Colloqui intimi in carcere: primo sì a Parma a un ergastolano per mafia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 novembre 2025 Il Tribunale di Sorveglianza di Bologna ha accolto il reclamo presentato dall’avvocata Pina Di Credico: non una concessione discrezionale, ma un diritto costituzionalmente garantito. Per la prima volta un ergastolano condannato per reati di mafia potrà vivere momenti di intimità con la propria moglie senza il controllo a vista degli agenti. Lo ha deciso il Tribunale di Sorveglianza di Bologna con l’ordinanza depositata l’11 novembre, accogliendo il reclamo presentato dall’avvocata Pina Di Credico. Trent’anni di carcere, trent’anni duranti i quali il colloquio è stato consumato sotto lo sguardo della polizia penitenziaria. Adesso quella sorveglianza viene meno. Non come premio, ma come diritto. L’ordinanza è la traduzione concreta di quella sentenza numero 10/2024 con cui la Corte Costituzionale aveva finalmente riconosciuto che l’affettività, anche dietro le sbarre, non può essere cancellata. Che la privazione della libertà personale non può tradursi nell’annullamento della persona e dei suoi legami. Che la sessualità, come scrissero i giudici costituzionali già nel 1987, è “uno degli essenziali nodi di espressione della persona umana”. E che un ergastolo, per quanto pesante, per quanto meritato, non può diventare la condanna a morte della propria umanità. Non una concessione discrezionale, ma un diritto costituzionalmente garantito. La storia comincia con una richiesta semplice, quasi banale nella sua naturalezza: un detenuto, recluso dal 1995 per camorra - il clan Gionta di Torre Annunziata - e per concorso in omicidio aggravato, chiede di poter vedere la moglie senza che un agente li osservi. La direzione del carcere di Parma, dove l’uomo è ristretto, nicchia. Risponde che è in attesa di direttive dai “superiori Uffici”. Poi individua dei locali nel padiglione dei colloqui, ma intanto il Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia dice no. Diniego. E lo motiva con un’argomentazione che, fino a ieri, sarebbe sembrata blindata: profilo criminale pericoloso, familiari coinvolti in attività mafiose, rischio che attraverso la moglie possano arrivare messaggi dal clan. E poi quella condotta “altalenante” in carcere, quei rilievi disciplinari, ultimo dei quali a giugno scorso: in cella trovati un tubetto di colla Super Attack e un tavolo manomesso. Insomma, troppo rischioso. La difesa, l’avvocata Di Credico, non ci sta. E presenta reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Bologna. Le sue argomentazioni sono nette, quasi chirurgiche. Primo: il detenuto già oggi fa colloqui con la moglie senza controllo auditivo. Significa che se volesse passare messaggi al clan, potrebbe già farlo. Il colloquio intimo non aggiunge nessun nuovo rischio per la sicurezza, è solo una modalità più umana dello stesso diritto già esercitato. Secondo: trent’anni di detenzione sostanzialmente corretta. Un percorso formativo che lo ha portato dall’analfabetismo giovanile al ciclo universitario. Liberazione anticipata concessa per molti semestri. Remissione del debito. E quel rilievo disciplinare di giugno? La camera era stata occupata da poco. Il precedente inquilino era stato trasferito proprio perché trovato con telefoni cellulari. Non è mai stato chiarito se la direzione avesse controllato la cella prima di farci entrare il nuovo detenuto. Terzo, e qui sta il cuore della questione: il colloquio intimo è un diritto costituzionalmente garantito, non un premio da meritare. Non si può negare per mancanza di “meritevolezza”. Ed è su questo punto che il Tribunale di Bologna costruisce la sua decisione. Una decisione articolata su tre pilastri argomentativi che ridefiniscono il perimetro della questione. Il primo pilastro è proprio la natura giuridica di ciò di cui stiamo parlando. Il detenuto non sta chiedendo un permesso premio. Sta chiedendo di esercitare in modo diverso un diritto che già esercita da trent’anni: il colloquio con la moglie. Da trent’anni la vede, le parla, la abbraccia. Ma solo questo e sotto l’occhio vigile di un agente. Adesso chiede di farlo senza. È la stessa cosa, ma più umana. E questa differenza, scrive il Tribunale, non è banale. Perché tocca “un bisogno di vita come quello affettivo-sessuale che costituisce uno dei connotati indefettibili dell’essere umano attraverso cui si definisce la sua personalità”. Non è un lusso. È un diritto. Che può essere compresso, certo, ma solo “per effettive ragioni di ordine e sicurezza riferibili alla singola persona detenuta”. E qui entra in gioco il secondo pilastro: quali sono queste ragioni di sicurezza? Il Magistrato di Reggio Emilia aveva puntato molto sulla pericolosità “esterna” del detenuto. L’informativa della Dda di Napoli, il clan ancora operativo, i familiari coinvolti, il rischio di messaggi. Ma il Tribunale di Bologna fa un ragionamento dirompente: tutto questo non c’entra nulla. Perché non stiamo parlando di un beneficio che porta il detenuto all’esterno del carcere, dove effettivamente la sua pericolosità sociale potrebbe manifestarsi. Stiamo parlando di una modalità di colloquio dentro il carcere. E la Corte Costituzionale, nella sua sentenza, parla chiaro: bisogna guardare al “comportamento della persona detenuta in carcere”, alle “ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina”. Dentro, non fuori. E poi c’è un altro aspetto decisivo: i detenuti per reati come quello del recluso in questione già oggi fanno colloqui senza controllo auditivo. Significa che la conversazione è riservata. Se volesse scambiare informazioni con il clan attraverso la moglie, potrebbe già farlo nei colloqui ordinari. Il colloquio intimo non aggiunge vulnerabilità alla sicurezza. Il terzo pilastro riguarda invece la pericolosità “interna”. Qui sì che il comportamento in carcere conta. Ed è qui che il Tribunale fa la differenza rispetto al primo giudice. Guarda al percorso, non al singolo episodio. Trent’anni di detenzione. Un uomo entrato analfabeta, arrivato all’università. Storia dell’Arte a Prato, poi corsi alberghieri a Parma. Relazioni che lo descrivono “educato e cortese”, “intenzionato a prendere le distanze dal contesto sociale di provenienza”. Rilievi disciplinari solo per proteste pacifiche: chiedeva trasferimenti, isolamento volontario. Mai violenze, mai sommosse. E quell’episodio di giugno? Il Tribunale lo contestualizza. Camera occupata da poco, precedente inquilino trasferito per telefoni cellulari. Il detenuto ha sempre disconosciuto responsabilità. Sanzione sospesa per buon comportamento. Il Tribunale scrive una frase che vale tutto: “Il carcere non può essere mai il luogo in cui si cristallizzano valutazioni negative non ulteriormente rivedibili”. Una persona può cambiare, evolversi. Altrimenti che senso ha parlare di rieducazione? E qui c’è un uomo che ha mostrato evoluzione. Che ha iniziato riflessione critica sui reati, versa somme alle vittime della mafia. Allora quel diritto va riconosciuto. Non come premio, ma come diritto. Il Tribunale chiarisce: riconoscere questo diritto non significa aprire a tutti. La valutazione è caso per caso. I detenuti al 41 bis sono esclusi. Per i reati di mafia la valutazione deve essere “più stringente”. Ma più stringente non significa automaticamente negativa. Significa guardare con attenzione. E guardando, il Tribunale ha visto un percorso positivo. Trent’anni senza problemi durante i colloqui con la moglie. Mai trovato con oggetti non consentiti. Mai partecipato a disordini. L’ordinanza si chiude con un dispositivo asciutto: colloqui intimi senza controllo a vista, negli spazi che Parma individuerà entro sessanta giorni. Sessanta giorni per dare attuazione a un diritto negato per trent’anni. Per chi ha passato tre decenni senza intimità, sono un’eternità. E forse il tempo giusto per un cambiamento che non riguarda solo lui. Riguarda il sistema. Riguarda cosa significa essere detenuti in uno Stato di diritto. Dove la pena non può trasformarsi in annullamento. Dove la dignità resta intatta, anche dietro le sbarre. Perché chi resta dentro, all’ergastolo, deve poter mantenere quella scintilla di umanità. Altrimenti non parliamo di rieducazione. Parliamo solo di vendetta. E lo Stato di diritto non può permetterselo. La falsa evasione e l’internamento infinito di Giulia Melani Il Manifesto, 12 novembre 2025 Il 2 novembre 2025, Elia Del Grande si è allontanato dalla Casa di lavoro di Castelfranco Emilia. Alcuni quotidiani hanno prontamente titolato che è evaso da una comunità, è falso: Del Grande, dopo avere scontato la sua pena, dopo ben 26 anni di detenzione, invece di essere libero, come sarebbe accaduto in un paese in cui non vige un Codice penale autoritario scritto dal legislatore fascista, si trovava rinchiuso in una “casa di lavoro”. Cosa sono le case di lavoro? Sono istituzioni in cui si eseguono le misure di sicurezza, ovvero, luoghi, in tutto uguali a carceri - di cui spesso altro non sono che sezioni - in cui una persona, che ha finito di scontare la pena, si trova recluso per un tempo indeterminato, perché ritenuto da un giudice “socialmente pericoloso”. La persona a cui la sorte ha distribuito le carte sbagliate, negli anni oscillano tra 200 e 300 in tutta la penisola gli sfortunati e sono sempre meno di dieci le sfortunate, passa da essere detenuto ad essere “internato”, condizione ancor meno tutelata, con ancor meno diritti e quasi senza alcuna speranza. Perché in casa di lavoro finisci normalmente quando il contesto sociale da cui provieni e dove si presume che potresti tornare è considerato marginale, quando non hai una casa, non hai un lavoro o forse non hai entrambi. E difficilmente queste condizioni potranno migliorare durante l’internamento; così, di proroga in proroga, questa limitazione della libertà, tanto pervasiva, può durare per anni. Altro che certezza della pena tanto sbandierata solo quando si vuole invocare la forca e il buttare via la chiave, qui la pena è incerta e potenzialmente perpetua. Nella lettera inviata a Varese News alcuni giorni fa, Del Grande descrive con grande precisione la realtà delle case di lavoro: “ci sono persone all’interno che sono entrate per sei mesi e avendo l’unica colpa di non avere una dimora e una famiglia, si trovano internate da 4/5 anni, in un Paese civile e al passo con le regole europee, questo non dovrebbe più esistere”. L’istituzione è fondata sull’ideologia dell’arbeit macht frei (il lavoro rende liberi), un’ideologia assolutamente discutibile, ma che non si trova neppure l’occasione di poter discutere, perché il lavoro in casa di lavoro non c’è, quando c’è è poco pagato e poco qualificato, per di più si tratta di quelle mansioni “domestiche”, lavori utili all’ordinario mantenimento della struttura, che vengono svolte in ogni carcere e a cui detenuti e internati accedono con un sistema di turnazione. Come afferma del Grande: “l’attività lavorativa è identica a quella dei regimi carcerari”. Le voci delle persone internate e di chi nelle case di lavoro svolge la sua professione, che avevamo raccolto - con Grazia Zuffa - nella ricerca e nel volume della Società della Ragione “Un ossimoro da cancellare” (edizioni Menabò), riportano tutte quello stesso senso d’ingiustizia che esprime oggi Del Grande rispetto a quell’istituzione senza fine, nella duplice accezione di senza scopo e senza conclusione. L’evasione di Del Grande è stata colta subito, da alcuni, come l’ennesima occasione per chiedere un ritorno indietro sulla riforma che ha previsto il superamento degli OPG, che pure con questo caso non c’entra assolutamente nulla. Del Grande non era in REMS né in comunità terapeutica, ma si sa, per alcuni, ogni contesto è buono per esprimere un po’ di sana nostalgia manicomiale. Di una riforma, però, c’è davvero bisogno, certo non quella invocata dal sindacato autonomo di polizia penitenziaria per riaprire gli OPG, ma la riforma che finalmente cancelli la casa di lavoro, perché Del Grande, scontata la sua pena, doveva avere il diritto che ognuno dovrebbe poter avere di essere libero. Il testo della riforma c’è già: la proposta di legge n. 158 presentata alla Camera dei deputati dall’on. Riccardo Magi. Donne incinte in carcere, Ciambriello: “Una barbarie” avellinotoday.it, 12 novembre 2025 Le parole del garante campano dei detenuti. Al momento in Italia ci sono 28 donne madri in carcere (alcune anche incinte) e 26 figli presenti, tra gli istituti femminili di Rebibbia (Rm) e Bollate (Mi) e gli Icam di Milano, Torino, Venezia e Lauro (Av). Nell’Icam di Lauro ci sono 8 detenute madri di cui 4 sono incinte, 3 tra il quarto e il sesto mese di gravidanza e una in procinto di partorire, la quale potrebbe essere anche a rischio di infezione. Su questi dati interviene il Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello: “c’è chi si vanta di questa disumanità. Può essere il carcere l’unica risposta al reato? Che barbarie! È stato il Decreto Sicurezza a dare il disco verde per mettere in carcere donne incinte, in un articolo del decreto sicurezza è diventato facoltativo, e non più obbligatorio, il rinvio della pena per donne in gravidanza e per quelle con figli sotto i 3 anni. La politica risponde ad una campagna di allarme sociale, per questo a Lauro abbiamo tra le 8 donne detenute 4 incinte, alcune tra il quarto e il sesto mese e una in procinto di partorire, senza la presenza di un ginecologo operativo, manca anche un pediatra fisso. Sei bambini senza colpe in carcere, perché non in casa-famiglia? Nessun bambino o bambina dovrebbe crescere dietro le sbarre. Quali colpe hanno i bambini di madri detenute? E se anche una donna incinta ha commesso un reato, può mai il carcere essere l’unica risposta? Possiamo fare qualcosa per vincere il populismo penale, politico e mediatico? Possiamo e dobbiamo aiutare questi bambini ingiustamente troppo adulti. Il bambino è un’entità a parte, non una cosa unica con la madre. Tutto questo è una barbarie”. La lezione di Gino Cecchettin: “Più educazione, non più pene” di Simona Musco Il Dubbio, 12 