Giuridicamente parlando. Cosa fare con la nota DAP sugli eventi di carattere educativo, culturale e ricreativo negli istituti penitenziari? di Davide Galliani* Ristretti Orizzonti, 11 novembre 2025 1. Il 21 ottobre 2025 il Direttore Generale dei Detenuti e del Trattamento (DGDT) del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) scrive una nota in materia di provvedimenti autorizzativi degli eventi di carattere educativo, ricreativo e culturale negli istituti penitenziari. Giuridicamente parlando: la nota rispetta la legge e la Costituzione? Se non lo fa, nel primo caso si deve (semplicemente) disapplicare, nel secondo si potrebbe anche (meno semplicemente) sollevare conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Ai nostri fini, la prima cosa che la nota prevede è la più importante: negli istituti penitenziari a gestione dipartimentale (Alta Sicurezza, Collaboratori di Giustizia, 41bis) l’autorizzazione per gli eventi di carattere educativo, ricreativo e culturale dovrà “sempre” essere richiesta alla Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento. Il grassetto è usato nella nota, non è mio. Questa previsione rispetta l’art. 17 dell’ordinamento penitenziario, la legge n. 354 del 1975? Leggiamolo, sono tre commi chiari: “1. La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa. 2. Sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari con l’autorizzazione e secondo le direttive del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, tutti coloro che avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera. 3. Le persone indicate nel comma precedente operano sotto il controllo del direttore”. In questo caso il grassetto è mio. Se incrociamo i due grassetti, della nota e nella legge, il contrasto è evidente: la legge prevede l’autorizzazione del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, invece la nota che l’autorizzazione dovrà sempre essere richiesta alla Direzione Generale. Se una previsione di una nota contrasta con una previsione di una legge la prima si disapplica. L’unica questione problematica è un’altra: lo può fare solo il giudice, e che lo possa fare non si discute, oppure anche qualsiasi altra persona chiamata ad applicare la nota? 2. Credo che ciascun direttore di ogni istituto penitenziario possa disapplicare questa nuova procedura introdotta dalla nota. Il problema si pone non perché il direttore non sia soggetto alla legge, ma poiché serve valutare la eventuale disapplicazione (o non-applicazione) in riferimento a previsioni provenienti dal DAP o da sue direzioni. Esistono vincoli “verso il basso” (il direttore in quanto “capo” dell’istituto è superiore gerarchico di tutto il personale, e svolge tali funzioni secondo lo Statuto degli impiegati civili dello Stato), ma ne esistono anche “verso l’alto”, verso il DAP e una sua Direzione Generale? La risposta sta nel Regolamento di attuazione dell’ordinamento penitenziario (DPR n. 230/20009), il cui art. 3 recita, in modo laconico, anche se chiaro: “Il direttore dell’istituto e quello del centro di servizio sociale (oggi UEPE, ndr) rispondono dell’esercizio delle loro attribuzioni al provveditore regionale e al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria” (art. 3, III comma). Cosa significa, giuridicamente parlando, rispondere dell’esercizio di una attribuzione? In definitiva, significa che i direttori degli istituti penitenziari possono essere destinatari di sanzioni disciplinari, dalla censura alla destituzione, passando dalla riduzione dello stipendio alla sospensione della qualifica. Questo prevede l’art. 78 dello Statuto degli impiegati civili dello Stato. In particolare, la censura è una dichiarazione di biasimo scritta e motivata ed è inflitta per lievi trasgressioni, mentre la riduzione dello stipendio per grave negligenza in servizio, per irregolarità nell’ordine di trattazione degli affari, per inosservanza dei doveri di ufficio, per contegno scorretto verso i superiori, i colleghi, i dipendenti ed il pubblico, per comportamento non conforme al decoro delle funzioni e, infine, per violazione del segreto di ufficio. A me pare che, a tutto concedere, la disapplicazione da parte del direttore di una nota di un Direttore Generale del DAP possa essere al massimo una lieve trasgressione (censura). Posso sbagliare, ma considerarla una “inosservanza dei doveri di ufficio” (riduzione dello stipendio) mi pare eccessivo: giuridicamente parlando, come qualsiasi altro impiegato civile, anche il direttore del carcere è tenuto al rispetto delle leggi, e quindi disapplicare una nota del Direttore Generale, che si ritiene in contrasto con la legge (il nostro art. 17 ord. pen.), dovrebbe essere piuttosto una osservanza dei doveri d’ufficio, non una inosservanza. Questo, pertanto, un primo risultato: il giudice disapplica la nota, il direttore può disapplicarla, con il rischio della censura, sempre si ritenga una lieve trasgressione non applicare una nota in contrasto con una legge! 3. Esiste una seconda strada che si può seguire, più impervia. Si chiama conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato: il nostro giudice ritiene che non spetti al DAP disporre i “modi” della restrizione della libertà personale, in quanto l’art. 13 della Costituzione lo riserva alla legge. Sia chiaro: esisterà sempre uno spazio che una fonte secondaria (regolamento penitenziario) o altre “fonti non fonti” (note, circolari, linee guida) potranno contribuire a riempire. Ma questo non può mai avvenire disponendo in contrasto con una legge, come nel caso dell’autorizzazione per attività educative, ricreative e culturali negli istituti penitenziari. Violare la legge in questo caso significa anche violare la Costituzione: è questo il senso del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Se la nota non violasse la legge, ma si limitasse a integrarla, non ci sarebbero problemi. Ma nel momento in cui la viola, allora si può disapplicare ma si può anche chiedere alla Consulta di annullare la nota perché i “modi” della restrizione della libertà personale non li decide un direttore generale del DAP: può dire la sua, integrare, meglio specificare, ma quello che non può fare è prevedere che l’autorizzazione per gli eventi culturali, educativi e ricreativi sia “sempre” disposta dal DAP stesso. La legge prevede il magistrato e il direttore, la nostra nota non sta integrando, specificando: sta riscrivendo la legge. Il DAP faccia il DAP, non il Parlamento. Sono consapevole che, come dicevo, esistono insidie: il giudice del conflitto di attribuzione non sta rivendicando un “suo” potere costituzionalmente previsto, di conseguenza sembra mancare la materia del conflitto da un punto di vista oggettivo; non di meno, una cosa è il rapporto di tipo orizzontale che la legge disciplina in materia (lo abbiamo visto, l’art. 17 ord. pen. prevede che sia il magistrato di sorveglianza ad autorizzare le visite negli istituti, impartendo direttive, e su parere favorevole del direttore), altro è il rapporto di tipo verticale che innerva la nota, nel momento in cui dice testualmente che l’autorizzazione per gli eventi di carattere trattamentale dovrà “sempre” essere richiesta alla Direzione Generale. Non sta la nota esautorando o nel minimo menomando il potere autorizzatorio del magistrato? Se ora con la nota si deve chiedere l’autorizzazione alla Direzione Generale, che ne resta dell’art. 17 ord. pen.? Il direttore del carcere poteva esprimere parere negativo, e questo per l’art. 17 ord. pen. significava che l’autorizzazione del magistrato andava negata. Ma ora quanto si sbaglia nel sostenere che è anche la Direzione Generale che può dare parere negativo, così introducendo una procedura che muta radicalmente lo scenario precedente? La Costituzione non dice che l’autorizzazione alle visite debba spettare al magistrato, ma un magistrato può domandare alla Corte se spetti o meno ad un Direttore Generale del DAP adottare note di questo tenore, precludendone l’intervento in caso di parere negativo, non più del direttore del carcere, ma appunto del Direttore Generale del DAP. 4. Ultimo appunto. Se il protagonista del ricorso al giudice per la disapplicazione ed eventualmente per il conflitto di attribuzione fosse un detenuto non ci sarebbero problemi circa lo strumento: si usa l’art. 35bis ord. pen. perché è leso il diritto alla rieducazione, che si compendia anche grazie alla possibilità di partecipare alle attività educative, ricreative e culturali secondo le previsioni della legge. Una volta che si ha per le mani un diniego della direzione del carcere in applicazione della nostra nota, la strada è segnata: il DAP può adottare una nota con la quale prevede ad esempio che ai direttori le richieste di autorizzazione debbano giungere 30 giorni prima dell’evento in questione, ma non può sottrarre ai direttori il compito autorizzatorio che la legge loro assegna, insieme al magistrato di sorveglianza. 5. Più complicato il caso in cui non è un detenuto ma una persona non ristretta che non può entrare in carcere perché l’autorizzazione, usando la nuova procedura, è stata negata. Per quanto assurdo, si ha il problema di trovare il giudice al quale rivolgersi: non credo abbiamo il diritto di andare in carcere a fare attività educative, culturali e ricreative, ma di certo abbiamo il diritto di rivolgersi ad un giudice quando viene violato un nostro interesse, che poi è quello di mettersi a disposizione per un paese migliore. Se noi (non ristretti) vogliamo chiamare in causa in giudice per domandare se la nota viola o meno la legge possiamo immaginare di rivolgersi al TAR oppure al giudice civile usando l’art. 700 c.p.c., in questo secondo caso forzando un poco la mano, ma provarci vale la pena. Io andrei al TAR, ma non chiuderei anche la seconda ipotesi: serve un diritto e noi abbiamo solo un interesse, ma in fondo il nostro interesse coincide con quello di non lasciare abbandonate le persone detenute, alle quali senza attività educative, ricreative e culturali non rimane poi moltissimo. Bisogna provarle tutte al fine di evitare che i cattivi di turno, i detenuti di Alta Sicurezza, pensino che altro non rimane che togliersi la vita. Diranno che non esiste un rapporto di causa-effetto: i detenuti non si suicidano perché non hanno a disposizione attività ricreative, educative e culturali. Diranno che le cause dei suicidi sono molteplici, e complesse. Tutto vero, ma la tutela del giudice ex art. 700 è sì residuale ma anche atipica, che significa non per forza preclusa laddove si può chiamare in causa il giudice amministrativo. Uscendo dal giuridichese: se noi (non ristretti) non abbiamo un diritto di andare in carcere per attività ricreative, educative e culturali non possiamo andare dal giudice civile dell’art. 700 c.p.c., avendo a disposizione il giudice dei nostri interessi legittimi, vale a dire il TAR. A prima vista non fa una piega, però mi domando se il contenuto della richiesta di provvedere in via di urgenza che indirizziamo al TAR non sia il medesimo del ricorso al giudice civile ex art. 700 c.p.c. Al TAR chiediamo di adottare una misura sospensiva del provvedimento della pubblica amministrazione (la nostra nota) perché altrimenti ne deriverebbe un “danno grave e irreparabile”, al giudice civile ex art. 700 c.p.c. domandiamo di intervenire poiché rileviamo un pregiudizio “imminente e irreparabile”. Per quale motivo diamo per scontato che non esista uno spazio intermedio tra un diritto e un interesse nel quale può inserirsi il giudice civile, con lo strumento atipico del provvedimento ex art. 700 c.p.c.? Tentare non nuoce, anche perché cosa aspettiamo, che una nuova nota del DAP sposti al DAP stesso la competenza a disporre per i detenuti di Alta Sicurezza la frequenza di corsi universitari fuori dal carcere? *Università degli Studi di Milano “Circolare del Dap, la più alta barriera tra dentro e fuori” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 novembre 2025 “Questo nucleo di circolari trova legittimazione in un clima di depauperamento della considerazione della condizione di privazione della libertà, dai Cpr alla Rems passando per le carceri. Il clima lascia prevalere l’atteggiamento retributivo, talvolta anche vendicativo. Questo è autentico concime per alcuni interventi che hanno preso forma”. A dirlo il professore Mario Serio, membro del Collegio del garante dei diritti delle persone private della libertà personale, intervenuto sabato al Comitato direttivo centrale dell’Anm, su invito del presidente della “Commissione diritto penitenziario”, il pm Andrea Vacca. Il riferimento è alla ormai nota del 21 ottobre con cui il Dap obbliga le Direzioni degli istituti penitenziari in cui siano presenti detenuti allocati in reparti di Alta Sicurezza o in regime di 41 bis a sottoporre a preventiva approvazione della Direzione generale detenuti e trattamento ogni evento di carattere trattamentale che coinvolga la comunità esterna al carcere. Serio ha proseguito: “La rilettura che la circolare fa dell’articolo 17 Op è destrutturante, demolitoria”. L’articolo 17 Op stabilisce infatti che devono essere il magistrato di sorveglianza e il direttore del carcere a decidere chi può entrare in carcere per svolgere attività. Serio ha descritto la circolare