R.A.P. regionale, con il quale è emerso come le strutture detentive siano tra i luoghi in cui la rigenerazione urbana e la sinergia tra pubblico e privato possono sostenere una seria riqualificazione dei contesti sia in termini urbanistici che di recupero sociale. E Sollicciano è l’emblema della necessità di un ripensamento, alla luce delle forti criticità strutturali e non solo in cui versa il penitenziario fiorentino. E per le quali si trova ormai da anni al centro di tanti, ad oggi non risolutivi, dibattiti politici. “Sovraffollamento, caldo d’estate, freddo d’inverno, pioggia e sporcizia, cimici nelle celle - ricorda Vincenzo Di Nardo, vicepresidente di Ance Toscana e presidente dell’Associazione Culturale Firenze Domani -. E poi, ancora, umidità, cedimenti strutturali, intonaci cadenti, pochissime attività formative, carenza di personale. La dignità dentro Sollicciano è morta. Di fronte a questo scenario ci siamo sentiti in dovere di elaborare una proposta in project financing per il restauro dell’istituto fiorentino e la costruzione di nuove carceri. Con un intervento privato, un contributo pubblico e la possibilità di realizzare servizi interni affidati ai privati, ma assumendo i detenuti che, in questo modo, percepiscono uno stipendio e vengono formati in ottica di un futuro reinserimento sociale”. Ance lancia così ‘il sasso’ anche solo per smuovere le acque di un dibattito stagnante. Chissà che qualcosa non cambi veramente. Mantova. Il Reiki entra nel carcere: nuovo corso per le detenute Gazzetta di Mantova, 16 novembre 2025 “Così aiutiamo chi ha bisogno ad ascoltarsi e a sciogliere le emozioni negative. Con il calore dell’energia”. Non si ascoltavano più, costrette a osservare il mondo a spicchi e strisce, attraverso le sbarre. Senza più la prospettiva di un orizzonte certo, anche il sonno era diventato una punteggiatura inutile. Così per le detenute della casa circondariale di via Poma, coinvolte in un percorso di Reiki: articolato in quattro sedute, è stato riproposto dopo il gradimento della prima edizione (domani l’ultimo incontro). L’iniziativa, incoraggiata dalla direzione della Casa circondariale, è dell’associazione Sos Reiki, che offre un servizio di volontariato a persone (“e amici animali”) in situazioni di sofferenza fisica ed emotiva. Efficacia del Reiki - “All’inizio erano apatiche, avevano perso la connessione con la propria parte interiore” racconta il presidente dell’associazione, Matteo Ferrarini, a proposito delle detenute che hanno aderito al corso. “Se si è rivelato efficace? Sì, hanno ripreso a vivere in modo più umano e a dormire meglio”. La tecnica del Reiki - Di cosa si tratta, esattamente? “Oggi il Reiki è concepito come una tecnica olistica che favorisce l’auto guarigione attraverso l’energia sprigionata sotto forma di calore, trasmessa dai palmi delle mani dell’operatore - risponde Ferrarini - Sul piano fisico, diminuisce il dolore e accelera il processo di guarigione, su quello emotivo aiuta a calmare le mente. Il metodo è abbastanza semplice da imparare”. Il fascino del Reiki - Quarantasette anni, di professione formatore in tema di sicurezza industriale, Ferrarini è buddista e racconta che del Reiki lo ha affascinato la dimensione fisica-dimostrativa, l’effetto tangibile del calore. Un di più rispetto alla meditazione. Le mani si appoggiano sui punti di disequilibrio energetico - il cuore, la gola, lo stomaco - dove si condensano ansia e rabbia. Domanda: c’è oggi sete di spiritualità? “Sì, ma la tendenza umana è materialista e superficiale. Spesso ci si ferma all’obiettivo di stare meglio. Andare a fondo obbliga ad affrontare le proprie ombre”. Ancona. “TheRAPia”, rap in carcere racconta la quotidianità dei detenuti youtvrs.it, 16 novembre 2025 Cosa faresti se il tuo migliore amico finisse in carcere? Da questa domanda nasce “TheRAPia”, il progetto ideato dalla rapper marchigiana Miss Simpatia, al secolo Sandra Piacentini, che per rivedere un amico detenuto ha varcato le porte della Casa Circondariale di Montacuto ad Ancona. Quell’ingresso, però, si è trasformato in qualcosa di molto più grande. “Pensavo di entrare per rivedere Hamza. Invece ho visto il paese. Nudo. Marcio. Segreto. Non è fiction. Qui parlano i veri detenut”, racconta l’artista. “TheRAPia” è diventato un laboratorio di scrittura e rap rivolto ai detenuti, sostenuto dal direttore Manuela Ceresani, che ha coinvolto nomi noti della scena musicale come Emis Killa, Jamil, Jbeat, Trapgod, Shekkero e John Durrel. Dal progetto è nato un documentario crudo e autentico, firmato da Tommaso Giantommasi e Ludovico Morandi. “Un giorno - ricorda Miss Simpatia - uno dei ragazzi mi ha preso le mani e mi ha detto: ‘tu mi hai salvato la vita, questo corso mi ha salvato la vita’”. Accanto al documentario, tra le mura di Montacuto è nato anche il libro interattivo “Cuore in cella”, in uscita nel 2026 con il supporto del manager Luca Michele Coccia. L’opera racconta con un linguaggio diretto e poetico la quotidianità del carcere. Il Comandante della Polizia Penitenziaria Nicola De Filippis, dopo aver letto un estratto in anteprima, ha commentato: “descrivi il carcere per ciò che realmente è, con parole