novembre 2025 Il padre di Giulia audito in Commissione Femminicidio a due anni dalla morte della figlia per mano dell’ex: “L’educazione affettiva non è un pericolo, ma una protezione”. Non servono “più punizioni o leggi più dure”, la risposta della politica ad ogni fenomeno che sconvolge la coscienza pubblica. “La giustizia serve, ma arriva sempre dopo. Io sono qui per parlare di ciò che può arrivare prima, la prevenzione e quindi l’educazione”. Due anni dopo il femminicidio di sua figlia Giulia, Gino Cecchettin, suo padre, parla davanti alla Commissione Femminicidio per dare conto del primo anno di attività della Fondazione che porta il nome di sua figlia. “Sono semplicemente un padre che ha visto la propria vita cambiare per sempre”, esordisce davanti ai parlamentari, spiegando di aver voluto trasformare il dolore in qualcosa di positivo. “Da quel giorno il mio mondo si è fermato, ma non potevo restare fermo anch’io”, dice. Ha scelto di “dare un senso a quel dolore che rischiava di distruggermi”. Per questo è nata la Fondazione Giulia Cecchettin, “non per coltivare la memoria del dolore, ma per trasformarla in impegno”. Perché è necessario cambiare la cultura che genera la violenza per non piangere altre vite spezzate, evidenzia. “Noi della Fondazione crediamo che l’unica risposta duratura alla violenza sia educare al rispetto, all’empatia, alla libertà reciproca. E questo può avvenire solo nella scuola, il luogo dove si formano le persone, non solo gli studenti. Non si tratta di ideologia, ma di civiltà”, continua Cecchettin. L’educazione affettiva, dunque, serve. Una risposta che arriva dopo il triste balletto della politica attorno ad una proposta trasformata in questione ideologica, fino alla retromarcia di ieri, con un emendamento della stessa Lega per consentire l’educazione affettiva anche per gli studenti delle scuole medie, previo ok dei genitori. Cecchettin prova a fare chiarezza. E spiega che “parlare di educazione affettiva significa insegnare i ragazzi a conoscere se stessi, a gestire le emozioni, a riconoscere i confini e chiedere e dare consenso. Significa insegnare che l’amore non è possesso, che la forza non è dominio, che il rispetto è la base di ogni relazione”. Non servono leggi emergenziali - come quella sul femminicidio, anche se Cecchettin non lo dice - perché la violenza di genere, spiega, non è un’emergenza, ma “un fenomeno strutturale, radicato nella nostra cultura, nei linguaggi, nei modelli di relazione, negli stereotipi che continuiamo a tramandare. Non nasce all’improvviso - aggiunge -, non è un raptus, cresce lentamente in una società che troppo spesso giustifica, minimizza o resta in silenzio. Per questo credo che l’educazione sia l’unica risposta sistematica possibile”. Perché non si può “delegare ai Tribunali” ciò che è compito della scuola, della famiglia, delle istituzioni culturali. “È lì - spiega -, nelle aule e nei luoghi di formazione che possiamo insegnare ai nostri ragazzi a riconoscere la violenza prima che si trasformi in gesto, prima che diventi tragedia. E qui entra in gioco la responsabilità delle istituzioni. Una scuola che non parla di affettività, di rispetto, di parità, è una scuola che lascia solo i ragazzi di fronte a un mondo che grida messaggi distorti. Quando la scuola tace - aggiunge -, parlano i social, parlano i modelli tossici, parlano i silenzi degli adulti. Noi abbiamo il dovere di dare ai giovani strumenti per orientarsi, non solo nozioni per studiare”. Di fronte alle “paure” e alle “resistenze” Cecchettin risponde in modo chiaro: l’educazione affettiva non è un pericolo, ma “una protezione. Non toglie nulla a nessuno, ma aggiunge qualcosa a tutti, consapevolezza, rispetto e umanità”. L’auspicio è che in futuro non servano più Fondazioni, “perché avremo imparato a riconoscere il valore sacro della libertà di ciascuno, il valore sacro della vita”. E allora “per Giulia e per tutte le Giulia che verranno, vi chiedo di fare una scelta coraggiosa, di credere nell’educazione come prima forma di giustizia, come la vera forma di prevenzione”. La Fondazione, evidenzia Cecilia D’Elia, vicepresidente della Commissione Femminicidio in quota Pd, sta “riempendo un vuoto di questo Paese su questi temi”. Per Alessandra Maiorino, del M5S, la “rieducazione” dovrebbe riguardare non soltanto i maltrattanti, ma “il genere maschile nel suo complesso, a sostegno del genere maschile, in quanto si rivela in effetti al momento quello più fragile, quello che è meno capace di gestire le proprie emozioni, quello che non trova uno spazio dove farlo perché gli stereotipi a cui è sottoposto gli impongono la forza, gli impongono la non trasparenza dei propri sentimenti”. Insomma, “si dovrebbe parlare di questione maschile più che di questione femminile perché poi è da lì che si genera tutto - aggiunge -. Le donne sono già state educate alla parità, hanno già fatto molti passi avanti mentre gli uomini sembrano essere stati dimenticati, in un certo senso, dal sistema perché andavano già bene così e non c’era nulla da rivedere”. Rispondendo alle domande, Cecchettin evidenzia la necessità di “sostenere dal punto di vista finanziario i centri antiviolenza, in modo che possa essere utile per ogni donna vittima di violenza”. Centri che scarseggiano: stando al rapporto Stato-Regioni, infatti, “ne servirebbero almeno dieci volte tanto, e quindi è chiaro che molte donne non trovano risposta, non trovano risposta perché intasati da tantissime richieste”. Ma non solo: per Cecchettin l’educazione affettiva dovrebbe “partire dalla scuola dell’infanzia”, con le parole giuste per ogni livello di scolarità, “ma certi concetti fondamentali” si possono insegnare tranquillamente a scuola. “I genitori rappresentano un passo fondamentale per la costruzione della società”, aggiunge. Ma “diventare genitori è un mestiere difficilissimo che richiede competenza. Competenza che purtroppo tantissimi genitori non hanno e non hanno neanche la coscienza di dover acquisire questa competenza”. I rischi nascosti nella battaglia del referendum sulla Giustizia di Sebastiano Messina L’Espresso, 12 novembre 2025 Le divergenze di vedute nello stesso campo largo impongono di condurre una campagna mirata. Ci sono una buona e una cattiva notizia, per l’opposizione, nell’ultimo sondaggio Demos-Repubblica sulla riforma della giustizia. La buona notizia è che la maggioranza favorevole alla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri è risicata: il 51 per cento. Un margine sottile, che lascia aperta la possibilità di una rimonta nei mesi che ci separano dal referendum confermativo previsto per marzo. La cattiva notizia, invece, è che la divisione attraversa lo stesso campo largo. Non pochi tra gli elettori del Pd (il 30 per cento) e persino del Movimento 5 Stelle (il 42 per cento) guardano alla riforma con una certa benevolenza. Dati che dovrebbero far riflettere chi continua a leggere questa battaglia come la solita guerra tra buoni e cattivi, tra giustizialisti e garantisti, come se il tempo non fosse passato e la realtà non fosse cambiata. Certo, il contesto è chiaro. C’è un governo impegnato in uno scontro frontale con la magistratura, accusata di sabotare l’azione dell’esecutivo ogni volta che può - a partire dai trasferimenti dei migranti in Albania - e c’è una premier che ha fatto della sfida ai “giudici politicizzati” una questione di potere e di identità. Inoltre la riforma costituzionale di cui il presidente del Senato ha annunciato in aula l’approvazione definitiva - con l’esultanza di un ultrà della curva sud - è proprio quella invocata per anni, anzi per decenni, da Bettino Craxi e da Silvio Berlusconi. Ma il paesaggio, oggi, è diverso. Non ci sono più Berlusconi, i suoi cento avvocati e le sue leggi ad personam. Né, dall’altra parte, ci sono più i magistrati-eroi del 1992, quando Mani Pulite scoperchiò il vaso della corruzione politica, facendo nascere una speranza che poi la politica non ha saputo (o voluto) trasformare in realtà. E mentre molti magistrati continuavano in silenzio la loro meritoria caccia ai corrotti, altri hanno dato vita a inchieste spettacolari che sono clamorosamente finite nel nulla, a volte dopo che un fiume di intercettazioni passate disinvoltamente ai giornali avevano rovinato la vita di persone risultate poi innocenti. Così, col tempo, la fiducia si è incrinata: per il protagonismo di alcuni ambiziosi pm. Per gli errori, per gli eccessi, per il potere che la magistratura ha imparato a esercitare anche su se stessa. Lo scandalo Palamara ha fatto il resto, rivelando un sistema di carriere spartite tra correnti, un’ombra di potere e di appartenenza che ha intaccato il consenso popolare di cui i magistrati godevano trent’anni fa. In questo scenario non sorprende che tre elettori del Pd su dieci guardino con simpatia alla riforma, o che Antonio Di Pietro - l’uomo-simbolo di Mani Pulite - abbia annunciato il suo voto favorevole. Sia chiaro: l’opposizione ha oggi il compito irrinunciabile di difendere la separazione del potere giudiziario da quello politico che è alla base delle democrazie europee. E i magistrati fanno benissimo a rivendicare un’indipendenza che ritengono minacciata. Ma quella che è appena cominciata è una battaglia che va combattuta con lucidità: sventolare in Parlamento cartelli con la scritta “No ai pieni poteri” può galvanizzare la piazza, ma rischia di trasformarsi in un boomerang. Perché Giorgia Meloni è più furba di Matteo Salvini, e dunque eviterà di trasformare il referendum in una ordalia sul governo. Ma se alla fine dovessero vincere i Sì, c’è il rischio che lei dica che il popolo italiano ha approvato quei “pieni poteri” evocati dai suoi oppositori. Riforma della giustizia, ci sarà un confronto in tv fra Nordio e l’Anm? I dubbi dei magistrati di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 12 novembre 2025 L’associazione dopo la disponibilità del Guardasigilli al dibattito: “Noi presenti se ci saranno le condizioni”. Confronto televisivo sulla riforma della Giustizia sì o no? La risposta giusta è “dipende”, secondo il segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) Rocco Maruotti il solo che abbia voglia di entrare nel merito della questione mentre il presidente Cesare Parodi la liquida così: “Non c’è ancora nulla di certo”. Se infatti il ministro della Giustizia Carlo Nordio si è detto disponibile a una sfida tivù purché avvenga con il presidente dell’Anm, dentro l’associazione si è aperta una riflessione che Maruotti sintetizza in questa maniera: “La magistratura non si è mai sottratta al confronto e anzi lo ha sempre cercato sebbene dal governo non vi sia mai stata una reale apertura al dialogo sui contenuti. Riguardo all’incontro televisivo, se ci saranno le condizioni, la magistratura sarà presente con un suo rappresentante”. Si va per vincere, non per apparire. Ma per Maruotti è vera la voce secondo cui vi sarebbero divisioni all’interno riguardo al fatto di schierare proprio Parodi in un confronto con Nordio? “Nessuna sfiducia nelle capacità di Parodi di spiegare al meglio, come già ha fatto, le ragioni della nostra contrarietà alla riforma” è la premessa del segretario. Non teme il dibattito interno: “I magistrati dialogano e si confrontano, sempre con spirito costruttivo, perché la magistratura non è un monolite”. L’Anm, nei giorni scorsi, ricorda Maruotti, ha promosso la costituzione del comitato per il No alla separazione delle carriere, guidato dal costituzionalista e avvocato penalista Enrico Grosso. Una mossa che svela l’impegno a un confronto con tutti i cittadini includendo la voce di chi non appartiene, strettamente, alla categoria. Dentro l’associazione si guarda ora a tempi e modi per affrontare il tema del referendum. La riforma della Giustizia è questione particolarmente tecnica e difficilmente comprensibile per la maggior parte delle persone. Quando si chiede a Maruottti se i cittadini non saranno “spaventati” da un tema con implicazioni fortemente tecniche, affiora, forse, l’ultima perplessità sull’efficacia del confronto a favor di telecamere: “Proprio perché il tema è tecnico è necessario spiegarlo ai cittadini senza ricorrere a slogan, per aiutarli a comprendere che i primi a pagare le conseguenze di questa revisione costituzionale saranno loro. Riducendo l’autonomia della magistratura si restringe la tutela dei diritti di tutti”. Separazione delle carriere, il Governo accelera: ipotesi referendum ai primi di marzo di Valentina Stella Il Dubbio, 12 novembre 2025 L’Esecutivo potrebbe accelerare l’iter per evitare l’Election Day con le amministrative. Nell’attesa che tutti i comitati referendari scaldino i motori per entrare nel vivo della campagna, ci si chiede sempre con più interesse quando si terrà il voto popolare che deciderà se il nostro sistema dovrà accogliere o meno la separazione delle carriere tra giudici e pm. Due giorni fa proprio la premier Giorgia Meloni, rivolta alla sinistra, ha detto: “Loro sanno che sono norme di buon senso e infatti che dicono? “Votate no al referendum per mandare a casa la Meloni”. Ma mettetevi l’anima in pace, la Meloni a casa ce la possono mandare solo gli italiani. Arriverà a fine legislatura e poi chiederà agli italiani di essere giudicata sul complesso di ciò che ha fatto. È una cosa alla quale la sinistra non è abituata: la democrazia”. Insomma per la presidente del Consiglio la partita è chiara: nessun legame tra il ddl costituzionale approvato dalle Camere e la stabilità dell’esecutivo. E però sempre meglio non rischiare, anzi per il Governo sarebbe un volano fortissimo quello dell’acclamazione popolare alla riforma della giustizia in vista del 2027. Tornando alle tempistiche, com’è noto il ddl costituzionale è stato pubblicato nel numero 253 della Gazzetta Ufficiale lo scorso 30 ottobre, anticipato dalla seguente dicitura: “Entro tre mesi dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del testo seguente, un quinto dei membri di una Camera, o cinquecentomila elettori, o cinque Consigli regionali possono domandare che si proceda al referendum popolare”. E infatti prima la