Pena certa? Oltre le sbarre, le alternative ci sono di Luigi Patronaggio Avvenire, 14 marzo 2025 Per buona parte dell’opinione pubblica la certezza della pena si identifica con la certezza della carcerazione. Da più parti si è affermato, con una singolare concezione del garantismo, che occorre essere garantisti fino alla condanna definitiva dell’imputato, ma dopo tale evento si devono schiudere per il condannato senza indulgenza le porte del carcere. Una visione carcero-centrica che tende a imporsi sempre di più e non solo in Italia. L’ex ministro della giustizia Marta Cartabia ha affermato viceversa che “occorre superare l’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato: la certezza della pena non è la certezza del carcere che, per gli effetti desocializzanti che comporta, deve essere invocato quale estrema ratio”. Già nel 1764, del resto, Cesare Beccaria, intervenendo sul tema “certezza e infallibilità delle pene” con grande lucidità affermava che “uno dei più grandi freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione, che non il timore di un altro più terribile, unito con la speranza della impunità”. Si tratta in fondo della nota prassi delle “grida” di manzoniana memoria, grida che anche oggi si ripetono ciclicamente ogni qualvolta si innalzano le pene e si introducono nuovi reati con l’errata idea di rendere più sicura la società e più efficace l’azione repressiva dello Stato. Ora, nonostante il nostro ordinamento preveda il carcere come scelta elettiva solo per i cosiddetti reati ostativi (per intenderci: reati di mafia, terrorismo, reati associativi in materia di stupefacenti e di immigrazione, rapina a mano armata, reati contro la libertà sessuale, etc.) e per l’esecuzione delle condanne a pena detentiva superiore a 4 di reclusione, il nostro penitenziario rimane ingolfato, invivibile, inefficiente e pure costoso. I numeri sono sotto gli occhi di tutti: abbiamo una popolazione di oltre 60mila detenuti a fronte di una capienza carceraria che non supera i 50mila posti, con 82 suicidi nel 2024. Non solo: il nostro sistema carcerario è un sistema “criminogeno”, nel senso che le statistiche e gli studi condotti sul tema (per tutti quello della Università di Essex a cura di Terlizzese e Mastrobuoni) mostrano come il tasso di recidiva di chi sconta la pena in carcere sia molto più alto di chi sconta la pena in misura alternativa. Una differenza robusta: 19% di recidiva per chi ha scontato in misura alternativa contro il 68% di recidiva per chi ha scontato in detenzione carceraria. Incoraggianti, viceversa, sono le statistiche sulla osservanza delle pene alternative. Secondo attendibili fonti statistiche, solo l’1% di coloro che stanno espiando una pena alternativa commette un reato in corso di espiazione, mentre la revoca della pena alternativa per inosservanza delle prescrizioni colpisce appena il 7% di coloro che sono in corso di espiazione. Anche una attenta analisi dei numeri dei condannati indica come una visione carcero-centrica sia non solo obsoleta, ma anche insostenibile. I cosiddetti “liberi sospesi” (quelli, cioè, che sono stati condannati con sentenza definitiva ma godono della sospensione della pena o sono in attesa di pena alternativa) sono circa 90mila, e più di 90mila coloro che sono in espiazione di pena alternativa. Sommando a questi numeri quello dei detenuti, un sistema carcero-centrico dovrebbe essere in grado di gestire una popolazione carceraria di circa 240.000 persone. Per non parlare di costi: un detenuto costa all’Erario circa 138 euro al giorno, un condannato in espiazione di pena alternativa o sostitutiva costa alla collettività circa 20 euro al giorno. Occorre allora, se vogliamo parlare concretamente di effettività della pena, abbandonare la visione carcero-centrica e smettere di identificare il mito della certezza della pena conta certezza della carcerazione. Del resto, lo stesso articolo 27 della Costituzione parla di pene al plurale, non solo della pena detentiva. Il problema dell’effettività della pena oggi è quello di infliggere una pena legale, giusta secondo i parametri (art. 133) del Codice penale, e che sia certa nella sua “effettività” intesa come tempestività, come pronta reazione dell’ordinamento alla commissione del reato. Il vero nodo consiste quindi nei 90mila “liberi sospesi” di cui sopra. Occorre quindi abbandonare l’idea di costruire sempre nuove carceri e favorire piuttosto l’attività dei Tribunali di Sorveglianza, in modo che possano funzionare al meglio, assistiti da una valida rete di servizi sociali e medico-assistenziali. Effettività della pena è poi “personalizzazione” della pena secondo il reale spessore criminale del condannato, la sua pericolosità sociale e la sua capacità a essere rieducato e reinserito in società. Il carcere deve restare l’estrema ratio per i veri criminali, non per coloro che delinquono per bisogno, per mancanza di occasioni lavorative, per emarginazione sociale, per problemi di alcool o tossicodipendenza. Occorre infine abbandonare l’idea di chiudere per via amministrativa il carcere al proprio interno, ritornando di contro a un “carcere aperto”. Il “carcere chiuso” produce infatti malessere e aggressività, tanto nei detenuti quanto negli agenti di Polizia penitenziaria. A mio parere, inoltre, un nuovo piano carceri, seppur necessario, non risolve affatto il problema della certezza della pena e tantomeno quello di garantire ai cittadini maggiore sicurezza. Per una moderna concezione dell’effettività della pena occorre, per dirla con parole povere ma efficaci, dissociare il concetto di “galera” dal concetto di pena legale come disegnato in Costituzione. La giustizia dei ragazzini di Felice Florio L’Espresso, 14 marzo 2025 Viaggio tra Nisida, il Beccaria e la comunità Kayros: storie di minorenni alle prese con la pena e il percorso di rieducazione. Perché il reato commesso non sia uno stigma eterno. Il silenzio è interrotto solo dal ribattere delle onde sulle rocce del promontorio di Nisida. Dietro a un cancello aperto, si inerpica una strada. I tornanti sono sferzati dalla salsedine, che si incaglia nelle piante di cappero. La natura è prepotente, finché sul costone non si staglia un secondo cancello, in questo caso chiuso. Qui finisce la libertà e inizia la sua privazione. Ciò che la barriera di metallo non riesce a precludere allo sguardo è la bellezza del golfo di Napoli. L’istituto penale per minorenni di Nisida è un posto che trabocca di luce. È un carcere, con le sue celle, le grate arrugginite, ma è lambito dall’acqua, la stessa che bagna l’isola della Gaiola e la costa di Posillipo. Il mare, qui, è il solo orizzonte possibile per “dei ragazzi che non cercavano il futuro, vedevano solo il presente”, racconta il direttore Gianluca Guida. Da 30 anni, attraversa quei cancelli, ogni giorno. “La bellezza del contesto in cui siamo aiuta i ragazzi nel percorso”. La natura non è stata così generosa con la periferia di Milano, dove sorge un altro istituto, il “Beccaria”. Nell’ultimo anno, il clamore di rivolte e tentate evasioni che si sono verificate tra le sue mura hanno riportato alla ribalta la questione della giustizia minorile, in Italia, Paese in cui ci sono 17 istituti penali per i ragazzi fino a 25 anni d’età. Il sovraffollamento, problema che un tempo affliggeva solo le strutture per adulti, è così pressante da aver portato il ministero a considerare il trasferimento di giovani detenuti nella casa circondariale di Bologna “Dozza”. È un esempio delle tante criticità che si sommano all’interno di edifici fatiscenti. Antonio Sangermano, il capo dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, è al lavoro per la messa a terra delle ristrutturazioni, attraverso i fondi del Piano nazionale complementare, una costola del Pnrr. Il magistrato, che prima di approdare in via Arenula è stato per sette anni procuratore del tribunale minorile di Firenze, non nasconde nemmeno l’esigenza di potenziare i programmi trattamentali. Servono più esperti negli istituti per minorenni. “Gli entopsicologi - tra gli altri - perché un conto è parlare con un ragazzino di Milano e un conto è avviare un dialogo con un ragazzino che viene dal Ghana o che ha attraversato il Mediterraneo vedendo morire la sorella, la madre”. Non c’è alcuno stigma razziale nelle sue parole, ma la consapevolezza che “i minori stranieri non accompagnati sono portatori di special needs, che derivano ovviamente da tradizioni, culture diverse, da politraumatismi”. Non che il bisogno di supporto psicologico non sia necessario per chiunque, in carcere. “Oggi il carcere fa d’ammortizzatore sociale a molte problematiche che hanno poco di criminalità, ma molto di disagio sanitario”, afferma Guida. Il direttore di Nisida ha visto cambiare il suo carcere con l’arrivo di nuovi detenuti da altri territori: “Un tempo, i ragazzi che arrivavano qui erano scugnizzi, poveri che dovevano arrangiarsi nella vita. Poi sono arrivati quelli utilizzati dalla Camorra per spacciare. Poi è stato il tempo dei ragazzi delle paranze, quelli che dovevano guadagnarsi un posto nelle gerarchie criminali. Oggi ospitiamo ragazzi con bisogni più complessi, fragili per tante ragioni, non solo campani, difficili da interpretare”. E per i quali, in molti casi, l’esecuzione della pena in comunità sarebbe più idonea. Ogni attore della giustizia minorile, ministero compreso, vorrebbe potenziare il comparto comunitario poiché, spiega Sangermano, il carcere “non può diventare una discarica sociale in cui finiscono i derelitti e le persone che hanno problematiche psichiatriche, magari non diagnosticate, o sono assuntori di sostanze stupefacenti. Tutte le volte che c’è un’alternativa al carcere che garantisca la sicurezza sociale e il finalismo rieducativo della pena in una comunità è quella la strada che va percorsa”. Le comunità accreditate, nel Paese, sono centinaia, a fronte di 17 istituti penali per minorenni, ma il fabbisogno non è colmato. Fra le più note c’è quella fondata da don Claudio Burgio. Si chiama Kayros e si trova sul lato opposto di Milano rispetto al Beccaria, a Vimodrone. Ai ragazzi che frequentano il corso di teatro con lui, ha insegnato una parola greca, epoché. È un invito, che rivolge agli spettatori, a sospendere il giudizio per immedesimarsi nella rappresentazione. Ed è una richiesta che emerge spesso dai ragazzi imbrigliati nelle maglie della giustizia minorile: abbandonare i pregiudizi verso chi ha commesso un reato. Epoché è diventato il sottotitolo del primo documentario del quotidiano Open, Giudizio sospeso. Un cortometraggio co-prodotto da Eclettica in cui si intrecciano le storie di quattro ragazzi, che hanno commesso dei reati prima di compiere i 18 anni e, adesso, si trovano a Nisida, al Beccaria e nella comunità Kayros. Ognuno è in una fase diversa del processo rieducativo. Ciò che li accomuna è la prospettiva di un futuro in cui torneranno a essere liberi. Nessuno può prevedere se, quando usciranno dalle articolazioni del sistema giudiziario, cadranno ancora. Loro sono convinti di no. Ma chiedono, intanto, che il reato commesso sia considerato come un momento della loro esistenza. Importante certo, un momento che ha delle cause e soprattutto delle conseguenze. Ma a parte quel momento, loro erano e restano dei ragazzi come tutti gli altri: hanno dei sogni, sono spaventati, si emozionano. Non sanno ancora cosa voglia dire diventare grandi. Ma c’è qualcuno che lo sa davvero? Donne in carcere tra il ritratto cupo della narrazione comune e le alleanze al femminile che fanno rifiorire le vite di Martina Flebus L’Eco di Bergamo, 14 marzo 2025 Intervista. La ricercatrice in criminologia Oriana Binik illustra un quadro delicato delle relazioni femminili in carcere, che vede spesso le detenute vittime di narrazioni sbagliate. Le problematiche hanno però una soluzione comune: lavorare con le donne, non per le donne. L’ultimo aggiornamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria segnala 2.729 donne recluse, su 62.165 detenuti. Dati alla mano, circa il 4% del totale. “Se si devono creare attività o stringere partnership con aziende, si tendono a privilegiare i reparti maschili, anche solo per questioni puramente organizzative” ci spiega Oriana Binik, ricercatrice in Criminologia all’Università Bicocca di Milano. Ne consegue uno svantaggio concreto, che colpisce anche la dimensione relazionale delle donne in carcere. Di questo parliamo direttamente con la dottoressa Binik. MF: Come qualificherebbe la natura delle relazioni tra le detenute? OB: È un tema complesso e ricco di sfumature, andrebbe avvicinato con la massima delicatezza e attenzione. C’è una difficoltà relazionale ma non sento di voler contribuire al ritratto cupo della detenzione femminile. Sono nati piccoli gruppi composti da due o tre donne che coltivano relazioni intime molte profonde, diventando così una risorsa preziosa l’una per l’altra. Nonostante ciò le donne sono oggetto di narrazioni che sviliscono la loro capacità di creare connessioni e alleanze. MF: Come vengono raccontate le donne in carcere? OB: Molti operatori e operatrici descrivono le donne come capricciose o infantili. I detenuti uomini a volte temono l’impulsività della componente femminile, la descrivono come iperaggressiva e si sentono spaventati. Spesso sono le donne stesse a portare avanti questa narrazione. Non possiamo negare l’esistenza di episodi in cui è evidente una conflittualità accesa, ma allo stesso tempo non vorrei raccontare la detenzione femminile a partire da ciò che manca, dai deficit. Anche perché alcune donne ne sono consapevoli, cercano di indagare a loro volta le differenze, senza però trovare una risposta: “Siamo pazze o ci rendono pazze” è una frase che una detenuta ci ha ripetuto diverse volte. MF: Da cosa potrebbe derivare questa conclusione? OB: I fattori sono diversi, per la maggior parte ambientali e di contesto. In carcere si perdono i riferimenti fondamentali: gli spazi, la routine, gli oggetti di uso quotidiano, il senso di autoefficacia. Ma questi sono temi generali, che valgono sia per il maschile che per il femminile. A livello di opportunità però il contesto del carcere maschile offre di più rispetto a quello femminile. La percentuale di donne in carcere negli anni è rimasta stabile ed è molto inferiore rispetto alla porzione maschile. Quindi, nel concreto, se si devono creare attività o stringere partnership con aziende si tendono a privilegiare i reparti maschili, anche solo per questioni puramente organizzative. MF: Come si può creare un contesto favorevole alla relazione femminile in carcere? OB: È importante fare uno sforzo cognitivo e interrogarsi sul contesto: è questa la chiave di lettura. Frequentemente partiamo dall’esperienza maschile pensando che sia l’universale neutro, ma non è così. Ci sono delle differenze che bisogna essere in grado di ascoltare. C’è un bisogno di sorellanza, ma c’è anche la necessità di costruire interventi per rafforzarla. È un processo che va fatto con le donne, non per le donne, partendo dai loro bisogni e desideri ed evitando di aspettarsi che uomini e donne reagiscano allo stesso modo. MF: È una tipologia di lavoro e di ricerca che qualcuno sta portando avanti? OB: Credo siano fondamentali i lavori di Susanna Ronconi e Grazia Zuffa che, oltre ad aver arricchito la letteratura sul tema, hanno condotto dei laboratori in carcere, con il fine di far riscoprire alle detenute le tante identità che le animano. Le donne stesse spesso si riconoscono solo nei fallimenti o nelle esperienze traumatiche vissute. Non nego di certo l’importanza di questi eventi nella vita del singolo: è però rischioso far corrispondere l’identità femminile solamente all’identità della vittima. È importante riscoprire anche il desiderio e riattivare le energie desideranti. None MF: Nel quotidiano invece ci sono figure specializzate nel supporto alle donne all’interno del carcere? OB: Il carcere fortunatamente è un’istituzione sempre più porosa. Ci sono volontari, realtà del terzo settore, agenti di polizia penitenziaria sempre più vicine al ruolo di cura, funzionari degli uffici pedagogici, esperti ex art. 80 e SerD. Il lavoro enorme di accompagnamento delle persone verso il cambiamento di sé, svolto in carcere e negli uffici di esecuzione penale esterna, non viene sempre raccontato. Ma esiste e coinvolge molte persone, soprattutto donne che quotidianamente sono impegnate nell’affiancare i percorsi di altrettante donne. MF: Dunque, seguendo il ragionamento portato avanti fino ad ora, risulta complicato definire anche la relazione tra le detenute e le operatrici? OB: Esattamente, non si può generalizzare. A volte alcune donne scoprono in carcere per la prima volta l’occasione di seguire un percorso piscologico o di dedicarsi ad attività artistiche. In molti casi si tratta di persone che hanno condotto vite talmente ai margini che l’incontro con queste opportunità è un cambiamento in positivo incredibile. Soprattutto per chi ha la disponibilità di coglierle e valorizzarle. Ovviamente le situazioni sono molteplici, c’è anche chi si lamenta di non avere abbastanza. MF: In conclusione, possiamo dire che serve un punto di vista inedito per affrontare la tematica e la situazione femminile in carcere? OB: Assolutamente. È giusto denunciare ciò che manca, ma al contempo è controproducente imputare le mancanze di cui abbiamo parlato a un deficit strutturale femminile. Nelle relazioni tra detenute ci sono aspetti positivi, è importanti concentrarsi su quelli e