profondissime”. “Cuore in cella” e “TheRAPia” formano oggi un’unica storia di resistenza culturale, che porta nel dibattito pubblico il lato umano del sistema penitenziario italiano e la potenza della parola come salvezza. All’orizzonte anche un nuovo progetto: la nascita dell’etichetta discografica Ankora Music Lab, fondata da Miss Simpatia insieme a Luca Michele Coccia e Roberta Decrescenzo, dedicata ai talenti marchigiani e alle nuove voci emergenti. Lorenz, Gramsci e gli altri. Quando la letteratura che fa la storia nasce in carcere di Marco Lanterna Il Foglio, 16 novembre 2025 Il potere della letteratura è di non agire direttamente nella storia, ma di agire sui singoli uomini che poi nella storia agiscono. Il come purtroppo rimane un fatto extra letterario. In questi tempi di sovrainformazione dove, per ogni accadimento, ai canali ufficiali si affiancano e sovrappongono quelli ufficiosi e alternativi dei social, in un coacervo non di disinformazione oscurantista, bensì al contrario di iperinformazione illuminista, però con conseguente e paradossale sparizione del vero nel riverbero dei veri, gioca ancora un ruolo decisivo la vecchia e bistrattata Letteratura. Ucraina, Gaza etc.: disponiamo di mille resoconti e reportage in tempo reale, una letteratura instant pressoché infinita, eppure la comprensione e fissazione di tali eventi storici sarà aiutata solo da singole e potenti testimonianze letterarie: in ultima analisi dall’arte. Sempre l’uomo, quasi a rivendicare quella scintilla divina che egli si assegna, pur dal fondo della barbarie avverte il bisogno di prender carta e penna per tramandare se stesso. Cosa invero commovente, perché mentre tutto cola a picco qualcuno si dà la briga di riporre un fragile cartiglio entro una fragile bottiglia per affidarla ai flutti incerti della posterità. E’ una letteratura postrema e particolarissima quella bellico-concentrazionario-carceraria con una fisionomia e modalità proprie ed esiti talora rilevantissimi. È anche una letteratura politicamente super partes, già di suo istruttiva, perché nella storia nessuno è veramente dalla parte giusta e quindi tutti hanno i loro peccatucci, i loro scheletri nell’armadio, siano essi lager o gulag, inquisizioni o tribunali speciali. Un primo carattere di questa letteratura è di difficoltà materiale: il trovar carta e penna. Lorenz per esempio, internato alla fine della guerra in un gulag, raccolse nel cosiddetto Manoscritto russo le intuizioni fondamentali dei suoi libri etologici a venire (e ovviamente di pessimistica antropologia), servendosi di carta di sacchi di cemento e d’inchiostro ricavato da bacche. Anche altri strumenti di studio difettano in questo genere di letteratura. Gramsci, i cui fogli dei Quaderni erano poliziescamente vidimati, mendicava per lettera ai famigliari dizionari e grammatiche, raccomandandosi prima di squadernarli ossia di toglier loro la copertina onde poter superare i controlli di polizia. Impressiona in lui e in altri studiosi carcerati - tipo Giannone, rinchiuso nelle prigioni sabaude - la capacità di mettere a profitto singole opere di consultazione (per Giannone il Dictionnaire Moreri), sviscerate prodigiosamente, nonché la mirabolante memoria a far le veci di una ricca biblioteca. I resoconti dai lager e dai gulag - da Levi ad Amery, da Salamov a Solzenicyn - son tanto noti quanto dissonanti rispetto al presente, giacché tutti quei moniti altissimi e “mai più” umanistici e shema biblici sembrano esser caduti peggio che nel vuoto: infatti, come in un ilaro-tragico gioco dell’oca, l’uomo torna sempre allo stesso punto, al proprio immedicabile male originario. Un altro carattere di questa letteratura è l’urgenza, l’indifferibilità, ben rilevata da Orwell nel suo Why I Write. Che si leggano le lettere dei soldati tedeschi da Stalingrado o quelle dei condannati a morte della resistenza europea, s’impone un dire che ha la lucidità allucinata degli ultimi momenti. Uomini anonimi che assurgono a eroi da tragedia greca o shakespeariana - Edipi e Antigoni o Amleti e Macbetti - con parole che non ammettono replica e sembrano incise sul marmo: ultimo dono di chi sa di non aver più tempo e dover quindi riversare tutta la propria anima in quei pochi suoni. È anche una letteratura che alla lunga sposta le montagne, spostando prima le coscienze dei lettori. È noto il giudizio del Metternich sulle Prigioni del Pellico, forse la miglior recensione involontaria a un libro, ossia che costarono all’Austria ben più di qualche battaglia persa. Questo è il potere della letteratura, la sua azione mediata: non agisce direttamente nella storia, quasi della storia avesse un giusto ribrezzo, ma agisce sui singoli uomini che poi nella storia agiscono. Il come purtroppo rimane un fatto extraletterario. L’educazione affettiva? Nei romanzi di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 16 novembre 2025 Gli studenti dovranno essere accompagnato da un bravo insegnante di letteratura, di quelli e di quelle che sanno leggere e appassionare (ce ne sono tanti e tante). Sarà la volta buona che finalmente la scuola riuscirà a fare apprezzare la lettura ai ragazzi e alle ragazze, se l’educazione sessuale o