Carcere, verso lo stallo delle attività trattamentali di Ilaria Dioguardi vita.it, 14 novembre 2025 Dopo la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che fa passare per Roma le autorizzazioni per gli eventi negli istituti in cui è presente l’alta sicurezza, anche se riguarda le sezioni di media sicurezza, sono iniziate le cancellazioni degli incontri. Vita ha raccolto le testimonianze di alcune associazioni che si sono viste annullare all’improvviso gli appuntamenti, in programma da tempo: dal rugby al teatro, dalla lettura ai laboratori di nonviolenza. Gli eventi di carattere educativo, culturale e ricreativo iniziano ad essere annullati in diverse carceri. Sono gli effetti della circolare firmata il 21 ottobre scorso da Ernesto Napolillo, direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che subordina all’approvazione del Dap la realizzazione di ogni iniziativa negli istituti “con circuiti a gestione dipartimentale (alta sicurezza, collaboratori di giustizia, 41-bis)”, anche se l’iniziativa riguarda la media sicurezza. “Avremmo dovuto avere un incontro il 30 ottobre scorso nella casa circondariale Due Palazzi di Padova. Il pomeriggio del giorno prima, il direttore dell’istituto ci ha comunicato che non era arrivata l’autorizzazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e che l’evento era annullato, sulla base della circolare del Dap”, dice Bianca Farsetti, coordinatrice dei programmi in Italia per l’associazione Un ponte per. L’incontro era programmato da mesi nell’ambito del progetto Kutub Hurra (libri liberi), attivo da due anni e mezzo nella casa di reclusione e nella casa circondariale di Padova, oltre che in altri istituti penitenziari, realizzato dalle associazioni “Un Ponte per” e dalla tunisina “Lina ben Mhenn”. “L’evento prevedeva anche la consegna della terza tranche di libri in lingua araba, che poi abbiamo comunque consegnato nella sala Anziani del comune. Padova è stato il primo istituto in cui abbiamo portato i testi in arabo ed è sempre stato tra le carceri in cui è più semplice svolgere delle attività. Abbiamo un ottimo rapporto con le cooperative che ci lavorano, Orizzonti e AltraCittà”, prosegue Farsetti. “Questo progetto mette al centro i detenuti arabofoni, che avevano preparato uno spettacolo teatrale e delle poesie, erano molto contenti di partecipare a quest’incontro. Sono rimasti molto delusi, dopo una preparazione di un mese e mezzo per quest’appuntamento. Ricevere stimoli da fuori è molto importante per i ristretti, inoltre avrebbero incontrato persone provenienti dai loro luoghi di origine: la valenza di questo progetto era doppia”. “Eravamo riusciti a far arrivare finalmente in Italia una delegazione tunisina e una libica. Dopo tanto lavoro e molte difficoltà, avevamo ottenuto i visti per le ragazze (dalla Tunisia ci erano stati inizialmente negati), con l’idea di portare i partner dell’associazione tunisina Lina Ben Mhenni e libica Libyain Legal Aid Organization a conoscere i partner di Padova: è stato un lavoro di costruzione di tanti anni. Ovviamente le persone tunisine non torneranno in Italia, anche perché non abbiamo più fondi. Proveremo in futuro a recuperare con un collegamento online, ma non sarà la stessa cosa”, continua. “Le tempistiche del carcere sono già molto lunghe, ci vogliono almeno due mesi per ottenere tutte le autorizzazioni, ora questa circolare rischia di bloccare tutto per i tempi che si allungano ancora di più. La stretta già stava avvenendo prima di questa circolare”. “La nostra iniziativa era stata autorizzata dalla direzione del carcere di Opera lo scorso luglio. Con l’autorizzazione in mano, abbiamo iniziato ad organizzare l’incontro, a settembre abbiamo raccolto le prenotazioni, eravamo arrivati a 150 partecipanti”, racconta Antonella Meiani, co-coordinatrice del laboratorio di lettura “Fine pena ora” nell’istituto milanese. “Una settimana prima dell’evento, previsto per venerdì 14 novembre, è arrivata la comunicazione che avremmo dovuto ripresentare tutta la documentazione per chiedere ex novo l’autorizzazione al Dap. In tutta fretta abbiamo preparato di nuovo i documenti, compresi gli elenchi dei detenuti e dei partecipanti, una settimana prima dell’evento la direzione ci ha avvertito che non c’era il nulla osta da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. Quello cancellato sarebbe stato il settimo appuntamento organizzato dal gruppo di lettura formato da detenuti dell’alta sicurezza. Era previsto Non finirà finché non parliamo. Mille e un frammento da un conflitto, la replica di una lettura scenica liberamente tratta da Apeirogon, con testo a cura di Circolo LaAV Milano, Compagnia dei lettori, Equi.Voci lettori. “Era già andata in scena lo scorso maggio, tutti erano rimasti entusiasti e si era deciso di riproporlo per Bookcity Milano. L’annullamento è stata una doccia fredda, i detenuti dedicano tantissime energie all’attività del gruppo di lettura, è un modo per sentirsi ascoltati. Il pubblico che viene a seguire queste iniziative non va via uguale a quando è entrato, si porta via una riflessione in più sul mondo del carcere. È emotivamente difficile per i detenuti superare questa cancellazione. I frutti si vedevano prima, durante e dopo gli appuntamenti, sono opportunità preziosissime”. A Livorno si ferma il rugby delle “Pecore nere” “All’interno dell’istituto Le Sughere di Livorno, un’attività storica è la scuola di rugby, dedicata alla sezione dell’alta sicurezza. Da anni la squadra delle “Pecore nere”, formata da detenuti, è iscritta al campionato Old toscano. Ovviamente, tutte le gare vengono disputate in casa, sul campo sportivo del carcere livornese, non possono andare a giocare in trasferta”, dice Marco Solimano, garante delle persone private della libertà personale del comune di Livorno. “Tutto il progetto aveva ottenuto l’approvazione del Dap già a febbraio di quest’anno. Pochi giorni dopo la circolare del 21 ottobre, in una comunicazione firmata da Ernesto Napolillo, di poche righe, si è manifestato parere contrario all’iniziativa. Da un giorno all’altro, è stata bloccata l’attività di partecipazione al campionato e le squadre non sono più potute entrare a giocare con le “Pecore nere”. “Questo fatto rompe un percorso virtuoso tra la città di Livorno e il carcere, che vede la partecipazione importante di volontari, associazioni del Terzo settore, istituzioni. Solo gli allenamenti dei ragazzi sono continuati perché non prevedono l’ingresso di altre squadre. Non abbiamo nessuna contezza sulla continuazione di questo percorso. Non sappiamo se, dopo quest’interruzione, un domani si potranno riprendere le attività anche con la società esterna. La bellezza del progetto è che il terzo tempo diventa un momento di contaminazione, di socialità”, prosegue Solimano. “Siamo costernati da questa situazione. I miei colleghi garanti “in punta di diritto” stanno contestando questa circolare che, essendo un atto amministrativo, va in rotta di collisione con l’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario che ha come “faro” l’articolo 27 della Costituzione, che fa riferimento alla rieducazione del condannato. Quindi, va in rotta di collisione con una legge dello Stato. Speriamo che ci sia un ripensamento, questa situazione è deprimente e devastante. Ho l’impressione che sia un provvedimento adottato da chi il carcere non lo conosce e non sa gli sforzi enormi delle comunità per garantire una vicinanza della città al carcere, per non farlo sentire una realtà espulsa dal contesto territoriale”. “A Rebibbia i progetti in essere li stiamo proseguendo per quanto riguarda i laboratori. Non è chiara la procedura di autorizzazione per gli interventi del pubblico esterno”, dice Fabio Cavalli, fondatore del Teatro libero di Rebibbia di Roma. “Noi associazioni che lavoriamo in questo carcere romano, negli ambiti della cultura e del lavoro, abbiamo chiesto con una lettera formale al provveditore regionale alle carceri di Lazio, Abruzzo e Molise Giacinto Siciliano e alla direttrice Maria Donata Iannantuono un incontro urgente sulle criticità operative derivanti dall’applicazione della circolare”. Dal 2005 quasi 100mila persone - “Con questa circolare è messo in discussione l’afflusso regolare del pubblico agli incontri, agli eventi, alle mostre, alle performance che animano il carcere di Rebibbia da 25 anni. Vogliamo capire quali sono le nuove regole d’ingaggio per l’accesso delle persone da fuori, con la complessa procedura paventata dal Dap. È ovvio che non si può tenere in carcere un corso di teatro, di cucina, di pittura e poi non avere nessuno che gusta il piatto proposto, ammira il quadro, assiste alla performance”, continua Cavalli. “Avevamo un programma di eventi, con le prossime date per il 25 novembre e il 17 dicembre. Abbiamo spostato l’incontro di dicembre al teatro Palladium perché non c’è alcuna garanzia che facciano affluire il pubblico esterno. Dal 2005 ad oggi sono entrate quasi 100mila persone a Rebibbia da fuori, tra studenti, universitari, appassionati di teatro, parenti. Ora non ci sono le condizioni per invitare persone, scuole e istituzioni all’interno. Se organizzo, investo negli attori, nei tecnici della complessa e costosa edizione di uno spettacolo e poi non so se il pubblico lo fanno entrare, come faccio a programmare un evento?”, si chiede Cavalli. “In queste condizioni non si può lavorare” - “Abbiamo rischiato di veder cancellata, lo scorso 25 ottobre, la proiezione del film Il grande Boccia presso Rebibbia Nuovo Complesso nell’ambito della Festa del Cinema di Roma, che come ogni anno ha organizzato proiezioni speciali presso il carcere romano. È stata una battaglia ottenere l’autorizzazione (arrivata solo il giorno prima) per permettere la proiezione e per far entrare da fuori solo la regista Karen Di Porto”, continua Cavalli. “È evidente che, in queste condizioni, con le autorizzazioni che arrivano il giorno prima o proprio non arrivano, non si può lavorare, siamo in attesa di chiarimenti. Normalmente convochiamo le scuole un mese prima, con la lista degli studenti (che vogliono venire sempre di più), ma se poi la lista è autorizzata 24 ore prima o se non arriva l’autorizzazione, ai pullman pieni di studenti che hanno già pagato il viaggio cosa diciamo?”. “In 23 anni mai vista una situazione del genere” - La circolare del Dap afferma che ogni richiesta di autorizzazione di attività di carattere trattamentale deve essere trasmessa alla Direzione generale dei detenuti e del trattamento “con congruo anticipo”. “Vorremmo capire quali sono i tempi congrui di risposta. Sono 23 anni che lavoro in carcere, non è mai successa una situazione del genere. In questi tanti anni non c”è mai stato un incidente né un contrattempo. Il rapporto di leale e serena collaborazione tra istituzioni private, siano esse imprese o associazioni come la nostra, e il carcere va avanti ininterrotto da 25 anni. In Italia ci sono 80 gruppi che si occupano di teatro in carcere e c’è un coordinamento nazionale, tutti i colleghi mi dicono che non è mai successo nulla di negativo nel far entrare il pubblico in carcere”. Stop al laboratorio che parla di nonviolenza - Un’attività che è stata bloccata dopo la circolare è quella del laboratorio “Spes contra spem” realizzato da Nessuno tocchi Caino in diversi istituti di pena. “Non è arrivata l’autorizzazione per poterlo svolgere nel carcere di Parma. In questo caso, la cancellazione non è strettamente collegata alla circolare perché il laboratorio si sarebbe dovuto svolgere nell’alta sicurezza, quindi necessitava comunque del nulla osta della Direzione generale dei detenuti e del trattamento anche prima. Ma di certo la decisione di non autorizzarlo è l’espressione di un clima”, dice Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino. “Noi abbiamo sempre svolto i laboratori nel carcere di Parma, per la prima volta non è stato autorizzato dal Dap. Evidentemente c’è un cambio di registro, si usa l’argomento della sicurezza per ridurre le attività trattamentali e i contatti tra l’interno e l’esterno. E qui la circolare c’entra molto”. Se si restringono le attività anche per la media sicurezza “di fatto si abroga l’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario del 1975, un pilastro del trattamento in carcere che ha allargato alle figure della società civile, creando il “ponte”. Con la stretta causata da queste circolari probabilmente si mira a ridurre le attività per porre come punto prioritario del trattamento la custodia, la segregazione, la sicurezza”, prosegue D’Elia. “Questi laboratori li portiamo avanti da 10 anni, non c’è motivo di sospenderli. Abbiamo chiesto un incontro al capo del Dap per chiarire l’accaduto e ripristinare la consuetudine. Il nostro operato è nella direzione di conversione da logiche criminali a quelle legalitarie, dalla violenza alla nonviolenza, dal delitto al diritto. Il ministero lo sa che la nostra attività laboratoriale è importante e non c’è mai stato nessun problema”. L’interrogazione parlamentare di Giachetti - Roberto Giachetti, lo scorso 4 novembre, ha presentato un’interrogazione parlamentare a risposta scritta al ministro della Giustizia Carlo Nordio, nella quale afferma: “Risulta evidente all’interrogante come vi sia forte preoccupazione, tanto tra i garanti territoriali delle persone private della libertà quanto nel mondo dell’associazionismo, per le potenziali conseguenze che questa nuova stretta burocratica e accentratrice potrebbe avere sulle attività trattamentali promosse da anni da realtà come Nessuno tocchi Caino o Ristretti Orizzonti. Laboratori, incontri, redazioni di giornali-attività che, soprattutto in questi anni segnati da un grave sovraffollamento, hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo fondamentale nell’alleviare la tensione interna agli istituti, contribuendo a mantenere un clima più sereno e gestibile”. Una circolare voluta da Delmastro accentra i poteri del Dap e scontenta avvocati e ministro di Ginevra Leganza Il Foglio, 14 novembre 2025 Nordio e Delmastro, sul referendum, come venti contrari sulla stessa vela. Al ministero della Giustizia, l’anziano padre porta su il masso. Fintanto che il figlio di Colle Oppio lo spinge giù. L’ultima circolare del sottosegretario con delega alla polizia penitenziaria è dunque l’ultimo incomodo di Via Arenula. In questo caso il problema - spiegano dal ministero - è che la Circolare-Delmastro centralizza le decisioni sulle attività educative e ricreative dei detenuti. Sicché innesca malanimo in coloro che, nell’ottica del ministro, sono gli amici del Sì al referendum. In particolare, i penalisti. Garanti dei detenuti, avvocati penalisti, educatori: tutti travolti dalle risme per colpa della Giustizia. Non è un segreto, dopotutto, che le visioni del mondo di ministro e sottosegretario siano difficili da conciliare. Se infatti Carlo Nordio, calata la sera, si pasce del cibo solo suo e legge Anatole France, Andrea Delmastro è più combattuto. “Nella mia persona - disse mesi fa a questo giornale - convivono entrambe le pulsioni, sia quella garantista sia quella giustizialista, a corrente alternata secondo le necessità”. Sempre al Foglio, nel corso di una chiacchierata confidenziale, il sottosegretario svelò di non apprezzare granché la riforma del suo ministro: “L’unica cosa buona è il sorteggio”. Ed è quindi sulla scia della “pulsione giustizialista” che bisogna leggere la cosiddetta Circolare-Delmastro. Una disposizione che dà fastidio ai garantisti e preoccupa non poco il Guardasigilli. Datata 27 marzo 2025, ma formalizzata il 21 ottobre scorso, la circolare s’indirizza ai provveditorati regionali e alle direzioni degli istituti penitenziari secondo la logica del centralismo. D’ora in poi, a decidere su attività educative e ricreative dei detenuti non saranno più direttori e giudici bensì il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). In altre parole, il centro chiederà alle periferie la trasmissione immediata del regolamento interno del carcere per quanto attiene alla vita dei detenuti di alta sicurezza. Si va quindi dagli ordini di servizio che indicano orari di apertura e chiusura delle celle a ogni altra necessità. Petizioni, lettere, note, lamentele del detenuto o dei famigliari. A questo, poi, si aggiunge la necessità dell’autorizzazione, da richiedere direttamente alla direzione generale del Dap, per eventi di carattere trattamentale anche per i detenuti nel circuito di media sicurezza. Parola chiave: rigidità. Attitudine a trazione più salviniana (“buttare via la chiave”) che nordiana. Reazioni? Il garante campano, Samuele Ciambriello, l’ha definita così: “Una circolare di scarsa contezza reale dei contesti carcerari”, un documento che “rischia di far stare i detenuti chiusi 20 ore al giorno in celle strapiene, senza la possibilità di svolgere attività”. E che soprattutto, nella visione del ministro, rischia di travolgere il penalista di fardelli burocratici. Frustrando l’entusiasmo per la “riforma epocale”. Indebolendo insomma i più solleciti Sì al referendum sulla separazione delle carriere. Che Andrea Delmastro sia la quinta colonna in Via Arenula? No. La chiave di lettura, semmai, è quella della