“Chi studia il diritto penitenziario non può fare a meno di Ristretti Orizzonti” Il Foglio, 8 maggio 2024 Un appello al Dap che arriva dai docenti universitari. Non convincono le motivazioni a favore delle “celle chiuse” quale modalità di custodia dei detenuti di alta sicurezza, da tempo coinvolti dalla testata in attività aventi come scopo la rieducazione. Ma le persone non sono “reati che camminano”: serve un modo più costituzionalmente orientato per garantire la sicurezza negli istituti penitenziari. Chi studia il diritto penitenziario non può fare a meno di Ristretti Orizzonti. E crediamo che le duemila visite giornaliere al suo sito internet siano testimonianza della rilevanza per una cerchia più ampia di persone, a tal punto che Ristretti, straordinario strumento di informazione e di apprendimento, appare un bene culturale immateriale da tutelare. Ad esempio, il Notiziario quotidiano dal carcere e? un appuntamento che ciascuno attende e dal quale trae beneficio per le attività che svolge. Il tutto senza considerare che Ristretti coinvolge da tempo un cospicuo numero di detenuti in attività aventi come scopo la rieducazione, costituzionalmente imposta. Siamo quindi preoccupati delle conseguenze che si potranno verificare sul lavoro di Ristretti Orizzonti a seguito della nota del 27 febbraio 2025 del direttore generale della Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dap, avente ad oggetto le modalità di custodia dei detenuti di alta sicurezza. Da un lato, l’art. 13 della Costituzione esige che i “modi” della detenzione siano “previsti dalla legge”. Siamo consapevoli che già si è fatto ricorso a note, linee guida, circolari e simili per intervenire sulle modalità della detenzione, non di meno è il momento di adottare una posizione più netta, anche perché la giurisprudenza costituzionale ha esteso all’esecuzione della pena una serie di principi fino a qualche anno addietro ritenuti validi solo per la fase della cognizione (su tutti, un corollario proprio della legalità, il divieto di retroattività di modifiche in peius: sentenza 32/2020, seguita da decisioni conformi). Esistono spazi di attuazione da riconoscere alla fonte regolamento, ma una questione cosi? importante, come quella delle modalità di custodia dei detenuti (nel nostro caso, di As), deve trovare nella fonte legislativa la sua prima e insostituibile disciplina. Dall’altro lato, nel merito, ci domandiamo quanto possa essere costituzionalmente legittima la scelta delle “celle chiuse” quale modalità di custodia dei detenuti di As. I riferimenti corrono a diverse disposizioni della Costituzione. Da quelle che assegnano alla Repubblica compiti inequivocabili - quali garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2) e rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3) - a quelle che disegnano il volto costituzionale del sistema penale, come la responsabilità penale personale, il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e il finalismo rieducativo (art. 27). Non convincono le motivazioni a favore delle “celle chiuse”, laddove si dice che solo in questo modo si rende possibile la individualizzazione del trattamento. Allo stesso modo, non pare opportuno fare discendere conseguenze così gravose sulla generalità dei detenuti in As. Laddove si sono verificate criticità è giusto intervenire, non lo è farlo in modo indistinto, a tutto detrimento proprio della individualizzazione. Chiediamo pertanto che il Dap intervenga in modo rapido e solerte per rimediare a questa scelta sbagliata e fuori dal perimetro costituzionale. Le persone non sono “reati che camminano”, il diverso trattamento e il differente regime di custodia devono sempre basarsi su valutazioni attuali e individualizzate. Siamo convinti che questo sia il modo più costituzionalmente orientato per garantire insieme l’ordine e la sicurezza entro gli istituti penitenziari e il pieno sviluppo della persona umana. Sottoscrivono: Davide Galliani, Università degli Studi di Milano (estensore); Roberto Bartoli, Università degli Studi di Firenze; Francesco Palazzo, Università degli Studi di Firenze; Roberto Cornelli, Università degli Studi di Milano; Renzo Orlandi, Università degli Studi di Bologna; Giovanni Fiandaca, Università degli Studi di Palermo; Emilio Dolcini, Università degli Studi di Milano; Marco Pelissero, Università degli Studi di Torino; Luciano Eusebi, Università Cattolica di Milano; Angela Della Bella, Università degli Studi di Milano; Stefano Simonetta, Università degli Studi di Milano; Emilio Santoro, Università degli Studi di Firenze; Stefano Canestrari, Università degli Studi di Bologna; Patrizio Gonnella, Università degli Studi Roma Tre; Giandomenico Dodaro, Università degli Studi di Milano-Bicocca; Lina Caraceni, Università degli Studi di Macerata; Franco Della Casa, Università degli Studi di Genova; Laura Cesaris, Università degli Studi di Pavia; Andrea Pugiotto, Università degli Studi di Ferrara; Carlo Fiorio, Università degli Studi di Perugia; Silvia Buzzelli, Università degli Studi di Milano-Bicocca; Pasquale Bronzo, Università La Sapienza di Roma; Marco Ruotolo, Università degli Studi di Roma Tre; Gian Luigi Gatta, Università degli Studi di Milano; Costantino Visconti, Università degli Studi di Palermo; Gian Paolo Demuro, Università degli Studi di Sassari; Claudia Pecorella, Università degli Studi di Milano-Bicocca; Mauro Palma, Università degli Studi di Roma Tre; Adolfo Ceretti, Università degli Studi di Milano-Bicocca Ristretti Orizzonti va salvata: appello delle università di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 maggio 2024 Da tutte le università d’Italia è partito un appello in difesa di Ristretti Orizzonti. Con una lettera aperta, redatta dal professor Davide Galliani dell’Università di Milano, trentacinque docenti hanno scritto al Dap per protestare contro una circolare punitiva per i detenuti dell’Alta sicurezza, che sono parte fondamentale della redazione nata nel 1997 dentro il carcere di Padova. Una realtà che, come scrivono i docenti, ha ormai una “rilevanza per una cerchia più ampia di persone” ed è uno “straordinario strumento di informazione e di apprendimento” e “un bene culturale immateriale da tutelare”. Una rivista bimestrale di 48 pagine, un sito internet da duemila visite giornaliere, un “Notiziario quotidiano dal carcere” che è la rassegna stampa più completa sull’argomento e il preziosissimo dossier “Morire di carcere”, il più affidabile e rigoroso registro dei detenuti morti per suicidio e altre cause. A curare questa mole di lavoro è, appunto, la redazione di Ristretti orizzonti diretta da Ornella Favero e composta da una cinquantina di detenuti del carcere di Padova, con succursali anche a Parma e Genova. Tra loro, una decina provengono dal circuito Alta sicurezza e vi lavorano dal 2013. Ma la circolare emessa il 27 febbraio dal direttore generale detenuti del Dap, Ernesto Napolillo (voluto dal sottosegretario Delmastro, malgrado sia Ostellari ad avere la delega al trattamento dei detenuti) li rispedisce in cella, imponendo una restrizione sugli orari di apertura delle “camere di pernottamento” e attività separate dai detenuti “comuni”. Con buona pace del fatto che la regressione trattamentale, in mancanza di un illecito commesso, è vietata e può essere impugnabile. Per questo scrivono i professori universitari, “chiediamo che il Dap intervenga in modo rapido e solerte per rimediare a questa scelta sbagliata e fuori dal perimetro costituzionale”. Solo 1 detenuto su 3 lavora, gli incentivi si utilizzano poco e le celle sono piene di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 maggio 2024 Sono ormai passati otto giorni dalla festa del Primo Maggio, ma si è fermata fuori dalle mura del carcere. Lì, il lavoro scarseggia, e questo contribuisce all’inutilità del carcere, già gravemente colpito dal sovraffollamento. Secondo i dati del ministero della Giustizia, al 31 dicembre 2024 in Italia erano detenute 61.861 persone. Solo 21.235 di queste - poco più di un terzo - svolgono un’attività lavorativa all’interno degli istituti penitenziari. Di chi lavora dietro le sbarre, l’84,5% presta servizio per l’Amministrazione penitenziaria (18.063 unità), mentre appena 3.172 reclusi - il 5,1% del totale - lavorano per datori di lavoro esterni. Tra questi ultimi, 1.123 sono semiliberi, 898 ammessi al lavoro esterno secondo l’articolo 21 della legge 354/ 1975 e 902 impegnati in lavori per cooperative sociali. Le imprese private profit contano appena 249 assunzioni in tutta Italia. La legge 193/ 2000, nota come