come “la più alta barriera” tra il fuori e il dentro, “che moltiplica i fattori di chiusura: non è solo il detenuto ad essere privato delle attività esterne ma anche il mondo esterno è privato della possibilità di dare un apporto ai detenuti”. Al termine dell’incontro abbiamo chiesto a Serio se le sue parole siano condivise anche dagli altri membri del Collegio, ossia Riccardo Turrini Vita e Irma Conti e se, quindi, arriverà a breve un comunicato congiunto e quando verrà presentata la Relazione al Parlamento che manca da troppo tempo. Serio non ha nascosto l’imbarazzo nel darci le risposte, alzando lo sguardo al cielo. Su una eventuale presa di posizione sulla circolare ci ha detto: “Ci stiamo ragionando”, “non escludo una posizione congiunta con l’Anm”. E sulla Relazione: “Ci sono problemi con la tipografia. La mia è una vita difficile”. Al termine ha annunciato, su domanda di Vacca, la sua iscrizione al Comitato del No alla separazione delle carriere. Anche le figlie di Moro e Borsellino contro la norma “blinda-carceri” di Angela Stella L’Unità, 11 novembre 2025 Fioccano le proteste per la circolare del Dap che centralizza l’autorizzazione delle attività esterne. I familiari delle vittime di mafia e terrorismo scrivono a Nordio: “Perplessità e sofferenza per le restrizioni”. “Questo nucleo di circolari trova legittimazione in un clima di depauperamento della considerazione della condizione di privazione della libertà, dai Cpr alla Rems passando per le carceri. Il clima lascia prevalere l’atteggiamento retributivo, talvolta anche vendicativo. Questo è autentico concime per alcuni interventi che hanno preso forma”. Così sabato si è espresso il professore Mario Serio, membro del Collegio del garante dei diritti delle persone private della libertà personale, intervenuto al Comitato direttivo centrale dell’Anm, su invito del presidente della ‘Commissione diritto penitenziario’, il pm Andrea Vacca. Il riferimento è alla ormai nota del 21.10.2025 con cui il Dap obbliga le Direzioni degli istituti penitenziari in cui siano presenti detenuti allocati in reparti di Alta Sicurezza o in regime ex art. 41 bis OP a sottoporre a preventiva approvazione della Direzione Generale Detenuti e trattamento ogni evento di carattere trattamentale che coinvolga la comunità esterna al carcere. Serio ha proseguito: “la rilettura che la circolare fa dell’art. 17 Op è destrutturante, demolitoria”. L’art. 17 Op stabilisce infatti che devono essere il magistrato di sorveglianza e il direttore del carcere a decidere chi può entrare in carcere per svolgere attività. Serio ha descritto la circolare come “la più alta barriera” tra dentro e fuori “che moltiplica i fattori di chiusura: non è solo il detenuto ad essere privato delle attività esterne ma anche il mondo esterno è privato della possibilità di dare un apporto ai detenuti”. Al termine dell’incontro abbiamo fermato Serio per chiedergli: se le sue parole sono condivise anche dagli altri membri del Collegio, ossia Riccardo Turrini Vita e Irma Conti, se quindi arriverà a breve un comunicato congiunto e quando verrà presentata la Relazione al Parlamento che manca da troppo tempo. Serio non nasconde l’imbarazzo nel darci le risposte, alza gli occhi al cielo. Su una eventuale presa di posizione sulla circolare ci ha detto: “ci stiamo ragionando” e sulla Relazione: “ci sono problemi con la tipografia. La mia è una vita difficile”. Insomma queste risposte confermano la posizione di isolamento di Serio che fa parte del Collegio in quota opposizione (M5S), rispetto agli altri due colleghi. Non è la prima volta: già ad agosto denunciò dalle pagine del Manifesto la presa di posizione blanda e allineata al Ministero presa dal Collegio, a sua insaputa, sui numeri dei suicidi. Nel frattempo l’incontro di presentazione a Torino della proposta di Legge “Sciascia-Tortora” già previsto presso la Casa Circondariale Lorusso Cutugno si è tenuto altrove. “Una decisione tardiva e incomprensibile del Provveditorato regionale del Piemonte dell’Amministrazione penitenziaria” hanno spiegato gli organizzatori. “Non è un caso - ci dice Elisabetta Zamparutti - che quest’anno per la prima volta dopo tanti anni a Nessuno Tocchi Caino sia stato vietato il permesso di tenere l’annuale congresso nel carcere milanese di Opera, nel teatro intitolato a Marco Pannella”. L’assise si terrà invece al Teatro Puntozero del Carcere Minorile Cesare Beccaria di Milano dal 18 al 20 dicembre. Ma anche a Padova, racconta un articolo dell’Huffington Post, è stato annullato un incontro di promozione alla lettura rivolto a detenuti maghrebini. Sul tema si resta in attesa della risposta del Ministro Nordio alla interrogazione del deputato di IV Roberto Giachetti che gli chiede “se sia a conoscenza della nota, se non ritenga che questa sia in contrasto con l’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario, se non consideri preoccupante l’aspetto accentratore e se non ritenga necessario ritirarla o riformularla “secondo i principi che ispirano la normativa in vigore”. Intanto aumentano le voci contrarie all’iniziativa del Dap. Giovanni Bachelet, Fiammetta Borsellino, Marisa Fiorani, Silvia Giralucci, Manlio Milani, Lucia Montanino, Maria Agnese Moro, Giovanni Ricci, Sabina Rossa, Paolo Setti Carraro hanno inviato una lettera al Ministro della Giustizia Carlo Nordio: “noi familiari di vittime delle azioni terroristiche, della lotta armata e della criminalità organizzata, da tempo impegnati in attività volte a realizzare il dettato Costituzionale di favorire la rieducazione dei detenuti, […] consapevoli che anche la semplice partecipazione a incontri e confronti con il mondo esterno rappresenta per i detenuti coinvolti una iniziale rottura verso il passato, esponendoli ai rischi e pericoli di emarginazione ben noti a chi frequenta le carceri […] guardiamo con notevole perplessità e sofferenza personale alle norme restrittive recentemente introdotte nelle carceri italiane volte a irrigidire, limitare e contingentare queste feconde attività di relazione tra detenuti e cittadini, in particolare laddove queste vengono obbligatoriamente sottoposte ad una impersonale e spesso soffocante centralizzazione burocratica”. Qualche giorno prima era stato lo stesso Conams (Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza) a scrivere: “Vista la drammatica situazione in cui versano gli Istituti penitenziari, ove il sovraffollamento non accenna a diminuire e la strutturale carenza di attività trattamentali rende più penosa e isolante la carcerazione, la scelta adottata dal Dipartimento rischia di consegnarci un carcere dove le occasioni di confronto con l’esterno, le opportunità di formazione e le possibilità di crescita culturale in favore dei detenuti saranno sempre meno.[…] Tutto ciò ci consegna un deciso arretramento rispetto al modello di esecuzione penale che l’ordinamento penitenziario, proprio nell’anno del suo cinquantenario, aveva immaginato e previsto”. A criticare il Dap anche la corrente dell’Anm, AreaDg: “Il ministero della Giustizia, ormai totalmente inerte di fronte ad un sovraffollamento carcerario in costante e allarmante crescita ed a condizioni detentive sempre più insostenibili, continua ad adottare misure e provvedimenti che rispondono unicamente ad astratte finalità repressive e securitarie e che sacrificano ingiustificatamente le finalità del trattamento e della rieducazione e i diritti delle persone detenute”. al Governo come contributo per la Conferenza sulle dipendenze, non sono state minimamente considerate. Non una convocazione, non un confronto, non un riconoscimento del ruolo delle città. La Conferenza governativa si è così chiusa in un orizzonte già tracciato: più sanzioni, più controllo, più repressione, senza alcuna valutazione delle evidenze e della realtà sociale. È da lì che le città hanno scelto di ripartire, partecipando alla Contro-conferenza e condividendo le proposte emerse “con particolare attenzione a quelle che chiamano in causa il ruolo strategico delle amministrazioni locali nel governo del fenomeno, con un approccio integrato che metta al centro i diritti umani, la salute pubblica e la riduzione del danno”. La sicurezza non cresce con il controllo: si costruisce con la cura delle relazioni e della comunità. E le città questo lo sanno bene. Detenuti e attività con l’esterno. Perché non è una buona politica limitarle di Annapaola Laldi aduc.it, 11 novembre 2025 Ho appena finito di leggere Ogni carcere è un’isola di Daria Bignardi, in cui l’autrice, che dal 1997 frequenta le carceri per partecipare alle attività culturali che vi si svolgono, sostiene e sottolinea l’importanza di appoggiare i detenuti che vogliono imparare un lavoro, prendere un diploma o una laurea, oppure desiderano svolgere altre attività culturali (giornalismo, arti, teatro), perché solo in questo modo, una volta scontata la pena, queste persone potranno sottrarsi al rischio di una recidiva. Non sono solo speranze; le statistiche parlano chiaro. Un carcere che consente queste attività è dunque un carcere aperto ai volontari come lo è Daria Bignardi - persone che possono portare le proprie competenze nei diversi settori; un carcere, inoltre, in cui si realizza l’articolo 27 della nostra Costituzione repubblicana, al cui terzo comma si afferma che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ed ecco che, appena chiuso questo libro, che mi ha dato molto da riflettere, vengo a conoscenza che, in data 21 ottobre u.s., il Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) ha diramato la circolare numero 0454011.U, a firma di Ernesto Napolillo, che accentra a questo stesso Dipartimento la competenza a concedere autorizzazioni per tutti gli eventi trattamentali negli istituti con circuiti ad alta sicurezza, impone richieste dettagliate con largo anticipo, senza tempi certi di risposta. Immediata la reazione dei Garanti dei detenuti e dei Magistrati di sorveglianza. Molto ben strutturata la critica contenuta nel comunicato dei Magistrati di sorveglianza (CONAMS), in cui si “esprime a riguardo grande preoccupazione, atteso che la nuova modalità individuata, imponendo un forte livello di centralizzazione, rischia di compromettere molti dei progetti faticosamente portati avanti da cooperative, associazioni, mondo dell’educazione e di tutto il Terzo settore”. Dopo aver illustrato come queste disposizioni ministeriali riguarderanno la maggior parte degli istituti penitenziari, il comunicato prosegue così: “Vista la drammatica situazione in cui versano gli Istituti penitenziari, ove il sovraffollamento non accenna a diminuire e la strutturale carenza di attività trattamentali rende più penosa e isolante la carcerazione, la scelta adottata dal Dipartimento rischia di consegnarci un carcere dove le occasioni di confronto con l’esterno, le opportunità di formazione e le possibilità di crescita culturale in favore dei detenuti saranno sempre meno. Viene peraltro svilito il ruolo dei Direttori d’Istituto, per i quali sarà ancor più complesso riuscire a realizzare le attività previste dalla programmazione annuale, frutto della loro diretta conoscenza dei singoli istituti e del territorio su cui insistono, nonché di uno stretto lavoro di collaborazione con il Terzo settore. Tutto ciò ci consegna un deciso arretramento rispetto al modello di esecuzione penale che l’ordinamento penitenziario, proprio nell’anno del suo cinquantenario, aveva immaginato e previsto” (grassetto redazionale). La conclusione è che “si auspica un’interlocuzione con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che possa riportare nell’alveo del ragionevole bilanciamento tra sicurezza e risocializzazione lo svolgimento delle attività trattamentali negli istituti di pena”. Mi potrei anche fermare qui, perché la situazione risulta ben chiara. Ma c’è dell’altro, c’è qualcosa che va oltre il confronto tra DAP, Magistrati di Sorveglianza e Garanti dei detenuti. Sono infatti immediatamente intervenute sull’argomento alcune persone che sono state private dei loro cari a causa “delle azioni terroristiche, della lotta armata e della criminalità organizzata”, scrivendo una lettera al ministro Nordio, in cui affermano di guardare “con notevole perplessità e sofferenza personale alle norme restrittive recentemente introdotte nelle carceri italiane”. E’ bene sottolineare che loro, che hanno sofferto per l’assassinio dei loro cari, dichiarano oggi di sentire sofferenza per l’inasprimento della vita carceraria degli autori di questi delitti. E’ qualcosa di davvero notevole, e, leggendo la lettera, si scoprirà che a ispirarla non è un sentimento pio, bensì tutta una serie di ragioni molto precise, razionali, sperimentate. La persona forse più famosa di questo gruppo è Maria Agnese Moro, figlia di Aldo Moro (sequestrato dalle Brigate Rosso, dopo la strage della sua scorta, il 16 marzo 1978 e fatto ritrovare assassinato il 9 maggio successivo), ma con lei si firmano anche Giovanni Bachelet, Fiammetta Borsellino, Marisa Fiorani, Silvia Giralucci, Manlio Milani, Lucia Montanino, Giovanni Ricci, Sabina Rossa, Paolo Setti Carraro. Essendo una lettera bene articolata ed estremamente chiara, non ha bisogno di commenti ulteriori. Eccola dunque qui di seguito, come la pubblica il sito “Nuova Resistenza” (il grassetto è nel testo) “Gentile signor ministro della Giustizia, noi familiari di vittime delle azioni terroristiche, della lotta armata e della criminalità organizzata, da tempo impegnati in attività volte a realizzare il dettato Costituzionale di favorire la rieducazione dei detenuti”, (...) “guardiamo con notevole perplessità e sofferenza personale alle norme restrittive recentemente introdotte nelle carceri italiane. Consci del fatto che il ripensamento del proprio passato criminale molto raramente è frutto di un’improvvisa “illuminazione”, essendo più spesso il risultato di una contaminazione culturale, emotiva e relazionale, che supera le barriere fisiche tra il mondo esterno ed interno alle carceri; consapevoli che anche la semplice partecipazione a incontri e confronti con il mondo esterno rappresenta per i detenuti coinvolti una iniziale rottura verso il passato, esponendoli ai rischi e pericoli di emarginazione ben noti a chi frequenta le carceri; convinti che il cambiamento di valori richieda costanti, faticosi, lunghi e dolorosi processi di revisione critica del proprio vissuto, di assunzione di responsabilità molteplici e di emancipazione emotiva e culturale dal passato; consapevoli che il riconoscimento reciproco dell’uomo detenuto e della vittima costituisce il presupposto di un fecondo rapporto di relazione trasformativa; essendo testimoni dei cambiamenti indotti da queste frequentazioni anche nella relazione dei detenuti con l’autorità rappresentata dal personale di custodia; avendo constatato di persona l’importanza e la ricchezza dei confronti tra detenuti e studenti nel processo rieducativo, poiché questi ultimi spesso rappresentano il volto dei loro figli; avendo altresì constatato il valore sociale, psicologico e morale di questi incontri, al fine di prevenire il bullismo e derive criminali negli adolescenti, convinti che un cambiamento, una emancipazione ed una nuova scelta di campo sia possibile anche per chi ha commesso delitti particolarmente gravi; avendo sperimentato personalmente come questi incontri aiutino anche noi vittime della violenza a vivere le ferite del passato in modo diverso; consapevoli che la sicurezza della società dipende dalla qualità della cittadinanza di chi esce dal carcere; guardiamo con notevole perplessità e sofferenza personale alle norme restrittive recentemente introdotte nelle carceri italiane volte a irrigidire, limitare e contingentare queste feconde attività di relazione tra detenuti e cittadini, in particolare laddove queste vengono obbligatoriamente sottoposte ad una impersonale e spesso soffocante centralizzazione burocratica”. La giustizia riparativa sta faticosamente prendendo forma in Italia di Luca Sofri ilpost.it, 11 novembre 2025 Quattro anni fa la riforma Cartabia istituzionalizzò il percorso per favorire la mediazione tra autori e vittime di reato: ora ci sono un po’ di novità. Nelle ultime settimane ci sono stati un po’ di sviluppi sulla realizzazione di un sistema di giustizia riparativa in Italia: è un tipo di percorso previsto per chi ha compiuto un reato, complementare alla pena da scontare, che prevede di incontrare la vittima del reato o le persone a lei vicine e avviare un dialogo per superare il conflitto, trovando una forma di compensazione concreta o simbolica. La giustizia riparativa è ritenuta molto importante per il reinserimento sociale della persona condannata e più in generale per un tipo di giustizia orientato al recupero e alla rieducazione più che alla punizione: in Italia è stata istituzionalizzata dalla riforma della giustizia promossa dalla ministra Marta Cartabia nel 2021, con l’intento di rafforzare e uniformare un sistema che in Italia in parte esisteva già, ma in maniera disomogenea. Il 22 ottobre il ministero della Giustizia ha stipulato accordi con diverse regioni, province e comuni per avviare 36 centri di giustizia riparativa su tutto il territorio nazionale: cioè strutture pubbliche dotate di personale specializzato e risorse finanziarie per portare avanti i programmi. Il 30 ottobre, poi, la Corte di Cassazione ha stabilito che una persona condannata può fare ricorso contro la sentenza di un giudice che le abbia negato un percorso di giustizia riparativa. È una sentenza importante, sia perché ha risolto un contrasto interpretativo che esisteva fin dall’approvazione della riforma, sia perché ha chiarito che la giustizia riparativa deve essere considerata una parte integrante di qualsiasi processo penale, e non un elemento marginale o accessorio. La giustizia riparativa (restorative justice, in inglese) è stata teorizzata a partire dagli anni Settanta, prima tra Stati Uniti e Canada e poi, nel corso degli anni Ottanta, anche in Europa, soprattutto tra Francia e Regno Unito. Oggi esistono programmi di giustizia riparativa anche in paesi come il Belgio, la Germania o la Finlandia. È un approccio che si basa anzitutto sull’idea che al centro del processo penale non debba esserci tanto il reato, quanto le persone coinvolte: con i loro danni subiti e inferti, le loro responsabilità e le loro relazioni. L’idea è che il procedimento giudiziario non debba servire a punire, ma a favorire il senso di responsabilità individuale di chi ha compiuto il reato, e che in questo processo debba avere un ruolo attivo la vittima, quindi chi quel reato lo ha subìto (che non si limita a essere una parte passiva e offesa, portatrice o tramite di un desiderio di vendetta punitiva). La giustizia riparativa punta a ricostruire le relazioni danneggiate da un reato, con soluzioni che possono essere materiali o simboliche. Proprio per lo spirito di questo strumento c’è molta discussione sul fatto che sia difficilmente conciliabile con alcuni tipi di reato, e in particolare con quelli legati alla violenza di genere. Concretamente, un percorso di giustizia riparativa può iniziare su base volontaria, su richiesta della stessa persona che ha compiuto il reato, della vittima o per decisione del giudice. Consiste in una serie di incontri: tra l’autore del reato e la vittima, oppure la sua famiglia, oppure la sua comunità di riferimento, oppure una persona che ha subìto un reato analogo, per esempio. Gli incontri sono accompagnati e gestiti da mediatori esperti. Il percorso ha una durata variabile e finisce quando le parti raggiungono un cosiddetto “esito riparativo”, cioè quando le due parti arrivano a un qualsiasi accordo per cui l’offesa sia percepita come riparata e si sia ricostruita una relazione tra le due parti. In Italia la riforma Cartabia ha inserito la possibilità di fare un percorso di giustizia riparativa nel sistema penale nazionale, definendo in maniera chiara e omogenea i metodi: prima della riforma esistevano esperimenti di giustizia riparativa, ma in maniera non omogenea e soprattutto nell’ambito della giustizia minorile (che in Italia è considerata un’eccellenza proprio perché orientata al recupero più che alla punizione). La norma prevede che tutti possano accedere ai percorsi di giustizia riparativa (con limitazioni giustificate solo da pericoli concreti per i partecipanti), che la partecipazione avvenga su base volontaria e che agli incontri partecipino interpreti e mediatori culturali, se necessario. La riforma ha anche chiarito come si diventa mediatori esperti di giustizia riparativa (ci vuole almeno una laurea, un percorso formativo di 240 ore tra teoria e pratica e almeno 100 ore di tirocinio in un centro). La riforma vieta di fare intercettazioni nei luoghi in cui si svolgono gli incontri, e non obbliga i mediatori a denunciare reati di cui vengono a conoscenza durante il percorso. La riforma ha istituito un fondo specifico per finanziare le attività di giustizia riparativa. Il ministero della Giustizia ha fatto accordi specifici per aprire centri per la giustizia riparativa con quattro regioni (Marche, Calabria, Lazio e Trentino-Alto Adige), con la provincia di Latina e con 29 comuni: Bari, Bologna, Reggio Emilia, Brescia, Bergamo, Cagliari, Caltanissetta, Catania, Firenze, L’Aquila, Genova, Taranto, Messina, Milano (per due centri), Monza, San Fermo della Battaglia, Lecco, Napoli, Palermo, Terni, Matera, Velletri, Roma, Salerno, Novara, Torino, Venezia, Verona e Padova. Non ci sono ancora informazioni su quando apriranno i centri né i luoghi specifici: il prossimo passaggio, dice il ministero della Giustizia, sarà distribuire i fondi (8,9 milioni di euro all’anno). I centri, comunque, verranno istituiti all’interno di enti già esistenti stabiliti come idonei dai singoli comuni, province o regioni in collaborazione col ministero. La sentenza della Corte di Cassazione sulla possibilità di fare ricorso contro le sentenze che negano di accedere alla giustizia riparativa invece è importante perché la riforma Cartabia non conteneva indicazioni chiare su questo punto, e dopo la sua approvazione si erano formati orientamenti diversi al riguardo. La Corte ha stabilito che si può fare ricorso contro un rifiuto sia in appello che in Cassazione. Giovanni Bachelet: “La giustizia è civiltà, non vendetta: perciò credo nel perdono” di Simona Musco Il Dubbio, 11 novembre 2025 Figlio di Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura assassinato dalle Brigate Rosse nel 1980, Giovanni Bachelet è da sempre una voce limpida nel dibattito pubblico sui temi della giustizia, della memoria e del perdono. Fisico e docente universitario, già parlamentare, ha scelto di proseguire la lezione morale del padre non con parole di vendetta ma con un impegno civile fondato sulla Costituzione. Una lezione che ha ricordato pochi giorni fa, in occasione della morte di Anna Laura Braghetti, la brigatista che colpì a morte suo padre: “Invocare soluzioni facili - dice - non è solo contrario al Vangelo o all’Illuminismo, ma anche alla sicurezza dei cittadini. La giustizia non è vendetta: è civiltà”. In uno dei suoi articoli, lei scrive che “senza giustizia non c’è pace, senza perdono non c’è giustizia”. Come si può tradurre concretamente questa visione in una società che tende a polarizzarsi e a cercare più colpevoli che soluzioni? La difficoltà di chi cerca davvero maggiore sicurezza è dimostrare che con una giustizia più umana c’è anche più sicurezza. Il problema di oggi è la comunicazione “da tastiera”, che moltiplica odio e scandalo. È più facile far circolare messaggi estremi che razionali. Io provo, quando mi invitano a parlare, a “dare i numeri”: in cinquant’anni, mentre in Italia si è affermato un uso della pena meno disumano, gli omicidi volontari si sono ridotti di dieci volte. Negli Stati Uniti, dove c’è la pena di morte, sono dieci volte di più. Il nesso tra giustizia umana e sicurezza è dimostrato dai fatti. Invocare soluzioni facili - come “sparare ai ladri” o “buttare la chiave” - non è solo contrario al Vangelo o all’Illuminismo, ma anche agli interessi dei cittadini. Questa è la battaglia più importante, ma anche la più difficile. In Italia oggi “ordine” e “punizione” sembrano diventate parole d’ordine. Addirittura qualcuno aveva proposto di modificare l’articolo 27 della Costituzione, e il Dap ha recentemente ristretto le attività culturali e ricreative nelle carceri… Queste restrizioni riguardano le sezioni di Alta sicurezza. Il 41 bis è nato durante il terrorismo, quando le carceri erano ingestibili. Finita l’emergenza, le carceri di massima sicurezza furono abolite, ma il 41 bis no. È contrario al nostro senso di umanità. Secondo lei è da rivedere? Sì. Era nato per un’emergenza e in quanto tale giustificato, ma una sospensione definitiva dei diritti per certi reati è palesemente incostituzionale. Nessun governo ha il coraggio di metterci mano per paura di essere accusato di “amicizia con i mafiosi”. Ma se dopo cinquant’anni non abbiamo risolto il problema della mafia, non possiamo abolire la Costituzione per questo. Viviamo in una società della vendetta oppure hanno ancora senso principi come umanità, della pena e rieducazione? La società della vendetta c’è sempre stata. La Costituzione e l’Illuminismo, da Beccaria in poi, si oppongono all’istinto naturale della rivalsa. Ci vuole una grande forza educativa - della scuola, della cultura, delle religioni - per convincere che odio e vendetta portano più danni che benefici. Ricordo che quando fu trovato il corpo di Aldo Moro io e David Sassoli, allora ventenni, ci trovammo a Piazza del Gesù: la folla gridava “pena di morte”. Noi provammo a dire che Moro non l’avrebbe voluto. È una reazione umana, ma bisogna superarla con cultura e ragione. C’è chi pensa che sia giusto il codice di Hammurabi, occhio per occhio, dente per dente. Però se si ritiene giusto sparare a chi ci ruba in casa vuol dire che anche Hammurabi è troppo poco. Serve dunque un grande lavoro culturale? Sì. Cambiare il sentimento comune con una legge è solo un’illusione. Bisogna lavorare a livello educativo e sociale. Oggi i ragazzi vivono immersi in un mondo polarizzato, ma vedo che spesso sono più aperti di quanto si creda. In ogni tempo, il miglior antidoto è la cultura, la vita associata, l’incontro con gli altri. La sua famiglia è considerata un esempio di conciliazione tra giustizia e perdono. Cosa risponde a chi teme che perdono e rieducazione significhino dimenticare la colpa? Tra i tanti