“Chi studia il diritto penitenziario non può fare a meno di Ristretti Orizzonti” Il Foglio, 9 maggio 2024 Un appello al Dap che arriva dai docenti universitari. Non convincono le motivazioni a favore delle “celle chiuse” quale modalità di custodia dei detenuti di alta sicurezza, da tempo coinvolti dalla testata in attività aventi come scopo la rieducazione. Ma le persone non sono “reati che camminano”: serve un modo più costituzionalmente orientato per garantire la sicurezza negli istituti penitenziari. Chi studia il diritto penitenziario non può fare a meno di Ristretti Orizzonti. E crediamo che le duemila visite giornaliere al suo sito internet siano testimonianza della rilevanza per una cerchia più ampia di persone, a tal punto che Ristretti, straordinario strumento di informazione e di apprendimento, appare un bene culturale immateriale da tutelare. Ad esempio, il Notiziario quotidiano dal carcere e? un appuntamento che ciascuno attende e dal quale trae beneficio per le attività che svolge. Il tutto senza considerare che Ristretti coinvolge da tempo un cospicuo numero di detenuti in attività aventi come scopo la rieducazione, costituzionalmente imposta. Siamo quindi preoccupati delle conseguenze che si potranno verificare sul lavoro di Ristretti Orizzonti a seguito della nota del 27 febbraio 2025 del direttore generale della Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dap, avente ad oggetto le modalità di custodia dei detenuti di alta sicurezza. Da un lato, l’art. 13 della Costituzione esige che i “modi” della detenzione siano “previsti dalla legge”. Siamo consapevoli che già si è fatto ricorso a note, linee guida, circolari e simili per intervenire sulle modalità della detenzione, non di meno è il momento di adottare una posizione più netta, anche perché la giurisprudenza costituzionale ha esteso all’esecuzione della pena una serie di principi fino a qualche anno addietro ritenuti validi solo per la fase della cognizione (su tutti, un corollario proprio della legalità, il divieto di retroattività di modifiche in peius: sentenza 32/2020, seguita da decisioni conformi). Esistono spazi di attuazione da riconoscere alla fonte regolamento, ma una questione cosi? importante, come quella delle modalità di custodia dei detenuti (nel nostro caso, di As), deve trovare nella fonte legislativa la sua prima e insostituibile disciplina. Dall’altro lato, nel merito, ci domandiamo quanto possa essere costituzionalmente legittima la scelta delle “celle chiuse” quale modalità di custodia dei detenuti di As. I riferimenti corrono a diverse disposizioni della Costituzione. Da quelle che assegnano alla Repubblica compiti inequivocabili - quali garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2) e rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3) - a quelle che disegnano il volto costituzionale del sistema penale, come la responsabilità penale personale, il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e il finalismo rieducativo (art. 27). Non convincono le motivazioni a favore delle “celle chiuse”, laddove si dice che solo in questo modo si rende possibile la individualizzazione del trattamento. Allo stesso modo, non pare opportuno fare discendere conseguenze così gravose sulla generalità dei detenuti in As. Laddove si sono verificate criticità è giusto intervenire, non lo è farlo in modo indistinto, a tutto detrimento proprio della individualizzazione. Chiediamo pertanto che il Dap intervenga in modo rapido e solerte per rimediare a questa scelta sbagliata e fuori dal perimetro costituzionale. Le persone non sono “reati che camminano”, il diverso trattamento e il differente regime di custodia devono sempre basarsi su valutazioni attuali e individualizzate. Siamo convinti che questo sia il modo più costituzionalmente orientato per garantire insieme l’ordine e la sicurezza entro gli istituti penitenziari e il pieno sviluppo della persona umana. Sottoscrivono: Davide Galliani, Università degli Studi di Milano (estensore); Roberto Bartoli, Università degli Studi di Firenze; Francesco Palazzo, Università degli Studi di Firenze; Roberto Cornelli, Università degli Studi di Milano; Renzo Orlandi, Università degli Studi di Bologna; Giovanni Fiandaca, Università degli Studi di Palermo; Emilio Dolcini, Università degli Studi di Milano; Marco Pelissero, Università degli Studi di Torino; Luciano Eusebi, Università Cattolica di Milano; Angela Della Bella, Università degli Studi di Milano; Stefano Simonetta, Università degli Studi di Milano; Emilio Santoro, Università degli Studi di Firenze; Stefano Canestrari, Università degli Studi di Bologna; Patrizio Gonnella, Università degli Studi Roma Tre; Giandomenico Dodaro, Università degli Studi di Milano-Bicocca; Lina Caraceni, Università degli Studi di Macerata; Franco Della Casa, Università degli Studi di Genova; Laura Cesaris, Università degli Studi di Pavia; Andrea Pugiotto, Università degli Studi di Ferrara; Carlo Fiorio, Università degli Studi di Perugia; Silvia Buzzelli, Università degli Studi di Milano-Bicocca; Pasquale Bronzo, Università La Sapienza di Roma; Marco Ruotolo, Università degli Studi di Roma Tre; Gian Luigi Gatta, Università degli Studi di Milano; Costantino Visconti, Università degli Studi di Palermo; Gian Paolo Demuro, Università degli Studi di Sassari; Claudia Pecorella, Università degli Studi di Milano-Bicocca; Mauro Palma, Università degli Studi di Roma Tre; Adolfo Ceretti, Università degli Studi di Milano-Bicocca Professori e giuristi con Ristretti Orizzonti: “Il ministro cambi idea” di Marta Randon Il Mattino di Padova, 9 maggio 2025 Trentaquattro professori universitari firmano un appello: “I detenuti di alta sicurezza devono tornare in redazione”. Il mondo accademico italiano si mobilita in difesa di Ristretti Orizzonti, il giornale del carcere Due Palazzi di Padova. Trentaquattro docenti universitari, la maggior parte giuristi, hanno firmato una lettera contro la recente decisione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), che dipende dal Ministero della Giustizia, di vietare ai detenuti del reparto di “alta sicurezza” qualsiasi tipo di partecipazione a progetti con reclusi comuni. Da giorni gli otto detenuti-redattori, parte integrante del gruppo da 12 anni, sono quindi fuori dalla redazione. Una circolare punitiva che li vuole in cella, sempre insieme, che li soffoca, molto criticata dagli esperti. I docenti si definiscono preoccupati: “Ci domandiamo - si legge nella missiva scritta da Davide Galliani dell’Università di Milano - quanto possa essere costituzionalmente legittima la scelta delle “celle chiuse” quale modalità di custodia dei detenuti di Alta sicurezza. I riferimenti corrono a diverse disposizioni della Costituzione”. I professori chiedono “che il Dap intervenga in modo rapido e solerte per rimediare a questa scelta sbagliata e fuori dal perimetro costituzionale. Le persone non sono “reati che camminano”, il diverso trattamento e il differente regime di custodia devono sempre basarsi su valutazioni attuali e individualizzate”. “Chi studia il diritto penitenziario non può fare a meno di Ristretti Orizzonti - continua la lettera aperta - È uno straordinario strumento di informazione e apprendimento, è un bene culturale immateriale da tutelare”. La mobilitazione dei professori, tra cui alcuni dei massimi esperti italiani in diritto penitenziario, lusinga la direttrice della rivista Ornella Favero: “Spero che il Dap ci riceva presto. L’inserimento in redazione dei detenuti di alta sicurezza era finalizzato al cambiamento. Sono persone recluse da tanti anni. Si sono sempre comportati bene, non hanno mai dato problemi”, spiega la giornalista. Ristretti Orizzonti è una rivista bimestrale di 48 pagine, con un sito internet da duemila visite giornaliere, che contiene il prezioso dossier “Morire in carcere”, il più rigoroso registro dei detenuti morti per suicidio o altre cause. Tra i 34 firmatari non compaiono professori dell’università di Padova: “La lettera non è stata condivisa, avremmo firmato volentieri”, dice senza polemiche Francesca Vianello, titolare della cattedra di Sociologia del diritto al Bo e delegata del progetto “Università in carcere”. “Si sono mossi velocemente giuristi di Milano e Roma. Non c’è stata la volontà di non coinvolgere i colleghi padovani”, spiega Ornella Favero. Questa mattina al Due Palazzi si terrà la cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico in carcere. Gli otto universitari detenuti di alta sicurezza, tra i 60 totali, secondo la circolare del Dap, non potrebbero unirsi ai colleghi, ma la direttrice Lusi ha chiesto un permesso speciale. “I ragazzi questa mattina ci saranno, l’autorizzazione è arrivata - spiega Vianello - Come delegata dell’ateneo dico che tutti gli universitari sono uguali, che il diritto allo studio è per tutti. Come docente di sociologia appoggio totalmente la lettera dei colleghi. La circolare del Dap vanifica il lavoro svolto, tornare indietro è deprimente”. Intanto anche un gruppo di docenti degli atenei veneti si sta muovendo. “Piano carceri”: un fallimento lungo dieci anni di Francesco Dente vita.it, 9 maggio 2025 Due lustri dopo la fine dell’esperienza del Commissario straordinario l’indagine della Corte dei Conti accende un faro sulle cause della lentezza nella realizzazione delle opere di ampliamento, di ammodernamento e di manutenzione straordinaria da parte dei ministeri della Giustizia e delle Infrastrutture e Trasporti. La Corte dei conti suona la sveglia sui ritardi nel settore dell’edilizia penitenziaria. Il sovraffollamento carcerario mette a rischio il principio della rieducazione del condannato perché non garantisce spazi e condizioni detentive in linea con le finalità del dettato costituzionale e con le prescrizioni delle convenzioni internazionali. L’occasione per lanciare l’allarme è fornita dall’indagine sullo stato di attuazione del “Piano carceri” a dieci anni dalla fine dell’esperienza del Commissario straordinario di governo per l’emergenza carceraria. La relazione, lunga ben 283 pagine, indaga sulle cause della lentezza nella realizzazione delle opere di ampliamento, di ammodernamento e di manutenzione straordinaria da parte dei ministeri della Giustizia e delle Infrastrutture e Trasporti. Interventi che non possono essere più rimandati perché l’inadeguatezza delle strutture ha assunto contorni al limite dell’emergenza, specie in Lombardia, Puglia, Campania, Lazio, Veneto e Sicilia. Basti considerare che a fine 2024 erano presenti negli istituti italiani 61.861 detenuti a fronte di una capienza massima di 51.312 posti. Storie di ordinaria burocrazia - L’indagine su un decennio di lavori nelle carceri è importante perché consente, al di là delle specifiche difficoltà legate al singolo intervento, di cogliere “profili generali di criticità che vale la pena evidenziare”, scrive la Corte dei conti. I giudici, pur sottoponendo a un attento esame tutte le procedure finanziate, provano infatti a chiarire cosa c’è dietro la “diffusa e generalizzata dilatazione dei tempi di realizzazione degli interventi” che, anche quando conclusi, hanno registrato una “sistematica inosservanza dei relativi cronoprogrammi procedurali e finanziari, anche con riferimento alla sola fase del collaudo tecnico-amministrativo”. Ritardi che hanno determinato un frequente “disallineamento” tra la velocità di attuazione delle opere e la velocità di mutamento delle esigenze detentive degli istituti interessati agli ammodernamenti. Un fenomeno “ampiamente diffuso in tutti gli interventi” ma che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Dap ha portato a conoscenza dei soggetti attuatori “a progettazione già in corso se non in fase conclusiva”. Storie di ordinaria burocrazia, insomma. La Corte dei conti, non a caso, si chiede (retoricamente?) se quanto accaduto non sia da imputarsi alla “mancanza del necessario coordinamento o quanto meno della tempestiva comunicazione”. Opere incompiute a causa dei fallimenti di impresa - C’è un secondo profilo generale che emerge accanto al mancato rispetto dei tempi. Le inadempienze contrattuali da parte delle imprese aggiudicatarie, “spesso per difficoltà economiche”, che si concludono con la risoluzione dei contratti. Casi ricorrenti che inducono i magistrati contabili a richiamare a una “maggiore attenzione nella definizione dei requisiti generali e speciali di partecipazione alle gare per tale specifico settore, ovvero l’introduzione di adeguate garanzie nella stipulazione dei contratti”. Anche perché, per la serie piove sul bagnato, i ritardi nell’esecuzione dei lavori programmati finiscono per trasferire il problema del sovraffollamento nelle strutture dove sono temporaneamente spostati i detenuti che scontano la pena nella struttura interessata dai lavori. I trasferimenti fra sedi finiscono col comprimere il principio di territorialità della pena e di “equa distribuzione della pressione detentiva negli istituti penitenziari del territorio”. Il punto, sottolinea l’indagine, è che dall’audizione dei rappresentanti del ministero della Giustizia è emersa la ricorrente carenza presso gli uffici territoriali “di un numero adeguato di dipendenti dotati di competenze tecniche” in grado di provvedere alle funzioni legate ai procedimenti di gara e di dialogare efficacemente con gli Uffici centrali in ordine a profili di natura prettamente tecnica relativi alle diverse fasi di realizzazione delle opere. Il pasticcio del riuso delle caserme - Dai colloqui con le amministrazioni del settore penitenziario è emersa anche l’opportunità di predisporre delle linee guida operative che definiscano le caratteristiche generali degli standard minimi che devono avere gli edifici da destinare a carceri. Un suggerimento che mira a “evitare diseconomiche ed infruttuose operazioni di rifunzionalizzazione a fini detentivi di immobili che presentano caratteristiche strutturali e vincoli storico-artistici difficilmente conciliabili con i requisiti di spazi individuali, igienico-sanitari e di luminosità da rispettare nell’allestimento degli spazi detentivi”. Il caso delle caserme dismesse - È il caso, par di capire, di alcune caserme che si intendeva riadattare. Nel caso della caserma “Nino Bixio” di Casale Monferrato in Piemonte, ad esempio, le carenze strutturali e logistiche hanno reso così difficile rifunzionalizzare la struttura che i vertici dell’Amministrazione penitenziaria nel 2021 hanno rinunciato al progetto e restituito il complesso immobiliare all’Agenzia del Demanio. La Corte dei conti, ultima tirata di orecchie, invita a non trascurare l’esigenza della diversificazione dei trattamenti penitenziari e a rispettare dunque in sede di programmazione degli interventi edilizi “il principio dell’individualizzazione della pena che richiede la distinta e corretta e collocazione delle diverse tipologie di detenuti all’interno di una stessa struttura”. Irene Testa: “Sul Piano carceri la Corte dei conti ha bacchettato il Governo” di Ilaria Dioguardi vita.it, 9 maggio 2025 In una relazione i giudici contabili rilevano la situazione critica degli istituti di pena, con una raccomandazione alla politica di evitare ulteriori ritardi e criticità operative. Irene Testa, Garante delle persone private della libertà personale della Sardegna: “Un richiamo, non solo per non aver costruito nuovi istituti, ma per non aver neanche messo mano a quelli che già ci sono”. L’analisi sullo stato di attuazione del “Piano carceri”, a 10 anni dalla conclusione della gestione commissariale, evidenzia situazioni critiche di sovraffollamento carcerario, soprattutto in sei regioni: Lombardia, Puglia, Campania, Lazio, Veneto e Sicilia. È quanto afferma la Corte dei Conti nella relazione Infrastrutture e digitalizzazione: Piano carceri. Nel documento, di 284 pagine, si legge che, accanto alla necessità legata alla creazione di nuovi posti detentivi, emergono la mancata realizzazione di numerosi interventi e l’urgenza di completare quelli di manutenzione straordinaria già avviati, per migliorare le condizioni ambientali, igienico-sanitarie e di trattamento. I giudici contabili raccomandano all’amministrazione di predisporre stime realistiche dei costi, accompagnate da una pianificazione efficace delle risorse e dalla definizione di linee guida per le strutture penitenziarie, coerenti con gli standard minimi europei e internazionali. Al nuovo Commissario straordinario la Corte dei Conti chiede di tenere conto delle criticità emerse dall’indagine e di assicurare un attento monitoraggio degli interventi nel rispetto dei cronoprogrammi procedurali e finanziari, per evitare ulteriori ritardi e criticità operative. “È un fatto importante che la Corte dei Conti bacchetta il Governo, il ministro della Giustizia, per essere in forte ritardo rispetto al “Piano carceri”, dice Irene Testa, garante delle persone private della libertà personale della Sardegna. Testa, perché è importante la relazione della Corte dei Conti? È significativo questo richiamo perché la Corte dei Conti bacchetta il Governo non solo per non aver costruito nuovi istituti, ma per non aver neanche messo mano a quelli che già ci sono. E sappiamo che l’unica misura finora proposta dal Governo, rispetto a questo, sono stati i container, che sono allo studio del Commissario straordinario, da cui dovrebbero riuscire a ricavare meno di 400 posti, con una spesa enorme: 83mila euro per posto letto. Non si sa come andranno gestiti, verranno messi in prossimità delle strutture presenti, quindi non negli istituti. Le persone dovranno essere accompagnate dentro gli edifici, con le difficoltà che potranno crearsi con la mancanza di personale che ha dei numeri incredibili. Come si farà, nella pratica, a gestire questi blocchi di container? Creeranno problemi agli agenti di polizia penitenziaria, ma anche agli educatori, alle figure che si dovranno spostare. Poi non si saprà se saranno caldi, freddi, in che misura sarà garantita la sicurezza. Abbiamo anche degli esempi di istituti costruiti con prefabbricati, poco dopo la messa in funzione ci pioveva e ci piove tuttora. Mi pare che sia già chiaro che i container non possono essere la soluzione. Cosa manca nelle carceri? Nelle carceri manca tutto, sono strapiene di persone. La Presidente del Consiglio ci ha detto chiaramente che è contraria a qualunque provvedimento deflattivo sul fronte delle carceri. Secondo lei la soluzione è ricavare (e stanno lavorando per questo) 7.500 posti. Innanzitutto di posti ne mancano 16mila. Poi 7.500 posti dove li ricaviamo? In molti istituti, pur di fare spazio alle brande, vengono tolti persino gli armadietti, non si consente ai detenuti neanche di avere un luogo fisico, uno spazio per mettere i propri oggetti personali. Mi pare che le politiche carcerarie, e chi le gestisce, preferiscano pagare risarcimento danni di sentenze e condanne che vengono costantemente messe contro lo Stato Italiano. Ci spieghi meglio... Sono circa 5mila le richieste di risarcimento danni accolte da parte dei detenuti che vivono in condizioni di trattamento disumane e degradanti. La Corte europea dei diritti dell’uomo - Cedu sanziona costantemente l’Italia per questo. Ora c’è la relazione della Corte dei Conti, bisognerà capire fino a quando la lo Stato italiano dovrà pagare per un sistema che dovrebbe riformare e rendere legale, invece mette all’interno di queste strutture persone che avrebbero bisogno di essere indirizzate verso la legalità. Ma questo non si può ottenere se le costringiamo a vivere in luoghi che sono essi stessi illegali. Diceva, poco fa, che manca lo spazio pure per gli armadietti. Risale a gennaio 2024 la sentenza della Cassazione che ha ribadito il diritto all’affettività in carcere, ma ancora non si svolgono colloqui in intimità. Per mancanza di spazi? Manca veramente tutto, gli spazi, il personale: gli agenti nelle sezioni sono costretti a fare dei turni incredibili. Quando visito le carceri, se gli istituti hanno diversi blocchi, dove un femminile è distaccato dal maschile, uno dei due è sacrificato. Per esempio, nei femminili che sono separati, è tutto più ridotto: non c’è un’altra infermeria, così come non la faranno nei container distaccati. Le persone devono attraversare i cortili per essere portate. Non ci si rende conto che in carcere è tutto molto lento. Non ci sono molti infermieri, scarseggiano i medici. Gli istituti, dal punto di vista sanitario, vivono una situazione spaventosa. Ogni due ore c’è una persona che tenta il suicidio, che ingoia le pile, che si taglia. È troppo facile trovare soluzioni, probabilmente suggerite da chi negli istituti ci va sporadicamente. Bisogna vivere tanti giorni e tante ore in carcere per capirne le dinamiche. Da 30 anni si parla di costruire nuove strutture, i tempi per farne di nuove sono molto lunghi, non prima di 10-12 anni si possono vederne realizzate ex novo. E nel frattempo? Se ci sono circa 62mila detenuti, quindi quasi 16mila in più rispetto alla capienza, tra un anno quanti ce ne saranno, 70mila? Ogni volta che si è arrivato a un affollamento fino ai 65mila detenuti, si sono presi dei provvedimenti. C’è stato l’indulto nel 2006, in una fase di grande sovraffollamento, c’è stata la liberazione anticipata, voluta dal ministro Alfano. Però ci sarebbero anche altri metodi, per esempio il fatto che in carcere ci sono circa 20mila persone che hanno una pena inferiore ai tre anni e che potrebbero essere divisi, tra domiciliari, misure alternative, comunità. Ci sarebbe molto bisogno di queste comunità, parliamo di una popolazione malata, spesso con gravi disagi dell’umore, che non dovrebbe neanche stare in carcere. Nordio aveva promesso la creazione di un albo con tutte le comunità, che ci vede tutti d’accordo, ma ancora di comunità non ce ne sono. In una sentenza, la Cedu chiede all’Italia che ad un ragazzo che ha fatto ricorso psichiatrico (quindi, che non può stare in carcere), non solo venga pagato il risarcimento, ma che venga dato un posto in una struttura. Questo ragazzo è ancora in carcere. Abbiamo poche comunità per doppia diagnosi, non ci sono i posti. Si tengono in carcere persone dove non dovrebbero stare, la legge impedisce che chi ha una malattia psichiatrica stia dentro un carcere. Ci sono continue violazioni dei diritti umani. È chiaro che, nelle condizioni delle nostre carceri, la pena non potrà mai essere riabilitativa, ma tanto meno rieducativa, non ci sono proprio le possibilità. Non ci sono possibilità per fare attività perché, come diceva, manca il personale? In istituti che superano i 500 detenuti non si riesce a realizzare il trattamento, di cui possono usufruire