maggioranza e poi le opposizioni hanno immediatamente raccolto le firme necessarie dei parlamentari e sono andati a depositarle in Cassazione. Passo successivo: l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di Cassazione con il compito di verificare la conformità della richiesta di referendum alle disposizioni dell’art. 138 della Costituzione, decide sulla legittimità della richiesta entro 30 giorni dalla sua presentazione, termine ultimo per contestare ai presentatori le eventuali irregolarità. Qui però si apre un bivio interpretativo. Come anticipato dal Foglio qualche giorno fa, la legge di attuazione dell’art. 138 Cost., la 352 del 1970, secondo il parere di alcuni non dà indicazioni specifiche sui tre mesi, nel senso che una volta che Piazza Cavour ha decretato che la richiesta di referendum da parte dei parlamentari è valida, il Governo potrebbe direttamente avviare l’iter per richiedere la data del referendum, senza aspettare il 30 gennaio 2026. In questo modo sarebbe possibile andare alle urne già agli inizi di marzo invece che a fine mese o inizio aprile (il referendum si svolge in una domenica compresa tra il 50° e il 70° giorno successivo all’emanazione del decreto di indizione, le operazioni di voto si estendono alla giornata del lunedì successivo). Fonti governative fanno sapere che ancora questa opzione non è stata messa sul tavolo per una serie di valutazioni ma non è esclusa. In generale la maggioranza deve fare presto sostanzialmente per due motivi. Primo: più il voto referendario è lontano dal rinnovo del Parlamento nel 2027 meno si rischia di allontanarsi dall’ “effetto luna di miele” secondo il quale se si tiene rapidamente un referendum è probabile che lo si vinca, se lo si tiene a fine mandato, è più probabile che lo si perda. Secondo: nella primavera del 2026 saranno chiamati al voto i cittadini dei Comuni che, per la deroga dovuta al Covid, sono andati alle urne nell’autunno 2021. Tra gli altri Roma, Milano, Bologna, Torino e Trieste. Un Election Day in cui accorpare amministrative e voto referendario sarebbe pericoloso per i sostenitori della riforma in quanto, da tradizione, nei grandi centri il centrosinistra va meglio. Questo comporterebbe, dunque, una maggiore affluenza dei “No”. Inoltre, se veramente si creassero i presupposti per un Election Day ma la maggioranza si rifiutasse di aderirvi, le opposizioni potrebbero accusarla di sprecare i soldi degli italiani. Un danno di immagine da rifuggire per la destra. Comunque, sull’ipotesi di una accelerazione da parte del Governo, è molto critico il senatore dem Andrea Giorgis: “Dal nostro punto di vista il significato dell’articolo 138 e della sua relativa legge attuativa, la 352/ 1970, è chiaro: devono trascorrere tre mesi prima che si possa indire la data del referendum. Una diversa interpretazione e una anticipazione dei tempi sarebbe l’ennesima forzatura. Come noto, non era mai successo che una riforma costituzionale venisse approvata senza che il Parlamento potesse svolgere un qualche reale ruolo ed apportare qualche emendamento; non era mai successo che si applicasse il canguro in Commissione; non era mai successo che si andasse in Aula senza un mandato al relatore. Dopo tutte queste forzature, non mi stupirei se il Governo e la maggioranza provassero a metterne in atto un’altra. Forse temono che più i cittadini si informano su questa riforma e più siano portati a votare No”. La propaganda dei magistrati sul referendum di Luciano Capone Il Foglio, 12 novembre 2025 Congetture e citazioni inventate. La campagna di Gratteri per il no al referendum sulla giustizia è un vero pericolo per la magistratura. Immaginate se in un processo un pm chiedesse la condanna per un reato diverso da quello del capo d’imputazione. E immaginate che quel pm porti a supporto della sua richiesta di condanna una prova testimoniale o documentale che è palesemente falsa o contraffatta. Che idea si farebbe un cittadino della giustizia italiana? Questo è più o meno ciò che sta facendo il procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, nella campagna elettorale referendaria sulla separazione delle carriere. Da un lato Gratteri afferma che bisogna votare No alla riforma per qualcosa che la riforma non prevede, dall’altro porta a suo supporto una falsa citazione di Giovanni Falcone. Intervistato dal Corriere della sera, il frontman del No alla riforma sostiene che la separazione delle carriere “è il primo step di un percorso che vedrà come successivo la sottoposizione del pm all’esecutivo. Sarà il governo a stabilire quali reati perseguire”. Quella di Gratteri è un’affermazione palesemente non vera. Il testo della riforma, infatti, non prevede alcun cambiamento nel ruolo del pm, ma semplicemente la separazione dai giudici con divisione in due Csm. “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”, recita l’attuale primo comma dell’articolo 104 della Costituzione. L’art. 104 riformato riporta nel primo comma esattamente le stesse parole con l’aggiunta “ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”. Nessuna limitazione all’autonomia e all’indipendenza dei pubblici ministeri, nessun tipo di assoggettamento al governo. Eppure, questa prospettiva è il principale argomento a supporto del No, che Gratteri ripete almeno quattro volte nella stessa intervista. “Si vuole controllare la magistratura - dice - fare in modo che sarà chi di volta in volta è al governo a dettare l’agenda”. Non parla del sorteggio per nominare i membri del Csm, sistema a cui Gratteri è sempre stato favorevole e che è presente nella riforma (“In questo momento passa in secondo piano”), ma si concentra sull’obiettivo occulto della riforma: “Riposizionare il pm per poi metterlo alle dipendenze dell’esecutivo, incidendo anche sull’obbligatorietà dell’azione penale”. Il procuratore di Napoli non parla di ciò che c’è, ma si oppone a ciò che non c’è. Il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale è un’altra bufala: non solo la riforma non incide sull’autonomia e sull’indipendenza del pubblico ministero, ma non modifica l’art. 112 della Costituzione che continua a recitare “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. L’argomentazione di Gratteri, che si batte contro un testo referendario che è solo nella testa dell’Associazione nazionale magistrati, è che sarà pure vero che ora questa riforma costituzionale non prevede di mettere il pm sotto il controllo del governo ma succederà un domani se dovesse passare (“è il primo step”). È un argomento bizzarro. Come se un pm, in un processo per furto (separazione delle carriere), chiedesse al giudice di condannare l’imputato perché se dovesse venire assolto in futuro potrebbe commettere un omicidio (sottomettere il pm al governo) o uno stupro (abolire l’obbligatorietà dell’azione penale). La campagna referendaria è, da parte di Gratteri e dell’Anm, come un processo per furto in cui l’accusa non discute minimamente del furto ma delle possibili ulteriori intenzioni malevole dell’imputato. Non è molto onesto né professionale. Come la scelta di Gratteri di portare a supporto della sua tesi una prova falsa. Intervistato da Giovanni Floris a “diMartedì”, per smentire i sostenitori del Sì che ricordano come Giovanni Falcone fosse favorevole a una separazione tra la figura del giudice e del pm, il procuratore di Napoli ha sfoderato lo smartphone e detto: “Volevo leggervi un’intervista di Falcone del 25 gennaio 1992, per sfatare questa leggenda sulla separazione delle carriere. Falcone dice questo: ‘Una separazione delle carriere può andar bene se resta garantita l’autonomia e l’indipendenza del pubblico ministero. Ma temo che si voglia, attraverso questa separazione, subordinare la magistratura inquirente all’esecutivo. Questo è inaccettabile”. Il problema è che la citazione è falsa: non esiste alcuna intervista in cui Falcone dica quelle cose e non esiste alcuna intervista di Falcone in quel giorno. È uno di quei meme fasulli che circolano su Facebook e Whatsapp, talvolta su qualche giornale come il Fatto. Nei referendum, è fisiologico che i partiti usino propaganda ed esagerazioni, sono strumenti del loro mestiere che è quello di raccogliere il consenso e rappresentare degli interessi. I cittadini ne sono consapevoli, dai partiti se l’aspettano, conoscono il codice della politica. Il problema è se i magistrati, che non devono seguire il consenso ma ricercare la verità, agiscono allo stesso modo in un referendum: se si trasformano in attori politici che usano i trucchi e le distorsioni della politica. I cittadini, in questo modo, finiranno per pensare che è quello il metodo con cui giudici e pm amministrano la giustizia. Salvatore Borsellino: “Chiedo solo giustizia, invece mi indagano” di Riccardo Arena La Stampa, 12 novembre 2025 Il fratello del giudice ucciso nel 1992: “C’è un filo nero che unisce tutte le stragi impunite del nostro Paese”. Salvatore Borsellino ha 83 anni e una solida, inossidabile convinzione: “L’agenda rossa di mio fratello è alla base della strage di via D’Amelio e della eliminazione di Paolo; sono certo che l’hanno presa i Servizi segreti; il generale Mario Mori è stato ai vertici degli apparati di sicurezza e non può non sapere, ne conosce il contenuto, lo ha pure usato. Mi assumo la responsabilità di quello che dico”. Un’affermazione forte, che il fratello del magistrato ucciso il 19 luglio del 1992 ha esternato durante un convegno tenuto a Palermo alla vigilia del 33° anniversario dell’eccidio, l’estate scorsa. Nella città di cui la famiglia è originaria e dove hanno vissuto tutti i fratelli, tranne appunto Salvatore, emigrato da tempo a Milano, il prefetto Mori ha presentato una querela e ora il più giovane dei Borsellino è indagato con l’ipotesi di diffamazione aggravata. Il Coordinamento delle associazioni delle vittime di mafia e terrorismo, Paolo Bolognesi in testa, gli ha espresso solidarietà e vicinanza. Il Coordinamento sostiene che lei sia vittima di un “attentato giudiziario”, mentre i depistaggi restano impuniti. Che ne pensa? “Non c’è dubbio: noi familiari delle vittime, anziché avere verità e giustizia dopo 33 anni, finiamo sul banco degli imputati per la querela di chi la verità dovrebbe raccontarla”. Su Mori lei comunque fa un ragionamento... “È chiaro che sono mie convinzioni, ma le baso su dati di fatto. Tra i quali ci sono le sentenze che riguardano il generale, in due processi assolto non per non avere commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, ma perché il fatto non costituisce reato. E parliamo della mancata perquisizione del covo di Riina e della mancata cattura, nel 1995, di Bernardo Provenzano. È stato poi scagionato pure dalla trattativa Stato-mafia, con una decisione su cui si potrebbe discutere”. Lei però gli attribuisce un fatto specifico, sull’agenda rossa... “Al convegno del 18 luglio ho detto che invece di cercare a casa dei morti l’agenda su cui mio fratello annotava i fatti più importanti della sua vita personale e professionale, il documento che potrebbe spiegare le cause della sua uccisione si dovrebbe cercare dai vivi. Mi riferisco alle perquisizioni eseguite nelle abitazioni dell’ex procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra e dell’ex questore Arnaldo La Barbera, entrambi scomparsi. Perché non cercano a casa o negli uffici di Mori?”. C’è un automatismo tra l’essere stato capo dei Servizi e l’avere preso l’agenda? “Secondo me Mori ha utilizzato le sue conoscenze del contenuto nelle sue interlocuzioni con la commissione nazionale Antimafia, su cui esercita una notevole influenza, su Mantovano e su altri personaggi. Non ho elementi precisi ma se verrò rinviato a giudizio finalmente di questi fatti e della sparizione dell’agenda si potrà parlare in un’aula di giustizia”. L’allora capitano Arcangioli, fotografato in via D’Amelio con la borsa di suo fratello, è stato prosciolto in udienza preliminare... “Infatti non c’è mai stato un approfondimento dibattimentale. Io voglio il processo pubblico. La cosa paradossale è che il giorno dopo la notifica dell’avviso di indagine mandatomi da Palermo, a Caltanissetta è stata chiesta l’archiviazione del filone di indagine che potrebbe portare a incriminare Paolo Bellini e dunque i neofascisti per le stragi del 1992”. Lei resta convinto del legame tra mafia e terrorismo nero? “C’è un filo nero che lega tutte le stragi impunite del nostro Paese. E non è un caso che non ci sia stata una sola condanna per chi ha premuto il pulsante che ha fatto esplodere il tritolo in via D’Amelio, per i depistaggi e le tante ombre sul falso pentimento di Vincenzo Scarantino, avallato dalla Procura di Tinebra, né per il contributo altrettanto fasullo del collaboratore Maurizio Avola. C’è un depistaggio istituzionale che continua anche nella commissione Antimafia”. In che senso? “Abbiamo tante riserve, noi familiari delle vittime, sulla presidente Chiara Colosimo. A parte la foto di lei col terrorista stragista Ciavardini, avalla la falsa tesi che vorrebbe la strage del 19 luglio causata dalle indagini su mafia e appalti, svolte dai carabinieri del Ros di Mario Mori. Non è così. E in ogni caso noi familiari siamo ancora qui, dopo 33 anni, a chiedere inutilmente verità e giustizia. E il processo lo fanno a noi”. Triveneto. I Vescovi incontrano i Cappellani delle carceri del nordest diocesitv.it, 12 novembre 2025 I Vescovi del Triveneto hanno incontrato una folta rappresentanza dei cappellani e delle cappellanie (equipe pastorali) delle carceri del Nordest italiano (sacerdoti, religiosi/e, diaconi, fedeli laici uomini e donne) per fare il punto della situazione in questo ambito. Dopo l’introduzione del Vescovo delegato mons. Carlo Roberto Maria Redaelli (Arcivescovo di Gorizia) e del coordinatore triveneto don Mariano Dal Ponte (cappellano del Carcere circondariale di Padova), sono stati presentati i seguenti dati ufficiali: - nel territorio della Conferenza Episcopale del Triveneto (che corrisponde al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria Veneto - Friuli Venezia Giulia - Trentino Alto Adige) sono presenti 