potenziarli, espanderli con attenzione al contesto. Bisogna concentrarsi sugli ambienti femminili, in modo tale che queste risorse possano fiorire. Inclusione carceraria: quando a vincere sono le imprese di Flavia Zarba huffingtonpost.it, 14 marzo 2025 Un impiego stabile da parte delle aziende che offrono lavoro a chi ha bisogno di riscatto è capace di restituire autostima a chi ha commesso un crimine e allontanare il reo da quel pensiero che l’ha condotto a delinquere, un pensiero che, senza alternativa, potrebbe condurlo alla recidiva. Luigi (il suo nome è di fantasia) ogni mattina si reca a lavoro, presso lo stabilimento della Sparco Spa di Cuggiono e si mette alla postazione. Sembrerebbe un normale inizio di giornata di un trentanovenne operaio, se non fosse che Luigi, al mattino, per andare a lavoro, prende il solo e unico mezzo di trasporto che gli è stato indicato e percorre il solo e unico tragitto che gli è stato concesso e alla sera, terminate le sue otto ore lavorative, rientra in carcere, in cui dovrà ancora stare per altri, interminabili anni. A controllare il suo ingresso a lavoro e il suo ritorno in cella, ogni giorno, c’è la polizia penitenziaria che lo aspetta all’esterno e controlla ogni movimento. Eppure, per Luigi, questa concessione lavorativa significa tutto e, a testa alta, prima di mettersi a lavoro, c’è una frase, che ripete a chi gli chiede come si senta: “ogni individuo merita il riscatto”. È proprio da qui, dalla pena volta al riscatto e alla rieducazione, che occorrerebbe partire quando si affronta il tema dell’inclusione carceraria dando per certo che il lavoro è il primo elemento per il riscatto umano e sociale. Purtroppo oggi, in Italia, i dati dell’inclusione carceraria sono sconfortanti. Chi per pregiudizio, chi per burocrazia, chi per paura del fallimento del progetto... sono tanti gli imprenditori che abdicano all’iniziativa dell’inserimento di detenuti o che pensano che il problema del sovraffollamento carcerario o della recidiva non li riguardi perché un problema “dello Stato”. Eppure è proprio l’impresa l’unica realtà che, con consapevolezza, può permettere la realizzazione di percorsi di reintegrazione sociale perché il detenuto ha bisogno di svegliarsi ogni mattina e andare a lavorare perché l’unico modo per allontanarsi dal crimine è focalizzarsi su altri aspetti della vita. Per far sì che questo accada, il detenuto, nella sua debolezza (perché i più sono ahimè soggetti molto deboli e vulnerabili) va accompagnato gradualmente nel suo inserimento a lavoro, proprio come si fa con un bambino che dalle mura domestiche passa a quelle di una scuola, allo stesso modo dalle “alte mura” carcerarie si passa all’azienda e a ritrovare, pian pianino, un contatto con il mondo esterno. Solo un impiego stabile da parte delle aziende che offrono lavoro a chi “ha bisogno di riscatto” è capace di restituire autostima a chi ha commesso un crimine e solo il lavoro è capace di allontanare il reo da quel pensiero che l’ha condotto al crimine, un pensiero che, senza alternativa, potrebbe condurlo alla recidiva. È pertanto un triplo “win-win-win” quello che unisce Stato-Imprese-Detenuti, in un dialogo costante, in un rapporto sinallagmatico in cui le imprese non devono essere un antibiotico da somministrare ex post, all’uscita dal carcere, ma coinvolte sin dall’inizio nei progetti, sin dal momento della reclusione, potendo così intervenire per portare speranza ed umanità all’interno delle carceri e portando il lavoro come alternativa al reato. Una buona riuscita dell’inserimento all’interno delle aziende significa, per le persone detenute, dare un buon supporto alle famiglie all’esterno, trasformandosi dall’essere un “peso” a una risorsa, senza togliere l’accrescimento dell’autostima e della dignità personale che favorisce un rientro positivo nella società, realizzando la funzione rieducativa della pena. È una vittoria, senza dubbio alcuno, anche per lo Stato perché valorizza il capitale umano, riduce i divari, i bisogni e diminuisce il rischio di una recidiva offrendo maggiore sicurezza sociale, come ha recentemente ricordato il Capo dello Stato. Ma soprattutto è una vittoria per le aziende che offrono questa possibilità perché non occorre dimenticare che la Responsabilità Sociale è in capo a ogni impresa che la deve espletare, in virtù del dettato costituzionale. Non da ultimo la possibilità di accedere ad incentivi fiscali e risparmio sui costi di produzione, acquisto, formazione. Per chiarezza: le imprese che assumono detenuti o internati all’interno degli istituti penitenziari o lavoranti all’esterno ai sensi dell’art. 21 ord. penit., possono ottenere un credito d’imposta per ogni lavoratore assunto, nei limiti del costo per esso sostenuto, di 520 euro mensili; le imprese che assumono semiliberi possono ottenere un credito d’imposta per ogni lavoratore assunto, nei limiti del costo per esso sostenuto, di 300 euro mensili. Per i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo parziale, il credito d’imposta spetta, in ogni caso, in misura proporzionale alle ore prestate. Il credito d’imposta spetta inoltre, se il rapporto di lavoro è iniziato mentre il soggetto era ristretto, per i diciotto mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo per i detenuti ed internati che hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro esterno e per i ventiquattro successivi alla cessazione dello stato detentivo nel caso di detenuti ed internati che non hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro all’esterno. Senza contare che Luigi, quel detenuto che ogni giorno alle 7.55 entra puntualmente in stabilimento, a testa alta, oggi è uno dei più bravi e seri tra i suoi colleghi e, quando tornerà in libertà, saprà già fare un lavoro e potrà nuovamente investire sul suo futuro da uomo libero. Antigone: “Bene richiesta seduta straordinaria alla Camera. Il carcere torni al centro del dibattito” di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 14 marzo 2025 “È assolutamente necessario che si discuta ai più alti livelli e in Parlamento di quanto sta accadendo nelle carceri e si prendano decisioni che portino il sistema nella legalità. Siamo ad un punto critico da cui è necessario uscire attraverso una serie di provvedimenti urgenti che non possono più essere rimandati senza mettere a rischio la dignità di chi in carcere è recluso, ma anche di chi in carcere lavora”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Dopo il record negativo dello scorso anno di 89 suicidi, sono già 16 quelli avvenuti nel 2025. Le persone detenute in carcere a fine febbraio erano 62.165 per una capienza regolamentare di 51.323 unità, ma reale di 46.836 posti. Questo significa che, alla fine del mese scorso, in carcere c’erano 15.329 persone senza un posto, per un tasso di affollamento del 132,7%. Molte strutture detentive versano poi in condizioni totalmente degradate a livello igienico-sanitario. Carceri con muffe e infiltrazioni diffuse, fredde per l’assenza di riscaldamenti e acqua calda in inverno, con un caldo soffocante in estate, in alcuni casi con mancanza di luce nelle sezioni. Carceri dove si sta in celle così malmesse fino a 20 ore al giorno di fila. Carceri dove non si può telefonare ai propri cari se non 10 minuti a settimana. “Un contesto questo - sostiene il presidente di Antigone - che produce tensione, che mette a dura prova tanto le persone detenute che gli operatori che si ritrovano a dover vivere quotidianamente questo stato di profondo abbandono e di assenza di dignità, con un impatto anche sulla recidiva, che in Italia continua ad essere attorno al 70%. Del resto, come può una persona affidata a questo contesto uscire dal carcere avendo costruito un percorso alternativo e diverso rispetto a quello criminale?”. “Proprio per questo il carcere deve tornare al centro del dibattito pubblico e politico. Il carcere deve interessare a tutti perché riguarda tutta la società, da cui provengono le persone detenute e in cui le persone detenute torneranno dopo aver scontato la propria pena. Dobbiamo perciò costruire un sistema penitenziario che sia rispettoso dei diritti e che costruisca possibilità di reinserimento sociale reali, in linea con il dettato costituzionale. Per questo - ricorda Gonnella - come Antigone, già da qualche tempo, abbiamo avanzato alcune proposte che guardino sia ad un ridimensionamento numerico delle persone recluse, sia all’investimento su attività che possano realmente essere di supporto agli operatori nel costruire percorsi reali di reinserimento sociale”. Tra le proposte di Antigone: - misure straordinarie per ridurre i numeri nelle carceri per adulti e in quelli minorili; - un nuovo regolamento che innovi la vita interna a partire dalle proposte avanzate dalla Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, presieduta dal Prof. Marco Ruotolo; - liberalizzazione delle telefonate per garantirne una fruizione quotidiana, quanto meno per i detenuti di media sicurezza; - assunzione di 10 mila giovani operatori che vadano a lavorare nelle carceri, in diversi ruoli, per dare man forte agli attuali operatori che spesso soffrono di forte stress a causa di un lavoro che produce grande burnout. Inoltre Antigone chiede: - alle Regioni di fare investimenti straordinari nella formazione professionale; - alle ASL di andare a verificare con visite ispettive se le condizioni carcerarie siano o meno rispettose di standard minimi igienico sanitari; - ai giornalisti di chiedere di andare a visitare in che condizione drammatica sono le strutture penitenziarie come Sollicciano o Beccaria o la Dozza o Regina Coeli e al Ministero di autorizzare accesso e riprese in un’ottica di totale trasparenza; - alle università di chiedere di aprire corsi e alle scuole di aprire sezioni di liceo. “La questione carceraria - conclude Patrizio Gonnella - riguarda tutte le parti della società”. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Rivolta al Beccaria di Milano: cresce l’allarme sul sistema delle carceri minorili di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 marzo 2025 Una notte di caos ha sconvolto mercoledì l’istituto penale minorile Cesare Beccaria di Milano, dove è scoppiata una rivolta che ha provocato danni strutturali ingenti, tentativi di evasione e feriti, sia tra i ragazzi reclusi che tra gli agenti. Lo rende noto la Uil-Pa Polizia Penitenziaria, che definisce l’episodio “sintomo del fallimento organizzativo del sistema penitenziario minorile”. Secondo quanto ricostruito, tutti i 58 ragazzi attualmente ristretti nel carcere minorile avrebbero partecipato ai disordini, appiccando incendi in diversi locali e tentando una fuga di massa. Quattro detenuti sono riusciti a superare il muro di cinta, ma dopo ore di ricerche sono stati rintracciati all’interno del perimetro che include il penitenziario e gli uffici del Dipartimento per la giustizia minorile. Un altro giovane, ferito durante gli scontri, è stato ricoverato in ospedale e posto sotto piantonamento della Polizia di Stato, in assenza di personale penitenziario disponibile. Per sedare la rivolta, sono intervenuti anche agenti non in servizio, richiamati d’urgenza. “I colleghi hanno lavorato fino alle 5 del mattino e, dopo meno di tre ore di riposo, sono già tornati in servizio alle 8”, ha denunciato Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-Pa, sottolineando le criticità legate al sottorganico cronico: la Polizia penitenziaria manca di oltre 18 mila unità a livello nazionale. Non è la prima volta che il Beccaria finisce sotto i riflettori per episodi gravi. Nei mesi scorsi, la Procura di Milano ha indagato su presunte violenze e torture ai danni dei detenuti, culminate con l’arresto di 13 agenti. Un contesto già fragile, dunque, che secondo il sindacato spiega in parte l’escalation di tensioni. “Quanto accaduto è la prova provata del fallimento gestionale del sistema penale minorile, parallelo a quello per adulti”, ha dichiarato De Fazio, citando analoghi episodi al Ferrante Aporti di Torino e in altri istituti italiani. Il sindacato punta il dito contro la politica, chiedendo interventi immediati: “Urge un cambio di passo. Il sistema va messo in sicurezza con più agenti, strutture efficienti e una riorganizzazione totale”. Le critiche si estendono al governo: “Aspettiamo risposte concrete dal ministero della Giustizia, ma temiamo solo annunci roboanti e vuoti. Serve un piano tangibile, non parole”. Intanto, i danni al Beccaria richiederanno interventi strutturali, mentre tra i detenuti continua a serpeggiare la tensione. La rivolta di Milano riaccende i riflettori su un sistema penitenziario minorile in crisi da anni, tra carenza di personale, strutture obsolete e protocolli inefficaci. Con oltre il 40% degli istituti che superano la capienza regolamentare (dati Antigone), l’effetto controproducente del decreto Caivano e la completa distruzione di un modello virtuoso come quello minorile, l’allarme lanciato dalla Uilpa sembra destinato a restare inascoltato. Riuscirà il governo a trasformare l’emergenza in un’opportunità di riforma, o il Beccaria sarà solo l’ultimo di una lunga serie di fallimenti? La tutela dei cittadini passa per il rispetto della funzione dei giudici di Glauco Giostra* Il Domani, 14 marzo 2025 Un popolo che non crede nella giustizia amministrata in suo nome si consegna alla giustizia del più forte. Il giudice non può e non deve farsi carico delle conseguenze della sua decisione, ma solo del rispetto delle regole del procedere e del valutare. Prendiamone ormai atto: la bussola della nostra democrazia costituzionale si è smagnetizzata. Bisognerebbe cercare di porvi rimedio, perché questo scomposto navigare a vista potrebbe prima o poi portarci contro uno scoglio autoritario. Uno dei settori di maggiore fibrillazione del sistema è rappresentato dal rapporto tra potere esecutivo e magistratura, con polemiche che ormai hanno investito anche il vertice dell’ordinamento giudiziario: la Corte di Cassazione. A parte aggressive e sguaiate contumelie che per carità di patria conviene non riferire, il principale addebito che autorevoli esponenti del governo muovono ripetutamente ad alcune decisioni è quello di non assecondarne l’azione e di non perseguire in tal modo l’interesse dei cittadini. Rilievi critici che rendono utile provare a ricordare cosa voglia dire amministrare la giustizia in nome del popolo (art.101 Cost.) in un Stato di diritto come il nostro. Il problema che da sempre accompagna ogni società - quello di dover giudicare i comportamenti incompatibili con la sua ordinata convivenza, pur con la consapevolezza che l’umano giudizio non conosce con certezza la verità - viene risolto imponendo a chi è chiamato a decidere il dovere di attenersi ad un itinerario cognitivo che il popolo, attraverso i suoi rappresentanti, ha ritenuto il meno imperfetto per approssimarsi alla verità e che in esso, pur nella sua inevitabile fallibilità, si riconosce. Un popolo che non crede nella giustizia amministrata in suo nome si consegna alla giustizia del più forte. Questo itinerario cognitivo, chiamato processo, può essere figurativamente visto come una sorta di ponte tibetano che conduce dalla cosa da giudicare alla res iudicata, che pro veritate habetur: la collettività è disposta, cioè, ad accettarla come verità, se è stato seguito il percorso conoscitivo tracciato dal suo legislatore. Tanto è vero che il processo, a prescindere dal suo esito, va rinnovato se non ha rispettato le garanzie qualificanti del metodo predisposto. Infatti, diversamente da quanto accade per altre pubbliche funzioni (per esempio la politica economica, estera o ambientale) il prodotto della giustizia non si giudica dai risultati, ma dal metodo seguìto. A differenza di tutte le altre potestà pubbliche, che obbediscono ad un programma di scopo e sono responsabili del risultato raggiunto, quella giurisdizionale, per dirla con Luhmann, risponde ad un programma condizionale: se accerta che si è verificato un determinato fatto, il giudice deve applicare la conseguenza prestabilita. In tal modo si sottrae alla critica politica, essendosi doverosamente limitato ad applicare la norma che il legislatore ha predisposto. In altri termini, il giudice non può e non deve farsi carico delle conseguenze della sua decisione, ma solo del rispetto delle regole del procedere e del valutare. Criticare una decisione giurisdizionale perché “non ha aiutato il Governo, che opera nell’interesse del Paese” costituisce un anacoluto costituzionale: il giudice che si facesse guidare dall’idea di ostacolare o di favorire l’azione della politica sarebbe severamente censurabile, determinerebbe uno sbinariamento della sua funzione. Se alla lettura del solo dispositivo giudichiamo a caldo una sentenza “vergognosa”, “sconcertante”, “eversiva”, o siamo in malafede o siamo giuridicamente analfabeti. A meno di non ritenerci moderni Irnerio, in grado di rapidamente comprendere e giudicare l’intero iter procedimentale e la struttura motivazionale delle decisioni. Ma di queste lucernae iuris non sembra francamente affollato il panorama. Quando, da rappresentanti di un potere dello Stato, si critica sistematicamente ogni decisione sgradita, a volte attribuita a pubblici ministeri, altre ai gip che da questi dissentono, altre al giudice di primo grado, altre alla corte di appello, altre alla Cassazione, si è perso il senso delle istituzioni. Quando si grida al complotto giudiziario, anche quello del ridicolo. Ciò non vuol certo