legge Smuraglia, offre sgravi fiscali e contributivi alle aziende che impiegano detenuti. Per il triennio 2024- 2026 il governo ha stanziato circa 19 milioni di euro all’anno. Eppure, nel 2024 sono state presentate soltanto 536 domande, per un importo complessivo pari a 10,6 milioni. Meno della metà delle risorse disponibili rischia di rimanere inutilizzata. Nella pratica, le cooperative sociali fanno da ponte tra carcere e mondo del lavoro. Spesso sono loro a farsi carico dell’iter burocratico - richieste di nullaosta, visite ispettive, permessi - mentre molte aziende profit restano ai margini, spettatrici passive. Ne deriva un quadro in cui buona parte degli incentivi finisce nelle mani di chi già opera nel sistema carcerario, anziché raggiungere nuovi investitori. Le ragioni di questo fenomeno sono diverse. Come documentato nei rapporti dell’associazione Antigone, le procedure amministrative sono complesse e richiedono competenze che le imprese faticano a trovare. Gli sgravi coprono solo una componente minima della retribuzione - intorno ai 520 euro mensili - e restano destinati a detenuti con specifici profili giuridici. Molti imprenditori temono conseguenze legali o danni d’immagine, nonostante le garanzie offerte dalla normativa. Dai dati 2024 emerge un forte divario territoriale: al Nord si concentra la maggior parte delle richieste, mentre in regioni del Centro e del Sud le opportunità restano in gran parte sulla carta. L’offerta di lavoro carcerario si limita spesso a piccoli laboratori artigianali o a progetti di cooperazione, senza un vero collegamento con industrie di medie o piccole dimensioni. Le analisi evidenziano un altro nodo: le competenze dei detenuti spesso non incontrano le esigenze del mercato esterno. I livelli di istruzione e le professionalità acquisite in carcere risultano insufficienti per garantire un inserimento stabile, creando uno scarto tra domanda e offerta di lavoro. Per trasformare i 19 milioni di euro stanziati in posti di lavoro, servono maggiore informazione sugli sgravi e semplificazione delle procedure. Occorre costruire reti stabili tra istituzioni, cooperative e imprese, con progetti formativi mirati alle reali necessità del tessuto produttivo. Non mancano, associazioni come Seconda Chance che dal 2022 sta portando avanti un lavoro egregio in tal senso, creando sinergie tra il mondo imprenditoriale e le strutture carcerarie, facilitando l’ingresso delle aziende nel progetto. Il lavoro in carcere ha un valore simbolico e pratico: è strumento di rieducazione e ponte verso il reinserimento. Sbloccare gli incentivi Smuraglia non significa soltanto ottimizzare un capitolo di spesa pubblica, ma rispettare un principio scritto nella Costituzione italiana. Solo così si potrà ridurre il confine tra “dentro” e “fuori”, restituendo dignità e prospettive a migliaia di persone ristrette. Sulle carceri lo stato è come Procuste di Guido Vitiello Il Foglio, 8 maggio 2024 Il gigante era indubbiamente giusto. Trascinava i viandanti nel suo antro e li stendeva su un’incudine a forma di letto, li amputava o li stendeva fino a ottenere la lunghezza desiderata. La premier Meloni, sulla condizione delle carceri, ha detto che uno Stato giusto adegua la capienza alla necessità, non i reati al numero di posti disponibili. Se è vero, come vuole il filosofo, che la giustizia si fonda sul concetto di proporzione, dobbiamo riconoscere che Procuste era un gigante (nonché un brigante) indubbiamente giusto. Braccava i viandanti, li trascinava nel suo antro e li stendeva su un’incudine a forma di letto: se erano troppo alti, li amputava alle estremità; se erano troppo bassi, li stirava fino a ottenere la lunghezza desiderata. Lo so cosa pensate: il nostro senso di giustizia si ribella a questo trattamento: sono i letti che devono adeguarsi agli uomini, non il contrario. La salvaguardia dei nostri simili dev’essere la costante, gli altri fattori possono variare. Insomma, vorremmo dirgli: caro Procuste, anzitutto lascia in pace i poveri viandanti, ma se proprio devi sequestrarli, torna a farlo solo quando ti sarai dotato di letti di tutte le taglie. Ora, che lo stato sia un gigante lo sappiamo almeno dai tempi di Hobbes (e l’Italia pullula di adoratori del bestione, a destra e a sinistra); che sia anche un brigante, beh, lascio a voi il giudizio, ma la nostra disinvoltura nel maneggiare la custodia cautelare si rispecchia a meraviglia in questa pagina di Voltaire: “Sbattere un uomo in carcere, lasciarvelo solo in preda alla paura e alla disperazione, interrogarlo solamente quando la sua memoria è smarrita per l’agitazione, non è forse come attirare un viaggiatore in una caverna di ladri e assassinarlo?”. Bene. Tenendo a mente tutto questo, leggete una frase recente di Giorgia Meloni sulla condizione delle carceri e sulle flebili ipotesi di qualche misura di clemenza: “Uno stato giusto adegua la capienza alle necessità, non i reati al numero di posti disponibili”. Tradotto in termini mitologici: nell’attesa che il gigante-brigante faccia i suoi comodi, si procede all’insacco, moltiplicando i reati (e i rei) senza moltiplicare i letti. Uno stato giusto, non c’è che dire. Giusto come Procuste. “Lo Stato di diritto si deve misurare anche in cella” di Simona Musco Il Dubbio, 8 maggio 2024 Sovraffollamento carcerario, diritti dei detenuti, stato dei Cpr e deriva securitaria: Mario Serio, componente dell’Ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, analizza con il Dubbio il sistema penitenziario italiano. Dalla recente decisione della magistratura olandese alla mancata riforma del regolamento del Dap, Serio affronta senza retorica i nodi strutturali di una crisi ignorata o rimossa, e rilancia il tema della dignità come fondamento dello Stato di diritto. I giudici olandesi hanno negato l’estradizione di un giovane accusato di omicidio sostenendo che le carceri italiane sono inumane. Crede sia un’esagerazione? È un problema che investe la credibilità dell’Italia. Anche perché è veramente paradossale che questa forte tensione punitiva, securitaria poi naufraghi e venga resa impossibile dalla condizione delle carceri, al punto di non rassicurare gli Stati stranieri. L’Olanda contesta una situazione che era stata stigmatizzata dalla Cedu nel 2013. Siamo davvero fermi alla sentenza Torreggiani? Può residuare il dubbio che non vi sia stato questo aggiornamento dei dati rispetto a quella sentenza. Non possiamo escluderlo. Però i veri dati li conosciamo comunque: basta leggere la relazione della Corte dei conti, che parla di un sovraffollamento superiore al 120%. Mettiamo anche sul piatto della bilancia la vetustà delle strutture dal punto di vista architettonico, notissimi momenti disfunzionali come la mancanza a volte di riscaldamento, talvolta di acqua calda, la mancanza di spazi ricreativi idonei. Di fatto, nel 2025, i problemi rimangono. Aggiungiamo anche che dal dicembre 2024 il Dap è privo di un titolare. Come incide sulla gestione del sistema penitenziario? Sul piano pratico abbiamo un capo facente funzioni che si impegna, ma l’assenza di una figura strutturale pesa. Un conto è avere la titolarità di una funzione così elevata, un conto è, invece, svolgere questa azione in modo precario. La precarietà induce prudenza e rallenta riforme strutturali e magari ci si astiene dall’adottare iniziative più incisive e di carattere maggiormente strutturale. E questo è indubitabile. Quando si parla di sovraffollamento o di suicidi in carcere, però, la risposta che ci viene data dalle istituzioni è la costruzione di nuove carceri. Come in tanti hanno già chiarito non è una soluzione, ma anche a volerla attuare ciò richiede del tempo ed in questo tempo il numero dei detenuti continuerà a crescere, visto che aumentano anche i nuovi reati. Qual è, allora, la risposta che possiamo dare a questo problema? Bisogna partire dalla consapevolezza dell’esistenza del problema. Se chi decide avesse piena consapevolezza del problema, sarebbe già corso ai ripari. La costruzione di nuove carceri, naturalmente, è inconciliabile con l’urgenza dei tempi. Il problema del crescente numero dei suicidi in carcere implica, poi, il riconoscimento della esigenza di una rete di assistenza psicologica più estesa di quella qualificata già esistente. D’altro canto, sconta anche la mancanza di previsioni di condizioni di vita nel carcere: lavoro, svago, relazioni sociali che, ove esistenti, probabilmente dissuaderebbero dal compiere gesti estremi. Consapevolezza o volontà? Il problema viene posto periodicamente, però si continua a parlare di