Il desiderio soffocato: il carcere e le “stanze dell’affettività” di Ivana Di Giugno gnewsonline.it, 10 novembre 2025 Un locale di circa quindici metri quadrati, una camera da letto con un bagno, è la stanza dell’affettività che, nel carcere Lo Russo e Cotugno, si appresta ad ospitare gli incontri tra le persone recluse e i loro partner. A partire dal primo novembre è pronta ad accogliere i detenuti ristretti nella casa circondariale torinese e negli altri istituti penitenziari del Piemonte e della Valle D’Aosta. La sperimentazione tenta di rispondere ad un bisogno fondamentale dell’essere umano, a un diritto riconosciuto recentemente, nel nostro Paese, da un provvedimento della Corte costituzionale (la sentenza n.10 del 26 gennaio 2024), che dichiara illegittimo l’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, ravvisando nel carattere inderogabile dei controlli a vista sullo svolgimento dei colloqui dei detenuti un divieto assoluto all’affettività e all’intimità sessuale. La prescrizione, stabilisce la Consulta, “si risolve in una compressione sproporzionata e in un sacrificio irragionevole della dignità della persona, quindi in una violazione dell’articolo 3 della Costituzione”. La previsione di colloqui intimi è stata recepita dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che, intervenendo sulla materia, ha stilato, in data 11 aprile 2025, delle linee guida per “individuare spazi anche temporanei idonei, da adattare all’interno delle strutture penitenziarie, con garanzie minime di riservatezza, e dunque senza il controllo della polizia penitenziaria”. Da uno studio effettuato dal D.A.P. su dati aggiornati a fine dicembre 2024 risulta che la platea degli aventi diritto è di quasi diciassettemila persone. Secondo le citate linee guida, siglate dall’allora Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Lina Di Domenico, sono esclusi i detenuti che abbiano commesso violazioni delle norme disciplinari e coloro che possano determinare un rischio per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza. I Provveditori Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria si incaricheranno di individuare le strutture dotate di locali idonei e di adottare le misure organizzative necessarie per garantire l’esercizio del diritto, anche in istituti della regione diversi da quelli in cui è ristretto il detenuto. Ai fini della tutela dell’incolumità delle persone presenti nel carcere, sarà predisposto un sistema di videosorveglianza delle zone esterne alla “stanza dell’affettività”, e gli operatori penitenziari avranno cura di accompagnare sia i detenuti che i loro ospiti fino ai locali destinati ai colloqui intimi. Per le stesse ragioni, non potrà essere consentita la chiusura dall’interno della porta di accesso del locale. Diletta Berardinelli, la nuova garante comunale dei detenuti di Torino, sentita da Caterina Stamin, per un articolo della Stampa pubblicato il 20 ottobre 2025, plaude al considerevole “sforzo organizzativo” che accompagna l’evento previsto nel carcere Lo Russo e Cotugno. L’apertura della “stanza dell’affettività” è, per la garante, ancora più lodevole, se si pensa alle difficoltà che vive l’istituto torinese: problemi strutturali all’attenzione delle istituzioni, come il sovraffollamento e l’insufficienza di personale. Si tratta - dichiara Berardinelli alla giornalista - di “un passo importante verso un sistema penitenziario più attento ai bisogni affettivi e familiari delle persone ristrette”. La garante auspica che l’Italia guardi al resto dell’Europa, al fine di interpretare in senso più ampio questo tema. Berardinelli chiarisce a Caterina Stamin che in molti Paesi europei “l’affettività è riconosciuta e valorizzata in tutte le sue dimensioni, anche attraverso il mantenimento dei legami familiari”. Una prospettiva transnazionale è presente, del resto, nelle premesse della predetta sentenza della Corte costituzionale, dove si dice che “una larga maggioranza di ordinamenti europei riconosce ai detenuti spazi più o meno ampi di espressione dell’affettività intramuraria, inclusa la sessualità”. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in effetti, pur non obbligando gli Stati all’ adozione di soluzioni attuative del dettato legislativo che riconosce le coniugal visits, ha sottolineato come si tratti di un orientamento conforme alla tutela dei diritti e delle libertà previsti dalla Convenzione. Se nella grande maggioranza dei Paesi europei (trentuno dei quarantasette che compongono il Consiglio d’Europa) e in diversi altri Paesi del mondo la possibilità dei colloqui intimi rappresenta una realtà consolidata, il panorama internazionale offre una varietà di soluzioni e modalità. In Italia, se si prescinde da limitazioni di carattere securitario, i colloqui intimi possono avvenire solo con il coniuge, con la persona parte dell’unione civile, o con quella convivente stabilmente, attestata da certificazione. Diversa, per esempio, è la situazione in Spagna, dove le comunicationes intimas sono previste con qualsiasi persona ammessa a svolgere i colloqui ordinari con il detenuto: può trattarsi di una persona legata da vincoli familiari, ma anche di qualcuno che vanti un semplice rapporto affettivo. Altra questione riguarda i beneficiari del diritto. In Italia le restrizioni si limitano ai soggetti in misura detentiva speciale (il regime previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, introdotto per contrastare la criminalità organizzata) e a coloro la cui condotta ponga questioni di sicurezza ed ordine pubblico. Il numero di coloro che possono accedere ai colloqui intimi è, dunque, molto alto, ma la possibilità di usufruirne è condizionata dall’esiguo numero degli spazi dedicati ai contatti riservati. La precedenza va a chi non beneficia dei permessi premio, che consentono di coltivare l’affettività all’esterno, a chi è stato condannato a pene di lunga durata, o si trovi in carcere da molto tempo. In Olanda, anziché provvedere ad una vera e propria “graduatoria di accesso”, al fine di consentire le visite intime al maggior numero possibile di detenuti, si è scelto di utilizzare, oltre a locali appositi, anche le celle. Una vera e propria alternativa all’ambiente detentivo si è voluta sperimentare, invece, in altri Paesi, come la Francia, la Svezia, la Germania, dove ai colloqui riservati sono stati destinati piccoli appartamenti, strutturati in ambienti domestici diversi, talvolta con un piccolo spazio esterno, per creare ritagli di una normale quotidianità affettiva. Quanto alla durata degli incontri con il partner, in Italia il colloquio intimo, reso difficoltoso dalla scarsa disponibilità degli spazi, non può superare le due ore, quando in altri Paesi occidentali gli incontri riservati si protraggono anche per diversi giorni. È il caso del Canada, dove le visite, che si si svolgono in apposite unità abitative mobili esterne al carcere, possono durare fino a settantadue ore. Grazie alle private family visits non sono mancati casi di gravidanza tra le donne detenute o le compagne di uomini reclusi, consentendo alle persone private della libertà di preservare i legami familiari e le capacità parentali. Il sentimento di inutilità che pervade chi è ristretto è spesso acuito dalla mancanza di una prospettiva futura, uno stato che sottrae significato ad ogni progettualità. La realizzazione di un programma di genitorialità si coniuga sovente alla possibilità di accedere ad uno spazio interiore nuovo, dove persino le attività intramurarie del detenuto acquistano senso, divenendo presupposto per immaginare una vita diversa. E frammenti di una vita diversa, che stimolino comportamenti costruttivi, è quella che possono sperimentare i detenuti degli istituti penitenziari della Confederazione Elvetica, dove i locali per gli incontri intimi sono spesso ubicati in confortevoli chalet in pietra posti in mezzo al verde; assaporare momenti di serenità e gioia aiuta ad ideare modelli esistenziali alternativi, favorendo l’impegno del detenuto verso una sua riabilitazione sociale. L’evento della casa circondariale di Torino segue l’esperienza di Padova, Terni e Parma. Nella Casa di Reclusione di Parma la direttrice Maria Gabriella Lusi ha disposto l’apertura di locali riservati ai colloqui intimi in seguito all’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza, che si è pronunciato in favore dell’applicazione della sentenza della Corte costituzionale, dopo il reclamo presentato da alcuni detenuti dell’istituto. La data di inizio è stata il 6 ottobre u.s. e si è deciso di consentire gli incontri ogni lunedì, con tre turni di due ore ciascuno, intervallati da una pausa di mezzora per le operazioni di igienizzazione. Finora i detenuti ammessi non sono stati in gran numero, ma è stata redatto un calendario che consenta agli aventi diritto di disporre della “stanza dell’affettività” nel più breve tempo possibile. Anche per i detenuti di Terni e Parma l’accesso ai colloqui intimi si è reso possibile grazie all’intervento della magistratura di sorveglianza, che ha risposto ai reclami di singole persone recluse, imponendo ai due istituti di organizzarsi per soddisfare la richiesta dei detenuti. Casi isolati, dunque, che aprono la strada ad un sistema articolato e stabile, che non tarderà a realizzarsi. L’impoverimento esistenziale connesso allo stato di detenzione ha a che fare anche con la privazione delle relazioni affettive e sessuali, una condizione di repressione emotiva e di “spersonalizzazione”. Questa circostanza, che si somma alla pena vera e propria, divenendone un’ombra inalienabile, si ripercuote negativamente sulla salute individuale del recluso e sul clima generale dell’ambiente detentivo. L’annullamento di un’esigenza umana primaria, come quella del contatto intimo, crea malessere nel singolo e conflittualità nell’ambiente di reclusione. Far uscire il detenuto dall’isolamento diviene, per il sistema carcerario, una priorità. “Solo attraverso la cura delle relazioni e la possibilità di vivere momenti di normalità affettiva si può realmente costruire un percorso di reinserimento sociale e umano”, conclude la garante dei detenuti del Comune di Torino, intervistata da Caterina Stamin. Fare teatro in carcere? Con la nuova circolare Dap sarà più difficile di Alessandra Vescio marieclaire.it, 10 novembre 2025 Una nuova circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha stabilito che per organizzare attività culturali ed educative all’interno delle carceri bisognerà chiedere l’autorizzazione non più alla direzione dei singoli istituti, ma al Dap stesso. La nuova indicazione riguarda le carceri che hanno al loro interno sezioni dell’Alta Sicurezza e dove si trovano collaboratori di giustizia e 41-bis. La circolare inoltre stabilisce anche che la richiesta di autorizzazione vada inoltrata al Dap con “congruo anticipo” indicando tutta una serie di requisiti specifici che sono spesso molto difficili da prevedere, come il numero complessivo dei partecipanti alle attività. “Si sta burocratizzando la vita penitenziaria” ha detto il portavoce della Conferenza nazionale dei garanti e garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello alla testata Vita, “Le procedure sono sempre più burocratizzate. Questa circolare coinvolge più della metà degli istituti di pena, e i detenuti di tutte le sezioni di quelle carceri”. E ha aggiunto: “Questa circolare rischia di far stare i detenuti chiusi 20 ore al giorno in celle strapiene, senza la possibilità di svolgere attività”. Tra le attività che hanno subito già le conseguenze della circolare, Vita segnala l’evento del progetto Kutub Hurra che si sarebbe dovuto tenere il 29 ottobre nella casa circondariale di Padova e che invece è stato annullato in seguito a quanto stabilito dalla circolare. Stando al rapporto di Antigone del 2018, teatro, yoga, laboratori di lettura e scrittura sono tra le attività trattamentali più comuni e presenti nelle carceri italiane, perlopiù gestite da associazioni esterne. Già l’articolo 27 della legge sull’ordinamento penitenziario le definiva importanti in ottica di reinserimento sociale, ma le attività culturali, sportive, educative e ricreative hanno anche benefici per la vita dentro. Antigone infatti sottolineava i vantaggi che contribuire insieme a un progetto o a un’attività può avere sulla socializzazione e le relazioni tra persone che sono costrette a una “convivenza forzata”; mentre svolgere attività che esistono e hanno valore anche al di fuori del carcere fa sentire meno marginalizzati e soli. Le attività trattamentali hanno di conseguenza anche un impatto positivo sulla salute mentale delle persone detenute: varie ricerche hanno evidenziato come la condizione detentiva e l’ambiente carcerario, l’isolamento, il trascorrere troppo tempo in cella e l’assenza o la limitata offerta di attività rilevanti abbiano un effetto negativo sul benessere psicologico e possano incrementare anche il rischio di suicidio. Dei benefici e della necessità delle attività trattamentali è convinta Marta Marchi, attrice e organizzatrice e coordinatrice di un progetto teatrale che si è svolto nella casa circondariale di Trento. Il teatro è entrato nel carcere di Trento molti anni fa, grazie all’associazione Finisterrae Teatri che dallo scorso anno è entrata anche a far parte di “Per aspera ad astra - come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, un progetto nazionale che unisce sedici compagnie teatrali e che ha permesso a Finisterrae Teatri di poter accedere a fondi stabili e lavorare su una programmazione a lungo termine. Da ottobre 2024 a giugno 2025 all’interno del carcere di Trento sono stati condotti allora laboratori di varia natura: da quello di teatro al percorso legato al movimento e alla danza, al modulo dedicato alla scenografia e quello di improvvisazione. Il laboratorio di teatro nello specifico ha lavorato su “Moby Dick” di Herman Melville e, spiega Marchi, ha affrontato il tema del sogno, quindi “cosa ci muove e cosa siamo disposti a sacrificare per raggiungere i nostri sogni”, e il tema del fallimento, e dunque come “quello che percepiamo come fallimento possa essere una possibilità di scoperta di nuove possibilità e nuove strade”. A giugno, nel carcere di Trento, è andato poi in scena lo spettacolo. “Finisterrae Teatri ha l’ambizione di creare un ponte tra il dentro e il fuori dal carcere”, afferma Marchi, per cui, per quanto complicato, l’obiettivo era quello di mostrare lo spettacolo anche a persone che stanno fuori la casa circondariale: “Siamo riusciti a far entrare una ventina di persone allo spettacolo, è stato un momento molto toccante”. Con lo stesso obiettivo di portare fuori dal carcere ciò che si realizza dentro, è nato anche un podcast, coordinato, registrato e montato dalla stessa Marchi, a cui ha partecipato un gruppo di persone del progetto teatrale. Il podcast, che si intitola “Inaspettato”, include anche domande da parte di persone fuori dal carcere, di età e background differenti: “Mi sono affidata a persone che conoscevo e ho chiesto loro cosa avrebbero chiesto a un gruppo di persone che stanno in carcere se ne avessero avuto la possibilità”, dice Marchi, che non ha dato loro vincoli né temi da rispettare. Le domande raccolte hanno generato discussioni libere e offerto prospettive diverse: “È stata un’esperienza bella perché le persone momentaneamente detenute hanno avuto in qualche modo la possibilità di dialogare e di rispondere a delle domande che venivano da fuori, rivendicando anche una loro dignità da persone che spesso si sentono invisibili”. Anzi, continua Marchi, “alcune domande li hanno proprio spiazzati”, in particolare quelle fatte da alcuni bambini, che “li hanno riportati indietro nel tempo, a ricordare cose che magari non ricordavano più, a ridere e ripensare a esperienze vissute. È stato proprio un regalo”. Il progetto che si è sviluppato tra il 2024 e il 2025, infatti, ha visto la collaborazione di uomini e donne, detenuti comuni e “protetti”, ovvero coloro che per ragioni di sicurezza o a causa del tipo di reato commesso non hanno accesso agli spazi comuni. In seguito a quanto stabilito dalla recente circolare, Finisterrae Teatri potrà lavorare solo con i detenuti comuni: “Per noi è stata una sconfitta”, commenta Marchi, aggiungendo che le educatrici del carcere si sono dette demoralizzate e con la percezione di essere tornate indietro nel tempo. Le attività culturali e ricreative sono “fondamentali in un luogo di segregazione come il carcere”, dice Marchi, “perché ciò che soffrono le persone dentro è il fatto di non vedere nessuna possibilità di trasformazione, di perdere del tempo per poi uscire e non avere nessuna possibilità, di non poter immaginare un futuro. E questo non solo non è giusto per loro, ma non fa bene neanche alla società”. La trasformazione che invece Marchi ha visto grazie al progetto teatrale svolto a Trento “è incredibile”: è un modo per “poter uscire dal carcere, per poter giocare, sperimentare, mettersi anche alla prova”, come ha detto anche una persona detenuta che ha partecipato al podcast, mentre laboratori di formazione teatrale possono anche generare professionalità da spendere una volta fuori. Per essere funzionali però non solo le attività devono esistere, ma devono essere anche costanti: “Il carcere è un luogo di sofferenza per tutte le persone che ci stanno, dalle persone detenute a quelle che ci lavorano”, commenta Marchi, e “la sensazione di tutte e tutti è che, appena non ci vai per un po’, la tua esperienza in qualche modo si cancella e il carcere si rimangia tutto”. La revisione della Costituzione di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 10 novembre 2025 Uno dei tre poteri su cui poggia il nostro ordinamento (Esecutivo) entra nell’ingegneria di un altro (Giudiziario). È proprio vero. Il governo Meloni sta facendo la Storia. Non tanto per gli straordinari risultati raggiunti, o sbandierati come tali dalla propaganda, in questi primi tre anni di lavoro, quanto per l’inarrestabile opera di revisione della Costituzione. Una mutazione che promette o rischia, a seconda dei punti di vista, di consegnarci nel breve-medio periodo un’Italia profondamente diversa da come siamo abituati a pensarla da ottant’anni a questa parte. Un’Italia rifondata su una specie di cesarismo democratico. Il passo più deciso in questa nuova direzione è il disegno di legge per la riforma della Giustizia che andrà sottoposto a referendum a fine marzo prossimo. Non è il merito del progetto, dalla separazione delle carriere dei magistrati ai due Csm, che certifica la portata storica di questa mossa. Il vero passaggio del Rubicone è che per la prima volta uno dei tre poteri su cui poggia il nostro ordinamento, l’Esecutivo, entra nell’ingegneria di un altro, il Giudiziario, che per la Carta è equivalente e indipendente, almeno fino a oggi. Al di là delle considerazioni se le modifiche proposte siano giuste o sbagliate, la questione centrale è il perché sia stato deciso uno strappo così netto rispetto a quanto finora sembrava intoccabile, cioè l’incursione di una forza dello Stato in un campo non proprio, quello appunto della magistratura, incursione più volte caldeggiata da Silvio Berlusconi ma che neppure lui osò o riuscì a mettere in atto. A che serve in sostanza questa riforma? Davvero renderebbe più celeri le indagini e offrirebbe maggiore equità nei processi? E come lo si otterrebbe questo più di “equità”? Nelle dichiarazioni a sostegno, il nuovo corso garantisce un servizio migliore per i cittadini, una giustizia più giusta e meno venata da tentazioni politiche. Quanto a chi contesta, a cominciare dalla corporazione dei