17 strutture penitenziarie distribuite in 13 delle 15 diocesi: 13 Case Circondariali, 2 Case di Reclusione (Padova maschile e Venezia femminile), 1 Carcere di Alta Sicurezza (Tolmezzo) e 1 Istituto Penale per Minorenni (attualmente a Treviso, in trasferimento a Rovigo); solo le diocesi di Vittorio Veneto e Chioggia non hanno strutture carcerarie nel loro territorio; - attualmente sono ristrette 3.912 persone su una capienza regolamentare di 2.857 posti, con un sovraffollamento del 137% (superiore alla media nazionale del 121%). Le situazioni più critiche riguardano Verona (186%), Treviso (181%), Venezia maschile (163%) e Trieste (151%). Il minorile di Treviso raggiunge il 200% di sovraffollamento; - il 52% dei detenuti sono stranieri, con punte del 75% a Trieste, 72% a Bolzano e Padova CC, 62% a Verona. Le provenienze principali sono Marocco, Albania, Romania, Tunisia, Nigeria; - i detenuti del Triveneto rappresentano il 7,6% del totale nazionale, ma gli stranieri detenuti sono il 10,1% di tutti gli stranieri ristretti in Italia; - il 70% dei detenuti ha già una sentenza definitiva, il 20% è in attesa del primo giudizio, il 10% in fase di appello; - almeno 8 detenuti su 10 che entrano in carcere hanno problemi di dipendenze da sostanze, alcol o gioco d’azzardo. Tra i più giovani si diffonde l’uso improprio di farmaci assunti in modo non terapeutico. Il 10% presenta malattie psichiatriche certificate, mentre il 30% soffre di disturbi della personalità (borderline, antisociale, narcisistico); - nelle carceri del Triveneto lavorano 2.445 dipendenti, di cui 2.171 appartenenti alla Polizia Penitenziaria. Nonostante le numerose assunzioni degli ultimi anni, permane una carenza cronica di effettivi di circa il 10%. L’attività pastorale nelle carceri, in questi ultimi tempi, ha visto la novità del passaggio dalla figura del singolo cappellano alla costituzione di équipes pastorali articolate che comprendono uomini e donne, dipendenti e volontari, sacerdoti, persone consacrate e fedeli laici che operano insieme. La pastorale in carcere si articola su più dimensioni: - l’ascolto puro: il cappellano e i suoi collaboratori rappresentano il gruppo più importante di ascolto disinteressato dentro il carcere; il volontario accoglie la persona detenuta per quello che è e non per il reato commesso; - il servizio alla persona: attivazione di sportelli per bisogni primari (vestiti, aiuto economico), mantenimento dei contatti con le famiglie, accompagnamento durante i permessi premio; - l’annuncio della fede cristiana: animazione liturgica, gruppi di ascolto e catechesi, gruppi di preghiera, preparazione ai sacramenti. La Chiesa cattolica, inoltre, come servizio all’ecumenismo e al dialogo interreligioso, si adopera per facilitare l’accesso alle guide spirituali delle altre confessioni. Guardando poi al dopo carcere si è sottolineato che molte realtà ecclesiali si rendono disponibili ad accogliere persone in misure alternative attraverso affidamento in prova, semilibertà, lavori di pubblica utilità. Resta però la necessità di maggiore accompagnamento e informazione su come attivarle. In molte diocesi si registra una positiva sinergia tra Caritas e Cappellania del carcere mentre esistono anche esperienze di collaborazione interdiocesana (come la Fondazione Esodo) che meritano attenzione e possibile estensione. Tra gli elementi da potenziare e gli obiettivi pastorali per il futuro sono stati evidenziati: - passare dalla logica dell’emergenza ad un progetto strutturato di pastorale carceraria; - promuovere sinergie e la disponibilità di enti ecclesiali, parrocchie, famiglie religiose o privati ad accogliere persone in misura alternativa o reinserimento post-detenzione, accompagnando e sostenendo sempre più l’attivazione delle misure alternative al carcere; - sviluppare la collaborazione Caritas-Cappellania per non esporre né le realtà ospitanti né gli ospiti al rischio di sentirsi abbandonati; - sensibilizzare la comunità civile ed ecclesiale sul mondo del carcere e della giustizia, superando l’isolamento della realtà-carcere rispetto ai quartieri e alle parrocchie circostanti. Il gruppo dei cappellani delle carcere del Triveneto auspica inoltre di organizzare nei primi mesi del 2026 un incontro unitario con i Direttori degli istituti dell’area, alla presenza dei Vescovi che hanno appoggiato tale richiesta, per costruire o rafforzare la collaborazione attraverso un dialogo non centrato sui limiti della realtà carceraria, ma orientato a creare insieme strategie per parlare ai territori e ridurre l’isolamento del carcere dalle comunità, la proposta di un tavolo comune per affrontare questioni nodali (come il riconoscimento istituzionale non solo dei singoli cappellani ma delle équipes pastorali) e l’offerta di una collaborazione molto concreta per mitigare le criticità nel trovare accoglienze esterne, possibilità lavorative, occasioni di formazione professionale e lavori di pubblica utilità. I Vescovi del Triveneto - durante il dialogo su questi temi, che ha toccato le singole situazioni locali e i rapporti con i vari istituti ed accennato anche alle tematiche del tempo della pena come un periodo rieducativo e formativo, della giustizia riparativa, del rapporto tra esigenze di sicurezza ed esercizio di giustizia, della particolare realtà del carcere minorile ecc. - hanno quindi incoraggiato e sostenuto, con gratitudine, l’attività dei cappellani delle carceri e dei loro collaboratori nelle cappellanie. Lombardia. Segni di speranza in carcere di Cappellani delle carceri di Lombardia chiesadimilano.it, 12 novembre 2025 Verso il Giubileo dei carcerati (14 dicembre) pubblichiamo una serie di riflessioni a cura dei Cappellani delle carceri lombarde. Nella prima l’invito a guardare ai detenuti con gli stessi occhi di Gesù, compassionevoli e senza condanna, pur senza dimenticare i reati commessi e le loro vittime. Così si potrà guardare al carcere come una Chiesa, una comunità consapevole degli errori e desiderosa di perdono. “Finché ci sarà un prigioniero avremo la presenza del Cristo. La prigione è una Chiesa, una Presenza, un Tabernacolo, dove ognuno può incontrare, vedere il Cristo” (don Primo Mazzolari). Non dovremmo stupirci per queste parole di don Primo. A meno di dimenticarci, pur conoscendole bene, delle parole di Gesù quando, immaginando il momento del giudizio finale, disse: “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi…” ed “Ero in carcere e non siete venuti a trovarmi…” (Mt 25). Se in ogni uomo e donna reclusi noi incontriamo Gesù, allora il carcere può essere un luogo di salvezza, di redenzione, di speranza, per quanto difficile. Una nuova possibilità - In carcere ci sono uomini e donne che hanno sbagliato, che hanno fatto del male alla società, anche in modo crudele e ripugnante. Chi ha subìto i reati spesso ne porterà i segni per tutta la vita. “Hanno sbagliato, devono pagare, chiudeteli in cella e buttate la chiave”, capita spesso di sentire queste parole, pronunciate con troppa sicurezza. “Non perdere tempo con loro - sentiamo dire più volte -, spendi meglio il tuo tempo, non meritano”. Allora è vero: è difficile vedere il carcere come una Chiesa, il luogo dell’incontro con Cristo. Anche se ci sembra che ormai siano diversi i luoghi in cui dovremmo - ma non sempre avviene - incontrare Gesù. Forestieri, poveri, indigenti, alle volte anche malati: non persone da incontrare e abbracciare, ma presenze fastidiose da evitare in ogni modo, anche scorretto. Gesù però ha scelto l’uomo così com’è, fragile e forte, capace di bene e di male, peccatore e santo, e il più delle volte tutte queste cose messe insieme. Gesù ama questo uomo, crede in lui, la sua presenza tra noi, che ancora oggi continua, è il segno che non disprezza nessuno, mai, nonostante tutto. Non si è fatto uomo tra i santi, ma per renderci santi. Ci indica una nuova possibilità, a immagine sua. “Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, a predicare un anno di grazia del Signore”: è il programma di Gesù annunciato nella sinagoga di Nazareth (Lc 4, 18-19). Il carcere, come in ogni situazione dove c’è un uomo che soffre, è il luogo che attende la realizzazione della promessa di Gesù, la libertà per una nuova possibilità, e dunque per una vita migliore. Il cristiano deve imparare a guardare al fratello carcerato con gli occhi di Gesù, privi di condanna e colmi di compassione. Che non vuol dire dimenticare le vittime dei reati, ma aprire nuovi orizzonti di bene e di vita buona, questi sì capaci di portare alla consapevolezza del male compiuto e al desiderio di autentica conversione. Il carcere, che pure appare come un mondo a parte, dove niente è scontato e tutto sembra disumano e assurdo, è davvero come una Chiesa. Nelle nostre Chiese ci sono comunità in cammino, consapevoli dei propri limiti e difetti, alle volte anche gravi, chiese che non riescono più ad annunciare né testimoniare, chiese che allontanano anziché avvicinare. Chiese però consapevoli degli errori e desiderose di perdono. Chiese che non perdono la speranza perché confidano più sulla grazia di Dio ricevuta, e non sulle capacità dei cristiani. La clemenza negata - Sta per concludersi l’Anno santo 2025, per i cristiani un anno di grazia, un anno in cui ricordarci che la speranza non delude. Di speranze i detenuti ne hanno coltivate tante, forse un po’ interessate, non del tutto genuine. Desideravano che l’Anno santo portasse a qualche forma di amnistia, pensavano che il Papa potesse in qualche modo convincere chi governa a un atto di clemenza. È più che comprensibile. Papa Francesco lo aveva chiesto espressamente nella Bolla di indizione del Giubileo: “Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare la fiducia in se stessi e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. Ora non hanno più speranze, c’è un muro che impedisce la misericordia, esigenze viste come incompatibili con gesti di clemenza: certezza della pena, rispetto per le vittime, esigenze di giustizia, sicurezza dei cittadini. Tutto certamente giusto e da tenere presente; rimane però la domanda se è solo così che si possono ottenere, e se un gesto di clemenza negato a tutti davvero le favorisca. Nella chiesa e nel Papa, nonostante le delusioni, i carcerati, anche coloro che non sono cristiani, continuano ad aver fiducia. Crediamo sia perché chi si prende cura di loro lo fa con lo sguardo di Gesù, compassionevole e incoraggiante anche se esigente, con parole capaci di tener viva la speranza, con il cuore che sa amare. È bello vedere che anche chi non è cristiano sa amare così. Nella convinzione che questa sia la strada capace di toccare il cuore di chi ha sbagliato. O almeno tentare. Una Costituzione illuminata - Ci rincuora che, almeno nelle intenzioni, non sia solo la Chiesa a ritenere che l’uomo che sbaglia deve essere recuperato, che un vero cambiamento, più che dal castigo, passi attraverso la rieducazione e la stessa pena sia un reale e fruttuoso cammino di rieducazione. È lo Stato italiano che nella Costituzione ci fornisce le linee-guida da seguire verso chi compie reati. Rileggiamo l’articolo 27: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Una Costituzione diremmo illuminata, frutto della saggezza di tutte le parti migliori della società che hanno saputo guardare al futuro con lungimiranza, una stella che guida il cammino da compiere che in realtà è ancora lungo. Ma che ci sembra dica che occorra cambiare prospettiva e abbandonare l’idea che l’espiazione della pena debba passare in gran parte dalla reclusione in carcere e tentare invece altre strade che garantiscano il più possibile la sicurezza dei cittadini, una giusta e rispettosa esecuzione della pena e il rispetto e la tutela di chi è stato offeso. Roma. Nel carcere di Rebibbia due decessi in meno di una settimana aostaoggi.it, 12 novembre 2025 Morti un italiano di 40 anni e un egiziano di 38 detenuti nel carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso. È il sindacato Osapp a raccontare quanto accaduto: martedì 4 novembre è morto un detenuto italiano di 40 anni, appena trasferito da Regina Coeli dopo lo sfollamento conseguente al crollo del tetto. Il 9 novembre, un secondo decesso: un uomo egiziano di 38 anni. “Le cause sono al vaglio della Magistratura per entrambi i casi”. “L’eco che resta è la stessa: un sistema allo stremo, dove il disagio non fa rumore finché diventa irreparabile - dice il sindacato di polizia penitenziaria. Quel primo decesso ha il peso delle emergenze accumulate. L’uomo, quarantenne italiano, era arrivato da poco a Rebibbia N.C. dopo il trasferimento da Regina Coeli, resosi necessario per i danni strutturali. Un passaggio di mura e di numeri, senza tempo per ricucire le crepe interiori”. Osapp chiede “massima trasparenza e rapidità negli accertamenti, ma soprattutto condizioni dignitose per chi resta, personale e detenuti. A cinque giorni di distanza, un secondo uomo, egiziano di 38 anni, muore in una cella dello stesso istituto. Anche qui, la verità giudiziaria dovrà dire l’ultima parola. Ma prima ancora delle carte, c’è la domanda che ritorna: quante volte il rischio era stato intuito, segnalato, sottolineato? Rebibbia N.C. non è un’eccezione; è uno specchio. Negli stessi giorni, denunce e allarmi sull’affollamento, su allocazioni di fortuna e servizi ridotti al minimo hanno descritto un quadro “al collasso”, dove gli spazi di socialità diventano camere di degenza dell’emergenza e le procedure si trasformano in tappabuchi. In quel vuoto, la salute mentale - di chi sconta la pena e di chi lavora - si assottiglia fino a rompersi. Non servono capri espiatori, servono scelte operative. Le famiglie hanno diritto alla verità, il personale alla tutela, la collettività a istituzioni che non voltino lo sguardo. Trasparenza sugli accertamenti, pubblicazione dei dati aggregati sugli eventi critici, verifiche ispettive con esiti accessibili: non è sfiducia, è garanzia”. “Di questi uomini conosciamo età e provenienza, non la storia - conclude il sindacato. Eppure ogni storia chiede ascolto. Un carcere che previene è un carcere che