affettiva, chiamiamola come vogliamo, passerà attraverso le pagine dei grandi romanzi. Chi è che insegnerà l’educazione sessuale o sentimentale o affettiva ai nostri figli e alle nostre figlie? Quali figure professionali o morali saranno le più adatte? Gli psicologi e le psicologhe? I filosofi? Gli scienziati? La psicoterapeuta o l’esperto dell’età evolutiva? Basterà un’ora alla settimana? Due o tre ore? E quelle due ore le aggiungiamo all’orario ordinario curricolare oppure decidiamo di sforbiciare l’italiano e la geostoria o piuttosto la matematica? E anche se si trovasse una soluzione che accontenti tutti: una volta usciti migliori dalle due ore di educazione affettiva, il mondo degli adulti che cosa offre? Massacri, sopraffazioni, disprezzo, urla, bugie, bufale, minacce, non discussioni ma baruffe persino in Parlamento, insulti, evasioni fiscali e sanatorie agli evasori, “fuori dalle palle” eccetera. Consapevoli di tutto ciò, vogliamo trovare una via ragionevole perché l’educazione affettiva non resti nel novero delle buone intenzioni naufragate nell’oceano dell’inutilità tipo l’alternanza scuola-lavoro? Chiunque la faccia, dovrà essere accompagnato da un bravo insegnante di letteratura, di quelli e di quelle che sanno leggere e appassionare (ce ne sono tanti e tante). Sarà la volta buona che finalmente la scuola riuscirà a fare apprezzare la lettura ai ragazzi e alle ragazze, se l’educazione sessuale o affettiva, chiamiamola come vogliamo, passerà attraverso le pagine dei grandi romanzi. Provare ad avvicinare gli adolescenti a certe scene conturbanti raccontate da Hemingway, all’iniziazione del giovane Adso nel Nome della rosa; sfogliare Agostino per farsi aiutare da Moravia; lasciarsi sorprendere da García Márquez e da Vargas Llosa; cercare non in Alina Reyes o in Elfriede Jelinek ma in Toni Morrison, in Antonia Byatt, in Doris Lessing per ritrovare il sesso pensato e vissuto dalle donne. E ci sono pagine molto intense anche nell’Amica geniale di Elena Ferrante. L’elenco sarebbe sterminato. Da leggere, da commentare e da discutere. Con cautela ma, per piacere (per piacere), con coraggio. Quando anche la giustizia è una trappola: ricerca denuncia il lato nascosto degli abusi domestici di Nadia Somma Caiati* Il Fatto Quotidiano, 16 novembre 2025 Lo studio di Choudry e Rodriguez Gutierrez, realizzato in collaborazione con D.i.Re, mostra un problema comune ai sistemi giudiziari: una comprensione parziale della violenza familiare. Per molte donne europee, lasciare un partner violento non significa mettersi in salvo. Significa entrare in un nuovo labirinto: quello della giustizia familiare, che spesso finisce per aggravare il trauma della violenza. Un ampio studio condotto in cinque Paesi - Bosnia, Inghilterra e Galles, Francia, Italia e Spagna - solleva interrogativi sulla capacità dei sistemi giudiziari di proteggere donne e bambini. Quali sono le conclusioni della ricerca? La giustizia familiare, così com’è, rischia di riprodurre la violenza anziché contrastarla. La ricerca La risposta della giustizia familiare agli abusi domestici, condotta da Shazia Choudry e Daniela Rodriguez Gutierrez, realizzata in Italia grazie alla collaborazione della rete D.i.Re, mostra un problema comune a tutti i sistemi giudiziari analizzati, e una comprensione parziale, spesso fuorviante, della violenza domestica. Giudici, avvocati e consulenti tecnici tendono a classificare gli episodi come semplici conflitti tra ex partner, minimizzando la gravità degli abusi o definendoli come “storici” ovvero legati al passato della vita di coppia e quindi irrilevanti per le decisioni sull’affidamento. A ciò si aggiunge una sfiducia generalizzata verso le denunce delle donne. Le “false accuse”, peraltro statisticamente rare, vengono percepite come frequenti e strategiche. Il risultato? Bambini costretti al contatto con genitori violenti anche quando gli elementi a tutela suggerirebbero prudenza. In tutti i Paesi esaminati, molte sopravvissute riferiscono di essersi sentite ignorate o screditate nelle aule di tribunale, spinte a minimizzare la violenza per evitare ripercussioni processuali, giudicate più severamente degli uomini nel loro ruolo genitoriale. La responsabilità del mantenimento del rapporto padre-figlio ricade quasi sempre sulle madri, anche quando denunciano pericoli concreti. Per molte, il percorso giudiziario diventa un’ulteriore forma di trauma: frustrazione, impotenza e la sensazione di essere di nuovo sotto accusa. Lo studio evidenzia problemi strutturali comuni: perizie che richiedono mesi o addirittura un anno, tribunali sovraccarichi e giudici senza una formazione adeguata. Inoltre c’è scarsa comunicazione tra processo penale e processo civile con costi elevatissimi, che tagliano fuori molte donne dall’assistenza legale. Nonostante le critiche internazionali e l’assenza di fondamento scientifico, la teoria dell’”alienazione parentale” continua a influenzare le decisioni dei tribunali europei. Spesso il termine non viene nemmeno pronunciato ma i meccanismi sono gli stessi: paura, ansia o comportamenti protettivi delle madri vengono letti come tentativi di manipolare i figli contro il padre. Questa lente interpretativa