certezza della pena, di garantismo nel processo e di giustizialismo dopo il processo… È innegabile, soprattutto a proposito della ventilata possibilità di amnistia e indulto, che si sia sentito un linguaggio che va in una direzione opposta, per cui non sempre è facile distinguere tra mancanza di consapevolezza e approccio culturale punitivo. Ma il tentativo di distinguere può essere un esercizio puramente retorico e privo di effetti pratici. Quel che conta è invece l’analisi del fenomeno, che è certamente allarmante. A questo punto c’è da sperare che gli appelli che sempre più si intensificano e che provengono da settori disparati della vita civile, dall’Accademia, dall’avvocatura, dalla stessa magistratura di sorveglianza trovino una risposta. E per quanto attiene all’incremento incessante di figure di reato, si è significativo che si siano mobilitati non solo i penalisti ma anche i giuristi che si occupano di diritto amministrativo, di diritto costituzionale, di diritto pubblico. Non può essere considerato come un fenomeno di politicizzazione dell’Università, ma una schietta analisi in termini di aderenza al dato costituzionale di queste misure. Per quanto riguarda il dl sicurezza, c’è effettivamente un’emergenza tale da imporre uno scavalcamento del Parlamento? Mi limito ad un’osservazione di carattere tecnico. Ci troviamo di fronte ad un provvedimento legislativo che inizialmente ha assunto le sembianze del disegno di legge, pendente già dalla tarda primavera del 2024, tanto che il garante aveva espresso un parere. E improvvisamente, senza che siano almeno apparentemente mutati i parametri che avevano consigliato la strada del disegno di legge, si imbocca quella del decreto, un provvedimento che implica la ricorrenza di presupposti di necessità e d’urgenza chiaramente enunciati. Quello che io da giurista mi chiedo - dati l’insegnamento della Corte costituzionale ed i ripetuti appelli del capo dello Stato nel senso di una interpretazione molto rigorosa delle condizioni legittimanti l’adozione del decreto legge - è: c’è stata, effettivamente, questa analisi? C’è un altro tema: i detenuti in attesa di giudizio. Questa pena anticipata può essere evitata in qualche modo? Sicuramente è una causa di aggravamento della presenza di detenuti in carcere. Non si può in linea generale abolire la custodia cautelare, credo però che la selezione accurata da parte del gip, oggi resa ancora più puntuale dopo l’introduzione dell’interrogatorio obbligato, sia una strada che può portare, sul piano fattuale, ad un decremento delle presenze nelle carceri. In un recente incontro a Rebibbia, i detenuti hanno spiegato di voler essere visti. Il carcere è un luogo fatto per separare, per non far vedere, perché è un mondo che disturba… È verissimo. E voglio ricordare quell’appello, anche autorevolmente fatto da magistrati di sorveglianza, secondo i quali tutti, a turno, dovremmo trascorrere un breve periodo in carcere per comprendere la realtà. È vero, il carcere è considerato un non luogo e questo sicuramente ha dei riflessi negativi anche nelle valutazioni politiche, in termini di consenso. Una maggior diffusione della conoscenza della realtà carceraria, sicuramente, produrrebbe un risultato positivo, perché chiunque poi visiti un carcere sarebbe costretto a rivedere i propri meccanismi psicologici di pregiudizio e tendere a solidarizzare con chi soffre, con chi si vede negato qualunque diritto all’umanità. Il regolamento del Dap è fermo al 1975. Va riscritto? Credo che il regolamento non possa non tenere conto dell’evoluzione anche sul piano tecnologico, della comunicazione, della maggior diffusione di agi e stili di vita che naturalmente rendono incompatibili quelli precedenti, più spartani e meno e meno adusi al progresso. Il deputato Roberto Giachetti, insieme a Nessuno tocchi Caino, ha presentato una proposta sulla liberazione anticipata, uno di quei temi un po’ difficili da digerire per un governo che ha scelto di attuare politiche securitarie. Lei cosa ne pensa? Era un provvedimento molto prossimo alla dirittura d’arrivo. Già un anno fa il Garante fu ascoltato dalla Commissione giustizia della Camera. Da allora è come se il tema fosse soggetto a narcosi o addirittura si trovasse in una condizione letargica. È necessario che si dia una risposta: si è aperto un itinerario parlamentare, lo si conduca fino alla fine con l’esito che poi naturalmente le assemblee parlamentari vorranno dare. Lei, come componente dell’ufficio del Garante, si occupa prevalentemente di migranti. Un anno fa ha incontrato Papa Francesco e su questo ci ha invitati addirittura ad “abbaiare”. Qual è la situazione dei Cpr? Il problema è complicato da una carenza di fondo, sulla quale aspettiamo il 9 giugno una pronuncia da parte della Corte costituzionale. C’è una netta asimmetria tra la posizione del detenuto e quella del migrante. Nel caso in cui venga negato un beneficio, infatti, il detenuto può utilizzare degli strumenti di contestazione del diniego, il migrante no. È una sorta di non entità dal punto di vista ordinamentale. Questo è un vuoto di tutela fondamentale e c’è da auspicare che il Parlamento europeo, in sede di esame e conseguente approvazione del nuovo regolamento rimpatri, introduca una o più disposizioni aventi comunque un carattere sistematico, che descrivano la condizione statutaria dei migranti. Questo è un passo senza il quale i centri di permanenza per il rimpatrio saranno luoghi di sofferenza ingiustificata e di totale assenza dello Stato di diritto. Penalisti e opposizioni in piazza contro il Decreto Sicurezza: “Baratro costituzionale” di Valentina Stella Il Dubbio, 8 maggio 2024 A Roma la maratona oratoria contro il provvedimento del governo con i parlamentari delle opposizioni. Tranne il M5S. “Parlamento umiliato, travolto”, “atto vergognoso”, e ancora “baratro costituzionale”: sono solo alcune delle espressioni che si sono udite ieri sul palco allestito a piazza Santi Apostoli a Roma dall’Unione Camere penali per protestare contro il decreto Sicurezza. Intervenuti diversi parlamentari delle opposizioni, ma non quelli del Movimento 5 Stelle. Ad aprire la maratona oratoria, il presidente dei penalisti italiani Francesco Petrelli, che ha sottolineato come con questo provvedimento “avremo una società più illiberale in cui i diritti e le libertà saranno fortemente compressi e compromessi”. Secondo la vicepresidente del Senato, la dem Anna Rossomando, “il Parlamento da un anno e mezzo stava lavorando sul disegno di legge, anche attraverso il confronto con operatori della giustizia, col mondo dell’università, con i sindacati. Il provvedimento stava per andare in Aula e si è voluto travolgere il Parlamento con un decreto legge. Tutto ciò è contro le democrazie parlamentari”. Molto dura anche Maria Elena Boschi, presidente dei deputati di Italia Viva: “Siamo in piazza per rappresentare il dissenso nei confronti di un decreto che è una vergogna. Peggio ancora del disegno di legge Sicurezza su cui il Parlamento ha lavorato per un anno. E il governo Meloni cosa fa? In cinque minuti, in Consiglio dei ministri, cancella tutto quel lavoro, lo trasforma in un decreto legge, togliendo spazio al dibattito democratico e umiliando il Parlamento”. Avs è stata rappresentata da Ilaria Cucchi e Peppe De Cristofaro che hanno dichiarato: “Questo decreto rende l’Italia non più sicura, ma più ingiusta e repressiva. Meloni usa la decretazione di urgenza per impedire il dissenso, per bloccare chi non la pensa come lei o lotta per il proprio posto di lavoro o per difendere l’ambiente. Criminalizzare il dissenso o aumentare in modo spropositato le pene non porterà a maggiore sicurezza per i cittadini, ma ad una mortificazione della democrazia”. È intervenuto anche il deputato di +Europa Riccardo Magi: “Il decreto Sicurezza è un mostro di 40 articoli, con una ventina di interventi in materia penale, e segna un salto nel baratro dal punto di vista costituzionale: si può dire senza esagerare che è il coperchio sulla bara del Parlamento e delle prerogative parlamentari, per questo ho ritenuto di avanzare un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale come singolo deputato. Ma noi, come opposizioni, vogliamo chiedere ai presidenti di Camera e Senato di sollevare loro il conflitto di attribuzioni nei confronti del governo, a tutela delle funzioni parlamentari, oppure ci devono dire perché accettare che l’iter di un disegno di legge che andava avanti da un anno e mezzo venga interrotto e l’attività del Parlamento annullata in questo modo”. Presente anche