magistrati, lo fa per la sola ragione che perderebbe la legittimazione a gestirsi e organizzarsi in totale autonomia. Questa almeno è la tesi ufficiale del governo. Poi arriva il titolare dell’iniziativa, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, e dice una cosa un po’ diversa: “Mi stupisce che una persona come Elly Schlein, segretario del Pd, non capisca che questa riforma gioverebbe anche a loro nel momento in cui andassero al governo, perché fa recuperare alla politica il suo primato costituzionale: l’esecutivo di Prodi cadde quando Mastella fu indagato per accuse poi rivelatesi infondate”. A parte quest’ultima sintesi, su cui è lecito discutere, e a parte il fatto che la politica non ha alcun primato costituzionale, è la prima parte dell’assunto che forse chiarisce il vero motivo dell’operazione: rafforzare ulteriormente chi governa, sottraendo potere a un altro potere, quello giudiziario. Una linea che rispecchia quanto sta già accadendo in altri Paesi guidati da leader di tendenza autoritaria, da Trump in giù. Tutti eletti democraticamente, ma che stanno operando una revisione della democrazia in una chiave finora inedita: chi vince le elezioni non si preoccupa di amministrare la cosa pubblica nell’interesse comune, anche di chi non ha votato o ha votato per altri. Chi vince fa un po’ come gli pare e prende tutto. Non soltanto: durante il mandato, opera in modo di avere meno disturbi possibile (da magistrati ma anche da giornalisti, sindacati eccetera) e nel contempo riscrive le regole del gioco per quando si tornerà alle urne. La via italiana a questa mutazione è molto più soft, al punto che neanche sembra una mutazione. L’accentramento di potere sull’Esecutivo a scapito degli altri due poteri pensati in Costituzione per bilanciarne la funzione, Giudiziario appunto e Legislativo, sta avvenendo per gradi, senza dichiararlo, quasi nascostamente. Il ricorso record al voto di fiducia, superata quota 100, sommata ai 110 decreti legge che come tali godono del consenso certo della maggioranza, sta di fatto svuotando di senso il Parlamento. E forse non è un caso che sia stata ulteriormente ridotta la presenza a Roma di senatori e deputati, ormai concentrata dal martedì mattina a un pezzo breve di giovedì. L’Italia è diventata una “Repubblica parlamentare” per modo di dire. E sul ruolo di arbitro e garante della Carta, previsto per il Presidente della Repubblica, pende un’ipotesi di riforma del premierato che di fatto ne ridurrebbe ai minimi l’influenza. Pare che non verrà calendarizzata in questa legislatura, ma sarà un punto di partenza per la prossima. Non è questo il primo governo che prova a ridisegnare la meccanica istituzionale del nostro Paese. Il caso più recente è quello di Matteo Renzi che da premier si prese il rischio di un referendum costituzionale (4 dicembre 2016) su una riforma che si proponeva di superare il bicameralismo paritario, ridurre il numero dei senatori, e ridefinire i rapporti tra Stato e Regioni. L’obiettivo era semplificare il sistema. Il “No” vinse con circa il 59 per cento dei voti, e Renzi, che aveva legato al risultato la sua permanenza al governo, si dimise subito dopo. Aveva 41 anni. Giorgia Meloni ne ha 7 di più e un’accortezza politica maturata in una vita di militanza. Carriera che l’ha portata a dominare un partito non facile (Fratelli d’Italia) e dal 2022, prima donna, a guidare un Paese che soffre più di altri di una sfavorevole congiuntura internazionale e dove, fonte Istat, quasi il 10 per cento delle persone (5 milioni 800 mila) nel 2024 ha rinunciato a curarsi per le lunghe liste d’attesa e per difficoltà economiche (l’anno prima erano 4,5 milioni, il 7,6 per cento). La saggezza dettata dall’esperienza, unita al consiglio sussurrato dal presidente del Senato La Russa (“non so se il gioco vale la candela”), sembrano sconsigliare alla premier di intestarsi il prossimo referendum sulla Giustizia e tutto lascia supporre che Meloni non cadrà nel lodo Renzi. Ma il dado è tratto, indipendentemente da come andrà a finire la partita con la magistratura. Chi governa comanda. E chi disturba è un disfattista. Non è esattamente lo spirito della nostra Costituzione, ma si avvicina molto allo spirito di questo tempo. Referendum giustizia, il Sì è avanti di 10 punti ma un italiano su 3 si dichiara indeciso di Alessandra Ghisleri La Stampa, 10 novembre 2025 Il 38,9% favorevole alle modifiche contro il 28,9%. La battaglia si giocherà più sulla narrazione. Ad oggi, i sondaggi indicano che la maggioranza degli italiani si dichiara favorevole alla riforma della giustizia che introduce la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Secondo l’ultima rilevazione condotta da Only Numbers, il fronte del “Sì” (38,9%) supera ampiamente quello del “No” (28,9%) di dieci punti percentuali. Se ci si concede un semplice esercizio aritmetico, limitando l’analisi ai soli voti validi in un’ipotetica proiezione elettorale, il divario apparirebbe ancora più marcato: 57,0% contro 43,0%. Un margine significativo, ma costruito sul terreno ancora fragile dell’astensione. Perché, pur essendo un referendum confermativo e dunque privo di quorum, la vera sfida per entrambi gli schieramenti resta quella di trasformare la partecipazione in legittimazione politica, dando senso e peso al voto. Sul piano degli orientamenti, la frattura tra le forze politiche è chiara, ma non assoluta. Il 78.8% degli elettori dei partiti di maggioranza si dice pronto a confermare la riforma, mentre tra le opposizioni il 60,8% voterebbe per il “No”. Tuttavia, il 17,7% degli elettori di opposizione sostiene la proposta del governo: un dato che segnala come il tema, pur già connotato politicamente, non sia del tutto impermeabile ai confini tra schieramenti. Il 48,0% dei cittadini intervistati afferma di sentirsi informato sui contenuti della riforma, mentre il 52,0% ammette di non conoscerne i dettagli. È un elemento rilevante, perché lascia intendere che la battaglia referendaria si giocherà più sulle narrazioni che sui contenuti. Il dibattito pubblico rischia quindi di polarizzarsi su slogan contrapposti - “una giustizia più giusta” da un lato, “un attacco all’indipendenza dei magistrati” dall’altro - più che su una reale comprensione della portata istituzionale della riforma. In questo quadro, il voto potrebbe assumere un valore politico più ampio, fino a trasformarsi in un voto contro Giorgia Meloni e il suo governo. Infatti, già oggi lo scontro si sta caricando di valenze politiche e simboliche. La memoria collettiva rimanda a due precedenti relativamente recenti, opposti nei risultati e nel contesto politico. Il primo è il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, promosso da Matteo Renzi, in cui vinse il “No” con un’affluenza del 68,5%. Il secondo è quello del 12 giugno 2022 che, privo di una spinta politica - anche per la presenza del governo tecnico di larga maggioranza guidato da Mario Draghi - registrò una partecipazione molto più bassa, ferma al 20,93%. In quell’occasione, pur con la netta vittoria dei “Sì” (74,01%) alla separazione delle carriere, il risultato restò privo di effetti per il mancato raggiungimento del quorum. Alla luce di questi precedenti e del clima politico attuale, il referendum si profila come un banco di prova cruciale per l’esecutivo - per tutti i significati storici che inevitabilmente porta con sè -, ma anche come una questione di identità istituzionale. In gioco c’è l’equilibrio tra i poteri dello Stato, un terreno storicamente delicato per la democrazia italiana. Secondo il sondaggio Only Numbers, quasi un italiano su due (48,7%) ritiene che Giorgia Meloni non dovrebbe dimettersi in caso di bocciatura del referendum. Una posizione condivisa dall’86,9% degli elettori dei partiti di maggioranza. Al contrario, il 62,3% degli elettori delle opposizioni ritiene che, in caso di vittoria del “No”, il Presidente del Consiglio dovrebbe fare un passo indietro. Al cuore della questione c’è la percezione del conflitto istituzionale in corso. Il 45,3% dei cittadini ritiene che lo scontro tra Governo e Magistratura sia pericoloso per la democrazia. Un timore condiviso anche da poco più di 1 elettore su 4 dei partiti di maggioranza, con dati particolarmente significativi tra i sostenitori di Forza Italia che si dividono quasi equamente sui due fronti (42,8% vs 45,3%). È un paradosso interessante: proprio per il partito di Silvio Berlusconi, che per vent’anni ha fatto della “questione giustizia” una bandiera identitaria, emergono oggi le maggiori perplessità sui toni dello scontro. Nel fronte delle opposizioni, le posizioni restano articolate, con minoranze favorevoli alla riforma. Forse anche per questo - e per i risultati che emergono via via dai sondaggi - la campagna si sta accendendo su toni prettamente politici, più che di merito. Un orientamento confermato da un dato chiave: poco più di un italiano su due non si sente realmente informato sul tema. In un contesto simile, la battaglia referendaria rischia di trasformarsi in un test politico generale, più che in un confronto di idee sul futuro della giustizia italiana. Il referendum sulla separazione delle carriere si annuncia come uno spartiacque non solo giuridico, ma politico. Dietro ai numeri si muovono identità, simboli e paure antiche, la giustizia torna a essere terreno di scontro e di definizione del potere, tra garanzie e consensi, tra indipendenza e controllo. Ancora una volta, come spesso accade in Italia, il vero verdetto potrebbe dipendere non tanto da chi ha ragione nel merito, ma da chi saprà raccontare meglio la propria verità Separazione delle carriere: così cambierà la giustizia di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 10 novembre 2025 Il 30 ottobre 2025 il Senato ha approvato definitivamente la riforma e ha certificato la frattura tra maggioranza e gran parte dell’opposizione. L’ultima parola passa ai cittadini col referendum confermativo. La data del 30 ottobre 2025 è entrata nella storia della politica italiana? Probabilmente sì. L’Aula del Senato ha dato il via libera definitivo alla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere in magistratura: 112 i voti favorevoli, 59 i contrari e 9 gli astenuti. Nella quarta e ultima lettura del disegno di legge si è così chiuso il lungo iter parlamentare di una delle riforme più discusse degli ultimi decenni riguardante il sistema giudiziario italiano. L’approvazione del 30 ottobre scorso rappresenta un passaggio politico e istituzionale di rilievo, che ha segnato al tempo stesso una profonda spaccatura tra la maggioranza di governo e le opposizioni. Queste ultime - non senza enfasi e allarmismi - hanno parlato di un “attacco all’autonomia della magistratura”. La prossima tappa sarà il referendum confermativo. Perché gli italiani andranno al voto nella primavera del 2026? L’articolo 138 della Costituzione stabilisce che “le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”. Il secondo comma prevede che “le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali”. Inoltre, “la legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi”. Infine il terzo comma, che riguarda il caso confermativo, evidenzia che “non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”. È il caso che qui ci occupa, poiché Camera e Senato, nella “seconda lettura conforme”, hanno dato il via libera alla riforma senza raggiungere il quorum dei due terzi che avrebbe impedito il voto referendario. A differenza del referendum abrogativo di leggi, quello confermativo non richiede il quorum del 50% degli iscritti alle liste elettorali. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha detto che la riforma “ci allinea con tutte le democrazie occidentali e liberali, dove la funzione del pubblico accusatore è separata da quella del giudice”. Archiviato il lavoro del Parlamento, si apre ora una nuova fase che coinvolgerà direttamente i cittadini. “È il momento - ha commentato il presidente del Consiglio nazionale forense, Francesco Greco - di proseguire su questa strada per superare quelle dinamiche correntizie che nel tempo hanno condizionato l’autorevolezza della giustizia e della magistratura. L’Italia ha bisogno di una giustizia giusta, con un giudice terzo e imparziale, un pubblico ministero pienamente indipendente, ma sempre nell’ambito della giurisdizione, e con una difesa tecnica forte e autonoma. Il Cnf parteciperà al dibattito pubblico in vista del referendum offrendo il contributo tecnico e giuridico dell’avvocatura, avulso dalle logiche partitiche, affinché il confronto sia informato, equilibrato e rispettoso dei principi costituzionali”. La riforma modifica vari articoli della Costituzione, prevedendo la creazione di due distinti Consigli superiori della magistratura, rispettivamente per la carriera giudicante e per quella requirente. Entrambi sono presieduti dal Presidente della Repubblica. I componenti dei Consigli saranno in parte sorteggiati tra magistrati e tra professori e avvocati di lunga esperienza. L’obiettivo è garantire equilibrio e imparzialità. Ai due Csm si aggiunge l’Alta Corte disciplinare, composta da 15 giudici e con competenza esclusiva sulle sanzioni nei confronti dei magistrati. Tra le caratteristiche il funzionamento con doppio grado di giudizio interno. Le norme definiscono composizione, durata, incompatibilità e procedura dei nuovi organi. Il testo della riforma include modifiche di coordinamento agli articoli 106, 107 e 110 della Costituzione e disposizioni transitorie per l’adeguamento della legislazione ordinaria entro un anno dall’entrata in vigore. Vediamo più nel dettaglio con funzioneranno i due Csm. Come anticipato, il Csm della “magistratura giudicante” e il Csm della “magistratura requirente” sono presieduti dal Presidente della Repubblica. Il Primo Presidente e il Procuratore generale della Cassazione ne fanno parte di diritto. Altra caratteristica: i due Consigli non saranno elettivi. In merito alla loro composizione è prevista la presenza per un terzo di membri laici e per due terzi di togati. Elemento rilevante della riforma è il sorteggio. I membri laici saranno estratti a sorte da un elenco di giuristi che sarà predisposto dal Parlamento in seduta comune, mentre i togati verranno sorteggiati tra tutti i magistrati, giudicanti e requirenti con requisiti che stabilirà una successiva legge ordinaria. La durata in carica dei componenti dei due Csm è di quattro anni e non potranno partecipare alla procedura di sorteggio successiva. Attualmente i poteri disciplinari sono assegnati ad una Sezione speciale del Csm. Con la riforma sulla separazione delle carriere le cose cambieranno. I due Consigli superiori della magistratura non potranno più esercitare i poteri disciplinari. Avranno competenze in materia di assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, valutazioni di professionalità e conferimenti di funzioni dei magistrati. La giurisdizione disciplinare nei riguardi di tutti i magistrati sarà invece esercitata dall’Alta Corte, che si comporrà di 15 membri: 3 nominati dal Presidente della Repubblica, 3 estratti a sorte da un elenco di giuristi che il Parlamento in seduta comune “compila con elezione “, 6 estratti a sorte tra i magistrati giudicanti con 20 anni di attività e con esperienze in Cassazione e, infine, 3 sorteggiati tra i magistrati requirenti con vent’anni di attività ed esperienza in Cassazione. Una peculiarità dell’Alta Corte è data dalla presenza in maggioranza dei togati con il presidente eletto tra i laici. La durata in carica è di 4 anni senza possibilità di rinnovo. Le sentenze dell’Alta Corte disciplinare possono essere impugnate con ricorso solo davanti alla stessa Corte, che giudicherà in una composizione diversa vale a dire senza la presenza dei componenti che avevano assunto la decisione oggetto dell’impugnazione. Non è prevista inoltre una ulteriore impugnazione in Cassazione. Per gli illeciti disciplinari è prevista una legge ordinaria regolerà anche la materia in ambito di sanzioni, composizione dei collegi, procedimento e funzionamento dell’Alta Corte. Le leggi attuative dovranno essere varate “entro un anno” dall’entrata in vigore della riforma. Fino ad allora, pertanto, continueranno ad osservarsi le leggi vigenti. Tullio Padovani; “Solo con il Sì libereremo la magistratura dalla “tessera” correntizia” di Valentina Stella Il Dubbio, 10 novembre 2025 “Il Csm tornerà a essere quello che deve essere: un organo di alta amministrazione. senza tramutarsi più in soggetto politico, senza esprimere pareri sulle iniziative politiche, senza assumere la funzione di terza camera parlamentare, come troppo spesso è stato”. Tullio Padovani, avvocato, accademico dei Lincei, presidente onorario del Comitato per il Sì dell’Unione Camere Penali, come spiegherebbe ad un cittadino sprovvisto di nozioni perché è giusto votare sì alla riforma della giustizia? Gli chiederei: saresti felice di sapere che il giudice del tuo caso è in ottimi rapporti con il pm che ti accusa, con cui condivide il reclutamento, intrattiene rapporti di cordialità e spesso di amicizia, mentre guarda al tuo avvocato con qualche diffidenza, se non addirittura con ostilità? Se preferisci che il giudice sia un terzo davvero imparziale, vota sì. A proposito di ricadute sul cittadino, gli oppositori alla riforma sostengono che assoluzioni al 40% dimostrano che il giudice non è appiattito... Quel 40% contiene remissioni di querela e prescrizioni maturate durante le indagini preliminari; le assoluzioni attestano per lo più che il pm non ha evidentemente bene applicato la regola che a giudizio vadano solo i casi con ragionevole prognosi di condanna. Ma questo c’entra poco o punto con la separazione delle carriere; anzi, se mai la suffraga, perché finirà col responsabilizzare l’esercizio del potere di accusa. Luciano Violante sul Corsera ha lanciato l’allarme: si creerà la “casta dei pm”, “1.200 magistrati, che, attraverso il proprio CSM, si autogovernano, privi di qualsiasi vincolo gerarchico “, “arbitri indiscussi della libertà e della reputazione dei cittadini”... Il Presidente Violante ha semplicemente descritto quel che accade oggi con questo attuale sistema. La separazione non potrebbe certo peggiorare la situazione, anzi, concorrerà potentemente a eliminarla: il pm non potrà mai contare sulla benevolenza di un collega verso le sue richieste, ma sarà solo una parte di fronte al giudice, tutore della legalità. Però adesso al Csm i giudici sono 13 e i pm sono 5. I secondi come fanno ad avere più potere sulle carriere dei primi? Come lo dimostrate? I numeri non sempre danno potere. Basta un nome: Palamara. Era un pm di fronte al quale i giudici si inchinavano. Il potere d’accusa è mobile, anomico, sostanzialmente discrezionale. Da quello scandalo l’esigenza del legislatore di introdurre il sorteggio. E però il 96% dei magistrati è iscritto all’Anm, quindi i sorteggiati apparteranno quasi sicuramente a una corrente e si aggregheranno... Non so se quel 96% iscritto all’Anm corrisponde a un 100% di iscritti a una corrente. Non mi risulta. In ogni caso, il sorteggio eliminerà la necessità oggi incombente su ogni magistrato di munirsi di una tessera correntizia che lo inquadri, lo qualifichi, lo segnali, lo tuteli, lo difenda, perché di fronte al Csm deve sempre rivolgersi al patrono di tessera. Altrimenti, povero lui. Il sorteggio prima di essere libertà dei magistrati, segnerà la loro liberazione. Cosa pensa della campagna che sta portando avanti l’Anm con il suo Comitato “Giusto dire No”? Tutto il male possibile. Se la magistratura fosse un potere dello Stato si tratterebbe di un atto eversivo: un potere che si schiera contro un altro potere, quello costituente esercitato dal Parlamento. Ma la magistratura è soltanto un ordine: il potere giudiziario appartiene ai singoli che ne sono investiti. A che titolo dunque si dispone delle aule giudiziarie? Però su questo persino Giorgio Spangher ha ricordato che anche, ad esempio, il Coa di Roma ha un suo proprio spazio in Cassazione dove svolge convegni e iniziative... Altro che convegno o iniziative culturali. Qui si tratta della costituzione di un comitato per una battaglia politica contro una legge costituzionale sottoposta a referendum popolare: all’interno di una sede giudiziaria mi pare inconcepibile, perché la sede giudiziaria deve essere destinata sia ai cittadini del sì che ai cittadini del no, indifferenziatamente. Che campagna si aspetta? Pessima, di stampo trumpiano, con balle e contraddizioni a rifasci. Qualche esempio “La separazione non serve perché c’è già” - “Allora perché la combattete?”