distorce il quadro e rischia di delegittimare le denunce di violenza, ribaltare la colpa sulle vittime, proteggere i perpetratori. Non è un caso che nei procedimenti si fa riferimento ai diritti umani per richiamare alla tutela del “diritto alla vita familiare” del genitore violento, non in riferimento alla sicurezza dei bambini o (non sia mai!) alla libertà dalla violenza delle donne. La ricerca individua quattro interventi urgenti da fare per ridare equità ai sistemi giudiziari: la formazione obbligatoria su violenza domestica, stereotipi e discriminazioni rivolta a giudici, avvocati, assistenti sociali e consulenti. Standard rigorosi e verificabili per chi svolge perizie e valutazioni tecniche. Riforme strutturali, inclusi tribunali specializzati, e un miglior coordinamento tra giustizia civile, penale e servizi territoriali. Infine risorse adeguate per garantire tempi rapidi, accesso reale all’assistenza legale e servizi equamente distribuiti. In Italia, la violenza domestica resta un’emergenza sommersa. Secondo l’indagine condotta del 2019, grazie al Progetto Step, dell’Università della Tuscia, in alcune regioni un uomo su due ritiene accettabile la violenza “in determinate circostanze”. I bambini sono spesso testimoni invisibili: nel 63% delle donne accolte nei Centri antiviolenza ci sono figli minori, e un bambino su cinque subisce violenza assistita. Il sistema giudiziario, intanto, fatica a riconoscere le criticità nonostante le continue denunce delle associazioni per i diritti delle donne: l’affidamento condiviso è applicato nel 90% dei casi, sono favoriti i contatti non protetti con il genitore violento e le madri sono spesso giudicate “non collaborative”, i minori non ascoltati o allontanati con prelievi coatti. La ricerca, cita la riforma Cartabia come elemento di innovazione peccato che non venga applicata. Per esempio, i bambini continuano a non essere ascoltati e i consulenti tecnici d’ufficio sono quasi sempre privi di competenze specifiche se non attraversati da pregiudizi misogini (come ha dimostrato la ricerca di Patrizia Romito e Marianna Santonocito). *Responsabile Centro antiviolenza Demetra Migranti detenuti nei Cpr nonostante fragilità psichiche, rilasciati e abbandonati a sé stessi di Federica Pennelli Il Domani, 16 novembre 2025 Non solo il ragazzo trasferito da via Corelli di Milano alla struttura di Gjadër, in Albania, valutato inidoneo al trattenimento. Come denuncia la rete Mai più lager, le storie legate al sistema di violenza detentiva dei Cpr sono molte, quotidiane e strutturali. L’infettivologo Nicola Cocco: “Il contesto detentivo che non può essere migliorato, riformato e nemmeno “monitorato”: può solo essere abolito”. Prima nove mesi nel Cpr di via Corelli a Milano, poi spostato nella notte nel centro di detenzione per migranti di Gjadër in Albania e ora valutato dalla Commissione vulnerabilità come persona non idonea al trattenimento, e rispedito in Italia. Parliamo del ragazzo con gravi problemi psichici di cui avevamo raccontato su questo giornale, che dopo aver subito il trauma della detenzione e del viaggio di andata e ritorno dall’Albania, è stato riportato due giorni fa in Italia e poi, stando a quanto denuncia la rete Mai più lager, probabilmente abbandonato per strada, nonostante le enormi fragilità psicologiche. Ma le storie legate al sistema di violenza detentiva dei Cpr sono molte, quotidiane e strutturali. Rinchiusi, sedati e abbandonati - Alla storia del primo ragazzo che abbiamo raccontato se ne aggiunge un’altra, sempre denunciata dalla rete Mai più Lager: un ragazzo palestinese, anch’esso rinchiuso nel Cpr a Milano, è stato dichiarato idoneo alla detenzione nonostante abbia serissime fragilità psichiche: messo in isolamento, avrebbe violentemente sbattuto la testa, procurandosi tagli e ferite. Inoltre, il ragazzo avrebbe ingerito pezzi di metallo - per cui è servito un intervento chirurgico - oltre ad avere collo e braccia coperti da decine di punti di sutura per curare le ferite che si era provocato con atti di autolesionismo. La rete Mai più lager ha raccontato che si tratta di “una persona ex tossicodipendente, già in cura al Serd. Le rare volte in cui siamo riusciti a metterci in contatto con lui abbiamo notato che biascica - imbottito di farmaci - e ci chiede aiuto in lacrime”. Secondo la rete il ragazzo palestinese è stato rilasciato tra la serata del 14 novembre e la mattina del 15. Anche lui senza essere preso in carico dai servizi di psichiatrica e senza un posto sicuro in cui alloggiare. Quello che accade alle persone detenute è un cortocircuito di disumanità e illegittimità: le persone si “ammalano di detenzione”, in un calvario che si trovano a subire ogni giorno. Quando poi, con ritardo, le commissioni dichiarano l’inabilità al trattenimento nei Cpr, sono lasciate sole in strada. Senza presa in carico delle fragilità fisiche e mentali, senza prospettive di reinserimento nel tessuto sociale e senza futuro. “I cpr devono essere aboliti” - Per Nicola Cocco, infettivologo e attivista della rete Mai più lager e della Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm), quelle dei due ragazzi rappresentano casi di “abbandono