l’avvocato Gaetano Scalise, responsabile Giustizia di Noi Moderati, che ha illustrato i vari emendamenti, tra cui uno relativo alle detenute madri. Invece di prevedere direttamente la custodia in un Icam l’alternativa potrebbe essere quella degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico. Per il Cnf, è intervenuto il consigliere Demetrio Rivellino, mentre quasi in chiusura sul palco è salito Ciccio Zaccaro, segretario della corrente progressista dell’Anm “AreaDg”: “Non ci può essere sicurezza se si limitano i diritti, e quindi sì alla sicurezza come strumento per la tutela dei diritti, della libertà e delle garanzie, ma se invece la sicurezza è contro i diritti, le libertà, le garanzie, la dobbiamo chiamare con il suo vero nome, che è autoritarismo”. Non poteva mancare la presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, giunta al quindicesimo giorno di sciopero della fame come forma di dialogo nonviolento con il Parlamento in merito al decreto Sicurezza e alla proposta di legge, in fase di definizione, su un possibile indulto. Sul fronte parlamentare, intanto, sono 1.949 gli emendamenti al ddl di conversione del decreto Sicurezza depositati nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera, ripartiti tra tutti i gruppi. In particolare, sono 525 gli emendamenti depositati da Avs, 24 da Azione, 62 da Iv, 23 da +Europa, 3 dal gruppo Misto delle minoranze linguistiche, 801 dal M5S, 458 dal Pd. Anche i gruppi di maggioranza hanno depositato emendamenti: sono 22 quelli di Forza Italia, 11 di Fratelli d’Italia, 9 della Lega, 11 di Noi moderati. La norma dovrebbe essere approvata alla Camera entro il 26 maggio e poi passare immediatamente al Senato, dove deve avere l’ok entro l’11 giugno. Le manovre della destra giudiziaria fanno litigare la giunta dell’Anm di Mario Di Vito Il Manifesto, 8 maggio 2024 Riunione tesa in Cassazione. Parodi stretto tra le critiche e i problemi interni. C’è tensione all’interno dell’Associazione nazionale magistrati. Ma è una tensione quasi inspiegabile: la riforma della separazione delle carriere corre in Parlamento, è vero, ma le forze politiche della maggioranza sono tutt’altro che compatte, non perdono occasione di dimostrarlo e la campagna referendaria è ancora tutta da giocare. Insomma, di motivi per coltivare un qualche cauto ottimismo, da parte delle toghe, ce ne sarebbero pure. E però la riunione della giunta dell’Anm andata in scena all’ultimo piano del “palazzaccio” della Cassazione a Roma è finita maluccio. Non si è riusciti nemmeno a chiudere il verbale. E i toni della discussione sono stati sin troppo alti. Sarà un fatto di inesperienza - molti membri della giunta non sono abituati ai ritmi effettivamente infernali della vita pubblica -, ma l’incidente sembra sempre dietro l’angolo e le dichiarazioni, per così dire, imprudenti si sprecano. Per esempio, ieri mattina, dopo l’incontro annunciato (e privo di vero e proprio rilievo) tra la giunta e i rappresentanti di Forza Italia, Lega e Noi Moderati, il presidente delle toghe organizzate Cesare Parodi ha commentato davanti ai cronisti la decisione della maggioranza di falciare gli emendamenti parlamentari e approvare nel minor tempo possibile la riforma con parole sin troppo concilianti: “Lo possono fare e in fondo non sono nemmeno i primi a farlo”. A parte che non è vero - è la prima volta che la “tagliola” sugli emendamenti viene utilizzata per una riforma costituzionale - di certo il presidente poteva uscire con dichiarazioni meno comprensive. Sia perché parliamo dell’azzeramento del dibattito in Senato (fatto che dovrebbe quantomeno perplimere chiunque ancora crede nell’istituzione parlamentare) sia perché il gioco della maggioranza è talmente chiaro da meritare una trattazione a parte: si tagliano gli emendamenti perché è la stessa destra a non essere concorde al cento percento sulla riforma Nordio. Rilevarlo non sarebbe stato grave, anzi sarebbe stato dovuto. Eppure non è successo. La posizione di Parodi - sia detto come alibi - è molto complicata: martedì, con un’intervista al Giornale, il segretario della sua corrente (Magistratura indipendente) Claudio Galoppi ha sparato ad alzo zero contro l’Anm usando gli stessi concetti che di solito usa il governo: “Fa politica, non vuole discutere, è un organo dell’opposizione”. Parole che suonano come una sfiducia nei suoi confronti. O che come tali suonano, al di là delle precisazioni di Galoppi sul fatto che si riferisse soprattutto al segretario dell’associazione Rocco Maruotti (Area dg) e alla precedente giunta presieduta da Giuseppe Santalucia (che aveva un segretario di Mi, Salvatore Casciaro). Quando, per fare un paragone, il segretario del Pd Matteo Renzi criticava il presidente del consiglio del Pd Enrico Letta nessuno interpretava la cosa come una spinta a migliorare o come un’accusa agli alleati. Infatti quella storia è finita con Renzi che ha sostituito Letta. Galoppi non ha evidentemente alcuna intenzione di sostituire Parodi, ma di certo non parla a sproposito. Forse ha altre mire e guarda oltre mondo delle toghe, magari. O più banalmente sta provando a riposizionare il suo gruppo: la riforma andrà avanti, del resto, e a qualcuno bisognerà pure dare la colpa. Per esempio alle toghe rosse, accusate da sempre di avere sin troppi pregiudizi contro il governo. Lo stesso governo che un giorno sì e l’altro pure prende di mira ogni magistrato che assume una decisione sgradita. Senza mai entrare nel merito, ovviamente, perché il vero obiettivo è un altro: delegittimare, mettere all’angolo, isolare. È un metodo. Bisognerebbe prenderne atto. Scontro senza precedenti tra il Csm e i procuratori antimafia. Salta l’incontro di martedì di Ermes Antonucci Il Foglio, 8 maggio 2024 Il procuratore nazionale antimafia Melillo e i procuratori distrettuali antimafia attaccano la circolare adottata dal Csm sulle procure lo scorso luglio. Il Csm, irritato, annulla il vertice con i pm programmato per martedì proprio per discutere della materia. Scontro senza precedenti tra il Consiglio superiore della magistratura e i pm antimafia. Per martedì prossimo il Csm aveva fissato un incontro con i procuratori di tutta Italia per fare il punto sui primi mesi di applicazione della nuova circolare sulle procure, adottata a luglio. Anziché attendere l’incontro, però, nei giorni scorsi il procuratore nazionale antimafia Melillo e i procuratori distrettuali antimafia hanno inviato una missiva al Csm in cui criticano duramente la circolare, con toni e contenuti che sono stati ritenuti inopportuni. Risultato: il Csm, irritato, ha annullato il vertice di martedì. A promuovere l’incontro di martedì era stata la Settima commissione del Csm, competente sull’organizzazione delle procure e che un anno fa aveva appunto elaborato la nuova circolare sugli uffici requirenti, poi approvata dal plenum dell’organo di governo autonomo della magistratura. All’incontro, secondo quanto risulta al Foglio, avrebbero dovuto partecipare i procuratori di tutta Italia, i quali avrebbero avuto la possibilità di avanzare osservazioni e spunti di riflessione sui primi mesi di applicazione della circolare. Una circolare che, come avevamo raccontato su queste pagine, era stata approvata tra diverse critiche di magistrati, che sottolineavano una riduzione dei poteri dei dirigenti delle procure, oltre che una burocratizzazione delle procedure organizzative interne. La circolare stabilisce, per esempio, che i capi delle procure debbano definire i criteri organizzativi dell’ufficio soltanto dopo aver consultato tutti i magistrati che compongono l’ufficio stesso, tenendo necessariamente conto delle loro indicazioni. Anziché aspettare, però, il vertice di martedì, il 29 aprile il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo e tutti i procuratori distrettuali antimafia hanno inviato una missiva (indirizzata non alla Settima commissione, ma direttamente al comitato di presidenza del Csm) con valutazioni molto dure sui primi mesi di vigenza della circolare. “L’esperienza sul campo - si legge nel documento - ha evidenziato criticità che si riflettono negativamente sia sulla operatività e funzionalità degli uffici requirenti, che sulla loro capacità di fornire, con la necessaria prontezza ed efficacia, risposte alla complessiva domanda di giustizia in sede penale”. Nella missiva, i pm antimafia affermano anche che “alcune disposizioni della circolare e alcuni profili della sua concreta applicazione non solo - senza corrispondere ad alcuna effettiva esigenza - rallentano gravemente le attività