in ogni sezione una ventina, massimo una trentina di persone. Il carcere all’interno viene diviso in sezioni, si riescono a fare attività soprattutto in quelle a trattamento intensificato, dove sono i detenuti che stanno meglio a livello di salute mentale. Chi sta realmente male, i tossicodipendenti, i malati psichiatrici, gli antisociali, difficilmente vengono portati a fare le attività perché creerebbero problemi a un personale insufficiente e in sofferenza. Sono sacrificati tante ore dentro le celle, ci sono persone che non fanno proprio niente. Se un detenuto ha un disagio psichiatrico, ma anche psicologico, soffre di più stando compresso in pochi metri ad ascoltare le urla degli altri detenuti, i blindi che sbattono, la notizia del compagno che si è suicidato, di un altro che si taglia, di un altro ancora che ruba in cella perché non ha i soldi. Non si possono soltanto aumentare le pene e fare codici rossi se poi, ad esempio, non c’è nessun tipo di intervento in carcere per i sex offender e per questa tipologia di detenuti che andrebbero seguiti costantemente da équipe, da educatori, da psicologi, da psichiatri in maniera seria: quelle persone, prima o poi, finiranno la pena ed usciranno. Sono scarse le figure a disposizione, in alcune sezioni non c’è neanche lo psicologo. Spesso i fatti di cronaca ci dicono che il reato viene reiterato. Mi pare che abbiamo un sistema che è pronto a esplodere, dove le persone pur di evadere da questi luoghi si levano la vita. Nell’indagine della Corte dei Conti si legge che si registra “per le regioni Lombardia, Puglia, Campania, Lazio, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte, una grave situazione di eccedenza della popolazione detenuta rispetto alla disponibilità dei posti regolamentari”... Il sovraffollamento c’è in quasi tutte le regioni, alcune più alcune meno, con dei picchi ovviamente. Avvengono degli sfollamenti da carcere a carcere, appena ci si rende conto che in un istituto c’è meno gente di quella “tollerabile”, neanche regolamentare: non si capisce cosa si intenda per “tollerabile”, si sono inventati questo modo di dire. Ci sono istituti che hanno difficoltà anche a reperire materassi e coperte. In Sardegna la situazione com’è? Tragica come dappertutto. Non ci sono tassi di sovraffollamento come in altre regioni, però c’è tanta popolazione malata, molti tossicodipendenti, soprattutto a Uta (Cagliari) e a Bancali (Sassari). Si riscontra anche una sorta di isolamento doppio, essendo una regione circondata dal mare. Tutto arriva in ritardo anche sul fronte delle carceri, ad esempio sulla questione sanitaria, che è regionale e funziona a macchia di leopardo. In Sardegna abbiamo istituti di pena dove non ci sono neanche i dirigenti sanitari. È grave, non avere un dirigente sanitario significa non chiudere le cartelle, quindi non consentire a chi fa le sintesi di poter far uscire i detenuti per mandarli in misura alternativa o liberarli. Spesso i detenuti non riescono ad avere delle sintesi chiuse o non riescono a sottoporsi in tempi rapidi ad interventi chirurgici importanti perché manca un dirigente sanitario. Il personale che c’è non si prende la responsabilità di disporre i permessi per interventi, cure e quant’altro. Per capire lo stato di salute della popolazione carceraria sarebbe importante partire dai dati, che non si trovano. Ad esempio, il numero degli psicologi in carcere. Ogni regione si occupa degli istituti del proprio territorio, ma poi non vengono aggregati... Sì, anche a livello regionale è un problema. Per la relazione dell’attività annuale, ho chiesto a tutti gli istituti i dati, ad esempio mancano quelli di Cagliari perché il dirigente sanitario non c’è e l’area sanitaria non me li ha potuti dare. Ho dovuto scrivere al provveditore, alla regione e ancora non mi sono stati forniti. C’è un problema da rilevare: nelle carceri sono pochissime le diagnosi che vengono fatte. Sono dati che non vengono probabilmente forniti anche di proposito dalle Asl perché avrebbero la responsabilità di farsi carico all’esterno di tutto il disagio psichiatrico che non può stare in carcere. Non avere le diagnosi significa catalogare una persona come antisociale, categoria che può stare in carcere. Quando vado negli istituti chiedo: “Quante persone prendono farmaci tipo sedativi, gocce di varia natura?”. Spesso mi rispondono che sono l’80%, anche l’84% dei detenuti. Ma i dati dei pazienti psichiatrici sono pochi, capita che siano anche cinque. Mi dicono che quelli sono i puri, cioè gli psicotici. Non ci sono le divisioni per tipologie di disturbi (come bipolari, borderline, che sono tantissimi), la maggior parte sono considerati antisociali. In carcere è soprattutto nel campo sanitario che non funzionano le cose. Bisognerebbe accendere un faro sulla sanità in carcere, è una situazione in cui tutti noi siamo in grandi difficoltà perché è legata completamente alle regioni, alle Asl. Queste ultime sono completamente staccate dall’amministrazione penitenziaria interna e dalle direzioni. Ci ritroviamo ad avere due gestioni: quella dei direttori, amministrativa e della sicurezza, e quella della sanità che va per conto proprio. Le persone con diagnosi non compatibili con il carcere andrebbero portate nei servizi territoriali di salute mentale, oppure nelle strutture che fanno capo sempre alla sanità, alle Asl, ad esempio quelle a doppia diagnosi, che ci sono anche nel privato. Nel numero di marzo di Vita magazine “Provate a fare senza” abbiamo immaginato un viaggio distopico in un mondo senza Terzo settore. Come sarebbero le carceri italiane senza Terzo settore? Vanno ringraziati il Terzo settore, i volontari, i cappellani: se non fosse per loro tantissime persone detenute sarebbero in totale stato di abbandono. Ci sono istituti dove le uniche persone che arrivano dall’esterno sono i volontari, queste figure in qualche modo sopperiscono ad ogni mancanza. Spesso sono proprio loro che cercano i vestiti, le scarpe, gli oggetti personali di cui le persone hanno bisogno, soprattutto i tossicodipendenti mandati via da casa, gli stranieri (che sono tantissimi) non hanno niente. A me capita di frequente di andare in carcere e le richieste sono: “Mi può trovare un paio di scarpe? Mi può portare una tuta?”. Carceri al collasso, diritti al margine: l’Italia sotto osservazione del CPT di Peppe Brescia fuoriluogo.it, 9 maggio 2025 Nel suo 34° rapporto annuale, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura denuncia gravi criticità nei sistemi detentivi di diversi Paesi, con un focus sull’Italia tra sovraffollamento cronico, suicidi in aumento e abusi documentati nei Centri per il rimpatrio. Un allarme che chiama in causa la tenuta stessa dello Stato di diritto. Alla fine dello scorso aprile, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT), organo del Consiglio d’Europa, ha divulgato il prorio rapporto annuale, giunto alla 34esima edizione, che torna a sollevare gravi preoccupazioni circa la situazione detentiva in vari Paesi, tra cui quella italiana. Nel corso degli ultimi dodici mesi, il CPT ha intensificato la propria attività ispettiva visitando venti Paesi, affiancando alle ispezioni colloqui di alto livello con ministri e rappresentanti istituzionali. Le visite sono state 20 (otto periodiche e dodici ad hoc, Italia inclusa tra queste ultime), per un totale di 201 giorni di lavoro e 181 luoghi di detenzione ispezionati. Globalmente, sono stati esaminati 18 ospedali psichiatrici, 75 stazioni di polizia, 14 centri per la detenzione di persone immigrate, 58 carceri, 4 istituti di assistenza sociale e 12 altri luoghi di detenzione. In cinque Stati (Albania, Italia, Montenegro, Regno Unito e Macedonia del Nord) gli incontri hanno coinvolto esponenti di vertice dell’esecutivo - nel caso della Macedonia del Nord, anche il Primo Ministro. Due le tematiche evidenziate all’interno del report: il primo e più urgente problema riguarda il sovraffollamento, criticità che continua a caratterizzare le strutture detentive europee a livello crescente, con conseguente deterioramento delle condizioni della vita e della sicurezza di detenuti e operatori carcerari. Tra i Paesi maggiormente esposti a tale contingenza, spiccano gli Stati dell’Europa occidentale, Italia in primis, dove il numero di detenuti ha raggiunto livelli insostenibili, mettendo a dura prova la capacità di accoglienza delle strutture penitenziarie. La seconda questione posta in evidenza ha a che fare con la persistenza, all’interno dei sistemi carcerari, delle cosiddette gerarchie informali. Si tratta di un fenomeno registrato con particolare intensità negli ex Stati sovietici, dove il CPT ha attestato la regolare esistenza di gruppi di potere all’interno delle carceri, spesso legittimati dal tacito consenso delle autorità, generando episodi di abuso e violazione dei diritti fondamentali dei detenuti. In generale, l’inchiesta del Cpt mette in luce una realtà contraddistinta dalla lentezza dei processi di riforma, i quali non riescono a fungere da garanzia delle condizioni minime di vivibilità all’interno delle strutture carcerarie, ponendo in dubbio il corretto funzionamento del sistema penale europeo. In base a ciò, il Consiglio d’Europa sta valutando la creazione di un progetto multilaterale per promuovere soluzioni condivise e replicabili con il sostegno tecnico dello stesso CPT, che ha ribadito la propria disponibilità a supportare gli Stati nel garantire condizioni detentive decorose. Il caso Italia - In tale quadro complessivo, l’Italia mostra una delle situazioni in assoluto più critiche, comparendo nel novero di paesi definiti osservati speciali insieme a Bulgaria, Romania e Turchia, e non solo in merito alla condizione degradante del sistema penitenziario nazionale: a essere poste sotto esame sono state infatti anche le condizioni di vita all’interno dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), strutture detentive destinate ai cittadini stranieri in attesa di espulsione, oggetto di un focus analitico specifico da parte dell’organismo. L’ispezione condotta nel nostro paese ha riguardato in particolare quattro Cpr, mettendo in luce una situazione critica sotto diversi profili, dal trattamento dei detenuti alle soluzioni logistiche, dall’assistenza sanitaria alle garanzie legali. Il sistema carcerario italiano, secondo il CPT, soffre una crisi strutturale aggravata dal sovraffollamento cronico, con ricadute dirette sulla qualità della vita e su sicurezza e relazioni interne. L’aumento dei suicidi nel 2024, tra detenuti e operatori penitenziari, è infatti indicato come un estremo segnale d’allarme. Nell’ambito di un incontro alla presenza del ministro della Giustizia Carlo Nordio, tenutosi a Roma il 29 ottobre 2024, la delegazione del CPT ha presentato un pacchetto di raccomandazioni urgenti - a partire dall’introduzione di un ventaglio più ampio di attività strutturate all’interno dei centri, sottolineandone la supplementare necessità in base all’estensione del periodo massimo di detenzione amministrativa nei centri, portato dall’attuale esecutivo fino a un termine di 18 mesi. Per quanto riguarda l’aspetto sanitario, è stata richiesta una riforma della valutazione di idoneità alla detenzione, coinvolgendo medici esperti in contesti di sicurezza, nonché un miglioramento dello screening all’ingresso dei centri. Nel rapporto, il CPT denuncia diversi casi documentati di maltrattamenti fisici e uso sproporzionato della forza nei CPR, soprattutto durante alcune operazioni di contenimento successive a eventi critici come proteste o rivolte. A preoccupare è anche l’assenza di un sistema indipendente di monitoraggio e la carenza di documentazione clinica sulle lesioni riportate. Una delle criticità più gravi riguarda la somministrazione sistematica e non prescritta di farmaci psicotropi nel CPR di Potenza, unitamente all’uso esteso delle manette nel corso delle traduzioni dei detenuti. L’ambiente stesso dei CPR, con strutture che ricordano le carceri, in ragione della presenza di grate alle finestre e di spazi esterni simili a gabbie, è stato ritenuto inadeguato e contrario a uno standard detentivo dignitoso. A ciò si aggiungono carenze igienico-sanitarie, scarsa qualità del cibo e carenza di attività ricreative e culturali. Il risultato è rappresentato da condizioni di vita definite “impoverite”, con detenuti “immagazzinati” e senza prospettive né strumenti per affrontare la detenzione. Stando a quanto dichiarato dal CPT, le discrepanze tra i servizi previsti dai capitolati di gestione dei centri e quelli realmente forniti hanno portato all’apertura di indagini penali. Il rapporto pone infine dubbi sull’intenzione dell’Italia di replicare il modello dei CPR in contesti extraterritoriali, come previsto dal recente accordo con l’Albania. Secondo il CPT, le condizioni materiali, la gestione privatizzata e la mancanza di trasparenza osservate in Italia rendono problematico replicare questo sistema al di fuori dai confini nazionali. Nella sua risposta ufficiale, il governo italiano ha specificato che non sono state avviate indagini penali sui casi di presunti maltrattamenti e che i detenuti nei centri hanno ricevuto ispezioni sanitarie, giustificando alcuni elementi di tipo carcerario come risposta all’alto numero di atti vandalici. Una rosa bianca per dire no al Decreto Sicurezza di Franco Corleone L’Espresso, 9 maggio 2025 Contro la stretta repressiva del dissenso carcerario un simbolo nonviolento e un digiuno a staffetta. Sgomenta la grande spregiudicatezza nell’inventare norme. Un’inventiva che sconfina nell’illegalità”. Queste le parole di Grazia Zuffa, pronunciate durante la conferenza stampa al Senato il 23 gennaio per contestare il disegno di legge nella parte riguardante le donne arrestate incinte o con figli di meno di un anno, con le quali ho esordito nella audizione come rappresentante della Società della Ragione alla Camera dei deputati il 23 aprile scorso. Va sottolineato il paradosso incomprensibile per cui una proposta di legge alla vigilia di essere approvata dal Parlamento, viene ritirata e riproposta come decreto legge, senza i requisiti costituzionali di necessità e urgenza. Un segno ulteriore della crisi istituzionale e della protervia del governo. Senza pudore si peggiora il Codice Rocco e si arriva a prevedere norme di inciviltà, razziste e contro il principio di uguaglianza; addirittura 14 nuovi reati di controllo e repressione sociale e innumerevoli circostanze aggravanti. Tra le tante perle, colpiscono per la gratuita stravaganza, tre in particolare. La criminalizzazione delle forme di protesta pacifica dei detenuti (rifiuto di rientrare in cella, battitura delle sbarre o di pentole, sciopero del carrello del cibo o delle terapie, forse anche il digiuno se attuato in forma collettiva) per rivendicare i propri diritti comporterà denunce e una previsione di pena fino a otto anni di carcere. Si tratta di una vera e propria istigazione alla violenza. Il divieto di coltivazione e commercializzazione della canapa tessile, equiparata abusivamente a quella con capacità stupefacente, con lo scopo di mettere al bando l’erba come causa di depravazione morale. Infine la possibilità per i servizi segreti non solo di infiltrarsi in associazioni terroristiche, ma addirittura di promuoverle e dirigerle, come se non avessimo avuto esperienze tragiche nel nostro Paese con stragi devastanti. Il confronto interessante si è svolto con rappresentanti dell’opposizione, in assenza della maggioranza. Ma la cosa più imbarazzante era la presenza in spirito di Papa Francesco che il giovedì prima di Pasqua si era recato nell’inferno di Regina Coeli per offrire speranza ai disperati della terra. La sollecitazione di un gesto di clemenza è stata finora respinta con iattanza in nome della vile ragion di Stato e di fronte al sovraffollamento e ai suicidi si risponde con la minaccia di inserire negli spazi verdi delle carceri moduli prefabbricati in cemento armato, di puro contenimento di corpi ammassati. Un gruppo di detenuti di Rebibbia ha accolto la bara di Bergoglio all’ingresso di Santa Maria Maggiore con in mano una rosa bianca che è il simbolo della lotta nonviolenta al nazismo e ovviamente a tutte le forme di potere autoritario. A Udine alla vigilia di Natale si svolse una marcia dal Duomo al carcere di via Spalato e centinaia di persone portavano una rosa bianca: furono tutte consegnate ai detenuti. Il 29 aprile è iniziato un digiuno a staffetta come forma di resistenza civile contro la conversione in legge del decreto sicurezza, promosso da un cartello di associazioni che vogliono realizzare una catena di solidarietà e costruire una comunità che non si arrende. Durerà fino al 31 maggio, giorno in cui si terrà una manifestazione nazionale a Roma. Prevarrà il senso di umanità? Decreto Sicurezza, “integrazioni” anche da Fratelli d’Italia di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 maggio 2025 Tra gli emendamenti della maggioranza, l’occupazione abusiva pure per chi collabora e il divieto di sciopero per i rider. Non solo Forza Italia e Lega. La corsa ad aggiungere ciascuno il suo reato di bandiera ha convinto anche Fratelli d’Italia a presentare alcune correzioni - “integrazioni”, le chiama uno dei relatori, l’azzurro Davide Bellomo - che vanno ad aggiungersi alla valanga di emendamenti al decreto Sicurezza depositati, soprattutto dalle opposizioni, nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera. Sono 1.949 in tutto ma la maggioranza è già pronta a procedere velocemente, come da programma, a colpi di mannaia a cominciare dalla prossima settimana, probabilmente martedì. Se necessario, poi, il governo potrebbe ricorrere pure alla fiducia. Non lo esclude Bellomo anche se, sostiene, al momento nulla è stato deciso. “Dobbiamo innanzitutto vedere quanti emendamenti saranno ritenuti ammissibili. La tendenza oggi è non voler mettere la fiducia, però i lavori parlamentari poi magari ne impongono la necessità”. In Aula, secondo il calendario aggiornato dalla Conferenza dei capigruppo, il decreto Sicurezza arriverà nella settimana tra il 26 e il 29 maggio. Tra le “integrazioni” più gettonate dalle destre e che hanno maggiore possibilità di superare la tagliola della maggioranza ci sono gli inasprimenti di pena per scippi e furti in abitazione, voluti dalla Lega, e l’estensione dell’applicazione del nuovo reato di occupazione abusiva alle seconde case e anche a chi collabora con gli occupanti, contenuta in emendamenti presentati sia dai leghisti che dal partito di Giorgia Meloni. I deputati del Carroccio, poi, hanno portato in dote un emendamento che, come denuncia Zaratti, capogruppo di Avs in commissione Affari costituzionali, “vieta gli scioperi dei lavoratori nei “servizi di trasporto, smistamento e distribuzione in ambito urbano di pacchi, plichi, farmaci e prodotti alimentari”. In una parola: i rider. “Questo emendamento è letteralmente incivile - attacca il deputato di Avs - perché colpisce i settori più indifesi della popolazione, è inaccettabile”. Fd’I vuole anche estendere il reato di blocco stradale e ferroviario a chi impedisce “l’accesso o il deflusso da e verso la stessa da area privata”. E chiede di punire chi aggredisce un arbitro con la stessa pena prevista per le lesioni a pubblico ufficiale. Ve ne sono poi di fantasiosi, come quello a firma del Fd’I Deidda riduce le multe per chi sosta in area vietata o porta bestiame vicino alle stazioni e prevede che i proventi vadano alla ricostruzione della rete ferroviaria. Forza Italia limita la custodia cautelare, Lega e FdI alzano le pene: maggioranza double face di Valentina Stella Il Dubbio, 9 maggio 2025 Decreto Sicurezza, gli emendamenti presentati alla Camera certificano ancora una volta la contrapposizione fra il garantismo dei berlusconiani e l’irriducibile, opposta indole degli alleati. Sono 1.949 gli emendamenti al decreto Sicurezza depositati nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera, ripartiti fra tutti i gruppi. In particolare, sono 525 gli emendamenti depositati da Avs, 24 quelli di Azione, 62 da Italia viva, 23 da +Europa, 3 dal gruppo Misto, 801 dal M5S, 458 dal Pd. Anche i gruppi di maggioranza, tutti, hanno presentato proposte di modifica alla legge di conversione del decreto: 22 vengono da Forza Italia, 11 da Fratelli d’Italia, 9 dalla Lega, 11 da Noi moderati. A leggere le 568 pagine del fascicolo, emergono chiaramente le differenze tra quelli presentati dai berlusconiani, che vanno in una direzione più garantista, e quelli di Lega e Fratelli d’Italia, che procedono nella direzione opposta. Ad esempio il Carroccio chiede pene più elevate per i furti in casa e i furti con scippo. La proposta di modifica, a prima firma del capogruppo Riccardo Molinari, aumenta infatti di due anni la pena minima (arrivando a 6 anni) e di un anno il massimo di carcere previsto (arrivando fino a 8 anni). Un altro emendamento, a prima firma del capogruppo in commissione Igor Iezzi, chiede inoltre di estendere le sanzioni previste per l’occupazione abusiva delle case a tutte le ipotesi, e non solo a quella in cui l’immobile sia l’unica abitazione di chi denuncia. Per quanto concerne Fratelli d’Italia, lì dove nel testo del decreto legge si prevede che “non è punibile l’occupante che collabori all’accertamento dei fatti e ottemperi volontariamente all’ordine di rilascio dell’immobile”, una proposta di modifica a firma del deputato Andrea Pellicini introduce invece una sanzione, sebbene attenuata: la pena prevista dal primo comma - si legge - è diminuita se l’occupante collabora all’accertamento dei fatti e ottempera volontariamente all’ordine di rilascio dell’immobile”. Passiamo invece a Forza Italia. Un emendamento a prima firma di Enrico Costa recita: “Al comma 3 dell’articolo 275 del codice di procedura penale, dopo il primo periodo, è inserito il seguente: ‘Fatta salva l’ipotesi in cui si procede per i delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, qualora l’esigenza cautelare riguardi esclusivamente il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie di quello per il quale si procede, la custodia cautelare in carcere non può essere disposta nei confronti di soggetti incensurati”. Ci si propone, dunque, di intervenire sulla disciplina delle esigenze cautelari e, in particolare, su quelle relative al pericolo di reiterazione del reato. Come si ricorderà, un tentativo, nella stessa direzione, fu fatto nel 2022 con un quesito referendario che non raggiunse il quorum richiesto, ma l’idea è da sempre un pallino di Forza Italia, che durante ha legislatura ha proposto diverse iniziative