Detenzione carceraria. Dap annulla attività culturali, il caso in Parlamento Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2025 Un corso a Parma sulla scrittura creativa, uno teatrale a Secondigliano, le lezioni della scuola di rugby a Livorno, un percorso di lettura a Padova, una serie di laboratori e tanti altri eventi dedicati ai detenuti. La lista delle attività annullate nelle ultime settimane all’interno delle carceri aumenta giorno dopo giorno e sotto i riflettori è finita una nota formalizzata lo scorso 21 ottobre con cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria obbliga le direzioni degli istituti - quelli in cui siano presenti detenuti in reparti di alta sicurezza - a chiedere per gli eventi trattamentali l’autorizzazione alla direzione generale del Dap. “Il risultato di questa disposizione - spiegano garanti regionali dei detenuti, magistrati e associazioni - è che finiscono per essere paralizzate anche le attività dedicate alle persone ristrette nel circuito di media sicurezza, spesso inglobato in quella di alta sicurezza”. Il mal di pancia serpeggia nel mondo carcerario da quasi un mese, fin da quando è stata diffusa la nota, sottoscritta dal capo della Direzione generale dei detenuti e del trattamento, Ernesto Napolillo, indicato come un collaboratore fedele del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. Non a caso non si esclude che da Via Arenula possa arrivare qualche richiesta di limatura per far fronte ai disagi che ormai quotidianamente vengono segnalati su questo fronte. Una prima riposta potrebbe però arrivare già dalla prossima settimana, visto che alcuni parlamentari di opposizione hanno depositato su questo un’interrogazione parlamentare alla Camera. “Detenuti e non solo, giù le mani dal Garante” di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 novembre 2025 Intervista a Francesco Maisto, memoria storica dell’organismo oggi sotto attacco governativo. A Roma un convegno di Antigone. “In questi ultimi anni c’è stato un ricambio notevole dei Garanti, spesso di nomina politica e non per competenza. Va costruito un policentrismo istituzionale di controllo”. Affidare al solo Garante della privacy il meccanismo di monitoraggio dei diritti fondamentali durante gli accertamenti e le procedure di frontiera richiesto dal Nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, escludendo il Garante nazionale delle persone private di libertà personale (Gnpl), “mostra un obiettivo politico ma anche una ignoranza delle leggi”. Ad affermarlo è Francesco Maisto, ex magistrato di sorveglianza, Garante dei detenuti di Milano per due mandati, prolifico saggista e, come riassume egli stesso, uno dei pochi giuristi testimone diretto dei “50 anni che l’ordinamento penitenziario ha appena compiuto”. Questa decisione (sviluppata in quattro pagine di capitolato tecnico) del governo Meloni contribuisce allo svilimento del Gnpl perseguito fin dall’inizio? In base alle normative internazionali e per la legge istitutiva del Gnpl, questa autorità non è soltanto a garanzia dei detenuti, ma di tutte le persone ristrette nella libertà personale, che sia nelle caserme, nei centri per migranti, nelle Rsa degli anziani o nei reparti di psichiatria. Mentre il Garante della privacy ha competenza sui dati personali sia delle persone libere che recluse. Ora le competenze delle due authority vanno coordinate e non è possibile prevedere un’esclusione per legge delle une o delle altre. Anche se, secondo il governo, migranti e asylanten sono solo limitati nella circolazione e non della libertà? Se la limitazione è per provvedimento giudiziario o amministrativo, la competenza è del Gnpl. Mi sembra che questa manovra politica nasconda la preoccupazione per gli orientamenti attuali e futuri del Garante nazionale. Eppure nessun altro collegio nazionale è mai stato così poco incline a fare le pulci ai piani governativi. Malgrado l’istituzione del Gnpl non sia stata una conquista facile. Ce la racconta? È avvenuta con molto ritardo, nel 2013, per effetto della sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti umani che impose (all’allora governo Letta, ndr) questa figura come uno dei rimedi compensatori per evitare altre sanzioni. Mauro Palma venne nominato nel 2016 (a Palazzo Chigi sedeva Renzi, ndr). Ma era una figura prevista dalla Convenzione Onu contro la tortura del 1991, per applicazione del National preventive mechanism. E quindi, prima del 2013, furono le città a istituire i garanti territoriali; la prima fu Roma che nel 2003 nominò Luigi Manconi. Poi venne il Lazio con Angiolo Marroni e via via gli altri. Solo nel 2008 una modifica dell’articolo 67 della legge penitenziaria introdusse i Garanti territoriali. Successivamente la loro competenza venne ampliata con una modifica del Testo unico sull’immigrazione. Oltre alle norme di primo grado poi ci sono anche le leggi regionali e le delibere comunali che completano il quadro normativo di riferimento dei Garanti. Per questo ci sono Garanti territoriali che hanno competenze molto ampie, come a Milano, o molto ristrette come per esempio a Pordenone o a Reggio Emilia. Oggi sono 79 i Garanti territoriali, e tre quelli del collegio nazionale. Quasi tutti si riuniranno la prossima settimana a Roma in un convegno organizzato dall’associazione Antigone dal titolo “Garanti. 1997-2025. Da quando Antigone propose l’istituzione dei Garanti alla necessità odierna di nuove prospettive”. Qual è l’urgenza di questo convegno? Innanzitutto va ricordato che a Padova nel 1997 Antigone promosse un convegno per chiedere l’applicazione della Convenzione Onu quando in Italia non ne parlava proprio nessuno. E c’era disorientamento riguardo alla conformazione e alle modalità di nomina, se seguire il profilo tipicamente anglosassone o trovare una via italiana. Poi nel 2008 Antigone istituì il primo Difensore civico delle persone private di libertà: Stefano Anastasia. In questi ultimi anni c’è stato un ricambio notevole dei Garanti, spesso di nomina politica e non per competenza. Il senso del convegno è di richiamare l’ispirazione originaria della figura perché molto probabilmente non c’è omogeneità di vedute, anche per mancanza di conoscenza di tutte le finalità e i compiti dei Garanti territoriali. Ritrovare un’omogeneità di intenti non è un fatto politico ma attiene alle stesse previsioni di legge. E va ritrovata la coscienza critica verso le amministrazioni. E verso anche la magistratura di sorveglianza. Bisogna costruire un policentrismo istituzionale di controllo: non soltanto giudiziario attraverso la magistratura, non soltanto politico attraverso l’attività ispettiva delegata ai parlamentari e ai consiglieri regionali, ma anche agito da figure di garanzia previste a livello territoriale. Il caso della circolare del Dap che con un eccesso di burocrazia di fatto blocca ogni evento trattamentale in carcere (dove si registra il 70esimo suicidio) è arrivato alla Camera con un’interrogazione dell’opposizione. E il ministro Nordio starebbe valutando un mezzo passo indietro. Cosa ne pensa? È una circolare contraria al testo ed allo spirito della legge penitenziaria. Tradisce 50 anni di impegno per la civilizzazione delle carceri, di impegni per la tutela dei diritti delle persone ristrette ed è riduttiva della funzione rieducativa delle pene. Va disapplicata. Il carcere oltre il confine delle garanzie: così fallisce un Paese democratico di Iacopo Benevieri L’Unità, 15 novembre 2025 Conosciamo il disinteresse che da sempre la politica manifesta nei confronti della condizione carceraria, disinteresse che riflette una percezione diffusa nella società contemporanea, quella che equipara il criminale a colui che è stato espulso dalla comunità civile, destinatario dell’infamia e del bando collettivi. In questa rappresentazione il carcere continua a restare un luogo irrappresentabile, oggetto di una rimozione psichica collettiva. La stessa etimologia della parola “crimine” rivela il nesso tra questo concetto e quello di esclusione sociale. Nella seconda metà dell’Ottocento il linguista svizzero Pictet sottolinea come in latino la parola crimen derivi dal verbo “cerno”, che significa sì “decidere”, ma anche “discernere, distinguere, separare, dividere”: ciò che viene separato, ciò che viene diviso implica l’idea di un limite che viene superato, di una soglia che è stata varcata socialmente. Crimen dunque è quell’azione umana che ha passato una soglia, ha oltrepassato il perimetro della comunità civile. Una suggestiva conferma ci proviene proprio dallo stesso Pictet quando individua l’etimologia latina di “crimen” nel sanscrito “karman”, che significa “fatto umano compiuto”, stabilendo un legame tra l’atto umano e le sue conseguenze. Crimen è l’azione di colui che ha passato la soglia, di chi ha superato il varco della comunità civile, portandosi dietro quelle conseguenze irrogate dalla stessa comunità. Nell’ambito del diritto penale ci sono altre parole che rappresentano il fatto illecito come atto di deviazione, di separazione dal sentiero di una collettività, superamento di una soglia. Una di queste parole è “delinquente”. Trae origine dal latino d?linquo, verbo composto della particella “de” con il verbo “linquo”, che significa “lasciare, abbandonare, divergere”. Delinquente, pertanto, è colui il quale devia dalla strada della convivenza civile, e, conseguentemente, è il “deviante” (altro termine diffuso nel lessico giuridico) rispetto ai viandanti. È chi oltrepassa il confine. Il crimine e il delitto dunque sono gli atti di colui che ha oltrepassato un perimetro sociale, lo ha valicato, si è posto fuori dalla collettività ed è lì a rappresentare per gli altri consociati l’esistenza stessa del limite da non superare (così Durkheim circa la centralità dell’interdetto nella definizione dei fenomeni sociali). Infatti a partire dalla metà del Cinquecento, nelle Piazze di tutti gli Stati italiani e d’Europa vengono emessi numerosi bandi proprio contro coloro che potevano costituire minaccia per la convivenza civile, con l’ordine di abbandonare la città, di oltrepassare fisicamente il confine della comunità civile, confine già superato con le condotte illecite. Nei secoli successivi gli strumenti di allontanamento del delinquente rispetto alla Piazza civile si succederanno nelle varie forme della condanna alle galee, poi dell’internamento in case di correzione e infine della detenzione in carcere. Dunque la configurazione di un territorio “sicuro” contro la “turba infame” ha essenzialmente a che fare con l’attività di tracciamento di confini e di separazione di due territori: confini di inclusione e di esclusione, confini di assegnazione di identità. La stessa costruzione di identità, cioè di inclusione e appartenenza sociale, viene definita anche attraverso la narrazione dell’esclusione: ci percepiamo come “inclusi” in quanto non si appartiene a chi non lo è, a chi è stato allontanato dalla comunità. Ancora, torna il tema di “separare”, “dividere” di pertinenza della parola “crimen”. Per funzionare i confini devono essere percepibili dai consociati, anche se si tratta di confini non necessariamente visivi. Un confine può venire tracciato in molti modi, anche attraverso la comunicazione. Nella narrazione quotidiana dei mass-media, infatti, l’esperienza dei detenuti è rappresentata come esperienza oltre-confine, oltre il perimetro dei diritti e delle garanzie, come uno spazio appunto “ob-sceno”, cioè fuori dalla scena di ciò che può esser rappresentato e di cui occuparsi. Questa, però, dovrebbe esser la missione del diritto in un Paese democratico: occuparsi delle minoranze che fanno esperienze fuori dal “centro” della comunità, occuparsi di chi vive sulle “soglie” o anche oltre le soglie, occuparsi delle umanità “decentrate” e riportarle al centro dell’interesse giuridico come lo sono al centro della nostra Costituzione. Il silenzio della politica che copre il disastro delle carceri italiane di Gianni Alemanno e Fabio Falbo Il Dubbio, 15 novembre 2025 Zitti, zitti, zitti. Silenzio totale. Parliamo delle carceri di tutto il mondo, indigniamoci per i regimi totalitari di diverso colore che maltrattano le persone detenute. Ma sulla situazione in Italia, mi raccomando, manteniamo un rigoroso silenzio… Va tutto benissimo, siamo un grande esempio di democrazia che rispetta i diritti delle persone e nel contempo un efficiente meccanismo repressivo che tutela la sicurezza dei cittadini e dà il giusto castigo ai lestofanti… E invece no. Non è vero nulla. È solo maledetta ipocrisia, conformismo vigliacco, che nessuno ha il coraggio di rompere fino a quando non arriva una piccola bambina che grida “Il Re è nudo!” e allora tutti fingono di scoprire sorpresi la realtà. Avevamo detto che il sovraffollamento sarebbe continuato ad aumentare, abbiamo denunciato che i provvedimenti del ministro Nordio per l’emergenza carceraria erano chiacchiere al vento. Bene, gli ultimi dati ci dicono che il sovraffollamento carcerario in Italia è giunto al 137,1% (63.467 persone detenute a fronte di 46.304 posti realmente disponibili: 17.163 persone in più del dovuto!). Da quando Giorgia Meloni è al governo il sovraffollamento è passato dal 107,4% al 137,1%, cioè è aumentato di quasi il 30%, e andando di questo passo, quando terminerà il suo mandato sarà oltre il 156%. Avevamo detto che il “piano carceri” di Nordio non avrebbe risolto nessun problema e che al massimo poteva servire a sostituire le carceri più obsolete. Ebbene, non si vede neanche l’ombra dei 384 nuovi posti in cella che si dovevano costruire entro il 2025, peraltro con orribili strutture prefabbricate come nel Centro di raccolta per immigrati di Gjader in Albania, (hanno sbagliato l’appalto per queste nuove carceri prefabbricate e adesso il costo sarà pari a 118.000 euro per ogni nuovo posto cella!!). Ma in compenso è crollato un pezzo del soffitto del carcere romano di Regina Coeli e adesso tutte le persone che vengono arrestate qui a Roma sono portate direttamente nell’altro carcere romano di Rebibbia, cioè in quello in cui siamo reclusi noi. Qui il sovraffollamento è schizzato al 152,4% con 1.628 persone detenute su 1.068 posti disponibili secondo regolamento, ma c’è chi scommette che all’inizio dell’anno prossimo saremo più di 2.000. Risultato? Qui a Rebibbia le persone detenute vengono spostate da una parte all’altra come dei pacchi postali. I lavoratori e gli ergastolani rischiano di perdere la cella singola di cui hanno diritto; le salette dedicate alla socialità vengono trasformate in “camerata” con 12-18 persone con un solo bagno; si minaccia di mettere la settima branda in celle che oggi ne hanno 6 e che in origine erano state progettate per solo 4 brande; ogni giorno persone detenute vengono trasferite a caso da un braccio a un altro, da un carcere ad un altro. Tutti i “percorsi trattamentali” di studio, di lavoro, di Università, di confronto con gli psicologi e gli educatori, vengono bruscamente interrotti e azzerati. Così, come dimostrano tutte le statistiche, la recidiva aumenta vertiginosamente, restituendo alla società italiana delle persone a fine pena ancora più inattive e pericolose (alla faccia della sicurezza dei cittadini). Le persone detenute che pagano di più questa follia sono proprio le migliori, quelle che nella riabilitazione ci avevano creduto, quelle che si erano impegnate a lavorare e studiare, non certo quei reclusi che se ne fregano, che tirano avanti, magari con comportamenti e abitudini sbagliate (alla faccia della “giusta punizione” per chi sbaglia). Non basta. Il Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) si sta esercitando a diramare circolari che sembrano servire solo a rendere più difficili quelle poche attività culturali e formative che sopravvivono nelle carceri. Come quella del 21 ottobre 2025, che impone un controllo centralizzato su tutte le attività trattamentali esterne, ovvero subordina a una decisione dell’Amministrazione centrale tutte le autorizzazioni d’ingresso di operatori esterni e di persone di cultura, decisioni che prima, secondo l’Ordinamento penitenziario, spettavano ai Direttori delle singole carceri e ai relativi Magistrati di sorveglianza. Certo, questa