commenti ricevuti quando è morta Braghetti al post in cui ricordavo il perdono della mia famiglia, uno diceva: “Non ha detto tutto”. Ma il fine della pena non è far parlare il condannato. La legge può premiare chi collabora, ma non può tenere qualcuno in carcere finché non parla. È difficile farlo capire anche a molti amici “democratici” del web. Ci sono collaboratori che non sono pentiti, e pentiti che non hanno modo di collaborare. Mio zio prete, fratello di papà, che girava per le carceri, me lo spiegò bene: c’è chi è sinceramente pentito, anche se non collabora, e chi collabora senza essere pentito. Ci sono mille ragioni per collaborare e per non collaborare. È una scelta personale. Ricordo che all’epoca delle leggi antiterrorismo, il Csm, presieduto da mio padre, espresse un parere negativo a queste norme che triplicavano la pena in caso di aggravanti del genere. Io che ero un giovanotto patriottico e arrabbiatissimo con i terroristi non ne capivo il motivo. Ma lui mi spiegò che se uno cerca di fare la rivoluzione armata non sarà il triplo della pena a fermarlo. E se il fenomeno fosse finito sarebbe stato comunque problematico, perché un’aggravante non può pesare tre volte la pena. Da parlamentare, ha sostenuto una proposta di legge per modificare l’articolo 176 del codice penale, sostituendo il “sicuro ravvedimento” con la “conclusione positiva del percorso rieducativo”. Perché? Perché nessun giudice può sapere se un uomo è “sicuramente ravveduto”. Solo Dio può. Abbiamo proposto di valutare invece se ha concluso positivamente il suo percorso rieducativo: un criterio laico, oggettivo. Quella proposta nacque insieme a parlamentari come Sabina Rossa e Olga Di Serio - tutti familiari di vittime del terrorismo - che avevano visto le storture del sistema. Spesso i giudici chiedevano al condannato di provare di aver tentato contatti con i familiari delle vittime. Ma non tutti i familiari vogliono, ed è un loro diritto. Così alcuni detenuti restavano esclusi dai benefici solo perché la vittima non rispondeva. Era un’ingiustizia che volevamo correggere. Ma la proposta non è stata accolta. E della giustizia riparativa, introdotta con la riforma Cartabia, cosa ne pensa? In generale è una buona idea, ma va applicata con cautela. Bisogna evitare che chi non vuole o non può partecipare a un percorso riparativo resti penalizzato. Con altri familiari di vittime abbiamo anche creato un gruppo per facilitare la rieducazione degli ex terroristi che non riuscivano a ottenere benefici per mancanza di dialogo con le vittime. In alcuni casi abbiamo scritto noi al giudice, come “associazione di vittime”, offrendo la disponibilità al dialogo. Così qualcuno è potuto uscire. Quindi non sono contrario, ma penso che nell’applicazione si debba anche porre attenzione. Oggi si parla molto di processi “vittimocentrici”. C’è il rischio che la giustizia si concentri troppo sulle vittime, snaturando il processo penale? Penso di sì. Noi, come famiglia, non ci siamo mai costituiti parte civile: non per bontà, ma per convinzione giuridica. Nostro padre ci ha insegnato che il fine della pena non è far piacere alla vittima, ma rieducare il detenuto e mettere in sicurezza la società. Il problema del processo penale non dovrebbe essere la vittima. Ho vissuto alcuni anni negli Stati Uniti, dove non solo c’è la pena di morte, che è già una cosa che fa rabbrividire, ma i parenti delle vittime possono assistere alle esecuzioni: una cosa terrificante. Fra questi eccessi, la barra dritta è sempre la Costituzione. Nella quale non inserirei le vittime e lascerei com’è l’articolo 27. La sua famiglia, al funerale di suo padre, ha pregato per chi aveva sparato. Crede che quel gesto abbia avuto un effetto sui terroristi? Non lo so. Ma dopo il funerale alcuni ex terroristi scrissero una lettera chiedendo di incontrare le famiglie delle vittime. Mio zio rispose e cominciò a visitare le carceri. Forse ha avuto un effetto, ma non siamo stati gli unici. La vedova di Tobagi, quella di Taliercio e molti altri ebbero lo stesso atteggiamento civile. Noi abbiamo solo cercato di dare continuità a quello spirito, anche dopo. Mia moglie ha fatto parte per anni di una giuria letteraria per detenuti, mio figlio ha insegnato diritto a Rebibbia. La giustizia vera si costruisce anche così, nel quotidiano. E oggi, cosa manca perché la giustizia italiana sia davvero giusta? Un sistema carcerario umano. Le carceri sono sovraffollate e inumane, e questo alimenta la disperazione. Se vogliamo sicurezza dobbiamo cambiare mentalità: pensare non solo ai grandi casi, ma anche a chi sconta pene per piccoli reati e non ha nessuno. La giustizia non è vendetta: è civiltà. Referendum, scontro tra correnti in Anm: “Non siamo l’opposizione” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 novembre 2025 Le toghe di Magistratura indipendente si schierano contro le iniziative comuni con i partiti e i sindacati. Alla fine passa la mediazione: nessun simbolo accanto a quelli della politica. Evitare “l’abbraccio mortale delle opposizioni”: ormai questo consiglio del Ministro Nordio all’Anm è ben saldo nella testa dei magistrati che hanno capito che un eccessivo collateralismo con la politica potrebbe svantaggiarli nella campagna referendaria contro la riforma sulla separazione delle carriere. E allora sabato, dopo ore di discussione prima nelle chat, poi nei corridoi della Cassazione e infine dinanzi ai microfoni di Radio Radicale, il Comitato direttivo centrale ha approvato con la sola astensione dei CentoUno un documento in cui si dice che “l’Anm e il Comitato, anche attraverso le proprie articolazioni territoriali, si asterranno dall’organizzare eventi insieme ad organismi che hanno una connotazione politica, ferma restando la facoltà di partecipare ad ogni iniziativa in cui saranno invitati al fine di rappresentare le criticità della riforma”. La forma è sostanza ricordava Marco Pannella e le toghe lo sanno. Apporre su una locandina il doppio simbolo del “Comitato del No” insieme a quello del Pd o di un sindacato come la Cgil per promuovere un evento contro la riforma è una eventualità che, soprattutto alle toghe moderate, non sarebbe piaciuta. A maggior ragione che cominciava a farsi strada l’ipotesi di entrare in una confederazione estesa di comitati per il No, come la Via Maestra promossa da Maurizio Landini. E quindi per giungere a quel risultato molte sono state le interlocuzioni tra le correnti. Magistratura Indipendente soprattutto con Gerardo Giuliano aveva proposto: “Anm e Comitato si asterranno dal collaborare con organismi che hanno connotazioni politiche”. Magistratura Democratica invece: “Si asterranno dall’organizzare eventi con i partiti politici”. Alla fine ha prevalso quello che ufficiosamente è stato chiamato il “Lodo Maruotti” del Segretario Rocco Maruotti di AreaDg e che si ritrova ufficialmente nel documento finale. L’accordo raggiunto su questo punto ha sminato anche un altro punto di possibile contrasto tra le correnti ossia quello concernente “riflessioni su esternazioni rappresentative dell’Anm e modalità espositive”. Si sarebbe dovuto discutere infatti dello scivolone dello stesso Maruotti contro i consiglieri attuali del Csm e delle parole di Parodi che per alcuni avrebbe avallato la persecuzione giudiziaria subìta da Silvio Berlusconi. Alla fine il punto è stato assorbito dal precedente. Tutto rientrato per il bene comune. La polemica interna sul “Manifesto” - All’odg di sabato c’era anche la “formalizzazione di un Manifesto chiaro ed univoco che ponga in evidenza i pericoli” della riforma. Nella cartellina le toghe del Cdc hanno trovato un documento elaborato dalla commissione Strategie comunicative, presieduto da Ida Teresi (AreaDg), che recepiva le richieste espresse dall’Assemblea 2024, soprattutto di quelle del gruppo di giovani magistrati “Fate Presto”. Alla fine della discussione l’elaborato non è stato approvato ma rimesso alla valutazione della Giunta. A contestarlo soprattutto Unicost e Magistratura Indipendente. Per due motivi. Innanzitutto per Marcello De Chiara “in un paragrafo si fa, ad esempio, riferimento a tutte le leggi approvate da questo governo certamente criticabili ma frutto di percorsi, di esperienze diverse: perorare l’intervento di una mano unica è pure sostenibile però non ci giova, non ci fa fare quel salto di qualità per intercettare consensi”. Mentre per Mi ci hanno detto che “non si possono leggere espressioni come “deriva autoritaria”“ o “Il sistema giudiziario italiano ha accompagnato per 78 anni lo sviluppo democratico del Paese, affrontando con fermezza gli anni di piombo, i tentativi di colpi di Stato, le brigate rosse e il terrorismo nero, le associazioni sovversive come la P2, le mafie e la corruzione” ora questo sistema sarebbe “in discussione”. Non è così. La critica più forte alla separazione è quella di Luciano Violante, non questa”. Il duello in tv - “Non ho paura di un confronto perché sono convinto delle nostre ragioni” ha affermato Cesare Parodi rispondendo a una domanda sull’ipotesi di un confronto tv con il ministro della Giustizia. “Il problema è complesso - ha proseguito - avrei prima di tutto un dovere di rispetto istituzionale perché sarebbe difficile dire di no al ministro. Certamente questo sarebbe un argomento che verrebbe utilizzato contro di noi” per accusare l’Anm di politicizzazione se il vertice si siede da uguale e contrario a Nordio in un salotto televisivo, ma “credo - ha concluso Parodi - che a qualunque domanda mi venisse posta quel giorno, io risponderei con le ragioni tecniche che ci portano a non condividere la riforma e non sarei lì come rappresentante di una forza politica”. Il dibattito è rimandato a dopo le regionali o a Porta a Porta o a Sky. Ma intanto qualcuno dei colleghi di Parodi in Cdc ci dice: “intanto la finisse di dire, come già fatto in più occasione “Se perdiamo…”. Uno: porta sfortuna. Due: ci fa apparire insicuri e svantaggiati dinanzi ai cittadini”. La polemica con l’Ucpi - Parodi ha battuto forte contro l’Unione Camere Penali: “Tantissimi avvocati, ma proprio tanti, mi hanno detto di essere assolutamente contrari a questa riforma; vedremo se saranno più i magistrati a votare per il sì o gli avvocati a votare per il no”. La replica di Francesco Petrelli: “Fa bene l’Anm a ricordare che ci sono alcuni avvocati contrari alla separazione delle carriere. Allo stesso modo, ci sono anche numerosi magistrati che condividono la riforma, a cominciare dal procuratore della Repubblica Nicola Gratteri, che in più occasioni si è espresso a favore del sorteggio dei componenti del CSM”. Ma Parodi è andato oltre e ha puntato il dito soprattutto contro l’ex presidente Gian Domenico Caiazza: “Gli vorrei chiedere come mai nel 2019 le Camere Penali erano ferocemente contrarie al sorteggio, idea poi ripresa singolarmente dallo stesso Caiazza in una intervista sull’Unità fatta a gennaio” e adesso invece no. Il riferimento di Parodi è ad un comunicato del 9 luglio 2019 dell’Ucpi dove si leggeva, tra l’altro, contro la proposta di Bonafede del sorteggio: “La risposta a tutto questo non può limitarsi ad una rivisitazione dei collegi elettorali per l’elezione del Consiglio Superiore della Magistratura o a improbabili proposte di sorteggio”. Se la riforma dimentica la durata dei processi di Gian Carlo Caselli e Vittorio Barosio La Stampa, 11 novembre 2025 La legge sulla “separazione delle carriere” è nata dal timore che i pubblici ministeri abbiano sui giudici, nel processo penale, un’influenza maggiore degli avvocati difensori. In vista del referendum su questa legge è ovviamente necessario che tutti i cittadini, anche quelli privi di competenze giuridiche, siano a conoscenza di ciò su cui daranno il loro voto. Cerchiamo dunque, sommessamente, di chiarire i punti fondamentali della legge, che sono tre. 1. La “separazione delle carriere” fra pubblici ministeri e giudici. Si usa sempre questa espressione e la stessa legge parla di “distinte carriere”. Ma tale separazione non è in realtà prevista. Il concorso per l’ingresso in magistratura resta unico, tanto per chi vorrà poi fare il giudice quanto per chi vorrà fare il pm. E restano anche uguali (come ha giustamente ricordato Luciano Violante) sia la progressione nella carriera sia quella nella retribuzione. Quelle che vengono veramente separate sono le funzioni fra pm e giudici, perché d’ora in poi un pm non potrà più diventare giudice, e viceversa. Ma questa è una riforma quasi irrilevante, perché - di fatto - già in passato meno dell’1 per cento dei magistrati ha voluto cambiare funzioni. 