- “Combattiamo i due Csm”. “Ma due magistrature distinte postulano due Csm, altrimenti non c’è più separazione” - “Ma il sorteggio distrugge la rappresentatività” - “Il Csm non ha e non deve avere funzioni di rappresentanza: è un organo di alta amministrazione dell’ordine giudiziario. Il grande Giuseppe Di Federico lo ha illustrato, sostenuto e dimostrato per tutta la sua lunga vita di studioso”. “In realtà si vuole sottoporre la magistratura al controllo politico” - “Ma nel testo costituzionale è detto esattamente il contrario” - “Il governo quella brutta intenzione ce l’ha senz’altro” - “Bisognerebbe cambiare la Costituzione!”. Tuttavia, Di Federico era contrario al sorteggio. Per lui, come ribadito al Foglio nel 2018, il rimedio al correntismo non era il lancio dei dadi ma un sistema serio di valutazioni di professionalità... Non ho mai discusso con lui del sorteggio, ma sulle valutazioni ha perfettamente ragione. Oggi manca una effettiva valutazione di merito perché ogni corrente si fa avanti per i suoi e alla fine il conto torna pari. Ma per eliminare le correnti l’unico sistema è in realtà il sorteggio: il magistrato non si deve più iscrivere a nessuna corrente, perché non ha più bisogno della “tessera del pane”; è libero dalle correnti che, rapidamente, perderanno ogni ruolo politico. Il Csm come cambierà? Tornerà ad essere quello per cui è nato: un organo di alta amministrazione, senza tramutarsi in un soggetto politico, senza esprimere pareri sulle iniziative politiche, senza schierarsi, senza assumere la funzione di terza Camera parlamentare fuori ordinanza, come troppo spesso è stato. In realtà però il Csm ha il potere di dare pareri al Ministro della Giustizia (su richiesta dello stesso) sugli atti normativi all’esame del Parlamento e di formulare proposte di legge a quest’ultimo... Rinvio alla lettura del luminoso saggio di Giuseppe Di Federico “Anomalie e disfunzioni del CSM ignorate da tutti” (in Legislazione penale 31.7.2024), che documenta ampiamente, come il Csm abbia incrementato i suoi poteri mediante “interpretazioni delle norme costituzionali e ordinarie, e con i propri regolamenti, tutt’altro che rispettosi della riserva di legge prevista all’art. 108 in materia di Ordinamento giudiziario. Lo ha fatto creando un articolato, invasivo e costoso sistema di organismi centrali e periferici, alcuni dei quali operano anche a livello sovrannazionale”. C’è da supporre che, dietro lo schermo del No opposto a una riforma ineludibile da almeno quarant’anni, si intenda in realtà difendere proprio questo anomalo assetto di potere. Enrico Grosso: “Dico No perché il sorteggio svilisce il Csm e mette a rischio l’indipendenza” di Valentina Stella Il Dubbio, 10 novembre 2025 Enrico Grosso, costituzionalista, avvocato e presidente onorario del “Comitato per il No” dell’Anm, come spiegherebbe ad un cittadino di cultura media perché è “Giusto dire No”? Tutte le costituzioni, da più di due secoli, affidano alla giurisdizione il compito di arginare la naturale tendenza della politica ad abusare del potere di cui dispone. Per questo alla magistratura devono essere garantite piena ed effettiva autonomia e indipendenza dal potere politico. Altrimenti non riesce ad esercitare davvero quel compito essenziale. E a pagarne le conseguenze sono i cittadini. Quando è indebolita l’autonomia del potere giudiziario dal potere politico i cittadini vedono drasticamente ridursi gli spazi di tutela dei loro diritti: lo Stato costituzionale è stato inventato per limitare il potere e assoggettarlo al diritto. Solo magistrati autonomi e indipendenti da ogni altro potere possono assolvere a questo essenziale compito. Ma l’autonomia non basta proclamarla in astratto. Occorre poi preservarla in concreto, giorno per giorno. Indebolire il Csm significa indebolire l’autonomia della giurisdizione. E quindi indebolire la tutela concreta dei diritti dei cittadini. La maggioranza degli avvocati - penso al Cnf, all’Ucpi e a tante altre associazioni forensi - si è espressa per il Sì. Secondo lei l’avvocatura ha sbagliato a schierarsi in questo modo? A me non risulta affatto che “l’avvocatura” sia schierata per il sì. Ricevo quotidianamente decine di messaggi da avvocati, anche penalisti, che mi chiedono come possono dare una mano alla campagna per il no. Moltissimi sono preoccupati perché si rendono conto che un giudice debole avrà molta più difficoltà a rendere giustizia con imparzialità e senza guardare in faccia a nessuno. Per il sottosegretario Alfredo Mantovano la “magistratura blocca sicurezza, espulsioni, Ilva”. Sono “invasioni di campo che devono essere ricondotte”. Come replica? È la dimostrazione lampante che le nostre preoccupazioni sono fondate. Il ministro confessa che la volontà è proprio quella di mettere in riga i magistrati. Non vogliono una magistratura indipendente, perché una magistratura indipendente ha la forza di esercitare il controllo di legalità anche rispetto alle decisioni del governo. Scrive Augusto Barbera sul Foglio: “Un Consiglio superiore con compiti, di “garanzia” non dovrebbe svolgere funzioni di “rappresentanza”“, né del Parlamento né dei magistrati. Cadono pertanto le obiezioni (quelle giuridiche almeno) al “sorteggio” dei componenti dei due Csm, fondate invece qualora dovesse trattarsi di eleggere “rappresentanti”. Condivide? Non condivido affatto. L’elezione non serve soltanto a costruire rappresentanza. È in primo luogo uno strumento di scelta consapevole, serve quindi soprattutto a selezionare chi sia più adatto e meglio attrezzato a svolgere i delicatissimi compiti di alto rilievo costituzionale di cui stiamo parlando. Il sorteggio è uno strumento svilente e deresponsabilizzante, del tutto inidoneo a garantire un livello minimo di competenza e idoneità all’esercizio delle complesse funzioni cui il sorteggiato è destinato. L’elezione serve a scegliere i migliori, il sorteggio affida invece la selezione al caso. È un anello essenziale di una complessiva strategia di delegittimazione e di indebolimento del ruolo costituzionale del Csm. Lei si sente di assicurare e rassicurare che attualmente le correnti siano solo gruppi culturali interni alla magistratura e non centri di spartizione del potere? La questione è complessa. Andrebbe discussa con serietà ed equilibrio. Tutti conosciamo le vicende di cronaca che, nel recente passato, hanno portato alla luce modalità patologiche di funzionamento del Csm, con il rischio che fosse messo a repentaglio il prestigio stesso dell’ordine giudiziario e la posizione di indipendenza che la Costituzione gli assegna. La magistratura ha saputo far pulizia al proprio interno, e questo lo dimostrano i fatti. Va tuttavia mantenuta ferma la distinzione tra il valore prettamente costituzionale del pluralismo associativo della magistratura e la sua versione degradata che viene definita “correntismo”. Il pluralismo della magistratura, inteso come “pluralità dei punti di vista” è dunque tratto ineliminabile e costituzionalmente garantito della sua attività, non ha nulla a che fare con il “correntismo”. I sostenitori del “No” ripetono che la riforma della separazione delle carriere condurrà alla perdita di autonomia e indipendenza della magistratura. Eppure il nuovo articolo 104 ribadirà questo principio. Le toghe sono cadute nella fallacia del pendio scivoloso? O sono in malafede come dice, ad esempio, Antonio Di Pietro? Non basta proclamare in astratto un principio se non è sostenuto da un sistema di regole che ne garantiscano l’effettività. Scrivere in Costituzione che la magistratura è indipendente, se quel principio è privato dello strumento pratico che quotidianamente quell’indipendenza difende e assicura, non serve a nulla. È ipocrita continuare ad affermare che “l’articolo 104 non viene toccato”. Viene toccato eccome! La radicale modifica della natura e del ruolo costituzionale del Csm, attraverso lo stravolgimento del testo dell’articolo 104 come esso era stato elaborato dai costituenti, mette in discussione proprio la tenuta pratica di quel principio di autonomia e indipendenza del potere giudiziario dal potere politico, che proprio nel Csm trova il suo presidio, e che resterebbe in Costituzione come una specie di simulacro indifeso. Da ambo le parti si scomodano i morti: Falcone, Gelli, Dino Grandi, Vassalli. Secondo lei la campagna si vince così? I morti li lascerei davvero in pace. Però mi lasci dire una cosa. Si parla spesso di “uso politico della storia”. Molti apologeti del sì stanno cinicamente facendo un uso politico della memoria e della biografia. Si pretende di chiamare in causa persone che non ci sono più, come Giuliano Vassalli, per la cui storia personale di studioso, antifascista e partigiano, di statista, ho il massimo rispetto, presupponendo che egli, se oggi fosse vivo, esprimerebbe le stesse idee professate trenta o quarant’anni fa. Lo si strumentalizza ai propri fini, ben sapendo che non gli è concesso alcun diritto di replica. Lei teme una campagna feroce, fatta di colpi bassi? Auspico una campagna di informazione seria, equilibrata, che rispetti i cittadini e li tratti da adulti. I sondaggi danno in vantaggio il Sì. Pensa che la partita sia ancora aperta? La partita non è ancora cominciata. La forza dei nostri argomenti, se ci sarà data la possibilità di spiegarli con calma, pacatezza e serietà, alla fine non potrà che emergere e prevalere sugli slogan semplificati che stiamo sentendo in questi giorni. Le Authority indipendenti lo sono davvero? di Ruben Razzante* Avvenire, 10 novembre 2025 Le designazioni avvengono quasi sempre sulla base di logiche spartitorie. Così gli organismi rischiano di essere prolungamenti del potere politico anziché in contropoteri credibili. Le autorità indipendenti nascono per garantire equilibrio e tutela in settori strategici della vita pubblica, nei quali la politica non deve né può esercitare un controllo diretto. Sono state concepite per assicurare che le regole del gioco vengano applicate in modo imparziale, al riparo da interferenze di partito e da interessi contingenti. Tuttavia, l’indipendenza formale di queste istituzioni non sempre si traduce in autonomia sostanziale. Le polemiche di questi giorni sul Garante per la protezione dei dati personali ne sono un esempio significativo: dietro lo scontro politico si nasconde una questione più profonda, quella dell’effettiva neutralità dei componenti delle Authority e della credibilità dei meccanismi di nomina. Oggi, infatti, i membri vengono scelti dal Parlamento, ma le designazioni avvengono quasi sempre sulla base di logiche spartitorie, con una suddivisione delle poltrone in quote riconducibili ai partiti o alle maggioranze di turno. In questo modo, si rischia di svuotare di significato il concetto stesso di “autorità indipendente”, trasformando le Authority in prolungamenti del potere politico anziché in contropoteri credibili. Una riforma dei criteri di nomina sarebbe dunque indispensabile per restituire fiducia e autorevolezza a queste istituzioni. In un momento in cui si discute di introdurre il sorteggio per il Consiglio Superiore della Magistratura come misura per arginare le correnti e le cooptazioni, si potrebbe estendere un ragionamento analogo anche alle autorità di garanzia. Non si tratta necessariamente di affidarsi al caso, ma di immaginare procedure più trasparenti, basate su criteri di competenza, esperienza e indipendenza comprovata, riducendo il peso della designazione politica. Potrebbe essere utile, ad esempio, prevedere un bando pubblico con candidature aperte, una commissione tecnica che valuti i profili, e un voto parlamentare che resti, ma su una rosa di nomi selezionati per merito e non per appartenenza. Solo così si potrà preservare la terzietà, requisito essenziale per chi è chiamato a ricoprire ruoli così delicati. C’è però un altro nodo di fondo: l’ipocrisia del rapporto tra Parlamento e Autorità. Si reputa giusto che sia il Parlamento a nominarle, in quanto espressione diretta della sovranità popolare, ma negli ultimi anni il Parlamento è stato progressivamente svuotato del suo ruolo e dei suoi poteri, sostituito da un esecutivo sempre più invasivo anche nella funzione legislativa. In questo contesto, le nomine parlamentari rischiano di rispecchiare gli equilibri di governo più che la volontà autonoma delle Camere. È paradossale che le autorità nate per limitare l’invadenza della politica diventino esse stesse terreno di contesa politica. Eppure, va detto con chiarezza che molte di queste Autorità indipendenti operano con rigore e professionalità, e i loro componenti spesso dimostrano di essere all’altezza del compito, a prescindere dalla loro provenienza. Attaccarle a priori significa minare la fiducia nei meccanismi di garanzia e rafforzare la sfiducia nelle istituzioni. Il problema non è la loro esistenza, ma il modo in cui vengono nominate. Finché il sospetto di una fedeltà politica continuerà ad aleggiare, ogni decisione sarà letta come espressione di un orientamento di parte, e non come applicazione imparziale delle regole. È questo il vero rischio: la delegittimazione delle autorità e, con essa, la perdita della loro funzione di arbitro super partes. Una riforma che renda le nomine più meritocratiche, trasparenti e depoliticizzate non sarebbe solo un atto di igiene istituzionale, ma un investimento nella qualità della democrazia. L’indipendenza non è una formula astratta, ma un valore concreto che si misura nella capacità di resistere alle pressioni, di prendere decisioni impopolari quando necessario e di non essere percepiti come strumenti di parte. Per questo serve coraggio politico: la maggioranza di turno dovrebbe rinunciare a un potere di influenza immediato in nome di un vantaggio collettivo e duraturo, quello di avere istituzioni credibili, rispettate e davvero autonome. Solo così le Autorità potranno tornare a essere ciò che dovrebbero essere per definizione: garanti della legalità, della libertà e dell’equilibrio tra poteri, non pedine di un gioco politico che tutto ingloba e tutto logora. *Docente di Diritto dell’informazione all’Università Cattolica di Milano Cartabia, nulla la condanna nell’udienza fissata per la sola adozione del calendario processuale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2025 La scelta del difensore di fiducia di non partecipare all’udienza esplicitamente prevista per calendarizzare le attività processuali è legittima e l’eventuale condanna adottata in quella sede è viziata nonostante la nomina di un difensore d’ufficio. Viola il diritto di difesa e di assistenza del difensore di fiducia la discussione e la decisione nel merito della causa avvenute nell’udienza di primo grado che era stata espressamente fissata dal giudice (ritenutosi incompetente) per la sola adozione del “calendario del processo”, nuovo istituto previsto dalla Riforma Cartabia con modifica dell’articolo 477, comma 1, del Codice di procedura penale. Per siffatta violazione la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 36075/2025 - ha annullato tanto la sentenza di primo grado quanto quella di appello che non aveva ravvisato la nullità della condanna in quanto il difensore nell’udienza - inizialmente predisposta per la sola calendarizzazione delle attività processuali successive - era stato di fatto sostituito dal difensore d’ufficio nominato dal giudice ritenuto competente e che aveva governato l’udienza andando ben oltre le previsioni del calendario. Il caso - In effetti, attenendosi al rinvio della trattazione nel merito deciso dal giudice onorario che - ravvisando la propria incompetenza a favore del magistrato ordinario - fissava la successiva udienza disposta per la sola calendarizzazione processuale, il difensore di fiducia dell’attuale ricorrente per cassazione aveva scelto di non partecipare all’udienza fissata per lo scopo indicato. Inoltre, va rilevato che anche se la specificazione non è necessaria il giudice di pace fissando l’udienza aveva espressamente indicato che in quella sede non vi sarebbe stata discussione. Mentre era stata addirittura decisa la condanna. Il ricorso per cassazione - Il ricorso impugna la decisione di appello che non ha riscontrato la nullità della decisione di primo grado sostenendo l’assenza di violazioni dell’esercizio del diritto di difesa per l’avvenuta nomina d’ufficio del sostituto. L’imputato non era quindi privo - secondo i giudici di appello - della dovuta assistenza tecnica di un avvocato con violazione dei principi dell’equo processo previsti anche dall’articolo 6 della Cedu. La Cassazione, al contrario, accoglie il ricorso restituendo gli atti al Pm e dichiarando nulle le sentenze di primo e secondo grado. bInfatti, la novella Cartabia nell’introdurre - al fine di una conduzione ordinata delle diverse fasi processuali - il calendario delle attività processuali ha affermato che è atto di per sé rilevante. E le fasi e le attività stabilite nel calendario, se non rispettate, sono fonte di illegittimità degli atti e dei provvedimenti posti in essere in sua violazione. Infine, nel caso risolto, emerge con precisione la violazione dei diritti della difesa: perché se la difesa è fiduciaria essa va garantita, con la conseguenza che non può essere ritenuta irrilevante la sua illegittima compressione in ragione della mera sostituzione del difensore nominato dalla parte con quello d’ufficio individuato dal giudice. Torino. Ferma la stanza dell’affettività in carcere: censimento dei legami stabili per i detenuti di Giada Lo Porto La Repubblica, 10 novembre 2025 La stanza dell’affettività nel carcere di Torino doveva partire il primo novembre con gli incontri intimi fra i detenuti e il partner. Ma così non è stato. Tutto è fermo e non c’è una data ufficiale anche se la stanza di 15 metri quadri con letto, bagno e doccia è pronta. “Non ci sono richieste”, la motivazione che inizialmente circolava in ambienti carcerari. Ma non reggeva se si pensa che la stanza è a disposizione dei detenuti di tutto il distretto di Piemonte e Valle d’Aosta: circa 4mila persone, decurtando i detenuti in regime di 41 bis di Cuneo e Novara e nelle case di reclusione ad alta sicurezza di Asti e Saluzzo. “Figuriamoci se nessuno ha fatto richiesta”, il commento anche fra i corridoi del palazzo di giustizia con gli avvocati che dibattevano delle ultime novità. La direttrice del Lorusso e Cutugno, Elena Lombardi Vallauri, si limita a un laconico: “Stiamo lavorando”, aggiungendo che “nessuno ha detto che partiva il primo novembre”. Eppure c’è un documento ufficiale in cui si legge “Il servizio sarà attivo dal primo novembre presso il padiglione E”. Precisazione: “I detenuti potranno essere autorizzati a fruire di colloqui intimi con il proprio coniuge, la parte dell’unione civile, il