Costruiamo un carcere “normale” di Elisa Chari Famiglia Cristiana, 13 novembre 2025 Colloquio con Luigi Pagano, una lunga esperienza da direttore nelle carceri. Qualche anno fa a Fossombrone, nel corso di un incontro con un giudice e un volontario in tema di legalità nel carcere di alta sicurezza, un detenuto che aveva l’aria di saperla lunga per età ed esperienza, sorridendo amaramente, osservò: “Adesso le chiamano camere di pernotto, perché fa più fine, ma sempre le stesse celle sono. Evitiamo ipocrisie e chiamiamole col loro nome”. Il ricordo di quell’episodio introduce l’argomento del sovraffollamento, familiare a Luigi Pagano, già direttore di tante carceri in Italia, dai penitenziari di Pianosa e dell’Asinara negli anni Settanta-Ottanta, quando c’erano i terroristi, e convertite al 41 bis dopo le stragi del 1992; poi in giro per l’Italia, infine a Milano a San Vittore e a Bollate, autore del volume La rivoluzione normale (San Paolo). Un tema che mina alla base la speranza di attuare l’articolo 27 della Costituzione, il cui naufragio si constata nello scandalo dei suicidi in carcere, già 69 nel 2025. Dottor Pagano, lei usa la formula “corpi da stipare”. Perché? “Perché solo in termini di metrature, per evitare sentenze della Cedu e sanzioni europee, è stato affrontato il tema dell’affollamento carcerario, che non è uniformemente distribuito, ma riguarda soprattutto la media sicurezza, quella in cui si trovano circa 50 mila dei quasi 63 mila detenuti italiani: da quando le stragi hanno concentrato l’attenzione sull’alta sicurezza, la media sicurezza è stata trascurata: è diventata la Cenerentola. Eppure è il settore dove il trattamento che si riesce a portare avanti fa la differenza in termini di sicurezza nella società di fuori, quando l’ex detenuto vi ritorna. Se non vogliamo parlare di umanità, parliamo di “utilità”: recuperare, significa abbattere la recidiva”. Da quale prospettiva bisogna guardare il problema? “Da quello della Costituzione, non solo dell’articolo 27 che parla della “rieducazione del condannato”: è difficile che non sia disumano, oltreché vano, un sistema in cui le persone private della libertà restano stipate nelle “camere di pernotto” che solo pernottamento non sono, senza fare nulla. Ma anche dal punto di vista dell’articolo 2 e dell’articolo 3, quello che dice che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono l’uguaglianza tra i cittadini”. Come lo riconnette alle carceri affollate? “Quando all’epoca di Cesare Beccaria, nel Settecento, il carcere da limbo in attesa di impiccagioni o di squartamenti, divenne luogo di detenzione come pena, fu un progresso. Oggi, a partire dal 1975, con la riforma dell’ordinamento penitenziario, stiamo andando nei fatti verso il superamento di questa istituzione obsoleta: la pena non è più il Moloch intoccabile del passato. Oggi in misura alternativa (concessa dal magistrato di sorveglianza) e in pena alternativa alla detenzione in carcere (concessa direttamente in sentenza) ci sono 100 mila persone, e 80 mila sono i cosiddetti “liberi sospesi”, quelli che attendono una decisione dai magistrati di sorveglianza, sempre più gravati di incombenze”. Sono pochi, 250 in tutta Italia… “Un problema, non l’unico. “Dentro” ci sono circa 20 mila persone che hanno uno o due anni di pena da scontare: fatti salvi i casi di pericolosità sociale, dovrebbero essere altrove, ma spesso non escono perché non hanno le condizioni (una casa, una famiglia, una rete sociale, un lavoro) che consentirebbero la liberazione anticipata o una misura alternativa. Mentre a monte del crimine in questi casi c’è spesso un problema sociale, di diseguaglianza, che andrebbe affrontato in termini di prevenzione e servizi (si pensi al caso dell’aggressione in piazza Gae Aulenti a Milano) anche per quanto riguarda le patologie psichiatriche, e invece si affronta solo in termini di ordine pubblico”. Parla dei decreti Sicurezza e Caivano e delle circolari che negli ultimi giorni hanno complicato le procedure di ingresso anche alle associazioni che svolgono attività in carcere? “Sì, perché è una contraddizione pretendere che una struttura che pone sempre più limiti ai rapporti con l’esterno poi possa anche reinserire. Tra “Sicurezza” e “Caivano” negli ultimi mesi sono aumentati i bambini in carcere fino ai 3 anni, perché al momento dell’arresto l’ingresso nell’Istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icaro) è residuale. Spesso sono ragazzine, anche loro vissute nel degrado: i piccoli prendono tutto come un gioco, ma chi ci dice che un domani non siano portati a replicare la strada? Avevamo cominciato a San Vittore a lavorare per chiudere il nido, e invece si torna indietro”. Da dove parte la rivoluzione normale di cui parla nel libro? “Dalle leggi che ci sono già, dall’articolo 6 dell’ordinamento penitenziario: ha senso chiamare la cella “camera di pernotto” se ci si va solo per riposare, mentre di giorno si studia, si impara un lavoro, si fa formazione, si recupera una vita sociale. Ma per questo servono spazi e persone”. Dove stiamo andando? di Antonio Bincoletto* Ristretti Orizzonti, 13 novembre 2025 L’altro giorno, passando in una sezione della Casa di reclusione per i colloqui settimanali incrocio un detenuto che mi chiede “Allora, l’incontro si fa o no?”. È uno dei partecipanti al gruppo di lettura di Kutub hurra. Gli dico che l’incontro è stato sospeso a causa di una circolare del Dap. Lui mi guarda di traverso, con aria di sconforto e abbozza un amaro sorriso, poi commenta “Vede?” e se ne va, scuotendo la testa. Non so quali motivazioni o urgenze abbiano spinto il dott. Ernesto Napolillo del Dap a emanare la circolare del 21 ottobre 2025, con la quale si modificano le procedure da espletare quando si organizzano eventi in carceri dove siano presenti sezioni di Alta sicurezza, avocando al Dap la concessione delle autorizzazioni che finora era attribuita alla Direzione degli Istituti e all’Ufficio di sorveglianza. Quel che so è che tale modifica sta rendendo sempre più complicato organizzare nelle carceri eventi che vedano coinvolti soggetti esterni: per chi intenda promuovere iniziative di apertura e confronto fra carcere e territorio i tempi si allungano e le procedure burocratiche da seguire creano sempre maggiori difficoltà. E questa circolare sta creando fra le persone ristrette delusione e perdita di fiducia nell’istituzione. Il 30 ottobre si sarebbe dovuto svolgere nella Casa di reclusione di Padova un incontro con le associazioni promotrici del progetto Kutub hurra/Libri liberi, evento organizzato da tempo e poi sospeso improvvisamente il giorno prima in seguito all’emanazione della suddetta circolare. Questo progetto ha lo scopo di contribuire a superare le barriere linguistiche e culturali in un’ottica inclusiva e preventiva di ogni integralismo; consiste nel ricevere libri laici in lingua araba, donati dall’associazione tunisina “Lina Ben Mhenni”, che vengono messi a disposizione dei reclusi arabofoni, e nel creare gruppi di lettura e discussione negli istituti. A Padova il progetto è stato avviato in Casa di reclusione nel marzo del 2023 e al Circondariale nel 2024, diventando un importante momento di confronto e crescita per decine di persone detenute, tanto da rappresentare un positivo percorso d’inclusione riproducibile anche nel territorio fra le persone libere attraverso la rete delle biblioteche civiche. Per l’occasione era giunta in città una delegazione di donne attiviste dei diritti umani, provenienti dalla Libia e dalla Tunisia, che la mattina avrebbe interloquito coi reclusi e consegnato agli istituti carcerari padovani un centinaio di nuovi testi laici in lingua araba. La proposta dell’incontro era stata accolta con favore dalla direttrice della Casa di reclusione, dott.ssa Lusi, che sin dal 9 ottobre aveva avviato le procedure per ottenere le autorizzazioni necessarie per tutti i soggetti coinvolti. Nessun detenuto dell’Alta sicurezza partecipava al progetto; le autorizzazioni per il 30 ottobre erano state rapidamente concesse dall’Ufficio di sorveglianza. Il lavoro preparatorio svolto all’interno e all’esterno del carcere aveva coinvolto diverse persone, consentendo di prefigurare un incontro stimolante e importante per tutti, alla presenza degli organi d’informazione che avrebbero dato rilievo ad un’attività culturale e trattamentale positiva, da tempo collaudata e portata avanti grazie all’impegno congiunto di tanti operatori e volontari, col supporto della Direzione, delle Cooperative, del Garante. Le aspettative di tutti, e principalmente delle persone recluse e non che avevano partecipato al progetto, sono andate però deluse a causa della circolare Napolillo; infatti il 29 ottobre viene comunicata la sospensione dell’incontro, non essendo stato il Dap a concedere le autorizzazioni, e l’iniziativa del 30 mattina salta. Fortunatamente per il pomeriggio dello stesso giorno l’Ufficio del Garante comunale aveva programmato un evento pubblico, grazie al quale si è riusciti almeno a dar voce alla delegazione di donne libiche e tunisine e a fare una consegna simbolica dei libri, alla presenza della Direttrice Lusi e della Coordinatrice dei Funzionari giuridico pedagogici, consentendo un interessante dibattito fra le attiviste nordafricane, la prof. Degani del Centro diritti umani e il pubblico presente. Quel che è mancato è stata ovviamente la partecipazione delle persone ristrette, che hanno avuto notizia indiretta dell’incontro svoltosi all’esterno e che non hanno potuto in alcun modo intervenirvi. Ora ci chiediamo: perché creare problemi ad attività positive e ben collaudate, esistenti da tempo, assolutamente in linea col dettato costituzionale e l’ordinamento penitenziario dove si parla di “funzione rieducativa” del carcere, realizzate grazie all’impegno comune di operatori interni e volontari e col consenso della Direzione? Non mi pare ci siano situazioni che richiedano provvedimenti securitari emergenziali, quantomeno nel carcere di Padova, dove i pochi reclusi in Alta sicurezza non creano alcun problema, partecipano ad attività trattamentali e in qualche caso possono anche godere di permessi; né voglio credere che la circolare abbia una occulta finalità dissuasiva rispetto agli sforzi che tanti soggetti compiono quotidianamente per rendere effettivo il fine risocializzante dell’esecuzione penale; devo però prendere atto che il suo risultato immediato è stato quello di creare difficoltà ad attività in corso da anni, trasmettendo l’idea del carcere come luogo di esclusione, con carattere unicamente punitivo. Certo il sospetto che la logica repressiva stia prevalendo su quella trattamentale si fa avanti quando si assiste ad una chiusura di spazi faticosamente acquisiti nel corso degli ultimi cinquant’anni, da quando cioè è stata promulgata la legge 354 del 1975 che introduceva il nuovo Ordinamento penitenziario che rendeva praticabili anche le finalità risocializzanti dell’esecuzione penale. Oggi si parla sempre più di chiusura delle sezioni aperte, di stretta sui controlli interni, di esclusione dalle attività di intere categorie di detenuti, di aumento delle fattispecie di reato, di accentuazione delle pene per chi protesta anche in forma passiva e non violenta; allo stesso tempo si toglie importanza alle esperienze trattamentali positive fatte finora anche grazie ai contributi del Volontariato e del Terzo settore, riducendole ad interventi complementari e “ancillari”, la cui valenza risulterebbe insignificante rispetto al dominante paradigma securitario. Con ciò si ignorano sia i dati positivi di cambiamento e risocializzazione evidenziati da chi durante la carcerazione svolge attività trattamentali (scuola, lavoro, sport, teatro, musica, cultura), sia quelli negativi riferibili a chi trascorre isolato e inerte il periodo della reclusione e poi, tornato libero, ritorna a delinquere (il tasso di recidiva in questi casi supera il 70%). Basterebbe un semplice ragionamento per capire il senso di questo dato: chi vive la carcerazione come esperienza di possibile cambiamento personale anche grazie alle attività interne e ai contatti con il mondo esterno, una volta uscito avrà molte più possibilità di reinserirsi e raramente reitererà i comportamenti illegali; chi invece si trova isolato e non ha modo di partecipare a percorsi diversi, quando uscirà in molti casi ritornerà a compiere reati. Non solo: aver a che fare durante la reclusione con comportamenti non meramente punitivi ma ispirati al rispetto dei diritti personali e delle regole costituzionali induce ad aver fiducia nelle istituzioni e nello Stato, toglie spazio a quegli atteggiamenti vittimistici che spesso le persone detenute assumono quando si sentono trattate ingiustamente, e in tal modo predispone molto più gli individui a fare i conti coi propri errori senza cercare alibi o giustificazioni. Come si vede, non è per ingenuo “buonismo” che si vuole mettere in luce l’importanza delle attività interne e del contatto con l’esterno per le persone ristrette. Quel che bisognerebbe capire è invece quanto deleteria risulti l’inclinazione “cattivista” rispetto al buon funzionamento del carcere e alla possibilità di rendere più sicura la società. Chi chiede misure sempre più dure e gravose per i detenuti non lo fa per migliorare il sistema ma, temo, solo per raccogliere facili consensi parlando alla pancia della gente e sfruttando paure ancestrali che talvolta vengono diffuse ad arte. Nessun paese in tempi ordinari ha mai risolto problemi di sicurezza interna irrigidendo i sistemi punitivi e aumentando pene e sofferenze. Basti pensare ai paesi dove sussiste la pena di morte e si pratica una carcerazione puramente punitiva, perfino non riconoscendo il reato di tortura: non hanno visto certo calare la criminalità né crescere la sicurezza interna, mentre si è moltiplicato il numero delle persone recluse e il loro livello di sofferenza, e si è indotta l’opinione pubblica sia a considerare impossibile la prevenzione, sia a leggere l’esecuzione penale come mera “vendetta di stato”, al di là di ogni scopo utile per la comunità. Una logica che, portata agli estremi, conduce a ritenere accettabili pena di morte e tortura, rinnegando il grande lascito dei Verri e di Beccaria che, sin dalla fine del ‘700, ha reso il nostro Paese faro di civiltà giuridica nel mondo. Il nostro ordinamento costituzionale per fortuna muove da considerazioni diverse e rimane ancorato ai valori affermati da quei grandi pensatori, e la legge 354/1975 cinquant’anni fa ha poi avviato un percorso volto a dare sempre più importanza alla funzione di recupero nei confronti di chi finisce in carcere. Ha introdotto le figure dei “funzionari giuridico pedagogici” (educatori), ha definito una serie di misure alternative alla detenzione (domiciliari, affidamento ai servizi sociali, semilibertà), ha configurato come organico ed essenziale il rapporto degli Istituti di pena col territorio e col Terzo settore (art.17), cercando in tal modo di dar corpo a quanto enunciato in via di principio nell’art. 27 della Costituzione. Tanti passi in avanti in tale direzione sono stati fatti, da allora, anche se problemi di inadeguatezza delle strutture e di scarsità del personale non sono mai mancati nel nostro sistema dell’esecuzione penale. Ora però pare si stia diffondendo la tendenza a tornare ad un modello carcerocentrico