2. Il Consiglio Superiore della Magistratura. Fino ad oggi il Csm era unico ed era composto sia da giudici sia da pm. Ora il Csm viene spezzato in due: un Csm per i giudici e un Csm per i pm. Questi ultimi avranno così un Csm senza giudici e “tutto loro”. Non è fuor di luogo immaginare che il Csm dei pm, senza una componente di giudici che funga da elemento equilibratore, possa agire in modo non imparziale sulle importanti funzioni che gli competono: le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti e le valutazioni di professionalità dei pm. Questi diventeranno così una sorta di “corpo separato”, senza contrappesi e libero da vincoli: con tutti i pericoli che possono derivare ai cittadini dall’operato di qualsiasi organismo che può agire in modo sostanzialmente libero. E i pm, con i loro poteri, possono incidere fortemente sulla vita di tutti noi: si pensi alla loro facoltà di privare un cittadino della libertà personale e di esercitare nei suoi confronti l’azione penale. Per di più, allontanando i pm dai giudici, e quindi dalla cultura della giustizia, li si porterà inevitabilmente nell’orbita e sotto le direttive del potere esecutivo. Il che contrasta con il fondamentale principio della separazione dei poteri. Se proprio si volevano staccare i pm dai giudici la legge di riforma avrebbe dovuto prevedere per i pm effettive garanzie di indipendenza, che invece non vi sono. 3. L’Alta Corte Disciplinare. La riforma toglie ai due Csm il potere disciplinare e lo trasferisce ad un’Alta Corte di nuova istituzione. Ma la composizione di questa Alta Corte può far nascere dubbi sulla sua effettiva idoneità a svolgere la delicata funzione disciplinare che le viene affidata. Dei 15 giudici che la compongono 3 vengono scelti mediante sorteggio da un elenco di soggetti formato dal Parlamento, e 9 mediante sorteggio fra gli appartenenti alle categorie di giudici e pm. In totale ben 12 giudici dell’Alta Corte Disciplinare vengono scelti per sorteggio. Senza nulla togliere al valore dei nostri singoli magistrati, è sicuro che il sistema del sorteggio (in sostanza, “uno vale uno”) sia il più idoneo ad assicurare la bontà delle delicate decisioni disciplinari dell’Alta Corte? Non sarebbe stato opportuno adottare almeno qualche correttivo? Inoltre contro le decisioni disciplinari del Csm un magistrato poteva ricorrere alla Corte di Cassazione. Contro le sentenze dell’Alta Corte ci si può invece appellare solo alla stessa Alta Corte, seppure composta con membri diversi. Si tratta sempre del medesimo organo giudicante, e ciò non sembra garantire l’indipendenza del giudice di appello. Due ultime considerazioni. La legge di riforma è intitolata in primo luogo “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale”. Ma questo titolo è ingannevole, perché in realtà è una legge che riforma la magistratura. È bene rendersene conto. Infine non è corretto sostenere che questa legge è stata fatta per migliorare la giustizia. Il problema centrale della nostra giustizia sta nella lentezza dei processi. È su questa che bisogna lavorare. Ma la legge di cui stiamo parlando non contiene al riguardo una sola parola. Bruti Liberati: “Vogliono riformare i magistrati, non la giustizia” di Francesco Grignetti La Stampa, 11 novembre 2025 L’ex procuratore di Milano: “L’obiettivo è cambiare gli equilibri tra i poteri. Attenzione a rivedere la Costituzione: gli effetti si vedranno sul lungo periodo”. Che un italiano su tre non abbia ancora deciso come votare al referendum, in fondo lo considera un bene. Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore capo di Milano ed ex presidente dell’associazione nazionale magistrati, è convinto che a spiegare bene le cose, gli indecisi si convinceranno che questa riforma del governo Meloni non s’ha da fare. “Perché le riforme costituzionali vanno ponderate bene e fino in fondo. Hanno effetti di lungo periodo. Oggi con questa riforma si innesca una tendenza, che non avrà effetto immediato, ma inevitabilmente, non domani, forse non dopodomani, ma alla fine porterà al controllo del governo sui pubblici ministeri”. Dicono: sarà un referendum sulla separazione delle carriere. Il Sì o il No sarà facile... “E invece no. Intanto una premessa. La separazione delle carriere non è nemmeno citata nel titolo di questa legge. È una truffa terminologica. Nella legge c’è anche la separazione delle carriere, ma il piatto forte è lo sdoppiamento del Csm, il sorteggio tra i magistrati, lo scorporo della funzione disciplinare a favore di una Alta corte di disciplina. In due parole: non è una riforma della giustizia, ma dell’ordinamento giudiziario”. Ossia, semplificando molto, la riforma non tocca la giustizia, ma chi amministra la giustizia, ovvero i magistrati? “Si modifica l’organizzazione della magistratura. E quindi il rapporto tra i poteri. In particolare, il rapporto tra governo e magistratura”. Anche il rapporto tra Parlamento e magistratura? “Un problema è che questa riforma costituzionale così rilevante ed incisiva ha di fatto esautorato il procedimento di revisione della Carta previsto dal costituente. Perché su una vicenda così rilevante c’è stata la blindatura per quattro letture, senza che fosse cambiata una virgola dal testo proposto dal governo”. E lei che cosa direbbe agli italiani? Che lo status quo non si tocca perché è il migliore tra quelli possibili? “Guardi, io non amo le semplificazioni, tipo la Costituzione più bella del mondo. Questa nostra Carta, però, sulla giustizia ha un equilibrio preciso che passa attraverso l’appartenenza a un unico corpo dei magistrati e dei pubblici ministeri, la obbligatorietà dell’azione penale, l’indipendenza della magistratura affinché tutti i cittadini siano uguali davanti alla legge. Oggi non c’è nessuno che possa dire al pubblico ministero e poi al giudice che cosa fare”. Ovviamente va detto che nella riforma non c’è la dipendenza del pm dal governo. Però forse un retropensiero ci sarebbe. Quando ad esempio il ministro Carlo Nordio, rivolto a Elly Schlein, ha detto che in fondo questa riforma potrebbe interessare anche lei un domani. “Nordio è spesso naif, ma probabilmente si è lasciato sfuggire qual è la vera realtà delle cose, e cioè l’insofferenza verso il sistema dei controlli. L’abbiamo visto con la prima reazione della Presidente del Consiglio, poi mitigata, nei confronti della Corte dei conti sulla vicenda dello Stretto di Messina. “La Corte dei conti non deve mettere il naso! “. E invece no, la Corte dei Conti è stata costituita esattamente per quello, per esaminare i conti”. Lei c’era ai tempi di Mani Pulite. Non sente odore di rivalsa della politica nei confronti della magistratura? “Farei attenzione a ripercorrere la storia della Repubblica. Però è vero che per molti anni i principi di indipendenza (introdotti dalla Costituzione del 1948, ndr), in particolare da parte del pubblico ministero, non sono stati introiettati fino in fondo. Ricordiamoci della procura di Roma quand’era definita il porto delle nebbie”. Beh, ci sono stati anche i molti anni nel dopoguerra durante i quali la magistratura siciliana e calabrese non citava mai la mafia. “Erano le ritrosie dei procuratori generali dell’epoca. Come dicevo, per anni è stato difficile far diventare realtà il principio che la magistratura indaga anche sui potenti. E sulla politica. Ma succede così con le riforme costituzionali: gli effetti si vedono sul lungo periodo. .. Poi abbiamo avuto Mani Pulite, che è intervenuta su un fenomeno diffuso di corruzione. Ci sono stati errori, ci sono stati eccessi, ma noi non possiamo oggi pensare di rimettere in discussione proprio questo principio fondamentale. E invece l’uscita del ministro Nordio è rivelatrice”. Voi magistrati sostenete che si finirà con la sottomissione del pm all’Esecutivo... “Formalmente resta il principio dell’indipendenza della magistratura, sia quella giudicante, sia quella del pubblico ministero. Ma noi sappiamo che occorrono degli strumenti di tutela di questa indipendenza e lo strumento di tutela che noi abbiamo, e che hanno anche molti altri Paesi pur se in forme parzialmente diverse, è il Consiglio superiore della magistratura. Qui lo si indebolisce e lo si riduce quasi all’irrilevanza. Il risultato è che si mantiene la proclamazione dell’indipendenza, ma non avrà più le tutele. E quindi, non sarà domani, non sarà dopodomani, ma si ci si mette su un piano inclinato che ha una direzione unica”. Secondo il sondaggio di Alessandra Ghisleri, pubblicato ieri da questo giornale, tra chi ha deciso come votare, c’è una lieve maggioranza di cittadini a favore della riforma... “Intanto è un bene che ci siano molti che ancora non hanno deciso. Auspico un ampio confronto sul merito per far capire a tutti la portata di questa riforma. Che non è solo sulla separazione delle carriere. Detta così, è una truffa terminologica. C’è sì la separazione delle carriere, ma il nucleo forte è ben altro. Bisogna guardare al tutto, allo sdoppiamento dei Csm, al sorteggio, all’Alta corte di disciplina”. Si dice: è il modo per togliere potere alle correnti della magistratura associata... “Non è affatto così. Bisogna guardare al significato principale della riforma, che è stato definito pubblicamente come riequilibrio dei poteri. Se le decisioni della magistratura non sono gradite, per esempio in materia di trattamento degli stupefacenti come dice il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, il Parlamento può cambiare le leggi, non dire ai giudici e ai pubblici ministeri che cosa devono fare”. “Da Nordio una riforma inutile e dannosa, non migliora le condizioni del nostro lavoro” di Gloria Bertasi Corriere del Veneto, 11 novembre 2025 Claudia Brunino è la presidente dell’Anm del Veneto: “Il governo promette assunzioni nel 2027? Vediamo se ci arriviamo”. Il 27 febbraio hanno scioperato compatti e, prima, il 25 gennaio a Venezia, l’Anm (Associazione nazionale magistrati) del Veneto ha manifestato all’inaugurazione dell’anno giudiziario contro una riforma, quella della giustizia del ministro Carlo Nordio con la separazione delle carriere e le nomine del Csm a sorteggio, che, per pm e giudici, andrebbe fermata. Ora che è stata approvata in Parlamento, in vista del referendum l’Anm sosterrà il “no”. “Questa riforma non rende più efficiente il lavoro, non migliora il servizio erogato ai cittadini e non viene incontro agli interessi di coloro che hanno bisogno di giustizia”, dice Claudia Brunino, pm e presidente dell’Anm del Veneto. Brunino, i cittadini proprio non avranno benefici? “Per il cittadino questa riforma è inutile oltre che dannosa. Per partorirla sono stati impiegati tempo e risorse che potevano essere investite nel miglioramento delle condizioni di lavoro pietose in cui lavoriamo. Dovevano essere sostituiti i computer obsoleti, assunti migliaia di amministrativi prima dell’introduzione di App (del ministero, ndr), non abbandonare gli impiegati a fronteggiare un sistema mal congegnato, senza iniezione di giovane e specializzato personale”. La separazione delle carriere, dicono i contrari alla riforma, porterà i pm, ossia la parte accusatoria, potenzialmente “sottomessi” alla politica? Perché? “Divide et impera, dico innanzitutto questo. Viene scardinato un impianto unitario, demandando alla legge ordinaria l’attuazione di norme che comportano lo stravolgimento della natura della magistratura, il cui assetto è legato alla qualità di una democrazia. La fiducia dei cittadini non si acquista con interventi mediatici, in questo caso la nostra voce esce dai palazzi per dovere e senso civico. Siamo chiamati a sensibilizzare i cittadini con una prospettiva di osservazione privilegiata e tecnica. Non vogliamo essere antagonisti a niente e a nessuno, ma ciò che come Anm dobbiamo fare, come servitori dello Stato, in questo momento storico, è informare. La Costituzione è la cosa più politica che ci sia e, in questa opera di decostituzionalizzazione delle garanzie dei magistrati, non ci possiamo esimere dallo spiegare, nell’opera che da tempo è in atto di mistificazione delle parole, che siamo di fronte ad una separazione delle magistrature”. Si dice anche che il cittadino imputato-indagato sarà meno tutelato. Di contro, i favorevoli sostengono che finalmente accusa e difesa avranno uguale peso. “Certo che il cittadino sarà meno tutelato, perché i tre fronti su cui interviene la riforma, in particolare l’Alta corte disciplinare, mirano a normalizzare la magistratura, a creare dei burocrati timorosi e facilmente annientabili, è una riforma che porterà ad una magistratura forte con i deboli e debole con i forti. Accusa e difesa non possono per definizione avere lo stesso peso specifico: il processo non è una partita di calcio. Faccio da tredici anni il pubblico ministero (a Padova, ndr) e ho chiesto decine di volte l’assoluzione (in Italia superano il 40%, ndr), non faccio indagini e non vado in aula per vincere o servire un cliente, mi batto per la ricerca della verità con i mezzi che mi sono messi a disposizione. Se a volte un magistrato sbaglia non è di certo perché si appiattisce su scelte di altri o perché mette una maglia in campo, piuttosto perché le nostre scrivanie sono troppo piene e, non lo dico io, ma i dati oggettivi”. Nordio sostiene che la maggior parte dei magistrati è favorevole al sorteggio. “A me non risulta, quello che so è che in Veneto il 27 febbraio ha scioperato il 75% dei magistrati. Altro dato oggettivo ed incontrovertibile è che il 96% dei magistrati italiani è iscritto alla Anm e che all’unanimità, il 15 dicembre 2024 e il 25 ottobre, con mozione unitaria, è stata esclusa la possibilità di restare inermi di fronte ad una riforma che incide sul cuore della funzione giurisdizionale. Mi lasci aggiungere che il sorteggio non è percepito come legittimo nemmeno da chi lo difende. Cito le dichiarazioni del 9 ottobre del ministro: “Da modesto giurista lo strazio che il Tribunale dei ministri ha fatto delle norme