ascolta prima, che interviene subito, che non lascia soli né i detenuti né chi li custodisce”. Ferrara. Giovane suicida in carcere, assolto agente della Polizia penitenziaria di Federico Malavasi Il Resto del Carlino, 12 novembre 2025 Era accusato di non aver vigilato adeguatamente il detenuto a rischio. La difesa: “Ce lo aspettavamo”. Il legale dei familiari della vittima: “Rispettiamo il verdetto, ma non finisce qui”. Le lacrime della madre. Si chiude senza responsabili il processo per il suicidio di un 29enne trovato impiccato nella sua cella all’Arginone il primo settembre del 2021, a poche ore dall’arresto. Al termine di una lunga mattinata di discussione, il giudice dell’udienza preliminare Andrea Migliorelli non ha ravvisato colpe a carico dell’agente di polizia penitenziaria G.P., unico rimasto sotto accusa dopo che altre posizioni (la comandante della Penitenziaria, una ispettrice e un medico) erano state archiviate nelle fasi precedenti. Alle 13, il gup ha letto la sentenza di assoluzione piena, perché il fatto non sussiste. Il verdetto di ieri è il primo punto fermo su una tragedia che ha seguito un iter giudiziario lungo e complesso. Ma potrebbe non essere l’ultimo. O almeno questo sembrerebbe trapelare dalle parole dell’avvocato Antonio De Rensis, difensore dei familiari del 29enne. “Rispettiamo la sentenza - si è limitato a dichiarare all’uscita dall’aula affiancato dalla madre del ragazzo, gli occhi gonfi di lacrime -. Ma il percorso giudiziario di questo caso non finisce qui”. Non è nemmeno escluso che venga presentata un’istanza di riapertura delle indagini sull’accaduto, allo scopo di valutare (o rivalutare) alcune posizioni legate alla vicenda. Ma al momento è prematuro fare balzi in avanti e non rimane che attendere le determinazioni delle parti coinvolte. Soddisfatto per il pronunciamento del giudice il difensore di G.P., l’avvocato Alberto Bova (sostituito dalla collega Chiara Carrino). “Una sentenza che ci aspettavamo - ha commentato -, partivamo infatti da due richieste di archiviazione. Non è stata una sorpresa. Eravamo sereni e avevamo piena fiducia nell’operato del giudice”. Fuori dall’aula, Palermo ha avuto una breve conversazione con la madre del 29enne e l’avvocato De Rensis, conclusasi con una stretta di mano. Le accuse. Secondo la ricostruzione della procura l’imputato, in servizio di sorveglianza dalle 8 alle 16 di quel maledetto giorno, avrebbe violato gli ordini della comandante di svolgere controlli ogni venti minuti nella cella del ragazzo. Passaggi necessari in quanto il 29enne detenuto era stato ritenuto ad alto rischio suicidario dal medico di turno, che ne aveva infatti disposto la cosiddetta ‘grande sorveglianza’. Stando all’impianto accusatorio, dunque, pur essendo a conoscenza del pericolo di suicidio, l’imputato avrebbe omesso di vigilarlo adeguatamente. Una tesi che non ha convinto il giudice, che ha chiuso il processo in rito abbreviato con l’assoluzione del poliziotto. Per lui, il pubblico ministero Andrea Maggioni aveva chiesto la condanna a otto mesi di reclusione. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Processo violenze sui detenuti, cambia presidente del collegio Corriere della Sera, 12 novembre 2025 I legali dei reclusi vittime dei pestaggi contestano la mancata proroga a Roberto Donatiello, destinato alla Corte d’Appello di Napoli. Domani tavolo tecnico tribunale, procura, camera penale. Dopo quasi tre anni di dibattimento e con la strada verso la conclusione ormai imboccata, cambia il presidente del collegio al maxiprocesso per le violenze ai danni dei detenuti avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) il 6 aprile del 2020. Il processo è in corso all’aula bunker del carcere sammaritano, visto l’alto numero di imputati: sono infatti 105, tra poliziotti penitenziari, funzionari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) e medici dell’Asl di Caserta in servizio nell’istituto di pena all’epoca dei fatti. Roberto Donatiello, il presidente del collegio giudicante di Corte d’Assise (a latere Honorè Dessi), non ha avuto la proroga per continuare a occuparsi del maxi-processo (partito nel novembre 2022), e dovrà insediarsi alla Corte di Appello di Napoli, dove era stato già trasferito su decisione del Csm nel 2024. Proprio per evitare cambi in corsa in un processo molto complesso come quello in corso all’aula bunker del carcere sammaritano, Donatiello aveva usufruito dell’istituto dell’applicazione temporanea, così come peraltro avviene per il pubblico ministero Alessandro Milita, che è stato nominato procuratore aggiunto a Napoli ma continua a seguire il maxi-processo a Santa Maria Capua Vetere. Del cambio di Donatiello - oggi dovrebbe conoscersi il nome del sostituto - si discuterà domani 12 novembre alle 15 in un tavolo tecnico con la Presidenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, la Procura della Repubblica e il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati; ma la situazione ha messo in allarme proprio gli avvocati dei 105 imputati, che, attraverso la Camera Penale di Santa Maria Capua Vetere, hanno fissato sempre per domani, ma alle 11, dunque in vista del tavolo previsto nel pomeriggio, un’assemblea straordinaria per “confrontarsi sulle ragioni di tale mutamento del Collegio giudicante e sulle conseguenze che ciò comporterà in un processo - oramai giunto nella fase dell’esame degli imputati - estremamente complesso e delicato, soprattutto in tema di tutela delle garanzie difensive”. Per favorire la partecipazione di tutti i legali impegnati nelle difese degli imputati, la Camera Penale ha quindi chiesto il rinvio dell’udienza del maxi-processo in calendario proprio per domani mattina, senza però proclamare astensione, “nell’ottica di uno spirito di collaborazione con le Istituzioni Giudiziarie”. Avellino. Il Garante dei detenuti: “Bambini in cella, è una barbarie” di Salvatore Saggiomo artestv.it, 12 novembre 2025 Il grido d’allarme lanciato dal Garante dei detenuti si leva con una forza che non può essere ignorata: definire “barbaro” e “disumano” il fatto che bambini vivano dentro le sezioni detentive non è retorica ma constatazione di una situazione concreta e numericamente documentata, oggi in Italia con decine di minori costretti a crescere in un contesto che ne compromette sviluppo, salute e diritti fondamentali. Secondo il reportage locale che ha ricostruito la situazione nella nostra regione, sono ventotto le madri e ventisei i figli coinvolti, con casi specifici denunciati in strutture come l’Istituto a custodia attenuata di Lauro dove si segnalano anche donne in stato di gravidanza prive di una presenza ginecologica stabile; la fotografia sul campo parla di maternità che si consumano in celle adattate male a lettini e culle, e di una rete di intervento sociale spesso insufficiente a garantire la continuità affettiva e la tutela della salute dei neonati e dei bambini. La problematica non è nuova: la voce dei garanti nazionali e territoriali si è già levata in altre occasioni ricordando che i bambini “sono senza colpe” e che la legge e le prassi devono agire in loro favore; appellandosi al principio costituzionale della funzione rieducativa della pena, gli osservatori sottolineano come il permanere di minori in carcere rappresenti un’anomalia civile e un fallimento delle politiche pubbliche. Sul piano giuridico e di policy, studi e monitoraggi effettuati da organismi indipendenti - ivi compresi report istituzionali e del terzo settore - mostrano che esistono linee guida e percorsi alternativi che dovrebbero essere privilegiati: casette protette, misure alternative, programmi di sostegno alla genitorialità e percorsi scolastici e sanitari costruiti fuori dalle celle ma vicini all’affetto materno; un recente report di monitoraggio sui figli di persone detenute fornisce indicazioni e raccomandazioni precise sui diritti dei minori e sulle pratiche da promuovere per evitare l’isolamento sociale e lo stigma che derivano dalla detenzione. Dal punto di vista numerico e delle tendenze, la preoccupazione dei garanti cresce in un quadro in cui, più in generale, la popolazione carceraria e i numeri relativi ai minori e ai giovani sottoposti a misure restrittive hanno registrato incrementi negli ultimi periodi: queste tendenze evidenziano come politiche di sicurezza che enfatizzano il carcere piuttosto che le misure alternative aumentino il rischio che anche soggetti fragili - e i loro figli - vengano inglobati in circuiti che dovrebbero essere invece finalizzati alla cura e al reinserimento. Le condizioni materiali segnalate nelle ispezioni - celle adibite a dormitori con lettini improvvisati, scarsità di servizi pediatrici o ginecologici costanti, mancanza di spazi gioco adeguati e di personale formato per l’assistenza ai minori - rendono evidente la distanza tra l’ordinamento giuridico che tutela l’infanzia e la pratica quotidiana delle strutture, con l’effetto che la marginalità e la povertà si trasmettono alle nuove generazioni in un circolo vizioso dove la pena ricade anche su chi non ha commesso reato. Di fronte a questi fatti, il Garante chiede interventi immediati e strutturali: la predisposizione di percorsi di uscita per le madri e i loro figli verso soluzioni abitative protette, il rafforzamento delle équipe multidisciplinari (assistenti sociali, pediatri, psicologi), l’attivazione di protocolli sanitari specifici per le gravidanze e i primi anni di vita, e la promozione di misure alternative alla detenzione per chi è genitore di minori in età precoce; inoltre, viene chiesto alle istituzioni territoriali e centrali di rivedere norme e prassi che - in nome del contrasto alla criminalità - finiscono col produrre effetti lesivi per diritti fondamentali e per il benessere dei bambini. Le testimonianze raccolte dagli operatori e dagli stessi garanti raccontano di bambini che passano le giornate in corridoi e cortili angusti, di madri che devono conciliare regole carcerarie e bisogni educativi, e di famiglie frammentate che a volte vedono nell’accoglienza in istituti alternativi l’unica possibilità di interrompere il ciclo di devianza intergenerazionale; sotto questo profilo la denuncia non è moralismo, ma richiesta di risposte efficaci e integrate che sappiano rompere la catena della povertà educativa e dell’emarginazione. Le organizzazioni della società civile, le associazioni per i diritti dell’infanzia e i movimenti per la giustizia hanno rilanciato l’appello, chiedendo una calendarizzazione urgente di provvedimenti legislativi e un piano nazionale che metta in rete Regioni, servizi sociali, tribunali per i minorenni e terzo settore per programmare soluzioni non detentive. In chiusura, la denuncia del Garante è un monito che va oltre la cronaca: è un banco di prova per la nostra comunità costituzionale e per la sensibilità democratica del Paese; se la civiltà di una società si misura anche dai suoi più fragili, non possiamo permettere che la risposta pubblica alla delinquenza passi attraverso il sacrificio dell’infanzia. La politica risponda con prontezza e umanità, trasformando il dissenso in politiche concrete che tolgano i bambini dalle celle e restituiscano loro il diritto inalienabile a un’infanzia serena e protetta. “Destini Incrociati”, la rassegna di teatro in carcere a Firenze, Livorno e Isola di Gorgona comune.fi.it, 12 novembre 2025 Da mercoledì 12 a sabato 15 novembre 2025, si terrà fra Firenze, Livorno e l’Isola della Gorgona, l’undicesima edizione della rassegna nazionale di teatro in carcere “Destini Incrociati”, dedicata quest’anno a Le Città Visibili, con la commissione artistica composta da Ivana Conte, Grazia Isoardi, Vito Minoia, Valeria Ottolenghi, Gianfranco Pedullà, Michalis Traitsis. La rassegna è promossa dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, in collaborazione con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità in accordo con le finalità del protocollo d’Intesa per la Promozione del Teatro in Carcere in Italia sottoscritto il 3 maggio 2022 a Roma tra il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, il DAP, il DGMC e l’università di RomaTre. L’iniziativa rientra all’interno del programma di eventi del Progetto speciale dal titolo “Le città visibili” sostenuto dal Ministero della Cultura e dalla Regione Toscana. L’apertura ufficiale della rassegna sarà mercoledì 12 novembre presso il Saloncino della Pergola di Firenze, dalle 15 alle 17, con Il senso del teatro in carcere, incontro che prevede gli interventi istituzionali dei rappresentanti di Regione Toscana, Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, DAP e PRAP, DGMC, UNIROMATRE, Ufficio del Garante nazionale dei detenuti, Coordinamento regionale toscano, Associazione Nazionale dei Critici di Teatro. Fra gli ospiti Jean Trounstine, professoressa emerita al Middlesex Community College in Massachusetts, prima regista teatrale a sviluppare un progetto organico di teatro in carcere nella prigione femminile di Framingham negli Stati Uniti, Bruno Mellano, già garante dei detenuti per la regione Piemonte e Claudio Sarzotti, docente universitario di Sociologia del Diritto all’Università di Torino e direttore del Museo della Memoria Carceraria di Saluzzo. Conclude il pomeriggio, dalle 17,15 alle 18, la performance musicale Innocentevasione, de I Cella Musica a cura de LaLut Centro di Ricerca e Produzione. I Cella Musica si sono formati per iniziativa di un agente penitenziario e del conduttore del laboratorio musicale, un chitarrista di lunga esperienza, e annoverano tra le loro file detenuti, personale esterno, agenti e musicisti professionisti. Da giugno 2025 la band, che fino ad allora si era esibita solo all’interno delle mura carcerarie, può suonare all’aperto grazie alle mutate condizioni di alcuni dei membri del gruppo, tre cantanti e il tastierista che sono tornate in libertà. La rassegna si sposta poi a Livorno, dove alle 22 al Nuovo Teatro delle Commedie, si terrà l’anteprima della Rassegna video con la presentazione di “Sentieri Incrociati” video di Maria Celeste Taliani, che documenta