sanitario”. Sul primo, da poco tornato dall’Albania, dice: “Ora è stato probabilmente lasciato per strada, fuori da qualsiasi percorso di tipo terapeutico”. Mentre il ragazzo palestinese, “chiaramente non rimpatriabile” e, nonostante i numerosi problemi di salute, è stato valutato anch’esso come idoneo al trattenimento nel Cpr “dagli psichiatri di un importante ospedale lombardo”. E, come racconta sempre Cocco, “pur in presenza di numerosi gesti di autolesionismo anche molto cruenti, è stato rinviato al Cpr perché non sussistono “acuzie” psichiatriche che giustifichino un allontanamento dal centro”. Secondo l’attivista è la detenzione amministrativa a essere psicopatogena, perché “spezza la salute psicofisica di persone che all’interno di questi centri, giudicati “torturanti” a livello internazionale, vengono ridotti a “nuda vita”, per dirla con le parole di Giorgio Agamben”. E, continua Cocco: “Si va dalla deriva manicomiale all’abbandono sanitario tout court. Franco Basaglia si rivolta nella tomba nel vedere medici che non riconoscono la patogenicità evidente di un’istituzione totale basata sul razzismo istituzionale come il Cpr”. Per il dottor Cocco c’è bisogno di una presa di posizione “forte e chiara da parte dei professionisti della salute, affinché riconoscano l’emergenza sanitaria rappresentata dalla detenzione amministrativa e possano evitare di essere complici di un sistema torturante, agendo affinché nessuno resti in un contesto detentivo che non può essere migliorato, riformato, nemmeno “monitorato”: può solo essere abolito”. Le reazioni della politica - In merito alla vicenda, il gruppo politico di Avs si è mosso su più fronti: la deputata Francesca Ghirra, alla Camera, ha denunciato la deriva manicomiale dei Cpr italiani e “l’illegittimità della nostra Guantanamo albanese”. Per la deputata occorre “cambiare le modalità di gestione dei flussi migratori e chiudere immediatamente i Cpr; buchi neri del diritto”. È inoltre necessario “trovare delle soluzioni per queste persone che sono sequestrate dallo stato, in condizioni disumane. Per noi i Cpr sono stati un errore politico ed economico. Pretendiamo un’interrogazione alla presidente del Consiglio e al ministro Piantedosi, pretendiamo che vengano qui in aula a riferirci di questo ed anche degli ultimi accordi che sono stati siglati”. Altre deputate si stanno muovendo a livello europeo: “Questa è una vicenda gravissima - dice l’europarlamentare Ilaria Salis - Non so dire se è più grave che una persona con evidenti fragilità psichiche sia stata trattenuta per mesi nel Cpr di Milano oppure che le deportazioni verso il Cpr albanese vengano utilizzate di fatto come strumento per liberarsi dei detenuti ritenuti “problematici”“. Salis si aspetta “doverose spiegazioni da parte delle autorità competenti”. L’europarlamentare ha infine raccontato a Domani che, insieme a Cecilia Strada (Pd), stanno preparando un’interrogazione alla Commissione parlamentare europea, in merito a questi terribili accadimenti. Migranti. Edi Rama: “I Centri italiani in Albania? Aspettiamo il nuovo Patto europeo” di Leonard Berberi Corriere della Sera, 16 novembre 2025 “Sarà il Patto europeo a dire come evolveranno i Centri per migranti. Le accuse? Parte del gioco”. Il primo vertice intergovernativo Italia-Albania di Villa Doria Pamphilj, a Roma, ha ribadito il rapporto sempre più stretto tra i due Stati e quello personale (e politico) tra i premier Giorgia Meloni ed Edi Rama. Il primo ministro balcanico si è addirittura spinto a dire che Italia ed Albania sono un “unico Paese”. Anche se la polemica - politica e giudiziaria - sui centri per migranti italiani in territorio albanese causa qualche mal di testa. “Quello che posso dire è che anche su questo dossier siamo stati e siamo al fianco del governo italiano”, dice Rama in un’intervista al Corriere. Primo ministro, in quale contesto delle relazioni Albania-Italia si inserisce l’appuntamento tra i due esecutivi a Roma? “Il vertice tra i due governi è uno sviluppo storico nelle strette relazioni strategiche tra l’Albania e l’Italia. Apre nuove prospettive di cooperazione in settori chiave di interesse reciproco come l’energia, la difesa o la sicurezza delle frontiere, oltre che sul piano geopolitico, senza dubbio”. Si è parlato molto dei centri per migranti italiani realizzati nel nord dell’Albania: a che punto siamo con queste strutture? “Non ho nulla da aggiungere oltre ciò che ha spiegato molto bene la vostra presidente del Consiglio”. Primo ministro, mi permetto di insistere: questi centri funzionano oppure il loro modello va rivisto? “Il nuovo Patto europeo sulla migrazione ci mostrerà come evolveranno questi centri. E il gruppo di Paesi coinvolti è considerevole”. Ci sono state molte accuse sulla gestione di questi centri in Albania, in particolare sulle spese considerevoli sostenute per gestire pochi migranti. Per non parlare delle questioni giuridiche. Cosa risponde? “Le accuse ormai sono parte integrante della nostra vita, che viene sommersa ogni giorno dal fango infinito dei social network, mentre la velocità vertiginosa con cui gira il mondo dell’informazione rende sempre più difficile capire la verità, dato