e prettamente punitivo/securitario. Lo si percepisce da tanti segnali, non ultimo la tendenza a togliere progressivamente spazi che precedentemente erano stati concessi anche a sezioni speciali come quelle dell’Alta sicurezza, che stanno assomigliando sempre più ai reparti del 41bis; la loro presenza è inoltre considerata elemento condizionante le attività dell’intero istituto, come s’è visto accadere a Padova in seguito alla recente circolare Napolillo. Si sta dunque andando verso una visione degli istituti di pena come meri “sofferenzari”, finalizzati anzitutto ad infliggere pene sempre più afflittive ai detenuti, a discapito della funzione rieducativa? Si vuole forse mettere in un angolo quel ricco mondo del volontariato che in questi anni si è speso in innumerevoli attività risocializzanti dentro alle carceri italiane? Si vuole forse modificare quell’art.17 dell’Ordinamento penitenziario secondo cui “La finalità del reinserimento sociale (…) deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa” i quali “dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti fra la comunità carceraria e la società libera” e che “operano sotto il controllo del direttore”? O, come da qualche parte si è ventilato, s’intende addirittura metter mano al comma 3 dell’art.27 della Costituzione che recita “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”? Spero sinceramente che i miei siano timori infondati, anche se tentativi di questo genere sarebbero in linea con forme d’insofferenza verso il sistema di difesa dei diritti umani che si stanno manifestando negli ultimi tempi nel mondo. Quanto sancito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, assieme alle varie istituzioni internazionali che ne sono derivate, considerato fino a poco tempo fa patrimonio dell’umanità, pare ora essere oggetto di attacchi concentrici da parte di soggetti e orientamenti politici riemergenti dal passato. Noi Garanti dal canto nostro ribadiamo con forza che resisteremo in ogni modo ad un tale tentativo di demolizione, da qualunque parte provenga, convinti che, a prescindere dall’appartenenza politica, su questi valori non si debba in alcun modo retrocedere o negoziare, pena l’imbarbarimento dell’intera società. Insomma, vorrei poter rassicurare il giovane incontrato in sezione dicendogli: “tranquillo, l’incontro si farà”: sicuramente ne guadagnerebbe la fiducia nello Stato e nelle sue istituzioni, oltre che il comune senso di umanità e il clima generale in cui ci troviamo a vivere. *Garante dei diritti delle persone private o limitate nei diritti personali, Comune di Padova Emergenza carcere, 50 anni dopo di Antonia Menghini* unitn.it, 13 novembre 2025 Dalla riforma del 1975 a oggi, tra principi costituzionali e realtà negata. Quest’anno cade il cinquantennio dall’entrata in vigore della legge n. 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario, una legge che fu salutata con favore e celebrata quale momento di dichiarata cesura con il passato e nello specifico con il Regio decreto del 1931, figlio della temperie fascista, in cui lo status detentionis si configurava come una condizione di perdita totale dei diritti per le persone in esecuzione di pena, c.d. capitis deminutio. Si è dunque trattato di un vero e proprio spartiacque con cui il rapporto tra Amministrazione penitenziaria e detenuto è mutato sensibilmente: da unilaterale (potestà-soggezione) è diventato, almeno formalmente, bilaterale (potere autoritativo-diritto soggettivo): da mero soggetto passivo del­l’agire discrezionale del­l’Amministrazione penitenziaria, il detenuto è divenuto, almeno sulla carta, soggetto titolare di diritti. Successivamente, anche grazie al lavorio importante della giurisprudenza, sia costituzionale che di legittimità, si è nel tempo affermata anche una tutela di tipo giurisdizionale dei diritti (cfr. la sentenza della Corte costituzionale n. 26/1999 e quella delle Sezioni unite della Corte di Cassazione Gianni del 2003). Oggi, dopo la pesante condanna dell’Italia nel caso Torreggiani, legata alla situazione di sovraffollamento delle nostre carceri, sono stati predisposti i due rimedi di cui agli articoli 35 bis e ter dell’ordinamento penitenziario, l’uno preventivo e l’altro compensativo, funzionali a porre fine ad eventuali lesioni dei diritti e ad ottenere un ristoro per il connesso pregiudizio sofferto. Il quadro tracciato, che affonda le sue radici nel dato costituzionale e in particolare nel principio di umanità della pena previsto all’art. 27 comma 3 Cost. in cui si prevede appunto che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, si scontra però con la realtà delle nostre carceri. Da un lato, infatti, la particolare situazione di privazione della libertà personale, in cui si trovano le persone in esecuzione di pena in carcere, fa sì che questi stessi diritti possano dover soffrire alcune compressioni funzionali ad ossequiare le esigenze di ordine e sicurezza; dall’altro, pesano le condizioni drammatiche in cui si trovano attualmente le nostri carceri e le persone che le abitano, di cui è spia il numero impressionante di suicidi (69 al 31 ottobre e ben 90 nell’anno appena trascorso). Ad oggi il tasso di sovraffollamento nelle carceri è pari al 137,10%: a fronte di 63.495 persone detenute, i posti effettivamente agibili sono solo 46.313; le condizioni igienico sanitarie sono spesso deficitarie; il disagio psichico in carcere sta purtroppo dilagando e riguarda ben oltre il 50% dei reclusi, di cui una percentuale significativa affetta da gravi patologie psichiatriche che trovano nelle condizioni detentive un evidente motivo di aggravamento. A ciò si aggiunge anche la situazione degli operatori penitenziari che sono spesso sottorganico (direttori, polizia penitenziaria, funzionari giuridico-pedagogici). Non sono pertanto solo i diritti delle persone detenute ad uscirne compromessi, ma anche l’offerta trattamentale rieducativa, cui l’Amministrazione penitenziaria è tenuta in forza del dettato costituzionale che vuole la pena, non solo umana, ma anche funzionale alla rieducazione del condannato. Quello del carcere è purtroppo un quadro a tinte fosche che disegna quella che correttamente è stata definita come una perenne emergenza che, alla luce della siderale distanza tra quanto previsto in Costituzione e nella legge sull’ordinamento penitenziario e la reale situazione delle nostre carceri, reclama un improcrastinabile intervento che si muova nel solco degli irrinunciabili principi della nostra Costituzione. Questi temi saranno oggetto del convegno dal titolo “Emergenza carcere a 50 anni dalla legge di riforma dell’Ordinamento penitenziario” che si svolgerà al Palazzo di Giurisprudenza di Trento nei giorni 14 e 15 novembre. *Professoressa di Diritto penale all’Università di Trento Quelle donne incinte rinchiuse in cella con il decreto sicurezza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 novembre 2025 Una ragazza sta per partorire nell’istituto di Uta, quattro gestanti nell’Icam di Lauro sono senza ginecologo. I garanti denunciano: “Quale colpa hanno i bambini?”. C’è una giovane donna nel carcere di Uta, in Sardegna, tossicodipendente e incinta. Rischia di partorire in una cella. Gli spazi della casa circondariale non sono attrezzati per un evento del genere, eppure lei è lì, con il pancione che cresce e nessuna soluzione all’orizzonte. L’allarme lo ha lanciato Irene Testa, garante delle persone private della libertà personale della Sardegna: “È urgente trovare una comunità che possa accogliere questa ragazza con il suo nascituro. Gli spazi del carcere non sono assolutamente idonei a un evento di questo tipo”. La garante spiega che l’unico Icam (Istituto a custodia attenuata per madri) della regione non è mai stata utilizzata, è impraticabile. Serve una comunità, una struttura che possa prendere in carico questa donna prima che sia troppo tardi. Ma il tempo stringe e le alternative scarseggiano. Non è un caso isolato. Nella stessa situazione ci sono altre donne sparse per l’Italia. Nell’Icam di Lauro, in provincia di Avellino, la situazione è persino più drammatica: su 8 detenute madri, 4 sono incinte. Tre tra il quarto e il sesto mese di gravidanza, una in procinto di partorire. Quest’ultima potrebbe essere anche a rischio di infezione. E in questo istituto, pensato appositamente per gestanti e madri con bambini piccoli, manca un ginecologo operativo. Manca anche un pediatra fisso. I numeri sono implacabili: al momento in Italia ci sono 28 donne madri in carcere, alcune anche incinte, e 26 bambini presenti tra gli istituti femminili di Rebibbia e Bollate e gli Icam di Milano, Torino, Venezia e Lauro. Ventisei bambini che crescono dietro le sbarre, che vivono i loro primi mesi o anni di vita in un ambiente detentivo, per quanto attenuato. “C’è chi si vanta di questa disumanità”, tuona Samuele Ciambriello, garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. “Può essere il carcere l’unica risposta al reato? Che barbarie!”. Le sue parole sono un grido di protesta contro una deriva normativa che sembra andare nella direzione opposta rispetto a quanto auspicato da anni da chi si occupa di diritti dei detenuti e soprattutto dei bambini. Le nuove norme introdotte con il decreto sicurezza - Non aiuta il decreto sicurezza approvato dal Parlamento e diventato legge. Anzi, peggiora. La nuova normativa prevede infatti la detenzione per donne incinte e madri, sia per custodia cautelare che per sconto di pena, specificando che essa debba avvenire obbligatoriamente in un Icam. Prima la legge prevedeva il rinvio obbligatorio della pena per donne incinte o con figli con meno di un anno, ammettendo il carcere solo in casi di “eccezionale rilevanza”, e preferibilmente (ma non obbligatoriamente) in un Icam. “È stato il decreto sicurezza a dare il disco verde per mettere in carcere donne incinte”, spiega Ciambriello. “In un articolo del decreto è diventato facoltativo, e non più obbligatorio, il rinvio della pena per donne in gravidanza e per quelle con figli sotto i 3 anni. La politica risponde a una campagna di allarme sociale, per questo a Lauro abbiamo tra le 8 donne detenute 4 incinte, alcune tra il quarto e il sesto mese e una in procinto di partorire, senza la presenza di un ginecologo operativo”. Gli Icam, insieme alle sezioni nido delle carceri ordinarie, dovrebbero servire ad alleviare in qualche modo l’esperienza del carcere ai figli piccoli delle detenute. Sono strutture pensate per “sembrare un po’ meno” un carcere, con aree detentive allestite appositamente per i bambini. Ma resta il fatto che si tratta pur sempre di un istituto detentivo, con tutto quello che questo comporta. La marcia indietro è ancora più evidente se si guarda a quanto era successo appena tre anni fa. Nel giugno 2022 la Camera dei deputati aveva approvato in prima lettura, con 241 voti favorevoli e 7 contrari, un disegno di legge che andava esattamente nella direzione opposta. Il provvedimento, proposto dal deputato del Pd Paolo Siani, escludeva la custodia cautelare in carcere per le donne incinte o per le madri con figli conviventi di età inferiore a 6 anni. Per le donne con bambini, il testo promuoveva il modello della casa-famiglia. Solo in casi eccezionali si sarebbe dovuto ricorrere agli Icam. I bambini non sarebbero dovuti vivere in carcere, ma in speciali strutture “protette” pensate per ricreare un’atmosfera il più possibile simile a quella di un normale ambiente familiare. “Le case protette saranno l’unica scelta per far scontare la pena a una donna in gravidanza o con un bambino fino a sei anni di età”, spiegava Siani quando la proposta sarebbe dovuta passare al vaglio del Senato. “Il Parlamento vuole lottare per tutte le persone innocenti, in primis i bambini. È una questione di civiltà”. Quella legge non vide mai la luce anche grazie all’inerzia del governo Conte. E tre anni dopo è successo esattamente il contrario. Le conseguenze sui bambini, che non hanno colpe - “Sei bambini senza colpe in carcere, perché non in casa-famiglia?”, si chiede amaramente Ciambriello riferendosi alla situazione di Lauro. “Nessun bambino o bambina dovrebbe crescere dietro le sbarre. Quali colpe hanno i bambini di madri detenute? E se anche una donna incinta ha commesso un reato, può mai il carcere essere l’unica risposta?”. Il garante campano parla di “barbarie” e di “populismo penale, politico e mediatico”. “Il bambino è un’entità a parte, non una cosa unica con la madre. Tutto questo è una barbarie! Possiamo e dobbiamo aiutare questi bambini ingiustamente troppo adulti”. Chi si occupa di detenute con figli sottolinea che, per quanto il modello di custodia attenuata possa avere effetti positivi sulle detenute, si parla comunque di un carcere. Per quanto attenuata, la detenzione viene percepita dai bambini, con potenziali conseguenze negative sul loro sviluppo. Gli esperti concordano nel ritenere sempre necessario il ricorso a misure alternative, come la detenzione domiciliare o le case famiglia protette. Il tema delle detenute madri apre riflessioni più ampie: sulla detenzione femminile in un sistema pensato soprattutto da uomini, sulla maternità, sull’esecuzione della pena vista come reinserimento e non solo punizione. Ma alcune domande restano senza risposta: quale colpa hanno i bambini che si trovano a nascere o crescere dietro le sbarre? È davvero questo il modo migliore per tutelare la sicurezza dei cittadini? Intanto, nel carcere di Uta, una giovane donna aspetta che qualcuno trovi una soluzione prima che sia troppo tardi. E a Lauro, quattro gestanti vivono la loro gravidanza in cella, senza un ginecologo che possa seguirle adeguatamente. Ventisei bambini crescono in strutture detentive, pagando colpe che non hanno commesso. La garante sarda continua a fare appello perché si individui con urgenza una comunità o una struttura che possa prendere in carico la detenuta di Uta con il suo nascituro. Ma il tempo passa, rischia di partorire in queste condizioni non civili, e le risposte tardano ad arrivare. In un Paese civile, questo non dovrebbe accadere. Eppure accade. Hanno la forza ma non la ragione di Mario Di Vito Il Manifesto, 13 novembre 2025 Separare a zero Una campagna senza merito: verso il referendum sulla giustizia tra sparate, fake news e risse (anche postume) tra favorevoli e contrari alla riforma. Di Pietro contro Gratteri. Più vintage? Signorile contro Cirino Pomicino. Derby socialista: Andò contro Formica. Preferite i comunisti? Violante contro Barbera. Per i più raffinati, volendo, abbiamo Padovani contro Coppi. Bello, no? La prima parte della campagna referendaria sulla giustizia è tutta così. O peggio. La contrapposizione postuma tra Falcone e Borsellino, con annesse accuse di propalare fake news sulle passate posizioni dell’uno e dell’altro, è uno spettacolo troppo triste persino per questa maledetta seconda repubblica e mezza. Eppure siamo qui. Mancano ancora quattro lunghissimi mesi - se va bene - al voto e il dibattito è già andato a farsi benedire. Tutti sostengono di parlare del merito. Anzi, tutti dicono che è necessario, vitale, parlare solo del merito. Eppure non lo fa nessuno. A partire dal fatto che si parla di “referendum sulla separazione delle carriere”, cioè del lato più marginale della riforma, dal momento che le funzioni di magistrati requirenti e giudicanti sono divise dai tempi della Cartabia e i