rana con lo scorpione. E dunque del sottosegretario e uomo di punta di Fratelli d’Italia che punge, certo, ma solo perché non può farne a meno: il giustizialismo è la sua natura. La “pulsione” che in fondo è solo il derma sotto la pelle. O in questo caso, l’antica fiamma - da cui Meloni si è emancipata col tempo - che però a Colle Oppio illumina i fratelli maggiori (anche il presidente del Senato Ignazio La Russa nel referendum non crede tanto: “Non vale la candela”). E dunque sono venti e controventi, referendum e circolari. Ministri e sottosegretari che, in questo caso, fanno un Sisifo in due. Se l’uno porta il Sì in cima, l’altro è lì che lo spinge di nuovo a valle. Suicidi in carcere: un atto d’accusa di Gian Luigi Gatta La Repubblica, 14 novembre 2025 Dobbiamo riconoscere la gravità della situazione e aprire gli occhi. Cos’altro deve accadere? Montecitorio ha ospitato ieri (13 novembre) una cerimonia per i 50 anni della legge sull’ordinamento penitenziario, adottata per attuare l’articolo 27 della Costituzione: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il ministro della Giustizia Nordio ha nell’occasione tenuto una lectio magistralis e ha ribadito la sua tesi sulla mancanza di una relazione tra sovraffollamento e suicidi in carcere. “I suicidi non sono per niente collegati al sovraffollamento” che è semmai “una forma di controllo reciproco”, utile a sventare gesti estremi. Peccato però che poche ore prima nel carcere di Pavia si verificava il settantesimo suicidio dell’anno: un ragazzo di trent’anni impiccato nel locale docce. Sarà un caso ma nel carcere di Pavia sono presenti 725 detenuti a fronte di 515 posti. Il tasso di sovraffollamento è quindi del 140%. L’evidenza empirica confuta dunque in diretta la tesi di una mancata correlazione tra suicidi e sovraffollamento. Lo aveva già messo nero su bianco il Garante nazionale dei detenuti, nominato su proposta del ministro, in un report sui suicidi pubblicato alla fine dell’anno scorso, poco prima che il presidente Mattarella, nel messaggio di fine anno, ricordasse al Paese come “l’alto tasso di suicidi è indice di condizioni inammissibili”. Si legge in quel report che “è ipotizzabile che all’aumentare del sovraffollamento si possa associare un incremento… degli eventi critici che, più di altri, sono espressione del disagio detentivo, quali atti di aggressione, autolesionismo, suicidi, tentativi di suicidio, omicidio, manifestazione di protesta collettiva, aggressioni fisiche al personale di polizia e amministrativo”. Dei 54 penitenziari in cui si sono verificati suicidi, nel 2024, 51 registravano un indice di sovraffollamento superiore a 100. La tesi del ministro, insomma, sembra smentita dai dati del Garante. I suicidi sono infatti correlati alle “condizioni inammissibili” denunciate da Mattarella, che comprendono anche il sovraffollamento. Condizioni inammissibili anche per chi lavora in carcere: personale amministrativo, polizia, educatori. Condizioni della cui gravità il Paese deve prendere atto, aprendo gli occhi. Cosa altro deve accadere? I segni dell’emergenza sono evidenti. Non si tratta solo del sovraffollamento. Poche settimane fa nel carcere romano di Regina Coeli è crollata una parte del tetto. A Sollicciano, carcere fiorentino, continui allagamenti a ogni temporale costringono i detenuti e il personale a tenere i piedi a mollo. Il sovraffollamento impedisce alla polizia di avere personale sufficiente per il trasporto dei detenuti in ospedale, quando è necessario per le cure. Lo hanno raccontato detenuti malati e in là con gli anni a un incontro organizzato a Rebibbia da Rita Bernardini e Nessuno tocchi Caino, alla presenza della vicepresidente del Senato Anna Rossomando e, tra i detenuti, dell’ex sindaco di Roma e ministro Gianni Alemanno. Ancora: il 12 settembre il Tribunale della Baviera, dopo avere acquisito da un’avvocata documenti che certificano il sovraffollamento delle nostre carceri e le precarie condizioni igieniche e sanitarie, ha sospeso la decisione su una richiesta di consegna all’Italia di un imputato, in esecuzione di un mandato di arresto europeo, in attesa di appurare la compatibilità con gli standard minimi europei delle condizioni di detenzione in Italia. A maggio era stata l’Olanda a negare l’estradizione di un sospetto autore di plurimi omicidi in Italia. Non sono bei segnali per la nostra reputazione internazionale e per la giustizia. Non basta? Secondo Antigone nel 2024 i tribunali di sorveglianza hanno accolto 5.837 istanze di detenuti che lamentavano condizioni di detenzione contrarie ai diritti fondamentali. Tutte persone che, per legge, lo Stato deve ora risarcire detraendo un giorno di pena ogni dieci trascorsi in condizioni inumane oppure, se la pena è stata già scontata, pagando 8 euro per ogni giorno di detenzione. Non è ipocrita, allora, che il Parlamento si ostini a non “concedere sconti di pena” per ridurre il sovraffollamento, se poi è proprio il sovraffollamento a comportare sconti di pena e risarcimenti? Nordio: “I suicidi in carcere? Non sono legati al sovraffollamento, che anzi li frena perché è una forma di controllo” di Liana Milella Il Fatto Quotidiano, 14 novembre 2025 Mentre il guardasigilli tiene la sua lectio magistralis alla Camera, a Pavia si è ucciso il 69° detenuto. Alla Camera discutono di carcere, perfino con Carlo Nordio in veste di oratore per quella che viene presentata come una sua “lectio magistralis”. Lui subodora subito il rischio assicurato dello sfottò e piglia le distanze da se stesso. “No no, la mia non sarà una lectio magistralis”. E allora perché non ha evitato prima che fosse annunciata così nel mini incontro per ricordare i 50 anni della legge sull’ordinamento giudiziario? Ma poiché le coincidenze sono malandrine, stavolta c’è di peggio che presentarsi come un “professore”. Perché giusto negli stessi minuti in cui Nordio parla, e tiene la sua “lectio”, chi si occupa di carcere, come il segretario generale del sindacato Uilpa della polizia penitenziaria Gennarino De Fazio, è alla ricerca di dettagli su come è morto, nel carcere Torre del Gallo di Pavia, l’ennesimo detenuto, che porta il numero 69 del 2025. Aveva 30 anni. E come scrive la Provincia pavese, “si è impiccato nel locale delle docce”. Sarà perché, dice De Fazio, “su 46.500 posti disponibili i detenuti oggi sono 63.500. E proprio nel carcere di Pavia ce ne sono 725 detenuti, ma i posti disponili sono solo 515”. Nordio, ovviamente, non ne parla affatto. E per il rispetto dovuto a una vita che non c’è più, nonché per il ruolo che ricopre, dovrebbe farlo. Magari non lo sa neppure. Certo fa di peggio quando ripete un’assurdità che aveva già detto: “I suicidi non sono legati al sovraffollamento, che anzi è una forma di controllo, tant’è che molti suicidi sono stati frenati proprio dal sovraffollamento”. Ma Nordio ha ben altri scopi legislativi, tant’è che ripete uno dei suoi slogan, il carcere ci vuole solo per i reati che comportano grave allarme sociale, quindi per i tossici e gli stranieri. Corrotti e corruttori no. Tant’è che lui ha il serbo il colpo gobbo della revisione della custodia cautelare, niente nel caso della reiterazione del reato. Le carceri resteranno piene lo stesso, anzi di più, ma tanto di poveracci e immigrati non importa niente a nessuno. Se il “garantismo” della destra significa mettere in prigione anche i bambini di Piero Sansonetti L’Unità, 14 novembre 2025 Il governo Meloni, da quando si è insediato, ha introdotto una ventina di nuovi reati nel codice penale. E ha stabilito un aumento delle pene per circa 40 anni di carcere per reati già esistenti. Coi decreti sicurezza ha stabilito che nelle carceri non sono permesse neanche le proteste non violente e saranno punite con una pena fino a sette anni, poi ha ridotto il permesso di manifestare ostacolando il traffico, anche qui prevedendo la prigione, e ha deciso che una donna incinta può andare in cella, e se ha un bambino anche di un anno, e non sa a chi lasciarlo, il bambino andrà in cella con lei e sconterà la pena. Queste ultime due norme sono studiate contro le mamme rom. Possiamo, senza polemiche ma limitandoci ai fatti, definirle leggi razziste. L’altro giorno la Lega ha presentato alla stampa un nuovo pacchetto sicurezza, perché la Lega (supponiamo con il consenso del centrodestra) ritiene che la svolta repressiva impressa dal decreto sicurezza sia ancora troppo dolce. E quindi chiede una nuova legge che preveda che se uccidi un ladro non solo non commetti reato ma non puoi nemmeno essere indagato, poi chiede una legge che introduca il nuovo reato di “fuga pericolosa”, fino a 5 anni di carcere, e anche una legge che fissi l’obbligo di versare una cauzione se convochi una manifestazione (cortei a pagamento). Infine lo sgombero immediato, entro 48 ore dalla denuncia, per chi occupa un appartamento, anche se l’appartamento non è la prima casa di un altro proprietario. Sgombero immediato anche se viene occupato un edificio abbandonato da anni. Per quel che riguarda l’immigrazione, le direttrici sono tre. Uno: deportazione in Albania. Due, polemiche coi giudici che liberano dalla detenzione i profughi e tentativo di varare leggi che impediscano la liberazione. Tre, guerra aperta - sempre via decreto - alle Ong che operano soccorsi in mare, e stretta sugli interventi della Guardia Costiera, con l’obiettivo di aumentare i naufragi e dunque ridurre gli sbarchi (la tragedia e la strage come strumenti di deterrenza). Per quel che riguarda l’immunità parlamentare, la destra ha votato compatta perché fosse tolta l’immunità parlamentare a Ilaria Salis. Così come aveva votato per togliere l’immunità alla deputata socialista greca Eva Kaili, che di conseguenza fu arrestata, fu torturata, le fu portato via il bambino di due anni e le fu detto che se non confessava e accusava i complici il bambino non lo avrebbe più visto. Ora questa destra ci chiede di votare la separazione della carriere, perché dice - è una misura garantista. Effettivamente è una misura garantista. Però qui c’è un paradosso: è un po’ come se un boia ci proponesse di abolire le multe per il divieto di sosta. Riforma della giustizia. L’Anm ora teme il “cappotto” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 novembre 2025 Dopo lo svarione di Gratteri su Falcone, la rinuncia di Parodi alla sfida con Nordio, che divide le toghe. “E i partiti si sfilano”. Da un lato il procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, che cita un’intervista falsa a Giovanni Falcone in diretta televisiva. Dall’altro lato il presidente dell’Anm, Cesare Parodi, che si ritira “a malincuore” dal duello con il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Due circostanze susseguitesi nel giro di poche ore che possono incrinare la comunicazione del fronte del No alla separazione delle carriere, già in difficoltà visti i sondaggi. Vediamo cosa è accaduto nello specifico. Durante una puntata della trasmissione DiMartedì su La7, Gratteri legge delle dichiarazioni di Giovanni Falcone per sostenere che il giudice ucciso a capace fosse contrario alla separazione delle carriere. Era una fake news, come dimostrato dal nostro Damiano Aliprandi, della quale poi il pm calabrese si è scusato dalle pagine del Foglio. Ma il danno d’immagine c’è. Tanto è vero che lo stesso Parodi, a Un giorno da pecora, ha ammesso: “Lasciamo stare i morti. Rispettiamoli, i morti: hanno parlato in un’epoca completamente diversa”. E anche il segretario dell’Anm, Rocco Maruotti, ha scritto: “A chi oggi tira in ballo Falcone e Borsellino basta replicare dicendo che qualsiasi cosa abbiano detto 40 anni fa non ha senso riproporla oggi, in un mondo notevolmente cambiato e in cui anche loro, come ha fatto Nordio, avrebbero potuto cambiare idea o arricchire la loro riflessione, se la mafia non li avesse uccisi”. Quello di Gratteri comunque resta uno scivolone che, fatto dal frontman del ‘No’, incrina non di poco la presunta autorevolezza delle ragioni contrarie. Poi ieri, sempre il vertice del ‘sindacato’ delle toghe invia una nota stampa: “Dopo attenta riflessione, condivisa con i colleghi dell’Anm, non ritengo opportuna una mia partecipazione a confronti con il ministro Nordio, in quanto credo che costituirebbe una rappresentazione plastica, direttamente percepibile - e come tale fuorviante e strumentalizzabile - di una contrapposizione politica fra il governo e la magistratura, che non trova riscontro nella realtà. È per me un sacrificio personale, perché credo molto nella rilevanza dei confronti e li ho sempre affrontati”. Un passo indietro, quello di Parodi, ma che in realtà è anche un passo avanti: con lucidità il neo procuratore di Alessandria ha ben compreso che trasformare la sua associazione nel partito di opposizione al governo può essere assai controproducente per l’immagine della magistratura agli occhi dei cittadini. Una decisione che fonti di via Arenula definiscono invece “spiazzante” perché, solo due giorni prima di questa dichiarazione, Parodi aveva detto, a margine del comitato direttivo centrale Anm: “Non ho paura di un confronto” col guardasigilli “perché sono convinto delle nostre ragioni”. E il ministro auspicava proprio questo tipo di dibattito, perché sarebbe avvenuto, come filtra dal suo entourage, “sul piano tecnico e non politico, da istituzione a istituzione”. Adesso ci si chiede se Nordio possa accettare un duello con il presidente del Comitato del No dell’Anm, Enrico Grosso, che si è reso disponibile. Sul punto sono in corso valutazioni. Pure perché lo stesso professore-avvocato Grosso ha ribadito, sempre ieri, all’agenzia Lapresse: “Sono pronto in qualunque momento a un faccia a faccia con il ministro della Giustizia: io credo che il suo problema sia quello di non legittimare il Comitato del No”. Tuttavia, come hanno accolto questa decisione di Parodi i suoi colleghi? Dalle toghe di Area c’è pieno appoggio: “Mi sembra un’ottima scelta: l’invito di Nordio era chiaramente una provocazione per continuare a dire che l’Anm è il contraddittore politico del governo”, ci dice un big della corrente progressista. Mentre dalla corrente di Parodi, Magistratura indipendente, commentano diversamente: “Rispettiamo la decisione del presidente, non ci strappiamo le vesti ma alcuni di noi non avrebbero avuto nulla in contrario a un confronto tra lui e il ministro, tra istituzione e istituzione. Paradossalmente è più politico il presidente del Comitato del No, che non è neanche un magistrato”. Ma adesso, dopo queste frenate e con la necessità di risalire nei sondaggi, come dovrebbe raddrizzarsi la campagna degli oppositori alla riforma? I magistrati sono compatti nel dire: “Discutiamo nel merito, facciamo una campagna argomentata, senza eccessi, intelligente, cercando di spiegare che questo testo non giova a nessuno”. Qualcuno arriva a dire “evitiamo di fare una campagna con i reel” sui social. Altri non nascondono una preoccupazione: “Noi siamo consapevoli che dobbiamo evitare di appiattirci sui partiti, ma forse è il Partito democratico che non vuole stare con noi!”