contro l’abuso della custodia cautelare. C’è poi un altro emendamento che interviene sull’articolo 314 ccp in materia di riparazione per l’ingiusta detenzione. In particolare elimina la “colpa grave” dalle ragioni che impediscono di ottenere il risarcimento. “Il 77 per cento di chi - arrestato ingiustamente - chiede l’indennizzo non lo ottiene perché, secondo le Corti d’Appello, avrebbe ‘concorso con dolo o colpa grave all’errore del magistrato’“, aveva ricordato Costa, “e questa è una distorsione giurisprudenziale a cui porre rimedio”. L’azzurro poi emenda l’articolo 7 del dl Sicurezza proponendo una modifica richiesta soprattutto dall’Unione Camere penali: in pratica, in materia di misure di prevenzione, chiede di estendere da 10 a 30 giorni il termine per il ricorso in Cassazione. Infine chiede di cancellare l’espressione “si intromette o” dall’articolo 10 del decreto (l’articolo relativo alla “Occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui”) laddove leggiamo: “Fuori dei casi di concorso nel reato, chiunque si intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile” è punito con la reclusione da due a sette anni. Il termine contestato darebbe troppo margine alla magistratura per punire condotte non meglio definite. Per Costa “si tratta di proposte in linea con l’identità e la linea politica molto chiara di Forza Italia, e che non mettono in crisi la struttura del provvedimento in discussione”. Tra gli emendamenti più importanti presentati dal capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia della Camera, Tommaso Calderone, ci sono i seguenti. Primo, modifica agli articoli 628 (rapina) e 629 (estorsione) del codice penale: “La pena è diminuita fino ad un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità”. In pratica, una cosa è ci si impossessa di una brioche, altra se il reato riguarda milioni di euro. Secondo, un ricorso non può essere dichiarato inammissibile dalla Cassazione se è maturata una causa estintiva del reato tra il secondo e terzo grado di giudizio (molto importante per il diritto di difesa). Terzo, così come per chi è stato sottoposto ad una ingiusta detenzione, anche colui che ha subìto una misura di prevenzione personale ha diritto ad un’equa riparazione se con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità. Quarto, equiparare i tempi di ricorso in Cassazione con quelli dell’appello, ossia 30 giorni. Forza Italia vuole la custodia cautelare “a tempo”: arrestati liberi dopo due mesi di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 9 maggio 2025 L’emendamento al dl Sicurezza. I deputati azzurri lanciano l’ennesima proposta anti-pm: in mancanza di elementi “nuovi” per dimostrare la pericolosità, gli indagati andranno liberati in automatico dopo sessanta giorni. La custodia cautelare a scadenza: dentro al massimo per due mesi, poi liberi tutti in automatico (o quasi). Ecco l’ultima trovata di Forza Italia per azzoppare le indagini dei pm, contenuta in uno degli emendamenti presentati al decreto Sicurezza in discussione alla Camera. Come anticipato dal Fatto, i deputati azzurri hanno approfittato della conversione in legge per lanciare l’ennesimo assalto alle misure cautelari, riproponendo un’idea già avanzata la scorsa estate: il divieto di applicare il carcere preventivo a soggetti incensurati. Un evidente assist ai colletti bianchi, che di solito non hanno precedenti penali al momento dell’arresto. Ma non basta: con un altro emendamento, gli onorevoli Enrico Costa, Tommaso Calderone, Pietro Pittalis e Andrea Gentile chiedono di imporre un limite di tempo di sessanta giorni valido per tutte le misure cautelari (quindi non solo la custodia in carcere o ai domiciliari, ma anche quelle più lievi, come l’obbligo di dimora o di firma) disposte per il rischio di reiterazione del reato. Una nuova “tagliola”, quindi, che si affiancherebbe a quella di 45 giorni per le intercettazioni, entrata in vigore di recente dopo l’approvazione di un ddl presentato proprio da Forza Italia. Al momento le misure cautelari sono disposte dal gip (su richiesta del pm) a tempo indeterminato, anche se la difesa dell’indagato può chiederne in ogni momento la revoca o l’attenuazione. La nuova proposta berlusconiana, invece, recita così: “Decorsi sessanta giorni dall’applicazione della misura, il giudice procede a una nuova valutazione dell’esigenza cautelare e in mancanza di nuove esigenze cautelari, desumibili da atti e fatti concreti e attuali, diversi e ulteriori rispetto a quelli sulla cui base è stata disposta la misura medesima, ne dispone la revoca o la sostituzione con altra misura meno grave”. In sostanza, quindi, per tenere in carcere un indagato più di due mesi serviranno ragioni “nuove”, “diverse” e “ulteriori” rispetto a quelle servite per arrestarlo. E non importa se le ragioni “vecchie”, raccolte magari nell’arco di anni di indagini, sono ancora tutte in piedi: scaduti i sessanta giorni non valgono più nulla. Perciò, anche se ritiene ancora esistente il rischio di reiterazione del reato, il gip non potrà rinnovare la misura cautelare se non riesce a trovare una motivazione “originale”. Un’impresa quasi impossibile, soprattutto nei casi in cui l’indagato è in carcere o ai domiciliari: come si fa a trovare nuovi elementi per dimostrare la pericolosità di un soggetto che non può muoversi né comunicare? La norma non varrebbe per i reati di mafia, terrorismo, violenza sessuale e altre fattispecie di grande allarme sociale, ma si applicherebbe ovviamente ai delitti contro la pubblica amministrazione (corruzione, concussione, peculato, turbativa d’asta) e anche a produzione, detenzione e traffico di droga. “È davvero singolare”, commenta al fattoquotidiano.it Stefano Celli, pm a Rimini e vicesegretario dell’Associazione nazionale magistrati. “Trasporto dieci chili di cocaina, mi viene applicata una misura cautelare, ne rispetto le prescrizioni per due mesi e il giudice deve revocarla. A meno che non emergano nuove esigenze, ma non vedo come, se non commetto durante l’esecuzione altri reati (dal carcere, poi, come farei?). Sarebbe stato più coerente stabilire direttamente che la durata massima delle misure cautelari è due mesi”. Il deputato Tommaso Calderone, uno dei firmatari dell’emendamento, spiega invece così la proposta: “La custodia cautelare in carcere dev’essere l’extrema ratio, altrimenti si trasforma in pena anticipata. E non può durare per tutto il processo, a meno che non si tratti di un soggetto di altissima pericolosità. La Procura dovrebbe continuare a indagare anche dopo aver ottenuto la misura: se trova nuovi elementi per irrobustire le esigenze cautelari, il soggetto resta in carcere. Se non emerge nulla, subire la vergogna del carcere per sessanta giorni è già un deterrente sufficiente per scongiurare il rischio di reiterazione del reato”, sostiene. Abuso d’ufficio, la Consulta: legittima la scelta di abrogarlo di Simona Musco Il Dubbio, 9 maggio 2025 La decisione dei giudici costituzionali: “Nessun obbligo penale dalla Convenzione di Merida”. Nordio: “Ora basta strumentalizzazioni”. La preoccupazione dell’Anac. Abrogare l’abuso d’ufficio fu una scelta legittima. È arrivata in 24 ore la decisione della Corte costituzionale, dove mercoledì erano state discusse le 14 ordinanze di remissione con le quali altrettanti collegi - tra i quali la Corte di Cassazione - avevano sollevato la questione di costituzionalità in merito alla riforma che ha cancellato l’articolo 323 del codice penale. Una delle riforme bandiera di questo governo, che ha suscitato subito un forte contrasto tra politica e magistratura, convinta di esporre i cittadini ad un vuoto di tutele. “La Corte - si legge nel breve comunicato licenziato ieri dalla Consulta - ha ritenuto ammissibili le sole questioni sollevate in riferimento agli obblighi derivanti dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (la cosiddetta Convenzione di Merida). Nel merito, la Corte ha dichiarato infondate tali questioni, ritenendo che dalla Convenzione non sia ricavabile né l’obbligo di prevedere il reato di abuso d’ufficio, né il divieto di abrogarlo ove già presente nell’ordinamento nazionale”. Insomma, la cancellazione del reato è compatibile con l’articolo 19 della Convenzione di Merida, che invita gli Stati a “considerare” l’introduzione di sanzioni penali per casi di abuso d’ufficio, ma - come osservato dagli avvocati intervenuti - questa formulazione non ha carattere vincolante, come invece sostenuto, tra gli altri, dalla Corte di Cassazione, secondo cui l’Italia violerebbe gli standard minimi di tutela richiesti a livello internazionale. Di segno opposto gli avvocati intervenuti in udienza, che hanno infatti richiamato la recente introduzione della nuova norma sul peculato per distrazione come misura compensativa. Tra gli interventi quelli del professore avvocato Vittorio Manes, che ha evidenziato come non esista alcun obbligo costituzionale o convenzionale di tutela penale, né un vincolo specifico di incriminazione nella Convenzione di Merida, la quale si limita a prevedere - con la formula “shall consider adopting” - un “obbligo procedurale di ponderata considerazione” della scelta legislativa. Tale considerazione, ha spiegato, deve valere “sia in entrata che in uscita”, restando comunque “aperta alla discrezionalità dei singoli Stati”. Qualsiasi interpretazione creativa che trasformi questo in un obbligo di incriminazione comporterebbe, ha avvertito, il rischio di “legittimare una sorta di anarchia giuridica”. Manes ha inoltre sottolineato che quando il legislatore internazionale ha davvero voluto introdurre un divieto di regresso lo ha fatto in modo esplicito, chiedendo un progresso normativo irreversibile. In questo contesto, paradossalmente, sarebbe stata proprio la dichiarazione di illegittimità della scelta abrogativa a creare “problemi in punto di responsabilità internazionale dello Stato”, soprattutto per le divergenze tra la giurisprudenza costituzionale italiana e quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, specie sul tema della retroattività della lex intermedia. Se la Corte avesse accolto la questione, stando al suo ragionamento, ci sarebbe stato “l’annichilimento della riserva di legge”. E questo non sulla base di un testo normativo preciso, ma di un’interpretazione giurisprudenziale, con il rischio di “sovvertire la separazione dei poteri”. Una tale decisione avrebbe reso anche la Consulta incoerente con se stessa, in particolare con la sua sentenza n. 8 del 2022, finendo per “legittimare una proliferazione incontrollata degli obblighi di tutela penale”, trasformando le scelte di criminal policy italiane in “epifenomeni delle decisioni sovranazionali”. Un sistema in cui “il diritto penale non sarebbe più padrone in casa propria”, ma pretenderebbe di esserlo “persino in casa altrui, come nel caso del reato universale sulla gestazione per altri”. Il pericolo più grande, ha concluso, sarebbe stato quello di “legittimare un diritto penale senza limiti”, sganciato dai principi di sussidiarietà e extrema ratio, dove persino la decriminalizzazione potrebbe diventare illegittima sulla base di “fragili vincoli rinvenuti aliunde”. Sarebbe l’avvio di una “corsa irreversibile alla punizione a ogni costo. Non sono un fan della scelta abrogativa - aveva poi aggiunto -, non la considero opportuna né convincente”. Tuttavia, “una legge può essere sbagliata, ma non per ciò solo illegittima”. Da qui il monito: “Esiste un confine delicato tra opportunità politica e incostituzionalità. A volte si assottiglia, diventa una sottile linea d’ombra, ma non può essere smarrito. Farlo significherebbe cedere a una tentazione pericolosa: fare la cosa giusta per la ragione sbagliata”. Secondo Guido Aldo Camera, inoltre, in gioco non c’era “solo il tema della riserva di legge ma anche quello della separazione dei poteri. I patti oggi ci possono piacere, ma potrebbero non piacerci in futuro e devo dire che se si creasse la possibilità di creare un precetto partendo da una raccomandazione che precetto non è, la regola sarebbe realmente esposta alla applicazione arbitraria”. La fattispecie di reato, dal 1930 a oggi, è stata oggetto di continue riforme, senza mai trovare una formulazione definitiva chiara e funzionale. L’ultima configurazione aveva prodotto un clima di incertezza e di paralisi amministrativa, dando origine alla cosiddetta “burocrazia difensiva”, per cui i pubblici funzionari evitano decisioni per timore di incorrere in procedimenti penali. Nessuna modifica normativa era riuscita a sciogliere le ambiguità, tanto che l’abrogazione totale è stata ritenuta l’unica soluzione possibile, anche alla luce del fatto che altre norme del codice penale coprono sufficientemente le condotte più gravi e dell’altissimo tasso di archiviazione (oltre il 90%). Soddisfatto il ministro della Giustizia Carlo Nordio: “Esprimo la massima soddisfazione per il contenuto del provvedimento della Corte Costituzionale, che ha confermato quanto sostenuto a più riprese in ordine alla compatibilità dell’abrogazione del reato di abuso di ufficio con gli obblighi internazionali - ha commentato -. Mi rammarica che parti della magistratura e delle opposizioni abbiano insinuato una volontà politica di opporsi agli obblighi derivanti dalla convenzione di Merida. Auspico che nel futuro cessino queste strumentalizzazioni, che non giovano all’immagine del nostro Paese e tantomeno all’efficacia dell’amministrazione della giustizia”. Critico, invece, il giudizio di Giuseppe Busia, presidente dell’Anac: “Le sentenze della Corte costituzionale si rispettano. Ne prendiamo atto e leggeremo le motivazioni, ma i vuoti lasciati dall’abrogazione del reato di abuso d’ufficio restano”. La Consulta sull’abuso d’ufficio conferma i paradossi del Governo del panpenalismo di Ermes Antonucci Il Foglio, 9 maggio 2025 La Corte costituzionale promuove l’abrogazione del reato. Esultano Nordio e Forza Italia, silenti gli alleati: le contraddizioni di una maggioranza che, anziché abrogarli, sta introducendo una media di due reati al mese. Non è incostituzionale abrogare un reato, come l’abuso d’ufficio, che in un anno porta all’apertura di circa 6.000 procedimenti penali che si concludono con soltanto 27 condanne, generando la “paura della firma” tra sindaci e funzionari pubblici. Lo ha stabilito la Corte costituzionale, bocciando le questioni di legittimità costituzionale sollevate da quattordici autorità giurisdizionali. Primo vero successo per il ministro Nordio, che propose la cancellazione del reato con un disegno di legge, poi approvato in Parlamento a luglio. Il Guardasigilli esprime “massima soddisfazione” per la sentenza, esultano gli esponenti di Forza Italia, non partecipano alla festa FdI e Lega. I paradossi di una maggioranza che, anziché abrogarli, sta introducendo una media di due reati al mese. La Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’abrogazione del reato da quattordici autorità giurisdizionali, tra cui la Corte di cassazione. La Consulta ha stabilito che dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (quella di Merida) “non sia ricavabile né l’obbligo di prevedere il reato di abuso d’ufficio, né il divieto di abrogarlo ove già presente nell’ordinamento nazionale”. Insomma, i giudici costituzionali hanno bocciato in pieno proprio la tesi propagandata per mesi, ormai anni, da alcuni magistrati molto mediatici (in primis Piercamillo Davigo), dalla stessa Associazione nazionale magistrati, dalle opposizioni, da certi quotidiani vicini alle toghe e da alcuni giuristi (in verità, pochi). “L’abuso d’ufficio è previsto dalla Convenzione Onu di Merida, non si può abolire”, hanno ripetuto in coro per tutto questo tempo i Davigo boys. Pazienza se, andando a leggere il testo della Convenzione del 2003, si scopre che questa obbliga gli stati firmatari soltanto a “esaminare l’adozione” (“shall consider adopting”) del reato di abuso d’ufficio, e non ad “adottare” (“shall adopt”) il reato, espressione utilizzata nella stessa Convenzione per altre fattispecie di reato. Scoperto l’inghippo, a quel punto i difensori del reato di abuso d’ufficio - tra cui i tribunali che si sono rivolti alla Consulta - hanno sostenuto che comunque fosse contraria alla Convenzione la condotta di uno stato, come l’Italia, che avendo già nel proprio ordinamento il reato in questione avesse deciso di privarsene. Una tesi quantomeno bislacca. “L’idea che da un preteso vincolo sovranazionale potesse generarsi un divieto di regresso, un obbligo di non decriminalizzare, è incompatibile con il necessario carattere aperto delle valutazioni in materia di tutela penale”, sottolinea al Foglio il professor Vittorio Manes, intervenuto mercoledì davanti alla Consulta a sostegno dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio. “Il diritto penale è sempre una risposta parziale, oggetto di riflessioni ponderate e ripensamenti, e non può sussistere l’idea che la risposta penale possa essere una soluzione a senso unico ed eterna. Questo è incompatibile con il pluralismo delle costituzioni democratiche”, aggiunge. “Vedremo le motivazioni, ma la decisione della Corte è un punto fermo molto importante che ribadisce il valore che la rappresentatività democratica e la legittimazione parlamentare hanno sulle scelte in maniera punitiva, che non possono essere condizionate da obblighi o vincoli di tutela penale, che costituisce sempre l’extrema ratio”, spiega Manes. “Non c’è solo la risposta penale. In materia di abusi della funzione amministrativa si incrociano controlli erariali, responsabilità disciplinari, rimedi civilistici. Lo stato deve essere libero, altrimenti si andrebbe a creare lo scenario di un diritto penale irreversibile che non può mai tornare sui propri passi”. “Personalmente non condivido la scelta abrogativa”, prosegue il giurista. “Penso che si sia passato da un eccesso all’altro. Ma opinabile o meno che sia, si tratta di una scelta di politica criminale e la Corte costituzionale ha voluto ribadire questo sottile, delicatissimo, ma invalicabile confine: c’è una differenza tra una legge non buona e opinabile, e una legge incostituzionale. In questo spazio si colloca la discrezionalità politica”. Festeggiano dunque Nordio e la maggioranza, seppur quasi esclusivamente nella sua componente forzista. D’altronde, il governo Meloni più che ad abrogare reati o a depenalizzarli sembra più impegnato a introdurli. Dall’insediamento dell’esecutivo sono stati introdotti oltre sessanta reati e aumenti di pena per un totale di circa 500 anni di carcere in più nel nostro ordinamento. Una sbornia giustizialista che in molti casi appare incompatibile con alcuni princìpi fondamentali della Costituzione, come proporzionalità, ragionevolezza e tassatività. Tanto che diverse misure sono già state impugnate di fronte alla Corte costituzionale. Che potrebbe adottare decisioni non altrettanto positive per il governo. Circolari e lettere, Csm e pm antimafia mai così distanti di Mario Di Vito Il Manifesto, 9 maggio 2025 Una banale questione organizzativa diventa pietra dello scandalo. Salta l’incontro della settimana prossima. Il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Giovanni Melillo, alla Scuola superiore di Polizia in occasione della cerimonia di intitolazione del Centro studi internazionale alla memoria di Boris Giuliano, dirigente di Polizia assassinato dalla mafia nel 1979, Roma, 23 luglio 2024.Il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Giovanni Melillo, alla Scuola superiore di Polizia in occasione della cerimonia di intitolazione del Centro studi internazionale alla memoria di Boris Giuliano, dirigente di Polizia assassinato dalla mafia nel 1979, Roma, 23 luglio 2024. La questione è molto burocratica, ma la spaccatura che si è venuta clamorosamente a creare tra il Consiglio superiore della magistratura e le toghe antimafia ha in realtà un sapore molto politico. La storia è quella di una circolare diramata dal Csm lo scorso luglio sull’organizzazione degli uffici delle procure. Qualche giorno fa, però, a palazzo Bachelet è arrivata una lettera di 25 pagine firmata da “i procuratori distrettuali della repubblica e il procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo” con una grande mole di osservazioni critiche. Da qui la decisione di annullare l’incontro che avrebbe dovuto tenersi martedì tra la VII commissione del Csm e le toghe delle procure distrettuali. Lo scontro, al di là del merito della questione, fa parecchio rumore proprio per il suo carattere istituzionale, cioè per gli attori coinvolti nella vicenda. Da un lato un organo di rilievo costituzionale come il Csm, dall’altro i procuratori distrettuali e il capo della Dna Giovanni Melillo. E così, quando la notizia si è diffusa, parlarne è diventato inevitabile, con il riemergere di una questione vecchia come l’antimafia: come si organizza una procura del genere? Per il Csm i criteri organizzativi devono essere pressoché fissi, con il capo praticamente obbligato a confrontarsi con i sostituti, con l’obiettivo di evitare, o quantomeno di evitare il più possibile, le assegnazioni arbitrarie. Un fatto di trasparenza, in teoria. Peraltro già in uso presso la magistratura giudicante e conforme a dettami stabiliti dalla riforma Cartabia. E però, i procuratori antimafia ribattono che stabilire queste regole significherebbe aggravare il lavoro quotidiano e, soprattutto, limitare la propria indipendenza. Si legge nella lettera che i procuratori “non mettono in discussione l’impianto di fondo della circolare che, meritoriamente ha inteso, da una parte garantire a tutti magistrati delle procure (ed era ovvio) indipendenza e pari dignità (oltre che spazi ed opportunità per concorrere alla organizzazione dell’Ufficio) e, dall’altra - si legge - rendere gli uffici inquirenti trasparenti nelle assegnazioni degli affari e nella loro struttura interna”. Da qui una lunga fila di emendamenti e modifiche alla circolare del Csm. Il problema di fondo lo sintetizza al manifesto una toga di lunga esperienza: “Il consiglio deve tutelare l’autonomia ed indipendenza dei magistrati non solo dall’esterno degli uffici, ma anche dall’interno ed avere un dirigente senza controlli e senza trasparenza è sempre un pericolo”. All’interno del consiglio la posizione più diffusa, al momento, è quella attendista: a palazzo Bachelet nessuno vorrebbe che scoppiasse una guerra con i procuratori antimafia e, assicurano diversi togati, il confronto che non si terrà martedì è soltanto rinviato. Del resto, si sottolinea ancora, il documento fatto arrivare al Csm è “lungo e complesso” e necessita di approfondimenti