più elementari del diritto è tale da stupirsi che non gli siano schizzati i codici dalle mani, ammesso che li abbiano consultati”. Ecco: secondo l’opinione di chi ha promosso la riforma, nemmeno nei casi in cui già avviene il sorteggio funziona. Il Tribunale dei ministri è infatti composto da magistrati estratti a sorte: è andata male pure in quel caso? L’accusa che ci viene rivolta di essere una corporazione politicizzata è frutto di un irragionevole attacco a coloro che fanno parte del potere di controllo; le polemiche mosse alle decisioni di magistrati estratti a sorte ne sono la prova. Il sorteggio è soltanto uno schiaffo ad un potere dello Stato”. Il sottosegretario Andrea Ostellari annuncia 20 mila amministrativi assunti entro il 2027. Basteranno? “La scopertura del personale amministrativo nel distretto della Corte di appello di Venezia per il settore giudicante è in media del 39,4%. Siamo in sofferenza da decenni: vedremo se arriviamo a erogare il servizio giustizia fino al 2027. Nei tribunali di Venezia e Vicenza la percentuale è del 47%, a Belluno del 48,9%. Nelle procure la condizione non è migliore. La situazione degli uffici del giudice di pace è al collasso. Vedremo in concreto quando saranno assunti, solo allora verranno fatti i conti con i pensionamenti che saranno nel mentre arrivati. Non lo so quanti saranno destinati in Veneto, so però che poi appena assunti dal nostro distretto scappano, come i dati dei precedenti concorsi dimostrano, sia per tornare nelle regioni di origine, sia perché l’impiego comporta un lavoro massacrante mal retribuito, sia per passare ad altre amministrazioni”. Che dice del tribunale della Pedemontana? “Un progetto anacronistico e fuori dalla realtà. Questo perché è risaputo che il tribunale di Vicenza ha una scopertura dei magistrati al 33%, al 50% del personale amministrativo, dei giudici di pace all’80%, al 60% all’ufficio Notificazioni Esecuzioni e Protesti, cioè l’ufficio che si occupa di notificare atti e eseguire provvedimenti come pignoramenti, sfratti e sequestri. C’è la necessità, poi, di specializzazione ed è praticabile solo in tribunali medio grandi, non potendo un giudice essere tuttologo. Si peggiorerà la situazione di Padova, Vicenza e Treviso prelevandovi magistrati. Poi, le nuove norme impongono maggiori collegi di giudici per decidere: un tribunale piccolo non li può garantire”. “Dl Cutro”, resta vietata l’espulsione se viola la “vita privata e familiare” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 11 novembre 2025 La Cassazione, ordinanza n. 29593 depositata oggi, ha chiarito che la rivisitazione della “protezione complementare” non cancella la tutela dei diritti garantiti dalla Cedu. Il “Dl Cutro”, approvato nel marzo 2023 a ridosso dell’omonima strage di migranti in mare, non impedisce di accordare allo straniero irregolare la cd “protezione complementare” in caso di un effettivo radicamento sul territorio tale da far ritenere che un uso allontanamento possa integrare una violazione del suo diritto alla vita familiare o privata. Lo ha stabilito la Prima sezione civile della Cassazione, con l’ordinanza n. 29593 depositata oggi, affermando un importante principio di diritto al termine di una motivazione lunga 43 pagine. La questione era stata sollevata, in via pregiudiziale, dal Tribunale di Venezia chiamato a decidere sul ricorso di un migrante dal Senegal contro la decisione della Commissione territoriale che aveva stabilito la manifesta infondatezza dell’istanza di protezione internazionale. Il quesito posto, in particolare, verte sulla possibilità di continuare ad accordate tutela alla vita privata e familiare dello straniero anche dopo l’entrata in vigore del Dl n. 20 del 2023 (convertito nella legge n. 50 del 2023) e della conseguente abrogazione dell’art. 19, comma 1.1., terzo e quarto periodo, del TU immigrazione (Dlgs n. 286/1998). Il richiedente lavorava con un contratto a termine ed aveva prodotto le relative buste paga, inoltre frequentava un percorso scolastico presso il Centro provinciale per l’istruzione degli adulti di Padova. Secondo il Tribunale lagunare sebbene “non vi fossero i requisiti per il riconoscimento delle due forme di protezione internazionale” (status di rifugiato, la protezione sussidiaria), la domanda di “protezione complementare” non appariva “sfornita di possibilità di accoglimento sotto il profilo della tutela del diritto alla vita privata e familiare, emergendo dagli atti il radicamento sociale e lavorativo”. Tuttavia, a seguito del Dl Cutro l’interpretazione del quadro normativo si profilava “irta di difficoltà”. Con la Cassazione che ancora non aveva affrontato la questione e le Sezioni specializzate dei Tribunali di merito schierate su posizioni diverse. La protezione complementare, spiega la Corte, è un istituto riconducibile a previsioni dell’ordinamento interno che risponde a esigenze umanitarie, caritatevoli o di altra natura. Ed ha una configurazione autonoma rispetto alle due forme di protezione maggiore (il rifugio e la protezione sussidiaria), il cui perimetro è affidato “ad una clausola di carattere elastico, priva di fattispecie”. Per la Suprema corte, nel tessuto dell’art. 19 del TU, dopo le modifiche del 2023, pur essendo stato espunto il riferimento esplicito al “rispetto della vita privata e familiare dello straniero”, è ancora presente quello agli “obblighi costituzionali e internazionali dello Stato quale limite ad ogni forma di allontanamento della persona straniera, attraverso il richiamo espresso all’art. 5, comma 6, dello stesso T.U.”. E tra questi ultimi va certamente ricompresa la tutela della vita privata e familiare, espressamente considerata dall’art. 8 della Cedu. “Anche nel nuovo ambiente normativo, pertanto - si legge nella decisione -, non sono ammessi il respingimento, l’espulsione e l’estradizione in violazione di obblighi costituzionali o internazionali, giacché la protezione della vita privata e familiare è oggetto di un diritto soggettivo ex art. 8 della Cedu, oltre che attuazione di obblighi costituzionali”. In questo senso, l’abrogazione dei due periodi dell’art. 19 del T.U. volti a specificare i seri motivi inerenti alla vita privata e familiare, riveste, “una portata limitata, perché incide esclusivamente sulla individuazione dei fattori e dei criteri che presiedono al necessario bilanciamento degli interessi in gioco”. Il sistema perde così i tratti di “tipicità normativa” che era venuto ad assumere. E allora l’interprete dovrà “ripercorrere i sentieri tracciati dalla giurisprudenza” e rinvenire, nei criteri elaborati dalla giurisprudenza sovranazionale, le “orme da seguire per riempire di contenuto la formula elastica che egli deve applicare”, così valorizzando “i legami familiari, la durata della presenza della persona sul territorio nazionale, le relazioni sociali intessute, il grado di integrazione lavorativa realizzato”. Sulla stessa linea, del resto, si è mossa anche la Cassazione penale (n. 43082/2024) laddove ha affermato che l’espulsione dello straniero disposta, come misura alternativa alla detenzione, non può trovare applicazione, neppure dopo l’entrata in vigore del Dl n. 20 del 2023, quando si risolva in un’ingerenza nella vita privata e familiare dell’interessato, vietata dall’art. 8 della Cedu, come interpretato dalla Corte Edu. Ogni valutazione andrà tuttavia svolta con “rigore”, perché la condizione di vulnerabilità deve essere “effettiva” sebbene, con riguardo alla integrazione sociale, non si richieda “un percorso interamente compiuto” ma “segni univoci, chiari, precisi e concordanti, nella direzione intrapresa”. Per quanto concerne la vita familiare deve emergere un “comunione” “sufficientemente forte da far ritenere che un allontanamento determini una violazione del diritto alla vita familiare o alla vita privata. Sempre tenendo però in conto primario le esigenze dello Stato ed in particolare il mantenimento dell’ordine e dalla sicurezza pubblica. In definitiva, la rivisitazione, a opera del DL n. 20 del 2023, dell’istituto della protezione complementare “non ha determinato il venir meno della tutela della vita privata e familiare dello straniero che si trova in Italia, tanto più che il tessuto normativo continua a richiedere il rispetto degli obblighi costituzionali e convenzionali”. Ne deriva che la protezione complementare “può essere accordata in presenza di un radicamento del cittadino straniero sul territorio nazionale sufficientemente forte da far ritenere che un suo allontanamento, che non sia imposto da prevalenti ragioni di sicurezza nazionale o di ordine pubblico, determini una violazione del suo diritto alla vita familiare o alla vita privata”. Nessun rilievo ostativo, poi, assume il fatto che tale radicamento “sia avvenuto nel tempo necessario ad esaminare le domande del cittadino straniero di accesso alle protezioni maggiori”. Mentre la tutela della vita privata e familiare “esige una valutazione di proporzionalità e di bilanciamento nel caso concreto, secondo i criteri elaborati dalla Corte Edu e dalla pronuncia a Sezioni Unite 9 settembre 2021, n. 24413, tenendo conto dei legami familiari sviluppati in Italia, della durata della presenza della persona sul territorio nazionale, delle relazioni sociali intessute, del grado di integrazione lavorativa realizzato e del legame con la comunità anche sotto il profilo del necessario rispetto delle sue regole”. Tali elementi vanno messi in comparazione “con l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il paese d’origine e con la gravità delle difficoltà che il richiedente potrebbe incontrare nel paese verso il quale dovrebbe fare rientro”. Palermo. La fattoria, la biblioteca e il caffè: se il carcere sa “Dare” al quartiere di Giorgio Paolucci Avvenire, 11 novembre 2025 “Dare. Devo dare, perché molto ho tolto e molto ho ricevuto. Ho tolto a mia moglie e ai miei figli, ho tolto alla società, ho tolto a me stesso buttando via tanti anni della mia vita. Questo è il tempo della restituzione”. Paolo ha cominciato presto, molto presto, a percorrere la strada del crimine. Complicato, molto complicato mantenere la sua giovanissima famiglia: dopo la fuitina era diventato padre a 16 anni, gli stessi di sua moglie, presto erano nati due figli e i soldi non bastavano mai. E allora comincia la carriera di malavitoso: il primo colpo in banca va a buon fine, poi il guadagno facile gli prende la mano e lui non si tira indietro. Rapine, furti, ricettazione, un cumulo di reati che gli regala 18 anni al carcere Pagliarelli di Palermo. Ed è proprio lì, dove ha toccato il fondo dell’abisso, che comincia la risalita: prende il diploma di scuola media, frequenta corsi di apicoltore e di giardiniere, gli educatori notano il suo cambiamento e scommettono su di lui. Alle spalle aveva solo lavori rigorosamente in nero come fattorino e muratore, è in carcere che prende la prima busta paga regolare come addetto alla tenuta agricola. Poi arriva la proposta di fare volontariato a Danisinni, un rione popolare confinante con il centro storico. È lì che lo incontro per ascoltare la sua storia, una storia che unisce la sua rigenerazione personale a quella di un quartiere “dimenticato” che oggi sta conoscendo una nuova stagione. “Appena arrivato mi hanno affidato l’orto della fattoria comunitaria che stava nascendo su un terreno assegnato in comodato d’uso alla parrocchia di Sant’Agnese. Grazie alle competenze acquisite in carcere sapevo usare la motozappa e il trattore e avevo buone conoscenze agrarie, ma rimasi sorpreso nel vedermi proporre una responsabilità così grande. Non ci potevo credere, ma anche qui c’era qualcuno che stava scommettendo su di me”. In breve tempo Paolo prende in mano i lavori di ristrutturazione di un ex garage di mille metri quadrati destinato a ospitare tante attività al servizio del quartiere: un poliambulatorio medico, un segretariato sociale, laboratori di pittura e di ceramica, una palestra popolare intitolata a don Puglisi e nata dal desiderio di offrire ai giovani un’alternativa alla strada. La gestione è affidata a una cooperativa che in un acronimo ne racchiude il senso: si chiama Dare (Danisinni, Arte, Rigenerazione, Ecosostenibilità), lui è tra i soci fondatori. “Dare è il nome della cooperativa, dare è diventato lo scopo della mia vita ed è anche lo spirito che anima le persone che si sono coinvolte in questa avventura: volontari, pensionati, giovani, professionisti che offrono tempo e competenze, un popolo che sta cambiando il volto del quartiere, grazie alla guida appassionata di una persona che ha ridato fiducia a questa gente”. Paolo indica un frate cappuccino che viene verso di noi salutandoci con l’immancabile “pace e bene”. Fra’ Mauro Billetta è il parroco della piccola chiesa di Sant’Agnese, da sempre assegnata ai francescani. È arrivato a Danisinni nel 2013 insieme a due confratelli e a due suore, si è messo al servizio delle necessità (tante) della gente, attorno a lui in questi anni è cresciuta una comunità generatrice di una miriade di iniziative che stanno trasformando il rione: una fattoria didattica con tanti animali, un orto sociale, la biblioteca con il centro di aiuto allo studio, il Caffè letterario, il “Villaggio per crescere” dedicato alla prima