convivente more uxorio (documentato)”. Ma - ed è qui il motivo della procrastinazione - la vicenda della detenuta rimasta incinta nel carcere di Vercelli ha creato uno sconquasso tale da stoppare tutto. L’ipotesi è che il concepimento sia avvenuto durante i colloqui, in una sala con videosorveglianza, con un altro detenuto. La versione ufficiale è che si tratti del compagno recluso nello stesso istituto, in realtà da fonti carcerarie si apprende che i due si fossero conosciuti in carcere e che la prima figlia della detenuta non fosse figlia di lui: ma tutto è ancora da vagliare. Certamente qualche regola a Vercelli deve essere stata violata: il Provveditorato ha fatto visita nell’istituto per accertare le dinamiche dell’accaduto e il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria ha chiesto al Ministero un’ispezione immediata. Tutto ciò ha avuto un riverbero sulla stanza “dell’amore”. “Stoppate tutto”, sembrerebbe essere stato il diktat dall’alto. Non solo: in questi giorni si starebbe lavorando a un censimento per accertare con dovizia i legami affettivi dei detenuti: solo legami documentati. Anche se nessuno lo conferma ufficialmente. La tensione è palpabile dentro il carcere di Torino e secondo quanto emerge si è in attesa che il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria emani disposizioni a scioglimento delle riserve, dopo quanto accaduto a Vercelli, al fine di aprire la camera dell’affettività. “La stanza dell’amore si colloca in un contesto che non è in grado di realizzarla fattivamente - dice il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci - i detenuti dovrebbero essere inseriti in un programma vero di trattamento rieducativo, quindi deve essere una misura finalizzata al reinserimento e non così generica. Realizzare le stanze dell’amore in un contesto in cui il 70% degli istituti penitenziari cade a pezzi è irreale. Infine ci sarebbe un surplus di lavoro per la polizia penitenziaria a cui non è stato dato nessun aumento dell’organico”. Asti. Stretta sul carcere: più burocrazia per le attività organizzate da esterni di Valentina Moro La Stampa, 10 novembre 2025 Il Dap impone l’ok da Roma su laboratori culturali organizzati da esterni negli istituti ad alta sicurezza. Nessuna attività con l’esterno per i detenuti se non si ha il via libera dal Dap a Roma. La burocrazia mette a rischio la possibilità di fare iniziative nelle carceri se coinvolgono persone esterne. Dagli spettacoli teatrali ai laboratori di scrittura o pittura con gli studenti fino alle presentazioni dei libri. Ogni attività che prevede la presenza di soggetti da fuori - e non già registrati - negli istituti penitenziari di alta sicurezza come quello di Quarto d’Asti dovrà passare dalla Direzione centrale della capitale. Ad annunciarlo è una nuova circolare del ministero della Giustizia, pubblicata negli ultimi giorni. Un cambio radicale. Infatti finora i permessi venivano vagliati sul piano regionale. “Questa burocratizzazione creerà un “effetto imbuto” - commenta Domenico Massano, garante dei detenuti di Asti - allungando i tempi di autorizzazione si rischia di ritardare, se non bloccare, lo svolgimento di diverse attività”. Contro la direttiva si sono espressi anche i magistrati di sorveglianza e numerosi famigliari di vittime di terrorismo e criminalità organizzata, tra cui le figlie di Aldo Moro e Paolo Borsellino. “In un sistema carcerario in grave crisi - aggiunge il garante - con un numero sempre più tragico di suicidi, questa circolare rischia di disincentivare la partecipazione della società esterna”. nLa direttiva vale anche per tutti i detenuti in regime di media sicurezza che si trovano in carceri ad alta. La richiesta per l’autorizzazione dovrà arrivare con “congruo anticipo”, una specifica giudicata poco chiara. Sulla norma è meno critico il sindacato della polizia penitenziaria. “Sicuramente limiterà la scorrevolezza delle attività - dice Carmelo Passafiume, vicesegretario regionale Piemonte e Valle d’Aosta Osapp - ma sarà anche una compartecipazione di assunzione di responsabilità da parte degli organi centrali”. E continua: “Capita che in una partita tra carcerati e ragazzi si abbiano solo cinque agenti a sorvegliare”. “Sicuramente questa circolare è stata dettata da motivi di sicurezza, gli agenti sono troppo pochi, ma non era necessaria”, dice Daniela Borsa, volontaria di Effatà, che organizza progettualità all’istituto penitenziario di Quarto. E ribadisce: “I tempi si allungheranno e alcune attività salteranno come è già successo a Padova dove un evento già approvato da tempo è stato bloccato”. Livorno. Rugby, perché è saltata la partita della squadra dei detenuti contro i RinoCerotti losservatore.com, 10 novembre 2025 Per ora il pallone ovale all’interno del carcere livornese de ‘Le Sughere’ rimbalza solo nel corso degli allenamenti: la squadra delle ‘Pecore Nere’, la rappresentativa dei detenuti che per un periodo piuttosto lungo - dalla stagione 2019/20 fino all’annata scorsa - si è ritagliata un ruolo da protagonista nel campionato federale Old, non può giocare nuove partite. È la diretta conseguenza della recente circolare emanata dal Ministero di Giustizia, con cui, per gli istituti di alta e media sicurezza, il governo ha riscritto le regole per l’organizzazione delle attività di soggetti esterni in carcere, limitandole pesantemente. Anche nella casa circondariale labronica sono, almeno per ora, sospesi i progetti legati al teatro e anche alle partite che coinvolgono giocatori e addetti ai lavori (arbitri, accompagnatori), che provengono da fuori. Non si è disputata la gara valida per la prima giornata del girone tosco-emiliano del campionato Old 2025/26 tra le stesse Pecore Nere e i RinoCerotti, inizialmente in programma lo scorso 25 ottobre. È significativo che quella partita avrebbe opposto due formazioni che, a livello sportivo, operano in strettissimo contatto. Quella dei RinoCerotti è la rappresentativa Old dei Lions Amaranto Livorno: sono stati proprio i Lions a lanciare il progetto del rugby in carcere. Un progetto iniziato il 27 settembre 2014, quando 22 giocatori della prima squadra dei Lions e dei RinoCerotti si presentarono sul campo in sintetico, posto all’interno dell’istituto penitenziario livornese, per dar vita ad uno speciale allenamento. Da allora, l’iniziativa del rugby nel carcere labronico ha avuto uno sviluppo superiore alle più ottimistiche previsioni. Tante le tappe vissute in questi 21 anni: tappe che hanno coinvolto anche il mondo arbitrale e ispirato un progetto simile, al carcere di San Gimignano. Tutte le tappe - inclusa quella che ha consentito di inaugurare il 22 maggio 2021 il nuovo campo in sintetico, alla presenza del presidente federale dell’epoca, il livornese Marzio Innocenti, e di intitolare lo stesso impianto a Manrico Soriani - sono illustrate in un capitolo del libro ‘La posta in palio nel terzo tempo’ (le ultime copie dell’opera sono a disposizione degli sportivi presso la segreteria del ‘Priami’, il quartier generale dei Lions). L’argomento ‘Pecore Nere’ è stato al centro dell’attenzione anche durante una diretta su Rai2, a ‘La Domenica Sportiva’, nel corso dell’intervento di Emanuele Bertolini, dirigente Lions (nonchè tra i soci fondatori del club) e ripreso anche dalla conduttrice del programma, la giornalista Simona Rolandi. In quella circostanza, nello studio televisivo di Corso Sempione, a Milano, erano presenti anche Michele Niccolai, Maurizio Berti e Massimo Soriani, tre rugbisti che, a vario titolo, hanno lavorato e stanno lavorando per il progetto. I tre - e ovviamente i Lions, i RinoCerotti e tutti coloro che credono nei veri valori del rugby - si augurano che tale progetto possa avere un futuro e che non resti solo nei ricordi di chi l’ha vissuto e nella descrizione del succitato libro. Taranto. “Il Libro Sospeso”: studenti e cittadini donano libri ai detenuti del carcere di Giulia Inversi buonasera24.it, 10 novembre 2025 L’iniziativa della Biblioteca Acclavio con il patrocinio del Comune e la collaborazione del centro commerciale Porte dello Jonio e della libreria Mondadori. Un incontro pubblico con studenti, operatori ed ex detenuti per riflettere su giustizia e rieducazione. Un gesto semplice per costruire ponti attraverso la cultura: donare un libro alla Biblioteca della Casa Circondariale di Taranto. È questo il cuore del progetto “Il Libro Sospeso”, promosso dalla Biblioteca Civica Pietro Acclavio con il patrocinio del Comune di Taranto, in collaborazione con il Centro commerciale Porte dello Jonio, gestito da Nhood, e con la libreria Mondadori ospitata nella stessa galleria. L’iniziativa, ispirata al concetto del “caffè sospeso”, invita i cittadini a lasciare un libro acquistato in dono ai detenuti, contribuendo così alla crescita della loro biblioteca e al percorso di rieducazione che passa anche attraverso la lettura. Il progetto culminerà lunedì 10 novembre alle 10.30, nel “Cortile dei Pescatori” del centro commerciale Porte dello Jonio, con un evento pubblico aperto a studenti, operatori e cittadini. Saranno protagonisti gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado, che nelle scorse settimane hanno partecipato a un percorso di formazione curato da Monica Golino ed Eugenia Croce, referenti delle attività di promozione della lettura nella Casa Circondariale per conto della Biblioteca Acclavio. Durante gli incontri preparatori, i ragazzi hanno riflettuto sul significato della pena, sul valore della giustizia e sulla funzione rieducativa del carcere, approfondendo il ruolo della cultura come strumento di libertà interiore e di cambiamento. Nel corso dell’appuntamento di lunedì, gli studenti potranno ascoltare testimonianze dirette di ex detenuti, operatori penitenziari ed esperti del settore, confrontandosi apertamente sui temi della dignità umana, del reinserimento sociale e della responsabilità civile. L’obiettivo è stimolare un dialogo autentico tra il mondo della scuola e quello carcerario, per superare pregiudizi e favorire una nuova consapevolezza sociale. Secondo la Biblioteca Acclavio, promotrice del progetto, “Il Libro Sospeso” rappresenta un invito alla solidarietà culturale e alla partecipazione civica, ma anche un modo per riaffermare il ruolo della biblioteca come presidio di democrazia, conoscenza e inclusione. Con questa iniziativa, Taranto si fa portavoce di un messaggio profondo: la cultura può attraversare ogni barriera, anche quella di un carcere, restituendo dignità e speranza a chi sceglie di ricominciare partendo dalle pagine di un libro. L’Aquila. Per i detenuti un’opportunità di lavoro che riabilita di Lucia Medri Il Messaggero, 10 novembre 2025 Gruppo Cobar e Seconda Chance insieme per il reinserimento dei detenuti, ne parliamo con Domenico Spinelli, Direttore delle Risorse Umane di Cobar Spa. Cos’è e come si inserisce la partnership con Seconda Chance nelle vostre azioni di responsabilità sociale? Il progetto Seconda Chance si inserisce nel capitolo “Rispetto per le persone” del nostro piano di sostenibilità aziendale. Uno degli obiettivi che ci siamo prefissati è quello di abbattere le diversità di qualunque tipo e soprattutto di garantire pari opportunità indipendente da sesso, razza, etnia, religione con un particolare focus sull’attenzione al sostegno dei più deboli (tra i quali oltre ai detenuti, ci sono anche gli stranieri in condizioni di vulnerabilità). Chi può beneficiarne? Detenuti e ex detenuti, in virtù di quali requisiti e per quanto tempo? Possono beneficiarne detenuti, ex detenuti oppure persone che hanno semplicemente un percorso di riabilitazione a seguito di precedenti penali. La scelta avviene in collaborazione dell’associazione Seconda Chance, delle case circondariali, degli assistenti sociali che ci permettono di poter incontrare persone che hanno dimostrato, oppure stanno dimostrando di essere pronte al rientro nella società. A loro va il nostro più profondo ringraziamento. Parliamo di detenuti perché le detenute non hanno ancora accesso a queste opportunità? L’opportunità è rivolta ad entrambi i sessi. Al momento non abbiamo ancora avuto l’opportunità di selezionare una collega, poiché in questa fase di test, abbiamo deciso di dare la priorità a persone che hanno già maturato un minimo di esperienza in ambito edile e ad oggi, nessuna candidata ci è stata presentata. Non escludiamo tuttavia che ciò possa avvenire non appena il progetto avrà avuto maggiori sviluppi. Come si articola il rapporto di lavoro, quali tutele sono garantite, e le giornate lavorative vengono retribuite o sono utili per la buona condotta? Il rapporto di lavoro è gestito sotto forma di contratto di lavoro, in una prima fase in somministrazione, regolarmente retribuito come da CCNL edilizia. Al buon esito del rapporto di lavoro a tempo determinato, vorremmo poter trasformare questi rapporti in contratti a tempo indeterminato. E’ evidente che il reinserimento lavorativo, oltre a garantire la retribuzione della persona, permette di dimostrare concretamente la riabilitazione alla vita sociale, di recuperare la libertà durante la giornata, ma soprattutto di essere pronti a riprendere in mano la propria vita. Cosa si intende per reinserimento? Significa che la persona può proseguire la collaborazione una volta concluso il periodo detentivo? Assolutamente si. Così come avvenuto per uno dei nostri primi partecipanti al progetto, Antonio, che ha iniziato a lavorare il 27/06/2025, in data 10/09/2025 è arrivato il decreto di scarcerazione ed oggi continua a lavorare con noi, ama soprattutto è un cittadino libero. Ci auguriamo che possa accadere nuovamente anche per gli altri colleghi, perché lo spirito del progetto è quello di garantire una vera seconda possibilità. Milano. Carcere di Opera: in cammino per la solidarietà alimentare gnewsonline.it, 10 novembre 2025 È stata la Casa di Reclusione Opera di Milano la sede prescelta, questa volta, per l’evento di lancio della Giornata Nazionale della Colletta Alimentare, che si svolgerà sabato 15 novembre in tutta Italia. Organizzata, come ogni anno, dalla Fondazione Banco Alimentare, l’iniziativa ha voluto, per il 2025, coniugarsi con un luogo emblematico. Come si legge nel documento ufficiale con cui il 17 ottobre scorso è stato presentato l’avvenimento, scegliere il carcere significa sottolineare “il valore educativo e rigenerativo della Colletta, capace di raggiungere e coinvolgere tutti, anche chi vive situazioni di fragilità e restrizione”. La prossima colletta alimentare interesserà circa dodicimila supermercati e coinvolgerà milioni di persone nel gesto di donare parte della propria spesa a chi è in difficoltà. La fondazione promotrice, che dal 1989 si impegna nella lotta allo spreco di prodotti commestibili, ha deciso di estendere l’iniziativa della distribuzione di generi alimentari agli istituti penitenziari, con cui collabora da oltre quindici anni. La creazione di una condivisione, nella rete della solidarietà, tra carcere e realtà esterna viene evidenziata da Fabio Pinelli, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, che sottolinea come la valenza rieducativa possa realizzarsi “solo attraverso il rapporto tra il dentro e il fuori”. Porre un luogo di reclusione come punto di partenza della Giornata Nazionale della Colletta Alimentare ha un alto valore simbolico: “si può scontare una pena senza essere esclusi dalla società civile”, prosegue l’avvocato. Marco Piuri, presidente della Fondazione Banco Alimentare, nata, come parte di una federazione europea, con lo scopo di contribuire a combattere il problema della fame, afferma, nel comunicato stampa del 17 ottobre, che acquistare e donare cibo è qualcosa di “semplice e alla portata di tutti” e che “la partecipazione delle persone detenute testimonia che è un gesto che può generare valore e speranza, anche dove la vita appare più difficile”. Il coinvolgimento degli istituti penitenziari nella promozione della lotta alla povertà e all’emarginazione, attraverso una gestione più responsabile delle risorse alimentari, ha indubbiamente una valenza rieducativa, che radica l’universo carcerario - detenuti ed operatori penitenziari - all’interno della comunità, favorendo un modello esistenziale alternativo rispetto alla devianza e all’isolamento. Come fa notare Incoronata Corfiati, Primo dirigente del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia, la partecipazione del carcere alla Colletta Alimentare “è un’occasione preziosa per far conoscere la realtà penitenziaria al mondo esterno e offrire un esempio positivo di vicinanza verso chi vive situazioni di fragilità”. Fabio Romano, presidente di Incontro e Presenza, una delle associazioni con cui il Banco alimentare collabora all’interno delle carceri, nella presentazione dell’evento, ha voluto portare alcune testimonianze dei detenuti che hanno partecipato alle scorse edizioni, “diventando parte attiva di una catena di bene che unisce chi dona e chi riceve”. Uno dei reclusi che hanno collaborato alle collette degli anni passati afferma: “Quando ti senti guardato così - non per quello che hai sbagliato, ma per quello che puoi ancora dare - cominci a credere che è possibile, e persino bello, vivere in un altro modo”. Monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, sigla l’iniziativa ricordando che “da qui può ripartire la speranza: si può rinascere, tutti, nessuno escluso”. Venezia. Una vita dietro le sbarre e il coraggio di raccontarsi di Maria Ducoli ilnordest.it, 10 novembre 2025 Le testimonianze delle detenute del carcere della Giudecca a Venezia: i fallimenti, i mariti o i compagni violenti, la voglia di riscattarsi. Le parole di Marta, condannata a 30 anni: “Quando sono entrata qua, mi sono sentita per la prima volta libera”. Si passano il microfono, applaudono, spronandosi l’una con l’altra a raccontarsi. Alcune hanno la voce sicura, altre inciampano nella pronuncia di una lingua che non padroneggiano ancora del tutto. Gli interventi sono lunghi, come se volessero cogliere l’occasione di essere ascoltate per tirare fuori quello che hanno dentro. Un passato ingombrante, ferite che diventano voragini e, infine, reati. Le detenute della casa di reclusione femminile della Giudecca si sono raccontate ai due candidati del Pd alle Regionali, Monica Sambo e Gabriele Bolzoni, e all’eurodeputata dem Alessandra Moretti, che ha rotto il ghiaccio parlando dei propri fallimenti, da quelli personali alla sconfitta politica del 2015, quando era in corsa per la presidenza della Regione. “Quando perdi, sei sola. Vivi una profonda solitudine, io pensavo di lasciare la politica, invece quel fallimento mi è servito e mi ha dato la spinta per migliorarmi”. Una ventina di detenute l’ascoltano, facendo spazio con le sedie alla nuova direttrice Maurizia Campobasso, annuendo quando Moretti dice che “sul corpo delle donne si giocano le guerre più spietate”. Loro, d’altronde, lo sanno bene. Julia viene da Cracovia e dei suoi 35 anni in Italia, 13 li ha trascorsi con un uomo violento, un boss della criminalità organizzata. “Se mangiavo, dovevo farlo fuori, come i cani”, racconta, aggrappandosi al microfono per non farsi travolgere dai ricordi. “L’avevo denunciato, ma poi l’ho fatto tornare a casa pensando che fosse cambiato. Lo era, ma in peggio. Smetteva di picchiarmi solo quando vedeva uscire il sangue. Non avevo più la forza per difendermi”. Anna, invece, è mestrina ed è cresciuta immersa nella violenza, con davanti agli occhi l’immagine del padre che picchiava la madre. Poi è arrivata la cocaina, i due anni vissuti in strada, gli stupri, una gravidanza continuando a drogarsi, una bambina che non sapeva di volere e che oggi è stata