circolare riguarda solo le carceri che hanno nel loro interno reparti ad alta sorveglianza, ma sono la maggioranza degli istituti penitenziari e spesso per i pochi in alta sorveglianza si rovina la vita a tutte le normali persone detenute (a Rebibbia sono un centinaio in alta sorveglianza a fronte di un totale di 1628 persone detenute). Questa circolare impone asfissianti procedure burocratiche: richieste da inviare con largo anticipo, elenchi nominativi, titoli, spazi, pareri, un apparato che scoraggia, rallenta, esclude. Perché? Che senso ha? Università, associazioni e volontari sono in rivolta, ma qualcuno li ascolterà? Mentre scriviamo ci avvertono che è appena morta una persona detenuta al braccio G9 di Rebibbia, mentre quattro giorni fa, giovedì scorso, ne è morta un’altra al G11. Motivo del decesso? In entrambi i casi si parla di infarti, causati da cosa? Perché, ovviamente, con questi tassi di sovraffollamento e questa carenza di organico di Polizia penitenziaria, chi può controllare la situazione nei diversi reparti? Sempre più spesso sono gli agenti della Penitenziaria che ci fermano per chiederci di parlare anche del loro disagio nel lavorare in pochissimi in Istituti penitenziari ridotti in questa situazione. Ecco, questa è la realtà che si vuole dietro le sbarre: in Italia bisogna andare in qualche centro di assistenza per clochard o in qualche campo nomadi per trovare condizioni di vita peggiori. Ma c’è chi, a diversi livelli, preferisce nascondere la polvere sotto il tappeto, fare finta di nulla, raccontare al proprio superiore, amministrativo o politico, che va tutto bene. Questa polvere sta diventando una montagna, per quanto tempo ancora il tappeto potrà nasconderla? Le insidie del referendum dove Meloni non ci metterà la faccia di Pino Pisicchio Il Riformista, 15 novembre 2025 Dimenticanza del merito e trasformazione in un plebiscito pro o contro il governo. Una premessa: le righe che seguono non entreranno nel merito dell’antica telenovela “politica vs. pm e pm vs politica”, che trova e troverà fin troppi appassionati interpreti nella lunga cavalcata fino al referendum della prossima primavera. Si limiteranno, invece, a ragionare sull’effetto di quel referendum sulla politica in generale e sul governo in particolare, partendo da qualche evidenza e da qualche pregressa esperienza. Salvo i referendum abrogativi che avevano dentro tematiche d’immediato coinvolgimento, come i primissimi e partecipatissimi referendum sul divorzio o l’aborto, capaci di trainare al voto l’87,72% e 79,43%, l’andamento della partecipazione negli anni successivi è andato scemando, negando una trentina di volte su 67 il raggiungimento del quorum. C’è stata sempre una caratteristica che ha connotato il voto, soprattutto quando l’alacre attività pannelliana ha investito di democrazia diretta quesiti complicati da afferrare, inflazionando il delicato strumento: il merito è rimasto sullo sfondo, percepito solo rare volte. Ciò che ha fatto premio su tutto è stato invece lo scontro politico, spesso trasfigurando la consultazione con referendum sul governo, in un primo empito di bipolarismo conflittuale, che peraltro si addice assai alla scelta secca tra un sì e un no, in seguito consacrato nella pratica politica quotidiana della seconda e terza Repubblica. Tra le diverse tipologie di referendum che il nostro ordinamento prevede, però, c’è anche quella che non contempla quorum di sorta, ed è il referendum confermativo contemplato dall’art.138 della Costituzione, che può sottoporre al giudizio popolare la legge costituzionale quando non raggiunge i quorum approvativi previsti. Il perché è chiaro: i Padri costituenti vollero salvare la Carta dalle manipolazioni di maggioranze pro-tempore, costringendo a convergenze le più ampie possibili, in mancanza delle quali si sarebbe tornati a chiedere che ne pensa il popolo sovrano. È il caso che riguarda la riforma varata dal governo Meloni. Si sono svolti quattro referendum costituzionali che hanno due volte approvato e due volte invece bocciato la legge di riforma scodellata dal Parlamento e per tre volte su quattro hanno conteggiato una partecipazione maggioritaria (l’unica volta con l’affluenza “scarsuccia” è stata nel 2001 e riguardava la riforma del titolo V della Costituzione voluta dal centro-sinistra). Se eccettuiamo il voto del 2020 che vedeva tutti i partiti inseguire il nuovo karma populistico con cui si invitava a risparmiare sulle indennità dei parlamentari, i referendum hanno risposto alla regola non scritta di tramutare in voti le indicazioni dei partiti, privilegiando soprattutto la capacità organizzativa e mobilitativa di organizzazioni politiche e sindacali. Così è stato per la conferma del titolo V modificato, che vide il 64% dei pochi votanti pronunciarsi per il sì del centro-sinistra (ma anche di un po’ di Lega) in una stagione di pieno splendore berlusconiano, così è stato nel 2006, con la bocciatura della grande riforma della destra col 61% dei no, così è stato anche, a ben vedere, con il voto sulla grande rifrma di Renzi che, col suo 40,88% di voti portò a casa solo (e forse neanche tutto) il voto del PD. Questa è stata, dunque, l’esperienza del passato che ha lasciato in eredità due cose: la dimenticanza del merito e la trasformazione del referendum in un plebiscito pro o contro il governo. Andrà così anche adesso? Non c’è dubbio che nel paese in questo momento non circola un consenso palpabile nei confronti dei magistrati e in particolare dei protagonismi impropri di alcuni pm. E dunque, se la percezione che scaturisce dalla separazione delle carriere alla fine dovesse lasciar intendere una qualche forma di riequilibrio tra le parti in processo, probabilmente avrebbe il consenso della maggioranza. Ma il merito, come si accennava, è un dettaglio, il messaggio percepito sarà, come sempre approvare o condannare l’azione del governo e, per di più, il voto non prevede quorum. Dunque vincerà la capacità mobilitativa che non sembra patrimonio di una destra capace di volare col voto d’opinione catalizzato dalla Premier, ma arrancante sugli altri livelli di confronto elettorale. Peraltro, memore dell’epilogo toccato a Renzi che identificò il referendum del 2016 con sé stesso e fu costretto a lasciare dopo la sconfitta, Meloni non ci metterà la faccia. Dunque la partita sarà apertissima. Tra il Sì e il “forse”, quei dem contrari alla linea Schlein sulla separazione delle carriere di Giacomo Puletti Il Dubbio, 15 novembre 2025 Diversi esponenti Pd stanno uscendo allo scoperto sul referendum, tra chi si dichiara a favore e chi dice, come Pina Picierno: “Non capisco le ragioni del No”. In principio fu Goffredo Bettini, “guru” dem e vero architetto dell’alleanza tra Pd e M5S, che per dichiarare il suo sì convinto alla separazione delle carriere andando quindi contro la linea ufficiale del partito scelse niente meno che il Congresso delle Camere Penali a Catania. “Se la separazione delle carriere è un segnale verso la terzietà del giudizio per me ben venga - disse Bettini - Se c’è l’imputato e due giudici è meglio che i giudici non si sommino ma, al contrario, si distinguano. Non due contro uno. Ma uno e uno. E se c’è un modo per evitare che qualche tipo di sentenza sia al riparo, di reciproche convenienze, di scambio di favori, di un clima politicamente intossicato ben venga il superamento delle correnti di potere nella magistratura, affidandosi a altre vie per la costituzione del Csm”. Una presa di posizione netta che circolava già negli ambienti dem ma che costituisce tuttora il più importante distinguo nel partito rispetto alla linea della segretaria Elly Schlein, la quale ha scelto di abbracciare in tutto e per tutto il fronte del No comandato dall’Anm specificando tuttavia che saranno “due campagne diverse, loro con la loro noi con la nostra”. Ma se tra i parlamentari dem nessuno, nemmeno tra quelli della minoranza riformista, si azzarda a ipotizzare un proprio voto a favore della riforma, basta farsi un giro fuori dall’Aula per capire che tra osservatori e addetti ai lavori di area dem più d’uno si è schierato a favore, e altri alimentano quantomeno il dubbio sulla linea del no a oltranza. Primo tra tutti il costituzionalista ed ex senatore Pd Stefano Ceccanti, per il quale “la separazione suppone l’idea che il processo non sia uno scontro tra il bene (identificato in un blocco accusa-giudice perché a priori l’accusatore, oltre che il giudice, incarna il bene) e il male (la difesa sarebbe un male, pur necessario, a favore di qualcuno che se sospettato deve aver fatto comunque qualcosa di male), ma una competizione tra verità parziali tra cui arbitra un giudice terzo”. Per questo, spiega “l’elettore nel referendum non può che esprimere un giudizio di prevalenza sul merito e qui gli aspetti positivi, di coronamento del nuovo codice, prevalgono”. La linea è quella di Libertàeguale, espressa anche da Enrico Morando in un altro intervento sul Foglio. “Sì al giusto processo - accusa e difesa su di un piede di parità di fronte al giudice terzo -, perché la Costituzione presume l’innocenza e non la colpevolezza; riforme per reagire al cancro del populismo giustizialista: fu alla luce di questi due principi ispiratori che il centrosinistra, nella seconda metà degli anni 90, guidò il lavoro politico-parlamentare che condusse - nel 1999 - all’introduzione in Costituzione, con voto quasi unanime, del nuovo articolo 111, col principio del giusto processo - scrive Morando - Era la premessa necessaria per giungere a superare l’impedimento strutturale di cui parlava Vassalli più di 10 anni prima. Si può dunque, a buon diritto, sostenere che la sinistra non ha soltanto consentito, ma in larga misura guidato il processo di riforma che può oggi trovare compimento con la separazione delle carriere”. Senza scomodare pezzi da 90 come Giuliano Vassalli ci ha pensato invece la vicepresidente europeo Pina Picierno a dare voce a tutti coloro che nel partito hanno quantomeno dei dubbi sulla linea dura e pura del Nazareno. “La separazione delle carriere non è eversiva, la sinistra ne ha spesso riflettuto con cognizione di causa e senza drammi, faccio onestamente fatica a capire ragioni e toni del No”, ha dichiarato Picierno a questo giornale non sbilanciandosi tuttavia sul suo voto. Ma aprendo di fatto un altro fronte per la segretaria Schlein, già alle prese con chi, da Paolo Gentiloni a Romando Prodi, chiedono un cambio di rotta rispetto al “radicalismo” attuale perché l’alternativa al governo Meloni risulti finalmente “credibile”. Ieri Prodi ha attaccato l’attuale leadership parlando della necessità di “un riformismo coraggioso, ma concreto, che punti al cambiamento” perché “dobbiamo poter parlare di argomenti veri come tasse, immigrazione, sanità, scuola con le parole giuste, senza un radicalismo che spaventa gli elettori e che nella nostra storia non ha mai paga”. Mettendo addirittura in guardia l’attuale segretaria dem da un’eventuale processo “bertinottizzazione” di Giuseppe Conte in una futura alleanza di governo. L’ipocrisia dell’Anm nel non ritenersi un soggetto politico di Luciano Capone Il Foglio, 15 novembre 2025 Se fosse così l’associazione dei magistrati non avrebbe fondato un comitato per il No. Avrebbe potuto decidere di esprimersi contro la riforma, lasciando fare la campagna elettorale ai partiti e, al limite, ai singoli magistrati. Invece ha preferito scendere in campo come organizzazione. Ambiguità, ipocrisia e qualche menzogna. Ormai l’Anm sembra essere rimasta impigliata nelle incoerenze della propria campagna politico-mediatica contro la riforma della giustizia. Il presidente dell’associazione dei magistrati, Cesare Parodi, dice alla Stampa che rifiuta un confronto pubblico con il ministro della Giustizia Carlo Nordio per “evitare il rischio che l’Anm appaia come un soggetto politico di opposizione”. E ha poi aggiunto: “Come Anm abbiamo tutti condiviso l’opportunità di non confrontarci con i politici, chiunque essi siano”. Sulla prima affermazione, Parodi non dovrebbe avere alcuna preoccupazione: la scelta dell’Anm di partecipare attivamente alla campagna referendaria ne fa chiaramente, nella percezione comune, un attore politico. Avrebbe dovuto pensarci meglio prima. La seconda affermazione, invece, è semplicemente falsa. Non è affatto vero che l’Anm non faccia confronti con politici ed esponenti di governo. Il 18 marzo 2025, il presidente Parodi partecipò a un dibattito sulla separazione delle carriere organizzato da Noi moderati proprio con il ministro Nordio, il presidente delle Camere penali Francesco Petrelli e vari parlamentari. Si dirà che la riforma non era stata ancora approvata definitivamente e che non esisteva un comitato referendario. Bene. Il 15 settembre, il giorno dopo la nascita del comitato per il No dell’Anm, il segretario dell’Anm Rocco Maruotti ha partecipato a un dibattito sulla riforma, organizzato ad Assisi, insieme al sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto di Forza Italia. Maruotti e Sisto sono quasi una coppia fissa. Si erano già scontrati a giugno, durante un festival a Lamezia Terme: “Fate opposizione assieme al Pd e alla Schlein”, era l’accusa di Sisto; “Palamara è stato cacciato dalla magistratura, Delmastro condannato ve lo siete tenuto al governo”, la risposta di Maruotti. E poi la coppia si è ritrovata il 27 settembre a Monopoli, durante il convegno della corrente di Unicost, in una tavola rotonda sulla riforma Nordio in cui partecipavano altri due politici come Matteo Renzi e Federico Cafiero De Raho (M5s). Il 29 ottobre, il giorno prima dell’approvazione definitiva della riforma al Senato, Parodi si è sfidato sempre con il sottosegretario Sisto in tv, a “Coffee break” su La7. Mentre il 31 ottobre, il giorno dopo il voto finale sulla separazione delle carriere, Parodi si è confrontato a “L’aria che tira”, sempre su La7, con Debora Serracchiani (Pd) e Marco Lisei (FdI). Infine, proprio ieri, il giorno dell’intervista in cui il presidente dell’Anm afferma che l’Anm ha deciso di non partecipare a incontri con politici, il segretario dell’Anm Maruotti ha partecipato a un convegno dell’Anpi contro la riforma Nordio in cui, oltre ai vertici delle correnti di sinistra (Magistratura democratica, Area, Movimento per la giustizia), c’erano i responsabili Giustizia dei partiti di sinistra: Serracchiani (Pd), Peppe De Cristofaro (Avs), Gianluca Schiavon (Rifondazione comunista). Questo elenco di eventi è parziale, ma è sufficiente a dimostrare che quanto afferma Parodi è palesemente falso: una bugia. Un po’ come le citazioni farlocche di Falcone e Borsellino, diffuse anche da un pm come Nicola Gratteri. Ma allora perché negare un confronto a Nordio, visto che già c’è stato in passato? Aveva molto meno senso un dibattito tra l’Anm e il ministro quando la discussione sulla riforma spettava al Parlamento, rispetto a ora che spetta ai cittadini e l’Anm ha deciso di partecipare alla campagna referendaria. Perché, insomma, l’Anm nega ai cittadini la possibilità di ascoltare le ragioni del Sì e quelle del No dai massimi esponenti di questa campagna referendaria e, quindi, di votare in maniera più consapevole? Le ragioni possono essere due. Una è di tattica elettorale: nell’Anm molti dubitano delle doti comunicative di Parodi (che inizialmente si era detto disponibile a un dibattito col ministro) e quindi presumono che nel confronto con Nordio ne uscirebbe sconfitto. Ma questo è l’aspetto meno interessante. L’altra questione è più di fondo: il timore che “l’Anm appaia come un soggetto politico”. Ma questo ormai non dipende più da un match televisivo. Il nodo gordiano dell’opposizione alla riforma senza apparire come un soggetto politico di opposizione è stato tagliato quando l’Anm ha fondato un comitato per il No. L’associazione dei magistrati avrebbe potuto decidere di esprimersi contro la riforma, lasciando fare la campagna elettorale ai partiti e, al limite, ai singoli magistrati. Invece ha preferito scendere in campo come organizzazione, sfidando peraltro il proprio statuto che, all’art. 2, sancisce che “L’Associazione non ha carattere politico”. Sarebbe ipocrita, da parte dell’Anm, sostenere