e riflessioni. Più combattiva la posizione del consigliere indipendente Andrea Mirenda. “La lettera aperta del partito dei procuratori disvela l’inconsistenza dello zoccolo ideologico su cui quell’unità si fonderebbe, specie lì dove punta a differenziare le procure dai tribunali persino sul piano organizzativo, vero cardine dell’uguaglianza dei magistrati”. Dunque, secondo Mirenda, “per bocca del Partito dei Procuratori, giunge la miglior prova dell’insuperabile solco culturale tra uffici requirenti e giudicanti, con i primi che si vorrebbero gerarchizzati, persino organizzativamente, a differenza dei secondi, tabellarizzati e soggetti soltanto alla legge. Unità della giurisdizione, addio”. La questione, sul filo della formalità, è destinata a far discutere ancora. Certo una tensione così alta tra Csm e procuratori antimafia non si era mai registrata. Serviranno calma e sangue freddo per riportare la situazione alla normalità. “Con la giustizia riparativa, la vittima non resta prigioniera della violenza” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 9 maggio 2025 Un convegno alla Camera, promosso dall’associazione “Fare”, con Michela Di Biase, deputata del Pd, il professor Adolfo Ceretti e Manlio Milani, presidente dell’Associazione dei Familiari dei caduti nella strage di Piazza della Loggia. “Parole della giustizia” con una attenzione particolare rivolta alle vittime. È stato questo il tema affrontato ieri durante un convegno tenutosi presso la Sala del Refettorio della Camera dei deputati e organizzato dall’associazione “Fare” (“Femminista, ambientalista, radicale, europeista”). L’iniziativa è stata aperta dall’indirizzo di saluto del presidente della Camera, Lorenzo Fontana. “Questo - ha detto Fontana - è il terzo appuntamento sulla giustizia riparativa, un istituto che riguarda sia chi ha causato il dolore sia chi lo ha subito. La giustizia riparativa pone al centro le vicende umane di questi soggetti, lontano dalle aule dei tribunali, con uno spazio di dialogo e d’ascolto. È un modello parallelo e non alternativo alla giustizia ordinaria”. Michela Di Biase, deputata del Pd, ha sottolineato il valore dell’iniziativa di ieri: “L’associazione Fare sta organizzando una serie di dialoghi sulle parole della giustizia. Ricordo l’emozionante colloquio tra Agnese Moro e Adriana Faranda sulla parola “incontro”. Siamo certi che sia necessario impegnarci a trovare un altro possibile vocabolario delle parole della giustizia, passando, come dice il professor Ceretti, da una giustizia verticale a una giustizia orizzontale. Manlio Milani, presidente dell’Associazione dei familiari dei caduti nella strage di Piazza della Loggia e presidente della “Casa della memoria” di Brescia, nella sua lunga e generosa attività di testimone ha restituito la parola “vittima” al campo della responsabilità civile e politica”. La giustizia riparativa ruota attorno alle persone. “La vittima - ha commentato l’onorevole Di Biase - è un soggetto storico. Non un semplice “oggetto del male”, ma una coscienza che si interroga, che testimonia, che agisce. È qualcuno che, pur colpito dalla violenza, sceglie di non restarne prigioniero. Che cerca nel racconto del proprio trauma una strada non per il risarcimento privato, ma per la costruzione di una memoria pubblica. Una memoria che non divide, ma che unisce. Che non serve a contrapporre, ma a comprendere”. Le vicende umane della vittima e dell’autore del reato dovrebbero trovare un punto di incontro. E in merito ad alcune pagine tristi della storia del nostro Paese, è utile un’operazione trasparenza. “Siamo tutti messi in guardia dalla privatizzazione del dolore - ha aggiunto Michela Di Biase -. Quando la sofferenza viene trasformata in identità esclusiva, la vittima rischia di cadere in una logica di rivalsa e rancore, diventando ostaggio del fatto che ha subito. Il suo racconto è anche un atto politico: impone alle istituzioni una responsabilità, quella di dare spazio, di ascoltare, di riconoscere. Non basta essere “con le vittime” in modo astratto, cerimoniale. Occorre mettere in discussione i meccanismi che hanno prodotto l’ingiustizia. Occorre vigilare sulla coerenza democratica, aprire gli archivi, rifiutare ogni forma di delega passiva alla magistratura o alla storia ufficiale. La giustizia riparativa non può essere un gesto privato, sentimentale. Deve avere una dimensione pubblica, costituzionale. Deve servire a ricucire la frattura tra dolore e riconoscimento, memoria e responsabilità. Perché solo così la Repubblica può ritrovare il proprio fondamento etico, il proprio patto originario”. Il professor Adolfo Ceretti, coordinatore del gruppo di ricerca che ha redatto la disciplina organica della giustizia riparativa, si è soffermato sulla vicenda vissuta in prima persona da Manlio Milani (la moglie Livia è morta a Brescia, a Piazza della Loggia il 28 maggio 1974). “Nel dipanarsi dei nostri incontri - ha ricordato Ceretti - con vittime e responsabili della lotta armata e del terrorismo, avvenuti tra il 2009 e il 2014 e confluiti nel “Libro dell’incontro”, del quale Milani è stato uno dei pilastri centrali, insieme ad Agnese Moro, ci siamo chiesti, tutti quanti come fosse possibile uscire dalla eterogeneità di linguaggi, di valori, di memorie incommensurabili che riguardavano i protagonisti di quelle vicende storiche. Una strada molto preziosa è stata quella indicata dal filosofo francese Olivier Abel, che suggerisce, in casi paradigmatici, di impegnarsi a esercitare la “virtù del compromesso”, compromesso che egli non intende come la mera giustapposizione di due punti di vista” Particolarmente toccante la testimonianza di Manlio Milani. La sua testimonianza diretta sulla strage di Piazza della Loggia ha commosso il pubblico. Milani ha inoltre ripercorso alcune tappe del processo ai responsabili dei fatti avvenuti cinquantuno anni fa. “Abbiamo fatto i conti - ha ricordato Milani - con persone che hanno voluto occultare pagine della nostra storia”. “Che cosa è una strage?”, si è chiesto poi Milani. “È l’esempio massimo - ha aggiunto - della disumanizzazione. Le persone coinvolte nella ideazione e nella realizzazione delle stragi vengono usate per trasmettere messaggi di paura e di attacco al sistema democratico. Dopo la strage di Piazza della Loggia ho a lungo riflettuto. Da qui ho intrapreso un percorso molto preciso: valorizzare l’esperienza storica attraverso l’esperienza privata”. Morabito ancora al 41bis: via Arenula non “risponde” alla Cedu di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 maggio 2025 Dopo la condanna della Corte, l’avvocata del boss ‘ndranghetista ultranovantenne, con l’Alzheimer avanzato, ha inviato l’istanza di revoca il 14 aprile. Ma dal ministero tutto tace. È passato ormai quasi un mese dalla pronuncia con cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per aver mantenuto in regime di 41 bis lo storico boss ‘ndranghetista ultranovantenne Giuseppe Morabito, affetto da Alzheimer in fase avanzata. Nonostante questo, e malgrado l’istanza inviata il 14 aprile al ministero della Giustizia, il carcere duro per “u Tiradrittu” non è stato ancora revocato. Nella missiva indirizzata al ministro Carlo Nordio, l’avvocata Giovanna Beatrice Araniti ricorda i termini essenziali della sentenza del 10 aprile: “La Cedu ha rilevato una violazione dell’art. 3 della Convenzione europea per la tortura e i trattamenti inumani e degradanti, a causa della perdurante applicazione del regime differenziato a un novantenne con morbo di Alzheimer”. L’avvocata chiede al ministro di “dare immediata ottemperanza” alla pronuncia, sottolineando le perizie d’ufficio del Tribunale di Sorveglianza di Roma che certificano un “declino cognitivo senza possibilità di cura reversibile”. Giuseppe Morabito, classe 1934, è rinchiuso dal 2006 nella casa di reclusione di Milano-Opera. Il 41 bis, ricordiamo, nasce per impedire ai boss ogni contatto diretto con l’esterno: colloqui dietro vetri, giornali e televisione sottoposti a censura, visite familiari limitate e soggette a rigidi controlli, comprese numerose afflizioni che nel tempo, grazie a diverse sentenze, sono state ritenute inutilmente afflittive. Un assetto pensato per isolare un boss, volto a evitare che dia ordini al proprio gruppo mafioso, che, applicato a un malato di Alzheimer in stato avanzato e privo di capacità di pensiero razionale, diventa una condizione disumana e degradante. Il 41 bis, in sostanza, si trasforma in abuso. La stessa Corte Europea, nella sentenza di condanna, lo spiega chiaramente: “Non riesce a vedere come una persona che soffre di un declino cognitivo indiscusso - e addirittura con diagnosi di Alzheimer - e che non fosse in grado di comprendere la propria condotta o di seguire un’udienza in tribunale potesse allo stesso tempo mantenere una capacità sufficiente per mantenere o riprendere contatti significativi con un’organizzazione criminale”. Mentre si attende la risposta del ministro Nordio, a breve la Cassazione dovrà pronunciarsi sul ricorso contro l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma che ha confermato il 41 bis disposto dal Guardasigilli. La sentenza della Cedu copre il periodo fino al 24 maggio 2023, data in cui Morabito è stato ospedalizzato d’urgenza per un’ernia, con conseguente interruzione del 41 bis. Ma durante la procedura innanzi alla Corte, il regime era stato nuovamente attivato. Motivo per cui l’avvocata Araniti ha presentato ricorso in Cassazione, integrandolo - dopo la sentenza Cedu - con una memoria che evidenzia come la Corte europea abbia giudicato ingiustificata la proroga del regime differenziato nei confronti del detenuto ultranovantenne. Secondo la difesa, i provvedimenti - sia amministrativi che giurisdizionali - che hanno confermato il 41 bis per Morabito non hanno tenuto conto in modo adeguato delle sue condizioni di salute in relazione alla valutazione della pericolosità sociale. La memoria sottolinea che tre perizie mediche indipendenti hanno accertato “uno stato mentale decadente con annullamento della pericolosità sociale psichiatrica” e che il detenuto soffre di “una seria compromissione multiorgano” tipica della condizione di comorbilità dell’anziano. Un elemento centrale della memoria è che il Gip e il Tribunale di Milano hanno già dichiarato, in due procedimenti distinti, il non luogo a procedere per incapacità processuale di Morabito e la sua incapacità di intendere e volere al momento dei fatti. L’ultima perizia ha rilevato “una condizione psicopatologica di grado maggiore, per il disturbo di carattere demenziale ad evoluzione necessariamente peggiorativa”: elementi che, secondo la difesa, sarebbero stati “del tutto bypassati” nel provvedimento che ha prorogato il 41 bis. Sempre nella memoria, l’avvocata Araniti solleva anche il tema per cui il regime speciale, per le severe restrizioni che impone all’interazione umana e alle attività ricreative, potrebbe accelerare il deterioramento cognitivo di Morabito. Su questo punto la Cedu, pur non potendo speculare sull’effettivo impatto, ha osservato che “non si può escludere che le restrizioni alla socializzazione abbiano avuto un impatto” sullo sviluppo della malattia. Significativo anche che, come sottolineato dai giudici di Strasburgo, “le autorità nazionali non abbiano preso in considerazione l’opportunità di revocare o allentare alcune delle restrizioni supplementari al fine di soddisfare le potenziali esigenze del richiedente, nonostante le richieste esplicite da lui presentate”. La questione è chiara. Non si mette in discussione la necessità del 41 bis nei casi per il quale è stato concepito. Né la Corte Europea né la Consulta hanno mai affermato che il regime speciale sia incompatibile con la Convenzione dei diritti umani o con la Costituzione. Ma lo diventa se ne viene abusato. Diventa illegale, degradante, e una vera e propria forma di tortura se utilizzato con finalità che vanno oltre la sua ratio. Il vero banco di prova è questo. La vicenda Morabito, e non solo, mette a nudo una contraddizione: il cosiddetto “carcere duro” - che duro in realtà non dovrebbe esserlo - nasce per spezzare i vertici di cosche mafiose o organizzazioni terroristiche. Ma quando il detenuto ha perso ogni capacità cognitiva, il 41 bis diventa puro accanimento. Se la finalità è la sicurezza, mantenere in isolamento un uomo ultranovantenne che non comprende più nulla, perde completamente di senso. Era già accaduto con l’ex capo mafia Bernardo Provenzano, per cui l’Italia è stata condannata con una sentenza del 25 ottobre 2018. All’epoca, la Cedu ritenne lo Stato responsabile di aver violato l’articolo 3 della Convenzione, secondo cui “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti disumani o degradanti”. Il ricorso era stato presentato dall’avvocata Rosalba Di Gregorio: nonostante la grave decadenza delle facoltà fisiche e mentali, a Provenzano fu negata l’uscita dal 41 bis fino alla morte. Tre procure - Palermo, Firenze e Caltanissetta - si erano opposte alla richiesta ritenendolo ancora pericoloso. I fatti dimostrarono il contrario. Basti ricordare che, a causa dello stato neurodegenerativo, non fu in grado di partecipare al processo fallimentare sulla trattativa Stato-mafia. A firmare il rinnovo del 41 bis per Provenzano fu l’allora ministro Andrea Orlando. E ci costò una condanna. Ora ne abbiamo un’altra. Come denunciò il magistrato antimafia Alfonso Sabella - colui che ha catturato Brusca, Bagarella, Aglieri e altri latitanti storici - se il 41 bis si degrada a strumento di tortura, con nuove condanne rischia di decadere. Oggi l’urgenza è un gesto formale che paradossalmente salverebbe il carcere speciale: la firma del ministro Nordio per la revoca del 41 bis a Giuseppe Morabito. Giuseppe Rogoli scrive dal 41-bis: “Mi negano le cure” di Diana Ligorio Il Domani, 9 maggio 2025 Chiede da luglio 2024 una visita urgente agli occhi. Ma ancora nulla. Sua moglie e la sua legale danno battaglia: “La salute è un diritto di tutti”. “Mia deliziosa moglie, pur sapendo che domattina la posta non viene ritirata, il mio cuore desidera stare con te in questo sabato pomeriggio”. Comincia così la lettera che Pino Rogoli, fondatore della Sacra corona unita, scrive il 29 marzo a sua moglie Domenica Biondi, detta Mimina, dal penitenziario di Viterbo dove è detenuto con il regime del 41 bis, il carcere duro. La signora non ha mai rilasciato interviste. Oggi rompe un silenzio durato cinquant’anni perché preoccupata per le condizioni di salute del marito. Stringe al petto una borsa dalla fantasia vistosa da cui sfila la lettera che mostra a Domani. Rogoli scrive: “Non ci sono novità, nonostante i solleciti e querela presentati dall’avvocatessa finora manco l’ombra, se l’occhio è stato danneggiato per la negligenza altrui... faremo ricorso a tutte le autorità competenti”. Federica Musso, classe 1984, nasce negli anni e nella città in cui la Scu prende vita: “Per ragioni anagrafiche sono subentrata solo di recente nella difesa di Rogoli”. Tre anni fa, Rogoli è stato operato all’occhio destro per la rimozione della cataratta. “Da due anni ha richiesto all’istituto penitenziario di essere sottoposto a visita oculistica: lamenta dolore e offuscamento della vista all’occhio sinistro. Tale richiesta reiterata più volte è stata sempre inevasa”. Musso invia la prima pec di sollecito al carcere di Viterbo nel luglio del 2024 e a settembre dello stesso anno deposita un’istanza al tribunale di sorveglianza di Viterbo. E ancora con una pec del marzo 2025 sollecita con urgenza la visita oculistica. Il 13 marzo 2025 il carcere tramite pec comunica: “La visita oculistica per il detenuto in oggetto indicato avrà appuntamento in tempi brevi”. Dice la signora Biondi: “È inconcepibile che una persona detenuta non abbia il diritto di ricevere le cure necessarie come qualsiasi cittadino libero”. Il 18 marzo 2025 Mimina Biondi sporge denuncia presso il Tribunale di Viterbo. “Proprio nei giorni scorsi - scrive Rogoli nella sua lettera - ho letto sul giornale che la corte europea per i diritti umani ha multato l’Italia per un mancato ricovero di un detenuto e nonostante ciò se ne fregano facendosi conoscere a livello europeo per lo squallore del trattamento sanitario dei detenuti”. Le origini - “Ci siamo conosciuti in Germania nel gennaio del 1969”, racconta la moglie che al tempo aveva 17 anni, Rogoli 23. “Eravamo due operai. Io in una fabbrica di biscotti, lui di bottiglie”. A giugno dello stesso anno si sposano. Dopo sei anni e due figli tornano in Italia, a Mesagne, la città di Rogoli. “Io maledico quel giorno”. Negli anni Settanta lui lavora come piastrellista. “Portava a casa 500mila lire a settimana. Usciva all’alba e tornava la sera”. La prima condanna per Rogoli è per furto. A seguire rapina e porto d’armi, poi violenza e oltraggio a pubblico ufficiale: “È in carcere che cambia la sua vita”. Negli anni Settanta il boss camorrista Raffaele Cutolo sposta il contrabbando di sigarette sulle coste pugliesi dove sceglie i più promettenti malavitosi locali per fondare la Nuova camorra pugliese. Nelle celle delle carceri si genera una tensione tra camorristi e criminali pugliesi insofferenti al comando campano. A guidare il malcontento c’è Rogoli, capo carismatico, già affiliato alla ‘ndrangheta, il quale il primo maggio 1983 in una cella del carcere di Bari, fonda la Sacra corona unita. Nel 1984 il giudice Alberto Maritati istruisce presso il tribunale di Bari il primo grande processo contro i vertici della criminalità organizzata pugliese. Dispone perquisizioni a tappeto. Nella cella di Rogoli viene trovata un’agendina in cui è scritto: “La Sacra Corona Unita è stata fondata da G.R. l’1 maggio 1983 e con l’aiuto dei compari diritti”. Seguono organigrammi, elenchi di affiliati, ordini per la consumazione di reati, punizioni per coloro che hanno “sgarrato” e una descrizione del giuramento: “Giuro su questa punta di pugnale di sangue di essere fedele a questo corpo di società, formata da uomini attivi, liberi, franchi e affermativi, con tutte le regole e prescrizioni sociali. Giuro di disconoscere padre, madre, fratelli e sorelle, fino alla settima generazione. Giuro di dividere centesimo per centesimo, millesimo per millesimo fino all’ultima stilla di sangue. Giuro di mettere un piede nella fossa e l’altro nella catena per dare un forte abbraccio alla galera”. Nel corso dell’interrogatorio Rogoli dichiara: “Qui nelle patrie galere succedono tante cose gravi ed io come più grande, più saggio, è vero che spesso dò dei consigli. [...] Per quanto attiene alla Sacra Corona Unita non è stata creata per commettere reati ma solo per regolare e decidere le varie questioni insorte tra i detenuti”. Le sue parole violano i principi di segretezza e provocano una spaccatura all’interno della Scu. Il gruppo foggiano si rende autonomo mentre Rogoli conserva il controllo sulla componente brindisina e leccese: inizia una stagione di violenze, rapine, estorsioni e omicidi di quanti ostacolano l’organizzazione. “Negli anni Ottanta mio marito è stato trasferito nel carcere di Porto Azzurro sull’Isola d’Elba”, racconta la signora Biondi. “Un giorno vado a colloquio lì e mi arrestano”. La portano nel carcere di Brindisi. “Poi mi faccio i domiciliari”. Il reato è associazione a delinquere semplice. “Dall’88 al ‘93 mi faccio sei anni per associazione a delinquere di stampo mafioso”. Nel 1990 si svolge a Lecce il maxi-processo alla Scu: vengono stabilite 73 condanne tra cui 22 anni di reclusione per Rogoli. In quella occasione viene riconosciuta per la prima volta in Puglia l’aggravante dell’associazione di tipo mafioso. Dal 1992 Rogoli è in regime di 41-bis con condanne definitive all’ergastolo per aver ordinato le esecuzioni di nemici nell’associazione mafiosa. Il 41 bis - “Mio marito sta scontando la sua pena”, dice la signora Biondi, “ma ora per il ritardo nelle cure mediche rischia di perdere la vista”. “Il 41 bis - dice l’avvocata Musso - deve impedire le relazioni tra il detenuto e l’organizzazione criminale, non aggiungere un’ulteriore pena non prevista dal nostro ordinamento”. Dal 1992 Pino Rogoli vive in una cella singola. Dispone di fornelli personali per scaldare cibi già cotti. Nella lettera alla moglie scrive: “Tutto quello che mi hai portato è stato succulento al massimo. Oggi ho mangiato le cime di rapa con la pasta, mi sono scialato”. Con la circolare del 2017 nello spazio comune può fare uso di matite o acquerelli in un numero non superiore a 12. In cella può tenere al massimo quattro libri e non più di trenta foto e ogni foto non può superare i 20x30 cm. Nel 2018 la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per violazione dell’articolo 3 (divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti) per aver rinnovato l’applicazione del 41 bis al detenuto Bernardo Provenzano nonostante le sue deteriorate condizioni di salute. Nel regime del 41 bis il colloquio si svolge con un vetro divisorio a tutta altezza e la comunicazione avviene tramite microfoni o citofoni. Solo ai minori, come il nipote di Rogoli, è concesso il colloquio senza vetro. Nella lettera Rogoli scrive: “Sto bene, i soliti sintomi sono appena percettibili, ho tutt’ora la dolcezza nel cuore per il colloquio di pochi giorni fa”. Secondo la signora Biondi, “fa riferimento agli acciacchi di un ottantenne. Il suo corpo regge nonostante tutto. Sforza l’occhio buono per scrivermi perché le lettere sono il modo per stare vicini”. Il corpo in carcere si fa parola. Il corpo pretende la dignità nella pena, rivendica il diritto di essere curato. Esiste anche il corpo del minore che varca il confine del vetro, si fa testimone del contatto fisico col nonno, costruisce dentro di sé un’idea di Stato e un’idea di famiglia. La donna continua a leggere la lettera: “Mi vanto di avere una moglie che con la sua tenacia supera tutto: avanti sempre, amò”. Poi la ripiega e la mette nella borsa dalla fantasia vistosa che ritrae una donna di spalle mentre guarda l’architettura magnifica di una città d’arte italiana. La fantasia racconta una donna da sola in viaggio. Ma dal fondo della borsa spunta una cancellata scura. Mimina Biondi porta la gabbia sempre con sé. A tracolla, a contatto con il suo corpo che da 44 anni viaggia per l’Italia per incontrare suo marito detenuto, vederlo attraverso un vetro, sentirne la voce metallizzata dal citofono. Nella cella del 41 bis invece la fantasia per Pino Rogoli, fondatore della mafia pugliese e capo di una stagione sanguinaria di omicidi e traffici illeciti, oggi con un occhio offuscato dalla cataratta, è una foto della sua Mimì in formato 20x30. Venezia. Detenuto tunisino trovato morto in cella, era stato arrestato il 30 aprile di Davide Tamiello Il Gazzettino, 9 maggio 2025 Detenuto tunisino trovato morto in cella, era stato arrestato il 30 aprile mentre si calava da un terrazzino dopo un furto. L’hanno trovato morto nella sua cella. Quello di Admene Chaachou, 45enne tunisino, è il primo decesso in carcere del 2025, dopo i tre avvenuti lo scorso anno. L’uomo era stato arrestato la notte del 30 aprile per un furto in casa in via Dei Ronchi. La pattuglia, intorno alle 3 del mattino, lo aveva visto calarsi da un terrazzino di un condominio durante una perlustrazione del quartiere. Gli agenti avevano fermato l’auto, avevano aspettato che scendesse in strada per poi stringergli le manette ai polsi: il 45enne tunisino, vedendo la porta finestra aperta, era salito per cercare di rubare qualunque cosa fosse a portata di mano, per evitare di svegliare i proprietari di casa. Era riuscito a impossessarsi di un cellulare: la refurtiva era stata recuperata e riconsegnata ai legittimi proprietari. Il 5 maggio, l’uomo è stato trovato morto nella sua cella. Il pubblico ministero Laura Cameli ha disposto l’autopsia per capire quale sia stata la causa: non si tratterebbe di un suicidio, come comunicato al suo avvocato, Damiano Beda, e alla famiglia. Termo. Detenuta morta, continua l’inchiesta. Tre decessi nel carcere in un mese di Diana Pompetti Il Centro, 9 maggio 2025 Un indagato per omicidio colposo per la vicenda della detenuta di 44 anni morta il primo maggio nel carcere teramano di Castrogno. L’autopsia ha stabilito come causa del decesso un problema cardiaco, probabilmente un infarto. La nuova tragedia nel carcere di Castrogno con la morte di una detenuta porta con sé un’altra inchiesta della Procura per omicidio colposo con un medico indagato. Si tratta di quello che al momento dei fatti era in servizio alla guardia medica del penitenziario teramano e che ha visitato la 44enne detenuta Rita De Rosa poche ore prima della sua morte avvenuta il 1° maggio. Visita avvenuta dopo che la donna aveva accusato un dolore al petto e durante la quale le è stato somministrato un farmaco: in questa fase l’iscrizione nel registro degli indagati è un atto dovuto in vista di un accertamento irripetibile come l’autopsia disposta dal pm Monia Di Marco ed eseguita ieri pomeriggio dal medico legale Cristian D’Ovidio. Secondo un primo responso dell’esame la morte sarebbe stata causata da un problema cardiaco, probabilmente un infarto. Ulteriori accertamenti, inoltre, sono stati disposti sulla documentazione cartacea sequestrata, a cominciare dalla cartella clinica. E non solo. Nella giornata dell’11 aprile, infatti, la donna aveva accusato dei malori e per questo era stata portata all’ospedale Mazzini da dove, svolti gli accertamenti disposti, era stata dimessa con la diagnosi di una bronchite. La donna di Napoli doveva scontare un cumulo di pena per rapina aggravata. La tragedia ha riacceso le polemiche sul carcere di Castrogno, in particolare sulle condizioni di sovraffollamento della struttura teramana. Così Adele Di Rocco del coordinamento Codice Rosso: “È l’ennesima tragedia in questo carcere. Ci chiediamo: ci sono le figure necessarie e preparate per gestire tanti detenuti con problemi psichici e fisici che a Castrogno sono il 60% del totale?”