. Tra le toghe si fa sempre più forte infatti la preoccupazione che la minoranza in Parlamento abbia mollato un po’ la partita, e che non sia pronta a giocarsi il tutto per tutto contro una Meloni che appare sempre più forte. Un senso di “abbandono del campo” da parte della politica che lascia i magistrati in una condizione ancora più difficile, in un momento in cui il fronte del Sì si moltiplica coi vari comitati e si compatta soprattutto in una battaglia contro le fake news che divampano sulle pagine di diversi magistrati. “La separazione riequilibra i rapporti tra politica e giustizia” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2025 Il ministro della Giustizia Carlo Nordio: “Nessuna volontà di rivincita o vendetta. La magistratura non ha mai aggredito la politica, è stata la politica che in maniera anche codarda ha fatto passi indietro”. Dalla separazione delle carriere alla riforma del disciplinare, dalla giustizia civile all’ordinamento professionale, il ministro della Giustizia Carlo Nordio risponde alle domande del Sole 24 Ore al XXVIII Congresso della giovane avvocatura che si è aperto ieri a Bergamo. Domanda: Signor ministro, si riconosce in una lettura della riforma costituzionale all’insegna del revanscismo da parte della politica nei confronti della magistratura? Risposta: Non è una volontà di rivincita e tantomeno di vendetta da parte della politica a ispirare la riforma. C’è piuttosto la necessità di un riequilibrio tra poteri, tra quello giudiziario e quello legislativo. La magistratura non ha mai aggredito la politica e non ha mai cercato di sostituirsi a essa, semmai è stata la politica che in maniera anche codarda ha fatto passi indietro, lasciando spazi che la magistratura ha poi occupato. D: Quindi la riforma ha un obiettivo più politico che tecnico? R: Non ripeterò mai abbastanza che centrale nella legge di modifica costituzionale non è tanto contrastare la possibilità per un giudice di diventare pubblico ministero e viceversa, già oggi limitata, quanto invece da evitare è che per lo stesso Csm ci siano richieste incrociate di voti tra giudici e pubblici ministeri, che ci sia una giustizia domestica troppo compiacente, stanza di compensazione, e comunque condizionata dalle correnti. Parole dure, ma è la scoperta dell’acqua calda, dette da chi è stato magistrato per anni. Sono tutte misure che crediamo andranno a rafforzare, non a indebolire, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. D: Esiste un reale pericolo per la magistratura nel sovraccaricare politicamente l’appuntamento del referendum? R: Credo di sì, soprattutto perchè noi il referendum pensiamo di vincerlo e avere a che fare con una magistratura umiliata da una sconfitta politica non è certo obiettivo nè mio nè del Governo. D: Anche a volere ritenere credibili le garanzie, anche personali, che lei ha dato e dà sull’impossibilità di assoggettamento del pubblico ministero all’esecutivo, non ritiene comunque pericolosa per i cittadini l’accentuazione del profilo investigativo della pubblica accusa, con un Csm proprio, del tutto autoreferenziale? R: Già adesso il pubblico ministero è una sorta di superpoliziotto, soprattutto dopo che con la riforma del Codice di procedura penale oltre che monopolista dell’azione penale è stato fatto diventare capo della polizia giudiziaria. Il pericolo oggi mi sembra diverso e cioè che l’unicità del Csm e la commistione tra la figura del giudice e quella del pubblico ministero, faccia perdere al giudice quella terzietà che lo deve assolutamente caratterizzare. D: La legge di riforma mette nelle mani del Governo non solo l’istituzione dell’Alta corte disciplinare ma anche una ridefinizione dell’intera tipologia degli illeciti disciplinari. Si profila un’ulteriore stretta? R: Prioritario è evitare la situazione attuale dove i potenziali giudicati eleggono il loro giudice, con quest’ultimo che magari anni prima ha telefonato ai primi per chiederne il voto, un cortocircuito totalmente irrazionale, che attendo ancora mi sia spiegato. Per il resto, ritengo che la legge attuale sulla determinazione delle figure di illecito sia adeguata, non è lì il problema, quanto nell’indipendenza del soggetto giudicante; del resto basta vedere l’esiguo numero di sentenze disciplinari pronunciate a fronte delle tante anomalie registrate. Lo stesso scandalo Palamara si è poi risolto in un nulla di fatto, buttando la polvere sotto il tappeto, con poche dimissioni di consiglieri. D: Sulla giustizia civile ritiene necessario intervenire a modificare la riforma Cartabia? R: Assolutamente sì, con la massima stima nei confronti della collega che mi ha preceduto e che ha agito in un frangente molto particolare ed emergenziale, tuttavia, finita l’emergenza, va recuperata oralità nel processo civile, fatto salvo un accordo tra le parti per valorizzare la trattazione scritta. D: Quanto è preoccupato del mancato raggiungimento degli obiettivi Pnrr di riduzione della durata dei processi civili? R: Vedremo, mi sento però di dire che i progressi fatti sono molto significativi. L’arretrato è stato in larga parte smaltito e anche la durata è stata ridotta. Certo gli obiettivi sono molto ambiziosi e forse, quando vennero fissati, poco rispettosi nella necessaria relazione tra budget a disposizione e target. D: Infine, considera realistico l’obiettivo di un nuovo ordinamento forense entro la fine della legislatura? R: Sì, credo sia possibile raggiungerlo. La legge delega è già oggetto di esame in Parlamento e penso potremo arrivare al traguardo anche con i decreti delegati prima della conclusione della legislatura. Parodi: “Non vado al confronto con il ministro per non politicizzare il dibattito sul referendum” di Alessandro De Angelis La Stampa, 14 novembre 2025 Il presidente dell’Anm: “Sui migranti ci accusano di invadere il campo, ma noi applichiamo la legge”. Presidente Cesare Parodi, perché ha detto no al confronto con Nordio? “Perché voglio evitare il rischio che l’Anm appaia come un soggetto politico di opposizione. Pensi all’immagine, in una trasmissione di massimo ascolto: il ministro da un lato, noi dall’altra. E poi le strumentalizzazioni…”. Aveva detto sì, però... “Ho fatto una riflessione. Dolorosa. Lontana dalla mia mentalità. Ho sempre l’abitudine di confrontarmi con tutti però, ecco, meglio evitare. Farebbe comodo a tutti descriverci come un soggetto politico”. Le diranno che ha paura. “Ho paura solo di nuocere all’Anm. Non voglio creare i presupposti di un racconto che non corrisponde alla realtà”. Si confronteranno altri al posto suo... “Calma, calma… Come Anm abbiamo tutti condiviso l’opportunità di non confrontarci con i politici, chiunque essi siano. Solo con i rappresentanti dei comitati del sì: esperti, giuristi, personalità della società civile. Nel merito”. Come giudica questo inizio di campagna elettorale? “Come me la immaginavo. Toni, accesi, forzature su tesi che non fanno onore a chi le propone. Dovrebbero portare avanti argomentazioni specifiche, invece puntano sulla delegittimazione della magistratura”. Faccia i nomi... “Beh, molti giornali e uomini politici. Il governo, mica da oggi, lamenta una presunta invasione di campo della magistratura. Noi ci limitiamo ad applicare le leggi, e ci viene detto che strabordiamo per boicottare l’attività del governo”. Si riferisce soprattutto all’immigrazione, immagino... “Sì. È il caso di scuola. Perché molto spesso le leggi, una volta inserite nel contesto generale, portano al risultato diverso di quelli sperati”. Si sta giustificando? “Nient’affatto. Sto spiegando. Noi stiamo applicando i principi della Corte europea e, quando c’è un dubbio, ci rivolgiamo a una autorità europea per una interpretazione conforme. Che c’entra con l’attacco alla sovranità?”. Però pure la vostra campagna è partita maluccio. Gratteri ha citato frasi di Falcone e Borsellino non vere. Vi stanno crocifiggendo. “Si è scusato e, francamente, il fatto non mi pare significativo. Detto questo, sulle citazioni, io dico un’altra cosa. E cioè che sarei prudente a estrapolare frasi fuori contesto”. Lasciamo stare i morti e confrontiamoci sui vivi... “Direi di sì. I morti hanno parlato di un sistema diverso, in un contesto diverso. Mi domando se è utile applicare meccanicamente quelle considerazioni a questo mondo. Stiamo all’attualità”. Va di moda, tra i favorevoli alla riforma anche Giuliano Vassalli... “Straordinario giurista. Però mi risulta che di separazione delle carriere ha parlato nell’87 in una citazione di 4 righe”. Le obietterebbero che questa riforma è il completamento della sua... “Contro-obietto. E allora perché non hanno fatto la separazione delle carriere se era così fondamentale quando fu riscritto nel ‘99 l’articolo 111 sul giusto processo, per completare riforma Vassalli del sistema accusatorio?”. Parliamo dei vivi. Gratteri è testimonial del no, o sbaglio? “Gratteri è testimonial importante per i valori che difendiamo. È un collega di grande valore e con un notevole talento espressivo. Cercheremo di coordinarci con lui, il suo impegno è significativo”. La figura simbolo di Mani Pulite, Di Pietro, è per il sì. Come se lo spiega? “Sono molto stupito. Ha cambiato idea. Come hanno cambiato idea le Camere penali. Dopo la vicenda dell’Hotel Champagne (lo scandalo Palamara, ndr) hanno attaccato il metodo del sorteggio. Ora, pur di far passare la separazione delle carriere, accettano tutto”. Con questa riforma ci sarebbe stata Tangentopoli? “Con questa riforma la magistratura non avrebbe potuto operare con piena indipendenza e molti fatti della storia italiana sarebbero stati impostati diversamente”. Qualcosa non torna. C’è chi dice che si crea una casta di pm, rafforzandone i poteri... “I pm avranno un concorso diverso, una scuola diversa e un sistema di valutazione diverso all’interno del loro Csm, svincolato dalla fase giudiziaria. Come possiamo pensare che il pm possa rimanere lo stesso?”. Avrà più poteri o no? “È destinato a diventare un accusatore puro. E c’è il rischio che il livello delle condanne diventi un indice di efficienza. Di qui si può arrivare alla necessità, in un secondo tempo, di mettere i pm sotto il controllo dell’esecutivo”. Fate il referendum su una futura intenzione della destra? “No, sull’attuale intenzione. Molto spesso si dimentica che il vero oggetto è il depotenziamento del Csm, come organo di autogoverno della magistratura. E nell’ambito di questo, gli aspetti legati all’alta corte disciplinare. Viene creato un unicum: un corte estranea all’ente deputato all’autogoverno e dunque alla conoscenza effettiva della vita e del lavoro del magistrato”. In questo anno e mezzo di iter parlamentare c’è qualcosa che ha fatto e non avrebbe voluto fare, o che non ha fatto e avrebbe voluto fare? “Non ho particolari rimpianti né rimorsi. Forse avrei voluto parlare ancora di più ai cittadini, perché questo è il dato fondamentale. Mentre i partiti possono dire votate “no” anche per appartenenza, noi dobbiamo spiegare perché si mina l’indipendenza della magistratura. I diritti della Costituzione, senza disposizioni, per renderli effettivi, sono lettera morta”. I sondaggi vi danno dietro di dieci punti... “Il vero sondaggio è su chi andrà a votare. Qui non c’è il quorum. E questo è il dato. Quindi la partita è aperta”. Se perde, Giorgia Meloni si dovrà dimettere come Renzi? “Lungi da me considerazioni politiche. Le lascio ai giornalisti!”. Sa bene che il voto si politicizza inevitabilmente... “Questo è un tema che non mi compete. Le ho detto che non faccio confronti proprio per starne alla larga...”. Se invece Giorgia Meloni lo vince, lei si dimette? “Io credo nella possibilità di giocarci la partita. Poi, a risultato acquisito, insieme ai colleghi decideremo il da farsi”. Non la separazione delle carriere: il vero cavallo di Troia di Nordio è l’Alta Corte disciplinare di Daniela Mainenti* Il Fatto Quotidiano, 14 novembre 2025 Concentrare la campagna referendaria sulla “separazione delle carriere sì/no” è fuorviante: il quesito dirimente è se accettiamo un giudice disciplinare senza garanzie d’indipendenza. L’asse del referendum confermativo non è, malgrado la retorica da comizio, la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri: quella è una scelta politicamente divisiva ma concettualmente chiara, da anni oggetto di confronto dottrinale e comparato, con argomenti seri su entrambi i fronti; il vero punto critico, quello che può alterare in profondità la fisionomia costituzionale della giurisdizione, è l’istituzione dell’Alta Corte disciplinare, perché lì si decide chi, come e con quali garanzie potrà giudicare i magistrati, e dunque quanto fragile o resistente sarà l’indipendenza effettiva dei giudici rispetto al potere politico. Spostare la giurisdizione disciplinare fuori dal CSM e affidarla a un organo ad hoc non è di per sé un’eresia: in astratto può persino apparire un progresso, se immaginato come giudice terzo, tecnicamente attrezzato, con composizione mista bilanciata, standard motivazionali elevati, pubblicità delle decisioni, parametri chiari di proporzionalità delle sanzioni, controllo di legittimità pieno e mandati non rinnovabili sganciati dai cicli della maggioranza di governo. In questa versione ideale, l’Alta Corte ridurrebbe il sospetto di corporativismo, garantirebbe una giurisprudenza disciplinare coerente, rafforzerebbe la fiducia dei cittadini mostrando che chi sbaglia paga, senza colpire chi decide in scienza e coscienza su terreni sensibili. Ma il progetto reale si gioca sui dettagli che il dibattito pubblico sta colpevolmente schiacciando sotto la parola d’ordine “separazione”: chi nomina i componenti dell’Alta Corte, con quali maggioranze, con quali filtri, con quali incompatibilità effettive rispetto a partiti, governi, strutture di influenza organizzata; quali sono i meccanismi di astensione e ricusazione, come si evita che la scelta cada su profili organici alle stesse filiere di potere che la giurisdizione deve poter controllare; che rapporto c’è tra Alta Corte e CSM in tema di valutazioni di professionalità, trasferimenti, conferimenti di incarichi direttivi? Perché se le leve organizzative restano condizionate mentre la leva disciplinare viene accentrata in un organo potenzialmente esposto alla maggioranza politica, il combinato disposto può produrre un effetto di pressione sistemica ben più incisivo di qualsiasi slogan sulla “fine delle correnti”. La domanda che il referendum pone, al di là degli slogan, e che andrebbe chiarita in maniera solare al cittadino votante, è se l’Alta Corte sarà strutturata secondo tre test minimi: indipendenza, efficienza garantita, proporzionalità controllabile. Indipendenza significa modalità di scelta non monopolizzate dalla maggioranza, partecipazione di più soggetti istituzionali, criteri di merito verificabili, divieti rigorosi di incarichi politici e consulenze sensibili, mandati lunghi ma non rinnovabili, non coincidenti con la legislatura; efficienza garantita significa tempi certi senza sacrificare il contraddittorio, istruttorie tracciabili, udienze tendenzialmente pubbliche, pubblicazione integrale delle decisioni, filtri seri per le denunce temerarie; proporzionalità controllabile significa tipizzazione chiara degli illeciti disciplinari, griglie sanzionatorie trasparenti, possibilità effettiva di sindacare in sede di legittimità l’equilibrio tra fatti accertati e sanzione irrogata, in modo che nessun giudice venga colpito per la sostanza delle sue decisioni e nessun comportamento gravemente lesivo resti coperto da opacità o indulgenza selettiva. Se questi tre test non sono soddisfatti nella concreta architettura dell’Alta Corte, il rischio non è teorico: la funzione disciplinare diventa un luogo di torsione istituzionale dove la politica può premiare e punire, dove i casi simbolici vengono usati come messaggi al corpo giudiziario, dove l’indipendenza si logora non con un editto, ma con la minaccia sottile di un procedimento che può colpire chi tocca nervi scoperti del sistema. È per questo che concentrare la campagna referendaria sulla formula “separazione delle carriere sì/no” è una semplificazione comoda e fuorviante: si può essere favorevoli o contrari alla separazione per ragioni serie, ma il quesito davvero dirimente, per chi ha a cuore lo Stato di diritto, è se accettiamo di introdurre un giudice disciplinare di vertice senza blindare fino in fondo le sue condizioni di indipendenza. Nel voto referendario non si misurerà solo l’assetto organizzativo della magistratura, si misurerà la capacità dei cittadini di riconoscere che il vero snodo non è dove il dibattito urla, ma dove il silenzio agisce e in silenzio si decide a chi si consegnerà la chiave che può aprire o chiudere lo spazio di libertà della giurisdizione. Ad oggi il legislatore ha lasciato questo spazio assai opaco e fumoso. Occorrerà, al contrario, averlo spiegato ben chiaro prima di votare. *Professore Straordinario in Diritto Processuale Penale Comparato Le vere parole di Borsellino: “Falcone fu isolato dai colleghi e sostenuto dal governo” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 novembre 2025 La stessa corporazione che tenta, invano, di usare Giovanni Falcone come sponsor del no alla separazione delle carriere, non fa ancora i conti con il passato. Usare Falcone, quando lui stesso era osteggiato anche per il suo spirito riformatore della magistratura, non rende giustizia. Purtroppo non fa i conti con la stessa sentenza del Capaci Bis, che ha individuato nella strage una sinergia che “si avvaleva della cooperazione (almeno) colposa di alcuni settori della Magistratura e che agevolava il processo di isolamento intrapreso nei confronti di Giovanni Falcone”. Non è stato solo un magistrato ucciso dalla mafia. È stato, prima di tutto, un magistrato isolato e delegittimato da una parte significativa della sua stessa istituzione. Paradossalmente ha dovuto trovare sostegno nel potere politico, il quale non solo lo ha sostenuto accogliendolo al Ministero della Giustizia, ma - come ha affermato Paolo Borsellino in una delle sue ultime interviste (di cui, ovviamente, Il Dubbio ha l’audio) del 24 giugno del 1992 - c’era anche l’ipotesi che fosse in procinto di avere una carica governativa. L’immagine dell’eroe che muore per mano di Cosa Nostra è potente, ma incompleta. La verità, nascosta tra i verbali del CSM, le sentenze e le memorie, è che l’ostilità di molti suoi colleghi - alimentata da gelosie di carriera, lotte di corrente, divergenze ideologiche sulla lotta alla criminalità organizzata e anche qualche toga ‘ infedele’ - creò il vuoto istituzionale in cui gli attentatori di Capaci poterono agire con la massima efficacia. Mentre combatteva strenuamente Cosa Nostra, la sua vita fu segnata soprattutto da forti tensioni interne. “Lo smantellamento del pool antimafia” fu un vero “passo indietro” nella lotta alla mafia, come denunciò Paolo Borsellino di fronte al CSM il 31 luglio 1988. In quel clima, persino la sua promozione fu bloccata: nell’inverno del 1988 il CSM gli preferì il collega Antonino Meli, nonostante l’alto profilo di Falcone. Nelle motivazioni ufficiali si legge che le qualità del giudice Falcone “si prospettano notevolissime”, ma non tali da giustificare di superare i sedici anni di anzianità di Meli. In altre parole, il Consiglio stabilì che ‘ non è possibile