che l’articolo si riferisce solo alle elezioni politiche o amministrative: significherebbe pensare che un referendum costituzionale abbia minore valore e conseguenze politiche per il governo e per la nazione di un’elezione comunale. L’Anm ha quindi già deciso, anche contro la propria natura statutaria, di diventare un soggetto politico. Avrà già pesato, o avrebbe dovuto, le conseguenze di questa scelta sulla reputazione e percezione della magistratura nell’opinione pubblica. Ora metta da parte le ipocrisie e le menzogne, e dibatta apertamente con il governo onorando fino in fondo il confronto politico e democratico del referendum. La Russa: “No alla guerra tra politica e magistrati. Avvocati, serve umanità” di Federico Rota Corriere della Sera, 15 novembre 2025 “L’importante è che non ci sia guerra fra politica e magistrati. Auspicavo e continuo ad auspicare un incontro fra le varie posizioni”. Il presidente del Senato Ignazio La Russa parla uscendo dalla Sala Oggioni del Centro congressi, a margine del saluto portato all’Associazione italiana giovani avvocati (Aiga). E, a proposito del dibattito sulla riforma che introduce la separazione delle carriere della magistratura, invita a una ricomposizione dei toni: “Non so se vale la pena fare la guerra”, nota il presidente del Senato. Soprattutto, in vista del referendum: “Anche in questa fase continuo ad auspicare che si cerchi di contemperare le varie ragioni - conclude La Russa, prima di congedarsi e raggiungere Milano, dove era atteso a un evento a Palazzo Lombardia -. Una cosa è la riforma, un’altra cosa è come si applicherà questa riforma. Se riusciremo a far sì che l’esito sia condiviso, ne deriverà un vantaggio per tutti: avvocati, magistrati e, soprattutto, cittadini”. A margine del suo intervento, La Russa parla anche di un’altra riforma: quella che chiama in causa l’ordinamento della professione forense. A inizio settembre il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge, che ora è all’esame della commissione Giustizia della Camera: “I cambiamenti al testo originario avvengono in prima lettura - osserva La Russa -, in seconda lettura nell’80% dei casi, forse anche più, ci si limita a verificare che non ci siano storture grossolane. Per quanto posso anticiparvi, appena arriverà al Senato sarà mia cura farlo camminare spedito perché quell’obiettivo si raggiunga. Ma si raggiungerà certamente”. A breve dovrebbero iniziare le audizioni alla Camera, l’orizzonte prefigurato e confermato anche dal presidente del Senato è quello di un’approvazione definitiva entro la fine della legislatura: “Appena arriverà al Senato, il percorso sarà a due terzi. Penso che prima della fine della legislatura l’iter possa concludersi”. Nel rivolgersi alla platea di avvocati, Ignazio La Russa ricorda come anche lui in passato abbia indossato la toga. Una passione forte almeno quanto quella per la politica. E che adesso, da quando è stato nominato alla presidenza del Senato, gli manca non poter più esercitare: “Non faccio più parte della famiglia degli avvocati - dice -. Ma ho la possibilità di parlare ai giovani avvocati, come avviene in questa occasione, che guardano a questo congresso nazionale con un occhio soprattutto al futuro: alla transizione digitale, a tutto questo modo nuovo di svolgere la professione che, a quelli della mia generazione, fa un po’ tremare i polsi”. Tuttavia, al netto delle transizioni che oggi sono già superate (La Russa cita gli atti battuti prima con la macchina da scrivere, poi redatti al computer) e di quelle che verranno, La Russa continua a ritenere che la professione dell’avvocato debba continuare a poggiare su alcuni capisaldi. In primis “la competenza giuridica”. C’è poi un’altra caratteristica, che “tante volte tendiamo non a dimenticare ma a sottovalutare: l’umanità - evidenzia, rivolgendosi alla platea -, è essenziale per chi fa l’avvocato. Senza la passione per l’avvocatura e l’umanità da trasfondere nell’esercizio della propria professione non si è dei buoni avvocati”. È un aspetto su cui La Russa insiste più volte, invitando i giovani colleghi a “non dimenticare mai che nell’esercizio della vostra funzione avete la responsabilità di caricarvi sulle spalle le ansie, le ambizioni, le paure, i desideri dei vostri assistiti. Diventate non solo la loro voce, ma spesso la loro speranza e, spessissimo, la loro possibilità di far fronte a eventi per loro difficilmente governabili”. Francesca Scopelliti: “Enzo Tortora fu vittima della giustizia, questa riforma è nel suo nome” di Irene Famà La Stampa, 15 novembre 2025 La vedova del conduttore televisivo: “Giudici e pm, così eviteremo altre persecuzioni”. “Sono felice di questo sprint finale per il sì alla separazione delle carriere. Nel nome di Enzo”. Francesca Scopelliti parla come giornalista, ex senatrice e come compagna di Enzo Tortora, uno dei conduttori più noti della tv italiana finito vittima di un grave errore giudiziario. Scopelliti non ha nessun dubbio su cosa votare al referendum: “Sono impegnatissima per convincere i cittadini che questo è finalmente il momento di inizio per avere una giustizia più giusta”. Meno potere ai magistrati? “No. Questa riforma non è contro i magistrati, ma in loro favore. Perché, come diceva Enzo, scinde i giudici di potere dai giudici di giustizia”. Il 17 giugno 1983 Tortora venne arrestato per traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. L’assoluzione arrivò dopo sette mesi di reclusione e tre gradi di giudizio... “Ha vissuto proprio sulla sua pelle la familiare complicità tra la procura e la Corte”. Lei ha detto più volte che è stato commesso un crimine giudiziario. Definirlo semplicemente errore è scorretto? “Il crimine è proprio nella consapevolezza di avere di fronte un innocente. Lo sapevano e lo hanno perseguito comunque”. Nessuna prova? “Enzo era noiosamente pulito. La classica persona per bene che paga le multe e non evade le tasse. A quel punto lo hanno costruito camorrista con l’aiuto di ben diciotto pentiti che trovarono nel carcere di Paliano, proprio dove c’era il famoso pentitificio. C’è un aneddoto particolarmente significativo”. Può raccontarlo? “Durante l’interrogatorio, condotto con tono arrogante, i magistrati gli mostrano una lettera”. Cosa diceva? “Caro Tortora, la roba che le abbiamo mandato non è stata pagata e nemmeno restituita”. La firma? “Era di Domenico Barbaro, ma l’estensore era Giovanni Pandico, uno dei pentiti che lo accusava. Enzo, la risposta la trovò tra i suoi carteggi e diceva così: “I suoi centrini non si trovano più, però l’ufficio della Rai la rimborserà adeguatamente”. La consegnò alla procura? “Certo. A quel punto ci fu il silenzio: il cancelliere smise di scrivere, i magistrati di parlare. Avrebbero dovuto chiedere scusa”. Invece lo mandarono a processo... “E uno dei pm gli disse: “Beh Tortora, buona fortuna”“. Con questa riforma crede che verranno commessi meno errori? “Non è la panacea di tutti i mali della giustizia, ma è un primo passo che dimostra che il potere legislativo può correggere le distorsioni di un ordine fondamentale come quello di chi amministra la giustizia”. Nessun timore che la politica possa controllare la magistratura provocando altre storture? “I governi cambiano perché sono soggetti a un giudizio popolare. La magistratura no, perché non ha nessun controllo”. Favorevole al sorteggio dei membri del Csm? “Riuscirà a bloccare l’obbrobrio delle correnti. Anche l’Alta corte disciplinare penso sia fondamentale”. Perché? “Sino a che il magistrato verrà giudicato da altri magistrati, è chiaro che non ci sarà una verità di giudizio”. Tentativo di coprirsi a vicenda? “Come si spiega che su migliaia di errori giudiziari all’anno, il 98% dei togati viene valutato come eccellente?”. Errare è umano. I magistrati non possono sbagliare? “Nessuno si preoccupa di correggere l’andazzo”. Gli errori giudiziari sono frutto di sbadataggine o senso di onnipotenza? “C’è anche la superficialità. E il desiderio di trovare per forza un colpevole, così da fornire risposte all’opinione pubblica”. Tortora, da Regina Coeli, le scrisse molte lettere. Confidava ancora nella giustizia? “No, si faceva coraggio. Capì subito che la questione non si sarebbe risolta facilmente. Me lo scrisse: “Qui è lunga. Perché loro hanno già deciso, cercando nella spazzatura delle lettere anonime qualcosa che mi possa rendere colpevole. Per salvare la loro faccia, fottono me”. E così è stato. Trovava conforto nei libri”. Quali letture? “Dostoevskij. E mi chiedeva quella precisa traduzione perché la considerava più brillante”. E lei crede ancora nella giustizia? “No, ma penso che gli addetti ai lavori si possano svegliare da questo sonno della ragione”. La sua speranza? “Che i magistrati comincino a dire che le riforme non sono contro di loro, ma a loro favore, per rendere la giustizia uguale per tutti”. Consenso al centro: la riforma bipartisan del reato di stupro di Bartolomeo Romano* Il Dubbio, 15 novembre 2025 Raggiunto l’accordo Pd-FdI, la Commissione Giustizia della Camera approva un emendamento che allinea l’Italia con la Convenzione di Istanbul e “rompe” con la tradizionale concezione di violenza e minaccia. Finalmente il delitto di violenza sessuale, disciplinato dall’articolo 609-bis del codice penale, sarà integrato in mancanza di “consenso libero ed attuale”: è la novità normativa dovuta ad un emendamento bipartisan approvato pochi giorni fa all’unanimità dalla commissione Giustizia della Camera dei Deputati. Sono ormai quasi trenta anni - e cioè dalla riforma intervenuta in materia nel 1996 - che sostengo che il delitto di violenza sessuale dovrebbe essere incentrato sul consenso. Lo ho scritto infinite volte, da ultimo nel mio Delitti contro la sfera sessuale della persona, 8ª ed., Lefebvre Giuffrè, Milano, 2025, e ne ho trattato sempre nelle mie lezioni di Diritto penale all’Università di Palermo, seguite, ormai, da migliaia di studenti, compresa Carolina Varchi, relatrice della riforma in corso. Infatti, è vero che nel vigente articolo 609-bis c.p. il mantenimento della violenza e della minaccia tra i requisiti della condotta si pone lungo una linea di continuità con la scelta legislativa del passato (cfr. i vecchi artt. 519 e 521 del codice penale), peraltro allora analoga a quella di altri Paesi dell’Europa continentale, quali ad esempio la Germania e la Spagna. Ma questa impostazione era frutto di un retaggio vetero-maschilista, che presupponeva una posizione diversa, e dunque una differente condotta, dell’uomo e della donna, perfettamente scolpita dall’idea della vis grata puellae. Invece, il bene tutelato nei delitti di cui agli articoli 609-bis ss. c.p. (la libertà di autodeterminazione della persona, al posto del vecchio riferimento alla moralità pubblica e al buon costume) avrebbe preferibilmente preteso la punizione di una condotta realizzata nonostante la mancanza di consenso della persona offesa. A dare maggior forza alla necessità di introdurre il requisito del consenso è poi intervenuta la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta ad Istanbul l’11.5.2011. Infatti, detta Convenzione, all’articolo 36, comma 1, obbliga le parti ad adottare “misure legislative o di altro tipo necessarie per perseguire penalmente i responsabili dei seguenti comportamenti intenzionali: a) atto sessuale non consensuale con penetrazione vaginale, anale o orale compiuto su un’altra persona con qualsiasi parte del corpo o con un oggetto; b) altri atti sessuali compiuti su una persona senza il suo consenso; c) il fatto di costringere un’altra persona a compiere atti sessuali non consensuali con un terzo”. E il comma 2 del medesimo articolo specifica che “il consenso deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto”. Ora, poiché l’Italia ha ratificato la Convenzione di Istanbul con legge del 27.6.2013, n. 77, ne deriva che il nostro Paese dovrebbe riformulare il reato di violenza sessuale incentrandolo sul consenso (e non più sulla violenza o minaccia). Inoltre, più recentemente, in tal senso si è orientato il legislatore tedesco. Infatti, il 10.11.2016 è entrata in vigore la nuova disciplina dei “delitti contro la libertà sessuale” (§§ 174 ss.), dovuta alle innovazioni apportate dalla legge di modifica del codice penale, intitolata “potenziamento della tutela della libertà sessuale”. In base al nuovo testo, si punisce “chiunque, contro la volontà discernibile (riconoscibile) di un’altra persona, compia o faccia compiere atti sessuali su di essa o la induca a compiere o tollerare atti sessuali su o da parte di terzi”. La Germania, dunque, ha superato la precedentemente richiesta presenza della violenza e della minaccia, virando verso il consenso, anche se il cosiddetto no model adottato potrebbe non risultare pienamente conforme all’articolo 36 della Convenzione di Istanbul poiché, richiedendo un’opposizione espressa (verbale o non), non tutela quei casi in cui la vittima subisce in maniera passiva il reato. Ma ancora più netta è la soluzione da ultimo adottata in Spagna con la Ley Orgánica 10/2022, de 6 de septiembre, “de garantía integral de la libertad sexual”. Infatti, la riforma del 2022 ha eliminato la distinzione tra abuso sexual e agresión sexual prevedendo solo la fattispecie di agresión sexual nel nuovo articolo 178. In base a detto articolo, il reato è integrato da “qualsiasi atto che attenti alla libertà sessuale di un’altra persona senza il suo consenso”; e si precisa che “c’è consenso solo quando questo sia stato manifestato in maniera libera attraverso atti che, in base alle circostanze del caso, esprimano in maniera chiara la volontà della persona”. Pertanto, si è adottato il cosiddetto yes model, più in linea con quanto richiesto dalla Convenzione di Istanbul. Ora, è vero che la giurisprudenza italiana ormai spesso riconosce un ampio concetto di violenza e di minaccia; ma, a mio avviso, tale interpretazione sfiora l’analogia in malam partem, pur rispondendo ad un bisogno certamente avvertito. E comunque tale indirizzo giurisprudenziale non esclude letture in controtendenza, come avvenuto nella famosissima sentenza relativa alla “violenza su donna in jeans”. Dunque, è un bene che il potere legislativo, in un equilibrato bilanciamento dei poteri dello Stato, abbia trovato la via, peraltro generalmente condivisa, di riformare il delitto di violenza sessuale. *Ordinario di diritto penale Università di Palermo La bellezza sotto processo. L’incredibile storia di Nik Spatari di Ilario Ammendolia* Il Riformista, 15 novembre 2025 Nik Spatari è stato un artista di valore internazionale, architetto, scultore, pittore, e creatore del Musaba, un parco artistico culturale, che oggi è meta di visite di scolaresche, di studiosi dell’arte, di semplici visitatori che vengono da tutte le parti d’Italia e dall’estero. Negli anni Cinquanta e Sessanta aveva vissuto a Parigi, era diventato amico di Picasso e aveva frequentato Sartre e Jean Cocteau. Nick è ricordato come il gigante buono, che, insieme ad Iske, la sua compagna olandese, ha passato l’intera esistenza a creare bellezza nella Locride. Nessuno ricorda - o vuole ricordare - quando è stato arrestato come un delinquente. Secondo il Pm, dott. Gratteri, oggi noto bomber dei sostenitori del fronte del No, avrebbe dovuto essere custodito in carcere insieme ad Iske. Se non erro, per Nik sarebbe stata quella una seconda carcerazione. Già una volta era stato arrestato per aver “rubato” pietre e poi prosciolto. Comunque, almeno in tale occasione, il Gip attenuò la misura e concesse gli arresti domiciliari. Meno afflittivi ma, come disse Pasquino Crupi, (l’unico giornalista a protestare per l’assurdo provvedimento) “sempre arresti sono”. Qualche tempo dopo anche Pasquino, a cui oggi è dedicato il Palazzo della città metropolitana, venne toccato dalla giustizia ingiusta. Nick ed Iske furono accusati di reati gravissimi: tentata truffa, corruzione, violazioni fiscali. Tutti evaporati come una piccola pozza d’acqua sotto il sole. I più fecero finta di non vedere. Non così il vescovo di Locri, Carlo Maria Bregantini, che poco tempo dopo l’arresto andò ad inaugurare in forma solenne il Musaba dimostrando a tutti che Nick aveva realizzato un