. Nel mese di marzo nel carcere teramano ci sono stati due detenuti deceduti a causa di malori: il 46enne Domenico Di Rocco e il 42enne Michele Venda, arrivato dal penitenziario romano di Rebibbia e deceduto per un malore che lo ha colpito mentre stava cenando in cella. Castrogno detiene il record di penitenziario più sovraffollato d’Abruzzo con i suoi 400 reclusi, di cui molti malati psichiatrici, a fronte di una capienza pari alla metà con 144 agenti di polizia penitenziari in servizio a fronte dei 218 previsti. Emergenze comuni a molti penitenziari in questo Paese in cui i continui decreti-carcere non sembrano in grado di dare soluzioni a una situazione come quella del sovraffollamento che fa mobilitare anche il Consiglio d’Europa che di recente ha nuovamente espresso grande preoccupazione chiedendo al Governo l’adozione di misure urgenti. Firenze. Bufera sul Garante regionale dei detenuti per l’attacco al Sottosegretario Dalmastro di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 9 maggio 2025 Fanfani: “Non m’importa di quello che dice, Sollicciano deve essere abbattuto”. Dopo la visita a Sollicciano e l’annuncio del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro dello stanziamento di 7,5 milioni per il penitenziario fiorentino, il garante toscano dei detenuti Giuseppe Fanfani risponde categoricamente: “Quello che dice Delmastro non mi interessa. Non ho mai creduto che le sue parole fossero consone a un progetto di recupero sociale dei detenuti”. E poi torna a ribadire che il carcere fiorentino “va demolito totalmente e al suo posto vanno create realtà più piccole”. Secondo Fanfani “Sollicciano è un bell’esempio architettonico, però sotto il profilo funzionale ha dimostrato negli anni di essere assolutamente inadatto. È anche inadatto a un sistema di custodia, ha una forma labirintica nella quale ci si perde”. Fanfani ha poi spiegato che “nelle carceri piccole è possibile avere un sistema di recupero sociale”, invece “nelle carceri grandi il detenuto diventa solo un numero al quale non si può dare alcuna speranza”. Dura la replica alle parole di Fanfani da parte dell’europarlamentare di Fratelli d’Italia, Francesco Torselli: “Non mi sorprendono le parole sgarbate e istituzionalmente poco eleganti del garante toscano dei detenuti nei confronti del sottosegretario Delmastro. D’altronde, Fanfani non svolge il suo ruolo di garante: fa politica e per di più con toni demagogici. Negli anni in cui ci siamo confrontati nella Prima Commissione del Consiglio Regionale, mi sono sentito rispondere frasi come: “che ne sappiamo noi, figli della opulenta società occidentale, di come vivono i reclusi in carcere”, come se in carcere ci si finisse per sorteggio o per gioco”. E ancora: “Ogniqualvolta abbiamo provato a dialogare con lui ci siamo sempre scontrati con una visione ideologica, piena di demagogia e di luoghi comuni. Una deriva che oggi raggiunge il culmine con la risposta: “quello che dice Delmastro non mi interessa”, riferita alla proposta del sottosegretario di investire nella riqualificazione del carcere di Sollicciano”. Nel corso di una conferenza stampa Fanfani ha attaccato il ministero della giustizia anche sul fronte della custodia delle detenute madri. “I nuovi provvedimenti presentano criticità, una di queste non prevede più che una mamma reclusa col bambino o incinta possa ottenere il rinvio dell’esecuzione della pena. Un’altra criticità prevede che le donne madri debbano andare negli Istituti a custodia attenuata (Icam), ma ce ne sono solo tre in tutta Italia. E poi i provvedimenti dicono che se una madre in Icam si comporta male, deve essere separata dal figlio, questo non va bene”. Domenica si svolgerà un presidio a Firenze, in via Margara, dalle ore 10 alle 12, proprio per contestare ciò che è contenuto nel Dl sicurezza sulle madri detenute. Facendo poi una panoramica sugli istituti penitenziari toscani, Fanfani ha detto che le realtà carcerarie più “problematiche” in Toscana sono “Sollicciano, La Dogaia a Prato e Le Sughere a Livorno”. Firenze. “Un carcere disumano”. Il Garante boccia il decreto e Delmastro. È polemica con Fdi di Lorenzo Ottanelli La nazione, 9 maggio 2025 Botta e risposta tra Fanfani e Torselli sul futuro del penitenziario. Domenica sit-in contro l’abolizione del rinvio della pena alle madri. “Questo è un provvedimento securitario che serve a dare un’immagine di un governo forte contro il crimine. Ma oggi le mamme detenute con figli sono 11 in tutta Italia”. Irrompe così il Garante dei diritti dei detenuti della Toscana, Giuseppe Fanfani, alla presentazione del presidio contro il decreto legge che elimina l’obbligo di rinvio della pena per le mamme con figli che hanno meno di un anno di età. Ma è su alcune dichiarazioni su Sollicciano e sul sottosegretario Andrea Delmastro che la polemica politica monta con l’eurodeputato di Fdi, Francesco Torselli. Tutto parte, però, dal palazzo del Pegaso, dove, ieri mattina, si presenta “Madri Fuori” il sit in che domenica, dalle 10, in via Alessandro Margara, alle Murate, porterà parte della società civile a manifestare contro la norma. L’evento è promosso dalla Società della ragione e sostenuto dal Garante per i diritti dei detenuti della Regione. Tante le adesioni, tra cui Cecilia del Re, Federico Gianassi e Serena Spinelli, ma anche Arturo Scotto (Pd) e Clelia Li Vigni (Avs). Tra le associazioni Casa delle donne Firenze e Donne insieme per la pace. “Non è un provvedimento accettabile - continua Fanfani -. Non è così che si affronta un problema sicuramente antipatico”. E non è, per gli organizzatori, neanche accettabile la soluzione adottata. “Gli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri, ndr) non sono adatti - spiega Denise Amerini, responsabile Cgil nazionale per il carcere -, perché sono vere e proprie prigioni. E sono solo tre, tutte nel Nord Italia. Dovremmo, invece, puntare sulle case famiglia”. Monica Toraldo di Francia, filosofa e membro della Società della ragione, specifica: “Questo presidio è la continuazione di un percorso iniziato nel 2023. Oggi assistiamo a un peggioramento. Già 260 costituzionalisti hanno preso una posizione contro questo provvedimento”. La preoccupazione sui diritti dei detenuti non smette di interrogare anche sulle strutture, in particolare su Sollicciano. È nota la posizione di Fanfani, che vorrebbe fosse “demolito totalmente”. Poi, si riferisce al sottosegretario Delmastro, che nelle scorse settimane ha visitato l’Istituto e che si dice contrario alla demolizione. Le sue parole “non sono consone a un progetto di recupero sociale dei detenuti”. Sollicciano, infatti “ha dimostrato di essere inadatto, anche a un sistema custodiale”. Uno dei motivi è la sua grandezza. È, infatti, nelle “carceri piccole che è possibile avere un sistema di recupero sociale”, conclude Fanfani. Pronta la risposta di Torselli, che definisce “sgarbate e istituzionalmente poco eleganti” le parole di Fanfani, che “fa politica, e per di più con toni demagogici. Ogniqualvolta abbiamo provato a dialogare, ci siamo scontrati con una visione ideologica”. Il sostegno a Delmastro, invece, è confermato: “ha posto attenzione sul carcere e ha annunciato interventi concreti. Tutte azioni che i governi amici di Fanfani non hanno mai compiuto. Forse è per questo che si è tanto inalberato”. Bologna. Messaggio dal carcere minorile del Pratello: “Non voglio più vivere” di Camilla De Meis incronaca.unibo.it, 9 maggio 2025 I Radicali in visita al penitenziario raccontano il dramma dei detenuti minorenni. Da una finestra del carcere minorile del Pratello vola un aeroplanino di carta, scendendo in picchiata sul campo sportivo dell’istituto penitenziario di Bologna. Il disegno di una barca e una scritta, rossa, in un italiano arrangiato racconta di una sorte poco clemente. “Non voglio più vivere”, è il messaggio arrotolato alla bell’e meglio. Mosso dal vento, atterra, viene preso e tirato su da un agente della polizia penitenziaria che accompagna la visita di Filippo Blengino e Bianca Piscolla, dei Radicali Italiani, nell’istituto minorile. Quel bigliettino lo custodisce poi nella sua tasca e il giro per gli ambienti del carcere sovraffollato da mesi può continuare. I detenuti, dopo pranzo, tornano in sezione. C’è chi guarda un film alla televisione, chi invece segue gli esponenti del partito che, nell’ultimo anno, hanno girato gli istituti minorili d’Italia per verificare le condizioni in cui versano. I corridoi sono cupi, la sporcizia è dappertutto al Pratello, raccontano. Al primo piano, si affacciano i giovanissimi. Il più piccolo ha quindici anni ed è entrato proprio quel giorno. Al piano di sopra, invece, ci sono i quasi adulti, il più grande ha ventidue anni. Blengino e Piscolla parlano di un luogo senza luce, dove gli spazi sono angusti. Di celle singole neanche l’ombra. In tutto, i ragazzi sono quarantotto, la capienza massima che gli ambienti possono raggiungere è, invece, di quaranta persone. A detta dei radicali, a pesare sono i cinquanta nuovi reati introdotti di recente nel Codice che stanno letteralmente facendo esplodere le carceri, dove l’attenzione al singolo è, ormai, bistrattata. La mancanza di personale e la quasi totale assenza di medici rendono le condizioni dei giovani detenuti durissime. “La maggior parte di loro sono minori stranieri non accompagnati, arrivati al penitenziario di Bologna spesso sotto l’inganno di una realtà migliore, spesso dopo essere già passati per altri luoghi di detenzione crudeli”, continua Piscolla che, durante la visita, scambia qualche parola con i ragazzi. “Voglio tornare a Nisida”, il carcere minorile napoletano, nell’omonima isoletta. “Aiutami a uscire”, dicono. Indossano tute della Nike e magliette griffate che, all’occorrenza, si scambiano per non farsi mai vedere vestiti uguali. “Le tendenze arrivano anche in carcere, d’altronde non c’è niente che li differenzi dai ragazzi che stanno fuori dal grigio edificio che li rinchiude”. Anche se, continua la radicale, dentro le condizioni igieniche sono decisamente al di sotto della media. “I casi di scabbia? Frequentissimi”. Irrequieti, alcuni se ne stanno in gruppetti e scherzano tra di loro con una complicità nuova e forzata dal destino comune. Altri, invece, preferiscono passare il proprio tempo in disparte. Forse la timidezza o la sensazione di sentirsi esposti, secondo Piscolla, “messi in mostra agli occhi di chi non condivide la stessa sfortuna”. “Molti di loro sono tunisini e hanno già vissuto la prigionia nel Paese d’origine e quando arrivano in Italia, soli, senza nessuno che gli guarda le spalle, arrangiarsi è l’unica speranza che hanno”, dicono i radicali che guardano ai reati commessi dalla maggior parte dei ragazzi come atti “di sopravvivenza”. Si tratta, perlopiù, di spaccio, incoraggiato, per forza di cose, dal consumo di stupefacenti. Secondo i dati forniti dal direttore del Pratello e della Dozza, Alfonso Paggiarino, molti dei ragazzi che entrano sono dipendenti da Rivotril e Lyrica, riconosciute in gergo come “l’eroina dei poveri”. Le compresse, a base di benzodiazepine, sono facili da avere (e da spacciare), costano pochissimo e, se ingerite in grande quantità, o meglio, mischiate con l’alcol, riproducono un effetto stupefacente. Passata un’ora nell’istituto minorile del Pratello, gli esponenti di Radicali Italiani sono forti di una convinzione: “Il disagio psichico in cui si trovano i ragazzi è il segno di un’emergenza che non può non essere ascoltata dal Governo. Il sovraffollamento distrugge ognuno di loro, perché non sono seguiti con trattamenti individualizzati, consueti nell’istituzione carceraria minorile. Questo produce una marginalizzazione condita da sintomi psichici evidenti come l’autolesionismo”. L’obiettivo del percorso tra le carceri d’Italia di cui il partito si è fatto carico è di fare breccia nell’Esecutivo Meloni, auspicando che le carceri minorili possano, un giorno, essere abolite, in virtù della costruzione di strutture alternative dove “le attività di riabilitazione e reinserimento tengano conto della dignità umana”. Ancona. “Aiuto cuoco”, un futuro per tredici detenuti di Giacomo Giampieri Il Resto del Carlino, 9 maggio 2025 Si è concluso il progetto di inclusione sociale al carcere di Barcaglione destinato all’inserimento occupazionale: la pratica in aziende del territorio. Dalla detenzione alla Casa di reclusione di Barcaglione ad una futura prospettiva di occupazione dopo il carcere per tredici detenuti che hanno superato l’esame e ottenuto la qualifica di “aiuto cuoco”. Si è tenuto infatti ieri il momento conclusivo del progetto di inclusione sociale, attuato dalla Regione con fondi Fse Plus 2021/2027, destinato all’inserimento occupazionale di soggetti in condizione di svantaggio. Il progetto, che ha visto tra gli attori anche l’Ufficio regionale del Garante dei diritti Giancarlo Giulianelli ha interessato complessivamente quindici detenuti. Tra loro, tredici hanno portato a compimento il programma di formazione e hanno potuto prendere parte, anche attraverso misure alternative alla reclusione, al corso di abilitazione alla professione in cucina. La prova finale si è svolta presso il polo professionale della Casa di reclusione di Barcaglione, cui è seguita una conferenza stampa in presenza dello stesso garante Giulianelli, della direttrice del carcere Manuela Ceresani e dei vertici del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria, dei responsabili dei Servizi regionali delle attività di formazione, dei docenti e del coordinatore del corso Elio Aureli, legale rappresentante dell’Ente formativo Fores Marche. Corposa, soprattutto, la presenza delle aziende e delle strutture che hanno ospitato la formazione e gli stage dei detenuti. Molte delle quali, peraltro, sono realtà che sorgono tra Ancona e Falconara. “La parte pratica del corso - ha integrato il garante Giancarlo Giulianelli - si è svolta in aziende del territorio che potranno rappresentare in futuro luoghi di approdo professionale di queste persone”. E in effetti sono già nove i detenuti che, al termine della detenzione o in regime misto, potranno essere assunti da queste aziende. “Attività che operano nel settore della ristorazione, della pasticceria, della panificazione e della rosticceria”, ha sottolineato Aureli. Fondamentale, dunque, la collaborazione della “comunità esterna”, sensibile e aperta nell’accogliere percorsi di reinserimento lavorativo e inclusione sociale dei detenuti. L’importanza di questi corsi è stata sottolineata anche dalla direttrice Ceresani che ha sottolineato come all’interno della Casa di reclusione di Barcaglione si svolgano anche attività lavorative per l’agricoltura (e la produzione di miele, olio e formaggio), ma anche lavori interni e corsi professionalizzanti, come quello per aiuto cuoco. “Questo, come altri corsi realizzati o in svolgimento presso altri istituti di reclusione - ha concluso Giulianelli - si collocano nel solco delle azioni rivolte alla riabilitazione, al recupero e al reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti”. Parma. “Liberi di ricominciare”: un incontro per riflettere sul mondo del lavoro e carcere parmatoday.it, 9 maggio 2025 Venerdì 9 maggio, alle ore 18:00, presso Cubo in via La Spezia a Parma, si terrà un incontro pubblico promosso dal Gruppo consiliare di Azione Parma, dedicato al tema carcere e lavoro. Dopo i saluti iniziali di Serena Brandini, Capogruppo di Azione in Consiglio comunale a Parma e Segretario provinciale di Azione, si aprirà un momento di confronto con l’On. Fabrizio Benzoni, Deputato di Azione, per approfondire le prospettive e le criticità del sistema penitenziario italiano, con uno sguardo particolare alla realtà locale e ai progetti di reinserimento lavorativo attivi nel carcere di Parma. Interverranno: Roberto Cavalieri, Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà dell’Emilia-Romagna, Veronica Valenti, Garante comunale dei diritti dei detenuti del Comune di Parma, Maria Cecilia Scaffardi, Direttrice della Caritas Diocesana di Parma, Giuseppe La Pietra, del Segretariato permanente per l’inclusione dei detenuti del Cnel. Sarà presente anche la Camera penale di Parma. Anche il mondo dell’impresa che da anni collabora con il carcere porterà la propria testimonianza con le voci dell’azienda Chibo S.r.l e della Cooperativa Biricca. L’incontro sarà un’occasione per riflettere, attraverso voci qualificate e testimonianze dirette, su come il lavoro fuori e dentro il carcere possa essere un’opportunità rieducativa ma anche la possibilità di creare condizioni di sicurezza per la città e un territorio intero. San Gimignano (Si). Università senza confini: nel carcere lezione sul diritto internazionale unisi.it, 9 maggio 2025 Università senza confini: educazione innovativa per studenti dentro e fuori le mura del carcere. Lezione presso la Casa di Reclusione di San Gimignano. L’istruzione universitaria varca i cancelli del carcere e si fa laboratorio d’innovazione educativa. Studenti reclusi iscritti a corsi di laurea dell’Università di Siena, insieme ad altri detenuti e ad oltre quaranta studentesse e studenti del corso di laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche (LM-52) dell’Ateneo, hanno partecipato, presso la Casa di Reclusione di San Gimignano alla lezione-seminario “Le sfide attuali della comunità internazionale: implicazioni politiche, economiche e in materia di diritti umani”, tenuta dal professor Federico Lenzerini. La lezione, che si è tenuta mercoledì 7 maggio, ha rappresentato un momento importante di condivisione dell’esperienza di studio e, a detta degli educatori, forte è stato il coinvolgimento sia degli studenti esterni che degli studenti interni alla struttura carceraria. L’evento è stato caratterizzato da un alto grado di interazione tra studentesse e studenti esterni e i detenuti, da cui sono scaturiti momenti di alto significato accademico ed umano, talvolta anche commoventi, nell’ambito dei quali i detenuti hanno raccontato le loro storie, i propri sentimenti, speranze e aspettative per il futuro, rispondendo alle domande e ai commenti di studentesse e studenti. Oltre che dal professor Federico Lenzerini, il gruppo di studenti esterni era accompagnato dal professor Gianluca Navone, Delegato del Rettore per il Polo Penitenziario Universitario della Toscana. Gli scambi di esperienze educative fra l’interno e l’esterno dell’ambito carcerario si stanno affermando come importanti opportunità di crescita per i partecipanti. Questa esperienza arriva dopo l’avvio, alcune settimane fa, dell’innovativo progetto che consente a studenti detenuti di seguire, in collegamento telematico, l’intero corso di lezioni di “Diritto di famiglia”, insieme agli studenti frequentanti in presenza presso la sede di Siena. Presso la struttura carceraria da anni si tengono le attività didattiche del Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Siena; sono oltre un centinaio gli studenti iscritti che hanno preso parte ad attività universitarie dell’Ateneo senese e già diversi di questi hanno conseguito il titolo di laurea. Roma. A Rebibbia l’inclusione comincia dal cibo Avvenire, 9 maggio 2025 Pranzo preparato dai detenuti dell’istituto penitenziario romano che stanno frequentando le lezioni e i laboratori di cucina della scuola