anteporre… l’ultimo aspirante… 16 anni più giovane’ (Falcone) al più anziano Meli, anche se voci interne come quella del consigliere Marco Motisi gli riconoscevano il ‘ coraggio dimostrato in frangenti difficilissimi’. Anche la corrente di Magistratura Democratica votò contro: solo Caselli votò a favore di Falcone, mentre Paciotti e Borrè votarono per Meli. Questa decisione non fu un semplice errore burocratico. Fu il segnale politico che l’approccio vincente del Pool - basato sulla collegialità e la visione strategica - non era gradito a una parte influente della magistratura. La conseguenza fu immediata e disastrosa: Meli, insediatosi, smantellò il Pool, revocando le deleghe e disperdendo i fascicoli chiave, annullando l’unità investigativa faticosamente costruita. L’isolamento di Falcone era iniziato. Una speranza l’aveva riposta nella Procura di Palermo quando lui stesso sostenne Pietro Giammanco come capo procuratore. Si infranse quasi subito. Come scrisse Caponnetto nel suo libro, il capo procuratore eseguiva gli ordini di ben altri storici sostituti. Un disastro completo con aspetti inquietanti che tuttora non hanno verità giudiziaria. Per questo dovette lasciare Palermo e accettò la chiamata (già avuta inizialmente da Cossiga quando c’era Vassalli come guardasigilli) per ricoprire l’incarico di Direttore degli Affari Penali al Ministero di Grazia e Giustizia, allora guidato da Claudio Martelli. Da qui, promosse due riforme fondamentali: la creazione della Direzione Investigativa Antimafia (DIA) e, soprattutto, l’istituzione della Procura Nazionale Antimafia (PNA). Soprattutto quest’ultima - una struttura di coordinamento centrale per contrastare la mafia in modo unitario - scatenò una reazione rabbiosa e ideologica da parte di molti magistrati. Falcone fu accusato di voler creare una ‘ Superprocura’ che avrebbe sottratto poteri ai singoli uffici giudiziari e, peggio ancora, di aver ceduto la sua indipendenza mettendosi al servizio del Governo. Le solite polemiche che echeggiano oggi. Si dice che anche Borsellino fosse critico. Ma ancora una volta siamo costretti a riprendere una sua intervista del 29 maggio 1992 al GR1. Borsellino non risparmia parole dure verso una parte consistente della magistratura. Borsellino accusa i suoi colleghi di ipocrisia: quegli stessi magistrati che dopo la morte di Falcone ne hanno riconosciuto le ‘ indiscusse capacità’, quando era in vita non hanno tradotto ‘ queste loro convinzioni nelle decisioni che avrebbero dovuto celermente portare Falcone ai vertici della struttura nazionale antimafia’. Il giudice punta il dito contro la gestione ‘ del tutto insoddisfacente’ delle rivelazioni del pentito Antonino Calderone (Falcone lo spiegò al CSM e altrove), avvenuta dopo lo scioglimento del pool antimafia. La parcellizzazione delle indagini in 12 tronconi diversi aveva reso impossibile proseguire il lavoro unitario che aveva portato al successo del maxiprocesso. Tutto ciò, così come altre circostanze, costrinsero Falcone a lasciare Palermo. E lo ha fatto per poter lavorare al meglio. Per questo Borsellino difende il progetto iniziale della Superprocura voluta da Falcone: avrebbe ricreato quelle condizioni di lavoro collegiale che avevano permesso al pool antimafia di Palermo di operare nel suo periodo migliore. E non bisogna dimenticare le accuse da parte della Rete dell’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando, che lo riteneva troppo vicino al governo Andreotti e, ancor prima, di non aver voluto colpire il ‘ terzo livello’. Teoria, quest’ultima che lui sconfessava in più occasioni. Giovanni Falcone fu ucciso dalla mafia, ma la sua inesorabile marcia verso Capaci fu spianata, in modo tragicamente indiretto, da coloro che avrebbero dovuto essere i suoi alleati più fidati. Comprendere questo ‘ tradimento silenzioso’ è fondamentale per onorare la sua memoria e per comprendere i limiti ancora attuali della giustizia italiana. ‘ Sciascia aveva perfettamente ragione: non mi riferisco agli esempi che faceva in concreto, ma più in generale. Questi personaggi, prima si lamentano perché ho fatto carriera, poi se mi presento per il posto di procuratore, cominciano a vedere chissà quali manovre. Gente che occupa i quattro quinti del suo tempo a discutere in corridoio; se lavorassero, sarebbe meglio’, le parole di Falcone al giornalista Luca Rossi, pubblicate nel libro I disarmati. Il ddl sulla violenza sessuale fa il contrario di ciò che vuole il governo: dare più poteri alle toghe di Ermes Antonucci Il Foglio, 14 novembre 2025 Sostiene di voler ristabilire l’equilibrio fra i poteri, riconducendo la magistratura nei suoi spazi, ma poi approva leggi che continuano ad attribuire alle toghe ampissima discrezionalità nell’attività giudiziaria. È il paradosso del centrodestra, emerso di nuovo con l’approvazione in commissione Giustizia della Camera dell’emendamento che introduce il “consenso libero e attuale” nel reato di violenza sessuale. “Una riforma necessaria, ma che lascia ai giudici una discrezionalità enorme nell’interpretazione del reato e nella determinazione della pena”, dice la giurista Ilaria Merenda. L’emendamento, frutto di un accordo bipartisan tra FdI e Pd, modifica l’articolo 609 bis del codice penale, prevedendo che “chiunque compie o fa compiere o subire atti sessuali a un’altra persona senza il consenso libero e attuale di quest’ultima è punito con la reclusione da sei a dodici anni”. Resta intatta la restante parte dell’articolo, che prevede al secondo comma che la stessa pena si applichi a chi commette violenza sessuale abusando della condizione di inferiorità fisica o psichica o di particolare vulnerabilità della persona offesa, e al terzo comma che invece stabilisce che “nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi”. L’inserimento del principio del consenso “è in linea con quanto fatto da altri paesi, come Spagna e Francia, e costituisce un passo necessario, visto lo scollamento tra la norma esistente, incentrata sulla costrizione violenta, e la giurisprudenza, che interpreta l’articolo 609 bis in termini consensualistici, cioè prevedendo che anche laddove non c’è violenza, ma manca il consenso, si integra l’ipotesi di violenza sessuale”, spiega al Foglio Ilaria Merenda, docente di Diritto penale all’Università Roma Tre. “Lo scollamento tra il dato normativo e il diritto vivente ha ormai raggiunto livelli difficilmente compatibili con il quadro dei princìpi e delle garanzie fondamentali su cui si fonda la legalità penale, quindi la riforma appare indispensabile”, ribadisce Merenda. Per la giurista, però, il testo approvato in commissione Giustizia alla Camera grazie all’accordo tra Meloni e Schlein è di gran lunga migliorabile. Innanzitutto “resta indeterminata la nozione di atto sessuale, che oggi viene ricostruita praticamente a piacimento dalla giurisprudenza, che arriva a ricomprendere sotto la comune etichetta di ‘violenza sessuale’ una serie di comportamenti tra loro largamente eterogenei, che vanno dai semplici abbracci, alle fugaci pacche sul sedere, ai baci sulle guance o al collo, fino ad atti sessuali ben più rilevanti come masturbazioni violente e congiunzioni carnali”, sottolinea Merenda. In secondo luogo, “l’emendamento approvato non dice nulla sul tema dell’errore sul consenso. Con l’inserimento del principio del consenso, il legislatore introduce nella fattispecie un criterio di natura oggettiva, che impone al giudice di verificare se l’altrui volontà sia stata espressa o meno in modo tale da poter essere chiaramente intesa dall’uomo. Ciò non toglie che, pur qualora manchi tale obiettiva riconoscibilità, l’uomo potrebbe comunque agire convinto che il partner abbia univocamente aderito al rapporto sessuale”, nota la giurista. “Il problema è che nel caso di errore sul consenso, non essendo prevista la violenza sessuale colposa, l’autore non dovrebbe essere punito. La giurisprudenza però di regola non lo riconosce quasi mai e dilata il dolo spesso a casi che realmente dolosi non sono”, aggiunge Merenda. “Di conseguenza, sarebbe auspicabile inserire un’attenuante per chi commette violenza sessuale sulla base di un errore sul consenso. L’attenuante rappresenterebbe un giusto compromesso per tutelare le vittime e allo stesso tempo applicare al reo una pena più congrua in relazione al disvalore del fatto commesso (meno grave senz’altro rispetto a una violenza strettamente dolosa)”. Merenda ricorda che va in questa direzione la proposta di modifica del reato di violenza sessuale avanzata dall’Associazione dei professori di diritto penale. La proposta prevede uno sdoppiamento del reato in due diverse fattispecie (violenza sessuale e aggressione sessuale) a seconda del carattere penetrativo o meno degli atti realizzati. L’emendamento approvato da FdI e Pd, invece, “mantiene una discrezionalità pazzesca nella determinazione della pena - nota Merenda - La pena massima, fissata a 12 anni, può arrivare a 15 nel caso in cui sussistano le aggravanti. Poi però può essere diminuita e arrivare a 2 anni in casi di lieve entità. La discrezionalità del giudice è enorme, perché la cornice edittale va dai 2 ai 15 anni e c’è una definizione dell’atto sessuale non chiara”, evidenzia Merenda. Insomma, il testo approvato dalla maggioranza è migliorabile sotto diversi aspetti, a partire da quelli che, paradosso del centrodestra, consegnano ai magistrati una vastissima discrezionalità nell’attività giudiziaria. Tempo di ragionare sull’inciviltà di click & like: l’odio non è normalità di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 14 novembre 2025 Non bisogna seguire d’istinto, e di corsa, un attivismo scomposto ma fermarci, costringerci a ragionare al largo dei roghi accesi sulle vite degli altri. L’attivismo scomposto che punta alla visibilità e non costruisce cambiamento. La comunicazione come performance esasperata che si avvita su sé stessa, stravolge e mortifica la storica rivendicazione delle donne secondo cui “il personale è politico”. Il femminismo, cioè l’unico -ismo sopravvissuto in salute al Novecento, trasformato dal cedimento agli algoritmi in un brand ambiguo. A cavallo tra ideali scagliati come pietre e i meccanismi liquidi del mercato di click & like. Se tutto questo (o una parte e magari altro) ci fosse stato “svelato” d’improvviso - come per i vestiti nuovi dell’imperatore che sfilava nudo davanti all’ipocrisia dei suoi follower - potremmo essere riconoscenti al gruppetto di “femministe influencer” finite sotto inchiesta per diffamazione e stalking ai danni di A.S., denigrato privatamente e pubblicamente assediato, accusato di essere un “abuser”, un “manipolatore” pericoloso per la sua compagna e qualunque donna. Tanto da “meritarsi” il paragone costante con il giovane femminici da Filippo Turetta. Stretto in un angolo che lo fa sentire senza scampo. Da qui prima il tentativo di suicidio, poi la scelta opposta: andare allo scoperto, denunciare. In questa storia, che ora prenderà la sua strada giudiziaria e definirà le responsabilità (o no) delle protagoniste, dovremmo sentirci tutti parte in causa. Testimoni dei fatti, almeno. Perché sappiamo benissimo di che cosa stiamo parlando. Quando le indagate si propongono di “radicalizzare/attaccare/accusare”, quando riempiono la loro chat “Fascistella” di insulti da Michela Murgia a Sergio Mattarella, quando compilano liste di reprobi, si muovono lungo le diagonali di un sistema che è esteso, pervasivo e strutturato. Un territorio infettato dalla rabbia perché ormai solo la rabbia e tutte le emozioni estreme sono in grado di suscitare attenzione e, spesso, consenso. Sulle piattaforme digitali la furia moltiplica i dati, genera profitto: le nostre reazioni polarizzate vengono intercettate e monetizzate, lo scontro stravince sul confronto, diventa una professione. Ma la radice di questa abitudine social(e) affonda in un perimetro che non è stato progettato per essere neutro, dall’inizio e fino all’ultimo aggiornamento. E noi - intorno, a volte al centro - quasi non vediamo più lo scandalo. Lo scandalo della violenza. Dell’odio diventato normalità. Dobbiamo fermarci, interrogarci, costringerci a ragionare al largo dei roghi accesi sulle vite degli altri. Perché il femminismo, forse come nessun altro movimento, ha sempre scommesso sulla possibilità di esprimere dissenso sì ma per andare oltre, di prendere la parola e raccontarsi ma mai per tracciare derive individualiste. Ha sempre riempito di energia i luoghi che attraversava - assemblee, quartieri, centri anti violenza - e abitato con gioia stanze tutte per sé che la planimetria delle case prima non prevedeva. Avverte Fabrizio Acanfora, attivista e scrittore, autore di Rompere il gioco, in un’intervista su @La27ora del Corriere: “Senza recuperare una dimensione collettiva di alleanza, si rischia di scambiare la visibilità per emancipazione e la punizione per giustizia, lasciando intatte le gerarchie di potere”. Riscuotendoci dall’inciviltà del clickbait, cioè dall’ansia di far leva su paura e clamore per predare spazio, potremmo trovare il coraggio - l’audacia - di non stare agli estremi bensì in mezzo. In mezzo a una piazza, fisica e virtuale, in mezzo alle persone. In mezzo e in equilibrio, con la forza che sale dalla condivisione del viaggio inesaurito dell’equità. Pavia. Emergenza suicidi in carcere: si è tolto la vita un detenuto di 30 anni di Ilaria Dainesi informatorevigevanese.it, 14 novembre 2025 È il 15esimo dal 2021 nella casa circondariale del capoluogo pavese. Un detenuto di 30 anni di origine nordafricana si è tolto la vita nella mattinata di ieri, giovedì 13 novembre, all’interno del carcere di Torre del Gallo, a Pavia. L’uomo si è impiccato nel locale docce del reparto. I tentativi di rianimarlo sono stati inutili. È stato un agente della polizia penitenziaria, accortosi di quanto stava accadendo, a dare l’allarme. Sul posto sono intervenuti gli operatori del 118, ma il medico non ha potuto fare altro che constatare il decesso. Sono in corso accertamenti per chiarire le cause e le eventuali circostanze che hanno spinto il detenuto al gesto estremo. Quello di ieri è il quindicesimo suicidio registrato dal 2021 nella casa circondariale pavese. L’ultimo caso che riguarda il carcere di Pavia risale alla fine di settembre di quest’anno, quando un 21enne entrato in carcere da pochi giorni si è tolto la vita in cella, utilizzando le lenzuola della sua branda: era un soggetto fragile dal punto di vista psico-fisico, e per questo si trovava in una sezione dedicata ai reclusi avanti con l’età o - appunto - in condizioni di fragilità. “Reclusi senza dignità” - Immediate le reazioni dei sindacati, che rappresentano gli agenti penitenziari: “I problemi del mondo carcerario sono ancora irrisolti” dice Americo Fimiani, segretario della Fp Cgil. “Suicidi come questo sono la conseguenza di una situazione mai davvero affrontata dalla politica, nonostante le ripetute visite degli esponenti politici nelle carceri italiane”. Sul punto è intervenuto anche Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa: “Si tratta dell’ennesimo caso che certifica un’emergenza che va avanti da troppo tempo - afferma il sindacalista - e che da troppo tempo rimane inaffrontata. Da inizio anno si registrano 69 suicidi nelle carceri italiane, dove spesso le condizioni sono indignitose con 63.500 detenuti presenti a fronte di 46.500 posti disponibili: si tratta di un esubero da circa 17 mila posti. Nel frattempo, la carenza di agenti penitenziari ammonta a 20mila unità: l’effetto è che i carichi di lavoro e la durata dei turni di servizio sono spesso al di sotto dei limiti di dignità e legittimità. Il tutto nella sostanziale indifferenza del governo”. Como. Scontri in carcere dopo un’evasione sventata: detenuto in ospedale in codice rosso di Anna Campaniello Corriere della Sera, 14 novembre 2025 Rivolta nel carcere Bassone. A tarda serata di giovedì, il bilancio: feriti due agenti della polizia penitenziaria e un detenuto. In una giornata ad alta, davvero alta tensione. Iniziata presto. Di mattina, con un tentativo di evasione. Nelle ore successive, nel rapido volgere, un agente sarebbe stato costretto a rifugiarsi in un box in quanto assediato e “tenuto in ostaggio”, secondo quanto ricostruito, mentre nell’istituto penitenziario dilagava la protesta. Per riportare la calma è stato necessario l’invio di una decina di mezzi di rinforzo da Milano. Al Bassone sono 440 i detenuti, ovvero il doppio della capienza massima prevista. Una situazione di disagio cronica. Gli episodi di tensione e anche di violenza sono quotidiani, ripetono le sigle sindacali. Giovedì a far esplodere il caos sarebbe stato un tentativo di evasione, in ogni modo presto bloccato grazie al veloce ed esperto intervento della polizia penitenziaria. La situazione però nelle ore successive è degenerata. Un agente sarebbe stato tenuto in ostaggio, mentre decine di altri detenuti, sull’onda emotiva, avrebbero fatto scoppiare disordini. Nelle fasi più concitate, due guardie sono rimaste ferite, in modo lieve. Soccorsi, gli agenti sono stati trasferiti all’ospedale di Cantù. Gravi invece le condizioni di un detenuto di 24 anni che sarebbe rimasto schiacciato dalle