le attività realizzate nella precedente edizione della rassegna, tenutasi a Pesaro nel dicembre 2023, a cura del Teatro Aenigma. Giovedì 13 novembre la programmazione si apre a Livorno dalle 9,30 fino alle 11,30 presso il Cisternino Ex Casa della Cultura, con la tavola rotonda Le prospettive del teatro in carcere. In apertura intervento di Jean Trounstine, relazione di Vito Minoia, docente in discipline dell’Educazione e dello Spettacolo all’università di Urbino, presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e interventi di Renzo Guardenti, docente di Discipline dello Spettacolo presso l’Università di Firenze, Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro, attivo nel campo del teatro sociale, Giuseppe Lipani, docente in Storia del Teatro e dello Spettacolo all’Università di Ferrara. Alle ore 11,45, presso il Caffè Palcoscenico, in collaborazione con la Libreria Feltrinelli, saranno presentati Dialoghi, di Antonio Dragone, pubblicato per i tipi di Sensibili alle Foglie e Nessuno escluso, di Alessandro Chiarelli, edito da Nalanda. La programmazione prosegue alle 14, presso la Casa Circondariale Le Sughere, dove per gli spettatori autorizzati sarà possibile assistere a Moby Dick, di Lara Gallo e Francesca Ricci a cura di Arci Livorno con il sostegno della Regione Toscana, del Comune di Livorno, in collaborazione con Fondazione Teatro Goldoni. Un adattamento libero dal celebre libro di Herman Melville per dieci attori, costruito insieme agli stessi protagonisti, dove la balena diventa specchio e contenitore della rabbia, della paura e della speranza di sopravvivere dopo uno scontro inaspettato. Il laboratorio teatrale in carcere a cura di Arci Livorno opera da più di 20 anni portando avanti progetti di coinvolgimento e reinserimento che mettono al centro la persona detenuta e non il reato commesso. Alle ore 17, presso il Nuovo Teatro delle Commedie, Sangue Giusto - Addentro, C.C. Civitavecchia in Sottocoperta, libero adattamento de Il bar sotto il mare di Stefano Benni, riscrittura scenica con i partecipanti al laboratorio teatrale della Casa di Reclusione di Civitavecchia con la regia e la conduzione di Ludovica Andò e Veronica Di Marcantonio col contributo della Regione Lazio - Direzione regionale Cultura e Fondazione Severino onlus e col patrocinio del Garante Nazionale e del Garante Regionale dei Diritti delle persone private della libertà personale. Immerso in un’atmosfera surreale e fantastica, chi arriva nel bar sotto il mare sa come e perché è arrivato in quel luogo, metafora del carcere, da cui non si può uscire facilmente. Esiste però una regola, ognuno deve raccontare la propria storia, solo così, attraverso la rielaborazione del proprio vissuto, sarà già fuori, mentalmente libero. Ispirato al famoso libro di Stefano Benni, Sottocoperta ha preso forma come esercizio di scrittura e lettura espressiva sul tema del mare, in cui ognuno dei partecipanti ha scritto e interpretato un racconto, in forma poetica, narrativa, musicale o fantastica. La compagnia teatrale AdDentro, nata dall’esigenza di approfondire l’esperienza artistico-pedagogica maturata in 18 anni di laboratori teatrali negli istituti penitenziari da Ludovica Andò, regista e formatrice, ha ricevuto il Premio della Critica 2019 a cura dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro ANCT e della Rivista europea “Catarsi-Teatri delle Diversità”. Conclude la programmazione della giornata, alle ore 21 presso il Nuovo Teatro delle Commedie, Ali, con Giulia Tonelli, Giuseppe Angrisani, Maurizio Monte per la regia e rielaborazione di Alessandro J Bianchi della Compagnia Teatrale Talibè, nata all’interno del progetto Fuori e Dentro le Mura ideato da Empatheatre. Lo spettacolo è la prima produzione della compagnia, ed è liberamente tratto da Quando spuntano le ali, degli autori David Kerr,Vipya Harawa,Edge Kanyongolo. Ali si svolge in un luogo indefinito, forse in un carcere come sembra suggerire il testo, forse all’interno della mente di uno dei protagonisti, forse nell’anima di una società alla ricerca di un nuovo centro futuro, quando ormai il passato non può essere più e il presente si rivela pieno di interrogativi e desideri irrisolti. Venerdì 14 novembre la rassegna si sposta sull’isola della Gorgona dove, alle ore 11,30, presso la Casa di Reclusione, la Compagnia Teatro Popolare d’Arte presenta La città invisibile. Lo spettacolo, diretto da Gianfranco Pedullà, nasce da un percorso di scrittura teatrale condotto da Chiara Migliorini all’interno del laboratorio teatrale di Gorgona. Il percorso di scrittura è stato un attraversamento umano fondato su domande, conversazioni e suggestioni che hanno messo in relazione i partecipanti con lo spazio dell’isola per far emergere memorie, sogni, desideri vivi e profondi, paure e timori. Questa pratica laboratoriale ha trovato fonti di ispirazioni nell’omonima opera di Italo Calvino, oltre alle carte degli arcani maggiori dei Tarocchi, ed è divenuto un viaggio poetico e simbolico che esplora l’identità, la memoria e il desiderio di trasformazione, offrendo una narrazione corale che intreccia le storie personali dei partecipanti con l’immaginario collettivo. La produzione è realizzata in collaborazione con la Casa di Reclusione di Gorgona, con il PRAPP di Firenze, con il contributo della Regione Toscana, e il sostegno del Teatro delle Arti e del Comune di Lastra a Signa. Alle 14 incontro con la Compagnia del Mare di Gorgona e focus su Italo Calvino e la presentazione del libro Il teatro del mare, del Teatro Popolare d’Arte. Alle 18,15, a Livorno, presso la Libreria Mondadori saranno presentati Utopie nel mezzo, Vent’anni del Teatro dei Venti pensando al futuro, di Stefano Tè, Teatro dei Venti, edito da Titivillus e Altrimenti il carcere resta carcere, di Ornella Rosato e Alessandro Toppi, pubblicato da Bulzoni. Alle 21,30, presso il Centro Artistico il Grattacielo, AlphaZtl in Lady UP, performance di teatrodanza che porterà in scena Francesca De Giorgi, giovane danzatrice con sindrome di Down e i detenuti della Casa Circondariale di Brindisi, accompagnati dai professionisti della compagnia. Lady UP, con la regia di Vito Alfarano, è il racconto di una diva che sale sul palco con energia, carisma e autenticità, distruggendo gli stereotipi legati all’identità, alla femminilità e alla disabilità. Uno spettacolo che celebra la forza dell’arte come strumento di inclusione e cambiamento e trasforma il teatro in uno spazio di libertà e riscatto, dove ogni passo diventa affermazione di sé. La serata si concluderà con Teatro carcere in movimento, prima sessione della rassegna video che porterà cinque opere con intervento degli autori: Sacre Radici di Koreoproject - Casa Circondariale di Lecce; Voci di dentro, di Balamos Teatro - Istituti Penitenziari di Venezia, Casa di Reclusione Donne di Giudecca; Trilogia dell’assedio, del Teatro dei Venti - Casa Circondariale di Modena e Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia; Progetto Verziano -edizione 14 di Compagnia Lirya - realtà integrate di Brescia; Nella Pancia del Pescecane di Accademia Stap - Casa circondariale Rebibbia (maschile), Roma. L’ultimo giorno della rassegna, sabato 15 novembre, avrà inizio a Livorno alle ore 9,30 presso la Casa Circondariale Le Sughere dove Giallo Mare Minimal Teatro con i detenuti della C.C. di Livorno presenterà Testimonianze, voci a confronto nell’esperienza di Giallomare. Alle 11,30, appuntamento al Cisternino - ex casa della cultura per Il Filo di Arianna, secondo episodio di LABIRINTI coordinato da Michalis Traitsis, documentazione video del laboratorio di specializzazione sui linguaggi e le pratiche del teatro in carcere a cura di Gianfranco Pedullà, Michalis Traitsis, Grazia Isoardi. Alle 14,30 prosegue il programma con la seconda sessione della rassegna video Teatro carcere tra sogno e realtà, dove saranno presentate sette opere con interventi degli autori: PITCH - Senza titolo - Manifesto per un carcere futurista della Compagnia #sinenomine - Spoleto Casa di Reclusione; Sogni di Fort Apache Jumping Flea - Casa Circondariale di Velletri; Echi da Solaris -il pianeta dentro le sbarre della compagnia diretta da Olga Melnik - Casa Circondariale Mario Gozzini- Sollicciano (FI); Due isole. Chi va per questi mari di Associazione Culturale Branchie Teatro - Casa circondariale G.Pagliei Frosinone; Ma’ - di parti e di rinascite di A.M.A. - Casa Circondariale di Lecce; U principinu - un calcio al pallone di La Poltrona Rossa - Istituto Penale per Minorenni di Catania Bicocca e io DEA - Istituto penale femminile per Minorenni di Pontremoli (Massa Carrara); 2 passi di Teatro Magro - Casa Circondariale di Mantova. Il pomeriggio, dalle 14,30 laboratorio a cura di AGITA - Ente di Formazione con accreditamento al MIM, aperto ad operatori e docenti del settore scuola carcere e contesti riabilitativi. La Rassegna si concluderà alle ore 17,30 con l’incontro plenario di saluto e sintesi e alle 21, presso il Nuovo Teatro delle Commedie, il concerto della cantautrice Erica Mou. Per maggiori informazioni: www.teatrocarcere.it. Prevenzione, servizi e comunità: la salute mentale come alleanza di Alberto Siracusano* Avvenire, 12 novembre 2025 Dopo l’aggressione a Milano è evidente che non bastano diagnosi e terapie: servono monitoraggio, conoscenza e solidarietà per una gestione rispettosa dei diritti. Se la domanda è “potevamo evitare che una donna venisse accoltellata alle spalle mentre camminava tranquillamente in una piazza centrale di Milano da un uomo con un presumibile disturbo di personalità e con una storia di precedenti aggressioni?”, la risposta - ferma restando l’imprevedibilità in tutti gli avvenimenti della vita, in particolare in quelli che riguardano il comportamento umano - non può che essere “dovevamo evitare che accadesse”. La signora protagonista suo malgrado del recente episodio è stata vittima inerme di un trauma drammatico che farà sempre parte della sua vita e il cui superamento necessita di grande affetto e solidarietà: non deve sentirsi sola, e non va lasciata sola. Capire quanto accaduto richiede riflessioni attente, non retoriche, e libere da ideologie. Innanzi tutto, non bisogna lasciarsi andare a stereotipi di pensiero quali la semplice equivalenza tra disturbo mentale e violenza, o “perché abbiamo chiuso i manicomi?”, o “chi soffre di un disturbo mentale non guarirà mai”, o ancora “chi soffre di disturbi psichici è un pericolo per la società e non può andare in giro a piede libero”. Tutte affermazioni stigmatizzanti, false, basate sulla paura e l’ignoranza, prive di rispetto per chi è affetto da una sofferenza mentale e per i loro familiari, che spesso se ne devono occupare con scarse risorse. Il caso di Milano mette in evidenza diverse criticità di grande attualità, come quella di riuscire a garantire in modo bilanciato ed equo la sicurezza sociale da una parte, la cura e la pena per il singolo dall’altra, laddove sia autore di reato. È possibile che la persona che ha commesso l’aggressione soffra di un grave disturbo di personalità psicotico cronico. Di conseguenza, le cure di cui necessita devono essere continue e costanti e, in questi casi così complessi, monitorate a intervalli regolari, con terapie bilanciate in relazione alle alterazioni dello status psicologico, applicate nei contesti idonei. La cura dei gravi disturbi di personalità è oggi uno dei problemi psicopatologici e terapeutici più complessi, in quanto si intersecano nella stessa tematica caratteristiche personologiche individuali, caratteristiche psicopatologiche che si sviluppano nel corso della vita e il riconoscimento, nel momento in cui viene commesso un reato, della capacità di intendere e di volere, da cui a sua volta deriva il riconoscimento di una infermità di mente parziale o totale. Su tutto ciò pesa la valutazione della pericolosità sociale, che deve essere, nei casi più gravi, costantemente accertata in modo oggettivo e concreto, non solo presunta o eseguita solo al momento della condanna. Quello della pericolosità sociale è un punto spinoso che necessita di un moderno dibattito culturale, scientifico e legislativo, sempre aggiornato e interdisciplinare tra studiosi e operatori del settore. È fondamentale evitare che ogni situazione in cui accadono comportamenti antisociali venga psichiatrizzata. Anche se si soffre di un disturbo mentale, ci può essere la piena consapevolezza di ciò che si sta commettendo. La delicatezza della questione è riconoscere, nel rispetto dei diritti umani fondamentali, che questa tipologia di persone deve essere necessariamente sottoposta a percorsi di cura medici e forensi insieme, eseguiti in contesti di grande professionalità e, se necessario, a seconda della gravità del reato commesso, che queste cure vengano effettuate in carcere. In altre parole, la distinzione, non semplice, ma oggi imprescindibile, è quella di identificare, distinguere le varie situazioni e personalizzare i percorsi di cura e custodia. Tutto questo deve essere affiancato da una reale conoscenza dello stato di salute della persona, periodicamente aggiornato, cosa che oggi non accade, ad esempio, per i soggetti in libertà vigilata, che spesso scompaiono dal monitoraggio. È necessario, anche, mettere ordine tra i livelli normativi diversi, i provvedimenti amministrativi diversificati, i sistemi sanitari differenti che entrano, a diverso titolo, delle situazioni di cui stiamo parlando. Il Tavolo tecnico sulla Salute mentale del Ministero della Salute ha elaborato, a distanza di 13 anni da quello precedente, un Piano di Azioni Nazionale per la Salute Mentale (Pansm) 2025-2030. Il Piano, ispirato dal paradigma della One Mental Health, dove si sottolinea l’importanza dei determinanti sociali nella patogenesi dei disturbi e del disagio mentale, affronta diverse questioni riguardanti la salute mentale: dalla organizzazione dei servizi, al risk management, dalla salute mentale in infanzia e adolescenza, alla integrazione sociosanitaria, alla rilevanza che può assumere il contributo del Terzo Settore. Uno dei capitoli è dedicato