luogo di incredibile bellezza e non una truffa. Anche Bregantini fu costretto a lasciare la Calabria in fretta e furia perché intercettato e sospettato dai soliti Pm di vicinanza alle cosche. Nessuno dovrebbe rimuovere i giorni della vergogna. Invece, per una strana legge del contrappasso, chi lo ricorda è messo sotto accusa mentre chi ne è stato responsabile viene portato in trionfo. Resta comunque il fatto che s’è tentato di distruggere un grande artista con l’uso scellerato delle manette. La cosa non deve sorprendere molto. A due passi del luogo dove Nick realizzò il Musaba c’è un sindaco che è stato rimosso dall’incarico e portato in carcere per 5 anni. Una volta riconosciuto innocente, i suoi concittadini lo hanno rieletto sindaco. Questa è la Calabria “regione canaglia” e questi i magistrati eroi nazionali. Un solo conforto: di Nick Spatari si parlerà ancora e per molti anni, ed il Musaba è sopravvissuto e sopravvivrà alla furia distruttiva della giustizia ingiusta. Cosa voterebbe Nick Spatari al referendum sulla separazione delle carriere? Non lo sapremo mai perché il grande artista è morto, ma non credo che voterebbe per conservare l’attuale sistema giudiziario. Dobbiamo votare noi anche in suo nome. *Giornalista e scrittore Liberazione anticipata, lo stop al beneficio per violazioni estese a semestri pregressi va motivato di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2025 Se il giudice ritiene che l’effetto negativo della violazione commessa si estenda a periodi pregressi la motivazione dovrà dar conto di tale valutazione a ritroso. La Cassazione penale - con la sentenza n. 37101/2025 - ha accolto il motivo con cui il ricorrente lamentava la proiezione a ritroso delle violazioni disciplinari che gli erano state contestate. In effetti la decisione del tribunale di sorveglianza aveva esteso l’esclusione dal calcolo - finalizzato alla richiesta concessione di liberazione anticipata - di ulteriori semestri, precedenti quello in cui il condannato aveva commesso atti di rilevanza disciplinare durante la vita carceraria. La Cassazione accoglie il motivo in quanto sussiste, nel caso in esame, una carenza di motivazione da parte dei giudici. In via generale, quando viene deciso che determinate violazioni incidano negativamente ai fini della concessione del beneficio devono motivare come tali condotte elidano il fine rieducativo intrapreso oppure siano sintomo del totale mancato avvio di un atteggiamento di ravvedimento. Non c’è, infatti, alcun automatismo tra illecito disciplinare ed esclusione dal computo del semestre in cui è stato commesso come prova negativa dell’avvio di un percorso emendativo. Poi, in particolare, se il giudice ritiene che l’effetto negativo della violazione commessa si estenda anche ai semestri pregressi la motivazione dovrà dar conto di tale valutazione a ritroso. Infine, conclude la Cassazione che se i semestri obliterati, rispetto all’affermazione negativa del presupposto della riabilitazione intrapresa dal condannato, sono di gran lunga risalenti - rispetto al momento della rilevata infrazione alla disciplina carceraria - la motivazione dovrà in proporzione al tempo trascorso essere maggiormente sostenuta ed esaustiva. Vale la pena ricordare, al fine di confermare la stretta necessarietà di una completa motivazione, che non esiste alcun automatismo tra illecito disciplinare ed esclusione del semestre in cui l’infrazione è stata compiuta. Ciò perché al centro della valutazione del giudice di sorveglianza si pone il percorso rieducativo comunque intrapreso e il giudice è chiamato a decidere se l’illecito sia o meno elemento negativo rispetto a esso. Dunque è fuor di dubbio che l’esclusione di ulteriori periodi risalenti vada motivata con maggior precisione e completezza. Pavia. Detenuto di 30 anni si suicida in cella: scatta l’inchiesta della procura di Maria Fiore La Provincia Pavese, 15 novembre 2025 Il giovane aveva già provato a farla finita e per questo doveva essere sorvegliato. Il legale: “Era in attesa di giudizio, la morte in pieno giorno. Perché?”. Il giudice dopo l’arresto aveva ordinato una “stretta sorveglianza del detenuto”, che era in attesa di giudizio. Perché Osama A., il giovane di 30 anni di origine egiziana che si è tolto la vita giovedì a Torre del Gallo, aveva già provato a farla finita. E per questo dal carcere di Monza, dove era entrato alla fine di agosto con l’accusa di violenza sessuale, era stato trasferito nel carcere di Pavia. Qualcosa nella vigilanza, però, non ha funzionato: il giovane si è impiccato, poco prima di mezzogiorno, nel locale docce della sua cella. Il suicidio del 30enne è il 15esimo registrato nella casa circondariale dal 2021, il terzo dall’inizio dell’anno. Per fare luce sulle circostanze dell’ennesima morte dietro le sbarre la Procura di Pavia ha avviato un’inchiesta. L’ipotesi di reato con cui il fascicolo è stato aperto è di istigazione o aiuto al suicidio: la pm Valeria Biscottini dovrà fare luce sulle condizioni della detenzione, per capire se queste possano avere agevolato il gesto volontario, anche se forse dettato da una condizione di fragilità. E se le prescrizioni sulla vigilanza siano state rispettate. La denuncia della famiglia - Non ha dubbi l’avvocato del giovane detenuto, Marco Romagnoli, incaricato dalla famiglia del giovane in Egitto: “I parenti chiedono che sia fatta luce sulle circostanze che hanno portato a questa tragedia. Il mio assistito era incensurato e regolare in Italia ed era in attesa di giudizio. Lo stavo difendendo da un’accusa che lui riteneva ingiusta e di cui si vergognava di fronte alla sua famiglia. Il giudice aveva disposto la stretta sorveglianza, perché allora non era adeguatamente vigilato? La tragedia non è avvenuta di notte, ma in pieno giorno. È fuori dalla mia comprensione giuridica e personale come sia possibile che una persona ad alto rischio di suicidio si sia impiccata dopo averci provato due mesi fa. È il segno evidente di una responsabilità da parte dell’amministrazione penitenziaria”. Roma. L’esperienza di “Non Tutti Sanno”, il notiziario dei detenuti di Rebibbia di Roberto Monteforte articolo21.org, 15 novembre 2025 La forza delle parole e dell’ascolto. Non è facile dare voce al mondo recluso. Varcare la porta carraia, i tanti cancelli blindati del carcere, lasciare all’ingresso documento e cellulare per raggiungere, passando attraverso controlli e metal detector, corridoio dopo corridoio, blindato dopo blindato che si aprono e chiudono alle nostre spalle, un gruppo di persone detenute che ti attendono in una saletta alla “terza sezione”. Lungo quel percorso hai tempo per metabolizzare il cambiamento tra il mondo di fuori, di chi è libero, e la realtà ristretta dove ti trovi, segnata da sbarre e soprattutto da limiti, dove anche le cose più banali devono essere richieste e concesse. Dove il tempo è come sospeso. In quella stanza interna dell’istituto penitenziario incontro la mia “redazione”, con un obiettivo semplice e difficilissimo: dare loro gli strumenti per raccontarsi e raccontare cosa sia la vita ristretta. Così è nato il notiziario che abbiamo chiamato “Non Tutti Sanno”. Lo realizziamo con una certa regolarità dal 2020, il tempo del Covid, alla Casa di Reclusione di Rebibbia, in una sezione di media sicurezza a trattamento intensificato”, che ospita detenuti con pene definitive medio-lunghe, anche ergastolani, a cui è consentito una relativa libertà di movimento per seguire le attività di studio, culturali e di formazione. Il numero dei “redattori” varia, perché in carcere c’è chi entra e chi esce per un permesso premio, perché ha finito di scontare la sua pena oppure usufruisce dei benefici, va in semi libertà, al lavoro esterno. Poi bisogna fare i conti con gli stati d’animo, con le disponibilità perché da “ristretti” non è facile mantenere la serenità e la concentrazione. I motivi per essere provati non mancano quando la vita non ti appartiene più e neanche il tuo tempo e non è facile trovare lo spazio e il tempo per scrivere. I redattori sono meno di dieci, con età che varia dai 25 ai 75 anni. Una fetta di varia umanità, con alle spalle storie diverse, tutte pesanti. Non ho mai chiesto quali reati avessero commesso. Lo raccontano se vogliono. Quasi tutti sono iscritti all’università e sono coinvolti nelle attività di studio, nei laboratori teatrali e culturali, nei momenti di formazione e nelle attività sportive presenti nella Casa di Reclusione. In particolare frequentano con regolarità il laboratorio di scrittura creativa tenuto da una religiosa ottantenne tenacissima e molto amata dalla popolazione carceraria, suor Emma Zordan che ogni sabato mattina da Latina raggiunge Rebibbia. Lo cito perché è da quel laboratorio dove la scrittura è un pretesto per guardarsi dentro e curare le ferite più profonde dell’anima, più che è nata la nostra esperienza. In redazione ci ritroviamo almeno una volta a settimana, il giovedì mattina, per discutere e decidere cosa trattare. Ciascuno con la sua storia, la sua esperienza e la sua sensibilità. Si raccontano i fatti vissuti. Ma non è facile capire e raccontare di carcere. Mettere in ordine, nero su bianco su un foglio situazioni, abusi, ingiustizie, speranze, riflessioni, rimorsi, sentimenti, fatti legati alla vita reclusa, cercando di verificare e di andare oltre le vicende personali, spesso dolorose e a volte ingiuste, per cercare di cogliere quello che riguarda davvero tutti. È grazie al confronto tra le esperienze, l’età e le sensibilità diverse e all’impegno di Marco, Stefano, Aldo, Danilo, Fabrizio, Boris, Edoardo che riusciamo a definire la scaletta di cosa trattare. E’ un L’impegno è trovare il filo di queste riflessioni e dargli un seguito, malgrado il tempo frantumato, il chiasso del carcere, le chiamate all’altoparlante che rimbombano e le regole non scritte ma implacabili della vita reclusa: la fila per la spesa, i colloqui con i familiari, quello con l’avvocato, con lo psicologo o l’educatore, la telefonata o la videochiamata, poi la fila per la spesa, quella all’infermeria, i corsi scolastici, le “domandine” da presentare per ogni esigenza, il vitto da recuperare, la cella da sistemare, il lavoro - per i pochi fortunati che lo hanno - in cucina, o per le altre incombenze carcerarie affidate ai detenuti. Il tempo “recluso” è vuoto e pieno al tempo stesso, ma spersonalizzante e ripetitivo. Fatto da regole precise da rispettare. In questa realtà realizziamo il nostro notiziario Non Tutti Sanno. Abbiamo una stanza dove riunirci e un solo pc, ovviamente senza connessione internet, per raccogliere gli articoli, impaginarli e curare la grafica del notiziario, in questo aiutati dai docenti della Rufa, l’ateneo privato di grafica e arti visive a Rome, Gino Iacobelli, Enrico Parisio e Rosario Di Vincenzo che hanno attivato un corso di Graphic Design per i detenuti della Reclusione. Sono autorizzato dalla direzione della Cr Rebibbia a caricare su una pennetta gli articoli per poterli correggere “fuori” per poi scaricarli insieme alle foto sul nostro pc dove impaginiamo il notiziario. Lo pubblichiamo quando ci è possibile, facendo i conti con i tempi lunghi del carcere, in genere ogni tre mesi. Lo stampiamo fuori, a colori, 300 copie in carta patinata a 28 o 32 pagine. Viene rilanciato dal sito di Ristretti Orizzonti e da quello del Garante dei detenuti del Lazio. Viene fatto veicolare sui social. Lo sforzo è stato quello di realizzare un prodotto giornalistico professionale, curato nei contenuti e nella forma. Merito anche della collaborazione volontaria “esterna” della grafica editoriale Antonella Laganà, che ci indica cosa correggere e rivedere. Prima di andare in stampa passiamo le bozze del notiziario al nostro direttore responsabile, la collega Ornella Favero che dirige la storica testata penitenziaria Ristretti Orizzonti di cui siamo un supplemento. Il nostro obiettivo è quello di non essere il “giornalino” della direzione dell’istituto penitenziario, dove far fare un semplice esercizio di scrittura ai detenuti, ma un “ponte” di racconti, notizie e spunti di riflessione tra il dentro e il fuori, tra la realtà del carcere e la società. Con un particolare valore aggiunto: il racconto è di chi l’esperienza carceraria la vive e ne parla in modo competente e responsabile, con l’orgoglio di raccontarla. Una dignità e responsabilità che si è tentato di minare quando, all’inizio del 2025 la direzione del carcere voleva imporre ai redattori di non firmare gli articoli con il loro nome e cognome, ma ricorrere solo al nome di battesimo, ad un nome di fantasia o alla semplice sigla. Una richiesta vissuta dalla redazione come lesiva della loro dignità di persona e ai giornalisti impegnati nella redazione come una messa in discussione della loro responsabilità e degli obblighi deontologia professionale nei confronti dei lettori. Insieme al nostro direttore responsabile Ornella Favero si è protestato e si è presto compreso che molte altre testate e realtà di informazione dal carcere stavano subendo limitazioni simili, tentativi di censura ed altro ancora. Si è costituito un Coordinamento nazionale di queste realtà (da quelle storiche come Ristretti Orizzonti, Carte Bollate o la rivista della redazione del carcere di Opera o Voci di dentro a quelle più recenti) circa una trentina di testate, per tutelare il diritto di informazione anche dal carcere. Si è aperto un confronto con il vicecapo del Dap, Massimo Parisi, che è ancora avviato. Il coordinamento delle testate ha avuto il sostegno dell’Ordine dei Giornalisti, della Fnsi e dei Garanti territoriali dei detenuti. Se il carcere è una realtà chiusa per definizione, è sempre più necessaria un’informazione libera e responsabile sulla vita reclusa, come forma di tutela non solo del diritto di espressione, ma di tutti gli altri diritti che danno dignità alla persona: dall’affettività alla salute, alla formazione e al lavoro. Questa informazione è preziosa per rompere il muro del pregiudizio e della banalizzazione mediatica su una realtà che viene presentata come il male assoluto, come altro da noi, mentre invece ci riguarda e ci interpella oggi più che mai. Il carcere non può fare notizia solo quando scoppia qualche protesta violenta o viene rinchiuso un personaggio noto per qualche delitto efferato, fatti enfatizzati per alimentare logiche securitarie. Mentre quando trapela la notizia di qualche suicidio in carcere ci si limita ad aggiornare la conta delle vite spezzate. Gli si dà un’attenzione distratta. Quando, invece, sono il segno drammatico di un fallimento. Perché dietro quel gesto estremo vi sono uomini e donne, spesso giovani, immigrati, con storie di abbandono e di disagio mentale, di dipendenza, di sofferenza e di solitudine che avrebbero meritato ben altra attenzione e altre risposte., Non sbaglia chi afferma che il carcere in Italia è sempre più “una discarica sociale”, un luogo dove contenere, segregare e nascondere il disagio sociale. Visto dall’interno del carcere tutto è più chiaro ed anche più doloroso. Le parole, le definizioni hanno un’altra concretezza. Quando si denuncia il “sovraffollamento” sempre in aumento, le oltre diciassettemila persone in più da stipare nelle carceri italiane, questo vuole dire condizioni di vita più disumane, spazi vitali che si riducono all’inverosimile e, con i problemi di organico del personale penitenziario, immancabilmente una stretta al diritto alla cura e alla salute, all’istruzione, alle attività trattamentali, alla formazione e quindi al lavoro, all’affettività. Finiscono per essere messi in discussione il futuro e i diritti costituzionali della persona reclusa, malgrado lo sforzo e l’impegno del personale penitenziario. Il carcere finisce per essere sempre più luogo di contenimento e di segregazione, tradendo la funzione di recuperare alla società assegnatogli dall’art. 27 della Costituzione. Questo malgrado i numerosi richiami del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella a cui abbiamo dedicato l’ultimo numero del notiziario Non Tutti Sanno proprio per ringraziarlo di questo suo costante impegno a tutela della dignità della popolazione reclusa. Un richiamo poco ascoltato, viste le scelte