significare, ovviamente, che il giudice non possa sbagliare o che il ponte tibetano predisposto dalla Costituzione e dalla legge non sia fatalmente fragile e in più punti sconnesso. Proviamo sempre a migliorarlo, ma teniamocelo caro e difendiamolo, perché passa comunque molto al di sopra di quella intollerabile realtà di soprusi, di repressione del dissenso, di emarginazione delle minoranze, di imposizione di dommi politici o religiosi, che troppo spesso in tutte le epoche della storia e a tutte le latitudini della geografia, prende abusivamente il nome di giustizia. *Giurista Nordio fa bene a non alterare l’equilibrio tra pm e polizia giudiziaria di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 14 marzo 2025 Il tema è delicato. In questi ultimi tempi si sono lette riflessioni di diverso genere per lo più orientate a ritenere che con la separazione delle carriere verosimilmente cambierà la capacità del pubblico ministero di controllare la polizia giudiziaria. In altri termini e da altri punti di vista: con lo scollamento dell’accusa dalla magistratura giudicante, taluni ritengono che la Procura potrebbe esser vista come più vicina all’Esecutivo (che, a seconda dei dicasteri, dirige le forze in uso alla polizia giudiziaria) attesa l’influenza che gli investigatori hanno sulla conduzione dei fascicoli. Addirittura verrebbe affermato che si renderà necessario - per fugare dubbi di controllo governativo sugli inquirenti - sottrarre la Pg alla direzione del pm. La questione, però, non è nuova. Cerchiamo di fare chiarezza. La polizia giudiziaria è tradizionalmente ricompresa nel novero degli ausiliari del pubblico ministero, e nel codice di rito è collocata nel libro I, titolo III, dedicato ai “Soggetti”. Il legislatore ha inteso escludere la formazione di un corpo di polizia giudiziaria alle dirette dipendenze del pm, attribuendogli una posizione istituzionale che porta una chiara differenziazione dei suoi organi dagli uffici inquirenti, e presuppone un’inequivoca attribuzione di funzioni autonome. Tale scelta evidenzia il ruolo di particolare rilievo attribuito alla Pg nella fase delle indagini preliminari (si pensi proprio alle numerose funzioni autonome, oltre a quella delegata o indirizzata che, come si sa, consiste in un’istruzione impartita dal pm con la quale si fissa l’obiettivo dell’indagine, ma si lascia - in ragione dell’indipendenza - indeterminata l’attività operativa da svolgere per perseguirlo), delineato attentamente nell’articolo 55 del codice di procedura penale. Un dato è certo: la polizia giudiziaria è titolare di una discrezionalità tecnica in relazione alla scelta dei mezzi e delle investigazioni più idonei al perseguimento degli scopi di indagine indicati dal pubblico ministero. Tale discrezionalità tecnica distingue l’attività svolta su direttiva d’indirizzo - o guidata - dall’attività svolta su specifica delega, detta appunto delegata. Solo qualora le indagini conducano all’acquisizione di una notizia di reato, la polizia giudiziaria ha il dovere (sanzionato in caso di omissioni) di cristallizzare la stessa in una apposita informativa (Cnr) e di comunicarla al pubblico ministero secondo modalità e tempi previsti dall’articolo 347 c.p.p.. Si può parlare, quindi, di una dipendenza funzionale non strettamente gerarchica della polizia giudiziaria dalla magistratura inquirente, prevista al solo fine di dare stabilità all’attività d’indagine, oltre che per rendere concreto il coordinamento tra organi nella fase delle indagini preliminari. Questo è il punto di partenza, oggetto di compromesso sul piano giuridico, concepito per conferire più garanzie all’intero sistema. Proprio nello spirito della più stretta collaborazione con la polizia giudiziaria, il pubblico ministero si impegna direttamente nell’attività investigativa, dando le opportune direttive, ma soprattutto operando personalmente perché siano compiuti quegli atti che gli consentano di presentare al giudice le proprie richieste, tanto a carico quanto a discarico dell’interessato. La genesi della questione è risalente: il codice Rocco, infatti, affidava al pm il ruolo di funzione pubblica, e la facoltà di acquisire le notizie di reato, di propria iniziativa, era attribuita solo alla polizia giudiziaria. Nel 1988 è stato introdotto, in relazione alla fase investigativa, una significativa novità rispetto al processo penale preesistente, riconoscendo espressamente tale potere al pubblico ministero, con un tanto sofisticato quanto semplice di equilibrio: gli atti compiuti dal magistrato del pubblico ministero sono fonti di prova, da cui possono scaturire dati che, soltanto al momento della loro assunzione nel contraddittorio delle parti in sede di giudizio, assurgeranno al rango di prove. Non sono mancati, nell’ultimo trentennio, progetti di riforma per allontanare ovvero avvicinare la Pg al pm: ad esempio la commissione ministeriale presieduta dal professor Andrea Antonio Dalia prevedeva, nel quadro di un generale ampliamento dell’autonomia investigativa della polizia giudiziaria e di un conseguente ridimensionamento delle funzioni del pubblico ministero, l’abolizione del potere del magistrato inquirente di ricercare le notizie di reato e l’attribuzione di tale attività, in via esclusiva, alla polizia giudiziaria (come nel codice di rito previgente). E ancora, all’opposto, la commissione ministeriale per la riforma del codice di procedura penale presieduta dal professor Giuseppe Riccio affidava la responsabilità delle indagini preliminari all’accusa. Si colloca in un’ottica ancora diversa il disegno di legge n. 1440S del 2009, che prevedeva di sottrarre al pubblico ministero il potere di ricercare notizie di reato. La riforma Nordio, nella sua organicità, è un passo epocale perché mira a separare la carriera del pm da quella del giudice: la conseguente attribuzione della funzione investigativa a un ruolo distinto dall’Ufficio di Procura pare però idea lontana dall’assetto della riforma, a meno che non si voglia fare un passo indietro e tornare a un sistema che ingenerava problemi operativi (e per certi versi equivoci) non di poco conto. Forse, sarebbe più razionale lavorare sul concetto di “vigilanza” del pm sull’attività della Pg o, ancor meglio, sull’obbligatorietà dell’azione penale, più che erodere funzioni e cooperazioni già collaudate, oggetto di tentativi di riforma tutti allo stato naufragati probabilmente perché inattuabili. *Avvocato, Direttore Ispeg Delmastro boccia la riforma Nordio: “L’unica cosa buona è il sorteggio” di Ermes Antonucci Il Foglio, 14 marzo 2025 L’incredibile confessione del sottosegretario alla Giustizia contro il ddl costituzionale del suo ministro: “Il Csm per i pubblici ministeri è un errore strategico. I pm, prima dei politici, divoreranno i giudici. L’unica cosa figa della riforma è il sorteggio”. “Dare ai pubblici ministeri un proprio Csm è un errore strategico che, per eterogenesi dei fini, si rivolterà contro. I pm, prima di divorare i politici, andranno a divorare i giudici. L’unica cosa figa della riforma è il sorteggio dei togati al Csm, basta”. A bocciare in maniera così netta la riforma costituzionale della magistratura, in una chiacchierata confidenziale col Foglio, non è un parlamentare dell’opposizione né un magistrato iscritto all’Anm, bensì il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove. Cioè il sottosegretario del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ha elaborato il ddl costituzionale, e uno dei principali esponenti di Fratelli d’Italia. Insomma, il sottosegretario alla Giustizia ammette di non condividere la riforma del suo ministro e del suo governo. “C’è un rischio nel doppio Csm. O si va fino in fondo e si porta il pm sotto l’esecutivo, come avviene in tanti paesi, oppure gli si toglie il potere di impulso sulle indagini. Ma dare un Csm al pm è un errore strategico che, per eterogenesi dei fini, si rivolterà contro”, spiega Delmastro, riferendosi a uno dei punti cardine della riforma costituzionale della magistratura, approvata in prima battuta alla Camera e ora sotto esame al Senato: la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, con l’istituzione di due Consigli superiori della magistratura, uno per categoria. Una misura che non piace affatto al sottosegretario alla Giustizia: “Quando un pm non dovrà neanche più contrattare il suo potere con i giudici in un solo Csm e avrà un suo Csm che gli garantirà sostanzialmente tutti i privilegi, quel pm prima ancora di divorare i politici andrà a divorare i giudici, che hanno il terrore di questa roba”. Delmastro appare poco convinto anche su un altro punto fondamentale della riforma costituzionale, l’istituzione di un’Alta corte disciplinare. In realtà, come ha riferito l’Anm, durante l’incontro della scorsa settimana sarebbe stata la stessa premier Meloni a riconoscere l’incongruenza della scelta di concepire un organismo del genere solo per i magistrati ordinari. “Sa che c’è - afferma seccamente Delmastro - L’unica cosa figa è il sorteggio, basta. L’Alta corte e il doppio Csm…”. Insomma, per il sottosegretario alla Giustizia l’unica cosa buona della riforma costituzionale è l’introduzione del sorteggio secco per l’elezione dei componenti togati del Csm. E meno male che, prima di demolire i punti più importanti della riforma, Delmastro l’aveva definita “complessivamente ottima”. Un paradosso gigantesco, così come appare essere la premessa fondamentale della riflessione del sottosegretario: “Nella mia persona convivono entrambe le pulsioni, sia quella garantista che quella giustizialista, a corrente alternata secondo le necessità”. Praticamente una confessione della tendenza a evocare il garantismo soltanto quando conviene (per esempio quando sono indagati esponenti del proprio partito: per quelli dell’opposizione si agita la forca). E pensare che era stato Delmastro a cercarci, per specificare che il suo post su Facebook in cui esprime solidarietà al pm Nicola Gratteri contro gli “attacchi” degli ultimi giorni dopo la pubblicazione sul Foglio dei numeri relativi ai risarcimenti per ingiusta detenzione in Calabria non era rivolto, appunto, al nostro giornale, ma “ai magistrati che, in seguito alla pubblicazione dell’articolo, nelle loro chat hanno scatenato una ridda contro Gratteri che trovo vomitevole”. Nel suo post, però, Delmastro ha tentato in qualche modo di confutare i dati pubblicati dal Foglio (estratti da una relazione predisposta dal ministero della Giustizia): “I numeri parlano chiaro: in Italia quasi il 90 per cento dei procedimenti in cui viene emessa una misura cautelare si conclude con una condanna; i dati relativi alla Calabria e in particolare al distretto di Catanzaro, dove ha operato il procuratore Nicola Gratteri, sono perfettamente allineati al dato nazionale; la spesa per le ingiuste detenzioni nel distretto di Catanzaro è in linea con territori ad alta densità criminale come Napoli, Reggio Calabria e Roma”. Peccato che tutte queste affermazioni siano false. Il dato del 90 per cento, ripreso dalla relazione, si riferisce ai procedimenti definiti nel medesimo anno in cui sono state adottate le misure cautelari (quindi generalmente tramite patteggiamenti). I dati relativi al distretto di Catanzaro non sono affatto allineati al dato nazionale: nel 2024 la Corte d’appello di Catanzaro ha dovuto risarcire 4.274.784 euro per ingiuste detenzioni, contro la media nazionale di 927 mila euro. Infine, il dato di Catanzaro si avvicina a quelli di altri distretti come Napoli e Roma soltanto nel 2024, ma non in quelli precedenti. Ricordiamo che la Calabria (distretti di Catanzaro e Reggio Calabria) ha assorbito negli ultimi sette anni il 35 per cento dell’intera spesa destinata a risarcire le vittime di ingiusta detenzione, con 78 milioni su 220 totali, un record. Ma i dati sull’ingiusta detenzione a Catanzaro sono ora l’ultimo dei problemi per Delmastro, che dovrà spiegare alla premier, al suo ministro, oltre che ai cittadini, come è possibile rimanere sottosegretari alla Giustizia senza condividere - a dispetto di quanto sostenuto in pubblico - i contenuti della riforma costituzionale della giustizia che il ministero e la maggioranza stanno portando avanti. Dare l’ergastolo a un femminicida non salva una vita di Loredana Lipperini L’Espresso, 14 marzo 2025 Il disegno di legge della destra è il solito boccone securitario. Che non risolve niente, ma attira applausi. Nel 2015 Elvio Fassone, oggi ex magistrato di Cassazione e già presidente della Corte d’Assise, scrive “Fine pena ora”, un piccolo libro che esce per Sellerio: il contenuto è un dialogo con Salvatore, uno dei capi della mafia catanese che lo stesso Fassone fece condannare nel 1985. Il giorno dopo la sentenza, il magistrato scrive al mafioso e gli manda un libro, turbato da una frase pronunciata durante il processo (“se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia “). Si scriveranno per 26 anni. Salvatore proverà a uccidersi, sostituendo alle parole riportate nella sua scheda (Fine pena: mai, ovvero anno 9999), il suo “Fine pena: ora”. Per inciso, quello di Fassone non è pentimento: la condanna era giusta, ma è sul senso della pena che l’uomo di legge ha molte cose da dire, come questa: “La comunità offesa dal delitto si fa risarcire con fette di vita prelevate chirurgicamente da quel bisturi inappuntabile che è il processo”. Ed è per questo che è tristissimo applaudire il disegno di legge che prevede l’ergastolo per i femminicidi, annunciato in pompa magna da Giorgia Meloni e dalla ministra Eugenia Roccella alla vigilia dell’8 marzo. Un percorso lungo, peraltro: già nel 2017 Snoq-Libere, nella persona di Fabrizia Giuliani, presentò un emendamento dove si prevedeva l’ergastolo per il femminicida. E un anno prima, quando la proposta prendeva forma, Michela Murgia protestava: “In mezzo alle grida indignate dei giustizialisti del giorno dopo, a me l’ultima cosa che interessa è sapere se verrà dato l’ergastolo all’uomo che ha ucciso Sara Di Pietrantonio. Molto più importante mi pare capire perché di uomini come quello in Italia ce ne siano migliaia e picchino, violentino o uccidano altrettante donne ogni anno”. Insomma, ieri come oggi, è più facile, e soprattutto incontra più consensi, pensare alle morte invece che cercare di salvare le vive. Perché procedere a colpi di giustizialismo, appunto, e dichiararsi soddisfatti da quel 9999 scritto sulla scheda non riporta indietro nessuna, non previene nulla, non interviene sulle cause, non stanzia maggiori finanziamenti per i centri antiviolenza, non forma le forze dell’ordine, non forma neanche i ragazzi e le ragazze, e tutto quello che da anni viene ripetuto, quanto ignorato, perché dare in pasto all’elettorato un bel boccone securitario paga, purtroppo. Certo, questo sembra un dettaglio tra le nubi nere che si addensano sul mondo, mentre Donald Trump sta facendo di tutto per farle notare: dalla ventilata abolizione del Dipartimento dell’Istruzione (negli Stati Uniti, e non è detto che ci riesca: Valditara può stare tranquillo) alle restrizioni orwelliane sugli studi che menzionano parole riferite a sesso e genere fino alla censura sui giornali. Ma non è con l’ergastolo che si dissolvono almeno alcune di quelle nubi: come dice l’associazione Antigone, il diritto penale non ha mai educato nessuno. Per questo, la cosa preziosa di oggi è “Parlare fra maschi” di Alessandro Giammei, che esce per Einaudi: il libro non deresponsabilizza gli uomini che non uccidono, ma restituisce loro proprio la responsabilità, indagando su come si socializza in famiglia, a scuola, fra amici, sul lavoro, in campeggio, giocando di ruolo. E li invita a scrollarsi di dosso, fra le altre cose, il mito della vittoria, che è cosa importantissima in giorni dove gli spiriti guerreschi spuntano dove mai avresti immaginato di trovarli. Purtroppo, di nuovo. Ergastolo e femminicidio di Alberto Sbardella* Ristretti Orizzonti, 14 marzo 2025 Da maschio, da uomo, da medico... sono (ovviamente!) contro ogni discriminazione e forma di violenza nei confronti del genere femminile. Superata la sempre e comunque necessaria premessa, entriamo nel merito dell’argomento “femminicidio”. Questione diciamo subito, rischiosa e scivolosa, perché terreno assai delicato sul quale basta una parola di troppo o minimamente potenzialmente ambigua o altro, e si scatenano le reazioni più diverse. Ergastolo! Allora, signori, con onestà guardiamoci in faccia. Serve realismo. Siamo in un paese dove si discute da un lato (a torto o a ragione) sulla attualità e utilità (oltre che umanità) del fine pena mai (almeno sulla carta, quando non è esplicitamente di tipo ostativo) e dall’altro sulla mera logica dell’inasprimento delle pene, come risposta delle istituzioni. Già questa prima considerazione e premessa, pone delle questioni sulla utilità (non certo della adeguata opportunità) di condannare il reo con il massimo della pena. Ma, siamo davvero sicuri che un tale comprensibile e giusto accanimento punitivo, sia la sola ed unica risposta al quesito iniziale? Immagino che già molti staranno pensando...eccolo, il solito intellettuale (pure psichiatra) che la prende alla larga e tira per le lunghe. Invece no, perché credo che anche il mondo sanitario, nelle sue diverse professioni, possa e debba svolgere un ruolo chiave nella prevenzione, gestione e cura del fenomeno. Certo, non è cosa da poco, ma se pensiamo che sia tutto inutile e bastano le manette, allora chiudiamo tutto e andiamo a casa. Ovviamente il compito non