sbarre ed è stato trasportato d’urgenza all’ospedale di Monza. Per la criticità della protesta, era stata dichiarata la maxi emergenza. Al Bassone sono state inviate 9 ambulanze e 4 mezzi di soccorso avanzato. Come capitato di rado, nonostante, come premesso, un perenne quadro critico affligga il Bassone, peraltro uno degli istituti storici d’Italia. Presenti in forza carabinieri, agenti della polizia e militari della guardia di finanza. Un poderoso cordone intorno al penitenziario. Dove soltanto in serata la rivolta è stata sedata, anche se la tensione è rimasta forte ed è stato mantenuto il presidio delle forze dell’ordine. “Tutto si è risolto in tempi brevissimi grazie al tempestivo ed efficace intervento del personale del corpo di polizia penitenziaria. Tutto il personale è in sicurezza e l’istituto è pienamente operativo”, intanto comunicava, verso sera, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Poco cambia. Nel senso che “quanto successo era prevedibile perché il problema è a monte — ha detto il segretario per la Lombardia della Uilpa polizia penitenziaria, Domenico Benemia. Servono più uomini e una gestione diversa delle risorse a livello regionale”. Il segretario generale del Sappe Donato Capece ha giudicato “la condotta dei detenuti irresponsabile e gravissima. Sono quotidiane le nostre denunce con le quali evidenziamo che le carceri in Lombardia sono ad alta tensione. Auspichiamo interventi urgenti”. Nei giorni scorsi si erano già verificati problemi, con un materasso dato alle fiamme e tre agenti picchiati e costretti a ricorrere alle cure in ospedale. Firenze. La condanna diventa definitiva, 32enne sale sul tetto e si getta nel vuoto di Rossella Conte e Stefano Brogioni La Nazione, 14 novembre 2025 Il giovane si è ucciso prima di finire in carcere dopo aver appreso la notizia dai suoi legali: avrebbe dovuto scontare altri 14 mesi di reclusione. Gli avvocati: “Si stava rimettendo in forma grazie a un personal trainer, la notizia lo ha travolto”. Un uomo di 32 anni, fiorentino, si è tolto la vita ieri mattina gettandosi dal tetto della propria abitazione, nella zona di Firenze sud, pochi istanti dopo che due avvocati erano andati a comunicargli l’arrivo dell’ordine di esecuzione del residuo della sua pena: un anno e due mesi di reclusione per una rapina. Una tragedia improvvisa, consumata in pochi minuti, che ha scosso profondamente il quartiere. “Erano circa le 10.50 - racconta l’avvocato Carlo Giugno, difensore del giovane insieme alla collega Laura Pugi, ancora visibilmente scosso - abbiamo suonato al campanello e ci ha aperto lui. Abbiamo scambiato qualche parola, ci ha detto che aveva trovato un nuovo lavoro, che sarebbe iniziato con un periodo di prova, e che si stava rimettendo in forma grazie a un personal trainer. Sembrava sereno, tranquillo. Poi, con calma, gli abbiamo detto: “Siamo venuti per darti una notizia che mai avremmo voluto darti”. Ci ha guardati in silenzio, si è alzato, ha chiuso la porta e se n’è andato. Abbiamo pensato che fosse andato nell’altra stanza dal padre, ma poi abbiamo sentito le mandate. Quando gli abbiamo chiesto cosa stesse facendo, ha detto soltanto: “pensate a mio padre”. L’uomo è salito rapidamente fino al tetto e si è lanciato nel vuoto. I due legali sono rimasti chiusi dentro l’appartamento. Una dinamica che i carabinieri hanno riscontrato con i loro accertamenti, durati tutta la giornata. L’avvocato Giugno, insieme alla collega, è poi rimasto a lungo davanti al cancello, sconvolto. Nel quartiere, dove la notizia si è diffusa in pochi minuti, l’atmosfera è rimasta sospesa, irreale. “Non ci possiamo credere - mormora una signora affacciata alla finestra - qui non succede mai niente”. “Una scena terribile - racconta un altro residente - abbiamo visto arrivare l’ambulanza, i carabinieri, poi ci siamo avvicinati e abbiamo capito cosa era successo”. Il trentaduenne viveva con il padre, in un palazzo tranquillo e curato. Aveva avuto qualche guaio con la giustizia, ma nessuno, raccontano i vicini, avrebbe mai immaginato un gesto simile. “Era un ragazzo riservato, salutava poco ma non dava problemi”, dice un uomo che abita nello stesso stabile. I carabinieri hanno ascoltato a lungo i due avvocati, entrambi profondamente scossi. “Lo abbiamo visto allontanarsi e non è più tornato”, ha aggiunto l’avvocato Giugno, con la voce rotta dall’emozione. Il giovane aveva accumulato più condanne che adesso, per ordine del procura generale, che ha competenza sulle esecuzioni, doveva scontare a Sollicciano. L’ultima, finita anche sulle cronache, era arrivata per una rapina al supermercato, in cui aveva disarmato un vigilante e aveva minacciato i presenti con la pistola. Pochi giorni fa, la condanna a tre anni e otto mesi era diventata definitiva. Si tratta di un reato “ostativo”, cioè che prevede, almeno per un periodo stabilito dalla legge, la detenzione carceraria. Tuttavia, in virtù di altre precedenti periodi trascorsi dietro le sbarre in misura cautelare, che nel linguaggio giudiziario vengono definiti “presofferto”, il residuo di pena rimasto era di un anno e undici mesi, ma che con le detrazioni previste dalla legge e un buon comportamento, avrebbe finito di scontare la pena dopo un anno e due mesi e magari avrebbe guadagnato ancora prima una detenzione alternativa al carcere. I legali stavano lavorando a uno sconto di pena - Ma probabilmente, nella testa dell’uomo, questo calcolo è stato sorpassato dallo scoramento. Il suo gesto però ha colto tutti di sorpresa. E nessuno, a cominciare dai suoi legali, che stavano già lavorando affinché la pena potesse essere scontata anche in una forma alternativa a quella del carcere, pensava che potesse finire così. La salma del 32enne è a disposizione dell’autorità giudiziaria. Il sostituto procuratore di turno, Lucia D’Alessandro, deciderà sul da farsi. Tanti avvocati hanno manifestato vicinanza ai colleghi protagonisti, loro malgrado, di questo dramma. Pesaro. Riabilitazione dopo il carcere, a Villa Fastiggi attestati di formazione per 15 detenuti di Luigi Benelli Corriere Adriatico, 14 novembre 2025 È un collegamento diretto col mondo del lavoro per collocare immediatamente i carcerati al termine della pena. Un nuovo inizio. Al carcere di Villa Fastiggi di Pesaro la consegna degli attestati di formazione a quindici detenuti che hanno preso parte al corso per esperto impiantista organizzato su un progetto del Garante regionale dei diritti della persona, Giancarlo Giulianelli: “Opportunità concreta di riabilitazione sociale e reinserimento nel mercato del lavoro”. Presenti alla conferenza che ha anticipato la consegna degli attestati il Vicepresidente del Consiglio regionale Giacomo Rossi e la Consigliera Segretaria dell’Ufficio di Presidenza Marta Ruggeri. Presso la Casa circondariale di Villa Fastiggi di Pesaro sono stati consegnati quindici attestati ad altrettanti detenuti che hanno preso parte al corso di formazione per impiantista nei settori dell’automazione e del fotovoltaico. Il corso, scaturito da un progetto del Garante regionale dei diritti della persona Giancarlo Giulianelli e dal nome significativo “Un nuovo inizio”, si è svolto interamente all’interno della Casa circondariale di Pesaro tra giugno e ottobre. Il percorso di formazione, suddiviso in cinque moduli, ha avuto una durata complessiva di 162 ore teorico-pratiche, con una parte specificatamente dedicata alla sicurezza e alla salute sui luoghi di lavoro. La consegna degli attestati è stata preceduta, nella mattina di giovedì 13 novembre, da una conferenza stampa che si è tenuta nella Sala Rossa del Comune di Pesaro. Erano presenti per il Consiglio regionale delle Marche il Vicepresidente Giacomo Rossi e la Consigliera Segretaria dell’Ufficio di Presidenza Marta Ruggeri. Il corso nasce da un’intuizione del Garante regionale dei diritti Giancarlo Giulianelli che, in collaborazione con il Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Ancona, Roberto Rossi, ha interpellato associazioni datoriali, sindacali e di categoria al fine di verificare in quali ambiti potesse essere più necessario formare manodopera. A seguito dell’interesse manifestato dalla Compagnia delle Opere di Pesaro e Urbino, il Garante ha ritenuto opportuno sostenere la realizzazione, nel territorio pesarese, di un percorso formativo in specifici settori in forte espansione, nei quali è emersa la necessità di manodopera qualificata. “Non un corso puntiforme e fine a se stesso - ha evidenziato lo stesso Giulianelli durante la conferenza stampa - ma un collegamento diretto col mondo del lavoro, dove collocare immediatamente i detenuti al termine della pena e avviare concretamente quel percorso di rieducazione, riabilitazione e reinserimento nella società richiamato dalla nostra Costituzione”. Giulianelli ha poi voluto ringraziare la Direzione penitenziaria per la disponibilità con la quale hanno accolto e poi sviluppato il progetto. “I risultati sono apprezzabili e si son potuti cogliere strada facendo - ha evidenziato la direttrice della Casa circondariale di Villa Fastiggi, Annalisa Gasparro - Non mi riferisco solo al raggiungimento dell’obiettivo finale, quale quello dell’acquisizione di un attestato di competenza da parte dei detenuti, ma ancor prima della motivazione riscontrata negli stessi, anche in termini di messa in gioco e di sfida personale”. “Un progetto - ha concluso Gasparro - che è riuscito ad appagare quell’aspettativa di riscatto che spesso trasuda dai vissuti personali dei detenuti”. Vincenzo Paoletti di “Digital Smart”, l’ente formatore che ha organizzato il corso, ha parlato di “esperimento ben riuscito”. “Non abbiamo semplicemente insegnato un mestiere - ha detto - abbiamo incontrato persone, in un ascolto e un dialogo reciproco, e abbiamo visto nascere in loro il desiderio di riscatto verso un nuovo inizio”. “Un lavoro condiviso che ha visto convergere istituzioni, imprese, enti del terzo settore e il mondo della formazione verso un obiettivo comune e nella speranza che esperienze come questa possano moltiplicarsi perché la formazione è uno degli strumenti più potenti per restituire fiducia, costruire competenze e accompagnare le persone verso un reale reinserimento nella società”. Genova. La richiesta di Antigone e San Benedetto: “Misure alternative sotto i tre anni di pena” di Matteo Macor La Repubblica, 14 novembre 2025 Misure alternative alla detenzione per chi ha meno di tre anni di pena da scontare. É la proposta che arriva da Antigone e Comunità di San Benedetto, alla luce dei dati di “Senza respiro”, il nuovo rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione nel Paese, presentato con un evento congiunto a Genova, per chiedere a gran voce alla politica di occuparsi - sono le parole dei rispettivi responsabili - “della dignità umana e di collaborare per creare percorsi di cura, emancipazione e libertà”. I numeri del settore, del resto, parlano chiaro. Solo a Genova, nel carcere di Marassi risulta un sovraffollamento del 129 per cento, con 680 detenuti presenti su 553 posti disponibili. A Pontedecimo sono detenute 137 persone su 86 posti dichiarabili, per un sovraffollamento del 159 per cento. In Italia, più del 51 per cento delle persone detenute con condanna definitiva (oltre 23.600) ha meno di tre anni da scontare, mentre circa 1.373 persone sono in carcere per una condanna minore di un anno. Spesso sono persone fragili, con dipendenza da sostanze, per le quali il carcere non ha alcuna funzione rieducativa, si fa notare da Antigone. Una realtà che più o meno direttamente ha portato ai 91 suicidi contati nel Paese nel solo 2024, record storico, e al trend del 2025, che vede almeno 33 suicidi tra gennaio e maggio. Una tendenza che vede i casi più frequenti avvenire nelle case circondariali più grandi, direttamente correlati all’affollamento e alle chiusure delle sezioni. “L’unica strada è tornare al principio della rieducazione, investendo nelle misure alternative - si legge su “Senza Respiro”, il rapporto di Antigone - ovvero riducendo l’uso della custodia cautelare in carcere, facilitando l’accesso alle misure alternative per chi ha pena residua breve e investendo in sanità mentale e risorse umane per contrastare la drammatica crescita dei suicidi e dell’autolesionismo. La metà dei suicidi avviene nei primi sei mesi di detenzione, mentre altri casi si verificano nel periodo vicino alla fine della pena, per l’ansia da rilascio”. Il rischio di togliersi la vita in carcere, dicono le statistiche, è circa 25 volte superiore rispetto alla società esterna, e in Italia, nel 2022, il tasso dei suicidi nelle carceri era più del doppio della media europea (15 casi in Italia contro 7,2 della media UE). Tra le proposte delle associazioni sul tema, - tra le tante - il potenziamento dell’accoglienza, “con servizi strutturati per i neo-detenuti e identificare prima i fattori di rischio”, e lavorare sulla preparazione al rilascio e abolire le forme di segregazione inique. “L’emergenza suicidi in carcere è indice del fallimento del sistema, ci vuole una chiara volontà politica per dare una risposta di salute e umanità”. “La motivazione profonda è un tratto essenziale per intraprendere un percorso di cura - sottolinea Marco Malfatto, presidente della Comunità di San Benedetto al Porto - ed è una condizione dinamica e modificabile. Chi viene in Comunità non è detto che voglia necessariamente prendersi cura di sé, forse vuole solo giustamente uscire dal carcere: bisogna quindi iniziare sempre dalla persona, “danzando con lei” come ci ricorda Leopoldo Grosso, in base al passo che è capace di fare, all’opposto di un approccio che fissa un obiettivo e registra solo progressi e fallimenti”. “La nostra responsabilità oggi è difendere la cultura dell’accoglienza e dell’inclusione - aggiunge Marco Cafiero, garante comunale - è solo così che possiamo andare oltre la vendetta”. “Il carcere è sempre più selettivo e di classe - interviene Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - ci vorrebbero uno, dieci, mille Don Gallo che comunichino all’esterno quel pezzo di mondo che è sempre più solo. Il carcere non deve essere una trincea di guerra ed è fondamentale ridefinire il senso comune della pena e garantire sempre la dignità umana”. Cagliari. Carceri e diritti umani: una giornata di studi sul sistema penitenziario sardegnanotizie24.it, 14 novembre 2025 Giornata di studi del 21 novembre 2025 dedicata a detenzione, tutela e trattamenti penitenziari. Un confronto diretto sullo stato delle carceri italiane aprirà il convegno “Il sistema carcerario tra diritto penitenziario e diritti umani”, in programma il 21 novembre all’Aula Lai del Campus Sant’Ignazio. L’iniziativa, organizzata da Elsa Cagliari, riunisce docenti universitari, magistrati e avvocati per analizzare condizioni di detenzione, tutele e criticità strutturali. La sessione antimeridiana si concentrerà sulla situazione attuale degli istituti penitenziari e sul confronto con i modelli europei ed extra Ue, con gli interventi di Maria Francesca Cortesi, Andrea Deffenu e Daniele Amoroso. A seguire, un approfondimento sul lavoro penitenziario e sulle pratiche di trattamento, con il contributo del direttore della Casa circondariale “Ettore Scalas”, Pietro Borruto, dell’avvocato Fernando Vignes e di Irene Testa. Nel pomeriggio si discuteranno i nodi legati alla salute mentale e alla dignità dei detenuti, tema affidato a Riccardo Curreli, Franco Villa e Marco Murgia. La condizione dei soggetti fragili verrà affrontata da Daniele Pulino, presidente regionale dell’associazione Antigone. Una seconda sessione parallela analizzerà invece lo stigma del processo penale e gli effetti sull’esecuzione della pena, con quattro interventi dell’avvocatura cagliaritana. Novara. In carcere un laboratorio di scrittura: “Aiuta a pensare a sé e al dopo pena” di Marco Benvenuti La Stampa, 14 novembre 2025 Nella casa circondariale il progetto “Sprigionare i pensieri”. Sono una decina di uomini di diverse età, italiani e stranieri, che hanno commesso reati anche seri, qualcuno in procinto di tornare libero dopo aver scontato la pena, qualcun altro affidato ai servizi di pubblica utilità oppure ammesso a uscire di giorno per fare rientro in cella la notte. Sono queste persone ad aver raccontato la loro vita, la loro storia, in un laboratorio di gruppo nella casa circondariale di Novara grazie al progetto “Sprigionare i pensieri”, percorso di ricostruzione della propria identità e di ripensamento di vita attraverso gli strumenti della narrazione e della scrittura, sostenuto dalla Fondazione Franca Capurro per Novara. L’auspicio, hanno detto ieri nella sede di Confindustria Novara Vercelli Valsesia i protagonisti dell’iniziativa, è che possa diventare un progetto pilota in regione e in Italia, oltre che proseguire con altri gruppi di detenuti. Ieri, a conclusione del percorso, il presidente della Fondazione Filippo Arrigoni ha anche donato alla direttrice del carcere Annamaria Dello Preite due pc portatili, per rafforzare le competenze digitali di chi vive fra quelle mura. Arrigoni spiega l’origine del progetto, che nel corso dei mesi ha finito per coinvolgere in maniera stabile sette detenuti (qualcuno ha