adottata, ma a cui pensa tutti i giorni. “Sono qui perché ho tirato un pugno a mio padre mentre ero fatta, ma in carcere dovrebbe esserci lui”, sbotta. Silvia, trentenne mestrina, racconta di essere stata due mesi con “un maledetto”. Lo chiama sempre così, perché, dice, non sa come definirlo in altri modi. “Ho sempre avuto il coraggio di denunciare”, spiega con la voce decisa, “ma le forze dell’ordine non mi hanno mai aiutato e la situazione è peggiorata, si faceva trovare sotto casa mia alle sei di mattina, fuori dal lavoro, ovunque. Ero completamente fuori di me per questa situazione, me la prendevo con mia mamma e mio fratello e solo io so i rimorsi di coscienza che ho, perché loro mi sono ancora vicino”. Sono storie di marginalità, di donne che sono state bambine cresciute ai margini, sempre sull’orlo del precipizio. Ana ha 32 anni, sei figli in Romania ed era solo una ragazzina quando ha iniziato a rubare. “Ho accumulato reati dal 2008, quando ero ancora minorenne. La fine della mia pena sarà nel 2032, per ora ho fatto tre anni”. Per Ana, Silvia, Julia e tutte le altre 97 detenute della Giudecca, il carcere è spesso il primo luogo in cui sentono di avere un ruolo, un’identità, una prospettiva. “Quando sono entrata qua, mi sono sentita per la prima volta libera”. È Marta a dirlo, composta e riservata, ha varcato la soglia della casa di reclusione nel 2016 con una pena di 30 anni per aver commesso un grave reato. Dopo una vita immersa nella violenza, ci sono volute le sbarre alle finestre per farle ritrovare la libertà. Ecco, allora, il carcere che rieduca, insegna, ascolta. Verona. “Un mare dentro”, per entrare nel carcere tra cultura, lavoro e storie di rinascita di Pierantonio Braggio adige.tv, 10 novembre 2025 A Verona, l’11 e il 18 novembre, riflettori sui temi della giustizia e del reinserimento sociale. “In un Paese che discute di sicurezza, rieducazione e inclusione, Verona sceglie la via del confronto pubblico e dell’esperienza diretta: l’11 e il 18 novembre alle 20.30 al Teatro Ristori due appuntamenti aperti alla cittadinanza invitano a guardare “da vicino” il mondo della detenzione e ciò che accade prima, durante e dopo la pena, mettendo al centro dignità del lavoro, responsabilità personale e opportunità reali di ritorno alla vita di comunità. L’iniziativa è il cuore di “Un mare dentro”, progetto promosso da Fondazione Cariverona e Fondazione San Zeno, che unisce cultura, educazione e partecipazione civica con un programma di sensibilizzazione rivolto alla città e alle scuole veronesi per l’anno scolastico 2025-2026, con il coinvolgimento dell’Associazione Granello di Senape di Padova. Il primo appuntamento, martedì 11 novembre (ingresso gratuito previa registrazione su Eventbrite), mette al centro “Libertà va cercando” di Alessandro Anderloni: la proiezione del documentario sul Teatro del Montorio apre un dialogo sul valore rieducativo dell’arte in carcere, accompagnando il pubblico dalle storie alle pratiche e mostrando come la scena teatrale possa diventare spazio di consapevolezza, riscrittura di sé e riconnessione con la comunità. Dopo la visione, è previsto un confronto con i protagonisti del progetto, compresi il regista e tre attori del Teatro del Montorio, con spazio finale alle domande. Il secondo appuntamento, martedì 18 novembre (ingresso gratuito previa registrazione su Eventbrite), è dedicato a “Il giardino delle meraviglie” di Anush Hamzehian: dal carcere femminile della Giudecca a Venezia, il lavoro della cooperativa sociale Rio Terà dei Pensieri mostra come terra e impresa sociale possano diventare strumenti di riscatto e di futuro. A seguire un momento di confronto con il regista, la presidente della cooperativa Vania Carlot e il contributo del Circolo del Cinema di Verona, con il responsabile organizzativo e critico cinematografico Francesco Lughezzani, per approfondire opportunità, limiti e sfide dei percorsi lavorativi in carcere e la loro ricaduta sulla sicurezza sociale. Le serate sono parte integrante di un percorso che coinvolge complessivamente dieci scuole secondarie di secondo grado di Verona e provincia. Il programma di “Un mare dentro” prevede due matinée dedicate agli studenti nelle stesse date delle proiezioni serali - oltre 700 alunni partecipanti, con il coinvolgimento di partner come la cooperativa Panta Rei e l’impresa sociale Quid - e una serie di attività didattiche co-progettate con i docenti, per portare in classe film, esperienze e laboratori capaci di connettere conoscenze e vita reale. Si parte dal teatro come spazio di libertà e si arriva alla giustizia riparativa, passando per scrittura e musica come strumenti di espressione e cambiamento, anche grazie alla partecipazione del rapper Kento. Accanto alle visioni guidate sono previsti momenti di preparazione e restituzione in aula, incontri online con testimoni e approfondimenti in presenza sugli aspetti sociali e lavorativi del reinserimento, con particolare attenzione al linguaggio, agli stereotipi e al rapporto tra pena, responsabilità e comunità. “Come Fondazione lavoriamo da molti anni su questi temi sostenendo progetti che trasformano il tempo della pena in occasioni di apprendimento, responsabilità e relazioni significative”, sottolinea Marta Cenzi, responsabile Area istituzionale di Fondazione Cariverona. “Con Un mare dentro intendiamo mantenere alta l’attenzione pubblica, promuovere percorsi di sensibilizzazione nelle scuole e nei territori e far crescere programmi di reinserimento che integrano cultura e lavoro. L’orizzonte è quello di comunità capaci di accogliere e costruire ponti, fondate su legami reali e corresponsabilità. Nel Documento di programmazione annuale 2026 abbiamo deciso di rinnovare il nostro impegno destinando un milione di euro a questa linea di intervento, che comprende anche azioni specifiche di tutela e accompagnamento delle vittime di reato”. “Ogni volta che entriamo in un laboratorio teatrale, in una cucina o una falegnameria dentro a un carcere, che sia a Verona ad Alessandria o a Palermo, vediamo persone che ricominciano a credere nelle proprie capacità”, afferma Rita Ruffoli, direttrice di Fondazione San Zeno. “È lì che il cambiamento prende forma: quando il lavoro, l’arte e lo studio diventano occasioni per provare, sbagliare, crescere e immaginare un futuro possibile. Con Un mare dentro questo patrimonio di esperienze incontra la scuola e la città: studenti, famiglie e comunità sono chiamati a guardare la realtà della pena senza pregiudizi e a confrontarsi con ciò che rende davvero concreti i percorsi di reinserimento”. Il calendario educativo, realizzato con il supporto tecnico di Granello di Senape e in dialogo con le scuole del territorio, prosegue per tutto l’anno scolastico 2025-2026, con materiali di supporto per le classi e un’attenzione costante a risultati osservabili in termini di consapevolezza, partecipazione e apertura al confronto. “Un mare dentro” non si esaurisce quindi sul grande schermo: mette radici nel territorio ed entra nella scuola, dove studenti e docenti trasformano il racconto in competenze, responsabilità e sguardi nuovi sul reinserimento. Da Verona parte un impegno condiviso - istituzioni, famiglie, terzo settore e imprese - perché cultura e lavoro diventino strumenti di coesione civile e di sicurezza sociale che resta”. Anziché, solo parlare, l’iniziativa “Made dentro” intende, dunque, realizzare e ridare vita, con il reinserimento nella società, a persone, come noi, alle quali è doveroso essere di aiuto. Per partecipare agli incontri, di cui sopra, che sono ad ingresso libero, occorre prenotarsi. Info: comunicazionefondazionecariverona.org, tel.: 045 8057379-03. Trento. Il progetto “Liberi da Dentro” per far crescere la cultura dentro e fuori il carcere di Irene Argentiero difesapopolo.it, 10 novembre 2025 Per riaprire il dialogo tra i figlioli prodighi di evangelica memoria e i tanti primogeniti in versione 2.0, “Liberi da Dentro”, si affida ancora una volta alla lettura e alle parole. Un paio di mura grigie e spoglie, su cui si appoggia un letto a castello in ferro, su cui si adagiano le lamine verticali di luce che attraversano le sbarre alla finestra. Ma ecco arrivare in volo un libro dalla copertina rossa, che a pagine spiegate, apre un varco in mezzo alle sbarre, per posarsi sul letto. E poi un altro blu, uno giallo, e un altro ancora. Come elementi di un singolare stormo fatto di parole di carta. E ad ogni volo di pagine, l’apertura si fa sempre più grande, fino a rosicchiare sbarre e pareti, lasciando entrare nel grigiore della cella i colori della natura e i profumi della vita. Queste le istantanee del racconto animato con cui la matita di Giorgio Romagnoni in un post pubblicato venerdì scorso, 7 novembre, sul suo account Ig, presenta il progetto di solidarietà “I libri liberano” lanciato a fine ottobre dalla rete “Liberi da Dentro” per far crescere la cultura dentro e fuori il carcere di Trento. “Il nostro obiettivo - spiegano i coordinatori di “Liberi da Dentro” su Ig - è quello di donare 500 nuovi libri alla biblioteca della casa circondariale di Trento, offrendo ai detenuti gli strumenti per riflettere, imparare e crescere. Ogni libro donato non è solo carta: è una finestra sulla conoscenza, uno strumento di riflessione, una possibilità di rinascita. Quello che chiediamo non è solo una donazione. È un atto di fiducia, un seme di cambiamento. È scegliere di fare la differenza, davvero. Ogni contributo conta. Ogni aiuto ci permette di scrivere, insieme, pagine di futuro positivo”. “Liberi da Dentro” è un progetto nato nel 2018 per realizzare le attività proposte da una rete del territorio trentino, attività volte a coinvolgere la cittadinanza in eventi e occasione di incontro e scambio sul tema dell’esecuzione penale attraverso attività di carattere culturale, dentro e fuori dal carcere, nelle quali vengono coinvolte persone detenute, dimesse dal carcere e sottoposte a misure di comunità e volontari, oltre a tutta la cittadinanza. A “Liberi da Dentro” aderiscono la Conferenza regionale volontariato e giustizia (Crvg) Trentino - Alto Adige che coordina gli enti di volontariato che si occupano di carcere a livello regionale ma con legami nazionali, l’Associazione provinciale aiuto sociale (Apas), che svolge il ruolo di capofila coordinando tutte le attività e i partner, “dalla viva voce”, che cura le attività di sensibilizzazione nelle scuole con i suoi formatori, la Scuola di preparazione sociale (Sps), che mette a disposizione i propri soci come volontari e formatori, La Fondazione Franco Demarchi, che garantisce gli spazi per la formazione e coordina la campagna di crowdfunding. Al progetto aderisce anche la Casa circondariale di Trento, il Coordinamento teatrale trentino, l’Associazione italiana biblioteche del Trentino - Alto Adige e i Comuni di Rovereto, Riva del Garda e Trento. Non solo. La squadra che è scesa in campo per giocare questa partita di riscatto e solidarietà è molto più numerosa. Alla campagna, infatti, finanziata anche grazie al bando “Cultura e sport per il sociale 2025” della Fondazione Caritro e con il sostegno di Sparkasse per il Crowdfunding, aderiscono più di sessanta biblioteche su tutto il territorio trentino e venti librerie. “I nostri volontari da anni attivi in carcere - spiegano da “Liberi da Dentro” - ci hanno informato che è da tanto tempo che non vengono aggiornati i cataloghi delle biblioteche interne all’istituto penitenziario trentino I testi già presenti sono datati, non aggiornati, consumati dal tempo. Ne servono di nuovi, per imparare, per crescere, per immaginare, per permettere ai detenuti di mettere le basi per un nuovo futuro fatto di nuove competenze, empatia, consapevolezza”. Un progetto nato per riempire gli scaffali vuoti e restituire alla biblioteca il suo ruolo: essere una finestra sul mondo. Come racconta nel suo post il vignettista Giorgio Romagnoni, riprendendo le parole di “Liberi da Dentro”. “Dentro il carcere - scrive il vignettista trentino su Ig - il tempo si dilata. Le ore si assomigliano, i giorni si confondono. È una routine che appiattisce, che spegne. Ma c’è qualcosa che può rompere questo silenzio, accendere la mente, far viaggiare il cuore: un libro. Anche dietro le sbarre, un libro può spalancare il mondo. Un libro può diventare rifugio, scoperta, libertà. Può nutrire la conoscenza, far nascere nuove consapevolezze, accendere il desiderio di cambiare. Può offrire dignità, dare senso al tempo, far intravedere un futuro. In carcere, leggere non è solo un modo per passare il tempo. È un’opportunità per ricominciare. Per capire, Per immaginare e impostare una vita diversa. Una biblioteca in carcere non è un privilegio, ma uno strumento fondamentale di crescita, formazione, reinserimento sociale ed un diritto”. “Un libro al giorno è un passo verso la libertà”. “Fuori e dentro, parte della stessa società”. E ancora: “Credere nelle seconde possibilità è credere nell’umanità”. “Dietro ogni errore c’è una persona che può ricominciare”. “La cultura può essere la forza che trasforma le persone”. Sono le voci e i volti dei volontari di Apas a raccontare in un video pubblicato su YouTube, il concetto profondo di giustizia riparativa che sta alla base del progetto “I libri liberano” e, più in generale, dell’attività della rete “Liberi da Dentro”. Un concetto, quello della giustizia riparativa, che fintanto che resta circoscritto alle conferenze di settore va bene, ma che poi quando chiede di essere applicato nel quotidiano, trova di fronte a sé muri più alti e fortificati di quelli del più moderno carcere di massima sicurezza. In una società insoddisfatta e stanca, immersa in un mondo dove la generalizzazione della rabbia e del rancore alimenta inevitabilmente un giustizialismo cieco e sordo, è difficile far spazio alle seconde possibilità per chi ha sbagliato. Per riaprire il dialogo tra i figlioli prodighi di evangelica memoria e i tanti primogeniti in versione 2.0, “Liberi da Dentro”, si affida ancora una volta alla lettura e alle parole. Oltre al progetto “I libri liberano”, infatti, ha in agenda due edizioni della “Biblioteca vivente”, una delle quali si svolgerà nella casa circondariale di Trento e coinvolgerà undici persone recluse che non hanno la possibilità di uscire. Di cosa si tratta? Come in una biblioteca tradizionale, anche nella Biblioteca vivente è possibile consultare libri su argomenti vari e “prendere in prestito” per un tempo stabilito un “libro umano”. I visitatori potranno così conversare a tu per tu, in maniera informale, con persone che nella quotidianità non avrebbero occasione di incontrare e che spesso sono oggetto di pregiudizi e discriminazioni. Parliamo di detenuti o ex detenuti, che in vista di questi appuntamenti hanno già iniziato un percorso di formazione. Dopo il primo incontro in carcere, è previsto un secondo appuntamento in primavera, in collaborazione con le biblioteche comunali a Trento, Rovereto, Riva del Garda e in Val di Fiemme. Anche “fuori” ci si prepara a questi incontri. Lo si fa attraverso gruppi di lettura in cui vengono letti libri a tempa carcere e vengono organizzati incontri con l’autore. Alcuni di questi testi saranno letti anche dal gruppo di lettura nato all’interno della casa circondariale di Trento, per permettere uno scambio di opinioni e riflessioni emerse nei diversi gruppi. Gruppo di lettura, quello del carcere che sorge a Spini di Gardolo, che fin da ora può contare su una biblioteca sostanzialmente rinnovata. Questo perché sulla piattaforma Ginger, dove è stata avviata la raccolta fondi per “I libri liberano”, l’obiettivo di 10mila euro che si sono posti i promotori del progetto è stato raccolto. E superato. In sole due settimane, infatti, sono stati raccolti più di 11mila euro. Vista la generosa adesione, gli organizzatori hanno deciso di continuare la raccolta fino al 7 gennaio del prossimo anno, così come programmato. “In pochissimi giorni è stata superata ogni nostra aspettativa - scrivono su Ig -. Ma non ci fermiamo qui. Rilanciamo con un nuovo obiettivo di altri 10.000 €, con cui vogliamo dare ancora più forza a questo progetto di cultura e libertà. Con i nuovi fondi potremo rinnovare ancora meglio la biblioteca introducendo dvd, ebook, audiolibri e lettori; acquistare giochi e materiali che stimolino la creatività e la socialità; organizzare iniziative culturali, dalle presentazioni di libri con gli autori a spettacoli teatrali, dentro e fuori dal carcere, per costruire ponti tra chi è dentro e chi è fuori. Ogni contributo, piccolo o grande, è un gesto che semina conoscenza, dignità e speranza. Continuiamo insieme questo percorso: la cultura non ha sbarre”. Milano. Al Puntozero per scoprire chi si è davvero. La storia del teatro del minorile Beccaria di Teresa Grguri? altreconomia.it, 10 novembre 2025 Lisa Mazoni e Giuseppe Scutellà hanno dedicato gli ultimi trent’anni al progetto “Puntozero”, un teatro dentro al carcere minorile del capoluogo lombardo. In un sistema che tende ad accantonare vite e trasformare le carceri in una discarica sociale, il loro obiettivo è offrire ai ragazzi la possibilità di prendere parte a un percorso artistico capace di riaccendere curiosità, responsabilità e crescita personale. “Persona” è il titolo scelto per la stagione 2025-2026. “Ho la sensazione che per molti il benessere di questi ragazzi non conti davvero. Come può un sistema pensare che, mettendo un adolescente in una cella di tre metri per due, questo cambi? Che strumenti ha una persona in quelle condizioni?”