spetta solo a noi sanitari. Ad esempio, della scuola ne vogliamo parlare? Che tipo di modello educativo propone agli alunni, sin dal primo giorno? Cultura, educazione, sensibilizzazione psicologica, modelli comportamentali, e tanto altro ancora. E poi, la famiglia, o almeno quello che resta. Cosa trasmette nei fatti e non nelle parole, la famiglia ai propri figli, maschi e anche femmine. E ancora, vogliamo parlare del trash (leggi mondezza) che ci propinano (più che propongono) gran parte delle reti televisive. Cosa veicola la televisione tutta o quasi (che da anni ormai “forma” le menti delle persone) con molti dei suoi programmi? I grandi fratelli, o quei poveracci ex famosi sperduti su isole deserte, o perculati da conduttori, a dir poco volgarmente squallidi, che pensano di essere molto simpatici, deridendo donne (ma anche uomini) e proponendo immagini femminili di corpi fantastici al limite del reale, con sessualità (o sarebbe meglio dire genitalita’) sbattuta in faccia al mondo dei telespettatori passivi, esempio di mera squalifica e oggettivazione mercantile. Che cultura (?) passa e viene trasmette da questa immondizia? Chi guarda, che idea si fa del rapporto uomo/donna? Il rispetto e la tolleranza, che fine hanno fatto? Attenzione, non sto dicendo che tutto ciò, neanche lontanamente, giustifica o spiega poi la violenza di genere. Sto solo ipotizzando che questo marciume, questa ignoranza, questa non curanza, questo sottobosco squallido e confondente, impedisce o mina profondamente la possibilità di sviluppare esseri umani con intelletto ed emozioni adeguate alla realtà, già di per sé assai difficile, del rapporto tra i sessi o i generi che dir si voglia. Senza scuola che insegna (mette dentro) e educa (tira fuori) il meglio dai e dei ragazzi; senza una famiglia minimamente attenta a certe dinamiche relazionali di rispetto e resilienza; senza modelli culturali validi proposti dalla TV e/o da quegli altri mostri a cento teste dei cd ‘social’, che cosa può venirne fuori? Esce fuori la violenza. Violenza è ...vis aulentis...forza eccessiva, fuori controllo. Che distrugge. Tutto e tutti. E senza aver fatto nulla sin dall’inizio, si arriva alla fine all’ergastolo! Benissimo. Abbiamo risolto. Tra l’altro con la crisi profondissima delle carceri italiane, a tutti i livelli, di risorse umane e non solo, mi chiedo e chiedo, come organizzare un percorso istituzionale per i rei, dove, con quali risorse, indirizzati a quali aspetti riabilitativi, etc. etc. Qualcuno potrà dire, che l’importante è punire. Certo. La pena ha la sua logica. Propone, almeno sulla carta, una contropartita alla ferita e al dolore della vittima e dei suoi familiari. Spesso si sente dire ...non voglio vendetta, ma giustizia...Certo. Ma, oltre a puntare il dito sul soggetto, questo risolve oggettivamente la questione? Con 100 ergastoli in più all’anno, diminuiranno le violenze? Le morti? Il deterrente punitivo estremo (se togliamo la pena di morte!) sarà sufficiente? È la risposta corretta? La migliore? Ma noi vogliamo risolvere seriamente alla radice la questione del rispetto nei rapporti di genere, o vogliamo solo metterci “a posto” con la coscienza e nascondere la polvere sotto il tappeto? Come sempre accade, proporre soluzioni drastiche a fine percorso, ci fa sentire in apparenza più tranquilli, ma non sembra che questa modalità di agire abbia mai avuto un suo effetto deterrente, sulla prevenzione di certi comportamenti. (vedi il fumo, le armi e molto altro ancora). Proviamo a ragionarci tutti insieme, ognuno nel suo piccolo (come si suol dire), e lavoriamo prima e da subito sulle menti degli esseri umani oltre che sui corpi da restringere dietro le sbarre per il resto dei giorni. Vogliamo solo buttare le chiavi? È questa l’unica soluzione? *Psichiatra “Liberazione anticipata: il Decreto Carcere annulla qualsiasi stimolo alla rieducazione” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 marzo 2025 Il giudice rinvia alla Consulta i nuovi limiti agli sconti di pena: “Così svanisce ogni incentivo psicologico”. Un magistrato dell’Ufficio di Sorveglianza presso il Tribunale di Napoli solleva questione di legittimità per un detenuto con fine pena nel 2040. Il decreto “Carcere sicuro”, approvato lo scorso agosto su impulso del ministro Nordio, arriva all’attenzione della Corte costituzionale nella parte riguardante la liberazione anticipata. La questione di legittimità costituzionale della norma per violazione degli articoli 3 e 27 “nella parte in cui si subordina la richiesta del beneficio della liberazione anticipata alla possibilità di rientrare, nei limiti di pena per accedere a misure alternative (90 giorni anteriori) o di ottenere nello stesso termine la scarcerazione ovvero nella parte in cui si impone al detenuto, per la valutazione della richiesta, di indicare le ragioni specifiche per le quali si richieda il beneficio stesso”. A richiedere il beneficio nel periodo compreso tra il 18/1/2024 e il 18/1/2025 è stato un detenuto con fine pena nel 2040 ma per l’attuale legge la sua richiesta sarebbe da considerare inammissibile. Secondo il magistrato di sorveglianza, invece, “il riservare a un giudizio lontano, finale e condizionato dall’andamento globale dell’esperienza carceraria, rischia di compromettere il comportamento del detenuto e la sua adesione alle proposte rieducative interne, vanificando, nel divenire quotidiano, la rieducazione, costituzionalmente imposta”. La norma censurata arriverebbe al contrario ad “annullare ogni incentivo psicologico” alla rieducazione “frustrandone lo scopo a causa dell’incertezza che il futuro potrebbe riservare agli sforzi adesivi degli interessati. In questa logica gli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione riceverebbero grave lesione”. Il giudice ricorda come già la Corte Costituzionale (sentenza n. 276/1990) “aveva evidenziato come la valutazione semestralizzata nella concessione della liberazione anticipata fosse da considerare ‘il punto di forza dello strumento rieducativo, che si collega agli insegnamenti della terapia criminologica … una sollecitazione che impegna le energie volitive del condannato alla prospettiva di un premio da cogliere in un breve lasso di tempo, purché in quel tempo egli riesca a dare adesione all’azione rieducativa’”. Al contrario la riforma approvata sette mesi fa “crea uno scarto tra condotta adesiva all’opera di rieducazione e beneficio da riconoscere con imputazione semestralizzata, incidendo sulla regola di progressione trattamentale. Così operando la riforma rischia di consolidare un ridimensionamento importante degli atteggiamenti adesivi dei detenuti”. Il pericolo è che i reclusi, vedendosi allontanare il premio trattamentale della riduzione di pena, si comportino in maniera opposta a quella di un percorso rieducativo “abdicando a spinte in senso contrario”. Il magistrato ribadisce che “la dimensione trattamentale progressiva della liberazione anticipata vive proprio di questo nucleo strutturale essenziale: vedersi riconoscere, per ogni semestre di pena, la riduzione della restrizione. Il tutto con una decisione immediata e sostanzialmente coeva o di poco successiva al completamento del semestre stesso. Essa funge da meccanismo incentivante per il detenuto e la partecipazione alla risocializzazione riesce ad avviare il ristretto ad una vera rieducazione e ad un progressivo reinserimento sociale. L’intervento riformatore attuato con l’art. 5 (Interventi sulla liberazione anticipata) del d.l. 4 luglio 2024, n. 92 (decreto “carcere sicuro”) conv. in l. 8 agosto 2024, n. 112, va in una direzione opposta”. Il giudice spiega anche l’importanza di un eventuale rifiuto della liberazione anticipata: “In una logica di progressione trattamentale, anche un decisum negativo può avere un significato pedagogico ed indurre a rielaborare, in chiave costruttiva, eventuali e possibili condotte, che siano state ritenute non conformi all’opera di rieducazione offerta al detenuto”. Conclude il magistrato di sorveglianza: “La norma, come riformulata, pertanto, priva in maniera irragionevole il detenuto della possibilità di chiedere il beneficio e di fruire di uno stimolo, durante l’espiazione della pena che è, specie in caso di lunghe detenzioni, con fine pena non prossimo, il vero motore esecutivo della rieducazione quotidiana di colui che subisce l’esecuzione della sanzione, caratterizzata, per definizione, da un’innegabile portata di afflizione”. Questa ordinanza mette dunque in discussione una parte importante del decreto voluto dal Guardasigilli: pensato per fronteggiare l’emergenza carceraria, in realtà non se ne conoscono ancora i frutti. Ieri il sedicesimo suicidio dall’inizio dell’anno: un giovane di 34 anni si è tolto la vita nel carcere napoletano di Poggioreale e il sovraffollamento non tende a diminuire. In questi mesi si erano evocati da parte di giuristi e delle minoranze parlamentari, proprio al fine di ridurre il problema dell’overcrowding e migliorare la vivibilità negli istituti di pena, provvedimenti normativi volti a incrementare il numero di giorni concedibili per ogni semestre di pena espiata, passandoli dagli attuali quarantacinque a sessanta, o addirittura a settantacinque. Stiamo parlando della proposta di legge del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, elaborata insieme a Nessuno Tocchi Caino. Proprio la prossima settimana, probabilmente giovedì, alla Camera si terrà una seduta straordinaria dell’Aula su richiesta delle opposizioni per discutere due mozioni sulle carceri, in cui tra l’altro si chiede di accelerare l’iter di approvazione della pdl Giachetti. La premessa, come spiegato in una conferenza stampa, è esattamente il fallimento del decreto carceri. Il ministro Nordio e la premier Meloni hanno però ripetuto più volte che non intendono mettere in atto misure deflattive orizzontali per puntare invece sull’edilizia carceraria, per la quale ancora non viene reso noto un progetto da parte del commissario. Liberazione anticipata anche per chi sconta la pena svolgendo lavori di pubblica utilità di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 14 marzo 2025 Lo ha stabilito la Cassazione, sentenza n. 10302 depositata ieri, affermando un principio di diritto. L’istituto della liberazione anticipata è applicabile anche alla pena sostitutiva dei lavori di pubblica utilità. Lo ha stabilito la Prima sezione penale, con la sentenza n. 10302 depositata oggi, affermando un principio di diritto e chiarendo che la competenza spetta al magistrato di sorveglianza. Il Gip di Torino, quale giudice dell’esecuzione, aveva concesso all’interessato quarantacinque giorni di liberazione anticipata, in relazione alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione, sostituita con la pena dei lavori di pubblica utilità (ragguagliati in 960 ore), ed ha pertanto rideterminato la pena in anni uno, mesi due e giorni quindici di reclusione, (ragguagliati in complessive 870 ore di lavori di pubblica utilità). Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino ha proposto ricorso sostenendo, per un verso, l’incompetenza funzionale del Giudice dell’esecuzione ad applicare l’istituto della liberazione anticipata; e per l’altro, che l’istituto era previsto solo in caso di pena detentiva, dunque l’equiparazione di quest’ultima col lavoro di pubblica utilità era erroneo. All’esito di una ricostruzione delle leggi e delle pronunce in materia, la Prima sezione penale afferma che “l’evoluzione normativa e sistematica consente di affermare che la natura detentiva della misura in espiazione non è più un discrimine per la concessione dei benefici, dal momento che, per poter beneficiare della libertà anticipata, non è richiesto che la detenzione sia in atto e comporti la carcerazione all’interno di istituto penitenziario, essendo piuttosto preteso il mancato esaurimento del rapporto di esecuzione penale in corso, sulla cui protrazione temporale l’istituto vada ad incidere in senso favorevole al condannato, anticipandone la cessazione”. In definitiva, si legge nella decisione, “la natura non detentiva della pena in esecuzione non costituisce più elemento dirimente”. In passato, invece, la previsione era stata “a lungo interpretata” nel senso che la misura premiale presupponeva che fosse in corso uno status detentionis, “senza del quale non sarebbero state possibili l’osservazione della personalità, un programma di trattamento, la partecipazione al programma, né il perseguimento dell’obiettivo di reinserimento nella società”. Proprio su questo punto, la Corte osserva come il lavoro di pubblica utilità sostitutiva sia imperniato su attività lavorative (non meno di sei ore e non più di quindici settimanali, aumentabili su richiesta) che hanno una spiccata attitudine rieducativa e risocializzante (articolo 56 bis, co. 1 e 2, legge 689 del 1981); comporta delle prescrizioni, comuni anche alla semilibertà ed alla detenzione domiciliare (articolo 56 ter, legge 689 del 1981), ed ha finalità di reinserimento sociale, dal momento che l’UEPE deve riferire al giudice non solo sull’effettivo svolgimento del lavoro da parte del condannato, ma anche “sulla condotta e sul percorso di reinserimento sociale” (articolo 63, comma 3, legge 689 del 1981). Del resto nella relazione illustrativa allegata alla riforma Cartabia, Dlgs 150 del 2022, (a pag. 195) si afferma: “Anche il LPU sostitutivo, come la semilibertà sostitutiva e la detenzione domiciliare sostitutiva, è concepito come pena-programma. Rispetto a quelle due diverse pene sostitutive presenta un minor grado di incidenza sulle libertà del condannato, essendo del tutto privo di una componente detentiva. In tale prospettiva, il ruolo del lavoro di pubblica utilità, nel sistema delle nuove pene sostitutive, è comparabile a quello ricoperto dell’affidamento in prova al servizio sociale tra le misure alternative alla detenzione, in rapporto alla semilibertà e alla detenzione domiciliare”. La Corte ha invece accolto il motivo relativo alla incompetenza del giudice dell’esecuzione. Il dato normativo, scrive la Cassazione, “è inequivoco”. Ai sensi dell’articolo 69-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 come sostituito, da ultimo, dal Dl 4 luglio 2024, n. 92 conv. in l. 8 agosto 2024, n. 112 (in epoca successiva, quindi, all’entrata in vigore del Dlgs 150 del 2022), la competenza funzionale a decidere in ordine alla concessione della liberazione anticipata spetta al magistrato di sorveglianza (articolo 69 bis cit, comma 4) che decide con ordinanza reclamabile al Tribunale di sorveglianza (articolo 69-bis cit., comma 5). Eventuali esigenze sistematiche che avrebbero consigliato una concentrazione della competenza in capo al Giudice dell’esecuzione, conclude la Corte, “non possono che recedere innanzi ad un dato testuale ed inequivoco, non superabile in via interpretativa”. Napoli. Detenuto suicida nel carcere di Poggioreale: si è impiccato con un lenzuolo Il Mattino, 14 marzo 2025 Si è tolto la vita, ieri sera, S.N., 34enne della provincia di Napoli, detenuto nel carcere di Poggioreale. Morto per impiccagione con un lenzuolo è stato trovato dagli agenti di polizia penitenziaria e dal personale sanitario che ha provato invano a rianimarlo. In Italia, ad oggi, si contano 16 suicidi nelle carceri. Sono 46 le morti avvenute negli Istituti penitenziari italiani, di queste 19 sono le morti da accertare, di cui 4 in Campania (2 nel carcere di Poggioreale, 1 nel carcere di Secondigliano e 1 nel carcere di Avellino); mentre 11 persone sono morte per cause naturali. A darne notizia, con una nota, è il garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello. Un altro suicidio è avvenuto, dice ancora Ciambriello “il giorno 7 gennaio nella REMS di San Nicola Baronia”. In Italia, ad oggi, si contano 16 suicidi nelle carceri. Sono 46 le morti avvenute negli Istituti penitenziari italiani, di cui 4 in Campania. “Sono già raddoppiati i numeri dei suicidi in carcere rispetto all’inizio dello scorso anno. Nel 2024 ci sono stati 89 suicidi e 18 casi di morte da accertare. Aumentano le condizioni di disagio e di sofferenza presenti in tutti gli Istituti di pena italiani. La risposta a questa emergenza non può essere burocratica. Non è accettabile il silenzio delle autorità competenti e del Governo italiano che non mette in campo azioni concrete rispetto al dato del sovraffollamento e dei suicidi in carcere, e non fornisce risposte efficaci e concrete, anche con figure sociali di sostegno, per le persone che entrano per la prima volta in carcere, i cosiddetti primari, come il giovane detenuto morto suicida ieri a Poggioreale”, dice Ciambriello. Firenze. Agonia Sollicciano. Morto un altro detenuto: “Una strage infinita” di Carlo Casini La Nazione, 14 marzo 2025 Possibile overdose in cella: in carcere ora entra anche la droga. Terza vittima dall’inizio del 2025, nel giorno del suo compleanno. Funaro, sindaca di Firenze: “Una struttura da buttare giù e ricostruire”. Un altro morto in carcere. Il terzo da inizio dell’anno. Il sesto in circa dodici mesi. È la strage dei detenuti nel penitenziario fiorentino di Sollicciano. Martedì pomeriggio, nel giorno del suo compleanno, T.F., 34 anni originario di Roma, è stato trovato nella sua cella privo si sensi. Poco distante, a terra, erano presenti delle siringhe. Overdose di eroina, stando a quanto ricostruito. Gli agenti della polizia penitenziaria hanno tentato da subito di rianimarlo. Il giovane, però, era in coma. È stato così trasportato in