anche recenti del governo e della direzione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che, in nome della sicurezza, invece di ridurre l’affollamento carcerario, aumentano pene e reati punta a ridurre gli spazi e le opportunità di presenza nelle carceri della società civile e del volontariato, che sono fondamentali per attivare percorsi di vero recupero dei detenuti. Senza considerare che è con questi percorsi di integrazione si costruisce una vera sicurezza. In nome di una logica sicuritaria i vertici dell’amministrazione penitenziaria, forzando leggi e competenze, hanno deciso di centralizzare le autorizzazioni all’ingresso degli “esterni” negli istituti penitenziari, finendo per comprimere quella ricchezza di competenze, di professionalità e di impegno soprattutto del volontariato che l’ordinamento penitenziario riconosce come fondamentale e che vanno valorizzare, raccontate e condivise dentro e fuori le carceri. Un vero patrimonio sociale che può - come indica la nostra Costituzione - dare senso al “tempo recluso”, accompagnare percorsi di consapevolezza e di presa di responsabilità che ora rischiano di essere compressi visto che in nome della sicurezza si punta ad affermare una logica securitaria. Proprio grazie all’apporto delle energie migliori che arrivano dal mondo ristretto è possibile costruire percorsi di cambiamento e inclusione. Occorre rispetto delle regole, ma anche della dignità delle persone e capacità di ascolto. Me ne sono reso conto da volontario e giornalista professionista con 40 anni di esperienza alle spalle. Sono entrato alla Casa di Reclusione ancora prigioniero di qualche preconcetto e sicuramente timoroso, con la presunzione di poter mettere a disposizione le mie competenze professionali. Presto mi sono reso conto di quanto sia fondamentale ascoltare, scoprire e accettare, anche scontrandosi, la realtà difficile di chi avevo di fronte. Superando diffidenze e sospetti reciproci. Così, gradualmente, sono iniziato ad entrare nei meccanismi e nei tempi della vita ristretta. Allora ho capito l’importanza di offrire soprattutto ascolto, rispetto e di rappresentare anche con la mia semplice presenza in quella saletta della redazione “in terza sezione”, un ponte con il fuori, il provvisorio “garante” di uno spazio di normalità ed anche di libertà, dove conta il pensiero di tutti e si è stimolati ad esprimerlo senza timore. Un “ponte” anche con gli altri volontari e docenti presenti nella Casa di Reclusione, con la Garante dei detenuti di Roma Capitale Valentina Calderone e del Lazio, Stefano Anastasia e i loro collaboratori, con cui il confronto è costante, con gli psichiatri e i responsabili della direzione sanitaria di Rebibbia. È una comunità di persone che fanno un servizio straordinario per competenza e sensibilità umana, della quale sono parte fondamentale gli agenti della polizia penitenziaria, sempre in prima linea, sottoposti a turni massacranti, in qualche modo anche loro “ristretti”. Tutti che chiedono semplicemente di essere considerati. Una realtà complessa che ha una sua figura apicale, la direzione dell’istituto penitenziario e il suo staff, se non altro perché che può fare la differenza garantendo spazi e autorizzando iniziative insieme alla magistratura di sorveglianza. Così è stato, ora però la burocrazia ministeriale già le sottrae responsabilità e competenze. Rendendo più problematico il rapporto tra società civile e realtà carceraria, fondamentale non solo per preparare al dopo alla vita di fuori le persone ristretta, ma anche ad aiutare la società a superare stigma e pregiudizi. Bisognerebbe cambiare paradigma e fare proprio l’insegnamento di papa Francesco, soprattutto quel suo interrogarsi “Perché loro e non io?” rivolto ai suoi amici detenuti. Ecco il vero antidoto al preconcetto e alla diffidenza. Como. La rivolta nel carcere Bassone. I sindacati: “Trasferire subito cento detenuti” di Paola Pioppi Il Giorno, 15 novembre 2025 Una trentina di detenuti sfollati in altre carceri o in procinto di essere allontanati dal Bassone, sette agenti contusi, uno dei quali con una prognosi di 30 giorni, e danni incalcolabili alle due sezioni coinvolte nella rivolta scoppiata giovedì pomeriggio all’interno del carcere comasco. La ricostruzione della violenta protesta è ancora in corso da parte degli agenti di Polizia penitenziaria, con una difficoltà oggettiva: una delle prime azioni dei detenuti, è stata spaccare le telecamere posizionate all’interno delle sezioni. In particolare, la 1^ e la 4^, in cui sono concentrati i soggetti più difficili da gestire, che si trovano una sopra all’altra. Nel frattempo, è stato dichiarato fuori pericolo il detenuto straniero di 24 anni portato in ospedale con una sospetta lesione alla schiena, e anche chiarito il suo ruolo: sarebbe stato lui ad aggredire e ferire al volto l’agente che ha rimediato la prognosi più importante, a causa della frattura del setto nasale, nel tentativo di sottrargli le chiavi. Sarebbe però stato bloccato da altri detenuti: alla rivolta hanno infatti partecipato solo i nordafricani, che pare si fossero già organizzati per fare un assalto in contemporanea nelle due sezioni. Bloccato dagli altri detenuti, il ventiquattrenne ha cercato di scappare infilandosi tra le sbarre di una porta di accesso alla sezione, dove è rimasto incastrato fino all’arrivo dei vigili del fuoco, che hanno tagliato le barre di ferro. A quel punto, ha detto che aveva perso la sensibilità alle gambe, ma la sua situazione si è poi rivelata non grave. Nel frattempo, gli altri detenuti maghrebini stavano spaccando vetri e suppellettili, allagando i pavimenti, bruciando un materasso e distruggendo ogni cosa gli capitasse a tiro, mentre gli agenti presenti in sezione si mettevano al sicuro su una scala interna. Una rivolta sedata in serata, quando gli agenti di penitenziaria del Bassone e del Gio, il Gruppo di intervento operativo, arrivati da Milano e da Roma, sono entrati con gli scudi, facendo arretrare tutti nelle celle. Nel frattempo i rappresentanti sindacali hanno espresso solidarietà ai colleghi, e apprezzamento per il lavoro svolto. “Chiediamo all’Amministrazione penitenziaria urgenti interventi sull’istituto attraverso l’allontanamento di almeno cento ristretti e la ristrutturazione delle parti dell’istituto danneggiate” dice Giovanni Savignano della Cisl Fns. Biella. Carcere, arriva da Brissogne la direttrice a tempo pieno di Mauro Zola La Stampa, 15 novembre 2025 La Casa circondariale di Biella chiude così il lungo ciclo della direzione a scavalco. Fino a ora aveva potuto contare soltanto su di un direttore a scavalco la casa circondariale di Biella, mentre da qualche giorno a dirigerla è stata chiamata Velia Nobile Mattei. La nuova figura di vertice arriva da un carcere di minori dimensioni, quello di Aosta Brissogne, dove sarebbe rimasta per poco meno di due anni. Si trattava del suo primo incarico nel ruolo. Il passaggio è ora a una struttura, quella biellese, di fascia superiore. L’arrivo di Nobile Mattei è accompagnato da qualche polemica che aveva segnato il suo percorso. Ad Aosta, in particolare si erano dimostrati critici alcuni sindacati della polizia penitenziaria, che avevano espresso dubbi sul suo operato, così come sul trasferimento in una struttura delle dimensioni di quella di Biella. Che però sta vivendo un periodo di tranquillità dopo qualche mese segnato da aggressioni agli agenti e da proteste anche plateali sempre da parte dei detenuti, con le conseguenti rimostranze dei rappresentanti della penitenziaria, per una situazione che avrebbe potuto facilmente trasformarsi in una polveriera. Cosa che però non è accaduta e questo potrebbe rappresentare un buon viatico per la nuova direttrice, la quale in alcune interviste rilasciate durate il suo precedente incarico aveva molto insistito sul valore della rieducazione per i ristretti. Hanno sempre a che fare con il sistema carcere le dimissioni della garante dei detenuti, entrata in carica appena nel luglio scorso, Eleonora Frida Mino, avvocato ma anche attrice e autrice, specializzata in teatro e legalità, che ha messo in scena spettacoli come “Emauela Loi: la ragazza della scorta di Borsellino”. I motivi delle dimissioni riguarderebbero problemi di salute, che l’hanno del resto anche costretta a rinviare tutti gli spettacoli già programmati. Frida Mino era già subentrata al posto di Marisa Boccadelli, su cui era caduta la prima scelta del comune di Biella per sostituire Sonia Caronni (rimasta in carica per due mandati, otto anni in totale), preferendola a Federica Valcauda di Europa Radicale. Boccadelli però, entrata in carica a ottobre dell’anno scorso, aveva lasciato ad aprile, anche lei per motivi di salute, come aveva spiegato lei Cn consiglio comunale. L’amministrazione avrebbe già annunciato l’intenzione di ricorrere a un nuovo bando. Lecce. La salentina Delle Donne e la missione di “Made in Carcere” di Rita De Bernart quotidianodipuglia.it, 15 novembre 2025 “L’addio alla finanza per stare tra gli ultimi”. Luciana Delle Donne, leccese, ideatrice del progetto “Made in Carcere” da 19 anni dedica la sua vita, le sue competenze e l’esperienza maturata nel mondo della finanza, nel promuovere un nuovo stile di vita e creare un modello di economia rigenerativa. Con un grande sogno: generare il Bil, benessere interno lordo, parametro che misura la vera ricchezza umana e sociale. Manager di successo e portatrice sana di speranza e futuro. Luciana Delle Donne, avrebbe mai pensato da ragazzina di arrivare a rappresentare tutto questo? “Sicuramente no, però sin da piccola desideravo fare il medico, prendermi cura delle persone e guarirle. Ma non avevo tanta voglia di impegnarmi nello studio”. Nella vita ha dovuto imparare presto cosa vuol dire farcela con le proprie forze, tra la perdita di suo padre e una madre impegnata per mantenere la famiglia. Quanto ha influenzato la sua formazione personale e le sue scelte? “Beh, cucinare a sette anni per quattro fratelli e per una mamma che aveva un’ora di pausa dal lavoro in banca, mi ha segnato senz’altro. Poi abbiamo vissuto sempre in un contesto di comunità perché mia madre è molto ospitale. Si prendeva cura dei suoi colleghi e li invitava a pranzo; noi abbiamo sempre respirato la generosità, la disponibilità e la cura verso gli altri. La forza della mia infanzia è stata quella di combinare la tristezza e la sofferenza con la gioia di vivere e l’ironia. Carmen, mia madre, a 31 anni e con cinque figli, si è ritrovata da casalinga che non aveva mai visto il mondo, ad affrontare un pezzo di vita difficile e comunque meraviglioso. E questo suo insegnamento ci ha fatto capire che il dolore è una perdita di tempo e spesso non ce lo possiamo neanche permettere. È bello però pensare che viviamo anche per le persone che non ci sono più: il loro ricordo, le loro esperienze, ci aiutano ad indirizzare il nostro percorso di vita”. Ci vuole un pizzico di sana follia o tanta voglia di volare per lasciare una poltrona di successo e imbarcarsi in un’avventura così ambiziosa; hai incontrato pregiudizi? “Più che pregiudizi, disagi, perché chiaramente la comodità di vedere dall’alto il mondo ti solleva da tante sofferenze. Però il mondo vero è quello tra la folla. E io, in quello ovattato e comodo non riuscivo più a trovarmi. Sentivo proprio il bisogno di aiutare le persone bisognose. Mi mancava il contatto proprio con la folla. Lavorando 10-12 ore al giorno con la collana, gli orecchini di perle, i gemelli ai polsi delle camicie, i famosi tailleur rigati, ero parte di quella stanza dei bottoni che influenzava il cambiamento ma anche la ricchezza di pochi. Provocatoriamente, allora, ho deciso di pagare per lavorare, e ho scelto la strada del volontariato. Dedicarmi agli ultimi, agli invisibili: ho pensato subito ai bambini per poter trasmettere la gioia di vivere e l’entusiasmo che ho avuto nonostante orfana di padre a sei anni e mezzo”. Quando è scattato il desiderio di fare qualcosa di concreto per le donne in carcere? “Quando ho capito che era complicato attivare un asilo, che era il mio primo obiettivo. Senza immaginare poi quanto fosse complesso entrare in un carcere. Ma ho pensato fosse più facile occuparmi di quelle mamme che avevano lasciato i figli fuori dal carcere. Aiutare loro significava aiutare anche il resto della famiglia, in particolare i figli”. Che tipo di difficoltà ha incontrato prima di arrivare all’affermazione, alla partnership con maison blasonate e ai riconoscimenti? “Non mancano mai le delusioni o i fallimenti, chi genera cambiamento e costruisce innovazione ha sempre tutti contro. Molti hanno paura del cambiamento e sono rinchiusi nella loro comfort zone. Siamo stati pionieri del lavoro in carcere utilizzando materiali di recupero. Da una parte c’era il mercato curioso di questa nuova esperienza, anche se non è stato facile sdoganare la parola carcere; dall’altra le istituzioni: il sistema carcere non era abituato, soprattutto al sud, a mettersi a disposizione per il lavoro. Continua peraltro ad esserci sempre il problema del sottodimensionamento delle risorse, contro il sovraffollamento dei detenuti, quindi è veramente complesso; le direzioni e la polizia penitenziaria sono però nostri compagni di viaggio e ci sostengono. Nonostante le tante difficoltà il nostro è diventato un modello sistemico di riferimento”. Il volontariato l’ha portata anche a rinunciare al reddito... “Ho vissuto diversi anni percependo solo 400 euro al mese ma questo percorso è una sorprendente esperienza, perché si riesce a comprendere sino in fondo cosa significa ricchezza o povertà interiore. A volte si è molto più poveri dentro. Da qui l’idea di generare benessere anche in questi luoghi di detenzione: noi parliamo di bil, benessere interno lordo. Un valore che misura la ricchezza interiore e il bene che si compie e che si riceve. A questo scopo, abbiamo realizzato un’impresa considerata impossibile: arredare le celle come fossero case, con arredi eleganti e mobili antichi, a testimonianza del fatto che le donne, all’interno di questi luoghi, svolgono un percorso ricostruttivo. E la cura e la bellezza aiutano a trasformare il rancore e la durezza in speranza”. Cambiando argomento ma restando sulle emergenze della condizione femminile: cosa pensa della modifica alla legge sulla violenza sessuale? “Le leggi sono molto importanti, ma sono il comportamento e l’educazione, con gli esempi concreti, che generano la sostanza. Stiamo vivendo anni molto bui, con esempi spesso negativi legati all’individualismo, all’egoismo e alla mancanza di rispetto. È necessario dunque affiancare alle leggi anche l’educazione a scuola tra i ragazzi”. Nella sua vita personale e lavorativa si è mai sentita in carcere? “No mai, magari su una giostra in movimento e da cui non poter scendere”. Il suo è un impegno totalizzante. Le resta del tempo per sé? Le manca qualcosa? “Sì, totalizzante. Pensavo di lavorare meno andando via dal mondo della finanza, invece in ciò che facciamo c’è sempre bisogno di completare qualcosa o di cominciarne una nuova, e la seconda ipotesi mi affascina ovviamente molto di più. Chi fa innovazione e ha una visione, e una sensibilità, di ciò che potrebbe essere utile per il futuro, non si ferma mai: questo atteggiamento è visto come un pregio dagli altri; ma in realtà si fa quasi un torto a sé stessi perché non si ha mai tempo da dedicare, per esempio, anche solo ad una passeggiata al mare d’inverno. Il segreto è apprezzare ogni singolo respiro e ogni singolo attimo di esistenza su questa terra. Io sono particolarmente grata per ogni momento che vivo, sia di gioia che di dolore, perché come diceva mia madre, è tempo che non torna più. Goditelo al massimo-mi diceva-qualsiasi cosa accada è sempre un’esperienza”. Trento. Reinserimento sociale e condizioni detentive, una sfida che riguarda tutti provincia.tn.it, 15 novembre 2025 “Il dibattito sulla funzione della pena e sulle condizioni detentive resta di drammatica attualità. In Trentino non possiamo relegarlo a Spini di Gardolo perché chiama in causa tutti, istituzioni e società”. Così il vicepresidente della Provincia autonoma di Trento, Achille Spinelli, intervenendo