. Giuseppe Scutellà ha deciso per questo di aprire un teatro all’interno dell’Istituto penale per i minorenni (Ipm) Cesare Beccaria di Milano, progetto che quest’anno festeggia trent’anni di attività e conta ben sette spettacoli destinati a centinaia di spettatori. Quando Scutellà nel 1995 esce dalla scuola di teatro Paolo Grassi ha 27 anni e decide di svolgere il servizio civile al Beccaria. “Avevo già in mente di portare il teatro all’interno di un carcere, sentivo che quella era la mia declinazione del fare teatro”. L’idea prende inizialmente la forma di un laboratorio in collaborazione con la scuola all’interno delle mura, poi nel 2000 Giuseppe conosce Lisa Mazoni e insieme decidono di investire in uno spazio che possa permettere loro di passare più tempo con i ragazzi e instaurare una connessione tra dentro e fuori. Il teatro Puntozero apre ufficialmente al pubblico nel 2013. Da ormai cinquant’anni in Italia l’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario dà alle persone recluse la possibilità di lavorare all’interno o all’esterno delle case di pena e quindi non solo di essere retribuite ma anche di imparare un mestiere, qualcosa che è particolarmente importante nei “minorili” che ospitano soprattutto giovani con un’età compresa tra i 14 e i 20 anni. Secondo il regista però l’approccio al reinserimento non funziona come dovrebbe. Molti detenuti vengono introdotti in contesti inadatti, senza alcuna preparazione: “Li mandano dal gommista, in panetteria o in cantiere e dopo due giorni vengono licenziati perché non stanno bene in quel contesto”. C’è un evidente doppio standard: “Se quel ragazzino fosse tuo figlio prima cercheresti di aiutarlo a capire chi è e quale sia la sua direzione. Questo, ai detenuti, non viene concesso. Poi certo ci servono panettieri, muratori e gommisti ma devono farlo con felicità, con motivazione”. E per Scutellà, la felicità parte dal gioco. “Non si può iniziare parlando loro di lavoro e di futuro, bisogna portarli ad accettare piccoli passi alla volta. Anche nel gioco ci sono regole: e quelle regole poi si trasformano, diventano rispetto. Rispetto per l’altro, per il gruppo, per il processo. Così li si conduce a intraprendere un percorso che può portarli anche in teatro, su un palco, a confrontarsi con se stessi e con gli altri, e che piano piano diventa un cammino di consapevolezza e di presa di coscienza”. Così Giuseppe e Lisa offrono a chi ottiene il permesso dal magistrato di sorveglianza la possibilità di uscire durante il giorno dal carcere o dalla comunità dove si sconta la pena e partecipare alle attività di preparazione degli spettacoli. Due collaboratrici di Puntozero preparano i cartelloni per lo spettacolo di Alice Augmented © Alessandro Treves Oltre alle attività in teatro, chi lavora al Puntozero martedì e giovedì entra insieme ad altri volontari negli spazi della scuola del carcere, dove tutto ricorda le aule di medie e licei se non per le porte blindate, le sbarre alle finestre e le guardie che controllano ogni movimento. Nei primi incontri il teatro propone giochi basilari come ruba bandiera o gare di agilità e ci si stupisce quando certi detenuti, quelli che magari hanno ricevuto le condanne più gravi, si mettono a divertirsi come ragazzini. Improvvisamente tornano alla loro età anagrafica, a sentire che cosa vuol dire avere 14, 15 o 16 anni. Alcuni giochi insegnano le dinamiche di potere, altri a ridere e basta. Il teatro diventa scuola di relazione che “non ti cambia con le parole ma modifica l’agito”. Stare sul palco insegna a stare nel mondo: ti fa capire quanto stare vicino o lontano da qualcuno, quanta voce hai, quando è il momento di parlare o di stare zitto. “Perché nella vita serve anche sapere quale parte devi recitare in quel momento, su quel palcoscenico. Non è questione di ipocrisia, è che siamo fatti di mille sfumature, mille versioni di noi stessi”. È questo il concetto che sta dietro “Persona”, il titolo scelto per la stagione teatrale 2025-2026. In latino indicava originariamente la maschera, inclusi l’attore e il suo ruolo, come un oggetto che allo stesso tempo nasconde e rivela. Scutellà spiega che il teatro aiuta anche a costruire una grammatica emotiva che nessuno ci insegna e di cui spesso non riconosciamo neanche la mancanza. Ne sono sintomo i segni di autolesionismo che molti dei ragazzi mostrano su gambe e braccia e i tentati suicidi che nel solo Ipm Beccaria durante il 2023 sono stati tre, a fronte di 72 “ospitati”. Secondo Antigone, il tasso di suicidi in Italia nel 2024 è stato 25 volte maggiore per le persone detenute rispetto a quello tra le persone libere. Quando il regista parla del malessere dei detenuti usa il noi come a ricordare che siamo tutti parte della stessa comunità e che il confine tra “dentro” e “fuori” non è poi così netto. Sempre secondo Antigone nel 2024 il numero di stranieri ha superato quello degli italiani nelle carceri minorili con un aumento vertiginoso a partire dal 2021, con una percentuale del 51,2%. Si tratta spesso di persone immigrate che hanno subito traumi e violenze prima di arrivare qui. Il teatro diventa per loro un luogo di decostruzione che serve a far disimparare tutto quello che la società ha insegnato loro. Ecco perché “Puntozero”: da qui si può ripartire, rinnovarsi, diventare qualcosa di diverso o forse semplicemente scoprire chi si è davvero. La buona riuscita dell’iniziativa è testimoniata dalla presenza di Alex Simbana che, dopo aver scontato la pena, ha deciso di rimanere a lavorare con Giuseppe e Lisa. Oltre a lui in teatro operano oggi gli attori Marcello Ciani e Mubi, la cantante Joseena Rigo, la collaboratrice Anna Vincre e il tecnico delle luci Enea Scutellà. Ogni giorno dall’affido arrivano due ragazzi e da fine novembre, con la ripresa delle prove per gli spettacoli primaverili, si uniranno a loro altri detenuti. Il 28 ottobre la compagnia ha presentato il primo spettacolo della stagione, proprio su quel palco che sta tra il carcere e il mondo esterno. “Errare humanum est: il carcere minorile spiegato ai ragazzi” viene messo in scena da dodici anni ed è nato per le scuole medie e superiori con l’obiettivo di riaprire una riflessione collettiva sulle carceri. Non è solo un discorso per i ragazzi: è una questione politica. “Le leggi non vengono mai fatte pensando a noi, è sempre colpa di qualcun altro, oggi il capro espiatorio sono gli extracomunitari ad esempio. Perciò a nessuno importa che l’articolo 27 della Costituzione dica che la pena deve essere rieducativa”. Con “Errare” quest’anno il teatro esce dall’approccio scolastico per ragionare insieme alle famiglie sulla legge. Perché spesso non c’è il pudore o lo spazio per affrontare certi temi che invece è importante far emergere. Giuseppe racconta che ad un certo punto si è reso conto che la legge è come un linguaggio massonico, accessibile solo a chi lo pratica. Eppure “quando qualcuno finisce in carcere la prima reazione di tre quarti degli italiani è: ‘Se l’è cercata’, non ‘gli è arrivata addosso la legge’. Ma ci si chiede mai come ci sono arrivati lì?”. Non lo si fa solo per raccontare le esperienze dei detenuti e sensibilizzare la cittadinanza ma “perché bisogna spiegare le cose: sapevi che quando esci dal carcere l’Agenzia delle entrate ti manda cartelle esattoriali legate alla detenzione? E che i primi stipendi che prendi vengono decurtati per saldare quei debiti? Perché non spiegarlo alla gente che si lamenta che questi ragazzi pesano sullo Stato, che si indigna quando scopre che hanno la televisione in cella”. In Italia ci sono 189 istituti penitenziari per adulti e 17 per minori, forse presto diventeranno 18 o 19. Considerando che i reati commessi dai detenuti sono per la maggior parte “contro il patrimonio” (in particolare questo dato era al 55,2% nel 2023), la domanda sorge spontanea: serve davvero tutto questo carcere? Le persone che vi finiscono dentro hanno bisogno di una cella o piuttosto di alternative concrete? Viene da chiedersi se qualcuno abbia mai davvero creduto che sbarre e psicofarmaci possano aiutare una persona a reinserirsi nel tessuto sociale. Il gruppo di Puntozero alla fine dello spettacolo fuori dal teatro © Alessandro Treves “La giustizia minorile -continua il regista- non dovrebbe rappresentare la mano violenta della legge, dovrebbe portare a un ragionamento”. Il diritto, per come lo dice la parola, dovrebbe indicare una retta via condivisa dalla società, non qualcosa di imposto dall’alto. Anche perché quando un minore commette un reato, spesso è una richiesta di aiuto rivolta al mondo adulto. “Due ragazzini che rompono una vetrina in stazione manifestando vanno ascoltati, non incastrati. Quello è un urlo: ‘Aiutateci a cambiare questo mondo, non riusciamo a dare voce al nostro malessere’. Non lo fanno per divertimento, sono angosciati dalle guerre, dallo sfruttamento, dall’indifferenza”. Nel corso degli anni a Giuseppe è stato chiesto perché dare lavoro a ragazzi con precedenti penali, mentre tanti giovani con percorsi regolari restano disoccupati. In passato rispondeva parlando di solidarietà, oggi la sua visione è cambiata: non si tratta solo di aiutare chi è in difficoltà ma di contribuire attivamente a costruire un modello di società diverso. “Smettiamola di considerare il carcere come qualcosa di estraneo, destinato ad ‘altri’: difendere anche piccole fette di libertà vuol dire difendere la democrazia. Dobbiamo capire qual è la vera funzione del carcere e a chi serve. E per farlo dobbiamo partire dal basso”. Decidere tra vendetta e misericordia: in sala il nuovo capolavoro di Panahi di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 10 novembre 2025 Il motore di un’automobile non parte più, a causa di un “semplice incidente” stradale. Ma a mettersi in moto è la storia. Dopo le varie anteprime di ottobre e il premio alla carriera ricevuto alla Festa del cinema di Roma, il regista Jafar Panahi torna nelle sale col suo ultimo capolavoro, Palma d’oro a Cannes. Distribuito da Lucky Red col patrocinio di Amnesty International Italia, Un semplice incidente è un’opera nient’affatto semplice, drammatica soprattutto in un lungo monologo sullo stupro in carcere ma non priva di momenti comici. Il motore di un’automobile non parte più, a causa di un “semplice incidente” stradale. Ma a mettersi in moto è la storia, che ruota intorno alla ricerca di conferme che il guidatore dell’auto in panne sia un ex carceriere. Per togliersi il dubbio, l’aiuto-meccanico che l’ha sequestrato chiede collaborazione a chi ne ha subito la brutalità e il sadismo in prigione. Ne deriva un lungo e doloroso confronto tra chi vuole dimenticare, chi intravede finalmente un’opportunità per vendicarsi, chi teme ritorsioni e chi non riesce a decidere. Ma c’è un problema di fondo: come riconoscere una persona avendo avuto, in carcere, sempre le bende sugli occhi? Ci vorrà un altro senso al posto della vista, quello dell’udito e non si tratterà di attivarlo ascoltando una voce. Il pentimento e l’ammissione delle responsabilità dovrebbero essere le premesse di ogni perdono. Ma c’è un sentimento ancora più importante che entra in gioco e che rende persino secondario interrogarsi se essersi pentito delle torture ordinate e inflitte sia un gesto sincero o meno: la misericordia. Al netto dei significati religiosi dei vari termini (incluso quello della vendetta!), il perdono richiede una valutazione sulla persona e sulle azioni da queste commesse. La misericordia, invece, è un atto con cui si decide di salvare una vita umana come tale. Quale sarà la scelta finale, lo scopriranno le persone in sala dopo 105 minuti di visione. O forse non saranno sufficienti. Quello che in ogni caso Panahi vuole ricordarci è che, al di là delle decisioni individuali, c’è la necessità di contrastare l’impunità. Evidentemente, non è possibile lasciare che ciò accada attraverso incontri casuali tra vittime e carnefici. Ci vuole una giustizia, imparziale indipendente ed equa. Non è un caso che, in Un semplice incidente, non si veda neanche un giudice: in Iran la magistratura è uno strumento repressivo del potere. Occorrono allora, questo lo aggiungiamo noi, strumenti di giustizia internazionali. *Portavoce di Amnesty International Italia Droghe e violenza nelle Comunità di recupero: dalla Serbia un film denuncia di Angela Calvini Avvenire, 10 novembre 2025 Al Tertio Millennio Film Festival “Our father” di Goran Stankovic si ispira a un fatto di sangue reale avvenuto di una comunità di recupero religiosa. Una comunità di recupero della Chiesa ortodossa, un gruppo di giovani in cerca di salvezza e un monaco dai metodi estremi. Fu un caso doloroso che sconvolse la Serbia nel 2009: un video, girato di nascosto con un cellulare, mostrava un ragazzo picchiato brutalmente con una pala in un centro di riabilitazione gestito da un sacerdote ortodosso Branislav Peranovic. Quel filmato, diffuso in rete, fece il giro del Paese e scatenò un dibattito profondo sul rapporto tra fede, potere e cura delle dipendenze. Il sacerdote fu spostato, ma aprì un altro centro di riabilitazione e nel 2012 fu condannato a 20 anni di carcere dichiarato colpevole di omicidio per avere picchiato a morte un tossicodipendente della sua comunità. A questa vicenda si ispira Our Father (Padre nostro), il primo lungometraggio del regista serbo Goran Stankovic, che verrà presentato oggi in concorso al Tertio Millennio Film Festival promosso dalla Fondazione Ente dello Spettacolo e che si concluderà domani, première italiana dopo il successo al Toronto Film Festival. Il film, prodotto dalla serba This and That racconta la storia di Dejan, trentaduenne intrappolato nella spirale della droga, che arriva in una comunità monastica isolata per disintossicarsi. A guidarla è Padre Branko, un religioso carismatico e autoritario che crede nella disciplina e nella sofferenza come strumenti di redenzione. “Devi imparare a portare la tua croce - dice ai suoi ragazzi - non ci sono scorciatoie”. Ma quando un video rivela la violenza dei metodi usati, la fragile illusione della guarigione si infrange e Dejan è costretto a scegliere tra proteggere il sistema che gli ha dato uno scopo o affrontare la verità. Stankovic, noto in patria per una serie televisiva di successo, si è calato in un racconto claustrofobico che scava nelle dinamiche di potere e manipolazione psicologica all’interno di comunità chiuse. “Questa storia - spiega - è ispirata a un fatto realmente accaduto. All’inizio pensavo fosse solo un’isteria mediatica. Poi ho incontrato uno degli ex pazienti e ho capito che dietro c’era un mondo di persone senza scopo, senza più forza o volontà di cambiare. Il monastero per loro era l’unico rifugio possibile”. Nel film il regista esplora quella sottile linea che separa la fede autentica dal fanatismo, la disciplina dall’abuso. “Ogni struttura che reprime il pensiero individuale e pretende obbedienza assoluta - osserva - rischia di trasformarsi in autocrazia. Anche quando nasce con buone intenzioni. E l’autocrazia, per quanto sembri guidata da ideali spirituali, finisce sempre per distruggere chi la vive”. Il regista ha incontrato alcuni degli ex ospiti del vero monastero: “Erano divisi - racconta - alcuni difendevano ancora il sacerdote, non credevano fosse colpevole. Altri erano pieni di paura. Ho capito che non era una vicenda in bianco e nero, ma piena di sfumature. Ho cercato di raccontare proprio questo: come la fede può diventare una trappola quando viene confusa con il controllo. Come si arriva a pensare che picchiare qualcuno sia la cosa giusta da fare per salvarlo?”. Il film, in realtà, è una riflessione più ampia sulla società e sull’autoritarismo, non solo religioso. “Non voglio giudicare il sacerdote o i centri di riabilitazione - precisa Stankovic - ma mostrare la complessità della vicenda. Ed allargarla alla società in generale. È un avvertimento: quando una comunità si fonda sulla paura bisogna stare attenti alle conseguenze. Non è solo un problema serbo: può accadere ovunque”. Padre Branko, nel film, è duro ma carismatico. All’inizio invita i drogati a fidarsi del perdono e dell’amore di Dio, cita la Bibbia, guida la preghiera. Poi però il suo metodo degenera: punizioni fisiche, sudditanza psicologica, obbedienza cieca. Un afflato spirituale che si spezza contro la violenza quotidiana. Ma come si pone Stankovic nei confronti della religione? Il regista non si nasconde. “La Chiesa ortodossa è un’istituzione molto forte in Serbia, come in Russia, strettamente legata al potere politico. Io sono cresciuto in una società dove la fede è parte integrante della vita: si celebrano i riti, la famiglia si riunisce, ci si sposa in chiesa. Personalmente, però, sono molto critico verso l’istituzione, proprio perché sono un credente”. Non un rifiuto, piuttosto una richiesta di autenticità. “Non è un film contro la fede - sottolinea - ma un invito alla Chiesa a essere più vicina alle persone. Perché voglio farne parte, perché voglio vivere in un luogo migliore e aprire al dialogo. Il dialogo è l’unica strada per la verità”. Nel film, come nella realtà, emerge anche una domanda urgente: come si curano davvero le dipendenze? “È impossibile semplificare il problema - spiega Stankovic -. In molti di quei centri si tende a trattare solo le conseguenze, non le cause. Si dice: smetti di drogarti, ritrova Dio e sarai salvo. Ma non basta. Il vero problema è la mancanza d’amore. Queste persone devono essere riaccolte nella società, sentire di nuovo che valgono qualcosa. Finché resteranno escluse, la droga continuerà a riempire il loro vuoto. Siamo noi i primi che dobbiamo imparare ad accogliere”. Our Father è una coproduzione internazionale tra Serbia, Italia, Croazia, Montenegro, Bosnia e Macedonia del Nord, e Stankovic riconosce il ruolo fondamentale del sostegno italiano. Non a caso, collega idealmente il suo lavoro alla serie SanPa su San Patrignano: “Anche lì si parla di fede, disciplina e redenzione - osserva -. Il mondo delle dipendenze è molto difficile, il lavoro di chi cura queste persone è complesso ed occorre equilibrio nel raccontarlo”. Con uno sguardo lucido e compassionevole, Stankovic firma un film che interroga la coscienza, ricordando che la fede autentica nasce solo dove c’è libertà. E che la redenzione, per essere vera, non può mai passare per la violenza. Educazione spirituale di Alessandra D’Avenia Corriere della Sera, 10 novembre 2025 Il quotidiano nasconde l’anima delle persone e ci mostra solo la loro maschera. Me ne rendo conto quando leggo ai genitori uno scritto dei figli e si stupiscono della vita interiore di chi, in casa, usa monosillabi o, se in vena, un gergo incerto. La convivenza quotidiana rende opaca l’anima, perché ordinariamente è l’ego che mandiamo avanti, cioè quella maschera forgiata dalle ferite che la vita ci ha inferto quando ci siamo affidati senza riserve al mondo e agli adulti. La maschera è un’armatura costruita per proteggerci, una scorza di lamentele, pretese e accuse forgiata dalla rabbia per l’amore che non ci è stato dato, le paure che ci sono state trasmesse, i giudizi che ci hanno inflitto, le bugie che ci hanno raccontato. Qualcosa però dentro di noi sa che la vita può e deve essere altro. È l’anima - dal greco anemos, soffio - una metafora che da secoli usiamo per indicare la vita spirituale: verità sotto l’armatura, libertà che consente di sentire il dolore delle ferite senza sparirvi dentro, perché la vita resta sempre oltre le catene che gli umani le impongono, oltre le loro trappole per controllarla. L’anima sente la ferita, ne soffre, ma non vi si identifica, e così cerca la cura, libera le energie bloccate da paura e rabbia e spezza l’armatura. Scrittura, lettura e altre pratiche d’anima (spirituali) consentono di contattare l’anima e darle forza togliendola alla maschera, conquistando poco a poco libertà e gioia. Oggi prima dell’educazione affettiva è necessaria quella spirituale, da cui la prima dipende. Ne ho avuto conferma grazie a un compito fatto da quattordicenni. I ragazzi dovevano immedesimarsi in Telemaco che, alla fine del primo canto dell’Odissea, rimane sveglio un’intera notte a pensare al viaggio che avrebbe intrapreso in cerca del padre, un viaggio per mare, e quindi a rischio di vita e di grande delusione e dolore. Ho chiesto loro di provare a narrare i pensieri su cui Omero sorvola. In quella notte letteraria ciascuno ha proiettato la propria notte spirituale, cioè dove l’anima affronta l’ego e lo spoglia delle maschere. Sintetizzo con le righe finali di uno scritto: “Questi erano pensieri da adulti, pensieri che non aveva mai avuto prima. E così si pose altre domande. Vuol dire questo diventare grandi? È questo che si prova?”