fin di vita all’ospedale di Torregalli. Per poi essere trasferito al reparto di terapia intensiva. Dove alle 5.30 di ieri mattina è deceduto. Arrestato nel 2021 a Roma per reati in materia di spaccio di stupefacenti, Fanfera stava scontando un cumulo di reati e il fine pena era previsto tra oltre cinque anni. Era stato da poco trasferito a Sollicciano dal carcere di Prato per motivi di sicurezza. E nella sezione dove è stato rinvenuto il suo corpo, ieri mattina è stata eseguita una maxi perquisizione nelle celle, alla ricerca di altre dosi di droga. Sul corpo è stata disposta autopsia dal pm della procura di Firenze, Lorenzo Boscagli. Da gennaio a oggi, dietro le mura del penitenziario si sono verificati altri due morti, entrambi suicidi: un 25enne egiziano che si è tolto la vita il 3 gennaio e un 39enne romeno, deceduto lo scorso 15 febbraio. Mentre nel 2024 sono stati 64 i tentativi di suicidio tra i reclusi. “Sollicciano è fuori controllo - tuona Emilio Santoro, dell’associazione L’Altrodritto -. Spesso dico che è la principiale piazza di spaccio di Firenze, e questa è l’ennesima prova”. A fargli eco associazioni e politica. “Ennesima morte” di una “strage infinita nel penitenziario fiorentino che non trova soluzione”, commenta il segretario generale regionale della Uilpa polizia penitenziaria, Eleuterio Grieco. Da mesi, afferma Greco, come Uilpa “denunciamo che il carcere di Sollicciano è fuori controllo ed abbiamo ribadito la necessita di avere una direzione stabile e un comando che riporti l’ordine e la sicurezza nei reparti di detenzione oltre a tutto quello che manca per la sua normale funzionalità”. Dopo la non conferma di Antonella Tuoni, la direzione del penitenziario resta vacante. O meglio, in balia di supplenti. La prossima, che prenderà a breve le consegne, è Mariateresa Gianpiccolo, già alla guida del carcere della “Ranza” di San Gimignano. “A me il carcere di Sollicciano preoccupa da tutti i punti di vista - commenta la sindaca Sara Funaro - mi preoccupa da un punto di vista strutturale: diventerò noiosa nel dirlo ma quello è un carcere che deve essere completamente riformato, buttato giù e ricostruito”. A Sollicciano è in atto “una strage, il ministro Nordio smetta di girarsi dall’altra parte: non è più possibile andare avanti così, venga di persona a vedere la situazione inumana in cui si trova il carcere fiorentino”, dichiara il deputato dem Federico Gianassi. “Si continua a morire a Sollicciano, ed è inaccettabile. L’ennesima tragedia che si consuma all’interno di un contesto su cui, come abbiamo, c’è bisogno di azioni urgenti”, così l’assessore al Welfare Nicola Paulesu. Firenze. Muore per overdose in una cella di Sollicciano. “Qui la droga arriva” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 14 marzo 2025 L’uomo era seguito dai servizi psichiatrici. “In carcere pochi controlli, la droga entra”. Un detenuto romano è morto il giorno del suo compleanno in una cella del carcere di Sollicciano. La causa del decesso sarebbe da ricondurre a un’overdose. Nella sua cella sono state trovate siringhe. È il quarto detenuto morto a Sollicciano dall’inizio dell’anno. Accusa un malore in cella, viene trasportato in ospedale e lì muore. È il quarto detenuto del carcere di Sollicciano morto dall’inizio dell’anno. Dopo i due suicidi e una morte probabilmente per droga, stavolta il decesso è stato causato da overdose. “Sono state trovate siringhe e materiale per uso di stupefacenti” ha detto Eleuterio Grieco, agente penitenziario della Uil Pa, che poi ha aggiunto: “Ci sono pochi controlli e nel carcere la droga entra”. Un fatto drammatico che racconta, non per la prima volta, come il penitenziario fiorentino abbia le maglie larghe sull’entrata di sostanze illegali. A perdere la vita è stato un recluso che era seguito dai servizi psichiatrici e che, proprio nel giorno del suo 34esimo compleanno, ha abusato di droga in serata. L’arrivo in ospedale poco prima di mezzanotte, poi il decesso prima dell’alba. Era romano, arrivato a febbraio da un altro istituto. È collettivo il grido di indignazione delle istituzioni locali e dei sindacati degli agenti, tutti fortemente critici nei confronti del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che ancora non è riuscito a nominare un direttore permanente nel carcere fiorentino. “Si continua a morire a Sollicciano ed è inaccettabile - ha detto l’assessore al welfare Nicola Paulesu - Le condizioni di Sollicciano sono insopportabili, per i detenuti, per i lavoratori della struttura, per gli operatori delle associazioni. La mancanza di una direzione stabile rende tutto ancora più difficile. Su Sollicciano interventi concreti da parte del Governo non sono più riParole dure anche dal responsabile carcere della diocesi don Vincenzo Russo: “La droga scorre copiosamente nella città, raggiungendo anche il carcere. Non c’è argine al fenomeno e, probabilmente, non c’è vero ed efficace interesse a contrastarlo. La morte per overdose a Sollicciano è il risultato di questa attenzione politica che manca”. Per contrastare l’ingresso di droga in carcere, i sindacati chiedono da tempo l’istituzione di un reparto cinofili. “È da circa un anno che queste unità sono in attesa di essere convocate per l’espletamento del corso di formazione” ha denunciato il segretario del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Francesco Oliviero. Sul tema anche il deputato Pd Federico Gianassi: “A Sollicciano è in atto una strage, il ministro Nordio smetta di girarsi dall’altra parte e venga di persona a vedere la situazione inumana in cui si trova il carcere”. Un invito al ministro anche dal garante dei detenuti (in scadenza) Eros Cruccolini: “Venga a Sollicciano per capire di persona la situazione”. Agrigento. Gravi condizioni nel carcere, il Codacons chiede intervento del ministro Nordio grandangoloagrigento.it, 14 marzo 2025 L’associazione sollecita inoltre l’intervento del Garante nazionale dei detenuti e delle autorità competenti “affinché venga garantito il rispetto della dignità dei reclusi. Il Codacons, si legge in una nota, “interviene con fermezza sulle gravi condizioni in cui versano i detenuti del carcere Di Lorenzo di Agrigento”. “Secondo quanto denunciato da 55 detenuti in una lettera indirizzata al Ministro della Giustizia Carlo Nordio, la situazione sarebbe caratterizzata da maltrattamenti, privazioni e condizioni igienico-sanitarie inaccettabili - sottolinea la nota -. Della vicenda ha dato notizia oggi il quotidiano La Repubblica. Si parla di celle prive di riscaldamento, acqua fredda nelle docce, infestazioni di topi e blatte, materassi usurati e scabbia diffusa tra i detenuti. Inoltre, il sovraffollamento supera di gran lunga i limiti consentiti, con spazi angusti e precarie condizioni igieniche. A peggiorare il quadro, sarebbe stato vietato l’ingresso di vestiti e generi di conforto portati dai familiari, lasciando i detenuti privi di capi adeguati per affrontare il freddo”. “Se quanto denunciato dai detenuti fosse confermato, ci troveremmo di fronte a una gravissima violazione dei diritti umani e delle norme sul trattamento dei detenuti. Chiediamo al Ministro Nordio di disporre un’immediata ispezione e adottare misure urgenti per ripristinare condizioni umane all’interno del carcere di Agrigento”, dichiara il Codacons. L’associazione sollecita inoltre l’intervento del Garante nazionale dei detenuti e delle autorità competenti “affinché venga garantito il rispetto della dignità dei reclusi, in conformità alle normative nazionali e internazionali”. Asti. “Carcere isolato dalla città, con attività interne ferme e spazi insufficienti” lanuovaprovincia.it, 14 marzo 2025 Resoconto di Camera Penale, Nessuno Tocchi Caino e Garante regionale per i Detenuti dopo una visita alla struttura di Quarto. “Una cattedrale nel deserto”: dove la cattedrale è il carcere di Quarto e il deserto è quello dei collegamenti con la città. Definizione di Elisabetta Zamparutti tesoriera dell’associazione Nessuno Tocchi Caino dopo la visita al carcere astigiano insieme al presidente della Camera Penale Davide Gatti, ad altri volontari dell’associazione e al Garante regionale per i detenuti Bruno Mellano. Su una capienza autorizzata di 207, sono stati contati 248 detenuti con una percentuale di sovraffollamento appena appena sotto la media nazionale. Gli agenti penitenziari sono 109 contro i 167 previsti e a questi ne vanno sottratti ancora 24 che fanno servizi esterni non legati alla vigilanza interna. Bassissima la percentuale di detenuti lavoratori (solo il 15%) e questo è un dato molto negativo per una casa di reclusione che ospita 225 detenuti con pene definitive da scontare lunghe o molto lunghe (40 di essi sono ergastolani). Esigenze di adeguati spazi studio per i 10 iscritti all’Università di Torino. “Un carcere insostenibile, materialmente e umanamente” visto che è stata sottolineata anche la ristretta superficie delle celle spesso condivise in due e alcuni spazi comuni (come l’area giochi per i colloqui con i figli piccoli) perfettamente attrezzati ma non usati per mancanza di personale di sorveglianza. Aspetto sul quale ha insistito Mellano ricordando il mancato utilizzo anche della sala hobby e lo smontaggio in atto di un macchinario che era stato comprato per l’attività agricola interna di lavorazione della verdura e mai usato. Gatti ha ricordato la sentenza storica, partita proprio dal ricorso di un detenuto astigiano, al diritto all’affettività che impone a tutte le strutture di attrezzarsi con stanze che consentano l’intimità fra partner. Roberto Capra, presidente della Camera Penale di Torino pone un accento particolare sul problema del sovraffollamento. “Perché da lì, a cascata, nascono tutti gli altri problemi. Se tu hai personale assegnato ad un determinato numero di detenuti, se ne hai di più è ovvio che non potrai seguirli come prevede la Costituzione. Se poi il personale è ancora meno del previsto, tutto va in affanno”. Con un appello ai giudici di sorveglianza affinché vadano in carcere, non si limitino ad esercitare il loro compito da remoto perché solo così si possono rendere realmente conto della vita in reclusione e possono al contempo migliorare la condotta e la qualità del detenuto che sentono il magistrato attento alla sua situazione. Intanto scade il 21 marzo il termine ultimo per presentare al Comune di Asti la candidatura a nomina di Garante comunale per i detenuti dopo le dimissioni presentate qualche settimana fa da Paola Ferlauto per ragioni personali. Padova. “Portiamo gli studenti nelle carceri minorili. Così si educa alla legalità” di Claudio Malfitano Il Mattino di Padova, 13 marzo 2025 “Portare gli studenti delle scuole superiori nelle carceri minorili. Va fatto capire che la conseguenza dei reati è un istituto, che c’è una punizione”. Il sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari dosa bastone e carota: leggi più severe ma anche interventi educativi per fermare la violenza giovanile, esplosa negli ultimi mesi in tutto il Nord Est. Sottosegretario, i questori non definiscono il fenomeno come baby gang strutturate, ma restano comunque ragazzi giovanissimi che sono pronti a usare coltelli e spray al peperoncino per rubare pochi euro o un cellulare. Come si interviene in questi casi? “Baby gang strutturate esistono soprattutto al Sud e nelle metropoli. In Veneto non agiscono grandi gruppi, ma manipoli di ragazzi, talvolta in coppia. Ad accomunarli, tuttavia, c’è un fattore: la totale assenza di senso della realtà e del pericolo. È terrificante quanto tutti ignorino il principio per cui ad ogni azione corrisponde una conseguenza. Per contenerli ci sono le leggi, che consentono di reprimere, quando serve, tanto quanto di provare a prevenire alcuni reati” . Il carcere per questi ragazzi non rischia di essere un ambiente in cui anziché una rieducazione si ottiene l’effetto inverso? “Nessuno ha la bacchetta magica e certi ragazzi arrivano negli istituti con situazioni apparentemente già compromesse. Ma in due anni abbiamo potenziato, più di ogni altro governo, il contingente di educatori e psicologi e inaugurato nuove comunità come alternativa al carcere. Le ultime tre in Lombardia. Con la Regione ne apriremo anche in Veneto. Detto ciò, chi uccide, tenta di uccidere o stupra non può essere lasciato libero, come se nulla fosse successo”. A più di un anno dal decreto Caivano, la situazione non sembra essere migliorata: in cosa sta funzionando e in cosa no? “La violenza giovanile non si ferma solo con le leggi, ma con l’educazione. Ecco perché nel decreto abbiamo inserito vari strumenti preventivi. Faccio un esempio: ora chi non manda i figli a scuola rischia fino a due anni di carcere. E gli effetti si vedono. In certi territori l’evasione scolastica è quasi sparita. Ma c’è un altro aspetto che non va dimenticato”. Quale? “Ad aumentare sono i reati gravi, commessi da minori stranieri non accompagnati, arrivati in Italia illegalmente e senza famiglia. Si tratta di soggetti che è difficile individuare e che hanno reti di relazioni solo con ambienti di tipo criminale”. A volte però protagonisti di questi casi sono anche ragazzi di seconda generazione: c’è un problema di mancata integrazione delle famiglie d’origine? “Sicuramente. Su questo devono impegnarsi di più le amministrazioni locali. Una volta c’erano i patronati. Oggi ci sono campi da calcio abbandonati, associazioni sportive senza fondi e centinaia di ragazzi per strada, con il cellulare in mano”. C’è un ruolo che può avere anche la scuola per evitare queste situazioni? “La scuola è, dopo la famiglia, fondamentale nell’educazione dei giovani. Il ministro Valditara sta lavorando bene e anche io lancio un’iniziativa: portare gli studenti medi a visitare le carceri minorili. Voglio che i ragazzi vedano cosa succede quando si commettono dei reati gravi e che scoprano come è fatto un istituto minorile”. Al di là delle politiche repressive, c’è chi sostiene che ai ragazzi sia necessario offrire maggiori spazi e occasioni di socializzazione. Ma le amministrazioni lamentano tagli ai fondi per il sociale: il governo non sta tagliando strumenti che possono essere fondamentali per arginare il fenomeno? “Non ci sono tagli, c’è una rimodulazione del fondo di solidarietà comunale, in parte vincolato ad obiettivi specifici, per esempio su asili nido e trasporto di soggetti diversamente abili. Segnalo peraltro che, grazie a un emendamento alla finanziaria a firma del nostro segretario regionale Alberto Stefani, è stato istituto un fondo speciale. Servirà a rimborsare alcuni comuni che, fino ad oggi, devono sobbarcarsi le spese di mantenimento dei minori affidati a comunità”. Padova. “Le carceri non sono degli zoo. Ostellari pensi al sovraffollamento” di Claudio Malfitano Il Mattino di Padova, 14 marzo 2025 “Il primo a dover visitare più spesso le carceri minorili dovrebbe essere proprio il sottosegretario Ostellari. Si renderebbe conto che si tratta di luoghi che dovrebbero educare i ragazzi e invece sono sovraffollati e inadeguati per un Paese civile. E soprattutto non sono degli zoo, in cui portare gli studenti in visita”. È netta la risposta del vicesindaco Andrea Micalizzi alla proposta lanciata ieri dal sottosegretario leghista di portare le scolaresche delle superiori all’interno degli istituti minorili per far capire le conseguenze dei reati. Una proposta arrivata a commento della notizia dell’arresto di due baby criminali che a 16 e 17 anni avevano già collezionato una ventina tra denunce e segnalazioni. “Io credo che visitare le carceri sua una pratica sana, a Padova lo sappiamo bene - prosegue l’esponente del Pd padovano - Grazie al terzo settore e alla direzione delle nostre due strutture penitenziarie sono centinaia le scolaresche che ogni anno varcano le soglie della casa di reclusione ai Due Palazzi. Però in questo caso lo scopo non è spaventare ma, al contrario, far capire che il carcere è parte integrante della società. Non un posto dove il criminale va e si butta via la chiave, ma un luogo di possibile rinascita e di discussione profonda. E questo fa capire quanto sia sviluppata la giustizia riparativa nel nostro territorio”. Lo scopo delle visite paventate dall’esponente leghista però è ben diverso: “Voglio che i ragazzi vedano cosa succede quando si commettono dei reati gravi e che scoprano come è fatto un istituto minorile”, ha spiegato Ostellari, che però ha anche rivendicato: “Certi ragazzi arrivano negli istituti con situazioni apparentemente già compromesse. Ma in due anni abbiamo potenziato, più di ogni altro governo, il contingente di educatori e psicologi e inaugurato nuove comunità come alternativa al carcere”. Un proposito che il vicesindaco boccia senza appello: “Se l’invito ad entrare in carcere pensato dal sottosegretario vuole “mettere paura” ai nostri ragazzi, credo che si tratti di un’idea distorta, che non rispetta la Costituzione, il ruolo delle carceri e soprattutto la dignità dei ragazzi - prosegue Micalizzi - Sia quelli reclusi che non sono animali in uno zoo, sia quelli che Ostellari ha in mente di educare. Se penso a mia figlia voglio che cresca con spirito di solidarietà, non con la paura né tanto meno con l’idea medioevale che la giustizia dello Stato serva per operare vendetta e non una rieducazione con l’obiettivo del reinserimento nella società”. Infine l’esponente dem va all’attacco proprio delle politiche del governo sugli istituti penitenziari: “L’altro giorno anche la commissione consiliare di Palazzo Moroni è entrata al circondariale - racconta Micalizzi - Per mostrare vicinanza innanzi tutto alla direzione e alla polizia penitenziaria. I consiglieri sono entrati nelle celle: sono ospitate 275 persone quando il limite massimo è 180. Una situazione vergognosa: perché Ostellari non se ne occupa?”