infanzia, la sede della Caritas che insieme al Banco Alimentare sostiene le necessità di 500 famiglie, botteghe di artigianato, perfino un B&B per chi vuole fare “turismo esperienziale” immergendosi nella vita di questo quartiere che affonda le sue radici nell’epoca arabo-normanna. Dentro la fattoria si è insediato Chapitò Danisinni, un tendone da circo gestito da un collettivo di artisti che si sono coinvolti nel progetto di rigenerazione, dove propongono spettacoli e laboratori che attirano gente da tutta la città. “Fino a pochi anni fa la maggior parte dei palermitani ignorava perfino l’esistenza di Danisinni - racconta fra’ Mauro -, ma oggi le cose stanno cambiando. Qui ci troviamo nel cuore della città: a poche centinaia di metri trovi la cattedrale e Palazzo dei Normanni, ma siamo un’enclave dentro un’area di depressione geofisica situata su un piano più basso rispetto alla città. È una realtà “invisibile”, trascurata da sempre dalle amministrazioni che si sono succedute, ma che ora ha acquisito visibilità fino a diventare luogo di passaggio per i turisti, inserito nell’itinerario dei luoghi palermitani segnalati dall’Unesco. Vedi quella scala là in fondo? Risale alla dominazione araba, è stata ristrutturata e ora è un punto di transito pedonale verso il Castello della Zisa, una delle mete più frequentate della città. Muri e terrazze delle abitazioni sono stati abbelliti dai murales di Igor Scalisi Palminteri, street artist di fama nazionale, c’è gente che viene fin qui per vederli. L’asilo nido - unico presidio sociale insieme alla parrocchia - rischiava la demolizione ma è stato sottratto al degrado diventando un centro educativo al servizio delle famiglie, nel giardino attiguo avevamo realizzato un biostagno facendo riemergere le acque del fiume Papireto che era stato interrato, poi vi sono state piantumate delle piante di papiro recuperando la memoria storica dell’area. Grazie alla riscoperta delle radici di questo luogo e alla nascita di iniziative sociali, artistiche e culturali che coinvolgono 200 volontari sta tornando la bellezza. E la bellezza è l’arma più potente per combattere la rassegnazione”. C’è chi ha creduto in questo esperimento di rigenerazione urbana e umana, come alcune fondazioni (Azimut e Peppino Vismara di Milano) che hanno messo a disposizione i finanziamenti necessari per avviare i progetti e garantire sostenibilità alla sfida in cui si è cimentata la comunità. E così negli anni ha preso forma quello che fra’ Mauro definisce “un villaggio circolare”, dove ognuno porta un contributo alla rinascita del quartiere: “Viviamo un’epoca di iperconnessione tecnologica, in cui si moltiplicano le solitudini esistenziali e i fenomeni di emarginazione. Qui coltiviamo la logica della fraternità evangelica che ho imparato da San Francesco, ognuno si sente responsabile del luogo in cui vive e anche gli esclusi trovano posto, come i 70 carcerati che vengono a fare volontariato in alternativa alla detenzione. C’è ancora tanta povertà, economica e educativa, ma la gente sta ritrovando fiducia e vive un forte senso comunitario che è un antidoto potente per combattere il degrado”. Pochi giorni fa Paolo ha fatto un altro “upgrade”: ha ottenuto l’affidamento, dopo 18 anni di notti passate in carcere può tornare a dormire a casa sua, è un ulteriore passo avanti verso il “fine pena” che dovrebbe arrivare tra due anni. Pur non essendo originario del quartiere, si considera figlio di questa comunità dove la sua esistenza è ripartita. Oggi è responsabile della squadra di manutentori che stanno ultimando i locali dove verranno ospitate le attività in gestazione, il figlio Michele ha imparato il mestiere affiancando il padre in cantiere, ora è presidente della cooperativa Dare. “Anche questa è una scommessa vinta: Michele non ha guardato il mio passato, mi ha seguito sulla strada buona che sto percorrendo”. Sulla “strada buona” Paolo ha incontrato persone che hanno creduto in lui, anzitutto gli educatori del carcere e fra’ Mauro, “un testimone del Vangelo che mi ha contagiato con la sua fede semplice e incarnata”. E ha incontrato anche chi l’aveva guardato con scetticismo: come Salvo, un carabiniere in pensione, volontario “storico” del quartiere. “Quando te ne andrai da qui, scommetto che tornerai a fare la vita di prima”, aveva profetizzato il giorno del suo arrivo. Otto anni dopo, Paolo non se n’è andato, Danisinni è diventata la sua seconda casa e Salvo il suo migliore amico. Un’altra scommessa vinta. Monza. Formazione in carcere con il progetto “Seminare opportunità” unimi.it, 11 novembre 2025 L’iniziativa del dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali promuove l’inclusione sociale e l’avviamento al lavoro. Unire conoscenza, inclusione sociale e avviamento al lavoro sono gli obiettivi del progetto di Terza Missione del dipartimento Scienze Agrarie e Ambientali dell’Università Statale di Milano “Progettare il Verde, Seminare Opportunità”, all’interno della Casa Circondariale di Monza. Il team del dipartimento, composto dalle docenti Barbara Scaglia e Fulvia Tambone e dal personale tecnico amministrativo del dipartimento, proporrà ai detenuti una serie di incontri e attività con al centro temi quali la conoscenza del suolo, le tecniche di coltivazione e potatura, il compostaggio, la progettazione di aree verdi, fino all’approfondimento del legame tra qualità degli ortaggi e salute umana. La collaborazione prevede incontri settimanali (di circa due ore) in cui si alternano lezioni teoriche in aula ad esercitazioni di quanto spiegato nella serra e nelle aree verdi dell’Istituto, già adibite ad orto. “Il nostro progetto - spiegano i docenti e il personale del dipartimento coinvolti - porta l’agricoltura e la progettazione del verde all’interno del carcere di Monza e mira a trasformare la conoscenza in attività destinate ai detenuti. Con un approccio multidisciplinare, il personale del dipartimento aprirà spazi di dialogo e crescita anche professionale e una speranza di reinserimento sociale, promuovendo dignità e responsabilità attraverso la produzione di ortaggi e frutti, la pratica del compostaggio e la progettazione del verde. Cerchiamo di costruire ponti tra Università, comunità e istituzioni”. Cosima Buccoliero, direttrice della Casa Circondariale, in collaborazione con il Comune di Monza, ha sostenuto l’iniziativa con grande interesse per offrire nuove opportunità di reinserimento sociale e lavorativo e, al tempo stesso, valorizzare e riqualificare l’ambiente ed il contesto carcerario attraverso la conoscenza e la pratica agricola. Il progetto si concluderà nei primi mesi del 2026, con l’obiettivo di gettare le basi per lo sviluppo di attività lavorative agricole nell’Istituto e fornendo un modello replicabile di formazione agro-ambientale, da estendere ad altri Istituti penitenziari della Regione Lombardia. Busto Arsizio. Una serata per parlare di reinserimento lavorativo dei detenuti di Lorenzo Giglio primasaronno.it, 11 novembre 2025 Nel corso della serata, verranno affrontati diversi aspetti tra cui il quadro normativo che regola il lavoro dei detenuti e le prospettive di riforma. Favorire il reinserimento lavorativo delle persone detenute non è solo un obiettivo di giustizia sociale, ma anche un investimento sulla sicurezza collettiva. È questo il tema al centro del convegno “Carcere e Lavoro - Come Ricominciare”, promosso da Azione con il sostegno dell’Associazione Culturale Politicamente, in programma giovedì 13 novembre alle ore 21 a Villa Calcaterra di Busto Arsizio. L’incontro intende approfondire il ruolo del lavoro come strumento fondamentale per la rieducazione e il reinserimento sociale di chi ha scontato una pena, e discutere le condizioni necessarie affinché questo obiettivo diventi realmente possibile. Nel corso della serata, verranno affrontati diversi aspetti tra cui il quadro normativo che regola il lavoro dei detenuti e le prospettive di riforma, la necessità di rafforzare il dialogo con il mondo imprenditoriale e artigianale del territorio e il ruolo fondamentale delle associazioni che operano a supporto delle persone detenute e delle loro famiglie. Un’attenzione particolare sarà dedicata alla Casa Circondariale di Busto Arsizio, dove esperienze come il laboratorio di cioccolateria dimostrano che, quando esistono collaborazione e volontà, è possibile costruire percorsi di lavoro efficaci. Uno sguardo sul sistema penitenziario - Nel dibattito, che vedrà gli interventi di Fabrizio Benzoni, deputato e segretario lombardo di Azione, Don David Maria Riboldi, cappellano della Casa Circondariale di Busto Arsizio, Angelo Urso, ex ispettore della Polizia Penitenziaria e Sonia Serati, consigliere comunale di Gallarate, moderati dal giornalista Andrea Aliverti di Malpensa24, non mancherà uno sguardo realistico sulle difficoltà e le opportunità del sistema penitenziario. L’incontro è aperto al pubblico e si inserisce nel percorso di riflessione e proposta che Azione sta portando avanti sui temi della giustizia, del lavoro e della coesione sociale, con l’obiettivo di promuovere un approccio pragmatico, umano e responsabile alle sfide del reinserimento. Siracusa. “Carcere e Lavoro, gli strumenti disponili”: convegno il 12 novembre siracusapost.com, 11 novembre 2025 Sarà presentato il Protocollo sottoscritto dal Ministero della Giustizia e Confcooperative Federsolidarietà. “Carcere e Lavoro: gli strumenti disponibili”: è il tema di un convegno organizzato da Confcooperative Federsolidarietà Sicilia- con il sostegno della sede territoriale di Confcooperative Sicilia di Siracusa - e dalla Cooperativa Sociale L’Arcolaio, per mercoledì 12 novembre 2025 alle ore 9:30 presso la Sala Conferenze dell’Urban Center. Nel corso dell’incontro sarà presentato il Protocollo d’Intesa sottoscritto dal Ministero della Giustizia- Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Confcooperative- Federsolidarietà e rinnovato lo scorso novembre. Partendo dal dato secondo il quale per i detenuti che lavorano con le cooperative sociali in carcere, il rischio di recidiva si abbassa dal 70-80% a meno del 10%, il Protocollo ha lo scopo di promuovere lo sviluppo di opportunità lavorative, di formazione e di inclusione sociale a favore della popolazione detenuta negli istituti penitenziari e di valorizzare le misure alternative. Prevede l’istituzione di un tavolo tecnico nazionale che, tra le attività condotte, elabora modelli di convenzioni da mettere a disposizione dei territori, per l’avvio di attività di recupero sociale e inserimento lavorativo. Con altri soggetti, pubblici e privati, si promuovono iniziative, nelle carceri, per favorire l’acquisizione di esperienze e competenze da parte dell’utenza penitenziaria e agevolare il concreto inserimento in contesti lavorativi rispondenti ai criteri d’impresa, con l’obiettivo di potersi muovere, dunque, al di fuori di forme assistenziali. Emblematica l’esperienza della cooperativa L’Arcolaio, che sarà illustrata dalla responsabile dell’Area Sociale, Giovanna Di Girolamo. Dopo i saluti istituzionali del presidente di Confcooperative Sicilia, Gaetano Mancini, del sindaco di Siracusa, Francesco Italia, del presidente del Libero Consorzio Comunale, Michelangelo Giansiracusa e dell’Arcivescovo di Siracusa. Mons. Francesco Lomanto, introdurrà i lavori il presidente di Confcooperative Federsolidarietà Sicilia, Salvo Litrico, a cui è stata affidata la presentazione del protocollo tra il Dap e Confcooperative Federsolidarietà. Interverranno, subito dopo: Filippo Giordano, componente del Segretariato CNEL Lavoro In Carcere e Docente dell’Università LUMSA, che affronterà il tema “Recidiva Zero: la sostenibilità delle imprese sociali dentro il carcere per abbattere la recidiva”, Elisabetta Zito, Dirigente del Penitenziario e Vicario del Provveditore (PRAP Palermo). Parlerà di Lavoro intra moenia: prospettive di sviluppo per le carceri siciliane. Seguirà un talk sul lavoro come possibilità per ripartire con Gabriella Picco, Direttrice ULEPE Siracusa, Giovanni Villari, Garante dei Diritti dei Detenuti del Comune di Siracusa, Giuseppe Pisano, Presidente della Cooperativa Sociale L’Arcolaio. Il convegno sarà anche un momento di approfondimento sulle buone pratiche in Sicilia, segnatamente quelle delle cooperative “L’Arcolaio” a Siracusa e “Sprigioniamo Sapori” a Ragusa. Le conclusioni saranno affidate al Presidente Nazionale di Confcooperative Federsolidarietà, Stefano Granata. Venezia. Le detenute fanno da guide di una mostra sulla libertà gnewsonline.it, 11 novembre 2025 Le donne detenute della Giudecca protagoniste della mostra “Dipingiamo la Libertà a Venezia”. Vestiranno di panni di guide dal 13 al 17 novembre, presso la scuola grande di San Teodoro, per l’esposizione di quadri promossa dall’associazione Venezia pesce di pace. Cinque donne che, per cinque giorni, si legge nel comunicato, “accompagneranno i visitatori tra tele e colori, bozzetti e dipinti spiegando non solo le loro opere ma anche la nascita di un progetto culturale ed educativo che ha unito studenti e recluse, dentro e fuori le mura”. Il progetto, partito a gennaio, vede coinvolte 38 detenute, in collaborazione con studenti e studentesse del liceo artistico Marco Polo e della scuola media Francesco Morosini. Sia