alla “salute mentale delle persone detenute/imputabili e per le persone affette da disturbi mentale autrici di reato in misura di sicurezza”, in cui sono previste diverse proposte per superare le criticità di cui stiamo parlando. Tali proposte si ispirano alle più attuali linee guida ed esperienze di organizzazione e cura per autori di reato con disturbi di salute mentale. Il Pansm è attualmente alla valutazione della Conferenza Stato-Regioni e, per la prima volta, ha ottenuto un finanziamento specifico nella prossima Manovra di Bilancio. Ricordiamo che tutte le ricerche epidemiologiche segnalano l’allarme della grande diffusione sia dei disturbi psichici che del disagio mentale, tanto che si parla sempre più frequentemente di “epidemia della salute mentale”. Va sviluppata una nuova cultura della salute mentale in cui il prendersi cura deve appartenere responsabilmente a tutti noi e che non ci si può affidare alla falsa speranza di delegare tale responsabilità ad altri. *Presidente del Consiglio Superiore di Sanità Il Garante per la Privacy non si dimette e arriva un ruolo sui richiedenti asilo di Francesco Grignetti La Stampa, 12 novembre 2025 Il governo stanzia dieci milioni per il monitoraggio in hotspot e questure. Saranno pure nell’occhio del ciclone, i membri del Garante per la Privacy, ma non si dimetteranno e il governo, attraverso il ministero dell’Interno, vuole affidargli una nuova competenza. C’è da istituire infatti un cosiddetto “Meccanismo nazionale indipendente per il monitoraggio dei diritti fondamentali”, come stabilito dal nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo. Il governo ha deciso di incardinare questa nuova organizzazione nel Garante per la Privacy, con una dotazione di 10 milioni di euro e molti funzionari da distribuire in 12 hotspot e un centinaio di questure, e guardandosi bene dall’affidarlo al Garante per i diritti delle persone private della libertà. Una scelta che emerge nelle stesse ore in cui il vertice dell’Autorità annuncia con una intervista al Tg1 di non aver nessuna intenzione di dimettersi dopo il caso sollevato da Report: “Nessuna dimissione. Le accuse sollevate sono infondate, infatti non vi è mai stata una decisione del Garante assunta per ragioni diverse dall’applicazione della legge, in piena indipendenza di giudizio”, duice il presidente Pasquale Stanzione. Secondo Stanzione “la narrazione del Garante come subalterno alla maggioranza di governo è una mistificazione che mira a delegittimarne l’azione, soprattutto quando le decisioni sono sgradite o scomode”. Il “Meccanismo nazionale indipendente per il monitoraggio dei diritti fondamentali” dovrà sovrintendere al delicatissimo equilibrio che è alla base del Patto sulla migrazione e l’asilo. Siccome dentro la Ue si cambiano molte regole (e si introducono nuove possibilità, vedi gli hotspot di Giorgia Meloni in Albania, che si sono incagliati solo perché anticipano di un anno le nuove regole europee) con l’obiettivo di espulsioni più rapide e di regole più stringenti per concedere l’asilo, è stato previsto che ogni singolo Stato dei Ventisette si deve munire di una Autorità indipendente che dovrà vigilare sul rispetto dei diritti umani. Va da sé che il bilanciamento può funzionare soltanto se le nuove Autorità si dimostreranno davvero indipendenti rispetto ai governi. Bruxelles ha appena pubblicato le linee guida per istituire queste Autorità: “Il Meccanismo - scrivono - dovrebbe avere libero accesso, in qualsiasi momento, anche in situazioni di emergenza e di afflusso massiccio, a tutte le zone in cui si svolgono azioni di gestione delle frontiere alle frontiere aeree, terrestri e marittime e a tutti i luoghi di accoglienza iniziale e di trattenimento di cittadini di paesi terzi alle frontiere o in prossimità delle stesse”. Questo genere di ispezione negli hotspot e nei Cpr (i centri di accoglienza e quelli finalizzati alle espulsioni) finora era competenza del Garante per i diritti delle persone private della libertà personale. E siccome le ispezioni erano state e continuano a essere ficcanti, con report puntuali che mettono in difficoltà il Viminale, ecco che si cambia cavallo. Scrive il ministero dell’Interno, in risposta alle sollecitazioni della Ue: “Nell’ordinamento italiano non è attualmente istituita un’istituzione nazionale per i diritti umani né un difensore civico nazionale con competenze specifiche in materia di diritti fondamentali dei migranti e richiedenti protezione internazionale. Si rende dunque necessario individuare un organismo idoneo all’istituzione e gestione delle attività del meccanismo di monitoraggio dei diritti fondamentali, conformemente agli obblighi comunitari. In questo contesto, il Garante per la Protezione dei Dati Personali appare un soggetto idoneo all’istituzione e alla gestione del meccanismo di monitoraggio”. È evidente che così si dimezzeranno le competenze per l’altro Garante, quello a tutela dei diritti delle persone private della libertà. Tra parentesi, alla sua origine c’è la Direttiva europea sui rimpatri del 2008 (come organo di vigilanza sui rimpatri forzati) e la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura che l’ha fatto definire anche “Meccanismo nazionale di prevenzione della tortura”. E per questi motivi il Garante vigila con ispezioni a sorpresa su carceri, camere di sicurezza delle forze di polizia, centri di trattenimento per migranti, reparti psichiatrici, Rsa. Che cosa c’entri la Privacy con i diritti di chi viene rinchiuso in un hotspot o in Cpr, invece, è difficile da comprendere. O forse no, guardando alle polemiche che hanno investito il Garante per la Privacy e la sua permeabilità alle pressioni della politica. La ragione, secondo il costituzionalista Stefano Ceccanti, è nel meccanismo stesso di elezione. Il primo Garante prevede 4 membri eletti dal Parlamento, di cui 2 dalla Camera e 2 dal Senato; il secondo Garante è di 3 membri nominati dal Capo dello Stato, su indicazione del consiglio dei ministri, sentite le commissioni parlamentari. Dice Ceccanti: “Meglio sarebbe utilizzare per le Autorità di garanzia il metodo per la Corte costituzionale, che prevede il quorum di tre quinti dei componenti del Parlamento. In epoca di eccessi di partigianeria, di polarizzazioni estreme, negli organi di garanzia va tutelato non solo il pluralismo ma anche la capacità dialogica. Il metodo attuale favorisce che ciascuno voti solo i propri”. Farmaci, abusi, suicidi: i nuovi manicomi sono i Centri per migranti di Federica Pennelli Il Domani, 12 novembre 2025 Testimonianze dirette, medici e psichiatri parlano di una deriva manicomiale nei centri per il rimpatrio: persone rinchiuse per mesi senza cure adeguate, sedate con psicofarmaci, isolate. Secondo la rete Mai più lager e Medicina delle Migrazioni, nei Cpr si riproducono le stesse logiche delle istituzioni totali abolite dalla legge Basaglia. Per lo psichiatra Peppe Dell’Acqua “oltre alla repressione e alla violenza fisica, mi addolora ridurre uomini e donne a vivere senza tempo” “Sono 9 mesi che è qui e non si è mai fatto una doccia. Non parla con nessuno, a volte si mette in un angolo e piange, altre volte ride da solo”. Questa è l’ultima testimonianza che arriva dal Cpr di Milano. Riguarda un ragazzo- il cui nome non sarà reso pubblico per tutelarne la privacy - che alcuni giorni addietro era stato ammanettato e portato via, di notte, dagli agenti del Cpr. Poi è giunta la conferma della rete Mai più lager: “Il ragazzo è stato deportato in Albania, dove è attualmente detenuto”. Decreto Cutro. Per i migranti resta la tutela della vita privata di Albertina Sanchioni Il Manifesto, 12 novembre 2025 La sentenza della Cassazione ribadisce che la protezione resta garantita alla luce degli obblighi costituzionali e internazionali del nostro paese. Il cosiddetto decreto Cutro - varato nel marzo 2023 dopo il naufragio sulle coste calabresi - non ha soppresso il diritto al rispetto della vita privata e familiare della persona straniera presente in Italia. A chiarirlo è la Corte di cassazione, prima sezione civile, con una sentenza che risponde al quesito del Tribunale di Venezia nel caso di un cittadino senegalese, al quale la Commissione territoriale aveva negato la protezione internazionale. Il giudice veneziano chiedeva se, dopo l’abrogazione ad opera di Piantedosi dei riferimenti alla tutela della vita privata e familiare dal Testo unico sull’immigrazione, questo elemento fosse ormai “escluso dall’ambito della protezione complementare”. La Suprema corte risponde in modo netto: la protezione resta garantita in presenza di “un radicamento del cittadino straniero”, alla luce degli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano. In particolare dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Chi deve decidere sul riconoscimento della protezione deve verificare “caso per caso” se il rimpatrio comporterebbe una lesione sproporzionata di tali diritti, tenendo conto del livello di “integrazione sociale, lavorativa e affettiva in Italia”. Gli ermellini ribadiscono - richiamando una sentenza a Sezioni unite del 2021 - che vanno valutati, “con rigore e umanità”, elementi come lo svolgimento di attività lavorativa, la conoscenza della lingua, la frequenza di corsi di formazione, la presenza di figli minori o il lungo periodo di permanenza nel paese. Si chiude così un lungo dibattito giurisprudenziale sul tema, tra interpretazioni distinte di Commissioni territoriali e Sezioni specializzate dei Tribunali, che aveva di fatto ridotto l’ambito di applicazione della protezione speciale. Migranti. Medici Senza Frontiere: ecco perché torniamo in mare di Juan Matias Gil* La Stampa, 12 novembre 2025 Un anno di partenze, arrivi, respingimenti forzati in Libia, naufragi, morti e dispersi. Un anno in cui siamo stati a terra e non in mare, perché costretti a lasciare la Geo Barents, nave che anche per la sua grandezza si è vista assegnare porti lontani, fino a Genova o Ravenna, invece che maggiori soccorsi, nel perenne tentativo dei governi di ostacolare l’azione umanitaria nel Mediterraneo e ridurre gli arrivi. Quanti naufraghi avremmo potuto assistere in un anno? La risposta non c’è. Di certo c’è che oltre 25.000 persone sono morte in 10 anni alle porte dell’Europa. Vite perse in fondo al mare, anche in queste ultime settimane, che dovrebbero indignare chiunque e spingere qualsiasi governo ad agire, come il diritto internazionale prescrive nell’obbligo di prestare soccorso. In un anno, le morti in mare hanno fatto sempre meno notizia, mentre a crescere è la disumanizzazione delle persone in movimento. Resta immutato il quadro legislativo italiano ed europeo che perpetua vergognose politiche di respingimento e detenzione sulla pelle delle persone. Ostacoli e restrizioni in materia di soccorso in mare e accoglienza sono soprattutto una punizione per tutte quelle persone che, in assenza di vie sicure, cercano sicurezza, libertà e opportunità attraverso il Mediterraneo centrale, esponendosi a ulteriori sofferenze, violenze e morte. La criminalizzazione delle Ong non è un episodio isolato, ma parte di una strategia più ampia di smantellamento dei diritti fondamentali delle persone migranti che include anche il protocollo Italia-Albania e l’accordo Italia-Libia. Se il primo mette a rischio la salute fisica e psicologica delle persone migranti, il secondo non è nient’altro che una collaborazione criminale con la Guardia costiera libica, addestrata e finanziata per effettuare respingimenti illegali, perfino sparando contro imbarcazioni in pericolo e soccorritori. Il lancio di Oyvon, il nome della nuova nave di Medici Senza Frontiere che letteralmente significa “speranza per l’isola”, è la nostra risposta a tutto questo. Come abbiamo fatto per 10 anni, soccorrendo più di 94.000 persone, continueremo a fornire assistenza in una delle rotte migratorie più letali al mondo e a testimoniare e denunciare le violazioni commesse contro le persone migranti dall’Italia e gli altri Stati membri dell’Unione europea. Come organizzazione umanitaria indipendente attiva nelle emergenze del pianeta, non siamo disposti a normalizzare l’indifferenza e l’inazione degli Stati. Buon vento a Oyvon, possa essere un porto sicuro per tutte le persone che incontrerà. *Capomissione di Medici Senza Frontiere per la ricerca e il soccorso in mare Libia. Ora Almasri diventa anche un caso costituzionale di Mario Di Vito Il Manifesto, 12 novembre 2025 La Corte d’appello di Roma: “Giudici assoggettati alla politica”. L’avvocato Romeo: “La questione non è fondata, interverremo alla Consulta”. È nella tensione tra sovranità nazionale e diritto internazionale che la Corte d’appello di Roma ritiene si trovi il vero nodo legale del caso Almasri: l’interlocuzione con il ministro della Giustizia necessaria a dare seguito a un ordine della Corte penale internazionale viola o no il principio costituzionale che vede il giudice soggetto alla sola legge? Da qui la domanda alla Consulta sulla legge che dà applicazione allo Statuto di Roma sulla cooperazione con l’Aja, inoltrata con un provvedimento stilato lo scorso 30 ottobre e, dopo vari rumors, reso pubblico soltanto ieri. Per capire il senso della questione bisogna riavvolgere il nastro alle fatidiche giornate di gennaio in cui l’ex capo della polizia giudiziaria libica Osama Almasri prima venne arrestato a Torino dalla Digos (il 19) e poi è stato liberato dalla Corte d’appello della capitale e rimpatriato a bordo di un volo di stato (il 21). La vicenda ha poi scaturito un gran numero di polemiche, un’indagine a carico del sottosegretario Mantovano e dei ministri Nordio e Piantedosi (archiviata perché la Camera ha negato l’autorizzazione a procedere) e un’indagine a carico della capa di gabinetto di via Arenula Giusi Bartolozzi (ancora pendente, ma con l’iter per il conflitto d’attribuzione già in corso a Montecitorio). Tutto però è nato dal mancato parere del ministro della giustizia, che di fatto ha obbligato i giudici a non convalidare il fermo del libico. Il Governo, a tal proposito, ha offerto un gran numero di