passaggi dall’uno all’altro ruolo si contano nell’ordine degli zero virgola. Il problema è che il resto è un pastrocchio difficile da spiegare: finché si rilanciano sciocchezze come la metafora del giocatore e dell’arbitro che devono avere divise diverse (il pm sarebbe il giocatore e il giudice l’arbitro. L’avvocato probabilmente è il tifoso) bene o male ci capiamo. È quando ci addentriamo nella divisione del Csm, nel sorteggio dei suoi membri e nell’istituzione di una corte disciplinare che le cose si fanno più complesse. Per non dire che, al di fuori degli addetti ai lavori, quasi nessuno sa di preciso di cosa si stia parlando. E così mentre taluni esagerano e descrivono la riforma come il compimento del disegno di Licio Gelli nell’ormai irreversibile deriva eversiva delle istituzioni, altri rispondono parlando di “giusto processo” e di “errori giudiziari”, problemoni che con quanto dovremo votare non c’entrano proprio un bel nulla. Poi c’è il dibattito ipotetico: la riforma serve per mettere la magistratura sotto il governo. Vero, forse, in prospettiva, ma non c’è una singola frase del testo della legge costituzionale che lo dica. Certo, mancano i decreti attuativi, e lì ci sarà da ridere. E, certissimo, in tutti i paesi in cui le carriere sono separate alla fine è sempre l’esecutivo che decide cosa fa la pubblica accusa. L’eventualità, tra l’altro, a un certo punto è persino auspicabile: l’alternativa è quella di avere un super sbirro come pubblico ministero, uno che verrebbe valutato (da suoi simili) solo sulla base delle condanne che riesce ad ottenere e di conseguenza sarebbe portato a spararle sempre più grosse. Ma come spiegare che il problema della riforma è qualcosa che (ancora) non prevede? Nessuno si sta sforzando granché, in realtà. Alla fine fa comodo a tutti dare e prendere legnate senza dover pure fare la fatica di dire cose intelligenti. O quantomeno verosimili. Il comitato per il No varato dall’Anm ci prova pure a tenere il punto sul famoso merito, ma il risultato è che nessuno ascolta davvero. È bravissimo e molto preparato il presidente Enrico Grosso. Però per spiegare un concetto ha giustamente bisogno dei suoi bei minuti, mentre i tempi televisivi sì e no ti consentono di esprimere un pensiero per dieci o quindici secondi al massimo. Sapete dove si consumerà la campagna? Esatto, in televisione. Auguri. E questo, comunque, avverrà mentre l’Anm si troverà ai margini del dibattito. Posizione in cui si è messa da sola: sabato scorso il parlamentino ha votato un documento suicida che impedisce alle toghe di organizzare eventi insieme a partiti, sindacati e associazioni politiche latu sensu. Restano le parrocchie, ma non si sa quanto da quelle parti siano interessati a ospitare dibattiti su temi costituzionali. Dall’altra parte abbiamo i comitati del Sì: ogni microformazione sedicente liberale ne ha fatto uno. Quello della Fondazione Einaudi merita una menzione a sé: dentro c’è di tutto, ciascuno ritiene di avere la verità in tasca e, con la scusa di parlare solo del merito, in realtà passa il suo tempo a parlare d’altro, da Tortora (processo svolto peraltro col vecchio rito) a Garlasco. La forza forse c’è, ma la ragione non si vede. Che poi, e questa forse è la cosa più sconfortante di tutte, per trovarlo questo merito bisogna ripescare quanto disse il sottosegretario Delmastro nell’intervista rilasciata a sua insaputa al Foglio qualche mese fa: “Dare ai pubblici ministeri un proprio Csm è un errore strategico che, per eterogenesi dei fini, si rivolterà contro. L’unica cosa figa della riforma è il sorteggio dei togati al Csm, basta”, disse, chiarendo una volta di più che il vero obiettivo è spezzare le reni alle correnti della magistratura, mica migliorare la giustizia. E ancora: “O si va fino in fondo e si porta il pm sotto l’esecutivo, come avviene in tanti paesi, oppure gli si toglie il potere di impulso sulle indagini”. Tutto giusto e non è un caso che a dirlo sia stato un avvocato che ha pratica di tribunale, cosa che spesso e volentieri manca agli animatori delle associazioni forensi. Con buona pace del ministro della giustizia che fu pubblico ministero, asceso al governo come garantista e poi capace soltanto di fare lo spettatore mentre il suo governo vara leggi sempre più repressive e ingrossa il volume del codice penale, alla faccia di Giuliano Vassalli, di Anatole France, di Leonardo Sciascia e pure di David Hume. Fate il vostro gioco, allora: Delmastro o Nordio? Perché separare i Pm aiuta politica e toghe di Serena Sileoni La Stampa, 13 novembre 2025 Sono quasi trent’anni, dalla Commissione D’Alema del 1997, che la separazione delle carriere dei magistrati è oggetto di attenzione politica e tentativi di riforma costituzionale. Mai come ora si è andati vicini allo scopo, anche se le riforme legislative che si sono succedute in questi anni, da quella Mastella a quella Cartabia, hanno reso più difficile il passaggio dalla funzione requirente e quella giudicante. Resta l’ultimo miglio, dall’esito non scontato. Il referendum costituzionale è infatti per sua natura di opposizione. È vero che viene definito anche referendum confermativo, poiché chiede agli elettori se vogliono confermare o meno la riforma approvata in parlamento. Ma, dal momento che non ha quorum di partecipazione, bastano pochi no espressi per superare molti sì taciti. Se si tiene a mente questo, se ne possono trarre due lezioni, una più facile e una più difficile. Cominciando da quella facile, non ha molto senso che a proporlo sia la stessa maggioranza di governo. Non ce l’ha dal punto di vista democratico, proprio perché il referendum costituzionale è uno strumento di voce delle minoranze, tanto che è nella loro disponibilità chiederlo. Potrebbe non averlo nemmeno dal punto di vista strategico, poiché, data la mancanza di quorum, l’aggiunta di un obiettivo plebiscitario potrebbe non valere il costo e il pericolo di una battaglia politica che di norma lascia a casa chi non ha un convinto “no” da esprimere. E invece la maggioranza ha dato il via alla procedura prima anche delle opposizioni, aprendo la strada, per venire alla seconda e difficile lezione, alla trasformazione del voto referendario in un voto politico. Meloni, certo consapevole del rischio sopra detto, sembra non aver ancora deciso se intestarsi la campagna referendaria. Da un lato, c’è lo spettro del precedente Renzi; dall’altro, sa che farlo potrebbe essere un modo per portare alle urne i voti favorevoli non alla riforma, che a molti non interessa o non interessa capire, ma al suo partito, cioè a lei. Certo, non si può chiedere né al governo né all’opposizione di non deviare dal testo della riforma agli slogan della politica. Chi tra i politici vorrà parlare di questa e non del rumore intorno, sarà qualche lodevole eccezione, come nel caso dell’onorevole Marattin e del suo comitato per il Sì. Si può però, anzi si deve chiedere a chi a diverso titolo è coinvolto nell’informazione referendaria di stare sul merito. A giornalisti, accademici, interpreti del diritto tocca l’onere di provare a portare su questo livello la discussione. Vale anche per le associazioni dei magistrati, per le quali, essendo coinvolte, la necessità di un confronto franco è ancora più indispensabile. Per stare quindi sul merito, la riforma introduce quattro punti essenziali: definitiva separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri; separazione del sistema di autogoverno in due Csm, formati - terzo punto - per sorteggio tra giudici, professori e avvocati in possesso dei requisiti richiesti; deferimento delle questioni disciplinari a un terzo organo distinto, l’Alta corte disciplinare. Chi non sostiene la bontà della riforma lo fa per due motivi: o la ritiene sbagliata o la ritiene inutile. Tra chi la ritiene sbagliata, la critica più fondata è quella per cui, se l’obiettivo è quello di correggere l’autocrazia della magistratura e in particolare il potere dei pubblici ministeri, andato negli anni al di là di quanto necessario a svolgere la loro funzione, la creazione di due Csm separati potrà avere l’esito non di dimezzare, ma di doppiare le degenerazioni dell’autonomia. Questo argomento però si può superare solo superando l’inquadramento dei Pm all’interno della magistratura. L’unica soluzione sarebbe “alla francese”, cioè subordinarli al governo, soluzione impraticabile. Poiché l’ottimo è nemico del bene, se la questione è contrastare il fenomeno del correntismo e del corporativismo, la separazione di sistemi di autogoverno e l’introduzione del sorteggio sono meglio dell’attuale concentrazione in un unico Consiglio di natura elettiva, senza che siano compromesse né l’autonomia né l’indipendenza dei magistrati. Difatti, non si vede come possa costituire un attacco all’indipendenza della magistratura dividere la carriera tra Pm e giudici mantenendo l’autogoverno degli uni e degli altri, a meno di non voler ammettere che l’indipendenza sia stata, finora, sinonimo di corporativismo. Inoltre, è difficile sostenere che il sorteggio minacci l’autorevolezza del Csm, senza mettere in dubbio anche la professionalità dei sorteggiabili. Chi ritiene invece inutile la riforma, poiché il passaggio di carriere è già ora difficile e raro, sottovaluta che la terzietà del giudice e l’equilibrio nello svolgimento del proprio ruolo non derivano solo dal fatto concreto, ma anche dal fatto percepito che la magistratura requirente svolge una funzione diversa da quella giudicante. Lo stesso vale per il sorteggio: è vero che le correnti possono crearsi o ad esse si può aderire anche dopo essere stati estratti. Tuttavia, l’introduzione di un sistema non elettivo aiuta ad allontanare quel fenomeno esiziale di un correntismo persino accreditato dentro e fuori la magistratura. Una separazione definitiva delle carriere, con un autogoverno meno politicizzato, può aiutare a distinguere le funzioni di chi esercita l’azione penale e di chi emette sentenza e restituire, dentro e fuori dall’ordine, la consapevolezza di una reale indipendenza anche dalle correnti interne. Può aiutare, quindi, ad uscire dalle ambiguità che hanno contribuito a un insano rapporto tra politica, magistratura e opinione pubblica. Si poteva migliorare la giustizia senza toccare la Costituzione di Luigi de Magistris Il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2025 La riforma costituzionale sulla magistratura approvata dal governo e dalla maggioranza politica parlamentare non incide sul funzionamento della giustizia, non cura gli interessi del popolo, ma è punitiva nei confronti della magistratura libera e coraggiosa e tesa a garantire l’impunità del potere politico. Sgomberiamo subito il campo dall’idea che se dovesse vincere il Sì al referendum confermativo noi avremmo una giustizia più giusta, equa, efficiente, efficace e rapida. Questa è una balla. Assimilare casi come Garlasco, che purtroppo ad onor del vero non sono un’eccezione, alla separazione delle carriere e alla riforma del Csm è pura propaganda e demagogia politica. Quale sia l’effettivo obiettivo della riforma è stato affermato dal ministro Nordio qualche giorno fa: impedire che la politica possa essere “controllata” dalla magistratura, scongiurare il controllo di legalità, come dicono loro evitare “invasione di campo” delle toghe sulla politica. Nel Paese che ha avuto il fascismo e il tribunale della razza, quando i togati erano in gran parte arruolati nei fasci, nel Paese in cui hanno dominato e ancora dominano corruzione dilagante, associazioni mafiose e poteri occulti, nell’Italia delle stragi senza colpevoli, degli assassini impuniti e dei colpi di stato permanenti senza carri armati ma con pervasivi apparati dello Stato deviati, si vuole pervicacemente mettere il pubblico ministero sotto “l’ombrello” del governo. Come fece Mussolini, come voleva Gelli e la P2, come desiderano quasi tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione. Una follia eversiva dell’ordine costituzionale. Il pubblico ministero è l’architetto ed anche ingegnere del procedimento penale, senza la sua autonomia ed indipendenza i giudici penali non potranno mai costruire la casa del processo. Perché per alcune case (rectius, alcuni processi), quelle dei poteri forti e dei colletti bianchi, mancherà proprio il cemento. Non partiranno proprio i lavori. E quando i politici politicanti e i loro megafoni mediatici vi dicono che la giustizia non funziona e che i magistrati spesso sbagliano, dobbiamo rispondere che in buona parte è vero. Ma quale medicina vogliamo usare per curare il paziente? La stricnina oppure cambiamo terapia e magari anche i dottori nel potere esecutivo e in quello legislativo. Le riforme sinora approvate dalla maggioranza delle destre hanno danneggiato fortemente la sicurezza e la giustizia nel Paese. Hanno appesantito con ostacoli gravi e illogici il corso della giustizia, previsto misure che rendono sempre più difficile individuare i responsabili dei crimini ed anche impedire che possano reiterare le condotte criminose. Basti pensare alle norme che modificano, in pejus, l’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche ed ambientali così come il previo interrogatorio dell’indagato prima di essere arrestato. Succede così ai tempi di Meloni e Nordio: un criminale commette un delitto, anche efferato, ma il giudice giorni prima di arrestarlo lo deve convocare ed interrogare disvelando indizi e fonti di prova: non ci vuole un luminario del diritto o un investigatore alla Sherlock Holmes per capire come l’indagato possa nel frattempo inquinare le prove, reiterare il reato, minacciare testimoni o darsi alla fuga. Una genialata giuridica. Per impedire il potere tossico delle correnti in magistratura e recidere anche i rapporti tra politica e toghe si poteva e si può ancora intervenire con leggi ordinarie. Senza toccare la Costituzione. Così come per garantire la doverosa parità tra accusa e difesa si deve migliorare il codice di procedura penale. È giusto anche ridurre la custodia cautelare in carcere prima della condanna ed utile irrobustire le misure alternative al regime inframurario. Doveroso e non più rinviabile incidere sulla fatiscente situazione delle carceri, dove spesso diritti e dignità sono cancellati. Necessario poi intervenire drasticamente su organici della magistratura e del personale amministrativo, innalzare anche il livello di professionalità e di abnegazione di una funzione, quella magistratuale, che non è impiegatizia ma una delle più delicate, complesse e nobili al servizio dello Stato e della Repubblica. La riforma costituzionale ci avvia invero verso la definitiva fine dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e dell’obbligatorietà dell’azione penale. La Costituzione fu scritta da statisti con un livello di etica pubblica incommensurabile, le “schiforme” degli ultimi anni approvate da mediocri comparse di una democrazia sempre più malata. Giustizia a rischio paralisi: il governo non vuole confermare i 12mila precari assunti con il Pnrr di Andrea Sparaciari La Notizia, 13 novembre 2025 Il contratto per i 12mila precari della Giustizia scadrà il 30 giugno. Il governo vuole stabilizzarne solo 6mila. Mettendo a rischio la funzionalità dei tribunali. Che le necessità della macchina della giustizia siano tra le ultime priorità del governo di Giorgia Meloni, lo si sapeva da tempo. Ma ieri è arrivata l’ennesima