organizzative e quindi investigative e di coordinamento esterno e interno delle procure, ma, in aggiunta, non sono necessitate ed imposte dalla normativa primaria”. Insomma, sostengono con durezza i vertici delle procure antimafia, “sembra, per dirla con estrema chiarezza, che il Csm, con la circolare in esame, sia andato oltre rispetto alla cosiddetta tabellarizzazione delle procure che il legislatore aveva previsto”. In altre parole, con la sua circolare il Csm sarebbe andato oltre le previsioni legislative (quelle della riforma Cartabia del 2022). Un’accusa molto pesante, che si unisce a quella di aver introdotto “formali e burocratici adempimenti fini a se stessi”, nonché “passaggi e iter tanto inutili quanto laboriosi”. “Secondo un taglio pratico, si propone di curarsi dei rami fruttiferi e potare quelli secchi, agevolando il lavoro di tutti”, è la conclusione tranchant del documento firmato da Melillo e i suoi colleghi, e poi inviato al Csm, senza neanche i saluti finali. Le tempistiche della missiva, oltre che i toni e i contenuti in essa utilizzati, hanno irritato e non poco la Settima commissione del Csm, che ha così deciso di annullare l’incontro programmato per martedì. Insomma, uno scontro istituzionale senza precedenti si è consumato in silenzio, con conseguenze che ora andranno valutate. Già prima dell’approvazione della circolare da parte del plenum, Melillo e i procuratori distrettuali antimafia in un documento inviato alla Settima commissione avevano espresso diverse perplessità sui contenuti della circolare. “Occorre evitare regole assolute e tassative tipizzazioni, foriere di controlli solo formali e burocratici”, avevano ammonito. Vista la lettera inviata nei giorni scorsi, evidentemente i procuratori antimafia ritengono che la circolare sia andata, loro malgrado, proprio in quella direzione. Vittime di errori giudiziari, maggioranza in retromarcia sul giorno dedicato a Tortora di Adriana Logroscino Corriere della Sera, 8 maggio 2024 Il rinvio in commissione. Ma Forza Italia non vota contro. La maggioranza fa retromarcia sulla proposta di legge che istituiva il 17 giugno la Giornata nazionale dedicata a Enzo Tortora, in memoria delle vittime di errori giudiziari. E la rimanda in commissione Giustizia. Un pezzo di Forza Italia, però, cioè i componenti azzurri della commissione, Enrico Costa e Tommaso Calderone, si dissocia e vota contro. “L’Anm non si illuda di avere potere di veto, la proposta diventerà legge a breve”, dice irritato Costa. Il testo era il risultato dell’unificazione di tre diverse proposte di Italia viva, FI e Lega. E in commissione Giustizia della Camera, presieduta da Ciro Maschio di FdI, fino al momento di dare il mandato al relatore, le tre forze di maggioranza si erano espresse compatte a favore della legge. Il governo, però, aveva comunicato di non essere pronto con i necessari pareri. Di qui l’interruzione dell’iter, già in commissione, e la spinta, di Italia viva ma anche di Pd e M5S - che pure non avevano sostenuto la proposta, astenendosi i primi e votando contro i secondi - di portarla comunque in Aula, pur senza parere né mandato al relatore. E ieri la Camera ha stoppato l’iter, rimandando il provvedimento in commissione. “Il cerchio non si era chiuso”, ha dichiarato Maschio. Al di là dell’aspetto procedurale, la ragione politica del rinvio sarebbe la volontà del governo di evitare un altro fronte con la magistratura prima che arrivi a compimento la riforma di separazione delle carriere, all’esame del Senato. “L’intesa con la maggioranza c’era - rivendica Davide Faraone, primo firmatario della proposta di Iv. La verità è che non vogliono scontentare parte della magistratura. FdI è un partito di forcaioli, mi stupiscono Lega e soprattutto Forza Italia”. Si indigna Azione: “E abuso di diritto”. E, appunto, si accodano le forze politiche di opposizione che erano state più che fredde rispetto alla proposta. “Si impedisce al Parlamento di discutere una scelta sgradita alla presidente del Consiglio”, dice il dem Federico Gianassi. E per Carla Giuliano del M55 “la maggioranza scappa dal confronto”. Soddisfatto il commento di Cesare Parodi, presidente dell’Associazione nazionale magistrati: “Non so se ci sia stata una volontà di non urtare la sensibilità dei magistrati, mi piacerebbe”. Quindi spiega la posizione sulla legge: “Rispetto quanti si ritengono vittime della giustizia, ho meno simpatia per chi strumentalizza i casi contro la magistratura”. Ribatte duro Costa: “A strumentalizzare è chi nega l’esistenza degli errori giudiziari considerandoli fisiologici”. Intanto domani, anniversario dell’assassinio di Aldo Moro, ricorre la giornata dedicata alle vittime del terrorismo e delle stragi. Pierluigi Bersani del Pd fa sua la protesta delle associazioni dei familiari delle vittime: “Non si ricordano le stragi di matrice fascista, è una rilettura della storia”. Abuso d’ufficio, la lotta alla corruzione non è una priorità per il Governo di Vitalba Azzollini Il Domani, 8 maggio 2024 La norma che ha abrogato il reato è all’esame della Corte costituzionale. Una disposizione del decreto Milleproroghe rischia di creare situazioni di conflitto di interessi e condizionamenti nell’azione amministrativa, per cui l’Anac ha chiesto di modificarla. Negli ultimi tempi paiono allentarsi le misure di contrasto alla corruzione. La Consulta ha avvitato l’esame della questione di costituzionalità relativa alla norma che ha abrogato il reato di abuso di ufficio. La questione è stata sollevata dalla Corte di Cassazione per un possibile contrasto con gli artt. 11 e 117 della Costituzione, in relazione agli obblighi derivanti per l’Italia dalla Convenzione delle Nazioni unite contro la corruzione (Merida, 2003). Nei mesi scori, dubbi di costituzionalità sono stati espressi anche da giudici di merito. E la Commissione europea, nella relazione annuale sullo Stato di diritto 2024 riguardante l’Italia, ha sottolineato che il venire meno del reato “potrebbe avere implicazioni per l’individuazione e l’investigazione di frodi e corruzione”. L’abolizione dell’abuso d’ufficio - L’abolizione dell’abuso di ufficio è stata voluta dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, al fine di scongiurare la cosiddetta burocrazia difensiva, vale a dire quell’inerzia operativa che deriverebbe dal timore dei pubblici funzionari di incorrere in responsabilità penali e che comporterebbe “perdita di efficienza” e “rallentamento dell’azione amministrativa”. Il contrasto con la Convenzione, rileva la Corte, non riguarda la norma (articolo 19) che si limita a chiedere agli stati contraenti di “considerare” l’adozione della fattispecie dell’abuso d’ufficio, “e non già di introdurla obbligatoriamente”. Il contrasto, invece, si ravvisa rispetto alla disposizione (articolo 7) che obbliga gli stati “a preservare gli standard di tutela raggiunti” e, dunque, ad “astenersi dall’adottare misure, legislative o amministrative, che comportino il regresso rispetto al livello di attuazione raggiunto nel perseguimento degli scopi della Convenzione”. “L’obbligo di adoperarsi per “mantenere” gli standard di tutela” - continua la Corte - riguarda non solo le misure introdotte in attuazione della Convenzione, ma anche quelle “che ciascuno stato aderente aveva già adottato all’atto della sottoscrizione”. È questo l’obbligo che l’abrogazione della norma sull’abuso di ufficio potrebbe aver violato. Tale abrogazione, infatti, “non è stata “compensata” dall’adozione di meccanismi, preventivi o repressivi, penali o amministrativi volti a mantenere il medesimo standard di efficacia ed effettività nella prevenzione degli abusi”. Dunque, affermano gli ermellini, se è legittimo ridurre la portata dell’abuso di ufficio, tale intervento deve tuttavia bilanciare “le esigenze costituzionali dell’imparzialità e dell’efficacia dell’azione amministrativa”. Ma il legislatore italiano non l’ha fatto, “sacrificando integralmente la tutela dei cittadini contro gli abusi posti in essere dai pubblici agenti intenzionalmente ai loro danni”. Il depotenziamento della lotta alla corruzione - Ora la Consulta dovrà pronunciarsi sulla legittimità della disposizione abrogativa dell’abuso d’ufficio. Se vi fosse una declaratoria di incostituzionalità, il reato potrebbe rivivere. Sarebbe l’ennesima norma governativa affetta da vizi di una certa rilevanza. Nell’udienza di ieri l’avvocato Manlio Morcella, costituitosi parte civile nella causa, ha invitato i giudici costituzionali a formulare un rinvio pregiudiziale della questione alla Corte di giustizia europea. Nei