che le gambe delle bugie sono diventate ancora più veloci nel fare il giro del mondo. L’Albania non ha investito un solo euro in questo progetto, quindi almeno in questo caso non possiamo essere accusati come al solito”. Quali sono i dossier che i due Paesi stanno affrontando insieme in questi mesi? “L’adesione europea dell’Albania nel quadro di ciò che, giustamente, la presidente del Consiglio Meloni definisce la “riunificazione europea”, i progetti infrastrutturali, energetici e militari comuni, e naturalmente il fronte comune contro i traffici e l’immigrazione illegale”. L’ingresso del suo Paese nell’Unione europea al momento non si concretizza: quanto siamo lontani? “L’Albania si trova in un momento decisivo. Questi giorni apriamo anche il capitolo finale dei negoziati di adesione ed entro il 2027 vogliamo chiuderli”. Che ruolo si aspetta che svolga Roma per l’Albania in questo iter? “L’Italia è un’avvocata tradizionale dell’Albania nell’Ue. È la nostra voce più forte a Bruxelles. Il mio Paese non potrà mai ripagare all’Italia il grande debito morale per tutto ciò che ha fatto per noi. Gli albanesi non dimenticheranno mai quel debito”. L’Italia arriva da anni in cui, a livello europeo, non è sembrata molto presa in considerazione, complice l’instabilità politica. Oggi qual è il ruolo dell’Italia a Bruxelles? “Giorgia Meloni ha portato la rappresentanza dell’Italia a un altro livello nell’arena internazionale, e questo ormai è un’opinione diffusa globalmente. Tutti vogliono sapere cosa pensa la presidente del Consiglio italiana su ogni problema che preoccupa la comunità internazionale”. Con Donald Trump alla Casa Bianca e l’alleanza strategica Russia-Cina-India, l’Ue sembra messa all’angolo... “Sì, è vero. Ma in un certo senso questi sviluppi rappresentano una grande opportunità per il risveglio dell’Unione europea”. Il dossier Ucraina rimane aperto. È venuto il momento per Kiev di cedere i territori alla Russia - come chiedono alcuni - o l’integrità è il prerequisito per qualsiasi negoziato? “L’Albania sostiene pienamente l’integrità territoriale dell’Ucraina e nessuna soluzione che intacchi i suoi confini sovrani può essere accettata come definitiva. Ma allo stesso tempo è davvero preoccupante che l’Europa non abbia ancora un suo piano di pace. E spero molto che non arrivi in ritardo quanto la fine stessa della guerra”. Venezuela. Caso Alberto Trentini, la madre: “Per lui il governo non ha fatto abbastanza” di Natalia Distefano Corriere della Sera, 16 novembre 2025 Il cooperante italiano è detenuto in un carcere in Venezuela da un anno senza un capo di accusa formale. Nell’anniversario dell’arresto la madre Armanda Colusso accusa: “Gli è stato tolto un anno di vita”. “Mi aveva rasserenata la stretta di mano del nostro presidente Mattarella il 19 ottobre scorso alla ministra dell’Istruzione venezuelana e il clima disteso e costruttivo con cui si erano tenute le celebrazioni per la canonizzazione dei due santi venezuelani a Roma. Avevo sperato che quella occasione fosse il punto di svolta per la liberazione di Alberto”. A dirlo è Armanda Colusso, madre del cooperante Alberto Trentini detenuto da un anno in Venezuela, durante una conferenza stampa a Palazzo Marino, sede del comune di Milano, insieme all’avvocata della famiglia Alessandra Ballerini, e al presidente di Articolo 21 Giuseppe Giulietti. L’indignazione della madre - Il cooperante italiano è stato arrestato in Venezuela un anno fa, il 15 novembre 2024: da allora è recluso vicino a Caracas. Da innocente, senza un capo di accusa formale. Ma l’interlocuzione con Maduro è difficile. “Per arrivare all’obiettivo della liberazione di Alberto doveva esserci, e invece non c’è stato, un gruppo coeso e motivato di persone che doveva mirare a uno stesso risultato”, ha proseguito la madre del quarantaseienne veneziano, aggiungendo che “sono qui dopo 365 giorni a esprimere la mia indignazione perché sono certa che per Alberto non si è fatto quel che era necessario e doveroso fare per la sua liberazione. Sono stata troppo paziente ed educata, ma ora la mia pazienza si è esaurita”. Trattiene a stento le lacrime la madre di Alberto, che rivolgendosi ai giornalisti nel corso della conferenza stampa ha anche ricordato “che fino ad agosto il nostro governo non aveva ancora avuto alcun contatto telefonico con il governo venezuelano e questo dimostra quanto poco si sono spesi per mio figlio”. “Ho avuto tre telefonate dalla Meloni” - Sul fronte dei contatti istituzionali, la madre del 46 anni veneziano ha ricordato che “in 12 mesi ho avuto tre telefonate dalla premier Giorgia Meloni e ho avuto due incontri col sottosegretario Mantovano con cui c’è costante contatto. Siamo in contatto con l’inviato speciale per gli italiani in Venezuela che è sempre disponibile”. Ma dai rappresentanti del governo “da subito ci è stato imposto il silenzio per non danneggiare la posizione di mio figlio. Ci siamo fidati e abbiamo operato in silenzio. Ma non potendo continuare a essere ignorati, con il nostro benestare è stata fatta un’interrogazione parlamentare”, ha concluso. “A mio figlio tolto un anno di vita” - Presenti in sala anche i genitori di Giulio Regeni, Claudio