riprova. Il capo di gabinetto del ministro Carlo Nordio - la magistrata Giusi Bartolozzi, assurta all’onore delle cronache soprattutto per il suo coinvolgimento nel caso Almasri - ha infatti convocato ieri i sindacati per discutere delle prove selettive alle quali dovranno sottoporsi i circa 12mila precari assunti il 1° febbraio 2022 grazie ai fondi del Pnrr e in scadenza il 30 giugno 2026. Il governo vuole stabilizzare solo 6mila precari su 12mila - Prove che nell’ottica del governo, mireranno a decidere chi confermare. Nell’ottica della Funzione Pubblica Cgil dovranno invece “decidere chi lasciare a casa”, come si legge in una nota a firma del segretario nazionale Fp CGIL Florindo Oliverio, nella quale si annunciava il boicottaggio dell’incontro. Sul tavolo infatti c’è il destino di quel piccolo esercito di operatori - data entry, funzionari tecnici e addetti all’ufficio per il processo - cooptati per raggiungere gli obiettivi di riduzione dell’arretrato civile e penale previsti dal PNRR. E che ora, finiti i soldi dell’Europa, dovrà essere in gran parte smobilitato. Un paradosso, perché è vero che questi precari hanno smaltito molto dell’arretrato presente nei tribunali, ma proprio a causa del Pnrr, il lavoro per i giudici è aumentato… L’estate scorsa, l’esecutivo aveva anche annunciato una procedura comparativa, in pratica un concorso entro ottobre 2025, ma poi della prova se ne sono perse le tracce. Mesi di promesse mai mantenute - Da mesi il governo promette stabilizzazioni, ma senza dare numeri. Oppure fornisce cifre - si parla di circa 6mila stabilizzazioni su 12mila precari - ma senza assicurare le coperture finanziarie. E anche gli stessi ministri appaiono in disaccordo, così se per il Ministro per gli Affari Europei Tommaso Foti il governo starebbe già procedendo all’assunzione dei precari e mira ad assorbirne fino a 17mila (come ha comunicato alla Camera dei Deputati dello scorso 1 ottobre), per il collega Carlo Nordio non ci sarebbero problemi alla trasformazione di tutti i 12mila contratti in tempi determinati ma serve tempo (lo ha detto, ricorda la Cgil, rispondendo a una recente interrogazione parlamentare). Un’indeterminatezza che si ritrova anche nel Documento programmatico di finanza pubblica (DPFP), approvato dal Governo il 2 ottobre scorso, il quale ribadisce la necessità di stabilizzare i precari Pnrr della giustizia, ma senza fornire alcun dettaglio su numeri e risorse. Un’ambiguità che il 16 settembre scorso aveva portato allo sciopero dei lavoratori. Il dato di fatto è che a oggi, la Legge di Bilancio attualmente in discussione non prevede risorse per la stabilizzazione di questi lavoratori. La Cgil: “Siamo sgomenti” - Comprensibile quindi il rifiuto di ieri della Cgil di prendere parte al tavolo per decidere le prove per le future selezioni. “Siamo sgomenti”, ha commentato Oliverio, circa la convocazione. “Accettare di discutere oggi di criteri selettivi per ridurre gli attuali organici di almeno 6 mila unità, significa accompagnare la giustizia al suo funerale”, commenta, “Noi preferiamo lavorare perché in questi giorni si possano convincere i parlamentari di tutte le forze politiche che nella prossima legge di bilancio ci siano le risorse che il Governo e il ministro Nordio non hanno voluto mettere per stabilizzare tutti i 12 mila precari alla scadenza dei loro contratti il 30 giugno prossimo”. Per la Cgil, i sindacati devono inchiodare “il ministro alle sue responsabilità. La Funzione Pubblica CGIL non ha dubbi sul da che parte stare. Stiamo dalla parte delle lavoratrici e dei lavoratori che dopo quattro anni da precari per lo Stato chiedono di poterci rimanere. Stiamo dalla parte dei cittadini che vogliono una giustizia che funzioni davvero perché sia uguale per tutti e non più uguale per qualcuno”, conclude il segretario. Pericolo paralisi dopo il 30 giugno - Del pericolo di paralisi dopo il 30 giugno 2026 ha parlato spesso il Procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, il quale ha più volte sottolineato la carenza cronica di personale negli uffici giudiziari - sia in termini di magistrati che di personale amministrativo -, sottolineando la necessità di un numero adeguato di risorse per gestire l’aumentato carico di lavoro legato anche agli investimenti del PNRR. Salvini rilancia l’ennesimo decreto Sicurezza: 14 norme per il pugno di ferro contro chi manifesta di Angela Stella L’Unità, 13 novembre 2025 Presentato un pacchetto di 14 norme per inasprire ulteriormente quelle già introdotte dal dl sicurezza del governo: stretta su manifestazioni, sgomberi, furti in casa e borseggi. Meno diritti ai ragazzini migranti. Ma le proposte non entusiasmano Meloni. A cinque mesi dalla conversione in legge del decreto sicurezza, la Lega ha presentato un nuovo pacchetto in quattordici capitoletti per inasprire ulteriormente le stesse norme su cui il governo e la maggioranza sono intervenuti già quest’anno e per introdurre nuove fattispecie di reato: 14 punti su tutela delle forze dell’ordine, stretta sulle manifestazioni, sgomberi, furti in casa e borseggi, immigrazione. “Se sarà un disegno di legge o un decreto legge sarà una valutazione del governo”, ha spiegato il capogruppo leghista alla Camera Riccardo Molinari in una conferenza stampa in Sala Salvadori a Montecitorio con il presidente dei senatori Massimiliano Romeo, i sottosegretari all’Interno e alla Giustizia, Nicola Molteni e Andrea Ostellari, le europarlamentari Alessandra Cisint, Susanna Ceccardi e Silvia Sardone. Il provvedimento, però, non sarebbe stato accolto con calore dagli altri alleati, compresa la premier Giorgia Meloni. Matteo Salvini qualche giorno fa ha detto di averne parlato con il Ministro Piantedosi ma da quanto appreso sembrerebbe che le norme si perderanno per le vie parlamentari. Quello che di certo salta agli occhi scorrendo il materiale consegnato nella cartellina stampa l’espressione: “Reato di fuga pericolosa all’alt della polizia […] Ora si introduce un reato penale punito con il carcere da 1 a 5 anni e con relative pene aggravate”. Avete letto bene: “reato penale”, un errore da matita blu fatto proprio da chi vorrebbe riformare il codice di rito. Tra le proposte illustrate ieri: Tutela processuale per tutti, non solo per le forze dell’ordine - Stop all’iscrizione automatica nel registro degli indagati in presenza di una presumibile causa di giustificazione come previsto dalla legge. I promotori delle manifestazioni dovranno versare una cauzione - “Il diritto a manifestare - ha spiega Molteni - è sacrosanto e deve essere tutelato ma non deve diventare diritto a devastare. Responsabilizziamo i promotori/organizzatori che dovranno versare una cauzione, una fideiussione o un’assicurazione che verrà riscossa in caso di danni. L’importo lo rimandiamo a un decreto interministeriale”. Manifestazioni: multe più salate - La Lega propone di modificare l’articolo 18 del TULPS (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) relativamente al preavviso, al divieto e alle prescrizioni delle manifestazioni pubbliche. Si prevede un incremento delle sanzioni pecuniarie in caso di violazione del divieto a manifestare, dell’obbligo di preavviso e delle prescrizioni applicate dalla Questura. In caso di mancato preavviso la sanzione sarà tra 4.000 e 16.000 euro; in caso di violazione del divieto o delle prescrizioni, la sanzione sarà da 5.000 a 20.000 euro. In caso di reiterazione la multa raddoppia. Non è ammesso il pagamento in forma ridotta. Sgomberi - Già con il decreto sicurezza è stato introdotto il reato di occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui, punito con il carcere da 2 a 7 anni. È prevista altresì una procedura accelerata per lo sgombero dell’immobile, oggi limitata alla prima casa occupata abusivamente. Ora si estende lo sgombero rapido a tutti gli immobili illegalmente occupati (anche seconde case ecc.). Minori stranieri non accompagnati - Per far fronte “all’allarme sociale che arriva dai sindaci su baby gang e maranza”, ha spiegato sempre Molteni, viene modificata la Legge Zampa del 2017: “Il minore ha diritto a restare nelle strutture di accoglienza fino a 21 anni, con le nostre norme potrà solo fino a 19 anni”. L’accoglienza cessa in caso vengano commessi reati. Inoltre si potenziano e rendono effettivi i rimpatri volontari assistiti nei Paesi di origine, incrementando le indagini familiari attribuendo la competenza al Prefetto. Ostellari: “A casa i migranti che delinquono. Stretta sui permessi di soggiorno” di Federico Capurso La Stampa, 13 novembre 2025 “Vogliamo rendere le nostre città più sicure e per farlo va garantito il rispetto delle regole”. Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, della Lega, è stato uno dei principali estensori del pacchetto di misure su sicurezza e immigrazione presentate ieri alla Camera dal Carroccio. Ci sono nuovi reati, come quello per chi non si ferma ai posti di blocco della polizia, e vari inasprimenti di pena, ma anche paletti più rigidi come quelli per gli organizzatori delle manifestazioni che dovranno offrire una garanzia economica in caso di danni, e divieti più stringenti, come quello che ricadrà sui burqa. “Sono proposte che mettiamo a disposizione degli alleati e siamo aperti ad accogliere le loro”. Meloni non sembra intenzionata a procedere con un decreto, però... “Che sia un decreto o un disegno di legge non è stato ancora deciso. Di sicuro sarà un provvedimento di carattere governativo, non parlamentare. E, naturalmente, con FI e FdI cercheremo di formare un puzzle di norme il più coeso possibile, in continuità con il primo decreto Sicurezza”. Ricompaiono molte norme finite su un binario morto in passato. Come quella con cui si vuole evitare alle forze dell’ordine l’iscrizione automatica nel registro degli indagati. Perché ora dovrebbe passare? “Perché non sarà uno scudo penale, ma una tutela processuale, e non riguarderà solo le forze dell’ordine, ma tutti i cittadini”. Di che tipo di tutela si tratta? “Diamo alla magistratura un tempo prestabilito per svolgere le indagini - si è parlato di diverse proposte, a noi andrebbe bene anche 60 giorni - durante il quale il pm stabilirà se c’è un’evidente causa di giustificazione, ad esempio, per un poliziotto che ha usato legittimamente la sua arma. In quel caso, il poliziotto non va iscritto nel registro degli indagati. E lo stesso vale per il cittadino che si difende in casa sua o nel suo negozio. In caso contrario, verrà indagato”. Tra le misure, si parla anche di borseggi, nonostante il tema sia stato affrontato nel dl Sicurezza di giugno. Perché? “Stavolta siamo intervenuti sulla procedura: torneranno a essere reati procedibili d’ufficio. Consentiremo così al cittadino di non dover presentare querela e alle forze dell’ordine e alla magistratura di perseguire il colpevole con maggiore efficacia”. Anche di furti in casa ve ne eravate occupati nel 2019. Ora cosa cambierebbe? “Vogliamo aumentare da 4 a 6 anni la pena minima e da 7 a 8 anni la massima”. Partendo da 6 anni sarà difficile evitare il carcere... “Esatto. E prevediamo l’arresto in flagranza differita, che consente di arrestare soggetto anche a distanza di 48 ore se scoperto dalle telecamere”. Tra furti e borseggi, non si rischia di intasare il lavoro delle procure e gravare ancor di più sulle carceri? “Non è un buon motivo per lasciare impunito chi delinque. Il primo obiettivo è ridare credibilità al nostro Paese e serenità alle comunità”. E perché vietare il burqa? Nessun dato dice che sia una minaccia per la sicurezza... “Vogliamo far rispettare le leggi che già ci sono”. Quale legge? “Una norma del 1975 che vieta di indossare indumenti che celino l’identità senza giustificato motivo. Noi togliamo la parte “senza giustificato motivo”. Era nata per evitare i passamontagna dei rapinatori. Ora non le sembra un attacco alla confessione islamica? “Nessuna volontà di colpire la confessione religiosa. È solo una questione di regole”. E perché togliere la possibilità di ricongiungimenti familiari ai migranti con padri anziani e malati o con figli maggiorenni disabili? “Siamo partiti dai dati: il 36% dei permessi di soggiorno, che oggi sono oltre 100 mila, viene rilasciato per motivi familiari. Riduce la platea e alza il limite di reddito per chiedere il ricongiungimento”. Per Salvini i migranti che si integrano sono benvenuti. Così non gli chiudete la porta? “Benvenuti, sì, ma secondo le nostre regole: si entra solo con determinati requisiti. Ed evitiamo un incremento dei costi del welfare. Per chi delinque invece, proponiamo espulsioni più rapide e, se farà ricorso, il procedimento non si fermerà” Sicilia. Nei penitenziari minorili il riciclo diventa arte con le bottiglie in Pet di Barbara Millucci Corriere della Sera, 13 novembre 2025 Pet-art oltre le sbarre. Opere d’arte realizzate con pet riciclato da giovani detenuti degli Istituti Penali per i Minorenni (Ipm) al fine di raccontare un viaggio simbolico, all’insegna della sostenibilità, della rinascita e della crescita personale. Redivivus è un progetto di giustizia minorile presentato presso l’Istituto Centrale del Restauro al Complesso Monumentale di San Michele a Ripa a Roma, che trasforma il riciclo in un percorso di rinascita e trasformazione. Protagonisti i giovani degli Ipm e degli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni di Palermo, Catania, Acireale e Caltanissetta, autori di 19 opere realizzate con bottiglie in Pet riciclate. L’iniziativa intreccia arte, sostenibilità e inclusione sociale, offrendo ai ragazzi coinvolti la possibilità di trasformare materiali di scarto in nuovi strumenti espressivi, all’insegna della consapevolezza interiore e di una libertà perduta. Vite che rinascono - “Crediamo che il riciclo non sia solo un gesto ambientale, ma anche culturale e sociale: significa riconoscere potenzialità dove altri vedono solo scarto”, afferma Giovanni Cassuti, Presidente di Corepla. “È da questa visione che nasce Redivivus, un’iniziativa che dimostra come la sostenibilità può generare percorsi di crescita, bellezza e riscatto, anche per chi vive condizioni di fragilità. Le bottiglie rinascono, ma anche i ragazzi possono farlo, se messi nelle condizioni di riscoprire sé stessi e immaginare un futuro diverso”. L’arte del riciclo che rieduca - Attraverso il riciclo del Pet, i giovani hanno dato nuova vita a materiali di scarto reinterpretando grandi opere della storia dell’arte: una rievocazione creativa che trasforma la plastica in espressione artistica. Una scoperta creativa oltre che ontologica. Gli autori in erba, creando con le proprie mani, hanno scoperto la possibilità di costruire un’immagine diversa di sé e da come viene percepita all’esterno. Una narrazione all’insegna della libertà di espressione che riflette la forza della creatività come strumento di responsabilizzazione e riscatto umano, oltre che personale. Partito dalla Sicilia, Redivivus è un modello educativo che punta alla rieducazione, responsabilizzazione, e reinserimento sociale, e coinvolge ragazze e ragazzi che vivono un momento di restrizione della libertà in un cammino di crescita, consapevolezza e nuove possibilità. All’interno degli Istituti Penali per Minorenni e dei Servizi di Giustizia Minorile, il progetto offre spazi autentici di espressione e ascolto, restituendo ai giovani il senso di una presenza adulta capace di