. Roma. Seconda Chance: il lavoro (e una nuova vita) oltre le sbarre di Claudio Bellumori romatoday.it, 14 marzo 2025 L’associazione non profit del terzo settore fa da ponte con aziende e imprese, per agevolare il reinserimento del detenuto una volta fuori dal carcere. E per fornire, concretamente, un’occasione di rinascita. A quanti non è capitato di sentirsi dire che il treno giusto, prima o poi, sarebbe arrivato. Vero. Come è vero che non basta solo salire sul vagone. Perché una volta sopra sono necessari sia biglietto che bagagli. E una destinazione. Che, talvolta, è l’opportunità per lasciarsi alle spalle il passato. In maniera netta. Insomma, un nuovo inizio. Da affrontare a testa alta. Questa è la mission di Seconda Chance, associazione non profit del terzo settore che si è costituita nel 2022 e che è presieduta dalla giornalista del telegiornale de La7, Flavia Filippi (con lei da Roma collaborano anche Ida Petricci, Costanza Toti, Gabriella Lancianese, Caterina Piermarocchi). A oggi, ha una struttura nazionale con referenti e collaboratori in tutto lo Stivale. Tra gli obiettivi, fornire opportunità a detenuti ed ex detenuti. Ma, soprattutto, portare tutta una serie di attività - tra sport e formazione - per migliorare, fattivamente e non a parole, le condizioni della popolazione carceraria. A corollario ci sono le storie. Di chi ce l’ha fatta. Allontanando demoni e cattivi pensieri. Perché una volta riassaporata la redenzione, l’unica cosa da fare è stata quella di guardare oltre. E anche più in là. Il progetto di Seconda Chance Seconda Chance, come illustrato da “statuto”, in sostanza ha come primo passaggio quello di presentare agli imprenditori la possibilità di fare impresa (a condizioni agevolate) direttamente all’interno dei penitenziari, “dove si trovano capannoni o locali dismessi il cui uso è ceduto a titolo gratuito”. Inoltre, “diffonde la legge Smuraglia (193/2000) che offre sgravi fiscali e contributivi a chi assuma, anche part time o a tempo determinato, detenuti in articolo 21 o.p. (legge 354/75) cioè persone ammesse al lavoro esterno”. Per arrivare a ciò, ci sono colloqui effettuati dentro le mura carcerarie. A cui si affianca la presa di coscienza, da parte del detenuto, che è possibile vedere la luce in fondo al tunnel. Con un cambio di rotta drastico. E tanta, tanta volontà. Nel mezzo Seconda Chance, che fa da ponte tra aziende e imprese. Le offerte di lavoro a detenuti ed ex detenuti Numeri alla mano, sono state finora oltre 450 le offerte di lavoro per detenuti ed ex detenuti messe a referto da Seconda Chance: oltre la metà di queste sono maturate nella città eterna e nel Lazio. La sede legale dell’associazione è a Roma, “dove andiamo fortissimi” ha specificato Filippi. Si tratta di un impegno costante che “dà soddisfazioni, ma è molto faticoso”. Le mansioni proposte sono spaziate nei settori più vari: ristorazione, grande distribuzione, edilizia, carrozzeria, servizi. Tantissime, nel tempo, le occasioni create nella Capitale, sia nelle zone “in” della città che negli altri quartieri. Intorno tanti esempi di vita: tra chi ora lavora in un residence nel rione Monti (“assunto a tempo indeterminato”) a chi ha trovato un impiego in un supermercato: nel giro di un amen è passato da scaffalista alla cassa (“il titolare dell’attività mi ha chiamata, dicendomi ‘sto ragazzo è un fenomeno”). Bene, in tal senso, anche la collaborazione con Fabbrica di San Pietro, ente preposto per le opere di manutenzione relative, appunto, al gioiello della Città del Vaticano. “Mi sono ricostruito una vita” Seconda Chance, sul campo, ha permesso a esistenze “appassite” di rifiorire. Come è accaduto ad Alessandro, cresciuto all’ex Laurentino 38 dove attualmente risiede. Una compagna, quattro figli e una vita difficile. Da sempre. “La mia situazione familiare era disastrosa sin da quando ero bambino”. L’inizio come operaio edile, poi i reati (nell’ambito degli stupefacenti). Fino all’apertura delle porte del carcere: quello di Rebibbia. I colloqui, una prima occasione con una ditta edile. A seguire, l’incontro con Seconda Chance e ancora una nuova opportunità lavorativa. Che sta proseguendo: dalle 7 alle 16. In testa tante idee chiare. “Ricominciare verso il futuro. È stata una botta di vita. Con quattro figli da mantenere non potevo permettermi più errori. Oggi posso affermare di essere fiero di me stesso - ha confessato - ho una casa, una macchina, un qualcosa che piano piano ho costruito. Il diavolo tentatore una volta uscito? C’è stato. Ma non l’ho ascoltato. Il percorso è stato lungo, ho avuto modo di riflettere in carcere. Ora ho una mia stabilità”. Con una considerazione: “Raccontare un domani tutto ai miei figli? Certo. Il più grande ne è già a conoscenza. Ma non è un problema. Perché dovranno sapere quanto sono cambiato”. “La rinascita dopo aver toccato il fondo” “Sono rullato dopo aver toccato il fondo”. Alessandro è stato - ed è - di questo avviso. Adesso lavora come elettricista e il suo datore di lavoro è la Fabbrica di San Pietro. Cresciuto al Quadraro, adesso abita fuori città. Era incensurato quando gli è stata comminata la misura degli arresti domiciliari per spaccio e detenzione di sostanze stupefacenti. “Avevo tanti amici, ma quando ho avuto necessità di un impiego nessuno si è fatto avanti”. Finché non c’è stato il contatto con Seconda Chance: “Ho effettuato il colloquio. Poi la fine della detenzione e l’inizio della mia attività come elettricista a San Pietro. Quella mattina di aprile ancora me la ricordo: scattai un selfie. In precedenza - ha ammesso - avevo svolto la mansione di elettricista per una ditta di Pomezia, che è fallita. Dopodiché avevo aperto un locale notturno, a Nettuno. A seguire una serie di spiacevoli eventi, le difficoltà fino a una nuova opportunità”. Per Alessandro conoscere Seconda Chance “è stata una vera e propria botta di fortuna. Dove mi trovo adesso sto bene. E non ho mai percepito diffidenze sul mio conto. Inoltre, sono sereno. Ho una mia stabilità, grazie al lavoro e anche perché ho fatto un percorso introspettivo su me stesso”. “Sono contento di ciò che faccio e di quello che ho” In un noto Caffè dell’Eur corre tra i tavoli E. (ha voluto che il suo nome fosse siglato, ndr) che si sta ricostruendo una vita. Un contratto a tempo determinato, con la speranza che la stabilità lavorativa - a breve - non abbia più una scadenza. “Sembrerà un ragionamento banale, ma in questo tempo ho capito il valore dell’emancipazione e la sua bellezza. Seconda Chance mi ha dato una opportunità, grazie alla quale sto coltivando un mio spazio. La famiglia è sempre stata vicina, nonostante le difficoltà. In questo tempo, oltre al lavoro, sto ricostruendo la mia esistenza. All’inizio, in particolare, non è stato facile rapportarmi con gli altri. Perché venivo da un mondo diverso. E dovevo entrare in contatto con un nuovo. Adesso vivo bene. E questo perché ho avuto questa occasione. Diversamente, non starei raccontando tutto ciò”. Lazar e quella “giornata particolare” “Ho dovuto superare i pregiudizi. È stata dura, in tutti i sensi”. Lazar abita a Fonte Laurentina. Originario della Serbia, ha dovuto fare i conti con la giustizia sempre per reati legati alla droga. Il carcere, la detenzione domiciliare (in zona Ottavia) e l’incontro con Flavia Filippi. “Ho cominciato il mio viaggio nel mondo della ristorazione. Inizialmente come cameriere. Al momento sono responsabile di un locale dalle parti di piazza Navona”. Un bel passo. In linea con il volo pindarico effettuato da Lazar. “Il mio è stato un cambio netto, ho lavorato molto sulla mia persona. Non c’erano altre soluzioni. Solo così poteva concretizzarsi, effettivamente, un reinserimento. Il primo giorno di lavoro? È stata una giornata strana. Anzi, particolare”. E in quel momento, Lazar, ha compreso una cosa: “In un vortice di emozioni ho capito che stavo facendo le cose nel modo corretto. Adesso ho una vita sana e regolare. Grazie a una seconda opportunità”. Che, dopotutto, è quel proverbiale treno passato nel posto giusto. E al momento giusto. Lazar, come gli altri, si è seduto in carrozza, con al seguito le valigie e il tagliando di viaggio da mostrare al controllore. Diretto verso una meta che ha un sapore unico. Quello della libertà. Modena. Volontariato al posto del carcere, il terzo settore si apre al reinserimento sociale modenatoday.it, 14 marzo 2025 Firmato l’Accordo di progetto sull’esecuzione penale esterna, valorizzando il ruolo del volontariato e del terzo settore come strumenti di reintegrazione sociale. È stato siglato ieri mattina a Modena l’Accordo di progetto sull’esecuzione penale esterna, un’iniziativa biennale (2025-2026) volta a migliorare l’efficacia delle misure di esecuzione penale esterna attraverso la collaborazione tra istituzioni giudiziarie, enti del terzo settore e organizzazioni professionali. L’accordo è stato firmato da Tribunale di Modena, Centro Servizi Volontariato Terre Estensi, Ordine degli Avvocati di Modena, Fondazione di Modena, Camera Penale Carl’Alberto Perroux, Ufficio Locale di Esecuzione Penale Esterna di Modena (Ulepe). L’iniziativa mira a diffondere e arricchire le possibilità di accoglienza nel terzo settore di Modena e provincia a favore di persone che hanno disposizione di svolgere attività di volontariato e/o lavori pubblica utilità, in particolare attraverso l’Istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova. Il progetto ha durata biennale e prevede incontri di verifica semestrali per monitorare l’andamento del progetto. “Questo accordo consente di migliorare la risposta di giustizia attraverso l’ampliamento degli enti accoglienti di persone, indagati o imputati, che aderiranno al modello processuale della messa alla prova, e il coinvolgimento del Centro Servizi Volontariato consentirà di attuare per ognuno un progetto più individualizzato - afferma l’avv. Roberto Mariani, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Modena - La firma di questo accordo rappresenta un’importante apertura degli enti pubblici verso il mondo del volontariato per consentire lo sviluppo di questa attività, fattore di coesione sociale assolutamente essenziale per mantenere viva e attiva la nostra società”. La fase iniziale prevede la mappatura degli enti del terzo settore disponibili a collaborare, incontri di formazione e sensibilizzazione, la stipula di specifici accordi fra CSV e enti del terzo settore aderenti e l’avvio dei primi inserimenti con relativo monitoraggio. Una prima verifica è prevista dopo sei mesi dalla firma dell’accordo, mentre e fine 2025 si tireranno le somme, con la possibilità di confermare o rivedere il progetto per il secondo anno. “Questo accordo ribadisce l’importanza del reinserimento sociale - sottolinea il Presidente di Fondazione di Modena Matteo Tiezzi - come elemento essenziale dell’equilibrio collettivo. Consolidiamo un percorso di innovazione sociale che genera opportunità reali: per chi vi partecipa, significa la possibilità di ridefinire il proprio stare nella società; per il volontariato, è un’occasione di crescita e rafforzamento del ruolo, sempre più centrale, nelle dinamiche di coesione sociale”. Le risorse messe a disposizione per il 2025 da Ordine degli Avvocati (12mila euro) e Fondazione di Modena (8mila euro) saranno utilizzate per attività di coordinamento e formazione. L’obiettivo è facilitare 100 percorsi di inserimento l’anno. “Per il Centro Servizi Volontariato questo accordo è particolarmente importante perché in questo modo il terzo settore contribuisce a dare attuazione a quello che è un principio fondamentale della Costituzione per cui la sanzione ha, da una parte, un valore di riparazione nei confronti della società, e dell’altra ha anche un forte obiettivo di reinserimento e partecipazione al tessuto sociale delle persone coinvolte - afferma Alberto Caldana, presidente Csv Terre Estensi - Gli enti di terzo settore possono così mettersi a disposizione per consentire di realizzare quelle possibilità di messe alla prova e lavori socialmente utili importanti per le persone che li andranno a svolgere, che a loro volta diventano risorse di volontariato e di impegno a favore di tutta la comunità” Piacenza. Alle Novate “Interno Verde” entra nell’orto coltivato dai detenuti piacenzasera.it, 14 marzo 2025 L’orto più segreto di Piacenza, quello coltivato dai detenuti che abitano il carcere di via delle Novate, aprirà eccezionalmente le porte al pubblico di Interno Verde. Il festival dedicato ai giardini più suggestivi e curiosi della città - che quest’anno si terrà sabato 12 e domenica 13 aprile - inaugura la terza edizione con un evento decisamente inusuale, organizzato grazie alla collaborazione della Direzione della Casa Circondariale: una visita guidata che permetterà di scoprire la natura che cresce all’interno del muro di cinta dell’Istituto, curata e coltivata grazie a un progetto educativo di notevole impatto e significato. “Interno Verde già dalla prima edizione ha cercato di favorire, attraverso la meraviglia suscitata dal giardino, lo sviluppo di una socialità spontanea e vicina, in un’atmosfera inclusiva, di scambio e condivisione”, racconta Licia Vignotto, responsabile della manifestazione. “L’apertura straordinaria dell’orto di via delle Novate crediamo rappresenti non solo un’importante occasione formativa per le persone che avranno occasione di partecipare, tanto per i detenuti quanto per i visitatori accolti, ma anche un importante segnale per la comunità”. La coltivazione è stata avviata nel 2018, insieme agli operatori della cooperativa L’Orto Botanico, che hanno destinato un’area alle verdure più comuni, dalle zucche ai pomodori, e un’area alla serra delle fragole. Da questo spazio, tecnologicamente all’avanguardia, si ricavano ogni anno oltre 4mila chili di frutta. Nel febbraio 2024 inoltre è stata inaugurata un’ulteriore realtà: il laboratorio di trasformazione agroalimentare, per la preparazione di marmellate, confetture e salse. Il marchio Ex- Novo, che contraddistingue questi prodotti, è già noto ai cittadini. Le fragole si possono acquistare alla Coop, gli ortaggi e il miele si trovano al mercato contadino oppure nello spaccio in legno di fronte all’ingresso della casa circondariale. La visita guidata - disponibile solo su prenotazione, per un gruppo di massimo 20 persone - si terrà sabato 12 aprile alle 10. All’interno della struttura i responsabili del settore educativo, assieme ad alcuni detenuti impegnati volontariamente nella coltivazione di frutta e verdura, spiegheranno la nascita e lo sviluppo del progetto. Per partecipare è necessario essere maggiorenni, non avere familiari detenuti, non avere carichi penali pendenti. La prenotazione deve essere inviata tramite mail entro giovedì 27 marzo all’indirizzo info@internoverde.it, allegando la scansione del proprio documento di identità. Per maggiori informazioni: 3391524410. Interno Verde è patrocinato dalla Regione Emilia-Romagna, dal Comune di Piacenza, dall’Associazione Italiana Architettura del Paesaggio, dall’Associazione Nazionale Pubblici Giardini, dall’Associazione Parchi e Giardini d’Italia e da Visit Emilia. Viterbo. “Anime Disarmate”, i detenuti di Mammagialla protagonisti di un videoclip corrierediviterbo.it, 14 marzo 2025 “Anime Disarmate” nasce dall’incontro con i detenuti con i quali il regista Marco Amati ha trascorso alcuni mesi con la volontà di realizzare un film in cui una parte della narrazione si svolgeva appunto in un carcere. Negli incontri di preparazione ha spinto più volte i detenuti ad aprirsi utilizzando la scrittura come strumento di dialogo. Uno di questi scritti, a prima vista una poesia, si è rivelato essere, dando voce alla volontà dell’autore, un brano per un pezzo rap. Il brano - Le immagini realizzate durante i giorni di ripresa sono diventate un bellissimo e toccante racconto della quotidianità carceraria, attraverso i volti dei detenuti, i loro sguardi e le loro emozioni. Il brano della canzone, scritta da uno dei detenuti, si arricchisce delle note di Alessandro Giannone, giovanissimo musicista e cantante, che ha trasformato la scrittura in musica con il suo stile unico. Le immagini trasmettono l’emozione e la realtà cruda di un luogo spesso dimenticato, portando alla luce una parte della società fuori dalla vira reale e facendo da eco alla dolcezza del brano e alla vitale interpretazione vocale. Il videoclip è realizzato per la prima volta interamente all’interno di un carcere italiano, quello di Mammagialla di Viterbo, dove i protagonisti sono proprio i detenuti. Con loro l’attore Salvatore Ranucci, che interpreta il ruolo di un professore segnato nel volto e nell’anima. Il video musicale non è solo un’esperienza artistica, ma un potente messaggio di speranza per chi vive all’interno di quelle mura. Un’opportunità per i detenuti di raccontarsi, di far sentire la propria voce e di sperimentare il potere della musica e del cinema come strumento di riscatto e cambiamento. Per loro una parentesi di normalità, di accettazione del proprio valore umano, ore di protagonismo per sentirsi utili, ascoltati e valorizzati. Questo video musicale non solo rappresenta una creazione artistica, ma una vera e propria azione sociale, un