giustificazioni, tutte diverse: l’atto era incompleto, l’atto era in inglese, c’erano pericoli per gli italiani in Libia e, da ultimo, le autorità di Roma già sapevano di un’indagine di Tripoli su Almasri e quindi lo hanno rimpatriato per quello. In ogni caso, scrivono i giudici della quarta sezione penale della Corte d’appello di Roma, visto che “il ministro della giustizia non ha dato seguito alla richiesta di cooperazione della Cpi, non trasmettendo formalmente al procuratore generale i relativi atti”, si apre un “vulnus all’obbligo di cooperazione”. Questo nonostante sia “bene sottolineare che” in tutti gli altri casi sin qui affrontati “il ministro della giustizia ha sempre trasmesso tempestivamente le richieste di assistenza giudiziaria previste dallo Statuto”. È così che il caso Almasri si configura come “un unicum”, uno “stallo procedimentale” che non solo ha portato a violare lo Statuto di Roma, ma “potrebbe anche costituire una violazione del principio di soggezione del giudice alla sola legge”, in base all’articolo 101 della Costituzione. La procedura, sottolineano ancora i giudici, assoggetta in realtà il giudice a una “scelta discrezionale di natura politica”, peraltro “conformemente a quanto ritenuto dalla Camera nel diritto vivente dovuto all’esegesi” nata dal diniego dell’autorizzazione a procedere. Questo anche se in tutti i paesi europei è previsto un passaggio governativo nelle varie leggi che regolano la cooperazione con la Cpi. Non è d’accordo le tesi della Corte d’appello l’avvocato Francesco Romeo, che rappresenta Lam Magok, vittima di Almasri e testimone della Cpi. “L’ordinanza non è giuridicamente fondata - dice -, dal testo emerge che il ministro ha sempre trasmesso tempestivamente le richieste della Cpi, senza mai accampare spazi di discrezionalità che non esistono”. Anche per questo, insieme all’avvocato Antonello Ciervo, Romeo chiederà di intervenire alla Corte costituzionale “per sostenere la rispondenza ai principi costituzionali del combinato legislativo costituito dalla legge di recepimento dello Statuto Cpi e dal codice di procedura penale”. Israele. Primo sì sulla pena di morte ai terroristi: una svolta problematica di Iuri Maria Prado Il Riformista, 12 novembre 2025 Giustiziare chi commette omicidi terroristici di stampo razziale contro israeliani. La norma (in fase di approvazione) frammenta la società, attira le contestazioni della comunità internazionale e rischia anche di non ottenere l’effetto auspicato. Pone parecchi problemi l’approvazione parlamentare, sia pur solo in prima lettura, della norma che introduce in Israele la pena capitale per alcuni atti di terrorismo. Si tratta di problemi giuridici, politici e morali che investiranno - dividendola - la società israeliana e che, soprattutto, richiameranno sullo Stato ebraico un’altra dose di attenzione certamente non benevola della comunità internazionale. Va detto che il dibattito in argomento non è affatto nuovo in Israele. C’era ed era già vivace prima del pogrom del 7 ottobre di due anni fa; continua adesso, e comprensibilmente ha preso intensità dopo i massacri e i rapimenti del Sabato Nero. Non è estraneo a quel dibattito il timore (in realtà è una certezza) che lo Stato ebraico possa essere costretto un’altra volta, per riscattare la vita o anche soltanto i corpi di israeliani rapiti, a liberare detenuti responsabili di gravi atti di terrorismo. E il timore non riguarda l’impunità che in quel modo si determinerebbe per i delitti già commessi dai soggetti così rimessi in libertà, ma il pericolo serissimo che essi possano tornare a compierne (il tasso di recidiva terroristica è altissimo). Il ragionamento, brutale, è che il problema si pone fin tanto che sono di questo mondo i terroristi che Israele potrebbe essere costretto a liberare: se sono morti, il problema non c’è. Per capire che non si tratta di una questione ipotetica e di una eventualità teorica basta pensare al caso di un terrorista palestinese liberato da Israele ormai molti anni fa, con altre centinaia di detenuti, per ottenere il riscatto di un solo ostaggio israeliano: quel terrorista palestinese si chiamava Yahya Sinwar, e avrebbe adoperato la riconquistata libertà per organizzare e mettere in esecuzione il più spaventoso eccidio di ebrei dal tempo della Shoah. Non si discute, dunque, del fatto che il problema esista e sia assai serio. Ma il fatto che sia tale - e che tocchi un nervo delicato e scopertissimo della società israeliana - non toglie che giustiziare quei terroristi costituisce una soluzione che fronteggia troppi, e troppo gravi, motivi di contrarietà. A cominciare da questo: se quell’ipotesi dovesse diventare legge, e se questa dovesse essere applicata, significherebbe da qui in avanti mandare a morte centinaia di persone. Israele, ovviamente, non diventerebbe l’ordinamento delle impiccagioni che giustizia i dissidenti o sfonda il cranio delle ragazze con le ciocche di capelli fuori posto, ma si presterebbe a trasformare il proprio sistema giudiziario in una cupa industria delle soppressioni per via processuale. E lo farebbe, si ripete, travalicando irrimediabilmente limiti giuridici, politici e morali troppo importanti per essere trascurati pur in nome di quelle indiscutibili valutazioni sulla sicurezza nazionale e dei propri cittadini. La norma approvata vuole che sia punito, appunto con la morte, l’omicidio terroristico di stampo razziale, rivolto ad attentare alla presenza del popolo ebraico nella sua terra. Si può essere certi che minacciare e irrogare la pena di morte nei confronti di chi, uccidendo, mira all’espianto degli ebrei da Israele non otterrebbe proprio nessun risultato, neppure in termini di sicurezza e prevenzione. E dovrebbe bastare questo per giudicare negativamente la soluzione, anche senza evocare le considerazioni di carattere umanitario che autonomamente ne condannerebbero il fondamento di inciviltà e - usiamo la parola - l’evidente ingiustizia. Israele. Pena di morte e bavaglio ai media: ecco la deriva autoritaria di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 12 novembre 2025 Il ministro israeliano della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha voluto festeggiare distribuendo dolci ai colleghi della Knesset, dopo che il Parlamento ha approvato in prima lettura la proposta di legge che introduce la pena di morte per i terroristi che uccidono cittadini israeliani per motivi di “razzismo” e “con lo scopo di danneggiare lo Stato di Israele e la rinascita del popolo ebraico nella sua terra”. Il provvedimento, fortemente voluto dal partito di Ben- Gvir, “Potere ebraico”, ha ottenuto 39 voti a favore e 16 contrari. Saranno però necessari altri due voti favorevoli per l’approvazione definitiva della norma. Ben-Gvir ha commentato su X il risultato conseguito alla Knesset. “Siamo sulla buona strada - ha scritto il ministro dell’ultradestra messianica per fare la storia. Lo abbiamo promesso e lo abbiamo mantenuto”. In una dichiarazione rilanciata dalla televisione qatariota al Araby Hamas ha dichiarato invece che la pena di morte per i terroristi è “un’estensione dell’approccio razzista e criminale del governo sionista e un tentativo di legittimare l’uccisione di massa organizzata dei palestinesi”. Se gli estremisti del governo Netanyahu esultano, i giuristi esprimono preoccupazione e perplessità in merito al primo passaggio parlamentare sulla legge che introduce la pena di morte. Yoav Sapir, professore di diritto penale della “Buchmann faculty of law” (Università di Tel Aviv) teme che la deriva populista, incarnata da certi leader politici, possa arrecare danni all’architettura legislativa realizzata con non pochi sforzi. Il rischio è dietro l’angolo: si farebbe un salto indietro di oltre settant’anni. Lo Stato israeliano, al termine del mandato britannico sulla Palestina, ha ereditato la condanna a morte per alcuni reati. La svolta è avvenuta nel 1954, quando venne abolita la pena capitale ad eccezione dei casi di genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità, crimini contro il popolo ebraico e tradimento militare. Il dibattito pubblico sulla pena di morte si articola su tre livelli: politico, etico e legale. “Presi singolarmente - rileva Sapir - ma anche messi tutti insieme, tali livelli rafforzano l’idea dell’opposizione verso la pena di morte. Nel corso degli anni, le agenzie di sicurezza come lo Shin Bet, le forze di Difesa israeliane e il ministero della Difesa si sono opposti alla pena di morte, sostenendo che avrebbe danneggiato la sicurezza di Israele. Le considerazioni su questo tema non sono state rese pubbliche in modo completo, ma da quanto emerso in dibattiti pubblici, ad esempio nelle varie Commissioni della Knesset, si può comprendere la preoccupazione che i condannati a morte diventino simboli, martiri il cui sangue deve essere vendicato. Mentre in passato i terroristi si arrendevano per sopravvivere, se in futuro sapranno che la loro condanna è la morte, con tutta probabilità, combatteranno ferocemente”. Il dibattito sulla pena capitale potrebbe provocare una profonda spaccatura nell’opinione pubblica e nella politica. La proposta di legge che ha ottenuto il primo voto favorevole nasconde, a detta di Yoav Sapir, una “trappola”: “L’insistenza dei politici nel promuovere la pena di morte, contrariamente alle raccomandazioni dei funzionari della Sicurezza nazionale, è spesso motivata da limitate considerazioni volte al compiacimento della base elettorale. Alcuni esponenti politici potrebbero addirittura sperare sul fatto che l’iter legislativo non si concluda. Bisogna prestare attenzione a questa trappola politica e al fatto che probabilmente verranno accusati gli avvocati e i funzionari che trasporta i missili ipersonici Kinzhal”. Secondo quanto sostenuto dal Fsb i servizi segreti ucraini avrebbero provato a corrompere un pilota russo - promettendogli 3 milioni di dollari - per convincerlo a dirottare un MiG- 31 per poi “inviare successivamente l’aereo con un missile Kinzhal nel sito che ospita la più grande base aerea della Nato nell’Europa sudorientale, situata a Costanza, in Romania, dove avrebbe potuto essere abbattuto dalle Forze di difesa aerea”. “Le misure adottate - si legge ancora nella dichiarazione hanno sventato i piani dei servizi segreti ucraini e britannici di organizzare questa provocazione su larga scala”. La notizia però non sembra aver convinto gli alleati di Kyiv. “La nostra fiducia nell’Fsb nel promuovere informazioni veritiere sull’Ucraina o sugli alleati della Nato è molto bassa” ha riferito un funzionario della Nato interpellato da Lapresse. Sul terreno invece, grazie anche alla fitta nebbia che ieri è calata su molte regioni dell’Ucraina, le truppe russe avanzano. 7 Corpo d’assalto aviotrasportato delle Forze armate ucraine ha infatti dato notizia che “oltre 300 soldati invasori” sono entrati nella città di Pokrovsk e per farlo “hanno sfruttato le condizioni meteorologiche avverse, in particolare la fitta nebbia” che “riduce le capacità di ricognizione aerea delle Forze di difesa e la possibilità di colpire in aree aperte”. Inoltre le forze ucraine ieri si sono dovute ritirare da cinque insediamenti nell’oblast di Zaporizhzhia a causa “dell’intensificarsi delle operazioni di assalto nemiche - si legge in un post su Facebook dell’ufficio stampa delle Forze di Difesa dell’Ucraina meridionale - dei numerosi tentativi di infiltrazione, dell’aumento del massiccio impatto del fuoco sulle nostre posizioni con più di 400 attacchi di artiglieria con circa 2000 munizioni ogni giorno, e dell’effettiva distruzione di tutti i rifugi e le fortificazioni, al fine di salvare la vita del personale, le forze di difesa hanno dovuto ritirarsi dalle loro posizioni”. Sul fronte diplomatico invece il Kyiv Post denuncia il pressing dell’amministrazione Trump per rimuovere dalla prossima risoluzione Onu sull’Ucraina la parte di testo che afferma l’integrità territoriale ucraina e condanna l’invasione russa. Washington vorrebbe eliminare i riferimenti all’invasione russa e al peggioramento delle condizioni di vita per gli ucraini nei territori occupati. statali per aver ostacolato le scelte politiche”. Israele rischia di fare di finire sullo stesso piano di Cina, Egitto, Arabia Saudita e Corea del Nord. E imitare gli Stati Uniti, che prevedono la pena di morte, non è certo un motivo di orgoglio. “Il massacro e gli orrori senza precedenti che abbiamo vissuto il 7 ottobre - conclude il professor Sapir -, lo shock che ci ha travolti, il dolore e la rabbia che lo hanno sostituito, sono esattamente il tipo di eventi che possono fornire un terreno fertile per idee populiste, irrazionali e disumane che in ultima analisi hanno un impatto a lungo termine sul nostro modo di pensare e di agire. La pena di morte ne è solo un esempio”. Il Parlamento israeliano lunedì notte non si è espresso soltanto a favore dell’introduzione della pena di morte. Nella stessa sessione la Knesset ha approvato in prima lettura una misura che conferisce al governo il potere di chiudere i media stranieri in modo permanente, senza un mandato dei giudici e senza una situazione di emergenza. La “legge al Jazeera”, come è stata ribattezzata, ha ottenuto 50 voti favorevoli e 41 contrari. L’emittente del Qatar nel maggio del 2024 è stata costretta a interrompere le trasmissioni dagli uffici in Cisgiordania, perché considerata il megafono di Hamas durante la guerra di Gaza. La proposta di legge sui media stranieri proviene dal deputato del Likud, Ariel Kallner. In caso di approvazione definitiva, la legge potrebbe però essere considerata incostituzionale. Reporter senza frontiere ha lanciato l’allarme: il governo Netanyahu intende “silenziare le voci” che criticano la coalizione di estrema destra al potere con conseguente “violazione del diritto di espressione e di stampa”. Se alcuni passaggi alla Knesset hanno addolcito il palato di Ben- Gvir, dei suoi sostenitori e di chi vuole silenziare i media, altri in Israele masticano amaro. Il timore che la più grande democrazia del Medio Oriente faccia un salto nel buio non è infondato.