accompagnarli, riconoscerli e non abbandonarli proprio nel momento in cui ne hanno più bisogno. Oltre le sbarre, la speranza - La situazione della giustizia minorile in Italia ha numeri da brivido. Alla fine di aprile 2025, erano 611 i giovani presenti nei 17 Istituti Penali per Minorenni, di cui 27 ragazze e circa la metà di origine straniera. A metà giugno, secondo l’Associazione Antigone, il numero restava elevato con 586 presenze complessive. Se si considera invece l’intera platea dei minori e giovani adulti sottoposti a misure restrittive della libertà personale (non solo in carcere, ma anche in comunità, in affidamento o in percorsi di messa alla prova) secondo il Garante Lazio il numero sale a 4.747 su scala nazionale nei primi nove mesi del 2025, rispetto ai 4.391 registrati a fine 2024, con un aumento dell’8,1 per cento. Nello stesso periodo, il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Lazio ha segnalato un incremento analogo dell’8,1 per cento rispetto all’anno precedente. Il dato più allarmante riguarda l’aumento della presenza di ragazzi in custodia, un indicatore che non segnala solo un irrigidimento delle risposte penali, ma rivela anche le fatiche profonde del sistema educativo e sociale nel prevenire il disagio, nel riconoscerlo per tempo e nel prendersene cura prima che si traduca in devianza. Dietro ogni numero, c’è spesso un bisogno inespresso ed una storia che andrebbe raccontata oltre che ascoltata. Ecco perché iniziative come Redivivus non sono semplici progetti, ma atti concreti di responsabilità collettiva, che offrono ai giovani strumenti reali per immaginare un futuro diverso. Dove anche a chi sbaglia vengono date nuove chance. L’iniziativa di rieducazione sociale è promossa da Corepla, con il patrocinio del Ministero della Giustizia e a cura di Mani&Mente di Romina Scamardi Milano. La Camera Penale protesta contro la stretta del Dap sugli eventi in carcere Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2025 Annullato un evento per i detenuti di Opera. La circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria impone l’autorizzazione: “Tolta autonomia alle Direzioni”. Con una nota del 21 ottobre il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria “ha imposto a tutte le Direzioni” delle carceri “di chiedere l’autorizzazione per lo svolgimento di eventi e iniziative all’interno degli istituti penitenziari”, con “una sorta di centralizzazione, che ha tolto qualsiasi autonomia alle Direzioni”. Un provvedimento stigmatizzato dagli avvocati della Camera penale di Milano e che ha già portato “all’annullamento, improvviso e privo di motivazione” di un evento che era previsto alla Casa di Reclusione di Opera, al quale “erano regolarmente iscritte 140 persone”. “Rivolgiamo un appello al Dap - si legge in un documento della Camera penale milanese - affinché venga ripensata l’impostazione che ha guidato questa decisione, così come le precedenti direttive in materia, auspicando l’apertura di un confronto costruttivo, al fine di tornare a soluzioni equilibrate che hanno sempre consentito di garantire la sicurezza senza sacrificare la dimensione trattamentale e rieducativa della detenzione, pilastri irrinunciabili di un sistema penale rispettoso dei principi costituzionali”. Per il 14 novembre, “presso il teatro del carcere di Opera, era previsto l’ingresso di 140 visitatori per assistere a un evento inserito, come ormai da tradizione, nel programma di Book City Milano”. Era stato organizzato dall’associazione ‘Per i diritti’, che “da dieci anni conduce nella sezione AS1 del carcere di Opera momenti di lettura condivisa e di successiva condivisione con la società esterna di un gruppo di detenuti”. All’interno di un istituto penitenziario, spiega la Camera penale, “queste attività assumono un valore ancora più rilevante: offrono momenti di normalità, stimolano la crescita personale, rafforzano il senso di comunità e contribuiscono al percorso rieducativo, aiutando a ridurre isolamento e conflittualità”. Roma. Nella casa dove i detenuti si sentono a casa di Ilaria Dioguardi vita.it, 13 novembre 2025 Nel quartiere Città giardino, l’associazione Volontari in carcere-Vic ha una casa che accoglie i detenuti in permessi premio o in situazione di misure alternative alla detenzione. Spazi a misura di relazione, dove possono trascorrere del tempo con i loro cari. Il racconto di una mattinata nella casa, con gli ospiti Ettore, Sandro, Anita (nomi di fantasia), l’operatore Maurizio e i volontari Gianfranco e Chiara. Lei fa volontario in carcere da 17 anni: la sua storia è una delle dieci che VITA ha raccolto in “Volontario, perché lo fai?”, andando proprio là dove tutto farebbe pensare che “tanto non cambia niente”. È una splendida giornata d’autunno a Roma, la classica ottobrata romana. Percorro la stretta via che mi porterà a destinazione, nella zona nord-est della Capitale, nel quartiere Città giardino. Suono al citofono di un portoncino con la targa di Volontari in carcere - Vic. Mi apre con un sorriso Chiara Ioele, 50 anni, volontaria dal 2008 dell’associazione: “In 17 anni neanche un giorno ho pensato “ma chi me lo fa fare? Lascio stare”“, dice subito. Chiara è una delle volontarie che si raccontano nel nuovo numero di VITA, titolato Volontario, perché lo fai? (se hai già un abbonamento, grazie e leggi subito qui il numero): uomini e donne impegnati in servizi “di confine”, là dove verrebbe più facile pensare che “tanto non cambia niente”. E invece… Il senso di impotenza, confessa “lo provo tutti i giorni”. Un po’ quando “vedo rientrare in carcere ragazzi che potrebbero avere altre prospettive di vita”, un po’ per “la rigidità delle istituzioni, ogni cosa lì dentro diventa un problema enorme”. Ma mai, appunto, ha pensato di mollare. Al Vic come a casa, seppure “a tempo”, insieme ai propri cari - Nata dall’esperienza di un gruppo di volontari della Caritas diocesana di Roma, Volontari in carcere - Vic opera nei quattro istituti penitenziari di Rebibbia (tre maschili e un femminile) e nel reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini. Chiara mi racconta, con l’entusiasmo e la passione negli occhi, che, una volta alla settimana, da 17 anni va a fare attività di ascolto nella casa di reclusione del carcere romano. La casa di accoglienza del Vic nella quale ci troviamo accoglie dal 2017 ristrette e ristretti in permessi premio o in situazione di misure alternative alla detenzione, offre ospitalità anche ai familiari che vengono da fuori. “È una delle poche strutture di accoglienza per detenuti che accoglie sia uomini che donne, offrendo la possibilità di trascorrere dei periodi di libertà con i propri cari in un ambiente familiare”, dice Ioele. Su tre piani, in questo periodo la casa non è del tutto abitata: “Purtroppo è difficile che sia piena, non è facile ottenere i permessi premio”. Melanzane alle 11 - Mentre parliamo, saliamo le scale e arriviamo in cucina, un ampio ambiente che si affaccia su un grazioso giardino. Seduto al tavolo, davanti alla tv accesa, c’è Ettore (nome di fantasia). Avrà circa 40 anni, le braccia e il collo sono colorati da molti tatuaggi, sta mangiando delle melanzane. “Io pranzo tutti i giorni alle 11-11,30, in carcere sono abituato così”. Sandro (nome di fantasia) è fuori, si concede qualche raggio di sole. Ci saluta con un sorriso, ogni tanto entra a controllare le pentole sui fornelli accesi, aspetta che il suo pranzo sia pronto. Nella stanza adibita ad ufficio dell’associazione incontro Maurizio, operatore della casa di Vic, e Gianfranco, marito di Chiara e volontario anche lui, intento a lavorare. “Ci siamo conosciuti grazie all’associazione. Il “lavoro” ce lo portiamo anche a casa, è inevitabile”, dicono Chiara e Gianfranco. “Nostro figlio di 11 anni ci sente sempre parlare di cosa succede in carcere; pochi giorni fa ha conosciuto un suo coetaneo che gli ha detto che abita a Rebibbia, lui è rimasto sorpreso: pensava che così si chiamasse solo il carcere e non anche una zona di Roma. A casa nostra è capitato anche di ospitare, in emergenza, alcuni parenti di detenuti”. Alla parete, sono appese le chiavi delle stanze e, sopra, una foto che colpisce la mia attenzione: una mamma e una bambina dietro le sbarre di una finestra del carcere. La prima notte fuori, dopo sei anni - “Questa notte un “permessante”, dopo sei anni in carcere, ha trascorso la prima notte fuori Rebibbia”, mi racconta Maurizio, che prende una delle chiavi appese nell’ufficio e mi porta a vedere una delle stanze. “Questa mattina mi ha confessato di aver passato tutta la sera fuori in giardino, di essere rimasto per un’ora a fissare le luci degli appartamenti intorno che si accendevano e si spegnevano. Mi ha detto: “Mi mancava vedere la vita della gente nelle case. Amo immaginare da chi sono abitate, cosa succede all’interno. In carcere c’è poco spazio per l’immaginazione”. Nelle stanze della casa ci sono letti singoli: “All’inizio c’erano letti a castello, ma li abbiamo tolti perché ai nostri ospiti ricordavano troppo il carcere: almeno quelle poche notti che possono passare fuori, hanno voglia di sentirsi come a casa. Anche le grate alle finestre danno loro fastidio, spesso le spalancano per avere tutta la finestra libera da sbarre, che in carcere sono ovunque”, racconta Maurizio. Piccoli dettagli, che fanno la differenza. A “casa” con la nonna - Mentre parliamo sento che, al piano di sopra, ci sono dei bambini che corrono e ridono. Salgo a conoscerli, sono i nipoti di Anita (nome di fantasia), che giocano e si rincorrono dentro e fuori la casa, mentre la loro nonna e la loro mamma stanno cucinando una minestra. Il maschio avrà quattro anni e la femmina otto-nove, si stanno rincorrendo in giardino. Hanno potuto trascorrere la notte qui insieme alla nonna, li ha raggiunti la mamma e tra poco pranzeranno. li incontriamo di lunedì: Anita potrà stare nella casa fino a venerdì, per poi tornare in carcere. Dai suoi occhi già si intravvede un velo di tristezza al pensiero che, tra quattro giorni, non potrà più trascorrere le giornate con la figlia e i nipotini, per un po’ di tempo. Mi confida che, quando può uscire in permesso premio, non vede l’ora di passare qualche giorno con loro. Stanotte hanno dormito poco, si sono raccontati tante cose. Ma adesso i ditalini rigati sono cotti e si siedono a mangiare tutti e quattro insieme. Gli ospiti della casa sono autonomi, di giorno ci sono i volontari a loro disposizione, di notte sono soli. “Ci sono state delle evasioni, è capitato. Ma non è mai successo nulla, né alla casa né a ciò che c’è dentro. Chi viene qui sa che, se si comporta bene, potrà tornarci, a discrezione del magistrato di sorveglianza. Se fa qualcosa di sbagliato potrebbe non avere più permessi premio”. Esco dalla casa, in punta di piedi come ci sono entrata. So già che questa mattinata mi resterà nei ricordi e nel cuore. Udine. Il carcere si rinnova: spazio per dar lavoro a 15 detenuti di Stefano Damiani lavitacattolica.it, 13 novembre 2025 I lavori per la ristrutturazione del carcere di Udine “sono in dirittura d’arrivo”: dopo l’apertura dell’ala per i semiliberi, a breve, “forse già entro il prossimo mese”, saranno pronti gli spazi in cui una quindicina di persone detenute potrà lavorare, restando all’interno del carcere. A farlo sapere è Andrea Sandra, Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale del Comune di Udine, annunciando il Seminario che il suo ufficio ha organizzato per giovedì 13 novembre, in sala Ajace, dalle ore 9 alle 19. Patrocinato dal Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Udine, dall’Azienda sanitaria Universitaria Friuli Centrale, dall’ordine degli Avvocati e da quello degli Architetti, l’evento, che è aperto a tutta la cittadinanza, “ha lo scopo portare alla luce le problematiche del carcere di Udine, a partire dal sovraffollamento, che a fronte di 90 posti vede attualmente la presenza di 180 detenuti. Ma si parlerà anche di un aspetto importante e positivo: la ristrutturazione dell’ex sezione femminile, dove molti spazi sono già stati completati e resi utilizzabili, altri sono in fase di completamento e contiamo di finire tutto entro la fine del prossimo anno”. Negli ambienti ristrutturati è già operativa la sezioni per i semi-liberi, ovvero quei detenuti che dormono in carcere, ma lavorano fuori in un percorso di reinserimento graduale nella società libera. “Questa sezione, che ospita 11 persone, è ben funzionante, con soddisfazione non soltanto dei detenuti, ma anche del personale di sorveglianza”, afferma Sandra. In settimana, invece, ci saranno i collaudi per l’area relativa all’educazione e al lavoro. “Sono state realizzate delle aule studio molto luminose e confortevoli - prosegue il Garante - ed è la prima volta che il carcere di Udine si dota di ambienti nei quali alcune aziende potranno far lavorare le persone detenute con contratti di lavoro del tutto identici a quelli esterni. Il lavoro è importante non solo dal punto di vista economico, ma soprattutto da quello “trattamentale” per consentire il reinserimento. Le aziende che opereranno nel carcere sono già state identificate: una cooperativa veneta che si occupa di assemblaggio e una sartoria. I detenuti impiegati, una quindicina, saranno scelti in base alle relazioni degli educatori. Mi auguro si possa partire già con il prossimo mese”. Gli ultimi due interventi strutturali saranno, infine, una sala multifunzionale costruita ex novo, da 100 posti, per attività di spettacolo e cultura, con protagonisti anche i detenuti, aperto alla città (avrà pure un accesso dall’esterno), e un campo di calcio in erba sintetica”. Nel corso del seminario si tratteranno anche altri argomenti. Di salute mentale in carcere, problema di sempre più difficile gestione e che richiederebbe strumenti diversi, parleranno il direttore del Dipartimento di Salute mentale, Marco Bertoli, e la psichiatra del carcere, Alessia Lestani. A seguire un dibattito su possibili riforme delle carceri, osservate dal punto di vista femminile con interventi di Susanna Ronconi, saggista, Giovanna Del giudice, psichiatra, Giulia Melani, sociologa e presidente della Società della ragione, Sarah Grieco, esperta di giustizia riparativa, Letizia Lo Giudice, avvocata, Sofia Ciuffoletti, Garante di Firenze, e Natalia Rombi, docente di Procedura penale all’Università di Udine. “L’auspicio è che dagli approfondimenti possano uscire proposte da suggerire al Governo”, conclude Sandra. Pordenone. Il carcere di San Vito al Tagliamento: ricadute integrate e valore aggiunto di Enrico Conte* ilpensieromediterraneo.it, 13 novembre 2025 È in corso di realizzazione il nuovo carcere di San Vito al Tagliamento, un istituto penitenziario che ospiterà 300 detenuti e che contribuirà a dare una pur timida risposta al tema del sovraffollamento: in aprile 2025 si contavano 62.445 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 51mila posti e 47mila di capienza effettiva. Un tasso di sovraffollamento medio stimato in 130%, una criticità che porta molto spesso a ricorrere a soluzioni di emergenza (spazi adattati, brandine), con condizioni detentive con un record di decessi e suicidi (nel 2024, 88 casi, escludendo il personale penitenziario). L’Associazione Antigone denuncia che il peggioramento di anno in anno viene aggravato dall’approccio panpenalistico che crea sempre nuovi reati, come quello di rivolta