. Contattare l’anima è mettere un’intercapedine tra sé e le trappole del mondo, una distanza tra la vita e le catene, per liberarsi. Porre domande è aprire questo spazio, noto come dialogo interiore (lo specifico umano è questa relazione con noi stessi: noi siamo due), che, quando la risposta è ardua, insceniamo ad alta voce: “parla da solo, è pazzo”, proprio il contrario, vuole evitare la pazzia, si apre alla relazione con se stesso, si ascolta o ci prova. Il domandare viene dalla vita e la libera dalle risposte autoprotettive e rigide dell’ego, dettate dagli automatismi della paura e della rabbia. Lo spiega a un giovane, che gli aveva scritto per ricevere consiglio, il poeta Rainer Maria Rilke: “Tutto ti diverrà più facile, armonico e conciliante, non forse nell’intelletto, che resta indietro attonito, ma nella tua più intima coscienza, che veglia e sa. Tu sei così giovane, così al di qua d’ogni inizio, e io ti vorrei pregare di aver pazienza verso quanto non è ancora risolto nel tuo cuore, e tentare di aver care le domande stesse come stanze serrate e libri scritti in una lingua molto straniera. Non cercare ora risposte che non possono venirti date perché non le potresti vivere. E di questo si tratta, di vivere tutto. Vivi ora le domande. Forse t’avvicini così, poco a poco, senz’avvertirlo, a vivere un giorno lontano la risposta. Educati a questo compito” (Lettere a un giovane poeta). Lo scrittore parla di una coscienza intima che “veglia e sa”, la distingue dal ragionamento spesso orientato dall’ego e che resta “attonito”. Questa coscienza è lo spazio vitale (dove la vita parla) necessario, più di ogni altro a un adolescente, per “incarnare” la risposta, è un vuoto percepito sulle prime come solitudine ma che in realtà diventa “capacità” (metafora che implica il vuoto) di ricevere la vita, cioè le risposte che la vita offre solo se la domanda è vissuta, incarnata. Immaginatevi di avere un ottimo vino da condividere con gli amici ma di non possedere bicchieri in casa: non avete “le capacità”. Questa solitudine, che è proprio la capacità di ricevere, è ben descritta da un altro scritto di quel compito: “Avrebbe voluto piangere ma le lacrime non vennero. Si limitò a restare lì, sveglio, immobile, ascoltando ogni suono della notte. Il canto lontano di un gufo, il respiro del vento tra le travi, il battito del suo cuore. L’oscurità era profonda, ma in fondo a quella notte nera ardeva una piccola luce: la possibilità di cambiare, di crescere, di scoprire la verità. E così Telemaco, figlio di Odisseo, restò sveglio. Non per paura, ma perché sentiva che da quel momento nulla sarebbe stato più come prima. Il cuore batteva forte, per ricordargli che era vivo, sveglio, e forse, per la prima volta, davvero solo”. Grazie a questa solitudine si trovano risposte vitali, perché la meraviglia della vita, come scriveva Kafka nei Diari, “se la si chiama con la parola giusta, col suo giusto nome, arriva”. Noi adulti diamo spesso ai ragazzi chiavi per serrature solo nostre, risposte a domande mai fatte da loro, invece di ascoltare quelle incarnate e allenare chi le pone a mantenerle, domande alle quali noi stessi non abbiamo risposta o pensiamo di averla: “un giorno capirai” (il che presuppone che noi abbiamo capito, ma allora perché non rispondiamo?). Qualche settimana fa un amico si è sentito domandare dal figlio di sei anni: “Perché viviamo se poi dobbiamo morire?”, e non si è avventurato in risposte difficili o nascosto in un non lo so, ma gli ha risposto con l’elenco delle cose belle da fare (purtroppo tra queste c’era anche tifare Inter...). La stessa domanda me l’ha posta, in un inglese ben scandito, una donna cinese in vacanza in Italia, seduta accanto a me in aereo in una conversazione che ha spaziato dal prezzo dei voli a: “Secondo te questa vita ha senso?”. Da 6 a 100 anni la domanda resta la stessa, e accade in una solitudine dolorosa ma generativa, come un parto. Rilke risponde infatti così al giovane amico di penna: “Ama la tua solitudine e sopporta il dolore che essa ti procura con lamento armonioso. Quelli che ti sono vicini, dici, ti sono lontani, e ciò mostra che intorno a te comincia a stendersi lo spazio. Rallegrati della tua crescita in cui non puoi portare alcuno. La tua solitudine ti sarà sostegno e patria anche in mezzo a circostanze molto estranee, e dal suo seno troverai tu tutti i tuoi cammini”. Di questo dolore oggi noi vogliamo privare i ragazzi, ma tutti i cammini veramente nostri iniziano lì, sono già nell’anima e dall’anima partono verso la vita, e non dall’ego che o non cammina - imprigionato com’è nelle sue paure, pregiudizi e pretese - o batte vie di altri che prima o poi sarà necessario abbandonare al prezzo di crisi più o meno profonde. Niente come questa solitudine mi ha liberato da certezze di cartapesta e mi ha fatto crescere l’anima, perché è la capacità (in sequenza: vuoto, mancanza, desiderio, energia) di ricevere la vita che solo io posso ricevere, come l’oro fuso nella forma vuota per un gioiello. Educare anime ingombre di cianfrusaglie e bloccate da armature e schermi, è dare spazio alla vita nella forma unica e irripetibile che hanno: formare non è imporre una forma ma aiutare l’altro a scoprire la propria, allenarlo a tenerla pulita perché la vita la riempia del suo oro fuso. Ciò avviene non solo grazie a lettura e scrittura (quest’ultima ci rende i primi lettori di noi stessi) che è ciò che dovremmo insegnare a scuola, ma a tutto ciò che crea lo spazio (natura, arte, amicizia, esercizio, amore, dolore, silenzio) per farsi un’“anima viva”, cioè un anima che prende le redini della vita e non si fa sottomettere dal proprio ego o da quello altrui. Libera, forte, gioiosa, creativa. Sicurezza, 4 italiani su 10 hanno paura di uscire di casa la sera di Claudio Laugeri La Stampa, 10 novembre 2025 Ecco la situazione nelle nove città analizzate dalla ricerca Ipsos per Unipol. Per il 49 per cento degli italiani la microcriminalità è aumentata e soltanto uno su dieci degli intervistati ha percepito la diminuzione del fenomeno. Quattro italiani su dieci non si sentono sicuri la notte, nel proprio quartiere. È il risultato della ricerca Ipsos per l’Osservatorio Unipol, basata su un questionario sottoposto a un campione di mille persone tra i 16 e i 74 anni (rappresentativi di 44 milioni di individui) e su 720 interviste in 9 aree metropolitane (campione rappresentativo di 13 milioni di individui) del Paese. Le domande riguardavano la percezione della sicurezza, la microcriminalità, il fenomeno delle baby gang e l’impatto delle cronache dei media. Le città prese in esame sono Milano, Torino, Bologna, Verona, Firenze, Roma, Napoli, Bari e Cagliari. Il proprio quartiere è il luogo dove le persone dovrebbero sentirsi più al sicuro. Secondo lo studio Ipsos, è così per 84 per cento degli italiani, con punte di maggiore tranquillità a Torino e Cagliari (92%) e di minore agio a Milano (76%). L’analisi delle risposte per fasce di età rivela una maggiore sensazione di insicurezza per i Boomers (60-79 anni) con il 17%, seguiti da Generazione X (44-59 anni) con il 16%, Millennials (29-43 anni) e Generazione Z (16-28 anni) con il 13%. La situazione si ribalta quando cala il buio: in media, il 40 per cento si sente in pericolo, ma la quota sale al 49% a Milano e Napoli, fino al 50% a Verona. Per contro, la notte in città non preoccupa il 72% degli intervistati a Torino e Cagliari, che si riducono al 51% a Milano. L’analisi per fasce di età rivela maggiori timori da parte di Generazione Z (45%), seguiti da Generazione X (41%), Boomers (38%) e Millennials (35%). I luoghi - La ricerca Ipsos evidenzia timori di giorno su bus, tram e metropolitane per il 37 per cento degli italiani, più ancora che nei parcheggi (isolati o sotterranei) dove a percepire poca sicurezza sono 35 persone su cento. Seguono nella classifica le fermate dei mezzi pubblici (36%), parcheggi e parchi o giardini (35%), periferie, zone residenziali e centro città (33%). Per la notte, le percentuali s’impennano: il 56% teme le periferie, il 55% i parcheggi e il 50 per cento le fermate dei mezzi pubblici. Ma è il dato assoluto a offrire spunti di riflessione, con il 75% persone che non si sentono al sicuro nei parcheggi e nelle periferie a qualsiasi ora, il 74% che teme di fare incontri spiacevoli nei parchi, il 71% preoccupato dai mezzi pubblici e dalle fermate, il 69% intimorito nell’attraversare zone residenziali e il 64% nel passeggiare in centro. Percentuali che crescono di qualche punto in media nelle aree metropolitane, con un dato che rompe gli stereotipi della sicurezza Nord-Sud: il record della percezione negativa è stato registrato a Verona, con l’86% nelle periferie, l’85% nei parchi, il 79% alle fermate e il 77% sui mezzi pubblici. A Napoli c’è il primato dei timori nei parcheggi (82%), ma a unire la città partenopea con il Nord e il Centro Italia ci sono le percentuali più alte di timori a girare in centro (72%, a pari merito con Milano) e nelle zone residenziali (75%, come a Roma). Nell’analisi per fasce di età, i Boomers hanno timori maggiori della media in quattro situazioni: periferie (82% contro una media di 75%), parcheggi (77% contro 72%), fermate dei mezzi pubblici (75% contro 71%) e in centro città (69% contro 64%). I meno “timorosi” sono i giovani della Generazione Z, che manifestano sensazioni di poca sicurezza sopra la media soltanto sui mezzi pubblici (72% contro 71%). La microcriminalità - Per il 49 per cento degli italiani, la microcriminalità è aumentata e soltanto uno su dieci degli intervistati ha percepito la diminuzione del fenomeno. Ma la percentuale cambia nelle aree metropolitane, dove il 51% ha percepito un aumento e il 9 una diminuzione della microcriminalità. I più pessimisti sono a Firenze (65%), seguiti da Bologna (59%), Napoli e Milano (52%); i meno preoccupati dal fenomeno sono a Bari e Torino (44%). A livello nazionale, Boomers e Generazione X sono i più impensieriti dalla microcriminalità (51%), bilanciati dalla maggiore serenità di Generazione X (44%) e Millennials (46%). Le problematiche - Ma quali sono le cause della microcriminalità? Per il 32% degli italiani (il 31% nelle aree metropolitane) il fenomeno è legato all’immigrazione incontrollata, per il 27% alla diminuzione del ruolo educativo della famiglia e per il 25% allo scarso controllo del territorio delle autorità e all’utilizzo di droghe. Seguono la mancanza di prevenzione delle forze di polizia (23%), la povertà (18%), il degrado urbano (17%), la disoccupazione e le disuguaglianze sociali (16%), la mancanza di servizi sociali (15%) e la dispersione scolastica (9%). Nelle aree urbane, gli abitanti attribuiscono un’incidenza più alta della media nazionale a controllo del territorio e uso di droghe (28%), mancanza di misure di prevenzione (27%), degrado urbano (22%) e disuguaglianze sociali (19%). Ma ci sono città dove alcune percezioni sono più accentuate. L’immigrazione incontrollata è individuata come causa della microcriminalità dal 52% degli intervistati a Verona, dal 45% a Firenze e dal 41% a Milano; i più scettici su questa spiegazione sono a Napoli (17%), seguiti da Bari (21%) e Cagliari (24%). Maggiore peso della media delle aree urbane è attribuito anche al controllo del territorio da parte delle autorità (35% a Bologna, 34% a Napoli e 33% a Torino, 32% a Firenze), al ruolo educativo della famiglia (36% a Cagliari, 33% a Firenze, 30% a Verona e Napoli, 28% a Torino) e all’uso di droghe (32% a Bologna, 31% a Roma e Milano, 30% a Torino e Cagliari). Lo stesso argomento analizzato per fasce d’età rivela una propensione ad attribuire l’aumento della microcriminalità all’immigrazione incontrollata da parte del 37% di Boomers e Generazione X, contro il 20% di Generazione Z. E sempre i più giovani sono propensi a “incolpare” del fenomeno la mancanza di prevenzione (27%), le disuguaglianze sociali (20%), la mancanza di servizi sociali (18%) e la dispersione scolastica (15%). Le forze dell’ordine - A livello nazionale, il lavoro di donne e uomini in divisa non è efficace per il 51%, percentuale che sale a 54% nelle aree metropolitane. Questa percezione raggiunge, poi, il 64% a Verona, il 62% a Firenze, il 59% a Bari, il 56% a Milano, il 55% a Roma, il 53% a Bologna, il 49% a Torino e Napoli, il 43% a Bari. Filtrando le risposte degli intervistati in base all’età, la pensa in questo modo il 53% di Generazione Z e Millennials, il 50% di Generazione X e il 48% di Boomers. Le baby gang - La preoccupazione per le bande giovanili preoccupa 46 italiani su cento per quanto riguarda il loro quartiere, 87 su cento a livello nazionale. Nelle città, i più sereni a riguardo sono a Cagliari (65%), a Torino (53%) e a Verona (52%), con riferimento ai propri quartieri o zone di residenza. Per la situazione nazionale, i più preoccupati sono a Verona (93%), seguiti dai residenti a Roma e Bari (92%), Firenze e Cagliari (91%), Napoli (90%), Bologna e Milano (88%), Torino (80%). E guardando all’età degli intervistati, l’allarme è percepito soprattutto dai Boomers (94%), seguiti da Generazione X e Millennials (87%), Generazione Z (82%). Il rischio che la criminalità giovanile entri in contatto con i propri figli, nipoti, amici è considerato al 55% a livello nazionale e al 56% nelle aree metropolitane. Sopra questo livello c’è la percezione di chi vive a Firenze (66%), Cagliari (62%), Roma (61%) e Bari (58%). Una percezione fatta propria dal 51% di Generazione Z, 49% di Millennials, 46% di Generazione X e 34% di Boomers. I media - Trasmissioni e rubriche “crime” attirano il 59% degli italiani (il 62% nelle aree metropolitane), percentuale che sale a Roma (61%), Napoli e Torino (63%), Bari (68%), fino al 69% di Cagliari. Questo tipo di programmi tv cattura l’attenzione di Millennials (61%), Generazione X (58%), Generazione Z e Boomers (57%). Per 45 italiani su cento, poi, le cronache enfatizzano troppo i fenomeni di criminalità, facendoli addirittura sembrare (per il 35%) più diffusi di quanto non siano in realtà. Per quanto riguarda le città, soltanto i torinesi hanno una percezione superiore alla media nazionale (50%) riguardo all’enfatizzazione della “nera”; a favore della tesi di una rappresentazione fuorviante dei media riguardo alla diffusione delle vicende criminali, si esprime su valori superiori alla media il 42% degli intervistati a Torino, il 41% a Bari e il 36% a Firenze. A criticare l’enfasi dei media è soprattutto il 50% dei Millennials e il 47% di Generazione Z, con il 37% di Millennials convinto che i fatti di cronaca vengano rappresentati in modo da farli sembrare più diffusi di quanto non siano. E anche per l’impatto sulla “sicurezza percepita” il 50% di Generazione Z e il 49% di Millennials attribuiscono una responsabilità ai media. Il fattore di “insicurezza indotta” dai programmi “crime”, poi, è confermato da un dato: tra chi guarda quei programmi, la percentuale di chi ha timori è del 43% e cala al 35% tra coloro che non seguono quegli argomenti. Un’influenza percepita al 53% a Verona, al 52% a Bari, al 51% a Napoli e Torino, al 49% a Cagliari, al 46% a Roma e Bologna, per scendere al 42% a Milano e al 39% a Firenze. Il potere delle mafie inquieta l’Italia, ma il rischio assuefazione premia i clan di Ilvo Diamanti La Repubblica, 10 novembre 2025 La percezione delle organizzazioni criminali cambia su base territoriale. Sul Paese incombe lo spettro della “banalità del male”. La mafia è un fenomeno inquietante, percepito come tale dovunque. In Italia e non solo. Si ritiene, infatti, che si tratti di un fenomeno generale e generalizzato, in ambito “nazionale”, presente a livello territoriale un po’ ovunque. È ciò che pensano oltre 9 italiani su 10, senza significative distinzioni di area, secondo quanto rilevato dal sondaggio di Demos-Libera. Le differenze, invece, crescono quando si fa riferimento alle zone dove risiedono i cittadini intervistati. Quando, cioè, le persone sono sollecitate a guardarsi intorno. Nelle zone in cui risiedono. In questo caso, infatti, il timore, per quanto diffuso dovunque, appare più elevato nelle aree geograficamente “opposte”. Nel Sud e nel Nord-Ovest. In Sicilia e Campania, da un lato, e nel Nord-Ovest, dall’altro. Cioè, in Piemonte e in Lombardia. Meno nelle regioni del Centro-Nord Est. La percezione e la preoccupazione si riducono ulteriormente quando l’attenzione si sposta sui luoghi specifici dove risiedono gli intervistati. Cioè i comuni. Nella stessa proporzione delle zone considerate, dunque, in misura più ampia, nel Sud e nel Nord-Ovest, lungo l’asse metropolitano che collega Milano e Torino. In altri termini, le mafie continuano a essere percepite come una minaccia che incombe sulla vita sociale ed economica delle persone, soprattutto nel Mezzogiorno e nel Nord-Ovest. Lo sguardo, comunque, cambia quando dalla “mafia” si sposta sulle “mafie”. Quando, cioè, dal fenomeno “generale” si trasferisce ai “soggetti” che ne sono interpreti. Alle “bande criminali” che hanno una definizione e una “localizzazione” più precise. In questo caso emergono alcuni aspetti di continuità ma anche di cambiamento rispetto alle valutazioni rilevate negli anni precedenti. Prevale, infatti, come in passato, la preoccupazione suscitata dalla ‘ndrangheta calabrese, indicata come “la mafia più pericolosa” dal 26% del campione, davanti alla camorra napoletana, segnalata dal 20%. In crescita significativa negli ultimi 2 anni. Mentre la mafia siciliana, Cosa nostra, conferma un indice del 12%. In calo, negli ultimi 2 anni, ma molto simile rispetto a quanto osservato l’anno scorso. La preoccupazione per le mafie che hanno origini nazionali diverse, oltreconfine, appare meno elevata. In calo significativo nei confronti delle “bande cinesi”. In crescita verso la “mafia nigeriana”. Comunque, come in passato, nelle opinioni del campione non emergono strategie precise che abbiano efficacia nel contrastare e “com-battere, se non battere” questa minaccia incombente. Fra le altre, in particolare, “la confisca dei beni che appartengono alla mafia” è condivisa da una larga maggioranza del campione. Anzi, da quasi tutti gli intervistati: 84%. Tuttavia, una quota elevata di persone considera questa misura eccessiva, per il costo che impone allo Stato. E, dunque, ai cittadini. E ciò ripropone un problema che va oltre la specifica questione. La difficoltà di intraprendere iniziative che, comunque, prevedono costi e rischi che superano i confini, non solo territoriali, della minaccia mafiosa. Infatti, al di là delle specifiche formazioni criminali, che sollecitano un grado di attenzione “diverso”, nelle “diverse” aree del Paese, in base alla loro presenza e azione, nel sondaggio di Demos-Libera appare evidente come il fenomeno mafioso continui a suscitare inquietudine dovunque. Nel Paese e nella società. Senza, però, sollevare reazioni emotive particolari. E ciò ri-produce una questione che abbiamo sottolineato nelle precedenti indagini. Non solo riguardo alla minaccia mafiosa. “Il rischio dell’abitudine”: la tendenza, cioè, a normalizzare fenomeni ostili, per quanto inquietanti. Perché generano difficoltà alla nostra vita, alla nostra condizione. Prima ancora: alla nostra percezione. Al nostro sguardo sul mondo. Intorno a noi. Per questo, spesso, prevale, come risposta, “la normalizzazione”. Si preferisce, cioè, accettare la realtà anche quando è estranea ai nostri valori, alla nostra concezione etica. E la mafia diventa, così, un dato di realtà, anche se rappresenta un mondo distante e ostile. Ma difficile da contrastare. Combattere. Allora, meglio adeguarsi. Arrendersi. Si tratta di una tendenza diffusa, già emersa in passato. Definita, ma, comunque, non de-finitiva. Non unanime. Infatti, persiste e resiste una parte della nostra società, della nostra Italia, che non si rassegna alla “normalità della mafia”. Alla “banalità del male”, come l’ha definita Hannah Arendt. Per fortuna di tutti. Perché questo sentimento ci permette di agire. Re-agire. Sperare. La sinistra vuole fare concorrenza alla destra: più manette per tutti di Mattia Feltri huffingtonpost.it, 10 novembre 2025 Nel Pd parte il dibattito sulla sicurezza: non si può lasciare l’esclusiva a Meloni (e ai suoi cinquanta nuovi reati). La criminalità non aumenta e restiamo il paese più sicuro d’Europa, ma i dati vengono ribaltati o distorti, e la cronaca nera è uno show. L’incredibile caccia ai ragazzini. Un terribile articolo di Veltroni (che dispiacere). Ogni un po’ riparte il dibattito sulla sicurezza, se sia un problema di destra o anche di sinistra. Ed è proprio la sinistra a riaprilo quando di problema se ne pone un altro: come sconfiggere la destra che, nel frattempo, sulla sicurezza ha costruito una politica di stampo mitologico. Negli ultimi tre anni, il governo di Giorgia