giorni scorsi l’Anac, autorità anticorruzione, ha formalmente chiesto a parlamento e governo la tempestiva modifica del cosiddetto “decreto Milleproroghe”, con riguardo a disposizioni in materia di inconferibilità di incarichi amministrativi. L’Anac “segnala l’urgenza” di ripristinare il previgente divieto di conferirli a chi avesse rivestito, tra l’altro, incarichi di natura politica a livello locale. Il divieto era, infatti, funzionale a garantire l’imparzialità e l’efficacia dell’azione della P.A., evitando situazioni di conflitto di interessi e di condizionamento che potrebbero derivare dal “passaggio senza soluzione di continuità dalla sfera politica a quella amministrativa”. Dall’abolizione dell’abuso d’ufficio alla norma sull’inconferibilità, per non parlare del parere negativo espresso dalla maggioranza in parlamento circa la proposta di direttiva europea sulla lotta alla corruzione, l’impressione è che negli ultimi tempi la tutela della legalità sia diventata meno importante rispetto ad altri interessi. *Giurista Campania. Il Garante regionale dei detenuti presenta la relazione sulle condizioni delle carceri corriereirpinia.it, 8 maggio 2024 Sarà il Garante Regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, prof. Samuele Ciambriello, a presentare venerdì 9 maggio alle ore 11.00, presso il Circolo della Stampa di Avellino - Palazzo della Prefettura, la Relazione annuale sulle condizioni delle carceri campane, degli Spdc (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e cura) e le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) della nostra regione. In particolare, la relazione, realizzata in collaborazione con l’Osservatorio regionale sulle condizioni delle persone private della libertà personale, approfondirà nello specifico, i dati e le problematiche emerse nel territorio della provincia di Avellino. Ciò al fine di fornire un quadro delle condizioni in cui versano i ristretti negli Istituti Penitenziari avellinesi e nelle strutture deputate per affrontare le problematiche della salute mentale e di avviare un dibattito in grado di migliorare le condizioni degli operatori della giustizia e della sanità. Per il Garante Ciambriello: “Colpisce il silenzio assordante della politica e della società civile sul carcere. Abbiamo il dovere di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere. Il sovraffollamento rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario. Da ormai 15 anni l’assistenza sanitaria dei detenuti è di competenza del Servizio Sanitario Nazionale, gli istituti di pena avellinesi non sono esenti da aspetti critici che di fatto non permettono l’attuazione di un sistema efficiente di tutela sanitaria”. Teramo. Detenuta morta: indagato il medico di turno in carcere di Teodora Poeta Il Messaggero, 8 maggio 2024 Secondo l’autopsia, la donna è deceduta per un problema cardiaco e la Procura ha formulato l’ipotesi di reato per omicidio colposo. L’aveva visitata la notte prima che morisse e per questo, adesso, almeno come atto dovuto, il medico di turno in carcere è indagato per la morte dell’ultima detenuta che purtroppo ha perso la vita a Castrogno la mattina del primo maggio. È stato lui, infatti, ad intervenire quando la 44enne Rosa De Rosa, originaria di Napoli, nel cuore della notte continuava a lamentare dolori al petto ed è stato quindi richiesto il medico con l’ausilio di due infermieri. Durante la visita alla detenuta le sarebbe stato somministrato un medicinale tramite un’iniezione. Ma il giorno seguente la 44enne è deceduta. È successo dopo l’oro di pranzo quando la detenuta era già rientrata in cella e improvvisamente si è accasciata davanti alla concellina che ha dato immediatamente l’allarme. Ieri, ad una settimana di distanza, è stata eseguita l’autopsia dal medico legale Cristian D’Ovidio su disposizione della pm Monia Di Marco. Dall’autopsia al momento è emerso che la detenuta è morta per un problema cardiaco. In fase di esame irripetibile sono stati fatti tutti i prelievi che serviranno per gli ulteriori accertamenti. È chiaro che ora bisognerà capire se la condotta del medico indagato, che non ha nominato nessun consulente per l’autopsia, possa aver inciso o meno sull’evento. Agli atti del fascicolo d’inchiesta per omicidio colposo è subito finita la cartella clinica della detenuta fatta sequestrata dalla magistratura. In passato la 44enne aveva avuto una malattia oncologica che era riuscita a sconfiggere. Ma recentemente, dopo essere stata trasferita a Castrogno per motivi di opportunità penitenziaria, Rita non si era sentita bene. Tant’è che lo scorso 11 aprile, d’urgenza, era stata portata al pronto soccorso dell’ospedale Mazzini e lì gli avevano diagnosticato una bronchite. Ma nella stessa giornata era rientrata in carcere con la prescrizione di un antibiotico: il Rocefin. Poi, l’episodio della notte tra il 30 aprile e il primo maggio, preceduto, però, già da un forte stato di malessere. Così come sarebbe stato ricostruito, la detenuta prima di perdere la vita, per 48 ore avrebbe accusato forti dolori al petto. Sotto choc la concellina ed un’altra giovane detenuta che hanno visto Rita morire davanti ai loro occhi dopo oltre quaranta minuti in cui i sanitari del 118, intervenuti sul posto, hanno tentato le manovre per la rianimazione. Sotto questo aspetto è stata la stessa garante regionale dei detenuti, l’avvocata Monica Scalera, tra i primi che si è recata a Castrogno il primo maggio, a chiarire che “l’intervento dei sanitari è stato tempestivo”. In carcere la 44enne c’era finita per scontare un cumulo di pene dovuto a reati legati a rapine aggravate e cessione di sostanze stupefacenti proprio in carcere. Bergamo. “Non c’è più posto per nuove brande, in un anno 21 tentativi di suicidio” di Federico Rota Corriere della Sera, 8 maggio 2024 Superati i 600 detenuti, l’appello dell’associazione Carcere e Territorio: più misure alternative. La carenza di spazio nelle celle e la pressione che di conseguenza ne discende le si può intuire bene entrambe scorrendo la relazione di fine 2024 redatta dall’associazione Carcere e Territorio: su 319 posti regolamentari, i detenuti nel carcere di Bergamo sono quasi il doppio. Se il sito del ministero dell’Interno conteggia per la casa circondariale di via Gleno 577 detenuti (dato aggiornato a lunedì), l’associazione dal canto suo evidenzia non solo il tasso di sovraffollamento, del 182,8%, ma anche il fatto di aver raggiunto “l’incredibile cifra di oltre 600 detenuti, al punto che non si sa più dove collocare le brande nelle celle per i nuovi giunti”. Freddi numeri non privi di conseguenze: 1 suicidio, 21 tentativi di suicidio, 131 episodi di autolesionismo e 20 aggressioni al personale, elenca la relazione di Carcere e Territorio. Secondo cui questa tendenza al rialzo nella popolazione carceraria ha cause ben precise: “L’ingresso in carcere è stato incentivato da diversi interventi legislativi come il Decreto Caivano - sostiene l’associazione - che ha portato in carcere un numero elevato di giovani adulti (fra i 18 e i 25 anni, ndr) e che a Bergamo sono circa 50. Il Decreto Sicurezza inciderà ulteriormente a seguito delle strette repressive previste verso le fasce della marginalità, non affrontate all’esterno con il potenziamento dei servizi e delle strutture comunitarie per tossicodipendenti e persone con disagio psichico”. Fra i detenuti in via Gleno circa 400 hanno problemi di dipendenza (a volte associata a disagio psichico). Gli stranieri sono quasi la metà (272), il 35% è senza permesso di soggiorno. Carcere e Territorio lancia un appello, per alleviare questa pressione crescente, proponendo più soluzioni. Ad esempio potenziare “la disponibilità all’accoglienza delle comunità per persone con problemi psichici o di dipendenza, sia sostenendole finanziariamente, sia semplificando le procedure che ognuna di esse adotta per l’ammissione”. Quanto agli inserimenti lavorativi, all’impegno delle cooperative sociali integrare la “disponibilità della Provincia attraverso i Centri per l’Impiego, con il coinvolgimento delle imprese profit”. Ma è anche necessaria la “collaborazione della direzione del carcere” attraverso l’applicazione dell’articolo 21 sul lavoro esterno e, specialmente, della “magistratura di sorveglianza nella fissazione delle udienze finalizzate all’applicazione delle misure alternative, anche attraverso il ricorso al provvisorio”. Lecce. Carcere sporco, sovraffollato e senza cure: 29 detenuti firmano un esposto di Francesco Oliva La Repubblica, 8 maggio 2024 La situazione nel penitenziario di