penitenziaria. Su 87 Carceri visitate da Antigone il 32% aveva celle nelle quali non erano garantiti i tre mq calpestabili per persona come prescritto, oltre la metà delle celle visitate non avevano la doccia, in quasi la metà mancava l’acqua calda, in una ogni dieci il riscaldamento. Dopo la sentenza del 2013 della Cedu sul caso Torreggiani (Italia condannata per detenzioni degradanti e in contrasto con l’art 3 della Convenzione Cedu) una volta riconosciuto che il sovraffollamento è un malfunzionamento cronico del sistema, l’Italia è stata incoraggiata ad adottare, in alternativa, misure punitive non detentive. Per evitare le condanne si modificò, allora, una norma dell’ordinamento penitenziario, prevedendo che, al detenuto, fosse concesso chiedere 1 giorno di riduzione della pena ogni 10gg trascorsi in condizioni disumane (sovraffollamento, spazi vitali insufficienti, mancanza di igiene, luce, aria) oppure, in alternativa, 8 euro al giorno per il periodo trascorso, se la pena è già stata scontata. Nel 2024 sono circa 6mila i casi riconosciuti di trattamenti degradanti o disumani. Ma un carcere non è solo un intervento securitario, peraltro di grande necessità visti i numeri, è anche un’opera pubblica strategica di rigenerazione urbana che ha un impatto significativo sul territorio a partire da quello urbanistico, per toccare quello socio-economico e dei servizi complementari attivabili. Non una “cattedrale nel deserto”, bensì un organismo vitale che, al pari di ogni infrastruttura complessa, entra in relazione generativa con il contesto. Quella di San Vito al Tagliamento, intanto, quanto a scelta insediativa, un’operazione virtuosa perchè prevede il recupero e la rifunzionalizzazione di una vecchia Caserma in abbandono da venti anni. In linea con le nuove tendenze sul governo sostenibile del territorio, a partire dalla necessità di contenere il consumo di suolo. Rapporto Ispra 2023: il consumo di suolo in Italia ha la velocità di 2,4 metri quadri al secondo, in 12 mesi 77 kmq, un uso predatorio e dissipatorio, privo di sguardo lungo. A ciò si aggiunga che, ultimata la costruzione, bisognerà occuparsi delle forniture legate alla mensa, allo spaccio, ai servizi di pulizia e manutenzione, agli alloggi per il personale e le famiglie in visita, ai servizi per gli avvocati e consulenti che ruotano intorno ad un carcere, ai servizi sanitari. L’opera, anche grazie ad un rapporto virtuoso con il Comune ospitante, andrà integrata con il territorio circostante svolgendo un ruolo di soggetto catalizzatore con azione conformativa. Non solo intervento “edilizio”, ma organismo vivente che dialoga con il contesto e lo spazio pubblico, partendo dal mettersi in relazione con le opere di urbanizzazione secondaria da realizzare. Non ultimo con quelle di ripristino della natura: il Regolamento Ue 2024/1991 prevede, come azione di mitigazione climatica, che almeno il 30 % del suolo venga rinaturalizzato entro il 2030. E allora, certo un intervento del piano carceri (fonti ministeriali prevedono 11mila posti entro il 2027 e l’assunzione di 2mila agenti) per dare dignità agli spazi destinati alla detenzione: una cella sovraffollata, e priva di servizi di base, è degna di un Paese civile e può considerasi congruente con la funzione rieducativa della pena? Ma anche operazione che, grazie alla sua forza “regolatrice”, sia capace di incidere sul contesto, con processi di autentica rigenerazione grazie all’ imprescindibile rapporto tra Direttore del Carcere, Sindaco e comunità locale. Fanno parte di questo nesso i rapporti con quei soggetti associativi e del Terzo settore che curano progetti per il reinserimento sociale e la formazione professionale del condannato. E ancora la possibile promozione di co-programmazione e co-progettazione con il Terzo settore, prevista anche dal nuovo Codice dei Contratti, in chiave di sussidiarietà orizzontale. Un Cantiere di iniziative, un laboratorio, una “istituzione totale” che può diventare fabbrica dell’umano-sociale che si rieduca e si rigenera, partendo dalla considerazione preventiva del suo impatto primario, grazie ad un confronto-coinvolgimento stabile tra istituzioni, attori territoriali e comunità locale. *Già Direttore Dipartimento LL.PP. e PPP del Comune di Trieste Siracusa. La cooperazione sociale come ponte tra detenzione e nuova vita di Giulio Perotti siracusanews.it, 13 novembre 2025 Ridurre la recidiva dal 70% al 10% grazie al lavoro: il protocollo tra Ministero e Confcooperative punta sulla formazione. Il lavoro come strumento di riscatto e inclusione. È questo il cuore del convegno “Carcere e Lavoro: gli strumenti disponibili”, organizzato da Confcooperative Federsolidarietà Sicilia, con il sostegno della sede territoriale di Confcooperative Sicilia di Siracusa e della Cooperativa Sociale L’Arcolaio, che si è svolto questa mattina, mercoledì 12 novembre 2025, all’Urban Center di Siracusa. Durante l’incontro è stato presentato il Protocollo d’Intesa tra il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Confcooperative-Federsolidarietà, rinnovato lo scorso novembre, che punta a promuovere opportunità di lavoro e formazione per i detenuti e a valorizzare le misure alternative alla detenzione. Un dato eloquente ha aperto i lavori: per i detenuti che lavorano con le cooperative sociali, il rischio di recidiva si riduce dal 70-80% a meno del 10%. Il protocollo prevede la creazione di un tavolo tecnico nazionale incaricato di elaborare modelli di convenzioni e linee guida per lo sviluppo di attività lavorative e di recupero sociale all’interno degli istituti penitenziari. L’obiettivo è favorire percorsi reali di reinserimento, superando logiche assistenziali e puntando su competenze, professionalità e responsabilità. A testimoniare la forza di questo modello è stata la Cooperativa Sociale L’Arcolaio, che da oltre vent’anni opera all’interno del carcere di Cavadonna. “L’Arcolaio è citato come un esempio virtuoso - ha ricordato Giuseppe Pisano, presidente della cooperativa - perché in più di vent’anni abbiamo accompagnato al lavoro quasi 500 detenuti. Abbiamo insegnato loro un mestiere, ma soprattutto a lavorare in gruppo e a prendersi delle responsabilità. È una sfida quotidiana, ma i risultati sono tangibili: meno recidiva, più dignità e nuove prospettive di vita.” A confermare la concretezza di questo percorso è stato Luciano Ventura, segretario generale di Confcooperative Sicilia. “Il lavoro in carcere è realmente possibile. La cooperativa L’Arcolaio lo dimostra da anni. La cooperazione sociale ha nelle sue corde l’attenzione verso i soggetti fragili e chi è più fragile di chi deve ricostruire la propria vita dopo un periodo di detenzione? Servono impegno, costanza e collaborazione tra istituzioni, terzo settore e comunità, ma i risultati sono enormi: per chi è dentro, per chi è fuori e per tutta la società.” Sul ruolo delle istituzioni locali è intervenuto Marco Zappulla, assessore alle Politiche Sociali del Comune di Siracusa. “Stiamo costruendo una sinergia concreta tra pubblico e privato - ha detto Zappulla -. Questa collaborazione sta dando risultati perché produce servizi reali e nuove opportunità di reinserimento. Il lavoro è la vera chiave della dignità, per i detenuti come per i giovani, le persone con disabilità o chi vive fragilità sociali. Il progetto ‘Le Tele di Aracne’, ad esempio, è un modello replicabile: un luogo simbolo di rinascita dove chi ha bisogno può riscoprire il proprio talento e ritrovare un ruolo nel mondo del lavoro.”ù A chiudere i lavori è stato Stefano Granata, presidente nazionale di Confcooperative Federsolidarietà, che ha evidenziato la necessità di rendere effettivo il protocollo con il Ministero della Giustizia. “Chi lavora durante la detenzione ha solo il 2% di possibilità di recidiva - spiega -. È un dato straordinario che dovrebbe bastare a convincere tutti. Purtroppo, però, solo il 20% dei detenuti lavora, e la maggior parte di questi alle dipendenze dirette del carcere. Le cooperative sociali restano quasi le uniche imprese capaci di entrare nelle strutture penitenziarie, ma serve meno diffidenza da parte delle direzioni e più strumenti di supporto.” Granata ha poi aggiunto: “Oggi abbiamo cooperative più solide e mature, pronte a giocarsi questa sfida insieme alle istituzioni. Ma serve passare dalle buone intenzioni ai fatti, rinnovando un patto che metta davvero il lavoro al centro del reinserimento sociale e della sicurezza collettiva.” Pisa. Giustizia riparativa e le condizioni in carcere: la rassegna per ragionare su passato e presente pisatoday.it, 13 novembre 2025 L’iniziativa si inserisce nella cornice delle celebrazioni dei 260 anni dall’insediamento di Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena come Granduca di Toscana. Conoscere da vicino la condizione carceraria e l’applicazione in concreto dei principi di giustizia riparativa per comprenderne le criticità operative che si riscontrano anche a Pisa. Sono questi gli obiettivi dell’incontro ‘Il codice penale toscano dal 1786 di Pietro Leopoldo e il principio della pena riparativa di oggi, tra passato e presente. Uno sguardo sulla condizione carceraria’, che si terrà giovedì 13 novembre alle 21.15 nella biblioteca dell’ex convento dei Cappuccini a Pisa in via dei Cappuccini 2b. L’iniziativa, promossa dal Centro Studi ICappuccini Acli Persone Comunità in collaborazione con Acli Provinciali di Pisa e Lucca asp, Controluce, Libera Pisa, Ora Legale e Federazione Anziani e Pensionati Acli (FAP) e realizzata con il contributo della Regione Toscana, si inserisce nella cornice delle Celebrazioni dei 260 anni dall’insediamento di Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena come Granduca di Toscana. E’ proprio a partire dalle innovative riforme di Pietro Leopoldo in materia di giustizia e della nuova interpretazione della pena che si aprirà il dibattito, con l’intervento del dott. Marco Manfredi, storico dell’Università di Pisa, per inquadrare il contesto in cui venne istituito il Codice Penale Toscano del 1786, emanato 22 anni dopo la pubblicazione a Livorno nel 1764 di Cesare Beccaria di ‘De’ delitti e delle pene’. Testo che ha precorso l’applicazione legislativa dei principi per una nuova interpretazione della pena, fondamento degli stati moderni e poi contemporanei e a cui si ispira la stessa Costituzione Repubblicana, come l’abolizione della pena di morte, della tortura, l’utilità sociale e il valore simbolico della pena, i diritti e i doveri dell’imputato e della corte per eliminare arbitrio e terrore nell’amministrazione della giustizia. A seguire l’intervento dell’avvocato Valentina Abu Awwad, Garante delle persone private della libertà personale del comune di Pisa che entrerà nel merito dei principi della giustizia riparativa e di come oggi viene applicata nel nostro territorio presentando anche la situazione carceraria reale del ‘Don Bosco’. Quest’ultimo aspetto verrà presentato anche attraverso la testimonianza diretta di un ex detenuto e sarà moderato da Luisa Prodi fondatrice e volontaria di Controluce odv, associazione di volontariato penitenziario presso il carcere don Bosco di Pisa. L’iniziativa apre il cartellone di ‘Ripensare la pena. La giustizia riparativa ed il carcere oggi’ che vedrà nel mese di novembre altri appuntamenti in programma come un incontro con testimonianze rivolto agli studenti del Liceo Classico Galilei di Pisa a cura di Controluce, Ora Legale e Libera Pisa (data ancora da definire) con la partecipazione di don Armando Zappolini e che due cineforum con dibattito: il primo, il 14 novembre alle ore 17.30 con la proiezione di ‘La gazza ladra’ regia di Robert Guédiguian alla sede Acli Lucca di via Catalani 59 promosso da Circolo Acli Lucca Città e Libera Lucca con la partecipazione di don Andrea Bigalli referente di Libera Toscana; il secondo, il 28 novembre alle ore 21 con la proiezione di ‘Quasi amici’ regia di Olivier Nakache e Eric Toledano promosso dal circolo Acli Pontegrande Toniolo di Calci presso la sala Consiliare del Comune di Calci. Torino. Morta Maria Teresa Pichetto, portò la cultura in carcere vocetempo.it, 13 novembre 2025 Grande cordoglio nella Chiesa torinese e in Città per l’improvvisa scomparsa della studiosa, fra i fondatori del Polo Universitario per studenti detenuti. È morta improvvisamente ieri sera nella sua abitazione di Rivoli Maria Teresa Pichetto, 86 anni, figura di spicco nella Chiesa torinese e nel mondo accademico, fra i fondatori del Polo Universitario presso il Carcere di Torino. Allieva di Norberto Bobbio, già professoressa ordinaria di Storia del Pensiero politico presso la Facoltà di Scienze politiche, Maria Teresa Pichetto - gli amici la chiamavano Lilli - ha dedicato i suoi studi alla storia dell’Utopia, al pensiero politico francese e inglese, al dibattito sull’antisemitismo in Italia e a momenti e figure del Risorgimento, oltre ai temi del carcere. Impegnata nel Gruppo Docenti Universitari Cattolici, ha seguito dall’inizio l’esperienza del Polo universitario per studenti detenuti come docente e, per dodici anni, come delegata del Rettore dell’Università di Torino. Fra i suoi libri in questo settore “Se la cultura entra in carcere”, edito da Effatà. La professoressa Pichetto, sorella di Giuseppe Pichetto che fu presidente della Camera di Commercio, lascia un ricordo amabile e molto bello nella sua parrocchia di adozione, la Crocetta di Torino, nel mondo della cultura subalpina, ma soprattutto fra i detenuti che ha accompagnato per tanti anni alla laurea e al riscatto, al reinserimento nella società. Studenti che dopo la scarcerazione continuava a frequentare come amici e come compagni di “battaglia” per la dignità nel mondo carcerario: le hanno voluto bene. L’Italia deve tornare a leggere di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 13 novembre 2025 Siamo fanalino di coda in Europa per laureati, diplomati e comprensione dei testi. Così è a rischio il futuro. Oltre la finanziaria, oltre Landini e il “campo largo” abbiamo anche altri problemi, e forse persino più importanti, anche se ce ne occupiamo poco o nulla. Ad esempio che l’Italia è un Paese ignorante. Siamo infatti tra gli ultimi in Europa come numero di diplomati di scuola superiore, al penultimo posto per numero di laureati (il 42 per cento degli iscritti all’Università abbandona dopo il primo anno) e con forti squilibri tra Nord e Sud (nel Mezzogiorno solo un giovane su cinque è laureato). Ma non si tratta solo del puro possesso di un pezzo di carta: dall’inizio del nuovo secolo è la qualità complessiva dell’istruzione, anche primaria, che è letteralmente collassata. Altrimenti non ci troveremmo davanti i dati drammatici che ci offre il Censis, secondo il quale sono sempre di più gli italiani che non capiscono un testo scritto e non sanno esporre ciò che vorrebbero dire: praticamente un popolo di semianalfabeti, incapaci di comprendere il contenuto di un qualunque avviso pubblico o di raccontare la trama di un film. Che razza di futuro può avere un Paese del genere? quale luminoso sviluppo economico prepara una simile ignoranza? Premessa e conseguenza ovvia di quanto sopra, una sua misura oggettiva è il progressivo abbandono della lettura. Sempre di più l’Italia è un Paese che non legge. Secondo un recente rapporto dell’Associazione degli editori negli ultimi 12 mesi il 38 per cento degli italiani tra i 15 e i 