alberghiera “A. Vespucci”, con il sostegno di Unicoop Tirreno. Un pranzo preparato dai detenuti dell’istituto penitenziario di Rebibbia, a Roma, che stanno frequentando le lezioni e i laboratori di cucina della scuola alberghiera “A. Vespucci”, con il sostegno di Unicoop Tirreno, che ha messo a disposizione gli alimenti. Il progetto è nato diversi anni fa con l’obiettivo di offrire un’opportunità concreta di formazione professionale, favorendo così il reinserimento nella società e un percorso di riscatto personale. Il programma prevede lezioni teoriche e pratiche e culmina in un esame finale che consente di ottenere il diploma alberghiero. I prodotti alimentari - come pasta, farina, frutta, verdura e tutto quello che occorre per preparare piatti e prodotti tipici - per il pranzo così come per i corsi di cucina, sono offerti da Unicoop Tirreno, la Cooperativa di consumo, presente nel Lazio, in Toscana e in Umbria, che, in linea con i suoi principi fondativi, ha deciso di sostenere l’iniziativa per dare attuazione concreta all’articolo 27 della Costituzione, sulla finalità rieducativa della pena. All’evento hanno partecipato anche il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, l’assessore alla Cultura del IV Municipio di Roma, Maurizio Rossi, il dirigente scolastico dell’alberghiero “Vespucci” di Roma, Fabio Cannatà, gli studenti e i docenti della scuola. I corsi e i laboratori, di durata quinquennale, coinvolgono sia la Casa di reclusione maschile che la Casa circondariale femminile dell’Istituto penitenziario di Rebibbia, e hanno il sostegno del Garante, dell’Istituto penitenziario di Rebibbia e del IV Municipio di Roma Capitale. Durante la mattinata è stato presentato il libro Dieta Mediterranea, scritto dalla medica e ricercatrice Vincenza Gianfredi e dal dietista Daniele Lucci, al quale è seguito un dibattito che ha coinvolto anche gli studenti. Il volume, attraverso analisi supportate da studi e ricerche, consigli pratici, suggerimenti, ricette semplici e veloci da preparare, punta a fornire ai lettori i principi fondamentali per un valido e sano comportamento alimentare. Al termine, sono stati degustati alcuni piatti presenti nel libro, preparati dai detenuti iscritti alla Scuola Alberghiera. “Siamo molto felici di aver aderito all’appello del professor Reale, fornendo i generi alimentari per i corsi dell’Istituto Alberghiero e per il pranzo di oggi, perché crediamo fortemente nel ruolo che lo studio e la formazione professionale possono avere per il riscatto sociale. Un piccolo contributo per un grande progetto, per fare in modo che nessuno resti indietro. Tra i principi della nostra Cooperativa ci sono la solidarietà, l’inclusione e l’attenzione alle persone, in particolare quelle più in difficoltà. Per questo, da tanti anni, anche attraverso i nostri soci locali, collaboriamo e supportiamo diversi Istituti penitenziari nei territori dove siamo presenti, per contribuire concretamente al reinserimento sociale e professionale delle persone detenute e dare loro una nuova opportunità”, ha dichiarato Simonetta Radi, presidente di Unicoop Tirreno. “Grazie agli stimoli di soggetti esterni, le amministrazioni pubbliche, quella penitenziaria e quella scolastica, buttano il cuore oltre l’ostacolo nel perseguimento della finalità costituzionale della pena. I soggetti terzi, persone che decidono di essere coinvolte, sono coloro che agiscono senza obbligo, perché credono in ciò che fanno. La Coop lo fa perché condivide quei principi. Qui ci sono soggetti terzi che dedicano il loro tempo e mettono quel di più che motiva le amministrazioni a impegnarsi con passione. Sono momenti che danno senso a quello che stiamo facendo qui dentro: un investimento sulle persone che scontano la loro pena, con la consapevolezza che la pena deve finire e che bisogna offrire alle persone detenute una possibilità di reinserimento nel futuro”, conclude Anastasìa. Brindisi. “Dai rifiuti all’emozione: un viaggio di creatività e riscatto” brindisireport.it, 9 maggio 2025 Il progetto che unisce genitori detenuti e i loro figli. Un progetto che l’associazione ambientalista Ekoclub International, sezione provinciale di Brindisi-OdV, con il patrocinio del Comune di Brindisi, intende realizzare in collaborazione con la Casa circondariale di Brindisi. Presentato oggi a Brindisi il progetto “Dai rifiuti all’emozione: un viaggio di creatività e riscatto” che l’associazione ambientalista Ekoclub International, sezione provinciale di Brindisi-OdV, con il patrocinio del Comune di Brindisi, intende realizzare in collaborazione con la Casa circondariale di Brindisi, destinato ai genitori uomini detenuti in città e ai loro figli. Si svolgerà durante gli incontri che si effettuano per due volte al mese, nell’ambito del progetto già esistente di “bambini senza le sbarre”. “Il progetto che si intende realizzare ci è sembrato di particolare spessore - ha commentato l’assessore comunale all’Ambiente, Livia Antonucci -. Le attività prevedono diversi laboratori finalizzati alla creazione di oggetti ottenuti con materiali da riciclo, con l’obiettivo educativo-pedagogico di trasmettere prassi quotidiane anti-spreco e di riutilizzare oggetti di uso comune, affinché abbiano una seconda vita”. “Voci lontane”: diario di un professore in carcere di Marco Pozzi volerelaluna.it, 9 maggio 2025 Da qualche tempo i lettori di Volere la luna possono leggere la rubrica Noterelle dal carcere, tenuta da “un insegnante in un istituto penitenziario del Paese, non importa quale”. L’autore è Tazio Brusasco, che ha raccolto le sue testimonianze e riflessioni in un libro uscito da poco: “Voci lontane. Un anno di scuola nel carcere delle Vallette di Torino”, Baima Ronchetti editore. Come la rubrica, anche il libro contiene “affreschi di vita quotidiana finalizzati a restituire dignità e umanità a una condizione che spesso non ce l’ha”; il libro contiene tanti affreschi, e ne è anche la cornice, con la storia autobiografica del trasferimento da una scuola a nord di Torino alla scuola all’interno della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. L’autore si avvicina al nuovo lavoro con prudenza, con un po’ di timore e un po’ d’entusiasmo, fra l’approccio professionale dell’insegnante che deve affrontare un nuovo metodo d’insegnamento e l’essere umano di fronte a un’inedita avventura di vita. Nel libro c’è cronaca degli eventi insieme a riflessioni più generali, che tentano di dare un senso all’esperienza, per affrontarla meglio. La prima scoperta: “il fatto che la scuola in carcere è una normale scuola per adulti, uguale a quella che si svolge fuori, dura tre anni e ha gli stessi programmi ed esami conclusivi”. All’interno dell’istituto Giulio, cioè, alcune classi si svolgono in carcere, in dinamiche, limiti e stimoli molto diversi rispetto alla scuola comunemente conosciuta. Per capirne le differenze - o quantomeno, a immaginarle, a supporle - è utile sospendere momentaneamente il resoconto sul libro e inquadrare il sistema; e a capirci qualcosa aiuta il report annuale dell’associazione Antigone, che dal 2007 monitora le condizioni di detenzione in Italia. L’ultima edizione, uscita nel 2024 è la ventesima, e come al solito riassume dati, considerazioni, testimonianze, dossier tematici che tracciano una panoramica aggiornata ed esaustiva. Innanzitutto: in Italia sono presenti 189 istituti carcerari, di cui almeno il 20% è stato costruito a inizio Novecento, quindi con bisogno costante di manutenzione e ristrutturazione. Dentro queste strutture, a fine marzo 2024, erano detenute 61.049 persone, ben oltre la capienza ufficiale di 51.178 posti. Come la popolazione italiana, anche la popolazione carceraria sta invecchiando: il 10% oggi ha oltre 60 anni, mentre la fascia più rappresentata è quella compresa tra i 45 e i 59, col 32,2% dei presenti, rispetto al 25,3% di dieci anni fa; nello stesso tempo è calata la fascia con età inferiore ai 35 anni, dal 38,4% al 29,6% attuale. I residui di pena che devono scontare le persone detenute sono aumentati: per residui superiori ai tre anni, ergastolani inclusi, si è passati dal 36,2% dei presenti del 2010 al 43,8% del 2015 al 48,7% del 2023. Eppure, secondo i dati nel Dossier di Ferragosto del Viminale, nei primi sei mesi del 2023 i delitti denunciati dalle forze di polizia all’autorità sono stati 1.228.454, mentre nello stesso periodo del 2022 il numero erano 1.299 350, con una diminuzione del 5,5%. Quindi: meno delitti, pene che aumentano, benché gli ingressi storicamente diminuiscano: 92.800 nel 2008, 43.417 nel 2024. Fra le tante statistiche, per comprendere meglio anche Voci lontane, si possono citare quelle relative alle persone detenute che studiano, sia per prepararsi al lavoro, sia per colmare lacune e promuovere la crescita personale, elemento indispensabile per il futuro reinserimento in società. A fine giugno 2023, per l’anno scolastico 2022-23, sono stati erogati 1.760 corsi scolastici, con 19.372 persone iscritte (9.002 stranieri) di cui 47,8% ha ottenuto la promozione. Sono attivi inoltre 274 corsi di formazione professionale con 3.359 iscritte (il 5,8% del totale dei reclusi). Nell’anno accademico 2022-23 si contano inoltre 1.458 studenti universitari (1.406 uomini e 52 donne), di cui 1.270 detenuti in 97 istituti penitenziari e 188 in esecuzione penale esterna o fine pena. La Conferenza Nazionale dei Poli Universitari Penitenziari (CNUPP) include 44 università che gestiscono i corsi offerti agli studenti: l’86,9% degli iscritti frequenta un corso di laurea triennale (41 si sono laureati nel nell’anno solare 2022); il 12,9% frequenta un corso di laurea magistrale o a ciclo unico (10 si sono diplomati nel 2022); 2 detenuti sono iscritti a un corso post-laurea. I corsi ricadono nell’area politica sociale (27%) nell’area letteraria-artistica e giuridica (15%), agro-alimentare (12%), scienze, tecnologie, ingegneria, matematica (8%), storico-filosofica (8%), psico-pedagogica (7%), economica (6%), medico-sanitaria (2%). Ecco, dentro questi numeri si è mosso Tazio Brusasco nella sua esperienza d’insegnante nel carcere della Vallette a Torino, fin dalla prima impressione: “Da quanto inizio a vedere, qui come fuori, oltre a erogare una formazione culturale, la scuola concede tempo alla persona. È il fondamentale tempo della crescita, non segnato da esigenze di performance o frenesie produttive. È libertà, tempo balsamico e fecondo: se non hai capito, mi fermo, anzi ci fermiamo, e ripetiamo. Così si impara ad avere diritto di sbagliare e a essere solidali con chi fatica, una lezione civile. Anche in carcere il vero punto di forza della scuola è il tempo. Di qualità, riflessivo, introspettivo. E gratuito”. Attraverso le parole il lettore di Voci lontane potrà scoprire il carcere, l’edilizia, i controlli, il colore dei muri di cinta, gli otto padiglioni, l’ICAM (Istituto a Custodia Attenuata per detenute Madri, con figli fino ai sei anni), il bar, i circa duecento gatti della colonia che animano corridoi e cortili. Ogni giorno è un’avventura, un resoconto veloce, come in vignette di fumetto, scene da un Candido opposto dove sembra d’esser precipitati nel peggior mondo possibile: il furto di un televisore, il racconto dello spaccio in strada, le confessioni, i collaboratori di giustizia, affettività e sessualità proibite, la persona detenuta con la mamma morente fuori, l’isolamento più forte durante le feste, i tanti suicidi, gli psicofarmaci per non sentire le angosce, per inebetirsi: per sopravvivere e non pensare. C’è la paura di uscire dal carcere per tornare in libertà, senza la forza, le certezze, gli appoggi per poterla affrontare. Ma nel libro c’è anche ironia, episodi che sembrano di quotidianità per ciascuno di noi, nei corridoi anziché nelle vie, nei cortili anziché nelle piazze, nelle celle anziché nelle case. Perché il carcere è una piccola cittadina, un quartiere a sé, relegato ai margini dalla società, spesso nelle periferie cittadine (com’è appunto a Torino): il torneo di calcio, la preghiera dei detenuti musulmani e i sacerdoti cristiani, la gestione dei soldi con un conto corrente interno per ogni detenuto. “Quanto ancora dovrò stare qui?” è la domanda con cui ci si sveglia al mattino, che rimbomba ad alte frequenze in testa per tutto il giorno, per tutti i giorni di reclusione. Anche l’autore, nel suo ruolo di professore, ascoltando simili confessioni apporta riflessioni a impreziosire la sua esperienza. Si collega all’evoluzione storica della pena, dalla testimonianza di Calpurnio Flacco nel II secolo d.C., a Cesare Beccaria e al suo Dei delitti e delle pene nel 1766, ai pensieri di Michel Foucault sulla nascita di nuovi penitenziari nei tempi della rivoluzione industriale, fino alla sentenza Torreggiani del nostro millennio europeo. Si parla di recidiva, modelli alternativi di scontare la pena; di giustizia riparativa, per far incontrare chi ha compiuto un reato con chi ne ha subito le conseguenze, in un percorso di mediazione progressivo e faticoso; di vittime di reati, e sul ruolo degli agenti carcerari, che sono reclusi come gli stessi reclusi che controllano, condividendo i medesimi spazi e in simbiotiche segregazioni. Le riflessioni più ampie sono intorno alla scuola: l’utilità del voto, se espresso in numero nudo per la singola prova, oppure in forma di commento che prenda in esame molteplici fattori per prepararsi alla prova; si ragiona sulla necessità per un allievo di sapersi autovalutare, che sia dentro oppure fuori. E intanto si racconta l’organizzazione delle biblioteche nei padiglioni, coi meccanismi di autorizzazioni che spostano libri sui carrelli, in un sistema “porta a porta” (alle Vallette ci sono cinque biblioteche, in un catalogo di circa 25.000 libri e 1.500 audiolibri, nel circuito torinese del prestito interbibliotecario). Alcuni detenuti poi si stanno impegnando per ottenere la laurea, poiché alle Vallette c’è un Polo universitario, dove si studia prevalente scienze politiche e giurisprudenza, con spazi aperti di discussione, e aule per seguire lezioni da docenti e collaboratori dai vari dipartimenti. L’autore avanza nella scoperta della nuova realtà con spirito prudente, esplorativo, ma con le orecchie tese, la vista aguzza, i sensi pronti, per assorbire quanto più possibile da rielaborare alla ricerca di una qualche saggezza. Nella prefazione lo riconosce anche Elena Lombardi Vallauri, la Direttrice del carcere di Torino: “quella voglia di essere una persona intensamente presente a sé stessa, alla vita, al mondo, alla società, di svolgere il proprio compito con serietà e serena consapevolezza di quanto sia complicato ma non per questo, anzi, non meritevole di tutta la sua buona volontà”. Di solito si recensisce un libro parlando del testo e dell’autore. Per Voci lontane, recensendo il libro, s’ha l’impressione di recensire l’intera popolazione a cui si riferisce, di attingere alle parole, ai pensieri e ai sentimenti delle persone detenute che l’autore ha incontrato, o forse soltanto immaginato. Il libro stesso è la recensione di una condizione di vita, fra mura che staccano dalla società una fetta d’umanità, relegandola in un modellino distorto di vita. Voci lontane non si esaurisce negli aneddoti che riporta, ma lascia intravvedere tutto ciò che intorno a tali eventi aleggia, il diverso tipo d’ossigeno che fa respirare i reclusi. Il titolo poi allude alle “voci”, che arrivano da lontano: che sono lontane, per quanto echi delle nostre stesse voci. Ma sono anche le nostre voci, e in questo libro possiamo ascoltarle. Il libro sarà presentato al Salone del Libro di Torino sabato 17 maggio, ore 19.30-20.30, nello Spazio Arancio. Un ibrido tra il sistema giustizia e l’Ia: appunti per un futuro non remoto di Antonella Trentini* Il Dubbio, 9 maggio 2025 Possibile che l’algoritmo diventi, fra non molto, un giudice o un avvocato virtuale, e che all’opera umana spettino la vigilanza e l’ultima parola? Trentini, presidente Unaep, è convinta di sì. Anche se riconosce che le stesse norme appena introdotte rischiano di essere già inadeguate. È del tutto plausibile immaginare che in un orizzonte temporale di un decennio l’AI possa essere utilizzata in modo generalizzato e sofisticato soprattutto in contesti di bassa discrezionalità e alto tasso di ripetitività. Accade già, ad esempio, in Estonia, ove è in sperimentazione un “giudice virtuale” che, per le controversie di basso valore (poche migliaia di euro), propone una decisione preliminare al giudice umano supervisore. Ritengo che vi siano campi in cui l’AI potrebbe trovare applicazione immediata, come nel caso dei procedimenti amministrativi di massa, ad esempio i provvedimenti sanzionatori e\o autorizzatori. In questo contesto, l’AI potrebbe essere utilizzata per analizzare i dati forniti dagli organi accertatori, verificare la sussistenza dei presupposti normativi e generare automaticamente un provvedimento motivato. Questo modello non solo aumenterebbe l’efficienza dell’amministrazione, riducendo i tempi di attesa per i cittadini, ma garantirebbe anche una maggiore uniformità nelle decisioni amministrative, riducendo il rischio di errori o disparità di trattamento e, finalmente otterrebbe il vero risultato di deflattore del contenzioso seriale che affossa la giustizia civile. Un altro ambito in cui l’AI potrebbe essere utilizzata è quello delle controversie amministrative relative ai ricorsi contro provvedimenti sanzionatori. In questi casi, l’AI potrebbe analizzare la documentazione presentata dalle parti, confrontarla con i precedenti giurisprudenziali e suggerire una soluzione motivata, lasciando all’autorità amministrativa o al giudice il compito di approvarla. Nel settore civile, utilizzando i medesimi ragionamenti e criteri, l’AI potrebbe essere utilizzata principalmente nei procedimenti di modico valore, come le controversie dinanzi al giudice di pace. In questo contesto, l’AI potrebbe analizzare il materiale probatorio, applicare le norme pertinenti e proporre una bozza di sentenza, riducendo significativamente i tempi di risoluzione delle controversie. Sebbene il settore penale sia molto peculiare e tratti questioni sensibili, ciò non toglie che una applicazione dell’AI rispettosa dei principi di “legalità algoritmica” potrebbe svolgere un ruolo significativo, usando maggiore cautela e partendo da reati di minore gravità per evitare che l’automazione comprometta i principi fondamentali del processo penale, come la presunzione di innocenza e il diritto alla difesa. L’algoritmo consente di risolvere un compito specifico a partire dai dati che un essere umano inserisce in ingresso, ecco perché l’opera umana non potrà mai essere sostituita dall’AI, ma ha il compito fondamentale di gestire, vigilare, dirigere e decidere questo passaggio epocale. E questo, anche per evitare il fenomeno delle cosiddette “allucinazioni di intelligenza artificiale”, termine di recentissimo conio dopo la disavventura accaduta nei giorni scorsi a un collega fiorentino, il cui sistema di IA utilizzato avrebbe generato risultati errati inventando di sana pianta sentenze di Cassazione inesistenti. Ecco spiegata la necessità di grande cautela e di attribuibilità della responsabilità ad un umano del prodotto finale. Ritengo, ad ogni buon conto, che la via sia oramai segnata: in prospettiva l’AI non potrà che evolvere fino a diventare un vero e proprio “contenitore difensivo” con un “giudice virtuale”, quantomeno per determinate categorie di controversie classificabili. Con una programmazione adeguata, un’AI potrebbe non solo applicare norme e principi consolidati, ma anche affrontare questioni innovative, analizzando nuove norme e proponendo interpretazioni coerenti con il sistema giuridico. Ad esempio, un’AI potrebbe essere programmata per bilanciare diritti costituzionali in conflitto, applicando principi come la proporzionalità e la ragionevolezza sulla base dei criteri forniti dalla giurisprudenza e dalla dottrina. Questa prospettiva richiede un livello di evoluzione tecnologica che forse non è ancora pronto, ma richiede soprattutto un quadro normativo e istituzionale chiaro e preciso, che garantisca la supervisione e la responsabilità umana. Ciò malgrado sono convinta che ci siano ambiti in cui l’AI difficilmente potrà sostituire il difensore umano e il giudice umano, almeno nel breve termine. Pensiamo, ad esempio, alle questioni politiche o eticamente controverse, come l’eutanasia, la salute, la religione, i diritti delle minoranze o le decisioni relative alla sicurezza nazionale. In questi casi, il bilanciamento dei valori costituzionali e, in ogni caso, la “legalità algoritmica”, sono strettamente legati a fattori culturali, morali e sociali, che richiedono una esperienza e una sensibilità che l’AI, per quanto avanzata, non può replicare. E allora, guardando al futuro, è auspicabile che la giustizia italiana, bisognosa di celerità e equità, adotti un modello ibrido, in cui l’AI e il “sistema giustizia” umano, inteso come difensore/giudice, collaborino per migliorare l’efficienza e la qualità delle decisioni, con l’AI non solo come supporto per l’analisi dei dati e la proposta di soluzioni, ma come vero e proprio ausiliario dell’avvocato e del giudice allo scopo di velocizzare una volta per tutte la giustizia italiana, lasciando l’avvocato e il giudice custodi ultimi della giustizia per garantire decisioni eque e conformi ai principi fondamentali del diritto. Ma per entrare nel futuro col piede giusto è necessario avere un quadro normativo chiaro e la garanzia di un controllo rigoroso sull’uso dell’AI non solo a livello nazionale ma anche europeo. Siamo certi che il testo di legge attualmente in Senato che limita alle attività di supporto non nasca già vecchio? Chiediamolo all’AI. *Presidente Unaep e direttore avvocatura civica di Bologna Mattarella: “Che la missione di Papa Leone XIV porti dialogo, giustizia e pace” Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2025 Il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella ha fatto pervenire a Leone XIV “fervidi auguri per lungo e fecondo pontificato. Che la sua missione porti dialogo, giustizia e pace”. Poco dopo l’annuncio dell’elezione al soglio pontificio del cardinale americano Robert Francis Prevost sono cominciate le reazioni provenienti da ogni parte del mondo. Tra i primissimi, il presidente americano Donald Trump: “Congratulazioni al cardinale Robert Francis Prevost, che è stato appena nominato papa. È un onore realizzare che è il primo papa americano. È emozionante è un onore per il nostro paese. Non vedo l’ora di incontrare papa Leone XIV. È un momento molto significativo”, afferma Trump. La premier italiana Giorgia Meloni ha inviato al nuovo Papa una lettera che inizia così: “Santo Padre, Le porgo le felicitazioni mie personali e del Governo italiano per la Sua elezione al Soglio di Pietro”. Nella lettera Meloni afferma che “il mondo ha disperato bisogno” di pace, che “Lei, dalla Loggia della Benedizioni, ha invocato più volte, richiamando l’incessante e instancabile azione portata avanti dal compianto Papa Francesco”. La premier coclude la lettera firmandola “con affetto filiale”. La segretaria del Pd Elly Schlein ha sottolineato come il nuovo Papa abbia parlato di pace e invitato a costruire ponti. L’auspicio del Presidente della Camera dei deputati, Lorenzo Fontana è che quello di “Papa Leone XIV” sia “un fecondo Magistero. È grande la gioia per questo momento storico, resa ancor più profonda dalla scelta di un Pontefice missionario che ha coltivato il dialogo tra i popoli. Un omaggio al Santo Padre, con lo sguardo rivolto a un futuro di pace e cooperazione tra i popoli. Nell’alta missione di guida spirituale della Chiesa universale, possa il Suo Magistero essere faro di dialogo, concordia e speranza per l’intera umanità”, ha detto Fontana. Auguri al nuovo Papa anche dal rabbino capo di Roma: “Formulo al nuovo papa Leone XIV appena eletto i migliori auguri di successo nell’impegnativa missione che gli è stata affidata per il bene dell’umanità. Confido nel suo impegno a mantenere e promuovere i rapporti di collaborazione, rispetto e amicizia tra le nostre comunità”, ha dichiarato Rav Riccardo Di Segni. Dall’Europa, tra i primi a congratularsi il premier spagnolo Pedro Sanchez. “Congratulazioni a tutta la Chiesa cattolica per l’elezione del nuovo Papa Leone XIV. Possa il suo pontificato contribuire a rafforzare il dialogo e la difesa dei diritti umani in un mondo bisognoso di speranza e di unità”. Auguri anche dal fresco cancelliere tedesco Friedrich Merz, che sottolinea come il nuovo Pontefice offre “speranza e guida a milioni di credenti in tutto il mondo in questi tempi difficili”. E anche il presidente tedesco, Frank-Walter Steinmeier, ha inviato al nuovo Papa Leone XIV la sua “benedizione di cuore” a nome della Germania. Per il presidente francese Emmanuel Macron è un “momento storico per la Chiesa cattolica e i suoi milioni di fedeli. A Papa Leone XIV, a tutti i cattolici di Francia e del mondo, rivolgo un messaggio fraterno. In questo 8 maggio questo nuovo pontificato sia portatore di pace e speranza”. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa, dichiarano: “Milioni di europei traggono quotidianamente ispirazione dal duraturo impegno della Chiesa per la pace, la dignità umana e la comprensione reciproca tra le nazioni. Siamo fiduciosi che Papa Leone XIV userà la sua voce sulla scena globale per promuovere questi valori condivisi e incoraggiare l’unità nel perseguimento di un mondo più giusto e compassionevole. L’Ue è pronta a lavorare a stretto contatto con la Santa Sede per affrontare le sfide globali e alimentare uno spirito di solidarietà, rispetto e gentilezza”. La presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, ha scritto sui social: “Habemus Papam. Benvenuto, Papa Leone XIV. Che la tua guida della Chiesa cattolica sia un faro di speranza per tutti i fedeli. E che la tua saggezza e la tua forza continuino a ispirare il mondo mentre lavoriamo per costruire ponti, unità e pace”. Congratulazioni a Sua Santità Papa Leone XIV arrivano anche dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky. “L’Ucraina apprezza molto la posizione la posizione coerente della Santa Sede nel sostenere il diritto internazionale, condannare l’aggressione militare della Federazione russa contro l’Ucraina e proteggere i diritti dei civili innocenti - scrive in un post su X - In questo momento decisivo per il nostro Paese, confidiamo nel continuo sostegno morale e spirituale del Vaticano nel lavoro dell’Ucraina per ripristinare la giustizia e avere una pace duratura”. “Auguro a Sua Santità Leone XIV saggezza, ispirazione e forza, sia spirituale che fisica, nel portare avanti la sua missione nobile. Ad multos annos!”, conclude. Non è mancato il messaggio del leader russo Vladimir Putin: “Sono fiducioso che il dialogo costruttivo e l’interazione instaurati tra Russia e Vaticano continueranno a svilupparsi sulla base dei valori cristiani che ci uniscono”, si legge nella dichiarazione ripresa dalla Tass. “Dal profondo del mio cuore, a nome della nazione polacca e a nome mio personale, porgo le mie più sentite congratulazioni a Sua Santità Papa Leone XIV in occasione della sua elezione alla Sede di Roma”, ha scritto su X il premier polacco Andrzej Duda affermando che “questo è un momento profondamente toccante per la comunità della Chiesa cattolica e per il mondo intero. In Polonia, lo stiamo vivendo con grande emozione e speranza, come nazione che, come ci ha ricordato San Giovanni Paolo II, nel corso di mille anni della sua storia è stata legata alla Chiesa di Cristo e alla Sede di Roma da uno speciale vincolo di unità spirituale”. Duda si è poi rivolto direttamente al nuovo Pontefice: “La prego di accettare la disponibilità della Polonia a rafforzare ulteriormente questi legami unici, nel nome dei valori condivisi, della responsabilità per il bene comune e del rafforzamento della pace nel mondo. Che Dio guidi Vostra Santità sul cammino di questa grande missione”. Si è affidato a X il premier ungherese Viktor Orban: “Habemus Papam! Una nuova speranza. Dio benedica Papa Leone XIV”, ha scritto. Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu si è congratulato con Papa Leone XIV e con la “comunità cattolica mondiale” per l’elezione del nuovo pontefice. “Auguro al primo Papa degli Stati Uniti successo nel promuovere la speranza e la riconciliazione tra tutte le fedi”, ha scritto Netanyahu in un post su X dall’ufficio del Primo Ministro. Il presidente brasiliano, Luiz Inacio Lula da Silva, ha espresso la speranza che Papa Leone XIV “raccolga l’eredità” del suo predecessore Francesco. “Le qualità principali di Francesco sono state la ricerca instancabile della pace e della giustizia sociale, la difesa dell’ambiente, il dialogo con tutti i popoli e le religioni e il rispetto per la diversità”, ha affermato Lula in un post su X. Il presidente brasiliano si trova attualmente in visita ufficiale a Mosca. La presidente macedone Gordana Siljanovska-Davkova ha inviato un messaggio di congratulazioni al nuovo Papa Leone XIV. “Rivolgo le mie più sincere congratulazioni a Sua Santità Papa Leone XIV per la sua elezione a guida della Chiesa cattolica e gli auguro successo nell’opera di promozione della comprensione globale, della pace e dell’armonia”, si legge nel messaggio della presidente Siljanovska-Davkova. Anche il premier macedone Hristijan Mickoski si è congratulato con il nuovo pontefice. Il presidente serbo Aleksabdar Vucic si è congratulato con il nuovo Papa Leone XIV, auspicando di poter continuare con lui la buona collaborazione avuta con papa Francesco. “Faccio gli auguri al nuovo papa, e credo che avremo con lui ugualmente una buona collaborazione come quella avuta finora con papa Francesco”, ha detto Vucic ai giornalisti a Mosca, dove si trova per le celebrazioni degli 80 anni della vittoria sul nazifascismo. Il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi ha fatto le congratulazioni a papa Leone XIV. “Auguro a Sua Santità ogni successo e prosperità nella sua benedetta missione - ha detto in una nota diffusa in serata -. Sono pienamente fiducioso che Sua Santità porterà avanti l’eredità di promuovere la pace e l’amore, sostenere i nobili valori e l’etica e rifiutare la violenza, l’odio e la guerra. Sono lieto che lavoreremo insieme per un mondo migliore caratterizzato da pace, sviluppo, stabilità, tolleranza e rispetto reciproco. Con i miei migliori auguri di salute, benessere e successo”, ha concluso. Anche dalla Università Cattolica del Sacro Cuore arriva un messaggio di felicitazioni per l’elezione del nuovo pontefice. “La famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore esprime una grande gioia per l’elezione al soglio pontificio del Cardinale Robert Francis Prevost e affida la Sua missione di Pastore Universale della Chiesa alla cura del Sacro Cuore di Gesù. L’Ateneo dei cattolici italiani, con rinnovato slancio, si pone al servizio di Sua Santità Papa Leone XIV. Possa il Suo Pontificato essere segno di speranza nel mondo, di unità nella Chiesa e di pace tra le nazioni”. Una folla di sacerdoti e membri dello staff della Catholic Theological Union di Chicago è esplosa in un’acclamazione di gioia quando Papa Leone IV è uscito sul balcone del Vaticano, circa quattro decenni dopo essersi laureato alla South Side School. È stata “un’esplosione di entusiasmo e applausi quella che si è levata nella sala... molti di noi erano semplicemente increduli e non riuscivano nemmeno a trovare le parole per esprimere la nostra gioia, il nostro orgoglio”, ha detto suor Barbara Reid, preside della facoltà di teologia. La Catholic Theological Union di Chicago è una delle più grandi scuole di specializzazione teologica cattoliche nel mondo anglofono. “Tutto il meglio, compreso il Papa, viene da Chicago”. Così su X il sindaco di Chicago, città natale di Leone XIV, Brandon Johnson, con le “congratulazioni al primo Pontefice americano”. “Speriamo di averla nuovamente presto a casa”, aggiunge. Il ruolo dell’Europa nella “disumanizzazione” delle nuove guerre di Maurizio Delli Santi* Il Domani, 9 maggio 2025 Dalle stragi compiute in Ucraina e a Gaza un appello contro la “disumanizzazione” delle guerre. È il momento che i leader europei promuovano una Conferenza per la pace e il Diritto internazionale umanitario. Persino Trump si è interrogato di fronte alle stragi di civili compiute nella Pasqua dell’Ucraina dalla Russia che in teoria starebbe negoziando la tregua: “Putin non aveva motivo di sparare missili in aree civili e città negli ultimi giorni. Forse non vuole fermare la guerra, mi sta prendendo in giro e deve essere trattato in modo diverso, attraverso altre sanzioni? Troppa gente sta morendo”. La strage della Domenica delle Palme a Sumy è stata compiuta alle 10 del mattino nell’orario delle celebrazioni, causando la morte di 34 persone, tra cui almeno 7 bambini. È stata l’ulteriore manifesta irresponsabilità di un aggressore - la Russia di Putin - nel non curarsi dei principi fondamentali delle Convenzioni di Ginevra: non c’era alcun obiettivo militare da colpire, l’attacco missilistico è stato diretto contro un’inerme popolazione civile, con la consapevolezza che si sarebbe raccolta quel giorno in manifestazioni religiose. L’uso delle bombe “a grappolo” su un centro abitato e il ricorso alla tattica del double tap (il lancio di un secondo ordigno) per colpire i soccorritori dimostrano il chiaro intento terroristico volto a fiaccare gli ucraini. Nel contempo si compiva la distruzione dell’ospedale battista al-Ahli di Gaza City, il 36 esimo ospedale colpito dalle forze armate israeliane, cui è seguito l’attacco all’ospedale da campo Kuwaiti, nella mega tendopoli di al-Mawasi, a sud di Gaza. Solo il 14 marzo scorso, nonostante la tregua, un’altra strage aveva causato la morte di almeno 400 palestinesi, tra cui donne e bambini. Sulle pagine di Micromega Cinzia Sciuto ha segnalato l’ipocrisia del doppio standard: Russia e Israele vanno condannate sullo stesso piano. La federazione russa sta conducendo una guerra di aggressione e una serie infinita di crimini di guerra e contro l’umanità: dalle stragi di civili come quelle di Bucha ai continui bombardamenti indiscriminati che hanno comportato la distruzione di beni civili e otre 40.000 vittime tra la sola popolazione civile. Non meno sciagurata è la responsabilità del governo israeliano di Netanyahu: non può più appellarsi al massacro di Hamas del 7 ottobre per giustificare le incommensurabili distruzioni, la strage ininterrotta di 55.000 civili per annientare il popolo palestinese costringendolo all’esodo e per affermare la propria egemonia in Medio Oriente. Non a caso il filosofo israeliano Omri Boehm ha parlato di “disumanizzazione totale”. La delegittimazione della CPI - Di fronte al dramma del coinvolgimento dei civili nelle nuove guerre non sono mancate le incriminazioni per crimini di guerra e contro l’umanità della Corte penale internazionale, eppure scetticismo e riserve sono state espresse per la giustizia internazionale da un’opinione pubblica disinformata e da diversi leader occidentali: hanno criticato la Corte rivendicando l’immunità per Netanyahu, non rendendosi conto che il “doppio standard” avrebbe delegittimato l’intero sistema della giustizia internazionale. In Italia la delegittimazione della Corte è stata anche più strutturata. Con l’ipocrisia di un apparente garantismo si è invocata l’immunità dei capi di stato responsabili di crimini di guerra - una vera e propria aberrazione dei principi fondamentali del diritto internazionale umanitario affermatisi dai tempi del Tribunale di Norimberga - e si è arrivati a non dare esecuzione al mandato d’arresto emesso dalla Corte penale dell’Aja nei confronti del torturatore libico Almasri. Inoltre giace incompiuto un Codice dei crimini internazionali, peraltro già espunto della parte relativa ai crimini contro l’umanità previsti dallo Statuto della Corte penale internazionale. Giuristi autorevoli hanno lamentato più volte questa inerzia, ma tutto tace: sarebbe prevalso il timore che il sistema della giustizia internazionale possa esporre l’Italia a procedimenti sulle scelte compiute in tema di politiche migratorie (sull’attuale regime di trattenimento e respingimento dei migranti, con incluse le corresponsabilità sulle torture in Libia), nonché su alcuni casi di abusi nelle carceri. In ogni caso in Italia l’attuale leadership ha preso le distanze dallo Statuto della Corte penale internazionale, rinunciando a sostenere il più avanzato sistema di codificazione del diritto internazionale umanitario grazie al quale sono stati incriminati Putin e Netanyahu, i leader responsabili delle morti e delle distruzioni delle guerre a noi più vicine. Anche se non saranno arrestati (ma nella Storia vale la regola del ‘mai dire mai’), l’incriminazione della Corte penale dell’Aja rappresenta comunque il più riprovevole giudizio per un leader che voglia misurarsi in termini di credibilità e autorevolezza con il resto della comunità internazionale. Il tema della esasperazione della violenza bellica è stato oggetto anche delle ultime manifestazioni che hanno invocato la pace, ma occorrerebbe andare oltre per promuovere proposte costruttive. È ancora dalla società civile che potrebbe essere rilanciata l’attenzione su questo insistente coinvolgimento della popolazione civile nei conflitti armati, un dato che non può assolutamente essere considerato come per assodato e inevitabile, in nessun caso, anche nelle “nuove” guerre. Soprattutto dalle università, dagli studiosi del diritto e della scienza politica, questo tema dovrebbe essere rilanciato con maggiore consapevolezza per sensibilizzare le opinioni pubbliche perché le leadership dei governi assumano iniziative conseguenti in tutti i contesti internazionali. In Italia si è commemorato l’ 80° Anniversario della Liberazione, a ricordo della Resistenza contro il nazi-fascismo, un momento emblematico in cui la società civile, in tutte le sue varie componenti ideologiche ed espressioni del ‘popolo’, ricercò con convinzione il ritorno ad una “pace giusta”: fu il processo che già nel 1941 con il Manifesto di Ventotene aveva guardato all’integrazione europea come condizione di pace e libertà, e che sul piano interno si completò nelle fasi fondative della Repubblica e della Costituzione. Ma quel 1945 fu un anno foriero di grandi novità anche sul piano globale: a giugno sarà commemorato pure l’80° Anniversario della Carta delle Nazioni Unite, uno statuto reso spesso fragile dai veti delle grandi potenze ma che pure è stato strumento di pace in tante altre occasioni. Su questo documento che sarebbe il caso di rileggere gli Stati che intendono emanciparsi possono ancora credere per riaffermare il principio di eguaglianza e il multilateralismo nelle relazioni fra Stati, insieme ad un’altra regola fondamentale: il divieto di aggressione, che sancisce l’illegittimità dell’uso della forza nelle controversie internazionali. Eccoci allora alla necessità di dare un senso alla indignazione per le stragi di civili di questi giorni. Occorre guardare oltre: è del tutto evidente un disegno revisionista dell’ordine internazionale, dove i nuovi autocrati più che ricercare una “pace giusta e duratura” nell’interesse degli ucraini, dei palestinesi, o dell’umanità, ragionano in base ai loro rapporti di forza e mirano ad una nuova Yalta, per accordarsi sui loro interessi e sulla ripartizione delle egemonie: da qui la conferma della “disumanizzazione totale”. Lo dimostra anche quanto sta accadendo sui negoziati per l’Ucraina e per Gaza dove le iniziative in corso non hanno portato a nulla se non allo stillicidio delle stragi. Anche la guerra commerciale dei dazi lanciata da Trump ha tradito l’idea di un Occidente delle democrazie e dimostra da quale parte provenga ora un’altra minaccia concreta al multilateralismo e all’ordine internazionale: si è stravolto anche il principio della cooperazione economica che nella Carta delle Nazioni Unite è sancito come base dello sviluppo sociale dell’umanità. Di fronte a questi scenari, l’Europa potrebbe riassumere un proprio ruolo nel proporsi con più convinzione di fronte alla comunità internazionale rivolgendosi prima di tutto a quel Global South (cominciando dal Medio Oriente) che è anch’esso sconcertato di fronte alle logiche dei ‘nuovi imperi’. L’Unione Europea può puntare sulla propria esperienza nell’ aver costruito uno spazio politico ed economico comune, basato sui principi di eguaglianza e di cooperazione nelle relazioni fra Stati. Dall’Europa può dunque nascere anche un modello di mediazione credibile per il resto della comunità internazionale, ripartendo dalle tappe compiute nel passato. È necessario ripercorrere perciò l’esperienza tutta europea delle Convenzioni dell’Aja e di Ginevra, e dell’approccio alla cooperazione nei rapporti tra Stati consolidati in passato con tanti strumenti, come la stessa UE, il Consiglio d’Europa, l’Atto finale di Helsinki e l’Osce. Soprattutto è fondamentale che si rilanci il multilateralismo delle Nazioni Unite convocando una Conferenza Internazionale per la Pace e l’affermazione del Diritto Internazionale Umanitario. L’obiettivo dovrà puntare alla riconoscibilità di un nuovo organismo permanente che abbia l’autorevolezza di porre all’attenzione questi temi, un Ente morale accettato universalmente nell’ambito dell’Onu, che potrebbe prevedere ad esempio la partecipazione del Movimento della Croce Rossa/Mezza Luna Rossa Internazionale, delle rappresentanze religiose mondiali e delle ONG riconosciute ‘difensori dei diritti umani’, cui affidare due missioni essenziali: mitigare le conseguenze dei conflitti internazionali e mediare i negoziati per la pace richiamando le regole del diritto internazionale. Non si può aspettare che deflagri la terza guerra mondiale - che stavolta potrebbe essere davvero catastrofica - per poi ritornare a parlare di pace e diritto internazionale. Se si determinasse su queste iniziative una maggiore sensibilità della società civile - a partire dal mondo accademico che può coinvolgere le giovani generazioni - i governi e le diplomazie non stenterebbero a trovare le soluzioni, come è accaduto nel passato. Il futuro non può essere ancora compromesso da scelte di potenze irresponsabili: è bene che la società civile della nostra Europa chiami i suoi leader responsabili a confrontarsi e a sollecitare il resto della comunità internazionale, per promuovere regole e principi universali stavolta non più derogabili, in nome appunto di un “Diritto dell’Umanità”. Potrebbe essere questo un senso compiuto da dare agli 80 anni che si compiranno a giugno dalla nascita delle Nazioni Unite. *Membro della International Law Association “L’Europa deve prevenire le guerre, non diventare un esercito” di Youssef Taby Il Fatto Quotidiano, 9 maggio 2025 Così gli studenti parlano dell’Ue. Settantacinque anni fa, da una Parigi ancora ferita dalla guerra, l’allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman lanciava un’idea destinata a cambiare il destino del continente: mettere la produzione di carbone e acciaio sotto una autorità comune per rendere i conflitti “non solo impensabili, ma materialmente impossibili”. Era il 9 maggio 1950 e oggi, 75 anni dopo, si celebra la Giornata dell’Europa per ricordare proprio quella dichiarazione che lanciò il processo di integrazione. Quella che sembrava un’utopia, ha fatto diversi passi. Ma oggi il sogno sembra più distante. Dopo aver garantito decenni di pace, infatti, l’Unione europea si trova a dover far fronte a tempi di guerra che ne hanno dimostrato tutta la sua debolezza. Ilfattoquotidiano.it ha deciso di dare la voce ai più giovani - testimonianze raccolte nelle scuole da Nord a Sud - per cercare di capire cosa pensano i ragazzi e le ragazze cresciuti al tempo del piano di riarmo proposto da Ursula von der Leyen. “L’Unione Europea non è perfetta, ma è ancora l’unico progetto in grado di garantire pace e cooperazione in un continente che ha conosciuto troppa violenza”, dice Marco, 17 anni, del liceo Giannone di Caserta. “È il progetto più ambizioso del nostro tempo: un’unione di Stati sovrani che, dopo secoli di guerre, ha scelto la convivenza. Non solo un’entità politica o economica, ma un sogno concreto di democrazia, diritti, solidarietà”. Per Julio, 16 anni, del liceo Berchet di Milano, l’Unione Europea resta soprattutto i suoi valori fondanti: “Democrazia, libertà, partecipazione e diritti. Sono questi i principi che, almeno in teoria, dovrebbero unire tutti i cittadini dell’Unione. Nonostante alcune derive autoritarie, l’Ue resta uno spazio politico dove la democrazia è il principio guida”. ?Più concreta e disillusa è la visione di Christian, 18 anni, liceo Pitagora di Rende (Cosenza): “L’immagine che mi viene in mente è quella di un grande condominio: vivace, pieno di voci diverse, con appartamenti arredati secondo gusti e culture uniche. Un luogo dove le differenze non dividono, ma stimolano il confronto. Certo, come in ogni condominio, servono regole e tanta pazienza. L’Ue è un posto straordinario in cui vivere, ma le decisioni arrivano spesso con lentezza, frenate da una burocrazia che fatica a stare al