borgo “San Nicola” è sempre più esplosiva con oltre 1.300 detenuti stipati nelle celle. Da anni oltre la capienza massima: il tasso di sovraffollamento, infatti, sfiora il 149,5%. Da mesi, il carcere di Lecce è alle prese con ulteriori criticità che hanno intaccato il fronte sanitario. Le carenze sanitarie nel carcere di Lecce al centro di un esposto a firma di 29 detenuti: penuria di personale, scarsa attenzione per le problematiche di salute, decessi continui. E persino un focolaio di tubercolosi scoppiato nel reparto di Infermeria e sfuggito ai controlli. C’è tutto questo nel disagio dei detenuti nel reparto di infermeria. D’altronde, la situazione nel penitenziario di borgo “San Nicola” è sempre più esplosiva con oltre 1300 detenuti stipati nelle celle. Da anni oltre la capienza massima: il tasso di sovraffollamento, infatti, sfiora il 149,5%. Da mesi, il carcere di Lecce è alle prese con ulteriori criticità che hanno intaccato il fronte sanitario. Così 29 detenuti, codice penale in mano, si sono improvvisati esperti giuristi, sciorinando articoli e citando leggi a tutele del bene primario: il diritto alla salute. “Chiediamo una carcerazione dignitosa a salvaguardia dei diritti costituzionali” dicono a gran voce. E le lamentele sono confluite in un esposto inoltrato alla Magistratura: l’organo con cui spesso migliaia di detenuti si scontrano per battaglie personali. Questa volta, invece, la lotta intrapresa è una battaglia collettiva e di principio. L’epicentro dei disagi si respira, come detto, nel reparto di Infermeria dove di recente si sono registrati tre decessi. “Siamo chiusi per 20 ore al giorno e non ci vengono garantite le 8 ore di apertura delle celle. Per noi - ad aumentare il carico delle doglianze - non è prevista alcuna attività di istruzione in difformità con il dettato costituzionale dell’articolo 27 della Costituzione”. Disagi secondari a sentire i detenuti perché la vera emergenza sarebbe rappresentata da altro: accedere alle cure adeguate per problemi di salute. “Nel reparto (l’unico in Italia) non sono installate telecamere di sorveglianza, un dispositivo tecnologico che tutelerebbe sia noi detenuti che gli agenti che prestano servizio in reparto”. Nella lista delle cose che non vanno c’è anche tanto altro come i citofoni nelle celle e i campanelli “che per noi detenuti o meglio pazienti sono importantissimi perché se stiamo male dobbiamo sperare nel vicino che richiami l’agente”. Una situazione esplosiva secondo i detenuti. Che citano anche l’articolo 11 dell’ordinamento penitenziario per sollevare un’ulteriore criticità: non verrebbero eseguite visite mediche nonostante i continui solleciti. “Magari - denunciano ora i detenuti - quando facciamo noi copia del diario clinico troviamo refertato di essere stati visitati”. Ulteriore problema correlato sarebbe l’assenza anche per più giorni dei farmaci prescritti. E in reparto, questo sì che suona come un paradosso, mancherebbe un presidio medico-infermieristico fisso di 24 ore: un solo medico deve garantire assistenza e cure a 1300 detenuti e gli infermieri si ritrovano a fare turni di servizio in più reparti. “Chiediamo così come avviene negli altri istituti italiani - si legge nell’esposto - che anche a Lecce venga disposta la presenza fissa di un medico e di infermieri che esulino dal prestare servizio in altri reparti”. Le emergenze si sono acuite nell’ultimo periodo dopo l’esplosione di un focolaio di tubercolosi agli inizi di aprile che, a detta dei detenuti, non sarebbe stato trattato con i dovuti protocolli. Sono stati accertati 12 casi. Per due reclusi si è reso necessario il ricovero in ospedale; altri, invece, sono stati trasferiti in isolamento sanitario mentre il virus ha colpito anche due agenti. Con il rischio di aver portato la tubercolosi anche fuori dalle mura del carcere dopo i tanti colloqui con familiari e avvocati in queste settimane. “Il 5 aprile - si legge nell’esposto - ci sono state consegnate le mascherine anticovid per evitare il contagio ma i detenuti continuano a fare le 4 ore d’aria assieme senza creare una bolla di protezione”. Modena. Festival della giustizia penale, per tre giorni giuristi e tecnici a confronto di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 8 maggio 2024 Dal 15 al 18 maggio l’intero territorio della provincia sarà teatro di incontri, dibattiti e spettacoli. “È un’occasione per interrogarsi sull’accertamento dei fatti con il contributo dei massimi esperti”. La verità è l’unico elemento che può far sì che un processo sia un buon processo, un processo giusto poiché la verità è colonna portante di qualsiasi rapporto umano. Ed è proprio alla verità che è dedicata la sesta edizione del Festival della Giustizia Penale in programma dal 15 al 18 maggio a Modena, Carpi, Sassuolo, Mirandola e Pavullo. Per l’edizione 2025, infatti, è stato coinvolto un maggior numero di comuni dove si alterneranno nei diversi dibattiti in programma giuristi, filosofi, sociologi, politici, giornalisti e intellettuali. Il festival è stato presentato ieri mattina presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Tutti gli ospiti saranno quindi chiamati a confrontarsi sul tema delle ‘Verità della giustizia penale’: sull’estrema difficoltà di accertare la verità e sui veri problemi che attanagliano la giustizia penale, offrendo importanti strumenti di comprensione del sistema giudiziario. Diversi e importanti gli ospiti di quest’anno, da Domenico Lucano, ex sindaco di Riace all’ ex calciatore Michele Padovano per arrivare alla criminologa Roberta Bruzzone che affronterà il delicato tema della genitorialità ai tempi delle baby gang. “Sesta edizione ancora più ricca, a cui si sono aggiunte altre città - ha affermato Luca Luparia Donati, Direttore Scientifico del Festival della Giustizia Penale - un momento imperdibile per la città e l’Italia. I temi principali sono sicuramente quelli della giustizia mediatica, separazione delle carriere ma anche i temi del dubbio e della verità nella giustizia, per far capire ai cittadini anche la complessità delle decisioni che i giudici assumono nei nostri tribunali. Ci sarà il vice ministro della giustizia, ospiti intellettuali, il generale Garofano: tecnici e persone conosciute nel grande pubblico. Il Festival - conclude - sarà anche un ‘palco’ per dialogare in maniera pacata della separazione delle carriere”. Il Festival nasce proprio dall’esigenza di portare i temi della giustizia penale all’attenzione di tutti i cittadini, consentendone la comprensione e favorendo la diffusione della cultura della legalità. L’idea di fondo parte dal presupposto che il diritto e il processo penale s’intreccino necessariamente con ogni aspetto quotidiano dell’esistenza, incidendo altresì sulla vita democratica. Gianpaolo Ronsisvalle, presidente della Camera penale di Modena ha sottolineato come uno degli elementi centrali dell’operato dei penalisti sia la giustizia giusta. “Nell’ambito del Festival la camera penale organizzerà due sessioni: una incentrata sul tema della partecipazione del popolo alla giustizia nelle corti d’Assise. Un evento trasversale che partirà dalla cultura con la proiezione del film e seguirà un dibattito - sottolinea Ronsisvalle. Dopo di che, domenica, abbiamo organizzato un panel sul tema della separazione delle carriere. Parteciperà un componente della giunta dell’Unione camere penali italiane che concluderà la sessione”. Alla conferenza stampa, moderata dal direttore del Dipartimento, Professor Carmelo Elio Tavilla, hanno preso parte numerose autorità istituzionali e personalità del mondo giudiziario, accademico e culturale, oltre ai sindaci dei comuni coinvolti. Roma. “Favole che leggono il mondo”, dal laboratorio in carcere storie per i bambini oncologici Il Messaggero, 8 maggio 2024 L’iniziativa un libro di favole illustrato da Elisa Pacitti pubblicato in formato cartaceo, e-book e audiolibro, quest’ultimo registrato con le voci dei detenuti stessi. Dietro le sbarre di Rebibbia, le parole diventano strumento di libertà. Si è concluso ieri il progetto “Favole che leggono il mondo”, laboratorio di scrittura creativa che ha coinvolto i detenuti nella creazione di storie per bambini e bambine accolti/e da Peter Pan ODV, organizzazione di volontariato impegnata dal 1994 nel sostegno a famiglie con figli malati di cancro. Un’iniziativa promossa da Associazione M.A.S.C. APS in collaborazione con Dire Fare Cambiare APS, finanziata con i fondi dell’Otto per Mille della Chiesa Valdese e alla collaborazione attenta e sensibile della Direzione e dell’Area Educativa