74 anni non ha comprato neppure un libro (e si può a ragione dubitare che ne abbia letto qualcuno), e sempre in questa fascia di età solo il 73 per cento dichiara di aver letto almeno un libro negli ultimi dodici mesi. In compenso il 77 per cento della popolazione fa uso di uno smartphone: praticamente quasi tutti coloro che hanno più di 15 anni (siamo il quinto Paese al mondo per diffusione di telefoni cellulari). Ma anche per fare un buon saldatore o un bravo spedizioniere forse serve un libro. L’idea che qualunque tipo di conoscenza possa prescindere dalla carta stampata grazie alle slides, al power point, ai tutorial o alle lavagne interattive multimediali è solo una sciocca illusione. L’Italia che non legge non è un avamposto della modernità, insomma, è semplicemente la scena di una catastrofe annunciata. Una catastrofe culturale in un Paese dove tuttavia esiste (ma da decenni, è opportuno precisare: giusto per non fare dell’ultimo arrivato il capro espiatorio di turno) un ministero e quindi un ministro della Cultura. Ora, naturalmente nessuno ignora che la Scala, o la Biennale, o gli Uffizi, o Pompei, o il cinema - Sua Maestà il Cinema Italiano! - sono tutte cose che suscitano l’interesse dei giornali, della tv, gli appetiti dei partiti, dei sindaci, dei presidenti, la caccia ai posti e ai finanziamenti da parte degli amici e dei loro amici, laddove invece il misero “tascabile” da 10 euro, il manuale di vattelapesca, o la nobile collana di classici, non suscitano niente di paragonabile, diciamo pure che non gliene frega niente a nessuno. E però - oso rivolgermi direttamente al ministro - non si sente attratto proprio per questo, gentile Giuli, dal fascino donchisciottesco della difesa del debole, di presidiare le Termopili della cultura, di stare salgarianamente dalla parte votata alla sconfitta, cioè dalla parte della tribù in via di estinzione dei librai nella loro disperata battaglia contro i James Brooke di Cinecittà? Ma c’è poco da scherzare. Ciò di cui stiamo parlando infatti è una realtà drammatica, una vera e propria “emergenza lettura” che sta davanti al Paese. Per affrontare la quale non bastano i pannicelli caldi di un paio di centinaia di migliaia di euro distribuiti a pioggia qua e là. Serve ben altro. Serve un vero e proprio Piano Nazionale per la Lettura, uno sforzo coordinato e continuo, su più livelli, utilizzando più strumenti, e cercando di far lavorare la fantasia. Il principale obiettivo dovrebbe essere, io credo, quello di togliere i libri dall’arca santa delle librerie (tra l’altro in numero sempre minore) e immaginare viceversa luoghi e modi i più diversi d’incontro tra la gente e l’oggetto libro. Ad esempio sistemandone qualche decina qua e là nei luoghi più diversi - in migliaia di tali luoghi - e offrendoli gratuitamente alla lettura di chi ne vuole prender uno a suo piacere con l’invito (ma non l’obbligo) a riportarlo poi dove l’ha preso o magari portarne un altro, secondo il modello del “book crossing”. Libri acquistati dallo Stato dalle case editrici ma anche, per abbassare la spesa, dai grandi rivenditori di libri usati; libri collocati in appositi contenitori segnalati da un logo molto visibile e riconoscibile, posti nei luoghi più diversi. Negli atri delle stazioni, sui treni, negli ospedali, nelle università e negli istituiti scolastici, sulle metropolitane, nei centri commerciali, alle fermate dei mezzi pubblici (come avviene già oggi in alcune località dell’Alto Adige), negli uffici comunali, nelle grandi mense aziendali, negli autogrill, nei supermercati. Molti verrebbero rubati o abbandonati? Può essere ma sono sicuro che almeno i tre quarti rimarrebbero a disposizione dei lettori. Insomma inondare il Paese di libri in una grande campagna nazionale adeguatamente pubblicizzata, e se il costo è giudicato troppo alto si chieda l’aiuto di privati. Ce ne sono molti che hanno le case piene di libri che non sanno più dove mettere, e che certo sarebbero contenti di donarne una parte per un’iniziativa del genere. Comunque non basta: i bambini ancora leggono (i dati editoriali lo dimostrano), è invece nel passaggio all’adolescenza che l’abitudine a leggere subisce un tracollo: è dunque proprio lì che un ministero della Cultura degno di questo nome dovrebbe intervenire facendosi venire qualche idea. Tradizionalmente il potere italiano non brilla per fantasia, è restio a cercare vie nuove, è sempre pronto a trovare mille motivi per dire “non si può”. Ma qui ne va davvero dell’avvenire del Paese, della qualità civile e umana degli italiani. Solo la lettura risveglia la mente, alimenta l’intelligenza, rende liberi. Tutte cose di cui c’è un gran bisogno. Migranti. “Nel Cpr di Torino malati non tutelati”: giudice ordina di liberare un detenuto La Stampa, 13 novembre 2025 Una persona di 48 anni origine marocchina aveva segnalato di soffrire di una serie di patologie, dal diabete all’ipertensione. Le persone rinchiuse nel Cpr di Torino non sono tutelate a sufficienza dal punto di vista medico: è quanto ha concluso un giudice della Corte d’appello del capoluogo piemontese che ha annullato, per ragioni di salute, il trattenimento di una persona di origine marocchina di 48 anni. Il decreto del magistrato, che si basa anche su una recente pronuncia del Consiglio di Stato sulle problematiche dei Centri in materia di sorveglianza sanitaria, ribalta una decisione presa pochi giorni prima da un giudice di pace. Il migrante era stato portato nel Centro il 27 ottobre dopo l’espulsione disposta dalla prefettura di Monza. Oltre a chiedere la protezione internazionale, l’uomo aveva fatto presente di soffrire di una serie di disturbi. Un’Asl lombarda aveva comunque rilasciato un certificato di idoneità al trattenimento. Sulla base dei documenti presentati dalla difesa l’uomo risulta, sotto il profilo lavorativo, invalido al 75% per un infortunio patito nel 2009 (che all’epoca richiese un intervento neurochirurgico), che è diabetico, consumatore di alcol e droga e che accusa cefalee, perdita di memoria, lombalgia, ipertensione arteriosa. La decisione si basa anche sulla sentenza con cui lo scorso 7 ottobre il Consiglio di Stato ha annullato un decreto con cui il Ministero degli interni approvò lo schema del capitolato d’appalto sulla gestione dei Cpr sollevando una serie di problematiche sul trattamento delle persone malate. Secondo il giudice Giacomo Marson, infatti, il complesso delle circostanze “induce a ritenere che, allo stato attuale, in assenza di evidente dimostrative di condizioni differenti rispetto al Cpr (di Torino, ndr), le persone trattenute non siano sufficientemente tutelate da un punto di vista medico” che la situazione “non sia destinata a risolversi nel breve periodo”. Migranti. Patto Italia-Albania, così l’intesa tra Meloni e Tirana può arrivare al capolinea di Gianfranco Schiavone L’Unità, 13 novembre 2025 Nuovo siluro contro il protocollo. E stavolta può essere quello definitivo. La corte d’appello di Roma ha operato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia Ue che mina alla radice l’operazione di Meloni. Il 5 novembre 25, La Corte di Appello di Roma - sezione prot. internazionale, dovendo decidere su una richiesta di convalida del trattenimento di un cittadino marocchino che aveva presentato una domanda di asilo nel centro di Gjader in Albania, ha deciso di operare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) in quanto “dubita che vi fosse la competenza dell’Italia a stipulare il cd protocollo Italia-Albania” e comunque la Corte “dubita, in ogni caso, della conformità di talune disposizioni del protocollo con il diritto dell’Unione”. Non si tratta certo del primo rinvio alla CGUE delle disposizioni del Protocollo italo-albanese (sui profili di incompatibilità del trattenimento in Albania richiamo la Corte di Cassazione, prima sez. penale, con decisione n. 23105-25 su cui scrissi nell’edizione dell’Unità del 25 giugno scorso) ma quello della Corte d’Appello di Roma è più ampio ed affronta nodi cruciali che riguardano la legittimità in sé del Protocollo, e in via indiretta di tutte le proposte di esternalizzazione delle procedure d’asilo al di fuori dell’UE. La Corte d’Appello di Roma parte dall’analisi delle disposizioni contenute nell’art. 4 par. 3 del TUE (Trattato sull’Unione Europea) e negli artt. 3 par. 2 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) e nell’art. 216 par. 1 dello stesso TFUE. Richiamando diverse sentenze della stessa CGUE, a partire dalla lontana causa 22/70 Commissione c. Consiglio (AETS) la Corte d’Appello evidenzia che, in particolare dopo l’adozione del Trattato di Lisbona, “l’Unione ha competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione può incidere su norme comuni o modificarne la portata”. Come sancito dall’art. 78 par. 1 del TFUE. “L’Unione sviluppa una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento. Detta politica deve essere conforme alla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e al protocollo del 31 gennaio 1967 relativi allo status dei rifugiati, e agli altri trattati pertinenti”. A tal fine, attraverso la procedura legislativa ordinaria, il Consiglio e il Parlamento adottano misure relative a un sistema europeo di asilo che investe ogni aspetto della materia, dalla definizione di uno status, valido in tutta l’Unione, di asilo e di protezione sussidiaria, dai criteri e meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame delle domande alle norme concernenti le condizioni di accoglienza. Non da ultimo la competenza dell’Unione si estende alla definizione del “partenariato e la cooperazione con paesi terzi per gestire i flussi di richiedenti asilo o protezione sussidiaria o temporanea” (TFUE art. 78 par.2). La Corte d’Appello di Roma chiede pertanto alla CGUE se i sopraccitati articoli del TUE e del TFUE che prevedono una competenza esclusiva dell’Unione nella conclusione di accordi internazionali o in forza di un atto legislativo dell’Unione o al fine di svolgere le competenze che le sono attribuite “ostino alla stipula da parte di uno Stato membro di un accordo internazionale con un Paese extra UE per la gestione dei flussi migratori quale il Protocollo Italia-Albania”. Si tratta di un rinvio pregiudiziale di enorme rilevanza perché nel caso la CGUE accolga la tesi della Corte d’Appello di Roma, sul cui rigore giuridico concordo pienamente, il Protocollo tra Italia ed Albania verrebbe cancellato in via definitiva non perché in contrasto con specifiche sovraordinate normative dell’Unione, ma perché in contrasto con la stessa architettura istituzionale che regge l’Unione. Tale ipotizzata illegittimità radicale non potrebbe essere superata in alcun modo dall’attuazione delle nuove misure normative del Patto europeo sull’asilo previste per giugno 2026. In quanto volta a dirimere la questione di carattere generale della, legittimità che uno Stato membro possa autonomamente adottare degli accordi internazionali su materie di competenza dell’UE, la decisione della CGUE avrà incidenza anche su qualsiasi altro accordo presente o futuro che segua l’impostazione del Protocollo tra Italia ed Albania di esternalizzare la procedura di asilo. Molti Stati hanno infatti annunciato con toni assai enfatici di voler realizzare percorsi analoghi a quello italiano, ma se la CGUE dichiarasse non conforme al diritto dell’Unione il Protocollo italo-albanese iniziative analoghe non potrebbero più essere adottate da nessun Stato europeo. Eppure la commissaria europea per il Mediterraneo Dubravka Šuica il 24.01.25 definì il Protocollo italo-albanese tra le “idee innovative che avrebbe potuto aiutare non solo l’Italia, ma anche altri Paesi” mentre la stessa presidente della Commissione Von Der Leyen aveva definito l’accordo italo-albanese come esempio di un “pensiero fuori dagli schemi” forse non accorgendosi che esso probabilmente è fuori non dagli schemi ma dalla legalità. La Commissione Europea ha come compito istituzionale primario quello di tutelare i Trattati e di vigilare che gli Stati li rispettino e ritengo avrebbe dovuto porre essa stessa la questione della legittimità dell’accordo fatto dall’Italia; ma ciò non è avvenuto. Ed è proprio del rispetto dei Trattati che viene investita oggi la CGUE. La Corte d’Appello riprende quanto già evidenziato da molti studi ovvero che il diritto dell’Unione non si può applicare al di fuori del territorio degli Stati dell’UE e alle loro frontiere, e analizzando le norme del Patto UE di futura applicazione osserva che “difetta dunque anche in prospettiva evolutiva del diritto UE, qualunque previsione della possibilità di esaminare le domande di asilo da luoghi diversi dalla frontiera esterna, dalla prossimità della stessa o da zone di transito od ancora da altri luoghi che siano tuttavia designati sul territorio dello Stato e non già all’esterno di esso” (2.52). Considerato che un’applicazione extraterritoriale del diritto d’asilo sarebbe dunque “idoneo a pregiudicare l’applicazione uniforme e coerente delle norme dell’Unione” (2.50) la Corte italiana chiede alla CGUE che nell’ipotesi che essa ritenga che l’Italia avesse invece la facoltà di concludere l’accordo internazionale in materia migratoria con l’Albania si pronunci comunque su tre ulteriori e dirimenti profili giuridici: il primo riguarda il trattenimento generalizzato nelle strutture in Albania (tema che sollevai su queste pagine già il 12.09.24). Alla luce della vigente Direttiva procedure e della Direttiva sull’accoglienza, “gli Stati membri non trattengono una persona per il solo motivo che si tratta di un richiedente” (Direttiva 2013/32/UE art. 26) e “i richiedenti possono essere trattenuti soltanto nelle circostanze eccezionali definite molto chiaramente nella presente direttiva e in base ai principi di necessità e proporzionalità per quanto riguarda sia le modalità che le finalità di tale trattenimento” (Direttiva 2013/33/UE considerando 15). Osserva la Corte che “il trattenimento dei migranti condotti o trasferiti in Albania, dunque, lungi dall’essere solo ipotesi residuale e di extrema ratio come richiesto dalle norme dell’Unione diventa necessario ed anzi inevitabile durante la loro permanenza sul suolo albanese” (2.35) senza alcuna alternativa alla detenzione e dunque alla possibilità di adottare misure meno afflittive secondo un criterio di proporzionalità. Il brutale “tutti chiusi dentro” del protocollo italo-albanese appare dunque in chiaro contrasto con il diritto europeo vigente e, ben osserva la Corte d’Appello, anche con quello di futura applicazione dal momento che la nuova Direttiva (UE) 2024/1346 sull’accoglienza mantiene analoghe disposizioni, né avrebbe potuto fare diversamente per non entrare in contrasto con l’art. 