dovuto lasciare perché trasferito altrove oppure perchè già impegnato in altri laboratori): “L’idea è nata quasi per caso, passando in bicicletta davanti al carcere. Il carcere è lì, in città, ma è un mondo difficile da capire, spesso sconosciuto. Mi sono proposto quindi di fare qualcosa per chi sta per finire la pena, per aiutarlo a comprendere meglio la vita che sta svolgendo e per evitare che non ricada negli errori che lo hanno portato lì”. Ne è nato un gruppo di autonarrazione e scrittura, con incontri di 90 minuti a cadenza quindicinale curati dalla psicologa forense e criminologa Marella Basla, dalla psicologa-psicoterapeuta Giuliana Ziliotto, e dall’insegnante di scuola media Gian Mauro Scansetti, laureato in filosofia. “È stata un’esperienza umana importante ed emotivamente coinvolgente”, concordano le psicologhe Ziliotto e Basla. Aggiunge Ziliotto: “All’inizio non è stato semplice: per i detenuti era difficile mettersi in gioco. Poi ognuno ha raccontato la sua storia, quasi a episodi”. Basla: “La prima cosa emersa è che pensare, in carcere, è molto doloroso. Noi li abbiamo aiutati a capire che la loro condanna è per il reato, non alla persona. E affrontato temi come il cambiamento, il ripensamento, la libertà, la scelta, il “dopo”“. Le storie sono state poi trascritte. “Sarebbe bello crearne un libro”, è l’auspicio. La direttrice del carcere, assieme alla responsabile del piano di risocializzazione Elisabetta Sebastiani, sottolinea come “il progetto sia nato da passione e come abbia ricreato la capacità di elaborare la sofferenza, ma anche a superare i pregiudizi nei confronti del carcere”. Il reinserimento è una meta. Lo ricorda anche Mariella Enoc, manager della sanità, socia fondatrice di “Franca Capurro per Novara”, e, come presidente dell’ospedale Bambino Gesù di Roma, promotrice di progetti di reinserimento: “Al centro deve stare sempre la persona: il malato non è la malattia, il detenuto non è il reato”. Milano. “La musica ci fa sentire tutti uguali”: standing ovation per cantanti e detenuti di Nino Luca Corriere della Sera, 14 novembre 2025 Al teatro Martinitt di Milano applausi per la Band “Freedom Sounds” del carcere di Bollate che si è esibita con gli “Eugenio in Via di Gioia”. Standing ovation e pubblico in delirio al Teatro Martinitt di Milano per “Note di libertà”, il concerto che ha celebrato i 15 anni del progetto “Musica in carcere” promosso dalla Fondazione Antonio Carlo Monzino e Milano Musica. Protagonisti sul palco la Freedom Sounds, band formata da detenuti della Casa di Reclusione di Bollate, insieme agli Eugenio in Via di Gioia e al cantante Blu (nome d’arte di Nicolò Barbini, ndr) che ha ricordato come “la musica ci fa sentire tutti uguali”. L’iniziativa è portata avanti nella Casa Circondariale di San Vittore, la II Casa di Reclusione di Milano Bollate e l’Istituto Penale per Minorenni “Cesare Beccaria” con lezioni settimanali di chitarra, basso, percussioni e pianoforte, Filippo La Mantia con la sua testimonianza sul periodo passato in carcere per un tragico errore giudiziario e la poliedrica artista e conduttrice radiofonica Rai Alma Manera, che ha anche presentato l’evento. La serata si è conclusa con un’esplosiva esibizione collettiva sulle note di “Gianna” di Rino Gaetano, tra emozione e speranza condivisa. Sciascia e il potere “terribile” dei pm di Filippo La Porta L’Unità, 14 novembre 2025 Quando un potere diventa cieco e astratto, e dimentica l’empatia per l’uomo, diventa mostruoso e disumano: così ragionava il padre del garantismo, rileggendo le pagine dell’Ivan Ilic di Tolstoj. All’inizio di un celebre saggio su Gandhi Orwell scrisse che tutti i santi sono colpevoli, fino a prova contraria. Si potrebbe parafrasarlo per definire la posizione di Leonardo Sciascia: tutti i giudici sono colpevoli, fino a prova contraria. Per la ragione che si trovano a disporre di un potere “terribile” (Montesquieu), che li eleva al di sopra di tutti gli altri uomini. Un giudice dovrebbe non tanto “godere” il potere che ha quanto “soffrirlo”. Sciascia ha affrontato questo tema anche in una pagina di Cruciverba (1983) dedicata alla Morte di Ivan Ilic di Tolstoj, dove leggiamo del paragone che sorge in Ivan Ilic, ormai sul punto di morte, tra il giudice, cioè se stesso, e il medico. “La faccia che lui faceva all’accusato, la stessa precisa faccia fece a lui il celebre medico”. Il medico lo guardava come il giudice imperscrutabile “non tenuto a render conto di nulla”. All’inizio di un celebre saggio su Gandhi Orwell scrisse che tutti i santi sono colpevoli, fino a prova contraria. Si potrebbe parafrasarlo per definire la posizione di Leonardo Sciascia sui giudici: tutti i giudici sono colpevoli, fino a prova contraria. Per la ragione che si trovano a disporre di un potere “terribile” (Montesquieu), che li eleva - realmente ma anche illusoriamente - al di sopra di tutti gli altri uomini. Un giudice dovrebbe non tanto “godere” il potere che ha quanto “soffrirlo”. La giustizia non è uno dei temi di Sciascia, ma il “suo” tema, così come il tema - poniamo - di Pasolini era il genocidio culturale degli italiani a seguito della modernizzazione. E intendo la giustizia in una sua accezione strutturale, la giustizia cioè impegnata a soprattutto a nascondere o rimuovere la propria perversa origine dalla vendetta. Sciascia ha affrontato questo tema come romanziere, come saggista, come direttore editoriale (diresse una collana Sellerio a ciò rivolta), come opinionista ed editorialista. In una pagina di Cruciverba (1983) dedicata alla Morte di Ivan Ilic di Tolstoj leggiamo che di una “mirabile, ‘avveniristica intuizione dello scrittore russo: si tratta del paragone che sorge in Ivan Ilic, ormai sul punto di morte, tra il giudice, cioè se stesso, e il medico. In che senso? “La faccia che lui faceva all’accusato, la stessa precisa faccia fece a lui il celebre medico”. Il medico lo guardava severo, e come il giudice imperscrutabile “non tenuto a render conto di nulla”. Da un lato il giudice fa astrazione dal torto e dalla ragione, gli preme solo l’affermazione della giustizia, dall’altro il medico fa astrazione dalla malattia e dalla salute poiché quello che conta è l’affermazione della medicina. L’astratto domina sul concreto. Medicalizzazione della vita e giustizialismo cancellano la concreta relazione tra gli esseri umani. Per umanizzare la cura si sono introdotte 50 anni fa negli Stati Uniti le “medical humanities”, ossia un campo interdisciplinare che unisce la pratica medica alle cosiddette scienze umane. Il loro obiettivo è sviluppare empatia, comunicazione, ascolto, oltre una visione puramente tecnica della cura: curare non solo il corpo ma la persona nella sua interezza. Si potrebbe pensare anche a delle legal humanities per dare un respiro umanistico alla formazione dei giudici, oltre ogni deriva burocratica e tecnicistica del loro ruolo, e come momento di forte responsabilizzazione. Senza empatia, comprensione ed ascolto la giustizia è vendetta legalizzata e burocrazia cieca. L’analogia tra i due diversi mestieri potrebbe continuare a lungo. Se Sciascia in una lettera inascoltata a Pertini raccomandava che i futuri giudici trascorressero tre giorni in un carcere, si potrebbe ipotizzare, analogamente, un periodo di eguale estensione per i futuri medici, da passare in un ospedale pubblico come pazienti. Sciascia, che era uno spirito laico, benché più pascaliano e giansenista - come il suo Manzoni - che volterriano (si autodefiniva “un ateo incoerente” e leggeva ogni giorno i Vangeli accanto ai suoi illuministi), sa che qualsiasi giustizia terrena, non temperata dalla pietà e dall’amore, è solo una maschera della vendetta. Perciò deve essere amministrata non solo con equilibrio e prudenza, ma soprattutto con una capacità di empatia, con un senso del tragico della condizione umana, con la consapevolezza che la verità è sempre pirandellianamente sfaccettata, e che mettere paura a un essere umano - solitario, del tutto inerme - è la cosa peggiore che si possa fargli. Il peccato più grave per Sciascia è spaventare qualcuno, intimidirlo: quello che hanno fatto i giudici con Tortora, o anche i giudici del Tribunale del popolo con Moro (aggiungo: quello che fanno spesso i medici annunciando - impassibili, in modo gelidamente neutro - diagnosi pesanti e prognosi infauste). Ora, sentimenti come l’amore o la carità cristiana non potranno mai essere formalizzati, né inseriti in un master di specializzazione. Però quel senso del tragico, quella capacità di empatia e immedesimazione nell’altro, quella consapevolezza della infermità della condizione umana, si acquisiscono attraverso una assidua frequentazione della letteratura. Per chiarire questo aspetto della riflessione di Sciascia suggerisco un accostamento a Dante, autore non estraneo al suo orizzonte. Dall’Inferno al Purgatorio avviene il passaggio dall’etica aristotelica, del mondo pagano, per la quale il valore più alto è la giustizia, e l’etica cristiana, che invece assegna un primato all’amore. La giustizia si fonda su una proporzionalità (bilancia, razionalità), l’amore - almeno inteso in senso cristiano - su una dismisura (gratuità, paradosso). Nel regno della giustizia troviamo criteri ragionevolmente proporzionali, equivalenze, diritti, pene e compensazioni, procedure. Nel regno dell’amore abita invece la misericordia, che implica una “esagerazione”, o, nelle parole di papa Francesco, “un inaudito straripamento”. I due termini - giustizia e amore - restano in Dante non del tutto conciliati tra loro, e certamente la giustizia divina, che a volte punisce chi in Terra aveva pur agito bene, avrà sempre per noi qualcosa di insondabile. Ma certo abbiamo l’obbligo di mantenere una dialettica tra i due termini. Diceva Martin Luther King che “la giustizia è amore che si organizza”. Il tema della giustizia in Sciascia si intreccia con quello del potere, il quale è sempre in qualche misura arbitrario (perciò ha bisogno di continui contrappesi), così come la giustizia è sempre inquisizione. Il che rimanda al tema squisitamente canettiano del potere e della sopravvivenza. Il potere inquisisce, è obbligato a inquisire, perché finché lo fa si sente al riparo, deve incessantemente colpevolizzare, mettere paura per non avere paura lui, interrogare per non essere interrogato nemmeno dalle proprie angosce, e dispone di cose e persone perché così si illude di essere al di sopra della vita e della morte. Il tiranno si vuole e si crede immortale. Per Sciascia mettere paura a qualcuno - lo abbiamo visto - è la cosa più abietta che si possa fare. Peggio che opprimerlo e sfruttarlo. La paura era per Hobbes la passione umana più forte: nasce da essa la necessità di un patto che fonda la convivenza civile. Attraverso questo patto si toglie la paura di essere uccisi (lo stato di natura è una guerra civile cosmica) però sostituendola con un’altra paura, quella dell’autorità costituita. Va bene, si tratta di una autorità democratica, di una sovranità non più assoluta e dinastica: ma a volte viene il dubbio che giudici e medici, nei rispettivi ambiti professionali, riescano a sottrarsi a quel patto. Se il Governo tira la giacchetta al Presidente di Franco Corleone L’Espresso, 14 novembre 2025 La sete di propaganda del Governo e della maggioranza è inesauribile. L’8 marzo era stata l’occasione per una legge sul femminicidio, il 4 ottobre per stabilire la festività nazionale in onore di San Francesco d’Assisi. Quel giorno era già prevista la solennità civile per Santa Caterina da Siena, quindi una coabitazione foriera di grande confusione che era stata inutilmente segnalata dall’ufficio studi del Senato. Purtroppo la fretta e la demagogia trovano l’accordo di tutte le forze politiche. Così il presidente Mattarella si è trovato di fronte a un pasticcio inestricabile. Ha scelto ancora una volta la strada della firma della legge con l’invio contestuale di una lettera ai presidenti delle Camere per chiedere le necessarie modifiche. Per la quinta volta è ricorso a questa pratica, spesso accompagnata da azioni di moral suasion, perché “i rilievi non riguardano profili di natura costituzionale”. Si ripropone un nodo che va chiarito per il buon funzionamento tra i poteri istituzionali. L’art. 74 della Costituzione prevede che il presidente della Repubblica, prima di promulgare una legge, possa, con un messaggio motivato alle Camere, chiedere una nuova deliberazione. Se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere obbligatoriamente promulgata. Mattarella ha confessato pubblicamente di avere adottato decisioni che non condivideva in molte occasioni, in particolare promulgando una legge che riteneva “sbagliata, anche inopportuna”, perché approvata dal Parlamento e sostiene che solo in presenza di leggi “manifestamente incostituzionali” può esercitare quella facoltà. In realtà si tratta di una interpretazione del presidente Ciampi che è diventata un’abitudine. Peraltro, ricordo che nel gennaio 2006 molti invitarono l’allora presidente a non firmare la legge Fini-Giovanardi, che segnò una ulteriore torsione proibizionista sulle droghe. Si trattava di un colpo di mano del governo con l’inserimento del testo dell’intera revisione della legge antidroga in un decreto legge sulle Olimpiadi a Torino. Invece, si è dovuto aspettare il giudizio della Corte Costituzionale nel 2014 per vedere cancellata quella legge ideologica che, come risultato, riempì le carceri di consumatori di sostanze leggere e pesanti. Questo esempio mostra che l’allora presidente avrebbe dovuto esercitare, opportunamente e in piena correttezza, i poteri previsti dalla Costituzione. Mattarella sostiene che, con il potere di non promulgazione, c’è il rischio che il presidente assuma un ruolo politico o che invada la funzione della Corte Costituzionale. Sul primo punto si può obiettare che la sollecitazione al Parlamento di riflettere attraverso un messaggio motivato ha un carattere istituzionale e comunque lascia il Parlamento libero di votare nuovamente il testo; sul secondo punto va precisato che la Consulta può intervenire solo nel caso in cui venga sollevata una eccezione, dopo che gli effetti deleteri di una legge incostituzionale si sono manifestati. Che il problema esista è testimoniato dalla novità introdotta da Napolitano: la promulgazione “con dissenso”, una pratica che però non risolve il problema. In conclusione: meglio tornare al dettato della Costituzione e adottare la frase di Franco Basaglia E mi no firmo, quando si rifiutò di avallare le contenzioni nel manicomio di Gorizia. Uno spettro si aggira a sinistra: lo spettro della sicurezza di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 14 novembre 2025 Giuseppe Conte si accorge che le città italiane sono insicure, e ripesca il vecchio armamentario giustizialista, mai del tutto dismesso, della forza politica di cui è il leader. Il primo segretario del Pd, Walter Veltroni, ormai editorialista, lancia la parola d’ordine libertà uguale sicurezza sulle colonne del Corriere della Sera. Anche la segretaria attuale del Pd, Elly Schlein, su richiesta di alcuni amministratori, riapre il tema della sicurezza, da oggi a Bologna. “Con la sicurezza si vince, o si prendono voti”. Questo è il mantra che si ripete a sinistra, guardando gli exploit realizzati in passato dalla Lega e da FdI. Ad essere troppo buonisti con migranti, rom, senzatetto, sex workers, attivisti, si perderebbero le elezioni. Ma davvero la questione della sicurezza non è mai stata affrontata dalla sinistra? E, soprattutto: si può davvero affermare che, fuori dalla destra, il securitarismo non abbia mai attecchito? A svolgere un’analisi diacronica accurata, emerge una realtà di tutt’altro tipo. I temi della sicurezza, per la prima volta, vennero declinati proprio a sinistra. Alla metà degli anni Novanta. E non in maniera conforme al clima apocalittico alimentato a livello mediatico e fatto proprio dalla destra. Piuttosto, attraverso riflessioni, analisi, comparazioni con altri contesti nazionali, elaborazioni di politiche che non lasciassero il tema della sicurezza in mano a chi faceva del binomio legge e ordine il proprio viatico. Proprio a Bologna, nel 1995, sotto l’egida dell’amministrazione regionale, il compianto Massimo Pavarini riunì in un comitato scientifico studiosi del calibro di Sandro Baratta, Dario Melossi, Beppe Mosconi, Tamar Pitch ed altri proprio per approfondire le tematiche inerenti alla sicurezza. Parliamo dell’esperienza di Città Sicure, che produsse materiale di spessore sia sotto il profilo accademico che sotto l’aspetto delle politiche pubbliche, che vennero purtroppo ignorate. Il comitato scientifico insediato fece propria, dopo una serie di compromessi, la formula crime matters (la criminalità è rilevante) elaborata dai realisti di sinistra inglesi negli anni Ottanta. Partendo dall’assunto che i fenomeni criminali preoccupassero innanzitutto la classe operaia, i left realists proposero politiche alternative, in grado di coniugare la domanda di sicurezza col contenimento dell’ideologia punitiva. Città Sicure si incamminò su questo percorso, a partire da una disamina della realtà che andasse oltre i dati eviscerati dalle