invito a riflettere e a guardare oltre le apparenze. Il video sarà disponibile sul canale youtube “@StudioT01” a partire da oggi. Lanciano (Ch). “Sopra la barriera”, nel carcere “il calcio è libertà” abruzzoweb.it, 14 marzo 2025 Calcio e/è libertà, anche dietro le sbarre. È stata una giornata di sport e trasmissione di valori positivi quella vissuta all’interno della casa circondariale di Lanciano (Chieti) dove è stato proiettato, in anteprima, il cortometraggio prodotto da Bonfire per Lega Nazionale Dilettanti “Sopra la Barriera”. Un viaggio nei penitenziari di Padova e Lanciano dove sono nate due realtà sportive, la Polisportiva Pallalpiede di Calcio a 11 e la Libertas Stanazzo di Calcio a 5. Attraverso le testimonianze di diversi detenuti ma anche dei loro allenatori - a loro volta agenti di polizia penitenziaria - il corto racconta i progetti, il ruolo dello sport nei propri percorsi di vita e di rieducazione. “Si tratta di progetti che testimoniano come sia importante curare e promuovere l’aspetto sociale che fa parte dello sport e del calcio - spiega in una nota il presidente della LND Giancarlo Abete - Ma si può fare di più: in questi anni abbiamo aperto il mondo del calcio dilettantistico a tantissime esperienze che ci arricchiscono e completano”. “Mettiamoci in gioco” è il progetto nato nella stagione 2014/2015, il primo in Italia a coinvolgere i detenuti di un penitenziario - quello di Lanciano - nel campionato di Calcio a 5 di serie D con una loro squadra, la Libertas Stanazzo. Da allora, ogni sabato le porte del carcere di Lanciano si aprono per ospitare il match di campionato. Un percorso iniziato con l’attuale vicepresidente Figc Daniele Ortolano, allora presidente del Comitato Abruzzo, che ne racconta gli inizi. “Abbiamo parlato con le società, abbiamo chiesto loro di intraprendere questo percorso con noi. Per loro significava venire in carcere a giocare, ma nessuno si è mai tirato indietro. Oggi la nostra Federazione ha tanti progetti e sono felice che sia una vera e propria culla di diffusione di valori, di rispetto e di rispetto delle regole”. Dopo il dibattito, il taglio del nastro del nuovo campo in erba sintetica della casa circondariale, donato dalla LND e dal Comitato regionale Abruzzo a margine della manifestazione dello scorso anno “Quarto Tempo”. “Se pensiamo che questo campo, all’inizio, era fatto di terra e le linee andavano tracciate col gesso, ci rendiamo conto di quanta strada abbiamo fatto e di quanto importante sia diventato questo nostro progetto - commenta il presidente LND Abruzzo Concezio Memmo - Ricordo la prima partita giocata qui: tutti i ragazzi affacciati alle finestre per tifare i loro compagni scesi in campo. È una grande emozione contribuire alla socialità e al reinserimento attraverso il calcio di queste persone che, ogni sabato e durante gli allenamenti settimanali, vestono con orgoglio i colori della Libertas Stanazzo”. “Lo sport è libertà - aggiunge il vicepresidente LND Abruzzo e responsabile Calcio a 5 Salvatore Vittorio - Per questi ragazzi, ritrovarsi nella normalità di un campo da gioco, disputando una partita, è una grande conquista. Dobbiamo ringraziare tutte le società e tutte le componenti che hanno sposato questa causa e la portano avanti, insieme, da dieci anni. La Libertas Stanazzo ha vinto per quattro volte la Coppa Disciplina: un segnale forte di quanto il calcio sia rispetto delle regole e disciplina”. “Lo sport si dimostra giorno dopo giorno strumento per diffondere i valori del rispetto delle regole, quelle regole che i nostri ragazzi, in un momento della loro vita, non hanno seguito - conclude la direttrice del penitenziario lancianese Daniela Moi - Ringrazio quanti hanno creato le condizioni per fare arrivare dentro le mura di questa struttura un modello sano e positivo che serve a fare capire ai detenuti che questa è la strada da seguire”. Torino Il Rigoletto in carcere di Attilio Piovano La Voce e il Tempo, 14 marzo 2025 Grande emozione per l’allestimento del regio nel penitenziario delle vallette. “Un’esperienza unica e toccante”. È il commento che più ricorre tra coloro che hanno assistito, lunedì 10 marzo, alla rappresentazione del verdiano “Rigoletto” presso la Casa circondariale “Lorusso e Cutugno”. Per la prima volta, a Torino, un’opera lirica, a cura del Teatro Regio, viene allestita in un penitenziario: un’iniziativa di forte valenza sociale nel desiderio di abbattere sempre più le barriere tra “dentro e fuori” promuovendo il dialogo e ribadendo come il carcere, secondo il dettato costituzionale, debba essere innanzitutto luogo di educazione e riabilitazione e non solo di espiazione. Un progetto pilota in cui il teatro si fa ponte tra la comunità penitenziaria e la società civile. “Vedere i detenuti in piedi, compostissimi all’arrivo di giornalisti e invitati” dice il direttore artistico del Teatro Regio, Cristiano Sandri, il principale artefice dell’”opera dietro le sbarre” grazie alla piena condivisione da parte del Sovrintendente Jouvin “è stato motivo di forti emozioni e così pure il loro silenzio assoluto e la grande attenzione durante la rappresentazione”. Ancora, alcuni (i ristretti presenti hanno un’età tra i trenta e i quarant’anni) accennavano sommessamente a mezza voce a “La donna è mobile”, la pagina più nota del capolavoro di Verdi, e un paio di loro - prosegue Sandri - “hanno preso parte attiva all’esecuzione azionando la macchina del vento e del tuono”, per la scena madre (quella del temporale in cui il protagonista vede la figlia Gilda prossima a morirgli tra le braccia, ndr), affiancando l’esperto Giulio Laguzzi che dal pianoforte ha curato la direzione musicale dello spettacolo ‘sostituendo’ magistralmente l’intera orchestra. “Tutto nasce da un’idea di Vittorio Sabadin che ha curato una riduzione drammaturgica di ‘Rigoletto’ per le scuole” spiega il direttore artistico del Regio “proponendo di estendere il progetto, grazie a un ulteriore adattamento, all’ambito carcerario. Una proposta che “ho subito accolto con favore forte di precedenti, analoghe esperienze in tal senso a Parma, con il pieno appoggio della Sovrintendenza, delle maestranze, l’entusiasta disponibilità del direttore della Casa circondariale Elena Lombardi Vallauri e il sostegno della Fondazione Compagnia di San Paolo”. Progetto che si è realizzato con insolita rapidità, concretizzandosi nel giro di poche settimane, dopo un sopralluogo al laboratorio di falegnameria del penitenziario dove, a cura degli stessi ristretti sulla base del progetto di Susi Ricauda Aimonino, sono stati costruiti l’impianto scenico girevole, volto a “rendere “ i luoghi dell’azione, le scenografie essenziali, ma efficaci come pure i costumi approntati da Laura Viglione, realizzati praticabili, sgabelli, pedane e oggetti di scena in legno. Protagonisti i giovani artisti del Regio Ensemble, e dunque Janusz Nosek (Rigoletto), Albina Tonkikh (Gilda), Daniel Umbelino (Il duca di Mantova), Siphokazi Molteno (Maddalena), Tyler Zimmerman (Sparafucile e il Conte di Monterone). Ad affiancare i cantanti anche l’attrice Chiara Buratti a cui è stata affidata la narrazione dei testi di raccordo e tra il pubblico anche il sindaco di Torino Stefano Lo Russo. “I timori, soprattutto in considerazione dei tempi stretti, non erano pochi” conclude Sandri “ma alla fine hanno vinto la gioia e l’emozione, l’entusiasmo e le chiamate sul palco ci hanno ripagati dell’impegno profuso; uno straordinario risultato e un arricchimento personale per ciascuno di noi. Ci auguriamo possa essere l’inizio di un vero e proprio futuro percorso”. Libri. Oltre le sbarre, esistenze restituite alla loro dignità di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 marzo 2025 Alessandro Trocino, “Morire di pena”, edito da Laterza. Quasi ottant’anni dopo l’abolizione della pena di morte, in Italia si può ancora Morire di pena. Il giornalista Alessandro Trocino intitola così il suo saggio edito da Laterza (pp. 162, euro 14) con il quale riesce ad appassionare il lettore parlando addirittura di suicidio in carcere, senza alcuna traccia di quel voyeurismo che rende mediaticamente appetibile il tema e, come ricorda lo stesso autore citando Edoardo Albinati, di cui potrebbe essere sospettato “il borghese che si occupa di disgraziati”. “Un piccolo obelisco di carta” dedicato ai 1.840 detenuti che si sono tolti la vita in cella dal 1992 ad oggi (secondo i dati di Ristetti Orizzonti) e a tutti quelli che, privati della libertà personale, resistono, “in equilibrio tra memoria e oblio”, per usare l’immagine evocata nella prefazione a firma di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi. Trocino riesce effettivamente nel suo intento di raccontare le storie di undici detenuti e di un poliziotto penitenziario morti per suicidio negli ultimi anni con una scrittura che ha “la stessa forza lineare e geometrica” delle sbarre. E supera così la regola adottata dai giornali (norma che il manifesto non segue, come i nostri lettori sanno) che vieta di scrivere di suicidi “a meno che non siano di persone molto conosciute”. Eppure, concentrarsi sulle biografie - che non raccontano solo di esistenze ai margini e segnate, perché in carcere si finisce anche da innocenti - o tentare di ricostruire gli ultimi istanti antecedenti ad una scelta di per sé insondabile o, ancora, attribuirne le cause solo alle condizioni carcerarie è esercizio di stile che nulla aggiunge alla comprensione di un fenomeno obiettivamente fuori dal normale. Nel 2024, infatti, con 90 detenuti e sette agenti di polizia penitenziaria che hanno scelto di farla finita, il tasso dei suicidi in carcere è stato circa venti volte superiore a quello registrato dall’Istat nella popolazione libera residente in Italia. E non va meglio neppure quest’anno, quando già se ne contano 15. Ma spesso, troppo spesso, a far più paura è la libertà. In ogni caso, le storie di questi undici uomini e di una donna raccontate da Alessandro Trocino rivelano soprattutto il buio e l’incomunicabilità che segnano oggi l’universo carcerario, incapace di districarsi dall’ottusa burocrazia e di superare muri umani ben più alti di quelli di cinta. Ogni racconto sembra diviso in un prima e un dopo. E se i particolari di quelle vite, che riemergono attraverso il ricordo di amici e parenti, spalancano finestre su orizzonti - forse inaspettatamente - anche talvolta ricchi e interessanti, il mondo sembra invece rinchiudersi inesorabilmente in un antro oscuro quando il giornalista ricostruisce la reazione a quel suicidio dell’amministrazione penitenziaria e dello Stato, l’abbandono dei parenti e delle salme, l’incapacità di provare empatia o almeno pietà, perfino il “tradimento” delle divise. Il carcere, visto negli istanti del “dopo”, mostra davvero di essere un’isola, come ricorda anche Daria Bignardi nel suo libro (Ogni prigione è un’isola, Mondadori 2024), e di produrre isolamento in ciascuna delle persone che vi vivono dentro, da una parte e dall’altra delle sbarre. Cosicché le cimici e i topi che qualche volta infestano le cosiddette “stanze di pernottamento”, sempre più chiuse anche di giorno, i maltrattamenti, le malattie non curate, le dipendenze da farmaci e sostanze, o i segnali di malessere psichico senza soccorso raccontati dal cronista del Corriere della Sera sembrano soltanto l’indizio di un’infermità assai più grave, che si conferma nella vergogna di famiglie dimenticate dopo la morte del loro congiunto, senza neppure qualcuno che si prenda la briga di dare loro la triste notizia. È importante che Trocino ricostruisca nei particolari anche il caso di Salvatore Cuono Piscitelli, uno dei detenuti trasferiti dalla Casa circondariale di Modena a seguito della rivolta scoppiata l’8 marzo 2020 durante la quale venne presa d’assalto l’infermeria con la sua riserva di metadone e di sostanze psicoattive, per cercare risposte alle domande che ancora assillano chi gli ha voluto bene: come e quando esattamente è morto Sasà? Si poteva salvare? A volte c’è divergenza sulla conta dei suicidi in prigione: alcuni casi vengono rubricati dall’amministrazione penitenziaria come incidenti o computati tra le morti sospette con cause da accertare. Ma è particolare trascurabile. Quello che importa davvero è la disumanizzazione: “In cella ti cancellano l’identità. Per le donne vale ancora di più perché i penitenziari sono un’istituzione totale pensata dagli uomini e per gli uomini”, scrive Trocino riportando la storia di Donatela Hodo, “fragile come un cristallo di Boemia”, morta nel 2022. Dopo il suo suicidio, un magistrato di sorveglianza ha trovato il coraggio che manca a chi si è fatto abbrutire dal carcere: “Ho fallito - scrisse Vincenzo Semeraro - tutto il sistema ha fallito. Non so cosa, ma so che avrei potuto fare di più per lei”. Migranti. “Se vogliono tenerci reclusi portateci in carcere, almeno abbiamo una tutela” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 marzo 2025 Le drammatiche testimonianze delle violenze subite dai migranti nel Cpr di Trapani-Milo: violenze, soprusi e minacce mortali in un clima di terrore. “Sto male assai, sono stato picchiato con il ferro. Tanto dolore, non parlo bene”. Sono le parole spezzate di A., uno dei reclusi nel Centro di permanenza per i rimpatri di Trapani-Milo, dove si starebbero consumando episodi di violenza che mettono a rischio la vita delle persone detenute. A lanciare l’allarme è Mem.Med, progetto nato dalla collaborazione di associazioni come Borderline Sicilia Onlus, CarovaneMigranti, Clinica Legale per i Diritti Umani (Cledu) di Palermo, Campagna LasciateCIEntrare, Rete Antirazzista Catanese e Watch the Med-AlarmPhone. La denuncia, basata su testimonianze dirette, dipinge un quadro drammatico: il Cpr di Trapani è un luogo dove lo Stato abdica alla sua funzione di garante della sicurezza, lasciando i reclusi in balia di soprusi e minacce mortali. Al Cpr di Trapani Milo, quindi, si starebbero consumando episodi di violenza che hanno raggiunto livelli allarmanti: le persone recluse, già vittime di condizioni disumane, testimoniano ora un continuo pericolo di vita e la paura costante di non sopravvivere alla notte. A seguito di una rissa, sembra che nessun intervento tuteli la sicurezza degli ospiti: l’unica reazione è stata una chiamata alla polizia antisommossa, la quale, a detta dei denuncianti, non ha fornito alcuna protezione concreta. Le informazioni provenienti dall’interno del centro denunciano una situazione estrema, dove la sicurezza e il diritto alla vita sono costantemente violati. I migranti reclusi vivono in uno stato di sovraffollamento e abbandono, dove l’assenza di interventi tempestivi e risolutivi ha reso il Cpr di Trapani Milo un luogo di pericolo imminente, destinato a ripetuti episodi di violenza. “Le notizie che arrivano dall’interno denunciano che alcune persone non sono state messe in sicurezza nonostante le ferite”, sottolinea l’associazione Mem. Med. Le testimonianze raccolte dalle associazioni parlano di un clima di terrore. “Ho paura, mi vogliono ammazzare. Preferisco andare ingalera, almeno lì è sicuro. Qui è peggio”, racconta B., che descrive l’inerzia delle autorità: “Chiami, chiami, chiami e disturbi loro per venire. Ridevano di noi. Siamo in pericolo qui, ho paura che mi ammazzino”. Anche C., in lacrime, conferma: “Restare qui è un rischio, possono ammazzarci. Loro (i poliziotti, ndr) non vengono quando siamo in pericolo. Ma quando noi dobbiamo prendere qualcosa dal magazzino siamo accompagnati da 5, 6 poliziotti ciascuno. Finora nessuno è entrato, solo per sistemare la finestra. Non possiamo andare contro il governo, hanno troppo potere, ma non possiamo nascondere la verità che stiamo soffrendo. Sennò moriamo. Se loro vogliono lasciarci reclusi portateci in carcere, almeno abbiamo una tutela. Ci stanno cercando, noi stiamo aspettando la morte”. L’associazione riporta anche la testimonianza di B: “Il mio compagno di cella mi ha detto di stare tranquillo, mi proteggerà, ma è lo stesso, qui nessuno può proteggere nessuno. Qui lo Stato non ci può proteggere, solo noi stessi”. Una dichiarazione che esprime la totale disillusione nei confronti dello Stato e delle istituzioni, incapaci di offrire anche il minimo soccorso in situazioni di grave emergenza. Il centro di Trapani, che ha una storia complessa e mutata nel tempo, nasce inizialmente come Centro di Identificazione ed Espulsione (Cie) in base al bando del 2014, affidato alla cooperativa Badia Grande per tre anni. Dal dicembre 2015, la struttura è stata convertita in centro Hotspot, continuando a operare in tale veste fino al 2018. Durante questo periodo la capacità ricettiva è raddoppiata, passando da 200 a 400 posti letto, pur mantenendo gli standard del capitolato originario. Nel settembre 2018, il centro ha cambiato nuovamente destinazione d’uso, divenendo un Centro di permanenza per i rimpatri. Nonostante la capienza ufficiale sia fissata a 205 posti, le continue rivolte e i problemi gestionali hanno comportato diverse chiusure e una drastica riduzione della capacità effettiva: a fine 2022 il numero di posti era sceso a 51, per poi risalire a 156 a fine 2023. L’episodio più recente, avvenuto il 22 gennaio 2024, ha portato a una momentanea inagibilità della struttura, confermando la pericolosità dell’ambiente e la necessità di un intervento immediato. Asti, Hammad sequestrato e gettato dal balcone: “La mia vita da migrante, picchiato da tutti” di Massimiliano Peggio La Stampa, 14 marzo 2025 Trovato privo di conoscenza per strada