le recluse che ragazze e ragazzi delle scuole hanno fatto la loro parte nei dipinti in mostra, creando i bozzetti e dipingendo. Il progetto è stato fortemente sostenuto dalle direttrici del carcere femminile della Giudecca: prima Mariagrazia Bregoli, ora Maurizia Campobasso. “Dipingiamo la Libertà a Venezia” ricorda anche i 300 anni dalla nascita di Giacomo Casanova, veneziano purosangue il cui estro lo rende uno dei personaggi più amati di sempre. Durante i quattro giorni, alcuni locali offriranno i pranzi alle detenute impegnate come guide, a testimonianza del sostegno della città ai percorsi di inclusione e rinascita. “Venezia, città di ponti e non di muri, si conferma unita nell’arte e nell’umanità e quando l’arte incontro la solidarietà la libertà diventa di tutti”, conclude il comunicato. Il progetto è sostenuto dalla fondazione Archivio Vittorio Cini, BCC Veneta e azienda Photo Know How. Palermo. “Cosmogonie”: il teatro dei detenuti del Pagliarelli tra mito e rinascita siciliafan.it, 11 novembre 2025 Lo spettacolo “Cosmogonie. Variazioni sull’uomo” porta il teatro dentro il carcere Pagliarelli di Palermo: arte, rinascita e umanità tra le mura. Un’esperienza teatrale intensa e simbolica prende vita all’interno della Casa Circondariale Pagliarelli “Antonio Lorusso” di Palermo. Si tratta di “Cosmogonie. Variazioni sull’uomo”, il nuovo spettacolo della Compagnia del Teatro Baccanica, che andrà in scena martedì 12 novembre alle ore 16, con la regia di Daniela Mangiacavallo e i costumi di Roberta Barraja. L’opera rappresenta la conclusione di un percorso teatrale annuale svolto all’interno del progetto “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, promosso da Fondazione ACRI e giunto alla sua ottava edizione. Lo spettacolo è inserito nella programmazione del Prima Onda Festival Approdi, rassegna che valorizza le esperienze artistiche nate nelle periferie e ai margini, riconoscendo all’arte scenica un ruolo trasformativo e comunitario. In scena, insieme agli attori detenuti, si esibiranno le attrici Fabiola Arculeo, Alba Sofia Vella, Marzia Coniglio, Antonella Sampino e Oriana Billeci. Le loro interpretazioni danno vita a un intreccio di corpi, voci e linguaggi che esplora le molteplici “variazioni” dell’essere umano, tra fragilità, desiderio e rinascita. “Cosmogonie” è definito come un atto corale di teatro civile e poetico, una riflessione sull’origine e sul destino umano attraverso il linguaggio simbolico del mito e la forza espressiva del gruppo teatrale nato all’interno del carcere. “Il teatro in carcere è un atto sacro - afferma la regista Daniela Mangiacavallo - che permette di innescare un processo di trasformazione dell’attore e dello spettatore insieme, li prende per mano e li accompagna in un mondo possibile anche quando tutto intorno sembra immobile”. Collaborazioni e sostegno istituzionale - L’iniziativa è resa possibile grazie alla collaborazione e alla disponibilità della Direttrice della Casa Circondariale Pagliarelli, Maria Luisa Malato, del Comandante della Polizia Penitenziaria, Giuseppe Rizzo, del Capo Area Educativa, Rosaria Puleo, della Dott.ssa Alba Petruso, referente FGP per le attività, e dell’Assistente Capo della Polizia Penitenziaria, Vincenzo Caruso. Un impegno corale che conferma la volontà di trasformare il teatro in carcere in un luogo di libertà interiore, dialogo e rinascita. Salute mentale. Dopo l’aggressione a Milano l’appello di educatori ed esperti di Simona Silvestro* Corriere della Sera, 11 novembre 2025 I centri psicosociali sono sotto pressione perché manca personale e l’approccio resta soprattutto farmacologico. Serve il budget di salute che consente interventi integrati su formazione, lavoro, abitare e relazioni. L’aggressione avvenuta in piazza Gae Aulenti, a Milano, ha riacceso il dibattito sulla salute mentale. Come operatori del settore sentiamo il bisogno di riaffermare un principio: le persone con problematiche psichiche non vanno confuse con chi commette reati, né descritte come soggetti a rischio di violenza imprevedibile. Questa sovrapposizione alimenta la stigmatizzazione e rischia di cancellare il lungo lavoro che è servito per costruire una cultura della cura e dell’inclusione. I casi come quello di Milano sono episodi isolati che dovrebbero piuttosto spingerci a riflettere sullo stato della sanità territoriale, oggi in grave difficoltà per la carenza di risorse e personale. Garantire sicurezza e cura per tutti significa investire in servizi capillari e accessibili, non tornare a modelli del passato, agli invocati manicomi. I Centri psico-sociali (Cps) sono sotto pressione: mancano psichiatri, educatori e psicologi stabilmente inseriti negli staff, mentre l’approccio resta prevalentemente farmacologico. Anche i percorsi di reinserimento dal carcere al territorio restano complessi, specie per chi ha disturbi di personalità o tossicodipendenze. Servono più posti in comunità terapeutiche, fondi e progetti personalizzati di recupero. Uno strumento chiave in questa direzione è il “Budget di salute”, che consente interventi integrati su formazione, lavoro, abitare e relazioni. A Milano il progetto “R3: Insieme per la recovery”, nato dalla collaborazione tra Comune e 17 Enti del terzo settore, rappresenta un modello virtuoso in questo senso, un segno tangibile che le soluzioni ci sono e con l’impegno di tutti funzionano. L’Ordine degli Psicologi della Lombardia ha inoltre creato un gruppo di lavoro sulla psicologia penitenziaria con esperti delle Asst, del ministero della Giustizia e del Terzo settore. Perché la salute mentale non è una questione di ordine pubblico, ma un diritto da tutelare con competenza, risorse e umanità. *Ordine Psicologi della Lombardia-Osservatorio Salute Mentale Educazione. I giovani e i miti: la storia non digerita di Dacia Maraini Corriere della Sera, 11 novembre 2025 In molte scuole dove vado a parlare coi ragazzi, mi dicono spesso che non hanno studiato il fascismo e l’ultima guerra mondiale. E perché? Non perché sia proibito ma perché non sono arrivati in tempo. Questa la risposta. È probabile che in questo ritardo ci sia una qualche preoccupazione da parte degli insegnanti di affrontare un periodo storico ancora troppo vicino e suscitare reazioni imprevedibili nei parenti altrettanto ignoranti dei loro figli. I fenomeni di intolleranza contro la democrazia, il ritorno delle svastiche sui muri, il saluto a braccio teso fanno indignare chi crede nella democrazia faticosamente guadagnata con il sacrificio di tanti. Ma da dove viene questo rigurgito di storia non digerita? Perché vediamo l’esaltazione soprattutto dei giovani? E subito viene da chiedersi: ma se questi entusiasti conoscessero nei particolari la storia del nostro Paese, i vent’anni di dittatura, la furia di chi ha voluto mettere a tacere ogni dissidenza, di chi ha mandato a morte tanti innocenti per il solo fatto che criticavano il regime, sarebbero ancora lì ad alzare le braccia in un saluto che si riferisce a un mito virtuale e malinteso? Se a scuola si mostrassero i camion pieni di esaltati che andavano a picchiare gli operai nelle case del popolo, se si mostrassero le immagini dei soldati mandati a combattere in guerre feroci con le scarpe rotte e le armi antiquate, se si potesse assistere anche solo per memoria fotografica alle imprese violente degli squadristi che si accanivano su corpi inermi, se potessero rivedere le scene di quelle scuole in cui da un giorno all’altro venivano cacciati via i bambini non cattolici, se potessero conoscere nei particolari il rapimento e l’uccisione a coltellate di un deputato come Matteotti solo perché aveva criticato la politica del regime, e assistere alle selvagge bastonate che hanno portato a morte il giovane Gobetti, veramente questi giovani inneggerebbero al fascismo? Ho troppa stima dell’essere umano per pensare che ci si schieri, una volta dentro la piena conoscenza dei fatti, dalla parte di chi praticava la violenza come sistema e calpestava le più semplici regole della convivenza. In molte scuole dove vado a parlare coi ragazzi, mi dicono spesso che non hanno studiato il fascismo e l’ultima guerra mondiale. E perché? Non perché sia proibito ma perché non sono arrivati in tempo. Questa la risposta. È probabile che in questo ritardo ci sia una qualche preoccupazione da parte degli insegnanti di affrontare un periodo storico ancora troppo vicino e suscitare reazioni imprevedibili nei parenti altrettanto ignoranti dei loro figli. Ma chi ha una minima conoscenza della storia italiana che ha portato a una guerra deleteria, che ha appestato il Paese nella sua accettazione dei delitti di Hitler, non può aderire alla esaltazione di un mito astratto e retorico. E si dicono anche cristiani. Ma qualcuno di loro ha mai letto il Vangelo? Educazione sessuale a scuola, la Lega “rinuncia” al divieto alle medie di Davide Varì Il Dubbio, 11 novembre 2025 Dietrofront della Lega sull’educazione sessuale nelle scuole. Nell’emendamento al ddl Valditara che sarà presentata in Aula a Montecitorio dal Carroccio, cade il divieto di svolgere “attività didattiche e progettuali nonché ogni altra eventuale attività aventi ad oggetto temi attinenti all’ambito della sessualità” alle medie, limitandolo solo alla scuola dell’infanzia e alle elementari. Per gli studenti più grandi resta comunque necessario il consenso dei genitori. “Fermo restando quanto previsto dalle Indicazioni nazionali adottate ai sensi dell’articolo 1 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 2009, n. 89, per la scuola dell’infanzia e la scuola primaria sono escluse, in ogni caso, le attività didattiche e progettuali nonché ogni altra eventuale attività aventi ad oggetto temi attinenti all’ambito della sessualità”, si legge nel testo dell’emendamento che sarà votato dall’assemblea di Montecitorio. Il ddl è in prima lettura alla Camera e poi passerà al Senato. “Il ddl sul consenso informato - spiega il relatore leghista Rossano Sasso - non vieta l’educazione sessuale, che è già previsto nelle indicazioni nazionali. Giusto che a scuola si parli con adolescenti e ragazzi di malattie sessualmente trasmissibili, di gravidanze indesiderate e di educazione all’affettività e al rispetto. Questo lo si fa già e anzi, il ministro Valditara lo sta potenziando”. “Quello che vietiamo - aggiunge - sono le distorsioni ideologiche care alla sinistra: grazie a questa legge fortemente voluta dalla Lega, non potranno più entrare a scuola attivisti ideologizzati trans e Lgbt, drag queen, porno attori (tutto realmente già accaduto) privi di competenze pedagogiche, per parlare a bambini e ragazzi di fluidità di genere, di utero in affitto e di confusione sessuale. Per i ragazzi più grandi chiediamo solo che le famiglie vengano informate preventivamente su contenuti, relatori e materiale didattico utilizzato”. “Il divieto decade, ma comunque, come per il liceo, servirà il consenso informato dei genitori, che dovranno addirittura conoscere i temi e il materiale didattico. E’ un passo indietro evidente, ottenuto grazie all’impegno strenuo del Pd e delle opposizioni alla Camera. Resta però la gravità del ddl Valditara: prevedere il consenso informato dei genitori per l’educazione sessuo-affettiva e al rispetto della differenza di genere è assurdo. L’esperienza fa dire tra l’altro che proprio laddove il consenso può venire negato può annidarsi un problema. E attenzione allo spauracchio del gender, non venga utilizzato dalla destra per sottrarsi dalla necessità di fare prevenzione vera della violenza contro le donne. Tutto questo avviene tra l’altro in barba anche all’autonomia scolastica e alla libertà di insegnamento. Ma vogliamo cambiarla la cultura sessista o no? Di cosa ha davvero paura il centrodestra?”, avverte la senatrice del Pd Valeria Valente. “Alla fine, la destra è stata costretta a tornare indietro. Dopo settimane di polemiche, critiche da parte del mondo della scuola, delle associazioni, degli psicologi e di chiunque avesse a cuore la formazione dei ragazzi, cade il divieto di introdurre percorsi di educazione sessuale nelle scuole secondarie di primo grado. La Lega ha infatti annunciato il deposito di un emendamento correttivo rispetto al testo approvato in commissione. È una marcia indietro evidente, un passo obbligato dopo le proteste unanimi contro una misura priva di senso, ideologica e dannosa”, dice Irene Manzi, responsabile nazionale scuola del Pd. La maggioranza “si è svegliata di colpo sull’educazione affettiva e sessuale con un correttivo dell’ultimo minuto non per convinzione, ma per pura pressione. Non è illuminazione, è paura di un autogol politico. Grazie al rumore che abbiamo fatto anche in Aula oggi, la platea degli studenti che avranno almeno la possibilità di avere accesso a questa informazione fondamentale, è stata ampliata alla scuola secondaria di primo grado. Ma non illudiamoci: il requisito del consenso dei genitori resta una clausola che permette ai contrari di negare ai propri figli un diritto essenziale. Hanno comunque dovuto cedere su qualcosa. La nostra insistenza paga, ma la lotta continua per un’educazione sessuale inclusiva-strutturale e non bloccabile dai veti ideologici”, commenta la deputata del Movimento cinque stelle, Daniela Morfino.