stamattina al convegno “Emergenza carcere a 50 anni dalla legge di riforma dell’Ordinamento penitenziario”, in corso oggi e domani presso il Palazzo di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Trento. Il vicepresidente ha ricordato quindi come la Provincia, pur non avendo competenza specifica sulla materia, che resta in capo allo Stato, intervenga nelle carceri nella gestione della sanità penitenziaria e, attraverso la stipula di convenzioni con il Ministero della Giustizia, nel reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti tramite la realizzazione di importanti servizi di supporto e percorsi di formazione. Spinelli ha poi ricordato il Piano d’azione 2024-2026 per il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, approvato nel 2024 ed elaborato con il coinvolgimento degli enti ministeriali e provinciali competenti in materia e con il terzo settore. “Uno strumento importante perché raccoglie le possibili azioni che i vari soggetti si impegnano a realizzare, all’interno di una cornice di programmazione condivisa”. Accanto alle azioni rieducative e di reinserimento sociale, Spinelli ha ricordato come però restino evidenti alcune significative criticità, dal sovraffollamento alla carenza di personale penitenziario, spesso rese evidenti dal verificarsi di alcuni episodi anche drammatici. “Criticità che contribuiscono a minacciare la funzione rieducativa della detenzione, e rispetto alle quali, per quanto riguarda la Casa circondariale di Spini di Gardolo, sono in atto costanti interlocutori con gli organi statali” ha detto Spinelli. Insieme al vicepresidente hanno aperto i lavori della due giorni il magnifico rettore dell’Università degli studi di Trento, Flavio Deflorian, Paolo Carta, Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento, Antonio Angelini, presidente dell’Ordine degli avvocati di Trento, Luciano Spina, presidente del Tribunale di Trento, Roberto Bertuol, presidente della Camera penale di Trento, Lorenza Omarchi, presidente facente funzioni del Tribunale di Sorveglianza di Trento, Donato Castronuovo, presidente Associazione Bricola, Annarita Nuzzaci, direttrice della Casa Circondariale di Spini di Trento, Giovanni Maria Pavarin, Garante dei diritti dei detenuti della Provincia autonoma di Trento. L’iniziativa è organizzata da Antonia Menghini, già Garante dei diritti dei detenuti della Provincia autonoma di Trento e docente di Diritto penale e da Elena Mattevi ricercatrice di Diritto penale, entrambe afferenti al Dipartimento Facoltà di Giurisprudenza, in collaborazione con la Camera Penale di Trento. Trento. Convegno a Giurisprudenza: “Carcere, i 50 anni di una riforma rimasta sulla carta” di Augusto Goio vitatrentina.it, 15 novembre 2025 A cinquant’anni dalla legge che avrebbe dovuto umanizzare il carcere e renderlo luogo di rieducazione, gli istituti penitenziari italiani restano sovraffollati, in sofferenza e ancora lontani dallo spirito della Costituzione. Lo hanno rimarcato i primi interventi che hanno aperto, questa mattina nella sala conferenze Fulvio Zuelli al Palazzo di Giurisprudenza, il convegno “Emergenza carcere a 50 anni dalla legge di riforma dell’Ordinamento penitenziario”, che oggi (14 novembre) e domani si propone di riaccendere il dibattito pubblico sul tema del carcere e della pena. Il convegno è promosso dalla professoressa Antonia Menghini, già Garante dei diritti dei detenuti della Provincia autonoma di Trento e docente di Diritto penale alla Facoltà di Giurisprudenza di UniTrento, con Elena Mattevi, ricercatrice di Diritto penale presso lo stesso Dipartimento, in collaborazione con la Camera Penale di Trento. Nel suo saluto, introdotto dal Preside della Facoltà di Giurisprudenza, Paolo Carta, il rettore dell’Università di Trento, Flavio Deflorian, ha annunciato che l’Università a breve sottoscriverà una convenzione per inserire persone che usufruiscono della messa alla prova e ricordato che cinque persone ristrette nel carcere di Trento sono iscritte ai corsi di UniTrento (“Non sono grandi numeri, ma in questo caso non sono i numeri a contare”). Contribuire a formazione e reinserimento di persone recluse è un compito che sentiamo come importante. L’assessore provinciale Achille Spinelli ha osservato che la Provincia Autonoma di Trento, pur non avendo competenza sull’amministrazione penitenziaria, interviene con interventi sulla salute e per servizi di supporto, come sportelli, laboratori di formazione al lavoro, sostegno abitativo, citando il Piano d’azione 2024-26 per il reinserimento sociale dei detenuti, quale “strumento importante” per una programmazione condivisa. Da Antonio Angelini, Presidente dell’Ordine degli avvocati di Trento, è venuto un appassionato appello agli operatori del diritto (magistrati, avvocati, docenti universitari), ma anche ai politici, a non limitarsi al lamento o alla denuncia, ma a dare concretezza di risposte, intervenendo prima di tutto sul piano culturale, di fronte a una diffusa opinione che vede nel carcere lo strumento per reprimere chi ha sbagliato, “buttando la chiave”, e dimentica invece la funzione riabilitativa. Il Presidente del Tribunale di Trento, Luciano Spina, ha richiamato la “novità” della riforma del 1975, che per la prima volta riconosceva la soggettività dei diritti del detenuto e istituiva un giudice specializzato per il controllo della pena, e ha suggerito di guardare alla riforma dell’ordinamento penitenziario minorile (“Lo dico da ex Presidente del Tribunale dei minori di Trento) che potrebbe essere di ispirazione per il miglioramento del sistema. Per l’avvocato Roberto Bertuol, Presidente della Camera penale di Trento, che co-promuove il convegno, “è un dovere” occuparsi di una riforma che è stata portata avanti con grande fatica e che richiede di essere applicata in modo più efficace. Una legge, quella sull’ordinamento penitenziario, ha concordato Lorenza Dimarchi, Presidente facente funzioni del Tribunale di sorveglianza, che non è inadeguata, anche se gli ultimi cambiamenti “hanno aggravato la condizione per il giudice e e per il condannato, senza incidere gran che”. In particolare, Dimarchi ha osservato come l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario - che prevede delle preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari per i condannati per determinati reati gravi - limiti pesantemente il giudice, mentre una nota di ottimismo l’ha riservata per i cambiamenti che ha osservato nel carcere di Spini di Gardolo, dove è stato fatto molto, ha detto, riservando parole incoraggianti per la nuova iniziativa che vedrà l’apertura di una pizzeria a fianco del carcere, dove saranno occupate anche persone ristrette (“Mi sembra un’ottima iniziativa per aprire il carcere alla alla città”). Note più amare dall’intervento, da remoto, di Valeria Torre dell’Associazione Franco Bricola: “La questione carceraria è il vero scandalo del nostro sistema, è un grande vulnus alla Costituzione”, ha detto, ricordano la drammaticità della situazione (sovraffollamento, suicidi). Per Annarita Nuzzaci, direttrice della Casa Circondariale di Trento, il carcere è specchio della società, una società che “si divide in due tronconi: quelli che pensano che i detenuti stanno troppo bene e quelli che pensano che stanno troppo male”. Dopo il saluto di Giovanni Maria Pavarin, Garante dei diritti dei detenuti della Provincia autonoma di Trento, che ha ricordato il prezioso apporto al suo Ufficio dei quattro tirocinanti di UniTrento, il convegno è entrato nel vivo con l’intervento della professoressa Antonia Menghini. La legge sull’ordinamento penitenziario, n. 354 del 1975, ha ricordato Menghini, fu salutata con favore “e celebrata quale momento di dichiarata cesura con il passato e nello specifico con il Regio decreto del 1931, figlio della temperie fascista”. Da allora il detenuto è divenuto, “almeno sulla carta”, soggetto titolare di diritti. Un cambio di prospettiva rafforzato poi dall’affermarsi anche di una tutela di tipo giurisdizionale dei diritti (in proposto, Menghini ha citato la sentenza della Corte costituzionale n. 26/1999 e quella delle Sezioni unite della Corte di Cassazione Gianni del 2003), fino alla pesante condanna dell’Italia nel caso Torreggiani, legata alla situazione di sovraffollamento delle carceri, cui il legislatore ha posto rimedio ritoccando due articoli dell’ordinamento penitenziario (35 bis e ter), “funzionali a porre fine ad eventuali lesioni dei diritti e ad ottenere un ristoro per il connesso pregiudizio sofferto”. Il dettato costituzionale che tutela la dignità anche della persona ristretta, prevedendo all’art. 27 che le pene non possano consistere “in trattamenti contrari al senso di umanità”, si scontra però duramente con la realtà del nostro sistema carcerario, che compromette i diritti delle persone detenute e la stessa offerta di trattamenti rieducativi. Il bilancio, ha osservato in conclusione, è negativo. “La distanza tra norma scritta e realtà delle carceri si è fatta siderale, rimane una carta delle promesse infrante”. La situazione delle carceri è critica, le attività trattamentali limitate, così come le misure alternative. “La perenne emergenza del sistema carcere e le distorsioni in atto rendono più che evidente la cesura tra carcere e dettato costituzionale”. Lo ha confermato, dati alla mano, il professor Gian Luigi Gatta, docente all’Università di Milano Statale, e Presidente dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale. I numeri legittimano il parlare di emergenza. I detenuti sono 63.493, su 51.249 posti regolamentari (ma quelli effettivamente disponibili sono ancora meno: 47mila e rotti). Ma il sovraffollamento non è il solo problema. C’è il dramma dei suicidi: nel 2024 si sono registrati 90 episodi, un triste record (aggiorna il drammatico contatore “Ristretti Orizzonti”, vedi ristretti.it). Gatta ha contestato con forza le ultime uscite del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, la più recente giovedì 13 in Parlamento, che nega il nesso tra sovraffollamento e suicidi. “La relazione del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute a fine 2024 ci dice che su 54 istituti penitenziari dove ci sono stati suicidi, 51 avevano un indice di sovraffollamento superiore a cento”. Ma il sovraffollamento non è che uno dei fattori dell’emergenza carcere, forse il più evidente. “C’è un’emergenza meno evidente che è quella delle reali condizioni del carcere: strutture fatiscenti, vecchie, in alcuni casi, risorse limitate, celle infestate da parassiti”. E poi l’inadeguata assistenza sanitaria e psicologica, il numero elevato di tossicodipendenti, di persone con disagio mentale, il numero elevato di atti di autolesionismo. Spie di un disagio. Ancora, la difficoltà ad eseguire le attività trattamentali, per ragioni legate vuoi agli spazi vuoi alla scarsità di risorse per il personale, polizia penitenziaria ed educatori. Un accenno anche all’esecuzione penale esterna: si è superata la soglia delle 100mila persone che scontano la pena fuori dal carcere, affidate agli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe), più altre 40 mila persone sotto osservazione. Ma al successo crescente della messa alla prova e delle pene sostitutive, ha osservato Gatta, non corrisponde una diminuzione del numero delle persone ristrette. E così sono circa 300mila le persone di cui si devono occupare i circa 250 magistrati di sorveglianza. Il convegno prosegue domani, 15 novembre, con un approfondimento sulle misure alternative alla detenzione (inizio lavori alle ore 9), e si concluderà con una tavola rotonda che metterà a confronto a confronto mondo accademico, della magistratura e del sistema carcerario sulle prospettive di riforma e sulle buone pratiche di umanizzazione della pena. Busto Arsizio. Azione rompe il silenzio sul carcere. Appello di Don David: “Ora fatti concreti” di Andrea Aliverti malpensa24.it, 15 novembre 2025 “È bene che la politica ne parli, ma è ora di fare qualcosa di concreto per le carceri”. È il cappellano della Casa circondariale di Busto Arsizio, don David Maria Riboldi, a sferzare la platea della tavola rotonda su “Carcere e Lavoro” organizzata da Azione a villa Calcaterra ieri sera, 13 novembre. “Lo Stato spende 3,8 miliardi per la gestione delle carceri, se li spendesse per le cooperative sociali che fanno progetti di reinserimento si farebbe molta più sicurezza - le parole di don David - ad esempio nella cooperativa La Valle di Ezechiele, su 35 persone occupate in cinque anni solo una è tornata a commettere reati”. Lo ricorda anche Sonia Serati, consigliere comunale di Gallarate: “La recidiva è stimata attorno al 70% per chi esce dal carcere ma scende al 2% tra chi segue progetti di reinserimento”. La fotografia - I dati del sovraffollamento e quelli sulla differenza tra la recidiva di chi lavora dietro le sbarre e di chi rimane chiuso in cella, la tragica “conta” dei suicidi, ma anche la stretta attualità con la rivolta al Bassone di Como e le testimonianze di chi il carcere l’ha vissuto, ex agenti ed ex detenuti, e di chi lo vive dall’interno, come don David della cooperativa La Valle di Ezechiele. La serata su “Carcere e Lavoro” organizzata da Azione, in collaborazione con l’associazione PoliticaMente, non solo ha riempito la sala del camino di villa Calcaterra in una serata in cui mezza Italia era incollata davanti alla TV a fare zapping tra la Nazionale di Gattuso e la partita delle Atp Finals tra Musetti e Alcaraz, ma ha anche tenuto incollata per più di due ore una platea in cui erano presenti molti giovani. Dignità e reinserimento - “Abbiamo parlato di dignità, reinserimento e diritti, e dell’impegno di Azione e dell’onorevole Fabrizio Benzoni per migliorare le condizioni delle carceri e sostenere percorsi concreti di reinserimento dei detenuti” sintetizza la segreteria provinciale del partito di Carlo Calenda, che ha organizzato la serata di villa Calcaterra insieme all’associazione PoliticaMente. “Secondo Azione, la politica deve agire subito per garantire dignità ai detenuti e sicurezza ai cittadini, investendo in strutture, formazione e percorsi di reinserimento. - l’appello dell’onorevole Benzoni, segretario regionale di Azione - solo così il carcere può diventare uno strumento reale di recupero, utile alle persone e alla comunità”. E l’ex assessore Salvatore Loschiavo, per PoliticaMente, pone l’accento sull’aspetto della “sicurezza”, risvolto del carcere che tocca da vicino tutti i cittadini: “La sicurezza passa sicuramente dalla repressione e dalle pattuglie in giro per la città ma anche attraverso la coesione sociale che dobbiamo ricostruire tutti insieme, con un’alleanza basata sulla fiducia reciproca”. Le condizioni delle carceri - Oggi invece “il carcere è una discarica sociale”, nell’azzeccata, ma drammatica, definizione del presidente della Camera Penale di Busto Arsizio Tiberio Massironi. “Lo Stato dovrebbe rieducare, o educare, i detenuti, dando un esempio di vita come dovrebbe fare un genitore con i suoi figli. Ma che esempio di vita sta dando lo Stato se i detenuti sono in queste condizioni?”