statistiche. Si diede vita così ad una stagione di ricerca intensa, fatta di focus group, interviste in profondità, questionari semi strutturati, che coinvolgevano innanzitutto la cittadinanza, ma cercavano un’interlocuzione anche negli amministratori locali. I quali, dopo la riforma elettorale che conferiva un ruolo centrale ai sindaci, diventavano allo stesso tempo i destinatari della domanda di sicurezza e i veri e propri stakeholders delle politiche locali. Le ricerche si spinsero fino a realizzare interviste conoscitive con migranti e venditori ambulanti, spauracchi del securitarismo. I risultati, tuttora reperibili nei Quaderni, proponevano l’elaborazione e l’implementazione di politiche di sicurezza partecipate, che coinvolgessero tutti gli attori dello spazio urbano, e favorissero, almeno in parte, una ricomposizione del tessuto sociale sfrangiato dall’avvento del post-fordismo. Per i consumatori di sostanze e per le sex workers, per esempio, si propose di attuare le politiche di riduzione del danno, potenziali incubatrici di una sicurezza ad ampio raggio e di politiche pubbliche alternative in materia di sostanze e prostituzione. Città Sicure si mosse all’interno dei confini tracciati da Sandro Baratta, che invitava a non anteporre il diritto alla sicurezza alla sicurezza dei diritti. Tuttavia, la scelta di inseguire la destra sul terreno della sicurezza, dal momento che la Lega, come si disse, era una costola del movimento operaio, portò a una liquidazione spiccia e ingiustificata del comitato scientifico. Si preferirono i dati grezzi, elargiti con fare prodigo e semplicistico da altri studiosi di centrosinistra, che si definivano più moderati, e si fermavano alla statistica che mostrava, per esempio, come gli immigrati delinquessero di più degli italiani. Da lì scaturì il pacchetto sicurezza del 2001, o l’istituzione dei Gom che si fecero conoscere a Genova. Per approdare agli accordi con la Libia sui respingimenti dei rifugiati. Prodotti del centrosinistra, nel tentativo disperato e malriuscito di oscurare la destra. Eppure, come chi è stato a scuola sa bene, quando si copia un compito, e l’insegnate ti interroga per sapere se è farina del tuo sacco, il bluff viene subito a galla. Non a caso ci ritroviamo la destra al governo con tanto di decreti anti-rave e sicurezza e un ennesimo e disegno di legge sicurezza in carniere. Copiare non conviene. Meglio riprendere dalla sicurezza dei diritti. Opposizioni tentate dalla “sicurezza”. Conte spinge, Schlein chiama i sindaci di Giuliano Santoro Il Manifesto, 14 novembre 2025 Il riflesso automatico dell’“emergenza”: in passato l’invocazione tattica dell’ordine pubblico ha spianato la strada alla destra. La ciclica “emergenza sicurezza” aleggia di nuovo nel dibattito politico italiano. La agita, come è noto, la destra, che con il passepartout della retorica securitaria ha fatto passare il ddl poi divenuto decreto chiamato, appunto, “sicurezza”. Dopo il quale, a colpi di annunci roboanti, Fratelli d’Italia e Lega si stanno sfidando a chi la spara più grossa, promettendo sfratti brevi, caccia ai maranza, cittadinanze ritirate e via reprimendo. Tuttavia, rischia di succedere che anche nel campo avverso l’emergenza riprenda a strisciare. Si tratta di un riflesso pavloviano. Negli anni del ventennio berlusconiano capitò a più riprese che gli esponenti e ministri del centrosinistra scegliessero di sposare questi temi per “sottrarli alla destra”: era il periodo del dibattito sulla “insicurezza percepita”, visto che i numeri dicevano che i reati andavano calando da anni. Fu Walter Veltroni, ad esempio, che da segretario dell’appena nato Partito democratico, era il tempo della “vocazione maggioritaria” e sulla scia di un terribile fatto di cronaca (il femminicidio di Giovanna Reggiani) disse che la sicurezza non era “né di destra né di sinistra”, anticipando di qualche anno la formuletta post-ideologica di Grillo&Casaleggio. E dopo fu Marco Minniti, da ministro dell’interno del governo Gentiloni, a varare i Daspo, le espulsioni amministrative dai centri urbani che oggi vengono cavalcate da Piantedosi e Meloni. Adesso, complici alcuni dati forniti dal Viminale, le opposizioni tornano alla carica. Lo fa ormai da un po’ Giuseppe Conte, che qualche giorno fa ha denunciato l’allarme sbarchi di migranti sulle nostre coste. Ieri il leader pentastellato ha alzato ancora un po’ l’asticella, dichiarando l’esistenza di una “emergenza sicurezza”: “Stanno aumentando furti, scippi, rapine - dice Conte - Il governo che non si sta rendendo conto che tra le tante emergenze c’è anche quella sulla sicurezza”. Il Pd oggi chiama a raccolta i suoi sindaci a Bologna. Si parlerà anche di questo. Il responsabile sicurezza Matteo Mauri punta il dito contro il governo che “continua a moltiplicare i reati e ad aumentare le pene, anche se la realtà ci dice che i cittadini non sono più sicuri”. Per Mauri, “bisognerebbe investire su prevenzione, coesione sociale e sostegno alle forze dell’ordine” ma l’esecutivo “continua a cercare capri espiatori e a scaricare le responsabilità sugli enti locali, un atteggiamento inaccettabile anche dal punto di vista istituzionale”. Vito Leccese, sindaco di Bari, indica una strada che non passa per la repressione: “Occorre ridare luce a strade e piazze, sostenere il commercio di vicinato, creare occasioni di socialità funziona molto più di certe scorciatoie narrative”. La destra sta pensando di dare la pistola taser, che in questi anni di sperimentazione ha fatto diverse vittime, anche alla polizia municipale: “Mancano organici adeguati, non abbiamo accesso ai piani informativi delle altre forze dell’ordine, gli operatori lavorano con un ordinamento fermo a 40 anni fa e senza una formazione completa. Come possiamo pensare una cosa del genere? Prima servono regole, risorse e strumenti”. Poi c’è la sindaca di Genova Silvia Salis, che raccoglie attorno a sé i riformisti e che ieri è intervenuta sul tema all’assemblea annuale di Anci a Bologna per scongiurare che tutte le responsabilità vengano accollate agli enti di prossimità. “I dati del Viminale dicono che la microcriminalità da strada è cresciuta del 3,4% nel 2023 rispetto al 2019, quindi pre-pandemia, e dell’1,7% nel 2024 ed è quella che fa sentire insicure le persone - ha spiegato Salis - Da questo governo ci aspettavamo di più: il 70-80% delle grandi città che vogliono essere fatte passare come insicure sono amministrate dal centrosinistra ma sono insicure perché hanno i problemi di tutte le città grandi. Non è che se domani arriva il centrodestra il problema di sicurezza a Milano, Napoli, Firenze, Bologna, Torino, Bari, Genova si risolve”. Dal rischio emergenzialista non è completamente immune neppure Avs. Il deputato napoletano Francesco Emilio Borrelli, esponente di Europa Verde, utilizza abitualmente i social per puntare il dito su piccoli fenomeni di degrado. Ricorda un po’ lo YouTuber Cicalone, che si aggira, a volte in compagnia di lottatori palestrati, per le periferie e le linee romane della metropolitana di in una specie di safari alla ricerca di borseggiatori e attentatori del decoro. L’altro giorno è stato aggredito. E ha riscosso la solidarietà di tutto l’arco parlamentare. Ddl sicurezza e canapa light, deciderà la Corte di giustizia Ue di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 novembre 2025 La Sesta sezione del Consiglio di Stato ha infatti rinviato alla Corte di Giustizia europea le norme italiane che impongono il divieto di produzione, commercio e importazione delle infiorescenze della canapa non psicoattiva e derivati. Un barlume di speranza si apre per i coltivatori di canapa italiani, e anche per la filiera della cannabis light (Thc sotto lo 0,2%). La Sesta sezione del Consiglio di Stato ha infatti rinviato alla Corte di Giustizia europea le norme italiane che impongono il divieto di produzione, commercio e importazione delle infiorescenze della canapa non psicoattiva e derivati, in aperta contraddizione con le regole della Politica Agricola Comune (Pac) dell’Unione europea. Si tratta in particolare dell’articolo 18 del decreto Sicurezza, convertito in legge nell’aprile scorso, che interviene sulla precedente legge 242 del 2016 con cui si intendeva promuovere la produzione della canapa industriale. Il caso riguarda l’azienda agroalimentare di Cosenza, Jure, che già nel 2022 aveva opposto un primo ricorso contro il decreto ministeriale sulle piante officinali del governo Draghi, secondo il quale la filiera di trasformazione di alcune parti della canapa ricadeva sotto la legislazione sulle droghe (309/90). Il Tar del Lazio diede ragione all’azienda e annullò il decreto per incompatibilità con la legge 242/2016 e con le norme europee. Ma il governo Meloni fece appello al Consiglio di Stato e rincarò la dose con il dl Sicurezza. Ora i giudici amministrativi si rivolgono alla Corte Ue affinché valuti se le leggi italiane in materia sono in linea con le politiche europee. Nell’ambito delle quali, infatti, non vi è alcuna distinzione tra le diverse parti della canapa sativa. E nell’iter di revisione del nuovo Pac che entrerà in vigore nel 2028, la commissione Agricoltura ha approvato un emendamento che legalizza su tutto il territorio comunitario l’intera filiera industriale. Mentre il Parlamento Ue, che ha riconosciuto l’intera pianta come prodotto agricolo, ha anche chiesto di stabilire una soglia unica di Thc (il principio attivo della mariuana) per tutti gli Stati membri, e di innalzarlo allo 0,5%. In Italia la filiera vale oggi mezzo miliardo di euro, con tremila aziende e trentamila posti di lavoro. Migranti. Cpr in Albania, Meloni: “Non è colpa mia se non funzionano” di Michele Gambirasi Il Manifesto, 14 novembre 2025 Vertice a Roma con il premier albanese Edi Rama: al centro l’ingresso nell’Ue e gli affari. La premier promette: “Con il Patto asilo finalmente funzioneranno”. “Quando entrerà in vigore il nuovo Patto Ue i centri in Albania funzioneranno, come dovevano funzionare all’inizio”. Undici mesi dopo averlo sillabato ad Atreju, il punto per la presidente del Consiglio Giorgia Meloni è rimasto lo stesso: la misura più emblematica del programma dell’esecutivo in materia di immigrazione non resterà incompiuta, costi quel che costi. Ieri lo ha ripetuto al termine del vertice intergovernativo tra Italia e Albania, tenutosi a Roma. Una “giornata storica”, la hanno definita Meloni e il suo omologo Edi Rama, con al centro una quindicina di accordi tecnici e ministeriali firmati tra i due paesi, dalla difesa alle infrastrutture, cultura ed energia. Insieme ai ministri dei due paesi erano presenti anche i vertici delle società interessate dagli accordi: Sace, Cassa depositi e prestiti, Leaonrdo, Simest. Convitati di pietra, inevitabilmente, i centri di Shengjin e Gjader, tutt’ora fermi al palo e riconvertiti in Cpr per evitare di staccare la spina prima ancora che avessero preso vita. “Abbiamo fatto discutere in questi ultimi due anni per il nostro protocollo. Perché quello che è stato dimostrato all’atto della firma di quel protocollo è che l’Albania si comporta già come una nazione membro dell’Unione europea, capace di una solidarietà con i Paesi con i quali coopera che di rado si è vista”, ha detto Meloni in conferenza stampa. Lo status di “nazione europea”, assieme al cospicuo giro di affari, è tra quelli che più interessano a Edi Rama e al paese delle aquile. Ovvero la garanzia che il processo di adesione all’Ue, avviato nel 2009 e giunto ai suoi capitoli tecnici, non subisca intoppi: garanzia che Meloni è stata pronta a mettere, giudicando il processo non come un “allargamento” ma una “riunificazione” dell’Europa. Processo che Meloni ha detto che vorrebbe vedersi concludere all’inizio del 2028, semestre durante il quale la presidenza di turno del Consiglio europeo spetterà all’Italia. Data in cui, ha promesso Rama, Giorgia Meloni sarà ancora premier: “Ridete, ridete”, ha risposto a chi faceva notare che di mezzo ci saranno le elezioni. È la “relazione speciale” tra i due, che passa per Shengjin e Gjader prima di ogni altra cosa. “Non tutti hanno compreso allo stesso modo la validità di questo modello, in molti hanno lavorato per frenarlo o per bloccarlo, ma noi siamo determinati ad andare avanti, perché questo meccanismo, dal nostro punto di vista, ha il potenziale di modificare l’intero paradigma nella gestione dei flussi migratori”, ha proseguito Meloni. Rispetto al passato, insieme all’attacco ai giudici colpevoli di aver bloccato i centri per le procedure accelerate di frontiera, c’è l’ammissione del tempo perduto in un investimento che al momento non ha dato alcun frutto. “Se sono stati bloccati dei trasferimenti migranti ritenendo che Bangladesh e Tunisia non fossero paesi sicuri, dal momento che la proposta della Commissione europea per la lista dei paesi sicuri annovera Bangladesh e Tunisia, è lecito sospettare che queste motivazioni avessero ragioni di carattere diverso. All’entrata in vigore del nuovo Patto immigrazione e asilo i centri funzioneranno e avremo perso due anni, la responsabilità non è la mia”, ha attaccato ancora Meloni riferendosi alla sentenza della Corte di giustizia europea del primo agosto. IN OGNI CASO, il funzionamento dei centri per le procedure di frontiera o come return hubs già da giugno 2026, secondo il nuovo Patto immigrazione asilo, non è né scontato né automatico. Sia perché i centri dovranno in ogni caso rispettare le norme internazionali circa la violazione dei diritti umani, tra cui quella sul principio di “non respingimento”. Sia perché rimangono dei punti interrogativi sull’interpretazione dei giudici alla nozione di “paese sicuro”, nonostante le nuove regole. “L’Albania non è colpa mia, dice Meloni. Dice che ognuno si assumerà le proprie responsabilità. Ognuno tranne lei, perché la colpa del fatto che hanno fallito, e hanno costruito centri inumani, illegali e peraltro rimasti vuoti è della presidente del Consiglio che, ogni tanto, dopo tre anni che governa, potrebbe prendersi delle responsabilità”, ha risposto la segretaria dem Elly Schlein. A ruota va anche il leader M5S Giuseppe Conte, in linea con le esternazioni in tema di sicurezza degli ultimi giorni: “Occorre riprendere quei soldi e metterli nelle nostre strade per renderle sicure. Strade dove mancano 25mila tra carabinieri e poliziotti e, soprattutto, bisogna dedicarsi alla redistribuzione europea perché, nel frattempo, con questi fallimenti abbiamo avuto 300mila migranti sbarcati in Italia e che rimangono qui”. Sui Centri migranti in Albania Meloni non molla: “Tra due anni funzioneranno” di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 14 novembre 2025 Giorgia Meloni non intende mollare sui centri migranti in Albania e lo ha ribadito di fronte all’esecutivo di Tirana, ieri a Roma per il vertice intergovernativo. Accanto al premier Edi Rama, la presidente del Consiglio ha rivendicato una scelta che considera strategica e ha denunciato apertamente chi, in questi mesi, avrebbe tentato di frenarla. “Tanti hanno lavorato per bloccarlo”, ha affermato, lasciando intendere una resistenza interna che non ha mai smesso di ostacolare il progetto. Ma il governo, ha assicurato, è determinato ad andare avanti comunque. Per Meloni, l’intesa con Tirana non è soltanto un accordo bilaterale: rappresenta un “modello innovativo” che può cambiare la gestione dei flussi a livello europeo. Lo ha ripetuto più volte, sottolineando come numerosi Stati Ue stiano già osservando con interesse l’esperimento italiano e, in alcuni casi, tentando di entrare nella stessa iniziativa. “Il primo ministro Rama è testimone”, ha insistito la premier, convinta che il protocollo possa diventare un precedente destinato a fare scuola. Il nodo, però, resta il ritardo accumulato. I centri in Albania non hanno mai avviato le attività per come immaginato, e Meloni individua con precisione i responsabili: chi ha bloccato i trasferimenti giudicando Bangladesh e Tunisia come Paesi non sicuri, una decisione che la premier considera del tutto incoerente rispetto alla lista europea dei Paesi sicuri. “Per quale motivo è stato fatto? - domanda - È legittimo sospettare motivazioni di altro tipo”. Il riferimento è chiaro: ci sono stati, secondo Meloni, ostacoli posti da chi non ha mai creduto davvero nel protocollo. Ora, però, la presidente del Consiglio guarda avanti. Con l’entrata in vigore del nuovo Patto Ue su migrazione e asilo, prevista tra due anni, i centri funzioneranno “esattamente come avrebbero dovuto dall’inizio”. Il ritardo è già scritto, avverte, ma la responsabilità non è del governo: “Arriveremo due anni dopo, e ciascuno dovrà assumersi le proprie responsabilità”. L’obiettivo politico è rilanciare l’immagine del protocollo come soluzione futuribile, in linea con la nuova architettura europea sulla gestione dei flussi. In una fase in cui l’immigrazione torna a dividere la politica italiana, Meloni trasforma il vertice con Rama in un banco di prova della propria narrativa: un progetto avversato in patria ma corteggiato all’estero, ostacolato negli uffici ma promosso come avanguardia europea. E ribadisce ancora una volta che, nonostante resistenze e freni, il governo non