passo con le sfide comuni”. Per Gaia, 18 anni, del liceo Amaldi di Roma, l’Unione Europea è prima di tutto un patrimonio di simboli e ideali: “La bandiera blu, il Manifesto di Ventotene… sono immagini forti, che ci parlano di pace e unità. A scuola ne discutiamo, ma anche in famiglia. Questo confronto mi ha insegnato a guardare all’Europa con uno sguardo più consapevole e critico”. Infine, Pietro, 17 anni, del liceo Cairoli di Pavia, associa l’Unione a un principio fondamentale: “Pensando all’Europa, mi viene naturale collegarla a un grado di libertà più alto rispetto a gran parte del mondo. Non è una libertà né totale né perfetta, ma senz’altro migliore. È, o dovrebbe essere, una direttrice di sviluppo comune”. L’Europa può ancora essere il continente della pace? - Oggi la domanda risuona con una nuova urgenza. Chi è cresciuto senza conoscere la guerra ha imparato a considerare la pace come un dato acquisito, quasi un diritto naturale. Eppure, tra nuove minacce globali e una retorica sempre più bellica, anche quella certezza inizia a incrinarsi. Una generazione abituata a credere nel dialogo si ritrova divisa, costretta a fare i conti con un’Unione Europea che torna a parlare di riarmo, difesa comune e deterrenza. Per Julio, “la pace è ancora possibile, ma in modo diverso rispetto al passato”. Le diverse guerre e il mutato scenario geopolitico hanno cambiato le regole del gioco: “Il piano di riarmo europeo è necessario. È frutto della consapevolezza che non possiamo più affidarci agli Stati Uniti per la nostra sicurezza. Di fronte a potenze autoritarie che violano il diritto internazionale, serve una difesa comune. Chi sogna un mondo senza eserciti deve confrontarsi con la realtà: istituzioni senza protezione non fermano l’espansionismo” spiega Julio. Più amara è la riflessione di Pietro: “Purtroppo oggi l’Ue, divisa al suo interno, non riesce più a garantire davvero la pace. Le manca la forza economica, politica e militare necessaria, e fuori dai propri confini il suo peso si fa sempre più debole”. Christian d’altro canto mette in discussione l’intero impianto: “Gli ultimi mesi ci hanno mostrato tutta la brutalità della guerra. Sui libri ho imparato che nessuno vince davvero: tutti perdono. Eppure i conflitti non finiscono mai. Pensiamo alla guerra tra Russia e Ucraina, così lunga da averci quasi assuefatti: edifici distrutti, scuole e ospedali bombardati. L’Ue, che dovrebbe promuovere la pace e l’ordine internazionale, continua invece a fornire armamenti. È una contraddizione. Comprendo il sostegno all’Ucraina, ma i principali passi verso la pace sono arrivati da iniziative esterne all’Ue. E mentre si affacciano timidi spiragli di dialogo, Bruxelles rilancia con ‘Rearm Europe’: un piano costoso, che rischia di mettere in secondo piano la diplomazia e allontanarsi dai valori su cui l’Unione è nata. La sua vera forza dovrebbe essere la coesistenza pacifica, non la rincorsa alla militarizzazione”. Un dubbio condiviso anche da Gaia: “Sono favorevole al riarmo, ma solo come deterrente. Il problema è come viene comunicato. Parlare di ‘economia di guerra’ in un momento così delicato, rischia di alimentare tensioni e allontanare i cittadini dai valori di pace che dovrebbero guidare l’Unione. Il riarmo ha senso solo se serve a proteggere, non ad accendere nuovi conflitti”. Marco, infine, invita a non dimenticare la natura profonda del progetto europeo: “L’Ue non è, e non deve diventare, un esercito. La sua forza non sta nella potenza militare, ma nella capacità di prevenire i conflitti tra gli Stati membri, creare legami economici e sociali così forti da rendere la guerra semplicemente impensabile. Se ci è riuscita per oltre settant’anni, potrà farcela ancora. Ma serviranno l’impegno e la volontà di tutti”. Verso un’Europa diversa - Le riflessioni sulla guerra e sulla difesa comune mettono a nudo le fragilità di un’Unione che fatica a parlare con una sola voce. Ma è proprio da queste crepe che emerge la consapevolezza di un bisogno diffuso: ripensare l’Europa. Tutti, in modi diversi, chiedono un cambiamento. C’è chi sogna un’Unione più coraggiosa e unita, chi ne difende il metodo imperfetto, e chi punta il dito contro le rigidità che ne frenano il potenziale. Un’immagine coerente con quanto emerso anche dall’Eurobarometro di marzo, che ha fotografato le priorità dei giovani italiani: il 33% si dichiara favorevole all’Ue e apprezza il suo funzionamento, un altro 33% sostiene l’Unione ma ne critica il modo in cui opera. Il 21% è scettico, pur aperto a cambiare idea con riforme concrete. Julio non ha dubbi: “Credo fortemente nell’Unione europea e penso che ora più che mai serva maggiore unità. Ma ne riconosco anche le debolezze: lentezze, compromessi e ipocrisie. Il diritto di veto, per esempio, oggi blocca una vera crescita in senso federale”. Marco la vede come un laboratorio democratico: “L’Ue è fatta di problemi e tensioni, ma proprio per questo è preziosa: è uno spazio in cui si cerca un equilibrio tra interessi nazionali e bene comune. Non è perfetta, ma resta un esperimento unico. Certo, i cittadini contano poco a questo livello, ma forse è inevitabile: spesso giudichiamo senza conoscere tutti i dati. Più che cambiare l’Ue, punterei a scegliere meglio chi ci rappresenta”. Per Christian la chiave è innovare senza ingessarsi: “L’Ue dovrebbe puntare alla coesistenza pacifica, ma l’inefficienza politica frena anche altri settori, come la tecnologia. Sull’intelligenza artificiale siamo indietro rispetto a Stati Uniti e Asia. Una burocrazia troppo rigida, pur tutelando i diritti, limita l’innovazione. Servono regole più snelle e più investimenti”. Pietro guarda lontano, verso un’unione pienamente politica: “Credo nel progetto europeo, ma per sopravvivere serve più integrazione. Bisogna cedere alcune sovranità per guadagnare libertà e forza collettiva. Stati Uniti d’Europa? Forse. Ma preferirei un vero Stato unitario, desiderato e riconosciuto da tutti”. Nei racconti dei giovani - raccolti finora da ilfattoquotidiano.it - emerge un’idea: l’Unione deve essere rafforzata, l’ideale europeo va protetto, e il sogno europeo non è un traguardo, ma un cammino ancora in corso. Per i ragazzi, cambiare l’Unione non significa tradire ciò che essa rappresenta, ma darle nuova forza. “Credo nel sogno europeo, ma non come qualcosa di già realizzato. È un obiettivo: un’Europa unita, solidale e pacifica, dove i popoli collaborano senza rinunciare alla propria identità. C’è tanta strada da fare, ma possiamo arrivarci”, spiega Gaia. Pietro lo vive con passione: “Mi sento profondamente europeo. Il cosmopolitismo è la condizione più universale, ma proprio per questo serve una coscienza europea. Senza sciovinismi, ma con l’ambizione di essere interlocutori universali. E per farlo, dobbiamo emanciparci anche dall’influenza americana”. Per Christian “l’Ue ha la responsabilità di incarnare quei valori e fare la differenza in un mondo sempre più complesso. Non si tratta solo di essere italiani, francesi o tedeschi, ma di essere esseri umani, con il compito di far valere i nostri diritti e costruire un futuro migliore per le generazioni future”. Marco insiste sul fatto che “la pace non è solo assenza di guerra: è stabilità, sicurezza, diritti. L’Ue è il mezzo per garantirla”. Medio Oriente. Il grido comune di ebrei e arabi: la maggioranza rifiuta la guerra di Lucia Capuzzi Avvenire, 9 maggio 2025 “Come mettere fine all’intollerabile bagno di sangue a cui assistiamo? Tutto, in definitiva, si riduce a questa domanda. La risposta è sul tavolo da tempo. Non occorre inventare nulla di nuovo. Ci vogliono, però, leader che abbiano il coraggio e la lungimiranza di agire di conseguenza”. Ne è convinto l’ex premier israeliano Ehud Olmert, a lungo pilastro del Likud e fondatore del partito centrista Kadima nonché braccio destro di Ariel Sharon, poi costretto alle dimissioni in seguito alla condanna per l’accusa di tangenti, sempre negata dall’interessato. Difficile definirlo un “pacifista naif”. Eppure, da mesi, a livello nazionale e internazionale, a rilanciare i negoziati di pace tra i rispettivi popoli basati sulla soluzione dei due Stati, insieme all’ex diplomatico palestinese Nasser al-Kidwa. “Sapevamo entrambi l’uno dell’altro ma non ci eravamo mai conosciuti prima dell’anno scorso. Fin dal primo incontro, online, abbiamo scoperto di concordare su molte cose - prosegue Olmert -. Prima fra tutte l’urgenza di liberta, autodeterminazione, sicurezza per le genti che abitano la terra fra il Giordano e il mare”. Proposta che entrambi presenteranno al People peace summit in programma oggi e domani a Gerusalemme. In uno dei momenti più tragici dal 7 ottobre 2023, oltre sessanta organizzazioni della società civile di Israele e Palestina, riunite nella coalizione “It’s time”, hanno deciso di lanciare un potente grido di resistenza nonviolenta al bellicismo imperante. E di portare, con l’aiuto di analisti, esperti, diplomatici, artisti, alternative concrete alla guerra senza fine propagandata dal governo di Benjamin Netanyahu e da Hamas. Una posizione, per altro, sostenuta dalla maggioranza dell’opinione pubblica: i due terzi di israeliani e palestinesi chiedono un accordo. “Prima o poi dovremmo fermarci. Il punto è quante altre vite saranno distrutte nel frattempo”, sottolinea al-Kidwa, nipote di Yasser Arafat e vicino al detenuto- simbolo di Ramallah, Marwan Barghuti. “Per questo è necessario un cambio di leadership - reale, non un ritocco di facciata -, sul fronte palestinese come su quello israeliano - afferma -. Quelle attuali sono responsabili del disastro attuale”. “Allo stesso tempo, dobbiamo mobilitare i cittadini. Da qui l’idea di un coordinamento tra le varie realtà attive per la pace”, affermano Maoz Inon e Aziz Abu Sarah, l’uno israeliano e l’altro palestinese che, dopo il 7 ottobre, hanno fondato Interact international, per promuovere il dialogo. L’esperienza di Paesi usciti da conflitti apparentemente senza soluzione può essere cruciale. Non a caso, al People peace summit ci saranno Monica McWilliams e Avila Kil Murray, pilastri dell’Accordo del Venerdì Santo che ha messo fine allo scontro in Irlanda del Nord. “L’ultima volta, siamo state in Israele e Palestina otto anni fa. Quando abbiamo ricevuto l’invito da parte della coalizione, dunque, ci siamo chieste se avesse senso tornare in questo tempo di crisi tanto accentuata. Siamo convinte di sì. Proprio in momenti così duri, quando il conflitto appare irrisolvibile, è fondamentale sapere che altri Paesi si sono trovati nella medesima situazione, l’hanno affrontata e superata”, afferma Monica McWilliams, nata in un sobborgo di Belfast 71 anni fa, accademica specializzata nella giustizia riparativa. “Lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle”, le fa eco Avila Kilmurray, 73 anni, dublinese trasferita nella parte settentrionale dell’isola per lavorare per la pace. Entrambe cattoliche e femministe hanno fondato la Northern Ireland women commission, realtà formata dalle varie fedi e componenti politiche, che ha avuto un ruolo determinante nei negoziati che hanno messo fine a oltre tre decenni di guerra in Irlanda del Nord. Con questa determinazione, le due attiviste partecipano oggi, insieme a diplomatici, artisti, esperti, al People peace summit di Gerusalemme, trasformata, per 48 ore, da epicentro del dramma mediorientale a capitale della pace. Organizzato da “It’s time”, coalizione di oltre sessanta organizzazioni israeliane e palestinesi impegnate per il dialogo, l’evento punta a costruire un coordinamento per uscire dal baratro dello scontro a oltranza mediante “un accordo politico il quale garantisca alle genti tra il Giordano e il mare libertà, autoderminazione e sicurezza”, come dice il comunicato della coalizione. “Non è un sogno di pochi ingenui, è un processo in costruzione. Su cui concorda, tra l’altro, la maggioranza dell’opinione pubblica dei due popoli”, hanno detto ieri Maoz Inon e Aziz Abu Sarah, l’uno israeliano e l’altro palestinese, fondatori di Interact International. “Proprio nei momenti di massima pressione bellica, le associazioni della società civile devono assumere un ruolo di guida, cercando di trovare un nucleo minimo di valori condivisi. Sono indispensabili per uscire dalla camicia di forza del “gioco a somma zero”. Contrariamente alla narrativa dominante, per mettere fine a un conflitto occorre andare oltre la chimera della vittoria totale e dell’annichilimento completo dell’avversario. La mediazione implica un bilanciamento. È la lezione che abbiamo appreso in Nordirlanda”, spiega Avila Kilmurray. “Quando abbiamo iniziato i dialoghi di pace, immaginavamo forse di riuscire ad arrivare a un’intesa? Tutt’altro. Ha richiesto tenacia, perseveranza, pazienza. E ha implicato accettare di essere derisi e definiti, nella migliore delle ipotesi, dei sognatori senza fondamento. Non ci è importato molto. Eravamo concentrati nel mettere fine al bagno di sangue. Siamo rimasti aggrappati stoicamente a questa speranza praticamente impossibile. L’odio fra le parti erano tremendo. Ciascuno considerava l’altro l’unico colpevole. È stato un lavoro difficilissimo far comprendere che tutti eravamo parte del problema come della soluzione”, aggiunge Monica McWilliams. Ora per israeliani e palestinesi una simile evoluzione appare praticamente impossibile. I primi sono ancora traumatizzati dalla strage del 7 ottobre che li ha fatti sentire minacciati come mai dopo la Shoah. I secondi sono addolorati e arrabbiati per l’eccidio in atto a Gaza. Nessuno dei due si fida dell’altro. “Il primo passo da compiere è, dunque, riaprire canali - sottolinea l’attivista -, perché ricomincino a parlarsi. Le donne sono molto brave in questo”, sottolinea l’attivista. Non a caso, uno degli incontri di oggi è dedicato proprio al contributo femminile alla pace. “In Irlanda del Nord ha consentito di includere nel testo finale - che regge da 27 anni - dossier che mai avrebbero trovato posto, come la lotta alle varie forme discriminazioni, alle diseguaglianze, alle esclusioni”. Un compito chiave anche nel contesto israelo-palestinese dove è portato avanti con slancio dalle pioniere di “ Women wage peace e Women of the sun. “Affinché vi sia un vero negoziato, occorre agire su più livelli - conclude Monica McWilliams - e convocare una pluralità di attori. Non solo, dunque, rappresentanti del governo di Benjamin Netanyahu e Hamas e i mediatori, come abbiamo visto negli ultimi 19 mesi. Sono necessari attori sociali interni in modo da creare una sorta di clima. E poi la comunità internazionale. Ora non sta accadendo in Medio Oriente. E la guerra va avanti, ancora e ancora. È l’ora di dire basta. Questo è il grido del People peace summit”. Stati Uniti. Morti sommerse dei migranti di Davide Longo Il Manifesto, 9 maggio 2025 Usa Marie Ange Blaise, haitiana, è morta in Florida in custodia dell’Ice. Non è il primo caso: Maksym Chernyak è sopravvissuto all’invasione russa in Ucraina per morire di infarto in una prigione. Marie Ange Blaise, una donna haitiana di 44 anni, è morta lo scorso 25 aprile mentre era detenuta in un centro della Immigration and Customs Enforcement (Ice), l’agenzia governativa Usa che si occupa di immigrazione e che risponde direttamente al presidente Donald Trump. La donna, detenuta da ormai 71 giorni, si trovava nel centro di detenzione privato di Deerfield Beach, a nord di Miami, in Florida, con l’accusa di essere immigrata illegalmente negli Usa. Il centro di Deerfield Beach è di proprietà della compagnia privata The Geo Group, che gestisce un centinaio di prigioni in tutto il territorio statunitense (e contro la quale ieri si è manifestato a Newark, compreso il sindaco della città contrario all’istituzione di un loro centro) per un totale di quattro miliardi di dollari, e che si occupa anche di gestire molti centri per conto dell’Ice. Per ora, l’Ice si è rifiutata di rilasciare informazioni sul decesso di Marie Blaise, limitandosi ad affermare che a tutti i detenuti vengono garantite le cure di base quando necessario. In questo caso le cose sembrano essere andate diversamente: secondo la testimonianza di un’altra detenuta, Marie Blaise avrebbe iniziato a lamentare dolori al petto a partire dal primo pomeriggio di venerdì 25 aprile, chiedendo più volte di essere visitata da un medico. A quanto emerge dalle prime ricostruzioni, le sarebbe stata misurata soltanto la pressione, e sarebbero stati riscontrati alti livelli di ipertensione. Gli agenti di custodia avrebbero dunque somministrato un medicinale alla donna e le avrebbero intimato di andare a dormire: dopo alcune ore Marie Blaise si sarebbe svegliata gridando aiuto e lamentando forti dolori al petto, come testimoniato dalle sue compagne di cella, venendo infine dichiarata morta dai paramedici alle 8:35 di sera. La sua morte e l’evasività con la quale l’Ice sta affrontando la questione hanno scatenato le reazioni delle associazioni per i diritti dei migranti e dei rappresentanti del partito democratico. Secondo Guerline Jozef, direttrice dell’Haitian Bridge Alliance, un gruppo di sostegno ai migranti provenienti dall’isola caraibica, “la morte di Marie Blaise è il risultato di politiche e trattamenti crudeli e disumani nei confronti degli immigrati. Continueremo a lavorare per ottenere risposte dall’amministrazione per conto di coloro che purtroppo si trovano ad essere detenuti, intrappolati senza cure adeguate o un giusto processo. Chiediamo piena trasparenza sulla morte della signora Blaise”. Sul tema è intervenuta anche Sheila Cherfilus-McCormick, democratica di origini haitiane e deputata alla Camera dei Rappresentanti per il distretto di Fort Lauderdale e West Palm Beach. Cherfilus-McCormick è riuscita a ottenere il permesso di entrare nella struttura detentiva per fare luce sulla morte di Marie Blaise, ma si è trovata di fronte un muro di gomma che non le ha permesso di ottenere alcuna informazione. “In verità, dovrebbe essere una semplice conversazione. Avrebbero dovuto dirmi: ‘Questo è il nostro protocollo. Questo è ciò che abbiamo fatto, quindi possiamo rispondere’” ha dichiarato. “Non mi è mai capitato prima in tutta la mia vita di chiedere informazioni sui protocolli operativi e che gli ufficiali di una agenzia si rifiutino di darmeli e diventino ostili”. Marie Blaise era stata arrestata il 14 febbraio scorso mentre prendeva un volo per Charlotte, in Nord Carolina, da La Croix, la capitale delle Isole Vergini statunitensi, nei Caraibi, che costituiscono un territorio Usa come Porto Rico e Guam. Blaise è stata portata prima in una prigione di Porto Rico, poi in un centro di detenzione a Oakdale, Louisiana, per poi essere di nuovo trasferita in Florida lo scorso 5 aprile: un’odissea lunga due mesi e mezzo. Inoltre, permangono dei dubbi sulla legittimità stessa dell’arresto di Marie Blaise. Un volo dagli Usa alle Isole Vergini statunitensi è considerato un interno: in questo caso per viaggiare non è necessario alcun documento per l’immigrazione. Come ha dichiarato Guerline Jozef, “stiamo assistendo all’arresto di persone che viaggiano dalle Isole Vergini americane, da Porto Rico, potenzialmente anche dalle Hawaii, e gli agenti non capiscono che queste persone non provengono da un altro Paese e non dovrebbero essere segnalate come persone che entrano illegalmente o meno negli Stati uniti, in quanto vi si trovano già”. Quello di Marie Blaise non è peraltro un caso isolato. A partire dallo scorso gennaio le persone morte in un centro di detenzione dell’Ice in Florida sono state almeno tre. Il 20 febbraio Maksym Chernyak, ucraino di 44 anni, ha avuto un infarto in un centro di Miami-Dade, ed è morto dopo che gli agenti di custodia avevano aspettato quasi un’ora prima di chiamare i soccorsi. L’uomo, che era riuscito a sopravvivere alla invasione russa dell’Ucraina, aveva aiutato a mettere in salvo alcuni gruppi di donne e bambini a Kiev e infine era riuscito a fuggire alla guerra attraversando il confine con la Polonia. Circa un mese prima, a gennaio, Genry Ruiz-Guillen, honduregno di 29 anni, è deceduto ufficialmente - secondo i documenti dell’Ice - per “complicazioni di un disturbo schizoaffettivo”, una spiegazione giudicata insufficiente dal medico che ha effettuato l’autopsia. Come ha dichiarato Michael Baden, medico legale responsabile anche dell’autopsia sul corpo di George Floyd, “la diagnosi diffusa dall’Ice non risponde alla domanda su come sia morto. In questo caso quello che ho riscontrato nell’autopsia è la presenza di troppi medicinali nel sistema”, che sarebbero stati la causa del decesso del giovane. L’Algeria contro gli scrittori. Richiesto l’arresto anche di Kamel Daoud. La Francia ora deve mobilitarsi Il Foglio, 9 maggio 2025 Il grande scrittore algerino Kamel Daoud, esiliato in Francia per i suoi romanzi e i suoi articoli sui soprusi del regime di Algeri e le derive dell’islam politico, è oggetto di due mandati di arresto internazionali spiccati dalla giustizia del suo paese d’origine. Lo ha rivelato il Point, che ha appreso la notizia dagli avvocati di Daoud. Interpol Algerie ha emesso la prima red notice ai danni del romanziere a marzo e una seconda a inizio maggio. Sebbene sia difficile accertare i motivi della red notice, poiché l’Interpol non comunica le procedure di cui è destinataria, i mandati, secondo le informazioni del Point con cui Daoud collabora, sarebbero stati spiccati da un giudice del tribunale di Orano, città dell’Algeria occidentale dove il romanziere viveva prima di trasferirsi in Francia. “È evidente che siano stati emessi dalle autorità algerine per motivi politici”, ha dichiarato l’avvocato Jacqueline Laffont, che difende gli interessi dello scrittore e ha annunciato il ricorso. A suo avviso, i due mandati di arresto sono “parte di una serie di procedure volte a mettere a tacere uno scrittore il cui ultimo romanzo evoca i massacri del decennio nero in Algeria”. È molto probabile, infatti, che sia “Houris”, il romanzo per cui a novembre è stato insignito del premio Goncourt, il motivo dell’ennesima persecuzione giudiziaria da Algeri. “Houris”, che nella fede musulmana si riferisce alle ragazze a cui è stato promesso il paradiso, è un romanzo cupo sul destino di Aube, una giovane donna muta da quando un islamista le ha tagliato la gola il 31 dicembre 1999. “Durante la guerra civile degli anni Novanta, gli scrittori venivano uccisi. Oggi li mettono in prigione e spiccano mandati di cattura”, ha dichiarato Daoud al Point. Un riferimento al suo amico e scrittore Boualem Sansal, in carcere ad Algeri dallo scorso 16 novembre per la stessa colpa: quella di essere un libero pensatore.