. Lo ammette anche Angelo Urso, ex ispettore di polizia penitenziaria anche a Busto Arsizio: “Il carcere è un mondo a parte, uno stato nello stato, ma uno stato dimenticato. E i dati veri sulla recidiva non esistono perché nessuno vuole che si conoscano”. E Luca, ex detenuto che oggi gira nelle scuole a portare la sua testimonianza di rinascita (quando fu trasferito nel “carcere modello” di Bollate), aggiunge: “È giusto essere in carcere quando si è colpevoli, ma la dignità di un uomo non deve essere calpestata”. Perché il rischio è uscire “più criminali” di quando si era entrati. Il lavoro che cura - Il penitenziario di Busto Arsizio, da questo punto di vista, è riconosciuto come esempio virtuoso, con oltre 100 persone (tra cui i 40 detenuti impiegati nel laboratorio di cioccolateria) impegnate in attività lavorative, ma su una popolazione di 435 “ristretti”, circa il 100% della capienza teorica. “Siamo stati anche in Senato e il presidente La Russa con l’onorevole Pellicini si era esposto per la clemenza ma sono passati mesi e non è successo nulla - mette ancora “pepe” don David - è ora di fare i fatti. Ad esempio chiedere ai vostri sindaci di coinvolgere La Valle di Ezechiele nei progetti di digitalizzazione degli archivi cartacei come facciamo a Busto Arsizio”. Fabrizio Benzoni raccoglie lo spunto: “È vero, i comuni possono inserire premialità nei bandi per favorire le cooperative sociali che impiegano i carcerati”. E alla fine si “brinda” idealmente con la Prison Beer, uno dei tanti progetti di successo della cooperativa di Don David, che anche a Busto Arsizio sta inserendo quattro persone tra una panetteria e una birreria artigianale. Cremona. Don Burgio: “Dialogare e rieducare, questo chiede la Costituzione” di Fulvio Stumpo laprovinciacr.it, 15 novembre 2025 Con il cappellano del Beccaria un viaggio nel mondo della devianza minorile: “Se in carcere vince il più forte è un fallimento. Bisogna parlare e capire. I social ingannano”. “Sei finito qui, ma non sei finito”. Don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile ‘Cesare Beccaria’ di Milano, accoglie così i ragazzi che finiscono in istituto. Un’accoglienza che non è solo un augurio, ma un programma, reale e concreto, di rieducazione per chi ha sbagliato. “Così come prevede la nostra Costituzione”, ha detto il sacerdote, intervenuto stamattina al convegno nel Salone dei quadri, nell’ambito delle celebrazioni per gli 80 anni della Costituzione, una serie di incontri voluti dal prefetto Antonio Giannelli, un progetto coordinato dalla professoressa Giusy Rosati. In una sala stracolma di studenti, professori e operatori sociali hanno seguito gli interventi con molta attenzione e partecipazione, come ha sottolineato il direttore del quotidiano La Provincia, Paolo Gualandris, che ha moderato l’incontro, aperto con i saluti istituzionali della consigliera comunale Vittoria Loffi e dal vice prefetto vicario di Cremona, Iole Galasso. Gualandris ha inquadrato l’iniziativa partendo col leggere due articoli della Costituzione: quello che riguarda la libertà personale (il 13) e quello che prevede le pene ma anche la rieducazione del detenuto (il 27). Poi il direttore ha posto il problema della sicurezza, delle baby gang che stanno creando problemi “nella quieta Cremona, anche se i dati, che non sembrano andare in questa direzione, non corrispondono alle sensazioni”. Don Burgio è anche coordinatore e animatore della comunità Kairos di Milano, una struttura che ha accolto e accoglie centinaia di ragazzi passati dal carcere e ai quali è stata data un’altra opportunità; molti di sono diventati rapper e musicisti (compreso Baby Gang), altri hanno finito gli studi e trovato un lavoro “ma non sempre i nostri tentativi vanno a buon fine”, ha detto il sacerdote. Don Burgio ha fatto parlare i numeri: “In tutta Italia i detenuti minorenni sono passati da 350 a 700 (10 le donne) ma le carceri, come il ‘Beccaria’, sono rimaste le stesse con problemi di affollamento. I ragazzi dormono ammassati, perfino per terra, e chi è che si sistema per terra? Il più debole, l’ultimo arrivato. Vincono i più forti, ed è qui il grande errore: se il carcere propone gli stessi modelli per cui un ragazzo finisce in cella è un fallimento, così il carcere non serve a nulla. Io spero che per i minori prima o poi venga adottato qualche altro dispositivo, anche se a volte serve, serve per fermare un ragazzo; vivere in carcere non è per nulla facile. Occorre però applicare in toto l’articolo 27, soprattutto nella parte che riguarda la rieducazione”. E a tal proposito il sacerdote non ha taciuto sull’inchiesta portata avanti dalla magistratura su presunti maltrattamenti sui giovani detenuti da parte delle guardie penitenziarie. “Un’inchiesta importante, che per me rappresenta anche una sconfitta - ha ammesso -. I 33 ragazzi maltrattati non me ne hanno mai parlato”. Parlare e capire, queste le parole più usate dal don, che ha raccontato di ragazzi che attraverso la musica, soprattutto rapper, raccontano le loro storie di vita, spesso crudeli e violente. “Ci sono ragazzi che a 15 anni sono già passati da mezza Europa, fuggendo da condizioni di estrema povertà o disagio; sono quasi tutti minori non accompagnati che, attirati dalle immagini, che guardano sui telefonini, dell’opulenza delle nostre città, dalle luci e dal benessere, affrontano viaggi spaventosi anni, anche a 10 anni, pieni di speranza. Poi arrivi in una grande città, dove non conosci nessuno, e se sei senza soldi e senza casa, ecco che delinqui. Non è una giustificazione, io sono convinto che chi sbaglia deve pagare. Il problema è che bisogna garantirgli un’altra opportunità, questa è la pienezza della Costituzione, una Carta nata da ciò che il mondo ha patito dopo la Seconda Guerra mondiale per colpa dei nazionalisti e dei fascismi”. Alla precisa domanda di Gualandris (“Chi sono questi ragazzi?”) don Burgio ha risposto senza esitazioni: “Quasi tutti stranieri, minori non accompagnati, stranieri di seconda generazione, cioè italiani; sono nati qui, dunque sono italiani, molti vivono nella ‘Seven Zone’ a San Siro, un quartiere violento, con armi, droga e spaccio”. Il sacerdote ha raccontato anche storie a lieto fine, di ragazzi integrati con lo sport, la musica, la scuola, l’amicizia, la tolleranza, “ragazzi che prima non parlavano neppure, che conoscevano solo la legge del più forte, convinti che la strada e la violenza fossero il loro futuro”. Don Burgio, dopo aver risposto alle domande di alcuni studenti, ha terminato l’intervento con un’esortazione: “Non fatevi ammaliare e ingannare dai social che vi fanno credere qualunque cosa. La realtà è diversa, molto diversa dalla rete”. Prato. Giustizia riparativa, la storia di Claudia e Irene al convegno della Caritas diocesiprato.it, 15 novembre 2025 Una amicizia nata dal superamento di una tragedia, avvenuta quattordici anni fa. Nuova tappa del cammino di conoscenza e approfondimento sul tema “giustizia riparativa” promosso dalla Caritas diocesana di Prato. Domani, sabato 15 novembre, alla Biblioteca Lazzerini, è in programma un convegno dedicato a questa esperienza di riparazione e riconciliazione, aperto a tutti gli interessati. La prima parte sarà dedicata al racconto di una testimonianza. Saranno presenti Claudia Francardi e Irene Sisi, protagoniste di un percorso davvero esemplare e significativo. Una notte di quattordici anni fa, vicino a Grosseto, un’auto con quattro amici reduci da una festa viene fermata da una pattuglia dei carabinieri. Matteo Gorelli, uno dei giovani, reagisce con violenza aggredendo i militari. L’appuntato Antonio Santarelli rimane gravemente ferito ed entrerà in coma per le lesioni riportate. Morirà tredici mesi dopo, lasciando la moglie e un figlio, mentre l’altro carabiniere perderà un occhio. Matteo, poco più che maggiorenne, viene condannato all’ergastolo. Questa storia di dolore e disperazione per le famiglie delle persone coinvolte è diventata anche una storia di amicizia tra Claudia, moglie del carabiniere Antonio, e Irene, madre del giovane detenuto Matteo. La loro esperienza, il loro vissuto, ma soprattutto il loro cammino di comprensione reciproca sono al centro del nuovo convegno promosso dalla Caritas di Prato. Domani, a partire dalle 9,30 alla Biblioteca Lazzerini, le due donne racconteranno la loro vicenda e come hanno deciso di affrontare e superare insieme quanto è accaduto nelle loro vite quindici anni fa. Insieme hanno dato vita all’associazione AMICAino e Abele, con la quale promuovono iniziative di educazione alla legalità nelle scuole. Lo stesso lavoro che ormai da tempo sta portando avanti la Caritas diocesana, che ha aderito a un progetto sperimentale di Caritas italiana e ha istituito un tavolo di lavoro su questo tema. Tornando al convegno, nel pomeriggio, dalle 12 alle 16, ci sarà un cineforum con la proiezione di un film sulla giustizia riparativa con dibattito a seguire. Il progetto. “Quella di quest’anno è la terza giornata dedicata al tema della giustizia riparativa e questa volta abbiamo deciso di far parlare chi ha vissuto questo percorso in prima persona”, spiega Carlotta Letizia, mediatrice penale e membro del tavolo istituto da Caritas. L’obiettivo è quello di far conoscere e attuare anche a Prato l’esperienza della giustizia riparativa, che è un modo diverso di guardare non solo al crimine, ma a qualunque situazione di conflitto. Da questa consapevolezza nascono percorsi che pongono l’accento sui bisogni delle vittime, sulla responsabilità degli autori e la riparazione del danno procurato. L’obiettivo è costruire giustizia con un processo partecipativo. La Caritas diocesana ha intenzione di portare nelle scuole questo tipo di iniziativa come metodo per gestire e superare i conflitti. Sono già stati fatti incontri al liceo Copernico e presto ci saranno all’istituto Dagomari. “Partiamo da una storia di bullismo o di revenge porn, un fatto plausibile che potrebbe avvenire in qualsiasi scuola - dice don Enzo Pacini, direttore della Caritas - si propongono e si elaborano con insegnanti e ragazzi interventi riparativi e non punitivi per affrontare quanto è successo. Stiamo avendo dei buoni riscontri”. Amnesty: “A Udine prima di Italia-Israele violati i diritti umani. Serve un chiarimento istituzionale” di Giulio Cavalli Il Domani, 15 novembre 2025 Il report, diffuso dopo lunghe verifiche, certifica la reazione eccessiva delle forze dell’ordine davanti al tentativo di “un piccolo gruppo” di forzare il cordone di sicurezza, tra “uso eccessivo della forza” e “fermi senza base giuridica”. L’uso di gas lacrimogeni senza preavviso, di idranti “a distanza ravvicinata” e le manganellate non “hanno rispettato i protocolli di necessità e proporzionalità”. La questura dà una versione opposta. A Udine, il 14 ottobre, la manifestazione nazionale contro la partita Italia-Israele e la normalizzazione del genocidio a Gaza è diventata un laboratorio di versioni contrapposte. Il nuovo rapporto di Amnesty International Italia, diffuso dopo settimane di verifiche, parla di “gravi violazioni dei diritti umani” e ricostruisce il quadro con tempi certi e documenti visionati. La Questura, nelle ore successive alla protesta, ha parlato invece di “due ore di guerriglia urbana”. In mezzo ci sono le testimonianze, i fogli di via notificati nella notte e una distanza che continua ad allargarsi. Cosa dice il rapporto - Secondo gli osservatori di Amnesty, alle 20:15 “un piccolo gruppo” avrebbe tentato di forzare il cordone in viale della Vittoria. L’ong sostiene che la risposta delle forze dell’ordine sia stata “immediata” e caratterizzata da “idranti a distanza ravvicinata” e da “circa 150 lacrimogeni”, cifra attribuita alla stessa Questura. Nel documento si legge che il lancio delle munizioni avrebbe raggiunto anche piazza I Maggio, dove erano presenti “minorenni, persone anziane e manifestanti pacifici”. Amnesty afferma che “non risultano preavvisi” prima dell’uso dei gas lacrimogeni, elemento richiesto dagli standard internazionali. Il rapporto cita anche “colpi di manganello su persone con le mani alzate” e un giornalista che avrebbe ricevuto “colpi alla schiena e alle braccia” mentre documentava la scena. Le testimonianze parlano di munizioni “sparate ad altezza d’uomo” e di idranti utilizzati in condizioni che “non rispettano i protocolli di necessità e proporzionalità”. L’ong collega questi elementi alla violazione del principio di proporzionalità stabilito dalle norme Onu sull’uso della forza. La Questura ha fornito una narrazione opposta. Il questore Pasquale Antonio De Lorenzo ha parlato di “attacchi con bottiglie, transenne e pezzi di grondaia”, riferendo “11 agenti feriti”. L’uso degli idranti e dei lacrimogeni viene descritto come “risposta necessaria per contenere la violenza”. I dati ufficiali parlano di “15 persone condotte in Questura”, due delle quali arrestate per resistenza e danneggiamento. Le reazioni politiche hanno stretto la cornice interpretativa. Il presidente del Friuli-Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, ha definito la serata “inaccettabile” e ha espresso “solidarietà totale alle forze dell’ordine”. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha parlato di “estremisti pro-Palestina” e di “violenza contro la polizia”. La Lega regionale ha chiesto che “gli organizzatori paghino i danni”. Nella minoranza si è chiesto un chiarimento: il capogruppo Pd Diego Moretti ha chiesto “distinzione tra i responsabili degli scontri e la maggioranza pacifica”, mentre Marco Grimaldi (Avs) ha presentato un’interrogazione sui provvedimenti emessi. Il nodo principale del rapporto Amnesty riguarda però i fermi. L’ong scrive che “almeno tredici persone” sono state bloccate “intorno alle 21.45” in via Giosuè Carducci, un chilometro dalla piazza, mentre rientravano verso auto e stazione. Le testimonianze raccolte parlano di “decine di agenti in antisommossa” che avrebbero chiuso la strada e fermato “chiunque transitasse”. Amnesty riferisce di “perquisizioni effettuate con modalità brusche”, persone “messe a terra” e trasferimenti “a sirene spiegate”. Nel rapporto si afferma che i fermati sarebbero rimasti “circa cinque ore” negli uffici della Questura, “senza informazioni sul motivo del fermo” e “privati del telefono” e della possibilità di contattare un avvocato. Dieci di loro hanno ricevuto un foglio di via obbligatorio di un anno. L’ong dice di aver visionato i documenti e riferisce che “nella quasi totalità dei casi” non risultano precedenti penali o di polizia. Manca, secondo Amnesty, “la valutazione individuale della pericolosità sociale”, requisito centrale per l’emissione del provvedimento. Tra i profili citati compaiono un lavoratore costretto alle dimissioni e una persona che stava per firmare un contratto. La Questura ha confermato il numero dei provvedimenti senza commentare la base giuridica dei singoli fogli di via. Per Amnesty, la vicenda è “un caso esemplare” dell’uso crescente delle misure amministrative preventive contro i manifestanti. Le associazioni legali che monitorano le piazze riportano un aumento “a due cifre” dei fogli di via dopo le mobilitazioni pro-Palestina, a fronte di procedimenti penali “quasi sempre archiviati o senza condanna”. Il quadro si intreccia anche con il dibattito parlamentare sulle nuove norme di ordine pubblico, che ampliano il ricorso ai provvedimenti preventivi. Amnesty chiede “un chiarimento istituzionale” su uso della forza, modalità dei fermi e base giuridica dei fogli di via. La distanza tra le versioni resta aperta. Ma a pesare di più è il futuro delle piazze italiane. Cannabis light, il Consiglio di Stato rinvia alla Corte di giustizia Ue il bando al fiore di Paolo Dimalio Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2025 Canapa sativa Italia: “Finalmente il chiarimento definitivo”. I giudici Ue valuteranno se le leggi italiane siano conformi al diritto Ue. I giudici amministrativi sottolineano dubbi sul divieto “indipendentemente dal livello di thc”. Mentre proseguono i sequestri agli agricoltori della canapa, il Consiglio di Stato porta sul tavolo della Corte di Giustizia europea il bando alla cannabis light. I magistrati lussemburghesi potrebbero spazzare via il divieto del fiore della canapa introdotto dall’articolo 18 del decreto Sicurezza, ma per il verdetto dovremo attendere un paio d’anni. Con l’ordinanza pubblicata il 12 novembre, i giudici amministrativi hanno chiesto ai colleghi europei di valutare se la normativa italiana sia coerente con le leggi europee. Nella sostanza, il Consiglio di Stato mette in discussione l’equiparazione tra la canapa priva di effetti psicotropi e la cannabis stupefacente: è il principio sancito dall’articolo 18 del decreto Sicurezza. Tuttavia il confronto in tribunale nasce altrove. Non dal provvedimento securitario firmato ad aprile governo Meloni, bensì dal decreto interministeriale n. 29551 del 24 gennaio 2022, pubblicato in Gazzetta il 18 maggio. C’era il governo Draghi: il provvedimento è firmato dal pentastellato Stefano Patuanelli (al tempo ministro dell’Agricoltura), il dem Roberto Speranza (dicastero della Salute) e Roberto Cingolani (Transizione ecologica). Cosa diceva il decreto, inviso alle imprese della canapa e della cannabis light? Lo scopo era stilare l’elenco