Meloni si è inventato una cinquantina di nuovi reati, o nuove aggravanti, e ha aumentato i detenuti di circa tremila e i detenuti minorenni di un terzo. Di fronte a questi brillanti risultati, a sinistra ci si chiede: e noi? Che cosa conta di fare la sinistra per innalzare le pene, moltiplicare le condanne, stipare le celle e farci finalmente sentire tutti più sicuri? Stavolta, poiché sono argomenti su cui qui ci siamo esercitati spesso, anche con accanimento, avrei lasciato perdere se non fosse stato per un editoriale di Walter Veltroni sul Corriere della Sera di di ieri, cioè di un ex leader politico approdato a una nuova vita fatta di film e libri e giornalismo solitamente riflessivo. E invece oggi Veltroni mi è sembrato entrare nella faccenda con un’animosità insolita, a tratti persino sprezzante. E ho capito che la questione - a due anni scarsi dalle elezioni politiche - si fa seria. Veltroni cita “la sequenza impressionante di fatti di cronaca avvenuti in queste settimane”, cita soprattutto un ampio dossier pubblicato lunedì 3 novembre dal Sole 24Ore sotto il titolo “Criminalità. Più furti, rapine, droga (…) aumentano i reati di strada, più denunce per violenze”. “Carta canta”, commenta Veltroni prima di passare al sarcasmo: “E poi c’è quella che viene chiamata, con sdegno aristocratico, semplice ‘percezione’, come a dire che è un’illusione, una baggianata fondata su un complotto plutogiudaicomassonico oppure ordito dalla destra in agguato”. Il dossier del Sole24 Ore è effettivamente interessante. Dice, sulla base dei dati del Viminale, che nel 2024 i reati sono aumentati dell’1.7 per cento rispetto al 2023. Aumentati di poco, ma effettivamente aumentati. Poi dice che l’aumento totale, rispetto al 2019, è del 3.4 per cento. Già più corposo. E dice, ancora, che rispetto al 2014, i reati sono però diminuiti del 14 per cento. Diminuzione molto, molto corposa. Ora, se carta canta, sta già cantando un’altra canzone. Ma andiamo nel dettaglio. Perché il Sole offre una serie di tabelle interessanti. Omicidi volontari: nel ‘24 rispetto al ‘23, meno 4,4 per cento; rispetto al 2018, meno 13,5 per cento. Violenze sessuali: nel ‘24 rispetto al ‘23, più 7,5 per cento; rispetto al 2018, meno 11,7 per cento. Furti: nel ‘24 rispetto al ‘23, più 3 per cento; rispetto al 2018, -4.8 per cento. Rapine: nel ‘24 rispetto al ‘23, più 1.8 per cento; rispetto al 2018, meno 3,7 per cento. Furti con strappo: nel ‘24 rispetto al 23, più 1,7 per cento; rispetto al 2018, meno 2,3 per cento. Carta canta e cioè: in paragone al 2014, grande calo; in paragone al 2018, ulteriore calo; in paragone al 2023, leggera risalita. E di fronte a un dossier del genere, il Sole - giornale di indubitabile serietà - decide di puntare sull’allarme. Ogni volta è così. Qualche anno fa, Palermo risultò essere, delle città comprese fra il mezzo milione e il milione di abitanti, la più sicura d’Italia quanto a reati violenti. Eppure i titoli di tutti i giornali erano incentrati sul picco di furti di motorini, di cui si suggeriva un’emergenza. Fra l’altro il picco di furti di motorini era certificato dal picco di denunce, per cui si poteva evincere che oggi, a Palermo, se ti rubano il motorino, non vai dal boss di quartiere ma dai carabinieri: forse l’unica cattiva notizia degna della titolazione non era nemmeno tale. E questo è solo un esempio fra decine, ma mi sembra illuminante. Ancora Veltroni: “La percezione è la sicurezza. Se una ragazza non si sente di uscire di casa la sera o un anziano ha paura di prendere la metropolitana già questo altera i comportamenti e quindi limita le libertà. Non ci vuole tanto a capirlo”. E qui Veltroni ha ragione da vendere. Io per esempio ho paura di volare. So benissimo che il mezzo di trasporto meno pericoloso al mondo è l’aereo, ma ho paura lo stesso. Poi lo prendo comunque, malvolentieri ma lo prendo. Diciamo così: se cominciassero a scrivere articoli in cui si spiega che, al contrario, l’aereo è il mezzo di trasporto più letale, probabilmente gli aeroporti mi vedrebbero molto meno o non mi vedrebbero affatto. C’è differenza se la percezione negativa viene rinfocolata da un racconto distorto oppure lenita da un racconto corretto. Ed è precisamente “la sequenza impressionante di fatti di cronaca avvenuti in queste settimane” di cui scrive Veltroni a proporre una visione distorta di come va il Paese. Se i nostri giornali hanno trasformato la cronaca nera in intrattenimento, ne riempiono le pagine, se le trasmissioni pomeridiane ne hanno fatto un reality show a reti unificate, se gli omicidi sono diventati un’alternativa per la noia alla Settimana enigmistica - e parallelamente ci si scorda di precisare che gli omicidi calano ogni anno, tutti gli anni, da decenni, e che siamo per distacco il paese più sicuro d’Europa - è chiaro che non stiamo facendo un buon lavoro, è chiaro che stiamo aiutando la distorsione della percezione, è chiaro che stiamo facendo del male alle ragazze e agli anziani che già sono impauriti, è chiaro che giornalismo e politica stanno sguazzando nel sangue o per malinteso tornaconto o per inerzia piccina. Per concludere, perché mi pare un gran finale, devo proporvi un’ultima riflessione di Veltroni: “Faccio un esempio, un tema del quale non si parla più, come se si avesse paura di farlo. Siamo consapevoli della quantità assurda, enorme, di droga che circola in Italia, in tutti gli strati sociali, dall’emarginato al professionista?”. Un tema del quale non si parla più? Proprio il numero del Sole citato da Veltroni registrava il “boom di minori denunciati”. Il grosso riguarda la droga e il processo mentale è straordinario, e proprio sul Sole erompeva dalle parole del sindaco di Treviso: “Dopo la pandemia ci sono stati alcuni episodi, legati allo spaccio di droga, che hanno acceso i riflettori su un crescente disagio giovanile sfociato in violenza e siamo corsi ai ripari: ho chiesto uno sforzo alle forze dell’ordine nel monitoraggio del territorio, con controlli a tappeto…”. Grandioso. Mandi le forze dell’ordine alla caccia dei ragazzini, ne arresti di più, grazie al decreto Caivano li arresti più facilmente, li più metti più facilmente nei riformatori, ed eccovi servito il boom di reati. Ma non è finita. Il tema di cui, secondo Veltroni, non si parla più, è stato trattato proprio venerdì dalla Conferenza nazionale sulle dipendenze. C’erano Giorgia Meloni e mezzo governo ed è stata l’occasione per il sottosegretario Alfredo Mantovano di illustrare un “fenomeno con caratteristica di pandemia”. La “pandemia” di Mantovano assomiglia molto alla “quantità assurda, enorme” di Veltroni. E però il Consiglio nazionale delle ricerche ha fornito al governo i dati poi serviti per la relazione al Parlamento e “i dati mostrano un calo costante, con una prevalenza di consumo nel corso della vita che è scesa dal 19% nel 2015 al 14% nel 2024”. Ne ha scritto qui Federica Olivo, e vi propongo un passaggio: “Se scendiamo nel dettaglio delle sostanze, limitandosi sempre alla fascia giovanile, notiamo che dal 2023 al 2024 i consumatori di cannabinoidi sono scesi dal 22% al 21%, quelli di droghe sintetiche dal 6,4% al 5,8%. L’uso di cannabinoidi sintetici, che passa dal 4,6% al 3,5%, quello degli stimolanti scende dal 2,9% al 2,4%, quello di cocaina dal 2,2% all’1,8%, quello di allucinogeni dal 2,0% all’1,2%. Solo gli oppiacei sono rimasti stabili all’1,2%”. Se si ritiene che è una pandemia, bisognerebbe almeno dire che è una pandemia in cui calano in contagi; se si parla di “quantità assurda, enorme”, bisognerebbe almeno dire (ma forse Veltroni non conosce i dati sicuramente conosciuti da Mantovano) che però è da qualche anno meno assurda e meno enorme. E invece no. Tutto un allarme, tutta un’apocalisse. E così il governo produce dei numeri, poi li trascura, fa prevalere la percezione e promette lotta senza quartiere. Prepariamoci: i ragazzi usano sempre meno droga, ma finiscono sempre più in carcere e ci finiranno sempre di più. La chiamano sicurezza. E la sinistra si preoccupa di come fare concorrenza, perché la sicurezza non è di destra. Se non resta che restituire i cadaveri di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 10 novembre 2025 Nulla di più scandaloso e necessario perché il pianto dei familiari è più confortato quando ha un corpo e un luogo su cui piangere. Nulla di più osceno dello scambio di cadaveri di cui veniamo a conoscenza da giorni. 6 di qua, 90 di là, mille di qua, 30 di là, un conteggio penoso sia tra Israele e Gaza, sia tra Russia e Ucraina. Si sa che un cadavere israeliano vale 15 corpi di prigionieri palestinesi. Ci sono gli ostaggi civili massacrati, i detenuti massacrati nelle carceri, i soldati massacrati dalle bombe o dai carrarmati. Tutti massacrati. Ieri un corpo è stato recuperato in un tunnel di Rafah, dove si trovava da undici anni. Le cronache parlano di numeri e di equivalenze, parlano di pezzi, di resti, di corpi introvabili e dispersi, di cadaveri identificabili e di altri non identificabili, alcuni dissotterrati, altri provenienti dalle loro celle, altri forse dai frigoriferi. Ci sono cadaveri recenti intatti e ci sono cadaveri decomposti. Ci sono le salme restituite “promesse”, mentre altre consegnate non sono quelle “richieste”, non si capisce bene se inviate a casaccio, per sbaglio o per ingannare il nemico. “Gli ultimi tre corpi consegnati da Hamas non appartengono a nessun ostaggio israeliano”, ha scritto all’inizio di novembre il Times of Israel. Che ha precisato trattarsi di “corpi parziali”. Nulla di più scandaloso e di più necessario che la restituzione, perché lo sappiamo che il pianto dei familiari è più confortato quando ha un corpo (anche se “parziale”) e un luogo su cui piangere. Lo diceva già Foscolo e prima di lui Omero ed Euripide. Rimane l’oscenità delle cifre dello scambio, come fosse il conteggio delle pedine “mangiate” dall’avversario alla fine della dama. Un gioco lugubre che ci mette di fronte all’ignobiltà impensabile della guerra: a conti fatti, quando arrivano i camion dei cadaveri, solo allora capiamo che i morti di cui sentivamo quasi astrattamente parlare sono davvero cadaveri (ca-da-ve-ri), e non resta che il bilancio fisico della carneficina, della macelleria. La prigione sotterranea di Israele, dove i palestinesi sono detenuti senza accuse e non vedono mai la luce del giorno valigiablu.it, 10 novembre 2025 Decine di palestinesi di Gaza isolati in una prigione sotterranea dove non vedono mai la luce del giorno, sono privati di cibo adeguato e non possono ricevere notizie dalle loro famiglie o dal mondo esterno. Grazie alla collaborazione degli avvocati del Comitato pubblico contro la tortura in Israele (Pcati), alcuni giornalisti del Guardian sono riusciti ad avere informazioni sulle condizioni di detenzione di palestinesi rinchiusi nella prigione di Rakefet, in Israele. La prigione di Rakefet è stata inaugurata all’inizio degli anni ‘80 per ospitare alcuni dei più pericolosi esponenti della criminalità organizzata in Israele, ma era stata chiusa pochi anni dopo per le condizioni disumane di detenzione. La sua riapertura è stata poi ordinata dal ministro della sicurezza, Itamar Ben-Gvir, dopo gli attacchi terroristici di Hamas del 7 ottobre 2023. Il centro era stato progettato per ospitare un piccolo numero di detenuti ad alta sicurezza che occupavano celle individuali - al momento della chiusura nel 1985 in carcere c’erano 15 persone. Negli ultimi mesi, secondo i dati ufficiali ottenuti dal Pcati, sono stati incarcerati circa 100 detenuti. Tra questi almeno due civili trattenuti per mesi senza accuse né processo: un infermiere arrestato in ospedale nel dicembre 2023 mentre lavorare e un giovane venditore di cibo, sequestrato nell’ottobre 2024 mentre attraversava un checkpoint israeliano, e poi rilasciato a metà ottobre 2025 quando, in base al cessato il fuoco concordato con Hamas, Israele ha liberato 250 prigionieri palestinesi che erano stati condannati dai tribunali israeliani e 1.700 detenuti palestinesi di Gaza che erano stati trattenuti a tempo indeterminato senza accuse né processo. Tuttavia, la portata delle detenzioni è stata così vasta che almeno altre 1.000 persone si trovano ancora nelle carceri israeliane. Tra questi l’infermiere rappresentato dal PCATI. “Sebbene la guerra sia ufficialmente finita, [i palestinesi di Gaza] sono ancora imprigionati in condizioni che violano il diritto internazionale umanitario e costituiscono tortura”, spiega il PCATI. “Nei casi dei clienti che abbiamo visitato, stiamo parlando di civili”, ha detto l’avvocato del PCATI Janan Abdu. Israele non ha fornito informazioni sullo status e l’identità dei prigionieri detenuti a Rakefet. Il ministro Ben-Gvir ha detto ai media israeliani e a un membro del parlamento che la prigione era stata riabilitata per ospitare i combattenti di Hamas che hanno guidato i massacri all’interno di Israele il 7 ottobre, e i combattenti delle forze speciali di Hezbollah catturati in Libano. Ma dati riservati israeliani indicano che la maggior parte dei palestinesi fatti prigionieri a Gaza durante la guerra era composta da civili. Nel 2019 la Corte Suprema israeliana ha stabilito che era legale trattenere i corpi dei palestinesi come merce di scambio per futuri negoziati, e le organizzazioni per i diritti umani hanno accusato Israele di fare lo stesso con i detenuti vivi provenienti da Gaza. I due uomini che hanno parlato con gli avvocati del PCATI erano stati trasferiti nel complesso sotterraneo di Rakefet a gennaio 2025: hanno raccontato di aver subito percosse e violenze regolari, simili alle torture già documentate in altri centri di detenzione israeliani. Le condizioni dei palestinesi erano “intenzionalmente orribili” in tutte le prigioni, spiega Tal Steiner, direttore esecutivo del PCATI. Le persone attualmente detenute ed ex detenuti, informatori dell’esercito israeliano, hanno tutti descritto in dettaglio violazioni sistematiche del diritto internazionale. Rakefet, però, va oltre: impone una forma unica di abuso. Le celle, un minuscolo “cortile” per l’esercizio fisico e una sala riunioni per gli avvocati sono tutti sotterranei, quindi i detenuti vivono senza luce naturale. Tenere le persone sotto terra senza luce del giorno per mesi e mesi ha “implicazioni estreme” per la salute psicologica, prosegue Steiner. “È molto difficile rimanere saldi quando si è detenuti in condizioni così oppressive e difficili”. Ciò influisce anche sulla salute fisica, compromettendo le funzioni biologiche di base, dai ritmi circadiani necessari per il sonno alla produzione di vitamina D. Nonostante lavorasse come avvocato per i diritti umani e visitasse le prigioni del complesso di Ramla, a sud-est di Tel Aviv, dove si trova Rakefet, Steiner non aveva mai sentito parlare della prigione sotterranea prima che Ben-Gvir ne ordinasse la riapertura. Era stata chiusa prima della fondazione del PCATI, e così il team legale ha dovuto consultare vecchi archivi e le memorie di Rafael Suissa, capo del Servizio penitenziario israeliano (IPS) a metà degli anni ‘80, per saperne di più. “[Suissa] ha scritto che aveva capito che essere detenuti sottoterra 24 ore su 24, 7 giorni su 7, era troppo crudele, troppo disumano perché qualsiasi persona potesse sopportarlo, indipendentemente dalle sue azioni” e per questo si era arrivati alla chiusura della prigione, racconta Steiner. Quest’estate, quando agli avvocati del PCATI è stato chiesto di rappresentare due uomini detenuti nella prigione sotterranea, Janan Abdu e un collega hanno potuto visitare il centro di Rakefet per la prima volta. Sono stati condotti sotto terra da guardie di sicurezza mascherate e armate, giù per una rampa di scale sporche, in una stanza dove i resti di insetti morti punteggiavano il pavimento. Il bagno era così sporco da essere praticamente inutilizzabile. Le telecamere di sorveglianza sulle pareti violavano il diritto fondamentale alla riservatezza delle discussioni, e le guardie hanno avvertito che l’incontro sarebbe stato interrotto se avessero parlato delle famiglie dei detenuti o della guerra a Gaza. “Mi sono chiesto: se le condizioni nella stanza degli avvocati sono così umilianti, non solo per noi personalmente ma anche per la professione, allora qual è la situazione dei prigionieri?”, racconta Abdu. “La risposta è arrivata presto, quando li abbiamo incontrati”. I clienti sono stati portati dentro piegati in avanti, con le guardie che costringevano le loro teste a terra, e sono rimasti ammanettati alle mani e ai piedi. I due prigionieri - l’infermiere e il giovane venditore di cibo - hanno descritto celle senza finestre e senza ventilazione, sovraffollate con tre o quattro detenuti, e hanno detto agli avvocati di subire regolarmente abusi fisici, tra cui percosse, aggressioni da parte di cani con museruole di ferro e guardie che calpestano i prigionieri, oltre a vedersi negare cure mediche adeguate e ricevere razioni da fame. L’Alta Corte israeliana ha stabilito questo mese che lo Stato sta privando i prigionieri palestinesi di cibo adeguato. Rari sono i momenti all’esterno delle celle. I prigionieri possono stare in un piccolo recinto sotterraneo appena cinque minuti a giorni alterni. I materassi vengono portati via la mattina presto, di solito alle 4 del mattino, e restituiti solo a tarda notte, lasciando i detenuti su telai di ferro in celle altrimenti vuote. Le loro descrizioni corrispondono alle immagini trasmesse in televisione durante una visita alla prigione effettuata da Ben-Gvir per pubblicizzare la sua decisione di riaprire la prigione sotterranea. “Questo è il posto naturale dei terroristi, sotto terra”, aveva detto. I servizi segreti israeliani - riporta il Guardian - hanno avvertito che il trattamento dei prigionieri palestinesi mette a rischio gli interessi di sicurezza del paese. Saja Misherqi Baransi, il secondo avvocato del PCATI, ha detto che l’infermiere, padre di tre figli, non ha più notizie della sua famiglia dal momento della sua detenzione (dicembre 2023) e che ha visto la luce del giorno per l’ultima volta il 21 gennaio del 2025, quando è stato trasferito a Rakefet, dopo un anno trascorso in altre carceri, tra cui il famigerato centro militare di Sde Teiman. Ai detenuti, conclude Misherqi Baransi, non è consentito dare informazioni sui loro familiari, tranne il nome del parente che li ha autorizzati ad accettare il caso. “Quando ho parlato con l’infermiere gli ho detto: ‘Ho parlato con tua madre e mi ha autorizzato a incontrarti’, dandogli almeno una piccola informazione, che sua madre era viva”, racconta l’avvocato. Consenso all’invio della newsletter: Dai il tuo consenso affinché Valigia Blu possa usare le informazioni che fornisci allo scopo di inviarti la newsletter settimanale e una comunicazione annuale relativa al nostro crowdfunding. Come revocare il consenso: Puoi revocare il consenso all’invio della newsletter in ogni momento, utilizzando l’apposito link di cancellazione nella email o scrivendo a info@valigiablu.it. Per maggiori informazioni leggi l’informativa privacy su www.valigiablu.it. Quando l’altro detenuto ha chiesto ad Abdu se sua moglie incinta avesse partorito senza complicazioni, la guardia ha immediatamente interrotto la conversazione minacciandolo. Mentre le guardie portavano via gli uomini, l’avvocato ha sentito il suono di un ascensore, il che suggerisce che le loro celle fossero ancora più profonde nel sottosuolo. L’IPS ha dichiarato in un comunicato che “opera in conformità con la legge e sotto la supervisione di controllori ufficiali” e ha aggiunto che “non è responsabile del processo legale, della classificazione dei detenuti, della politica di arresto o degli arresti”.