intende arretrare di un millimetro. Migranti. Le tecniche di narrazione della premier sul caso Albania di Lina Palmerini Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2025 Meloni camuffa il fallimento dell’accordo con l’Albania sul trasferimento degli immigrati. Nel grande allestimento del vertice intergovernativo tra Italia e Albania, un insuccesso è finito sullo sfondo. In effetti, tra i meriti ascrivibili a Meloni ci dovrebbe essere anche quello di camuffare i bersagli mancati quale è stato quello dell’accordo con Rama sul trasferimento di immigrati illegali nei centri albanesi. Due anni di travagli, molte centinaia di milioni di soldi pubblici spesi, per poi essere trasformati in centri (vuoti) per clandestini espulsi con numeri assai esigui. Va detto che ieri la premier non ha nascosto il fallimento, che però ha avuto l’abilità di tramutare in una nuova promessa postdatando il “funzioneranno” che tanto era diventato virale e convincente. In particolare, ha detto che tutti “conosciamo le ragioni per le quali il protocollo non ha funzionato” ma che “funzionerà quando entrerà in campo il nuovo Patto di migrazione e asilo” e che la responsabilità “non è la mia ma arriveremo, due anni dopo, a fare ciò che potevamo fare due anni prima”. Sono dichiarazioni da analizzare con il manuale del bravo comunicatore e funziona così: che si fa fare un giro alla narrazione di 360 gradi per ritornare al “funzioneranno” ma con una nuova scadenza. A questo punto c’era chi - ancora ieri - si chiedeva come mai l’opposizione non riesca a inchiodare Meloni come pure hanno provato a fare Schlein e Conte. “Per la prima volta Meloni ammette che abbiamo perso due anni in Albania, questi centri non stanno funzionando, si è sprecato un miliardo”. Questo l’affondo del leader dei 5 Stelle che è più interessante perché lui parla di una storia che conosce. Nel senso che sa bene come la destra sia imbattibile sul fronte sicurezza e immigrati. Lo sa perché, insieme ai 5 Stelle di quella stagione, è stato il primo sconfitto da Salvini quando nel governo giallo-verde raggiunse l’apice della popolarità grazie a quella bandiera. E grazie al fatto che riuscì a portare gli sbarchi in cima all’agenda del Paese, intestandosi una battaglia su cui i grillini erano totalmente scoperti. Non erano quelli i punti forti del Movimento mentre lo era la sicurezza per il capo della Lega. Ecco, a distanza di tempo la sinistra non ha fatto passi avanti nel recuperare credibilità ma sembra ancora molto a disagio a trattare il dossier. Di contro si potrebbe dire che le stesse difficoltà le sconta Salvini con Meloni che gli ha scippato, quella bandiera tanto preziosa. E anche se il leader del Carroccio prova a riprendersela annunciando un nuovo decreto, pare che la premier lo faccia parlare e basta. Di una nuova legge sembra non ci sia traccia tra Viminale e Palazzo Chigi. Il popolo della pace non si vuole arrendere: “Fermiamo le armi” di Elisa Campisi Avvenire, 14 novembre 2025 Da Milano a Iglesias, Cameri e Viterbo, fino a Strasburgo: sono alcune delle tappe per la nonviolenza e il disarmo, nei territori e nei luoghi di lavoro. Lo abbiamo visto marciare nei cortei e riunirsi nelle piazze. Lo abbiamo visto persino solcare i mari, come nel caso della Flotilla. Ormai lo sappiamo: il popolo della pace non è disposto ad arrendersi di fronte alle ingiustizie dei nostri tempi. Lo sta dimostrando con iniziative diverse in tutti i territori, a volte in modi più eclatanti, come le manifestazioni, altre volte scegliendo il silenzio, come succede per esempio in piazza Duomo a Milano, dove per un’ora al giorno, da cinque mesi ormai, si ritrovano comuni cittadini con cartelli in mano che chiedono la pace in Palestina. In questa mappa della solidarietà e della partecipazione ci sono anche tante realtà e persone che ogni giorno organizzano incontri o progetti per contrastare il bellicismo e aiutare le popolazioni afflitte dalla guerra. Succede per esempio a Iglesias, in Sardegna, dove oggi arriva una delle oltre 50 tappe della “Carovana per un’economia di pace”, un’iniziativa promossa da Sbilanciamoci! e Rete Pace e Disarmo in diversi luoghi in cui si vive direttamente l’impatto delle scelte giustificate dall’idea che la guerra faccia bene all’economia. A ricordarci perché Iglesias è uno di questi luoghi emblematici è Carlo Cefaloni - del gruppo di lavoro “Economia Disarmata” del Movimento Focolari Italia - che lì ha organizzato l’evento centrato in parte sulla formazione dei giornalisti rispetto a questi temi, in parte su laboratori che metteranno in contatto cittadini, università, mondo della ricerca e imprese che vogliono allearsi per creare un’alternativa all’economia di guerra. “Iglesias è l’unica realtà dove la mobilitazione è riuscita a far applicare davvero la legge 185 del 90 sul controllo del transito di armi, bloccando dal 2019 al 2023 l’invio verso l’Arabia Saudita di bombe e missili prodotte nella zona. Oggi molti sardi in quel territorio stanno continuando a dire no, rifiutando l’ampliamento della fabbrica di bombe”, racconta. Ma per contrastare davvero l’economia di guerra, continua, bisogna mostrare che un’alternativa esiste e crea anche molti più posti di lavoro e ricchezza da ridistribuire: “È quello che stiamo provando a fare mettendo per esempio in evidenza durante l’evento l’esperienza di “Warfree”, una rete di imprese sarde che ripudiano la guerra, offrendo prodotti, servizi e posti di lavoro alternativi a quelli dell’industria delle armi”. Il desiderio di andare oltre la retorica e al contempo abbattere quelle narrazioni che favoriscono l’immaginario belligerante è condiviso da don Renato Sacco, consigliere nazionale di Pax Christi che da anni critica la produzione di F-35, assemblati vicino al paese in cui abita, a Cameri (Novara), dove sempre a novembre arriverà un’altra tappa della Carovana dedicata proprio agli F-35 e al disarmo. Anche Cameri è un luogo significativo: “Per molti anni è stato l’unico posto fuori dagli Stati Uniti in cui si assemblano F-35, ora si è aggiunto il Giappone”. Per don Renato “stiamo già assistendo a un crescere di piccole industrie e fabbriche magari in crisi che si convertono dal civile al militare”. L’esempio di Cameri però può insegnarci l’impatto reale che l’economia di guerra ha su un territorio e i suoi cittadini: “Ognuno di questi aerei costa circa 150 milioni di euro, ma è abbondantemente documentato che le spese sul settore delle armi rendono meno di altri alla società. Inoltre, a Cameri come a livello nazionale, la logica della guerra è alimentata da una propaganda travolgente, totalmente montata sul mito dell’innovazione tecnologica e dell’occupazione. Persino a scuola, a Novara, agli studenti che si diplomano con i voti più alti viene prospettata l’idea affascinante di andare a lavorare a Cameri per pilotare un aereo che può andare a 2000 km/h”. Di come il mondo del lavoro può giocare un ruolo nel contrasto all’economia di guerra ci ha parlato anche il vicepresidente delle Acli, Pierangelo Milesi, che nel sindacato ha la delega sulla pace ed è il responsabile di “Peace at Work - L’Italia del lavoro costruisce la pace”, un’iniziativa con più di 72 appuntamenti in giro per l’Italia che culminerà a Strasburgo il 15 dicembre con la consegna di un appello alle istituzioni dell’Unione Europea: “Il manifesto che presenteremo si sta costruendo tappa dopo tappa sulla base delle indicazioni che arrivano dai lavoratori e le lavoratrici che stiamo incontrando, ma il messaggio che emerge è già chiaro, e cioè che non è con il riarmo dei singoli Stati e con la logica della deterrenza che si costruisce la pace”. La si può costruire, invece, dal basso. Le questioni legate alla giustizia sociale stanno rientrando dunque nelle fabbriche, e non solo, anche attraverso le iniziative di “Peace at Work”, che vanno dagli incontri che favoriscono il confronto sui temi del pacifismo alle esperienze più artistiche e culturali, come spettacoli teatrali sullo stesso argomento, “il tutto sempre nel tentativo di rendere le persone più consapevoli delle conseguenze dell’economia di guerra in cui siamo immersi”. Il fronte della solidarietà “alternativo alle manifestazioni di piazza” ci viene illustrato infine da Enrico Coppotelli, segretario della Cisl del Lazio, che racconta in quali attività nella sua regione si è declinata l’iniziativa nazionale del sindacato intitolata “Maratona per la pace”, che si conclude domani a Roma: una raccolta fondi a favore della Croce Rossa Italiana per contribuire alla protezione delle vittime del conflitto a Gaza. “Siamo andati nei territori costruendo occasioni diverse di raccolta fondi e partecipazione - spiega -. Tra queste, per esempio, c’è stato un concerto a Rieti, un bellissimo evento che con oltre 450 persone nel pubblico ha dato ancor più il senso di quanto la musica riesca a unire realtà molto diverse su un tema però comune che è la pace, la solidarietà”. Una partecipazione entusiasta che la Cisl del Lazio sta raccogliendo nei modi più diversi, dal torneo di padel a Viterbo a una maratona vera e propria di 6 km a Latina: “Le persone non solo hanno potuto donare del tempo a questa causa, ma anche scegliere che contributo economico dare a seconda delle proprie possibilità. Il merito di questo tipo di eventi è anche che generano una circolarità, dalla parte epidermica del “voglio partecipare” alla parte concreta del “ho partecipato e ne vedo anche il frutto”. Le iniziative raccontate sono solo la punta dell’iceberg della mobilitazione in corso e mostrano come la ricerca della pace in Italia non si fermi alla protesta, ma si articoli attraverso proposte concrete di riconversione economica, rifiuto del riarmo e raccolta di risorse a sostegno delle vittime dei conflitti. Sono tutte espressioni di una resistenza che cerca di contrastare l’idea diffusa che non si possa fare niente per cambiare lo stato delle cose, di superare coi fatti quella “globalizzazione dell’impotenza” verso la quale già papa Francesco, e ora papa Leone, ci hanno messo in guardia. Alberto Trentini in prigione da un anno, ora governo e società civile si decidano a intervenire di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 14 novembre 2025 Il cooperante italiano è stato arrestato in Venezuela il 15 novembre 2024: da allora è recluso vicino a Caracas. Da innocente. Difficile l’interlocuzione con Maduro, che vuole dall’Italia un riconoscimento politico. Ma il caso non sta suscitando clamore nella società civile, che resta in silenzio. C’è un italiano con una bella faccia buona che ha dedicato la vita a dare una mano a chi soffre e che domani, sabato 15 novembre, compie il suo primo anno da prigioniero innocente in un carcere di Caracas. E la cosa ancora più angosciante è che questa detenzione lunghissima e assurda sembra non smuovere coscienze, proteste, indignazioni istituzionali o popolari. Anche l’informazione latita, salvo rare eccezioni e come tali poco influenti. Eppure il nostro connazionale Alberto Trentini da Venezia, 46 anni, cooperante di professione, è scomparso in un buco nero del Venezuela, prelevato a un posto di blocco esattamente il 15 novembre 2024, trasferito nella prigione infernale di El Rodeo, e lì resta, circondato da guardie brutali e da una indifferenza nazionale che nessun altro italiano finito in mani straniere ha come lui patito. Nessuno, nessuna. L’urgenza di un intervento del governo - Perché? Che cosa impedisce una collettiva presa di coscienza che spinga il governo a fare il possibile e l’impossibile per mettere fine a questo sfregio alla sopravvivenza di una persona perbene e all’onorabilità di una nazione chiamata per dovere a tutelare i propri cittadini? Il dottor Trentini, laureato in Storia a Ca’ Foscari, master in assistenza a Liverpool e in sanificazione dell’acqua a Leeds, decine di esperienze sul campo (tra cui Ecuador, Etiopia, Paraguay, Nepal, Perù), era in Venezuela da ottobre, coordinatore di una ong francese, “Humanity and Inclusion”, dedicata agli aiuti alle persone con disabilità. Motivi del suo arresto, 365 giorni fa? Ufficialmente zero. Tranne uno, indicibile: Alberto è l’unico italiano, tra i sessanta “prelevati” in una terra oltre l’orlo dell’abisso, che abbia soltanto la nostra cittadinanza. Questo fa di lui una merce di scambio preziosa nei confronti di un Paese, il nostro, “colpevole” di non aver riconosciuto come legittime le contestatissime elezioni che nel 2024 hanno confermato al comando del Venezuela Nicolás Maduro Moros, ex autista di bus passato a dirigere un sindacato e poi assurto alla presidenza per la prima volta nel 2013. Inseguito da un’accusa Onu di crimini contro l’umanità, persecutore di ogni opposizione, Maduro è anche il protagonista del tracollo economico e sociale (5 milioni di migranti per disperazione su 28 milioni di abitanti) di quella che lui stesso ha ribattezzato Repubblica Bolivariana. E il povero Simón Bolivar, liberatore del Venezuela dall’occupazione spagnola, forse non gradirebbe. Un interlocutore difficile e il “fattore Trump” - Un interlocutore, dunque, non facile con cui trattare. A fine agosto, però, alcuni italo-venezuelani sono stati rilasciati, e anche qualche detenuto americano e svizzero. La pressione internazionale qualche effetto lo produce. Tranne che per Alberto Trentini. E allora diventa indispensabile chiedersi dove stiamo sbagliando, se ci stiamo impegnando abbastanza per lui, qual è la cosa che si deve assolutamente fare prima che diventi troppo tardi, specie adesso che Trump ha messo Maduro nel mirino, muovendo in direzione Caraibi nientemeno che la Uss Gerald Ford, la più grande portaerei degli Stati Uniti. Se davvero si passerà allo sbarco, che ne sarà del destino di un cooperante dimenticato dal suo stesso Paese? C’è sempre stato un buon motivo per accantonare il caso Trentini. All’inizio, la richiesta del silenzio da parte del ministro degli Esteri Tajani “per non pregiudicare le trattative”. Quali non è dato sapere, visto che soltanto a fine luglio, nove mesi dopo la cattura, è stato nominato un inviato speciale per i detenuti politici in Venezuela, Luigi Maria Vignali. Vero, ci sono state le telefonate private tra Giorgia Meloni e la signora Armanda, madre di Alberto. Ma fino a settembre la nostra presidente del Consiglio ha ritenuto di non dover pronunciare il suo nome: Trentini, Alberto Trentini. E questo nonostante le ripetute richieste di attenzione dei suoi genitori, Armanda e Ezio, degli amici veneziani che da mesi digiunano a staffetta, delle decine di migliaia di firme per il suo rilascio raccolte da Change.org, dell’avvocato Alessandra Ballerini, la stessa che da nove anni segue la strenua battaglia di Paola e Claudio Regeni per avere giustizia sull’atroce fine del loro Giulio. L’appello dei genitori di Giulio Regeni - Proprio i Regeni sono andati, primi a farlo, da Fabio Fazio a Che tempo che fa per lanciare, dall’alto del loro magistero di dolore, un appello: “Chiediamo che il governo si dia una mossa. Vogliamo che questo giovane italiano torni a casa. E venga rispettato come portatore di pace”. Era febbraio, appello non raccolto. Chi è il portatore di pace dimenticato a Caracas, descritto da chi l’ha conosciuto come accogliente, preparato, spiritoso, l’ha raccontato a più riprese mamma Armanda, sempre da Fazio e a Il cavallo e la torre di Marco Damilano: “Un bravo ragazzo, che ha scelto di girare dappertutto per aiutare gli altri. L’estate del 2024 però non si è mosso, papà Ezio si era ammalato e lui voleva che la situazione fosse più tranquilla prima di ripartire... Quando me l’hanno fatto sparire, ho scritto al Presidente Mattarella: si è fatto vivo e io mi sono scusata di averlo disturbato. Mi ha detto di avere fiducia”. Ma anche la fiducia ha un tempo di scadenza. Però lei, almeno lei, tiene viva la fiammella della speranza. Una volta alla settimana va a controllare la casa veneziana del figlio, perché sia tutto in ordine quando tornerà. La consolazione sono le tre telefonate che Alberto è riuscito a farle in questo anno disperante: si è preoccupato di rassicurarla sulla sua salute, dicendole che ha anche smesso di fumare, ha chiesto notizie del padre, si è premurato di ricordare di non toccare la macchina perché è scaduta la data del tagliando per la revisione. Poi c’è stata la prima visita in carcere del nostro ambasciatore, Giovanni Umberto De Vito, e la fiammella si è di colpo riattizzata. Poi più niente fino a oggi. Un impegno umanitario per cui battersi - Non è vero che chi salva una vita salva il mondo. Ma è vero che non salvare una vita salvabile è una macchia che non va più via. Vale per uno Stato, e forse in questo caso vale anche per ciascuno di noi, che abbiamo “nazionalità italiana” sul passaporto. Alberto Trentini rappresenta l’Italia solidale, quella che non si tira indietro davanti a chi ha bisogno. Per non fare passare invano questi 365 giorni di male, forse avrebbe senso che i nostri Comuni, vicino a “Giustizia per Giulio Regeni”, esponessero lo striscione “Libertà per Alberto Trentini”. Storie diverse, stessa passione di andare di persona incontro al mondo per raccontarlo, per aiutarlo, perché non l’abbiano vinta i distruttori di umanità e di pace.