e Paola, che hanno donato alla donna alcuni dolcetti tipici friulani, e i genitori di Andy Rocchelli, il fotografo dell’agenzia Cesura ucciso in Donbass nel 2014. “Non cerco la vostra compassione, ma voglio dirvi quanto difficili sono stati questi 12 mesi per me e la mia famiglia, anche perché mio marito non sta bene - ha detto Colusso. Abbiamo vissuto notti e giornate senza senso con il pensiero fisso su Alberto a immaginare come sta, cosa pensa, cosa spera, di che cosa ha paura. Voglio ricordare che a mio figlio è stato tolto un anno di vita, un anno in cui non ha potuto godere dell’affetto della sua famiglia”. Cina. Morire in carcere per la libertà di Francesco Anfossi La Domenica, 16 novembre 2025 Il figlio di Jimmy Lai, l’editore di Hong Kong arrestato dalla Cina: “I diritti non vanno dati per scontati”. “Mio padre ha dato tutto per difendere la libertà di Hong Kong, ora rischia di morire in carcere”. La voce di Sébastien Lai, 31 anni, è ferma ma velata di dolore. Figlio di Jimmy Lai, imprenditore e giornalista cattolico, fondatore del quotidiano Apple Daily, detenuto con l’accusa di “collusione con forze straniere”, è oggi il volto internazionale della campagna per la sua liberazione. A Milano ha ritirato a nome del padre il premio “Fatti per la verità”, e dal palco ha lanciato un appello: “Spero che anche l’Italia si unisca a Trump nel chiedere il suo rilascio”. Sebastien, chi è suo padre Jimmy? “Mio padre è arrivato a Hong Kong oltre sessant’anni fa come bambino rifugiato, in fuga dalla Cina comunista. Ha iniziato lavorando a nove anni trasportando cassette in un magazzino e poi ha costruito da zero un’azienda di abbigliamento che è diventata un marchio internazionale. Dopo la strage di Tiananmen, nel 1989, capì che la libertà non era scontata e che bisognava difenderla. Così è divenuto editore e ha fondato Apple Daily, perché credeva che solo un’informazione vera, senza paura, potesse rendere le persone libere di scegliere”. Poi è arrivata la legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong, che ha cancellato molte libertà. Cosa fece suo padre? “Tutti gli dissero di andarsene, che avrebbe potuto continuare la sua battaglia per la democrazia dall’estero. Ma lui rispose che se fosse fuggito, avrebbero colpito i suoi giornalisti. È rimasto per coerenza, per difendere ciò in cui credeva. Ora ha 78 anni e da cinque è in cella d’isolamento. Prima dell’arresto soffriva di diabete; oggi la sua salute è molto peggiorata. La cella è senza luce naturale, e con il caldo di Hong Kong diventa un forno. Rischia di morire. Non lo vedo e non gli parlo da cinque anni. Molti parlano di lui come un eroe ma io vorrei solo che fosse libero, perché è mio padre”. Il processo è ancora in corso. Ritiene che stia ricevendo un giusto processo? “No. È stato arrestato nel 2020, il processo doveva chiudersi nel 2022, ma non è ancora finito. E poi l’accusa non regge: persino il gruppo delle Nazioni Unite sulle detenzioni arbitrarie ha chiesto il suo rilascio immediato”. Donald Tru mp ha chiesto la liberazione di suo padre. Cosa pensa delle sue parole? “Sono incredibilmente grato al presidente per le sue parole. Questo è un processo politico, e la pressione internazionale è la nostra unica speranza per evitare che mio padre muoia in carcere. Anche per l’Europa è un’occasione, spendendosi per lui, di mostrare i propri valori di libertà e pace” A Hong Kong ci sono decine di attivisti in prigione. Teme che vengano dimenticati? “Sì. Per questo chiedo che Hong Kong liberi tutti i prigionieri politici. Non possiamo ricordarci solo dei volti noti ma di tutti coloro che hanno marciato pacificamente per la libertà nel 2019 e nel 2014, durante la “protesta degli ombrelli”. Sei anni fa milioni di cittadini scendevano in piazza per chiedere la democrazia. Cosa resta di quello spirito? “Credo che oggi Hong Kong sia governata dalla paura. La legge sulla sicurezza nazionale ha distrutto le libertà che rendevano la città unica. Ma come diceva mio padre: “Non si combatte perché si ha speranza, si combatte e quindi si ha speranza”. Ha lottato in modo pacifico, sacrificando tutto per ciò in cui credeva”. Se dovesse spiegare a un giovane europeo chi è Jimmy Lai, quale immagine sceglierebbe? “Direi che è l’uomo che ha trascorso tutta la vita a cercare Dio e la libertà. Si è convertito al cattolicesimo nel 1997, poco dopo il ritorno di Hong Kong alla Cina. Non era religioso prima, ma sentiva che esisteva una verità più grande. È una persona che amava “scuotere le acque”, che voleva vivere una vita significativa, non comoda. Avrebbe potuto piegarsi al Partito Comunista e vivere nel lusso, ma ha scelto di rinunciare a tutto pur di restare fedele ai suoi principi”. La sua religione lo ha aiutato a resistere? “Moltissimo. Mio padre è convinto che Dio lo abbia sempre guidato. Da imprenditore, criticare il governo cinese non aveva alcun senso economico. Come molti cattolici, vive la sofferenza come parte del suo cammino di offerta. È la fede che lo tiene in vita”. Suo padre ha fondato due giornali anche a Taiwan, divenuti ben presto leader nel Paese. Cosa pensa delle tensioni con la Cina? “Non sono un esperto di geopolitica, ma credo