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione che prevede che il trattenimento sia sempre un’ipotesi eccezionale da interpretare in modo restrittivo. Il secondo profilo riguarda l’art. 46 della Direttiva procedure ovvero il diritto alla difesa e l’art.10 par. 4 par.4 della Direttiva accoglienza ovvero il diritto del trattenuto a ricevere visite. La collocazione in un paese extra UE delle strutture, il trattenimento nelle stesse, “i termini assai brevi dei ricorsi (…) potrebbero rendere estremamente difficoltoso se non di fatto impossibile l’esercizio del diritto al ricorso effettivo” (2.54) che vanno interpretati alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali. La Corte d’Appello evidenzia anche che la Direttiva accoglienza all’art. 10 par. 4 garantisce a famigliari e ad organizzazioni non governative di comunicare con i richiedenti e di fare loro visita e che tale diritto può venire regolamentato purché non venga reso troppo difficile o di fatto impossibile. La mera circostanza geografica data dalla collocazione della struttura in Albania “rischia di frustrare tale diritto non consentendo tali visite e colloqui in maniera agevole in virtù della delocalizzazione in territorio extra UE dei luoghi del trattenimento” (2.56) Il terzo profilo riguarda il diritto alla salute: la Corte sottolinea come lo stesso protocollo preveda che le cure mediche che non possono essere assicurate nell’ambulatorio del centro di trattenimento di Gjader verranno assicurate dalle autorità albanesi e ciò “va a incidere sui sopra richiamati standard comuni definiti dalla direttiva accoglienza con riguardo alla tutela della salute da garantire ai richiedenti asilo” (2.61). Ritengo che la CGUE, in ossequio alla propria stessa giurisprudenza largamente richiamata dalla Corte d’Appello, riconoscerà che l’Italia non aveva la possibilità di adottare il protocollo con l’Albania e l’intera questione della esternalizzazione delle procedure di asilo in Europa, oggi vessillo di molti Stati, subirà uno stop. Se, per ragioni giuridiche che francamente non intravedo, la CGUE (che sarà soggetta a pressioni fortissime) deciderà diversamente, dovrà comunque valutare se ritiene che tutti gli standard e le garanzie del sistema europeo di asilo, non in elementi secondari, ma su questioni dirimenti come la libertà delle persone e il diritto ad un ricorso effettivo, possono essere veramente rispettati in Albania, e dunque teoricamente in qualunque altro paese extra UE si scelga per un accordo di esternalizzazione. Avendo la Corte d’Appello di Roma richiesto alla CGUE la procedura d’urgenza “trattandosi di una questione di interpretazione del diritto dell’Unione di particolare importanza e rilevanza generale” (4.3) non sarà molto il tempo di attesa. Migranti. 42 i dispersi al largo delle coste delle Libia: 1.000 le vittime da inizio anno di Ferruccio Pinotti Corriere della Sera, 13 novembre 2025 L’Organizzazione internazionale per le migrazioni segnala un nuovo disastro umanitario. Sono 61.482 gli sbarchi dall’inizio dell’anno. Medici Senza Frontiere annuncia una nuova nave di ricerca e soccorso. Stando a quanto riferito dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), almeno 42 persone risultano disperse dopo che un gommone si è capovolto, l’8 novembre scorso, al largo delle coste libiche. “L’8 novembre le autorità libiche hanno condotto un’operazione di ricerca e soccorso in seguito al capovolgimento di un gommone nei pressi del giacimento petrolifero di Al Buri”, situato 120 chilometri a nord della costa libica. “Secondo i sopravvissuti - si legge in un comunicato - l’imbarcazione, con a bordo 49 migranti e rifugiati (47 uomini e due donne), era partita da Zuwara il 3 novembre intorno alle 3 del mattino. Circa sei ore dopo, le onde alte hanno causato un guasto al motore, rovesciando l’imbarcazione e gettando tutti i passeggeri in mare”. Ieri la stessa organizzazione delle Nazioni unite aveva diffuso i dati relativi alle morti nel Mediterraneo nel 2025. Almeno 552 persone sono morte e 494 risultano disperse sulla rotta centrale dall’inizio dell’anno all’8 novembre. Nello stesso periodo, precisa l’agenzia l’Oim, i migranti intercettati in mare e riportati in Libia sono stati 23.513, di cui 20.417 uomini, 2.037 donne, 851 minori e 208 di cui non si conoscono i dati di genere. I dati del Viminale - “Dopo sei giorni alla deriva, solo sette uomini - quattro sudanesi, due nigeriani e uno camerunense - sono stati tratti in salvo. Purtroppo, 42 persone rimangono disperse e si presume siano morte, tra cui 29 sudanesi, otto somali, tre camerunensi e due nigeriani”, ha precisato l’Oim, che ha prestato cure mediche e aiuti alle persone tratte in salvo. Stando ai dati del ministero dell’interno, alla data dell’11 novembre sono 61.482 gli sbarchi dall’inizio dell’anno, in leggero aumento rispetto ai 58.668 dello stesso spazio temporale del 2024, ma in netta diminuzione rispetto ai 146.868 dell’analogo periodo del 2023. La nuova nave di soccorso di Medici Senza Frontiere - Medici Senza Frontiere (Msf) ha intanto annunciato oggi la ripresa delle operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale con una nuova nave, Oyvon, quasi un anno dopo la sospensione delle attivita’ della Geo Barents nel dicembre 2024. L’imbarcazione, lunga 20 metri e battente bandiera tedesca, era in precedenza una nave ambulanza norvegese ed è stata completamente ristrutturata per le operazioni di soccorso. A bordo opererà un equipaggio di dieci persone, tra cui un medico e un infermiere, con capacità di fornire assistenza in caso di ipotermia, ustioni e ferite legate agli abusi subiti in Libia. “Riprendiamo le operazioni perchè abbiamo il dovere di soccorrere chi si trova in difficoltà in mare”, ha dichiarato Juan Matias Gil, capomissione di Msf per la ricerca e soccorso in mare. “Molte persone fuggono da condizioni disumane in Libia, dove subiscono detenzioni arbitrarie, violenze ed estorsioni”. Msf aveva interrotto le missioni della Geo Barents dopo oltre due anni di attività, a causa delle “politiche restrittive” introdotte in Italia con il decreto Piantedosi e con l’assegnazione di porti lontani, misure che - sottolinea l’organizzazione - “hanno reso quasi impossibile operare regolarmente”. “L’uso di una nave più piccola e veloce è una risposta strategica a leggi e pratiche sempre più restrittive che mirano a ostacolare i soccorsi umanitari”, ha aggiunto Gil. Dal 2015 Msf ha partecipato alle operazioni nel Mediterraneo centrale con nove diverse imbarcazioni, soccorrendo oltre 94 mila persone. L’organizzazione ribadisce che “Italia e Unione europea devono garantire che le navi civili possano operare liberamente nel pieno rispetto del diritto internazionale, mettendo la tutela della vita umana al centro delle politiche migratorie”. L’Onu denuncia: la Corte penale dell’Aja è sotto attacco di Giorgio Ferrari Avvenire, 13 novembre 2025 Baerbock, presidente dell’Assemblea generale: “Mentre assistiamo ad atrocità che sconvolgono la coscienza, c’è chi cerca di minare la credibilità della Cpi”. “Le pressioni e le sanzioni contro la Corte penale internazionale (Cpi) costituiscono attacchi ai principi stessi del diritto internazionale, indeboliscono lo stato di diritto e minano la fiducia nelle istituzioni internazionali”. A denunciarlo è la presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la tedesca Annalena Baerbock già ministra degli Esteri, alla presentazione del rapporto annuale del tribunale dell’Aia. Il riferimento è alle sanzioni statunitensi contro alcuni giudici e pubblici ministeri della Corte. Misure, è stato ricordato, che derivano da un decreto presidenziale statunitense del febbraio scorso in risposta all’emissione da parte della Corte, con il sostegno delle Nazioni Unite, di mandati di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo allora ministro della Difesa, Yoav Gallant, per presunti crimini di guerra a Gaza. Le sanzioni di Washington includono il congelamento dei beni e delle disponibilità finanziarie del personale della Corte negli Usa, nonché il divieto di viaggio nel Paese. Baerbock ha ricordato che la Cpi è stata fondata sul principio secondo cui la giustizia è un dovere universale. “Eppure mentre assistiamo ad atrocità che continuano a sconvolgere la coscienza dell’umanità, la missione della Corte è sotto attacco”, ha aggiunto. Secondo l’Onu le misure americane non sono altro che una forma di ingerenza: “I funzionari della Corte sono stati sanzionati per aver difeso lo stato di diritto e aver chiesto conto delle azioni; e i sistemi della Corte sono stati oggetto di attacchi informatici volti a minare la credibilità dell’istituzione”, ha lamentato Baerbock. La presidente della Cpi, la giudice Tomoko Akane, ha affermato che le sentenze della Corte servono a ricordare che la giustizia “trascende i confini e gli interessi”, ma che quando “i giudici sono sottoposti a pressioni, minacce o tentativi di destabilizzazione, la credibilità del diritto internazionale stesso viene minata”. Infine, presentando la relazione annuale del tribunale, Akane ha affermato che la Corte ha ascoltato oltre 18.000 vittime in casi in corso quest’anno, compresi quelli riguardanti individui accusati di crimini gravi in Sudan, Afghanistan e Israele. Tuttavia, i mandati di arresto della Cpi possono essere eseguiti solo con la cooperazione degli Stati. Stati Uniti. Il pugno duro di Trump sui migranti. Per i vescovi “la paura è senza precedenti” di Angela Napoletano Avvenire, 13 novembre 2025 Il nodo immigrazione al centro dell’assemblea della Chiesa americana. Lanciata l’iniziativa “Non sei solo”. “La determinazione inflessibile a effettuare deportazione di massa e a limitare l’immigrazione irregolare, combinata ai finanziamenti senza precedenti per l’applicazione delle relative leggi, ha creato una situazione mai vista prima. I nostri fratelli e le nostre sorelle immigrati, dagli irregolari ai cittadini naturalizzati, vivono in uno stato di profonda paura”. È il bilancio del secondo mandato di Donald Trump alla Casa Bianca messo a punto dal vescovo di El Paso, Mark Seitz, nelle vesti di presidente uscente della Commissione per l’immigrazione della Conferenza episcopale americana, condiviso nel corso dell’assemblea annuale in corso a Baltimora. La stessa che, martedì, ha eletto l’arcivescovo Paul Coakley come nuovo presidente. La stretta sui migranti ha tenuto banco all’evento interrogando i vescovi sulla legittimità della difesa dei confini ma anche sulle difficoltà da affrontare per continuare a portare conforto alle comunità, in particolare quella sudamericana, prese di mira dall’amministrazione Trump. Secondo Seitz, che a ottobre ha consegnato a papa Leone le richieste di aiuto degli “indocumentados” di El Paso, la situazione “è solo all’inizio”. “Le sole dichiarazioni non bastano”, ha incalzato il pastore che ha presentato una nuova iniziativa al riguardo, “You are not alone” (Non sei solo), caratterizzata da quattro obiettivi: il sostegno agli immigrati nell’emergenza, la loro assistenza spirituale, l’approfondimento della dottrina della Chiesa cattolica sull’immigrazione e l’importanza della solidarietà pubblica ai deportati da manifestare, per esempio, con veglie di preghiera e accompagnamento alle udienze in tribunale. “Come il nostro Santo Padre ha affermato chiaramente il mese scorso - ha sottolineato - la Chiesa non può restare in silenzio”. In un video diffuso martedì sera, Coakley, il nuovo presidente dei vescovi statunitensi, ha assicurato che l’immigrazione, “tema difficile e nevralgico”, continuerà ad essere una priorità della Conferenza. “Continueremo a parlare chiaramente della situazione e delle sofferenze del nostro popolo” ma, ha precisato, è importante portare sull’argomento, “più luce che calore”. Algeria. Finisce il calvario di Boualem Sansal, lo scrittore è stato scarcerato per motivi di salute di Danilo Ceccarelli La Stampa, 13 novembre 2025 Era stato condannato a 5 anni di carcere perché ritenuto “minaccia all’unità nazionale”. Arriva al termine di un calvario durato un anno la liberazione dello scrittore franco-algerino Boualem Sansal, uscito dalle carceri del suo Paese natale dopo la grazia accordatagli dal presidente Abdelmadjid Tebboune. Cruciale la mediazione della Germania, con il capo dello Stato tedesco Frank-Walter Steinmeir che proprio lunedì aveva lanciato un appello alla scarcerazione dell’intellettuale 81enne, in prigione nonostante un cancro alla prostata per scontare una condanna per “minaccia all’unità nazionale”. Una richiesta alla quale Tebboune “ha risposto favorevolmente”, ha fatto sapere la presidenza algerina, che dando la notizia ha sottolineato come siano stati i tedeschi ad occuparsi “del trasferimento e delle cure” di Sansal, arrivato in Germania ieri sera. Un intervento, quello di Berlino, utile a risolvere un caso dalle tinte politiche e diplomatiche, consumatosi sullo sfondo delle tensioni tra Parigi e Algeri riemerse dopo il riconoscimento francese della sovranità marocchina sul Sahara occidentale. La mossa arrivata nell’estate del 2024 non era piaciuta allo storico rivale di Rabat, da anni schierato al fianco del Fronte Polisario, movimento indipendentista della tanto contesa area. Frizioni delle quali Sansal, che ha ottenuto la nazionalità francese nel 2024, era diventato il simbolo, grazie soprattutto al suo profilo. Autore dissidente, ateo dichiarato e forte critico del regime algerino e dell’Islam, duramente attaccati in molti suoi romanzi come Il giuramento dei barbari o Il villaggio del tedesco. Posizioni che dall’altro lato della Alpi lo hanno reso molto amato anche dagli ambienti della destra radicale. Tra questi, quello del media Frontières, al quale l’autore nell’ottobre del 2024 affermò che l’Algeria ha ereditato dalla colonizzazione francese alcune regioni come quelle di Orano e Mascara, appartenenti secondo lui al Marocco. La provocazione di troppo. Il 16 del mese successivo lo scrittore viene arrestato non appena atterra ad Algeri e nel marzo di quest’anno viene condannato a cinque anni di carcere, confermati a luglio in appello. La mobilitazione del mondo culturale francese e internazionale è immediata, così come quella politica. Parigi ha messo in campo tutti i suoi strumenti diplomatici, ma alla fine a sbloccare la situazione ci ha pensato la Germania. “Abbiamo lavorato in trasparenza con i nostri amici tedeschi”, ha commentato da Tolosa Emmanuel Macron, dopo aver sentito al telefono Steinmeier, al quale ha espresso la sua “profonda gratitudine”. Il titolare dell’Eliseo ha poi sottolineato che la liberazione è stata “il frutto degli sforzi costanti della Francia e di un metodo fatto di rispetto, di calma e di esigenza”. Una risposta alle critiche ricevute in questi ultimi mesi dai Repubblicani guidati da Bruno Retailleau, ministro dell’Interno nel precedente governo, che chiedevano il pugno duro nelle trattative con Algeri. A spingere per una maggiore fermezza anche il Rassemblement National di Marine Le Pen, che è riuscita a far adottare una risoluzione non vincolante volta ad abrogare gli accordi franco-algerini del 1968. Macron, invece, preferisce puntare all’allentamento delle tensioni e si dice disponibile ad uno “scambio” con Tebboune “su temi di interesse” comune. Strategie diplomatiche sulle quali si continuerà a discutere a lungo. Intanto, ieri in Francia si è tirato un sospiro di sollievo per la liberazione dell’autore. “Ero pessimista ma ci ho sempre creduto”, ha confessato all’Afp la figlia Sabeha, mentre il suo editore Antoine Gallimard ha espresso una “immensa gioia”. “Dopo Sansal, possa liberarsi l’Algeria”, ha commentato su X Kamel Daoud, altro scrittore franco-algerino costretto a rifugiarsi in Francia. “Oggi possiamo finalmente esultare per la sua liberazione: la liberazione di un uomo, delle sue idee e parole, voce della libertà di pensiero”, ha fatto sapere il Salone del Libro di Torino, che a maggio ha dedicato una staffetta a sostegno di Sansal, finalmente libero dall’incubo.