delle piante officinali: come quelle per l’erboristeria, la cosmesi, i vegetali aromatici o per tisane ed estratti. Ma il decreto si limita ad indicare le liste della farmacopea già esistenti in Europa. Tranne per la canapa, che viene letteralmente fatta a pezzi: i fiori e le foglie sono classificati nell’elenco delle sostanze stupefacenti, dunque valgono le regole del testo unico sulle droghe (legge 309 del 1990); semi e fibra invece sono considerate officinali e ricadono nella legge sulla canapa industriale (la 242 del 2016). La conseguenza è un freno alle imprese, perché imporrebbe l’autorizzazione del ministero della Salute per coltivare canapa e vendere il fiore. Si chiedono le associazioni: se la pianta è legale, priva di effetti droganti, con la soglia del Thc entro lo 0,5 per cento, che senso ha bandire il fiore e le foglie con lo stigma della droga? Dunque parte subito il ricorso al Tar. È firmato da alcune imprese e sigle di settore, incluse Associazione canapa sativa Italia e Federcanapa. Secondo loro, il decreto ministeriale contraddice la legge del 2016 sugli usi legali della canapa industriale. Soprattutto, chiedono di stabilire una volta per tutte i criteri per individuare l’effetto drogante. Il tribunale amministrativo dà ragione alle associazioni e alle imprese della canapa, nel febbraio 2023, perché in tutta Europa fiori e foglie sono legali. C’è almeno un paradosso nel decreto sulle piante officinali: ammette i vegetali inclusi nell’elenco europeo dei cosmetici; peccato che quest’ultimo includa anche le foglie della canapa. Intanto dal governo Meloni arriva il ricorso al Consiglio di Stato firmato dal ministero dell’Agricoltura, dell’Ambiente e della Salute. Ma il 12 novembre i giudici amministrativi rinviano ogni decisione alla Corte di Giustizia europea, dopo aver passato in rassegna l’intera legislazione sulla canapa in Italia. Tra gli avvocati incaricati dalle associazioni della canapa c’è Giacomo Bulleri. “Secondo i giudici il problema non è il decreto sulle officinali, bensì la compatibilità con le regole europee del Testo unico sugli stupefacenti e dell’articolo 18 del decreto Sicurezza”, dice il legale al Fatto.it. Il Consiglio di Stato nutre dubbi sul bando al fiore e i suoi derivati “indipendentemente dal tasso di Thc”, si legge nell’ordinanza. Ora i giudici della Corte europea dovranno valutare la coerenza delle leggi italiane con il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Il responso arriverà forse tra due anni. Canapa sativa Italia intanto chiede “la sospensione delle operazioni” connesse al bando al fiore sancito dall’articolo 18 del decreto Sicurezza: dunque stop ai sequestri e alle indagini per droga contro agricoltori della canapa e cannabis shop. Il presidente Mattia Cusani formula l’auspicio per il verdetto della Corte di Giustizia europea: “finalmente un chiarimento definitivo sulle infiorescenze di canapa e dei loro derivati non stupefacenti”. Perfino Coldiretti, l’associazione vicinissima a Giorgia Meloni, attende il verdetto Ue con speranza malgrado l’estrema timidezza nel difendere gli agricoltori: “un passo importante per salvare una filiera della canapa che vale oggi mezzo miliardo di euro, con tremila aziende agricole e trentamila posti di lavoro, che nel corso degli anni ha acquisito un peso importante per il rilancio delle zone interne”. Per il Medio Oriente serve un manifesto come quello di Ventotene di Sergio D’Elia e Roberto Rampi L’Unità, 15 novembre 2025 Di fronte all’orrore del 7 ottobre è come se in Israele l’idea tremenda della vendetta abbia preso il sopravvento sulle idee di giustizia e libertà, di vita del diritto per il diritto alla vita, che sono quelle che hanno fatto la differenza in un mondo dove dominano regimi ingiusti e illiberali, che profanano la vita e il diritto. Si affaccia ora anche lo spettro della pena di morte, l’idea del contrappasso e del castigo anche nella giustizia. In nome di Abele lo Stato diventa Caino. L’unico parlamento pluralista e democratico in una terra senza parlamenti degni di questo nome, vota la ripresa della pena capitale. Ma solo per i palestinesi che si sono macchiati le mani di sangue israeliano. Caino non è il fratello ebreo di Abele, è il fratello musulmano che ha ucciso l’ebreo. È la rivalsa dello Stato etnico, siamo a un passo vicino al basso più profondo che oltrepassa la dimensione già abissale dello Stato etico, padre padrone della vita dei suoi cittadini. L’ultima e unica volta che Israele ha praticato la pena di morte è stata quando ha impiccato Adolf Eichmann. Hannah Arendt allora scrisse che il Male incarnato dal vecchio ufficiale della Gestapo le appariva “banale” e il castigo riparatore “anacronistico”, tanto era il tempo passato dal delitto. Come anacronistico ci appare oggi, dopo oltre sessant’anni di moratoria, il ritorno di Israele al suo passato errore capitale. Le vittime del 7 ottobre devono essere onorate della verità di ciò che è accaduto. Sull’altro piatto della bilancia va messa, non la vendetta, ma la fatica della riconciliazione. Se vogliamo assicurare salvezza e futuro a quella terra martoriata. Uno Stato di diritto è tale se ha la forza di essere, di fronte al male assoluto e al peggiore degli assassini, uno Stato di vita non uno Stato di morte. Di fronte allo Stato di morte instaurato da Hamas, Israele si distingua come Stato di vita. Occorre rompere la catena perpetua di delitti e castighi, di violenze e sofferenze. Ma per farlo occorre lavare il peccato originale, la maledizione del fine che giustifica i mezzi: la sovranità assoluta e la sicurezza nazionale. Ancor più radicalmente, occorre considerare lo Stato nazionale “in sé”, nella sua logica e nella sua natura, generatore di violenza. L’idea stessa che a uno Stato corrisponda un popolo con una lingua, una religione, una cultura, è la radice del male della violenza. È una idea “purista” che è potenzialmente e spesso concretamente propensa a “eliminare le impurità”. Chi non appartiene a quel territorio, alla lingua o alla religione, alla etnia dominante, va marginalizzato, espulso se non eliminato. L’idea dell’Europa nasce invece come diversa. Un soggetto politico multietnico, multilinguistico e multireligioso in cui non solo convivere ma superare le ragioni dei conflitti identitari del passato. Perché nasce proprio sulle macerie materiali e spirituali dei nazionalismi delle due guerre. Un soggetto che non si è pienamente concretizzato, ma ha compiuto un po’ di strada. Pensiamo alla storia delle terre di confine tra Francia e Germania o tra Italia e Austria ieri e oggi. Alla fine, la contesa rispetto a quale Stato dovessero appartenere è stata superata più che risolta. Ecco, la soluzione per le terre e i popoli martoriati del nostro medio oriente ci pare sia in questa direzione. Un soggetto federale multietnico che, magari, come l’Europa attuale conservi (purtroppo) nomi, sovranità (inutili e spesso dannose) e anche i confini. Transitoriamente si può accettare, si spera per un tempo non infinito. Una Unione Medio Orientale potremmo chiamarla. Sarebbe il nome “vista da qui”. E dovrebbe coinvolgere come minimo, oltre a chi vive oggi in Israele e Palestina, anche Giordania, Libano, Siria. Partendo da un Manifesto del Giordano sulla falsa riga di quello di Ventotene. Che individui e indichi un orizzonte. Ci pare una strada che andrebbe favorita e promossa magari provando a invitare e ospitare con spirito di prossimità e vicinanza alcuni pensatori espressione di quelle terre per discuterne. Magari proprio a Ventotene. È una visione europea. Ed è forse sbagliato provare a immaginare noi il loro futuro e riproporre le nostre formule. Ma come diceva Tucidide nella guerra del Peloponneso, forse, possiamo insegnare i nostri errori perché altri non li ripetano. L’unica soluzione possibile, contro il probabile del perpetuarsi della tragedia, è alzare la posta e immaginare un’area di diritti e libertà delle persone, magari, parte di una Unione Europea più grande che diventerebbe pienamente Mediterranea oppure una Unione Mediterranea a sé stante. Il destino di quei popoli è da sempre legato. Evitiamo che la forza letteralmente diabolica del “porre ostacoli in mezzo”, delle divisioni, delle barriere di confine, prenda il sopravvento, irreversibilmente, sulla forza gentile della parola, del dialogo, dell’amore, in una parola, della nonviolenza. Stati Uniti. I migranti e il coraggio dei vescovi americani di Don Mattia Ferrari La Stampa, 15 novembre 2025 Dall’inizio del 2025 negli Usa è iniziato un programma di deportazioni di massa. Le operazioni si svolgono ovunque. Dai dati ufficiali a fine settembre risultavano detenute presso la Immigration and Customs Enforcement (Ice) 59.762 persone, di cui il 71,5% non aveva alcuna condanna penale. Altre 181.210, famiglie e singoli individui, risultavano ufficialmente sotto controllo nel programma Alternatives to Detention (Atd). A fine ottobre risultavano deportate più di 527.000 persone, mentre circa 1,6 milioni avevano lasciato gli Usa formalmente in modo volontario. Fin dall’inizio di questo piano, Papa Francesco, con uno dei suoi ultimi atti, era intervenuto con una lettera ai vescovi Usa in cui ammoniva che “ciò che viene costruito sul fondamento della forza e non sulla verità riguardo alla pari dignità di ogni essere umano incomincia male e finirà male”. Il suo intervento si fondava sul Vangelo: “Gesù Cristo, amando tutti di un amore universale, ci educa al riconoscimento permanente della dignità di ogni essere umano, senza eccezioni”. In questi mesi Papa Leone XIV ha rilanciato più volte questo messaggio. Il 23 ottobre, al quinto incontro mondiale dei movimenti popolari, riferendosi a tutto il mondo ha spiegato: “Si stanno adottando misure sempre più disumane - persino politicamente celebrate - per trattare questi “indesiderabili” come se fossero spazzatura e non esseri umani. Il cristianesimo, invece, si riferisce al Dio amore, che ci rende fratelli tutti e ci chiede di vivere da fratelli e sorelle. Allo stesso tempo, mi incoraggia vedere come i movimenti popolari, le organizzazioni della società civile e la Chiesa stiano affrontando queste nuove forme di disumanizzazione, testimoniando costantemente che chi si trova nel bisogno è nostro prossimo, nostro fratello e nostra sorella. Questo vi rende campioni dell’umanità, testimoni della giustizia, poeti della solidarietà”. Ora arriva un nuovo segnale. I vescovi Usa si sono riuniti per l’Assemblea Plenaria d’Autunno, in cui hanno eletto nuovo presidente della loro Conferenza episcopale l’arcivescovo di Oklahoma City Paul Coakley, e nuovo vicepresidente il vescovo di Brownsville (Texas) Daniel Ernesto Flores. In tale occasione i vescovi degli Usa hanno pubblicato un Messaggio Speciale per far sentire, uniti, la loro voce. È la prima volta da dodici anni che i vescovi Usa fanno ricorso a questa forma particolare di intervento. Si oppongono alla deportazione indiscriminata e di massa delle persone. Pregano per la fine di una retorica disumanizzante e della violenza, sia contro i migranti sia contro le forze dell’ordine. Ribadiscono che la dignità umana e la sicurezza nazionale non sono in conflitto e sono possibili se le persone di buona volontà collaborano. Spiegano che la preoccupazione della Chiesa per il prossimo, compresi i migranti, proviene da Cristo e dal suo comandamento di amore. Mossi da questo amore, si rivolgono direttamente alle persone migranti, dicendo: “Non siete soli!”. I vescovi hanno anche diffuso un video con i propri volti, in cui spiegano il messaggio. In questo momento storico così difficile, la Chiesa mostra che l’amore ha un altissimo valore politico e che da questo amore nasce la speranza. Da mesi negli Usa alcune diocesi avevano iniziato a formare squadre per accompagnare le persone migranti convocate alle udienze per le deportazioni, gesto concreto di fraternità. Poteva sembrare ingenuo e inutile. Il mese scorso il vescovo di San Diego, Michael Pham, e referenti dei movimenti popolari e delle parrocchie hanno scritto un testo articolato, in cui hanno spiegato perché lo fanno e hanno invitato tutti ad avere fiducia e sperare con loro. In queste settimane, il numero di persone che si uniscono al loro servizio di fraternità ha continuato a crescere. Ora sono intervenuti tutti i vescovi Usa, uniti. La speranza, quando nasce da questo amore, può davvero cambiare la storia. Brasile. La grande marcia per la giustizia climatica e contro l’uso dei combustibili fossili di Giacomo Talignani La Repubblica, 15 novembre 2025 A Belém prevista una gigantesca manifestazione per la città. Sale la tensione sul tema sicurezza, l’esercito all’interno della Cop. Intanto, a rilento, proseguono i negoziati. La risposta all’inazione si chiama Marcha Global Unificada por la Justicia climatica. Oggi, 15 novembre, per le strade di Belém in Brasile, dove è in corso la Cop30, un fiume di persone di ogni provenienza e colore marcerà per la città per chiedere più giustizia climatica, la fine immediata dei combustibili fossili, maggiore partecipazione e più diritti per i popoli indigeni nella gestione delle terre. Ci saranno contadini, pescatori, famiglie, agricoltori, centinaia di rappresentanti dei popoli indigeni dell’Amazzonia, ma anche i vari movimenti globali per il clima, come i giovani di Fridays For Future. Sarà una gigantesca onda, si spera una festa, che punta ad attirare l’attenzione del mondo sui negoziati che, mai come prima, quest’anno a Belém dovranno fornire risultati concreti. E sarà anche la prima volta, dopo tre anni di Cop in petrol-stati, dove la società civile tornerà a farsi sentire in maniera così massiccia. In parte, il grido d’aiuto della società - come quello di popoli indigeni e attivisti - ha già sconvolto il grande vertice sul clima del Brasile. Martedì 11 le immagini dell’improvvisa irruzione di un gruppo di attivisti all’interno della Zona Blu, con scontri con le guardie Onu, hanno fatto il giro del mondo. È stato il primo segnale di mobilitazione da parte della società civile decisa a non restare in silenzio davanti all’inazione. Mentre i negoziati vanno a rilento, con molti blocchi sulla questione fossile per esempio (anche se Paesi come la Colombia stanno guidando i processi paralleli per un cammino concreto di allentamento da petrolio gas e carbone), le persone fuori dalla Cop30 continuano a manifestare. Dopo la flottila indigena, l’evento che ha visto riunire quasi 6000 persone provenienti a bordo di barche da tutta l’Amazzonia, venerdì mattina c’è stato una nuova manifestazione, pacifica, in cui una cinquantina di indigeni dei Munduruku, popolazione del bacino amazzonico, ha bloccato l’ingresso della Cop nella Zona Blu. Ore di stallo finché i manifestanti, che volevano incontrare Lula per denunciare l’invasione e la distruzione delle loro terre, sono stati ricevuti dal presidente della Cop30 André Corrêa do Lago. Con quest’ennesima manifestazione, unita alle preoccupazioni dell’Onu che si è lamentato con il Brasile sull’organizzazione in termini di sicurezza, logistica e perfino per bagni senza acqua e pioggia fra i padiglioni, la tensione è decisamente salita a Belém. A tal punto che l’esterno (e parte dell’interno) della Cop30 si è trasformato in un’area carica di poliziotti in tenuta antisommossa, veicoli militari, soldati. C’è però anche la sensazione che la pressione della società civile, qui a Belem, possa spingere i negoziati ad accelerare nella ricerca di una riuscita della Conferenza: dalla prossima settimana si entra nel vivo e già ora l’Unfccc ha fatto sapere che gli orari di chiusura dei padiglioni si sono stati spostati un po’ in avanti, in modo da permettere serrate consultazioni anche di notte. Attualmente i quattro punti chiave su cui si discute sono la finanza e l’interpretazione dell’articolo 9.1 dell’Accordo di Parigi (che richiede ai paesi sviluppati di fornire finanziamenti climatici a quelli più poveri), ma anche le “misure commerciali unilaterali”, la trasparenza e gli NDC, i piani climatici nazionali. Parallelamente proseguono però anche le trattative decisive, quelle se inserire o meno nel documento finale una dichiarazione relativa ai combustibili fossili.