che i taiwanesi abbiano imparato guardando Hong Kong. Le elezioni recenti hanno mostrato un crescente sostegno ai partiti più indipendentisti, proprio perché temono di perdere la libertà. Nessuno vuole la guerra, ma la Cina deve capire che l’esempio di Hong Kong ha spaventato molti”. Anche altri membri della sua famiglia sono stati arrestati... “Sì, i miei fratelli sono stati fermati, poi rilasciati. Non possono parlare pubblicamente. Io stesso non comunico con loro per non metterli in pericolo. Ma considero un privilegio poter difende re mio padre. Certo, vorrei solo averlo a casa, ma sono incredibilmente orgoglioso di lui”. Che cosa gli direbbe, se potesse guardarlo negli occhi? “Vorrei solo dirgli che lo amo, che sono fiero di lui e che non smetterò mai di lottare per vederlo libero. Molti lo vedono come un eroe, ma per me è semplicemente mio padre. Vorrei averlo con me a Natale, poterlo abbracciare. Non so quanto tempo ci resti, ma la sua storia continuerà a ispirare chiunque creda nella libertà”. Haiti. Emergenza carceri: in tre mesi 52 morti in cella di Costanza Oliva Avvenire, 16 novembre 2025 Lo denuncia un rapporto Onu secondo cui le condizioni di detenzione nell’isola sono “disumane e degradanti”. Tra luglio e settembre, in soli tre mesi, nelle carceri di Haiti sono morti 52 prigionieri. Di fame, di sete, di malattie che non avrebbero dovuto uccidere nessuno, se solo avessero avuto accesso a cure mediche o a un po’ d’acqua pulita. A denunciare la situazione è l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sui diritti umani, che definisce le condizioni di detenzione nell’isola come “disumane e degradanti”. L’ennesima trappola mortale in un Paese stritolato in un intreccio di emergenze che si alimentano a vicenda: la violenza delle bande armate, l’instabilità politica, la povertà cronica e l’impatto devastante dei disastri naturali, l’ultimo dei quali - l’uragano Melissa - ha aggravato la situazione già fragile. In questo contesto, il sistema giudiziario si è quasi paralizzato. L’82% delle persone rinchiuse nelle prigioni haitiane è in attesa di processo. Significa che otto detenuti su dieci non sono stati condannati, ma attendono una decisione che spesso non arriva per mesi, o per anni. Alla fine di settembre, oltre 7.200 uomini, donne e ragazzi erano detenuti nel Paese. Le prigioni, costruite per ospitarne meno della metà, sono diventate luoghi di sopravvivenza quotidiana. “Le strutture sono incredibilmente affollate e calde. Non c’è abbastanza cibo e l’accesso alle cure mediche è molto limitato”, ha spiegato William O’Neill, esperto dell’Onu per Haiti. “I prigionieri sono tenuti in celle per molte ore al giorno, con pochissima aria o luce, e con accesso ridotto ad acqua, servizi igienici e docce”. In molti casi, i condannati condividono lo spazio con chi è in attesa di giudizio, e i minori vengono rinchiusi insieme agli adulti, in violazione delle norme internazionali. Esiste un budget statale destinato all’alimentazione dei detenuti, ma spesso, secondo le Nazioni Unite, i fondi vengono dirottati altrove a causa della corruzione. Così, le razioni si riducono e l’acqua scarseggia. “Molti muoiono di malattie che non dovrebbero essere fatali”, ha spiegato O’Neill, “ma sono così indeboliti dalle condizioni di vita e dalla mancanza di nutrimento da non avere più difese”. Il problema principale è il sovraffollamento, che in gran parte deriva dalla pratica di arrestare e trattenere le persone prima del processo, anche per reati minori o in assenza di accuse solide. La lentezza della giustizia fa il resto. Nella capitale Port-au-Prince, dove si stima che le gang controllino fino al 90% del territorio, la violenza ha costretto alla chiusura diversi tribunali. In molti quartieri, lo Stato semplicemente non riesce più a esercitare la sua autorità. L’anno scorso le due principali prigioni della capitale, il Penitenziario nazionale e la struttura di Croix-des-Bouquets, sono state assaltate da bande armate: più di 4.600 detenuti sono fuggiti, tra loro anche noti membri di alcune gang. Secondo il rapporto trimestrale della Missione integrata delle Nazioni Unite tra luglio e settembre almeno 1.247 persone sono state uccise e 710 ferite ad Haiti, in un’ondata di violenza che coinvolge bande armate, gruppi di autodifesa e dalle stesse forze di sicurezza, responsabili - secondo l’Onu - del 61% delle uccisioni. Le gang hanno esteso il controllo a intere aree rurali, mentre la popolazione civile, in fuga, si sposta da una regione all’altra in cerca di rifugio. Oltre 1,4 milioni di haitiani risultano oggi sfollati. Oltre 1.000 scuole sono state chiuse e centinaia di minori vengono reclutati dai gruppi armati. Uno studio dell’Integrated food security phase classification (Ipc) ha rilevato che circa 5,7 milioni di haitiani - quasi uno due - stanno affrontando gravi carenze alimentari. Le violenze sessuali, gli stupri collettivi e i rapimenti a scopo di riscatto sono strumenti di dominio territoriale. A questa emergenza si aggiunge il rischio sanitario: le autorità haitiane temono una nuova ondata di colera dopo le inondazioni provocate dall’uragano Melissa, che hanno distrutto pozzi e sistemi fognari.