ad Asti, si è ripreso e ha raccontato una storia di violenza e follia cominciata in Pakistan e conclusa in Italia. “Sono partito dal Pakistan a marzo 2024. In volo a Dubai e poi in Egitto. Alla fine sono arrivato in Libia. Sono rimasto lì sei mesi. Ho vissuto in una stanza senza finestre. Io e altri ragazzi africani eravamo prigionieri: le porte chiuse con i lucchetti. Poi, sono stato prelevato da due persone in divisa militare. Avevano il passamontagna, pistole e mitragliatori. Mi hanno fatto viaggiare in un furgone chiuso con altre 13 persone. Abbiamo raggiunto la costa. Lì ci hanno picchiati, prima di farci salire su un gommone. Dopo 44 ore in mare abbiamo incrociato una barca di pescatori italiani”. Hammad, 24 anni, inizia così, poco prima di Natale, il suo racconto di fronte al capo della Squadra Mobile di Asti, Marco Barbaro, mentre cerca di raccogliere gli indizi di una storia misteriosa che sembra la trama di un romanzo criminale. La mattina del 25 novembre scorso, Hammad viene trovato su una strada della città, incosciente, le ossa frantumate, lesioni compatibili con una caduta da 3 o 4 piani. Finisce in ospedale in coma, la colonna vertebrale spezzata, senza documenti. Uno sconosciuto. La casa da cui è caduto non si trova. Lo hanno spostato. Dopo settimane di ricovero si risveglia e ricorda frammenti. Quelli che racconta alla polizia tramite un interprete. “Dal centro di accoglienza di Lampedusa mi hanno trasferito in altri centri. A Sondrio contatto un amico che abita a Barcellona e decido di raggiungerlo. Il 23 novembre salgo su un Flixbus e arrivo al confine tra Italia e Francia. Lì la polizia francese mi arresta e mi rimanda in Italia. Chiamo il mio amico in Spagna che mi dà un numero telefonico di un connazionale che vive ad Asti. Mi dice che lui è un “vettore” che mi può portare a Barcellona”. Hammad conosce una ragazza pakistana, anche lei respinta al confine di Ventimiglia e intenzionata a raggiungere la Spagna. Con lei si mette in contatto con il “vettore” e raggiungono Asti in taxi. Arrivano alla stazione ferroviaria. Ad accoglierli ci sono due uomini. Uno si presenta come Gujjar. Barba, borsello alla moda, orologio d’oro. “Ci chiedono 300 euro a testa per il viaggio e ci danno da dormire”. La ragazza viene portata in un alloggio “da una famiglia”, lui in un altro. “Alle 4 ricevo un messaggio dalla ragazza. Mi scrive che è scappata, che non c’era nessuna famiglia e che hanno tentato di violentarla. Mi ha detto di scappare, che quella era brutta gente”. Hammad non riesce: è di nuovo in trappola, come in Libia. La porta è chiusa. I due uomini però si svegliano. “Dove vuoi andare? Ti ammazzo” dice Gujjar. I due vogliono 15 mila euro per liberarlo. “Fai una videochiamata ai tuoi in Pakistan e fatti dare i soldi”. Lui si rifiuta. Lo minacciano. “Ti ammazziamo, non è la prima volta che lo facciamo” gli dicono. “Mi hanno preso per i piedi, mi hanno messo a testa in giù sul balcone. Sono rimasto in quella posizione per tre minuti. Ho cercato di afferrare la ringhiera. Urlavo mentre dicevo che avrei fatto quello che volevano. Poi sono scivolato e non ricordo più nulla”. Chi lo trova in strada dà l’allarme. Ma non ci sono altri indizi. Mistero. Qualche settimana dopo, dall’Ungheria, chiedono alla polizia di arrestare un trafficante di uomini, un pakistano scovato ad Asti. I poliziotti vanno e capiscono che quest’uomo potrebbe essere legato al quel giallo senza spiegazione. Giusta intuizione. Le indagini prendono rapidamente il sopravvento. Muhammad Naveed, 30 anni, detto Gujjar, e il suo complice, Abdul Wahab finiscono in manette per tentato omicidio. Hammad rischia di rimanere paralizzato. Ma ha denunciato. “L’ho fatto per avere giustizia e per aiutare altri come me a non finire in quella trappola”. - Migranti. “Ci hanno spiati per la questione libica”. Casarini attacca ancora su Paragon di Mario Di Vito Il Manifesto, 14 marzo 2025 Il capomissione di Mediterranea alla Camera. Martedì nuovo report di Meta. Il Governo continua a non rispondere. Cinque procure hanno aperto un fascicolo. “Questa cosa a noi ce l’hanno fatta per la questione libica”. Il capomissione di Mediterranea Luca Casarini ne è convinto: “questa cosa”, cioè lo spyware Graphite dell’azienda israeliana Paragon Solutions, ha attaccato il suo e altri smartphone di attivisti della ong per un motivo ben preciso. “Ho paura che sia anche per la schedatura di possibili testimoni delle torture in Libia”, ha proseguito Casarini, che ieri era alla Camera per farsi ascoltare dalle commissioni Esteri e Difesa. Il riferimento è a David Yambio, il portavoce di Refugees in Lybia - pure lui spiato - che è tra i testimoni citati dalla Corte penale internazionale per descrivere le sevizie di Osama Elmasry, il capo della polizia giudiziaria di Tripoli arrestato a Torino lo scorso gennaio e scarcerato nel giro di due giorni. Una vicenda i cui contorni non sono stati ancora chiariti dal governo italiano, e soprattutto dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, che con la sua mancata interlocuzione con la Corte d’appello di Roma, titolare del caso, l’ha di fatto costretta a lasciar andare il boia libico. Il caso Paragon si intreccia dunque con quello di Elmasry, anche se resta in sospeso la domanda più pesante: chi ha ordinato di spiare Casarini, gli altri attivisti (tra cui il cappellano di bordo, don Mattia Ferraresi) e il direttore di Fanpage Francesco Cancellato? Sul mistero stanno indagando cinque procure (Roma, Bologna, Palermo, Napoli e Venezia), mentre i direttori di Aise e Aisi (i servizi) nelle scorse settimane hanno ammesso davanti al Copasir di fare uso di spyware, ma sempre in maniera legittima. “Non è escluso il ruolo di contractor”, sostiene ancora Casarini, alludendo alla possibilità che certi metodi li abbia usati qualche gruppo privato. Del resto, nelle carte dell’inchiesta Equalize (la banda degli spioni industriali milanesi) è venuto fuori che in effetti gli indagati usavano software non diversi da Graphite per fare i loro lavori. Resta sospeso anche l’ultimo punto di questa vicenda: la presunta (sin qui ne ha parlato solo il Giornale, senza essere smentito) inchiesta della procura distrettuale di Palermo sulla tratta di esseri umani in Libia. Qui tra gli indagati ci sarebbe anche Yambio. La tesi sarebbe che le ong hanno rapporti con i migranti che dall’altra parte del Mediterraneo cercano di raggiungere l’Europa e che organizzino questi traffici in maniera illegale. Si tratta di una tesi simile a quella dell’inchiesta (finita in nulla) su Iuventa, dove però i traffici illeciti avvenivano nelle acque davanti alle coste italiane. Era la nascita del teorema dei “taxi del mare”, che nonostante sia stato smentito dai fatti si è rivelato lo stesso un duro colpo a chi cerca di salvare le vite dei naufraghi. Su Paragon, comunque, ulteriori novità dovrebbero arrivare martedì, quando Meta rilascerà un nuovo rapporto. “Non lascerà dubbi, verranno pubblicate le tracce di questa azione”, anticipa Casarini. L’inchiesta. Le armi per la Ue sono affari per l’America di Luca Liverani Avvenire, 14 marzo 2025 Gli eserciti europei in media acquistano in America il 64% dei propri equipaggiamenti: la proporzione rischia di essere la stessa per gli 800 miliardi previsti dal piano Von der Leyen. A Strasburgo, nei luminosi corridoi del Parlamento europeo, c’è già chi propone sarcasticamente di cambiare nome al grande piano di riarmo dei 27: “Più che ReArm Europe - si dice - andrebbe chiamato Enrich America”. Cioè arricchiamo gli Stati Uniti. Vera o inventata che sia, la battuta fotografa bene quello che già emerge con la forza dei numeri: già nell’ultimo quinquennio il 64% delle armi comprate dagli eserciti europei erano fabbricate negli Usa. Una dipendenza da aziende americane destinata a crescere, visto che solo l’immenso comparto industriale bellico a stelle e strisce potrà soddisfare l’impennata di richieste dei paesi Ue. L’annuncio spiazzante di Donald Trump di “disimpegnarsi” dalla difesa del Vecchio Continente ha spinto la Commissione europea - come è noto - a decidere prestiti per 150 miliardi di euro ai paesi membri, per riempire arsenali, peraltro già ben forniti. Più altri 650 dai bilanci nazionali, esentati dai vincoli dal patto di stabilità. Totale, 800 miliardi. La stessa cifra dell’immensa spesa annuale di Washington, il 40% della spesa mondiale degli eserciti. Una corsa al riarmo “ognun per sé”, ben lontana dall’idea di Difesa comune europea che richiederebbe innanzitutto una Politica estera comune, poi una standardizzazione di prodotti, con conseguente riduzione dei costi. I cacciabombardieri, per esempio: la Francia ha i suoi Rafale e Mirage 2000, l’Italia Eurofighter e Tornado, molti paesi europei i costosi F-35 statunitensi. In parte fabbricati in Europa, come l’impianto per le ali a Cameri, Novara. Ma con le chiavi dei sofisticati software custoditi gelosamente dagli americani. Una pesante dipendenza tecnologica per molte aviazioni europee. Gran parte dell’enorme investimento di ReArm Ue andrebbe dunque a finanziare l’industria bellica statunitense. Dalla svolta politica della Casa Bianca gli Usa trarrebbero un doppio vantaggio: disimpegno militare da un’eventuale Difesa degli (ex?) alleati europei, e una pioggia di contratti militari. Il rapporto 2023-2024 dell’European Defence Agency già segnalava la tendenza in atto: “Come negli anni precedenti, oltre l’80% degli investimenti nel settore della difesa, circa 61 miliardi di euro, è stato destinato all’acquisto di attrezzature. Gli Stati membri hanno spesso fatto ricorso a prodotti COTS (Commercial Off-The-Shelf, cioè “pronti all’uso”) ordinati da produttori non europei per colmare rapidamente le lacune di capacità, indebolendo la base industriale e tecnologica di difesa europea”. Ma quant’è grande l’industria bellica americana? La “Top 100” delle industrie della difesa mondiali per il 2024, stilata dalla testata americana specializzata Defence News, mette ai primi dieci posti ben sei aziende statunitensi. Prima è la Lockheed Martin degli F-35, seconda un’industria aeronautica cinese, dal terzo al sesto altre quattro aziende americane (RTX, Northrop Grumman, General Dynamic, Boeing), settima la britannica BAE Systems, quindi due aziende cinesi, decima l’americana L3Harris Technology Group. Distaccati il Regno Unito con 6 industrie, Cina, Germania e Turchia con 5, Francia con 4. L’Italia ne ha due, di cui Leonardo ben piazzata al 14° posto, Fincantieri al 48°. Per Defence News nella Top 100 ben 48 sono aziende Usa. Dato sostanzialmente simile quello della classifica 2023 delle 100 “big companies in divisa” stilata dal Sipri, il prestigioso istituto indipendente di Stoccolma di ricerca sulla pace: 41 le americane che “hanno registrato ricavi per 317 miliardi di dollari, la metà del totale delle prime 100. Dal 2018 le prime cinque aziende tra le top 100 hanno sede negli Stati Uniti”. Per il Sipri gli Usa sono in testa nella classifica dell’export bellico: “Gli Stati Uniti con il 43% - dice Matthew George, direttore del programma Sipri per i trasferimenti di armi - ha una quota di esportazioni globali di armi più di quattro volte superiore a quella del secondo esportatore, la Francia”. L’istituto di ricerca sulla pace certifica la dipendenza europea dai fornitori statunitensi: “Le importazioni di armi da parte dei membri europei della Nato sono più che raddoppiate tra 2015-19 e il 2020-2024 (+105%). Gli Stati Uniti hanno fornito il 64% di queste armi, una quota sostanzialmente maggiore rispetto” al 52% del quinquennio precedente. Due terzi delle armi acquistate nel quinquennio 2020-24 dai paesi europei, insomma, sono di produzione americana. Con picchi ancora più alti - ancora fonte Sipri - per Paesi Bassi (97%), Italia (94%), Norvegia (91%), Danimarca (79%), Germania (70%), Romania (61%), Polonia (45%). L’Europa ha comprato anche da Francia e Corea del Sud (6,5% ciascuno), Germania (4,7%) e Israele (3,9%)”. Una dipendenza dagli americani che non potrà che crescere grazie a ReArm Eu. Secondo paese esportatore è la Francia, che tra 2020 e 2024 ha venduto a 65 stati. Quarto esportatore la Cina, col 5,9% dell’export globale. Una corsa vertiginosa (e in ordine sparso) al riarmo che dovrebbe servire come strumento di deterrenza verso il vicino ostile, la Russia. Servirà davvero? L’Europa è davvero così disarmata di fronte al minaccioso orso russo? I dati di Stoccolma da anni raccontano una realtà diversa. Degli oltre 2.400 miliardi di dollari di spesa mondiale per la difesa nel 2023, gli Usa ne spendevano 880, i 27 dell’Unione europea 287, cifra che arrivava ai 350 dei 32 paesi della Nato europea. Più dei 309 miliardi di dollari della Cina. Molto di più, quasi il triplo, dei 126 della Russia. “Si mangiano i nostri gatti!”. Così colpisce il vittimismo funzionale di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 14 marzo 2025 È un meccanismo di comunicazione antico, e si ripresenta aggiornato alle nuove tribù. Chiama alla rappresaglia serrando i ranghi: reagite, votatemi, io vi difenderò. Genera caos, non futuro e l’Europa è l’unico antidoto ai veleni di chi vorrebbe regnare con la paura. La strategia comune alle nuove destre radicali, compresa quella al comando degli Stati Uniti d’America dal 20 gennaio 2025, è la vittimizzazione. Dire, martellare, gridare al proprio elettorato: approfittano della nostra generosità! Si presentano in felpa allo Studio Ovale (Zelensky)! Non ci hanno mai detto grazie! Ci fanno pagare di più le merci! Si mangiano i nostri gatti (l’allora candidato Donald Trump sugli immigrati in Ohio)! Ne discendono sdegno, rabbia, infine indifferenza (sentita come assolutamente giustificata) per i mondi disallineati. Non avrà rivali il leader che alzi la voce oltre il borbottio e prometta una controinsorgenza schiaccia “colpevoli” - controinsorgenza politica ed economica, certo, ma puntellata di dazi anche emotivi. Stravincerà. L’intuizione e l’interpretazione in questi termini di quanto sta accadendo - da Washington verso Kiev, oltrepassando Bruxelles - sono state proposte da Paolo Giordano nella riflessione pubblicata sul Corriere di lunedì 3 marzo. Lo scrittore ed editorialista ha concentrato il suo sguardo su questo meccanismo implacabile, che funziona dall’alba dell’umanità e si ripresenta aggiornato alle nuove tribù. Reagite, votatemi, io vi difenderò dai non-amici e da eventuali rimorsi. Questa vittimizzazione funzionale, che chiama alla rappresaglia serrando i ranghi, è aliena al progressismo. “Per costituzione”, scrive Giordano, e la parola potrebbe funzionare con la “c” maiuscola: non era nel Dna d’origine, non c’è nella Legge. Per continuare il ragionamento, potremmo chiederci chi - al centro e a sinistra - non ha voluto votare Kamala Harris nonostante fosse prevedibile il sisma del Trump II. Interrogandoci, mettiamo tra parentesi i gravi limiti della campagna elettorale del Partito democratico, passato in modo maldestro dall’asfittico Joe Biden alla vicepresidente, in ombra fino alla sera prima. Consideriamo qui l’insuccesso di una candidatura che sarebbe comunque risultata debole davanti all’avanzare delle truppe MAGA e alla fiammeggiante promessa di “rifare grande l’America”. Kamala Harris non ha convinto chi vedeva in lei un riverbero delle proteste nei campus, della proliferazione dei pronomi e delle porte nei bagni, delle identità di genere o dei nemici giurati di Israele. Sull’argine opposto, non ha convinto chi la vedeva troppo poco sensibile alle proteste nei campus, troppo binaria e limitata nell’uso dei pronomi, troppo incerta nel riconoscimento di identità e orientamenti sessuali, troppo tiepida sulla causa palestinese. L’aspirante presidente democratica è rimasta in mezzo; una parte del suo elettorato potenziale è rimasta a casa. A rimuginare. Chi in nome di vecchi valori astratti socialdemocratici; chi in nome dei radicalismi contemporanei. Un caso da manuale che ha spianato la strada a Trump, Vance, Musk & Thiel e illuminato il precipizio su cui sono affacciate le democrazie che fanno leva sul compromesso: non importa se governate più a centrosinistra o più a centrodestra, in ogni caso minacciate dalle spallate di chi prospetta soluzioni istantanee. Come “la pace in 24ore” sul fronte orientale o ritorni “a casa”, al presunto Eldorado della tradizione, sul fronte interno. Il punto, come ha scritto Alessandra Stanley su Air Mail (la spettacolare newsletter settimanale lanciata nel 2019 da Graydon Carter, oltre 300 mila abbonati), è che alle articolazioni di Diversità, Equità, Inclusione (la “famigerata” D.E.I., in dismissione globale) si è sostituito il paradigma L.O.O., Lealtà-Obbedienza-Ossequio. L’obbedienza batte sicuramente in velocità la competenza, la lealtà bendata sicuramente lo scrutinio degli zero virgola nei test meritocratici. In un passaggio critico come questo, nazionale e internazionale, è tornato a risuonare il richiamo draghiano “whatever it takes”. A qualunque costo. Faremo “tutto quel che serve” per uscirne. Buttiamo ai rovi le stampelle dell’abitudine, disconosciamo la virtù dell’indugiare, resistiamo alla tentazione di pescare pure noi “identità” nel laghetto, ormai stagno, dei vittimismi paralleli destinati a non incontrarsi mai. Lasciamo questa tattica ai sovranisti. Genera caos, non futuro. L’Europa allargata e riunita - complessa, contraddittoria, in tensione e movimento costante - è, in sé, l’antidoto ai veleni di chi vorrebbe regnare con la paura: separando, spintonando, spaventando.