della Casa di Reclusione di Rebibbia, che hanno creduto nella forza trasformativa delle parole. Il laboratorio ha prodotto un libro di favole illustrato da Elisa Pacitti pubblicato in formato cartaceo, e-book e audiolibro, quest’ultimo registrato con le voci dei detenuti stessi. Durante l’evento, gli autori hanno condiviso con il pubblico presente riflessioni, emozioni e l’esperienza vissuta, raccontando come il percorso creativo abbia rappresentato una possibilità di dialogo con il mondo esterno e con sé stessi, valorizzando il carcere non solo come luogo di reclusione, ma come spazio di incontro, espressione e cambiamento. All’incontro ha partecipato anche una delegazione di Peter Pan ODV, destinataria delle favole e che accoglie e sostiene le famiglie con bambini e adolescenti oncologici che si recano a Roma per le terapie. Il laboratorio di scrittura di favole è stato guidato da un team multidisciplinare composto da Giulia Morello, David Mastinu, Giulia Corradi, Silvia Vallerani, Elisa Pacitti e Assia Fiorillo: professioniste e professionisti che hanno messo a disposizione le proprie competenze in ambito culturale, artistico e formativo, accompagnando con cura e attenzione i partecipanti in questo viaggio di crescita e immaginazione. “Favole che leggono il mondo” è un progetto che ha dimostrato come il carcere possa diventare anche luogo di relazione e responsabilità sociale. Le storie nate in questi mesi non sono solo esercizi di scrittura, ma strumenti per costruire connessioni reali con l’esterno, a partire da chi ha più bisogno di ascolto e immaginazione. Un’iniziativa che unisce mondi diversi, con uno sguardo verso il futuro. Gorizia. èStoria dà voce a chi non ce l’ha: il racconto de “I volti della povertà in carcere” ilgoriziano.it, 8 maggio 2024 Il progetto, che prevede la mostra e il libro a cura di Rossana Ruggiero e del fotografo Matteo Pernaselci, vuole raccontare l’umanità dimenticata e la speranza dei detenuti dietro alle sbarre. Il progetto “Da Rebibbia verso i Volti della povertà nelle carceri italiane, dall’apertura della Porta Santa al Giubileo dei detenuti” arriva a Gorizia, per ora unica tappa prevista nel Friuli Venezia Giulia, grazie alla conferenza Regionale Volontariato e Giustizia del FVG con la collaborazione della Casa Circondariale “A. Bigazzi” e della Caritas Diocesana di Gorizia e con il patrocinio del Dipartimento Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Trieste. Il lavoro, di Rossana Ruggiero e Matteo Pernaselci, nasce dall’idea di poter dar voce a chi non ha voce in carcere con “i volti rivolti” alle povertà difficili da immaginare fuori dalle sbarre, sul sentiero degli invisibili tracciato da Papa Francesco. Frutto di oltre un anno di raccolta di materiale fotografico e interviste per mettere in luce l’umanità spesso dimenticata, la povertà nelle varie sfaccettature emersa dai racconti di detenuti e operatori e la “speranza” che si può costruire nonostante “le sbarre” testimoniata da un detenuto accolto nella Comunità Don Lorenzo Milani di Sorisole con una pena alternativa al carcere. A Gorizia la proposta si inserisce nel festival èStoria, che ha “Città” come trama del 2025. Infatti, proprio nel cuore di Gorizia, c’è una città sottratta dallo sguardo delle persone comuni. In questa enclave invisibile chiamata Carcere, si intrecciano le vite di persone detenute con quelle degli operatori che vi lavorano e dei volontari che vi operano. La mostra fotografica, dalla quale nasce il libro stesso, verrà allestita dal 19 maggio alle 17.30 alla biblioteca dell’Università di Trieste, Polo di Gorizia in via Alviano 18, con ingresso libero e gratuito, sarà visitabile fino al 30/05, con i seguenti orari: dal lunedì al giovedì dalle 9 alle 18.30, sabato e domenica chiusa, venerdì 30 maggio apertura straordinaria dalle 9 alle 18.30. All’inaugurazione, oltre al saluto del professor Diego Abenante Coordinatore corso di studi in Scienze Internazionali e Diplomatiche e in Diplomazia e Cooperazione Internazionale, Rossana Ruggiero e Massimo Bressan Assistente Volontario Penitenziario, interverranno la dottoressa Caterina Leva e la dottoressa Margherita Venturoli, rispettivamente Direttore e Funzionario Giuridico Pedagogico della Casa Circondariale di Gorizia. La dottoressa Sara Arata e la dottoressa Laura Ursella rispettivamente Direttore Ufficio Distrettuale Esecuzione Penale Esterna di Trieste e Gorizia e Responsabile della sede di Gorizia. Presenti inoltre Adalberto Chimera, Vice Direttore Caritas Diocesana di Gorizia, e l’avvocato Elisabetta Burla della Conferenza Regionale Volontariato e Giustizia FVG. Sabato 31 maggio dalle 10.30 alle 12, nel programma di èStoria, si inserisce anche la presentazione del libro “I Volti della Povertà in Carcere” con la presenza dell’autrice Rossana Ruggiero e del fotografo Matteo Pernaselci, moderati dalla psicologa e criminologa Consuelo Ubaldi e da Massimo Bressan, Assistente volontario penitenziario della Conferenza Regionale Volontariato e Giustizia FVG. La presentazione verrà accompagnata da un reading dell’attore Enrico lo Verso. L’incontro, con ingresso libero, ma riservato a pubblico maggiorenne, si terrà all’interno della Casa Circondariale di Gorizia, per questo prevede la prenotazione obbligatoria inviando e-mail all’indirizzo info.crvg.fvg@gmail.com completa di foto/scansione del documento d’identità, fronte/retro, e numero telefonico di contatto entro il 10 maggio. Milano. Ritorna Milano Civil Week. Libertà, diritti, pace: l’Europa che vogliamo di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 8 maggio 2024 L’evento dedicato alla cittadinanza attiva e solidale che si terrà dall’8 all’11 maggio a Milano. Il tema lo avevamo concordato lo scorso settembre, ancora colpiti dalla risposta enorme ricevuta alla Milano Civil Week 2024 dedicata alla Costituzione. Con Rossella Sacco e Andrea Fanzago, vertici milanesi del Forum terzo settore e del Centro servizi volontariato, ci siamo chiesti dove si eserciti la “cittadinanza attiva e solidale” che da sette edizioni cerchiamo di rendere protagonista con questo evento. E abbiamo pensato che la nostra Costituzione ci chiama ad un dovere di cittadinanza sovranazionale: popoli e persone che tutte insieme cercano di contribuire alla costruzione di comunità più giuste, coese, accoglienti e capaci di sviluppo. “L’Europa siamo noi”, tema di Milano Civil Week 2025 è nata così e la call è partita a novembre 2024. Poi abbiamo visto che cosa è successo. La nomina del nuovo presidente degli Stati Uniti e il suo atteggiamento a metà tra l’aggressivo e lo sprezzante nei confronti dell’Unione hanno provocato reazioni diverse e hanno riaperto la riflessione sull’utilità, il senso e il valore dell’Europa. È stato di grande aiuto procedere su un doppio binario: da una parte seguire il dibattito pubblico e dall’altra, per preparare la Civil Week, rileggere gli scritti di tanti Padri fondatori dell’Europa che di fronte alle macerie di due guerre, alla perdita di umanità e concordia, hanno cercato di dare vita a quell’ideale e pensando ad una istituzione in grado di proteggere le libertà e i diritti di ciascuno, perché non si ripetano mai più ingiustizia, bruttezza, orrori. Abbiamo ripreso De Gasperi, Schuman, Adenauer, Weil per arrivare a Sassoli e a Mattarella e ve li proponiamo in queste pagine e durante Milano Civil Week. Perché sono parole attuali e profonde, capaci di riaccendere la Speranza invocata da papa Francesco per questo Giubileo che non sarà lui a chiudere. E poi abbiamo ascoltato i giovani: saranno loro, quelli della Generazione Erasmus, quelli che dialogano con una lingua comune, che scelgono di studiare e lavorare e vivere dove stanno meglio, non importa sia Germania, Danimarca, Spagna, Olanda o Italia, a indicarci la direzione. Sono loro a ripetere la necessità di pace e non a caso abbiamo ascoltato e ascolteremo molti dubbi sull’annunciata operazione di riarmo. Per loro e con loro, ripetiamo quello che Alcide de Gasperi disse agli “europeisti” nel 1950: “Noi vogliamo veramente la pace e, mentre diciamo di volerla, lavoriamo per unire l’Europa. Continui ciascuno di noi a promuovere il fine che lo anima, lo spirito teso alla forma di Europa che più lo ispira, ma la mente intenta invece a studiare la migliore, la più pratica e la più immediata attuazione di quel suo ideale, a proclamare e sempre ripetere lo slogan che ci ha animati sin dall’inizio: pace nell’Europa unita”. Buona Milano Civil Week a tutti. Migranti. Meloni rialza il tiro sui giudici: “Rimandano indietro dall’Albania migranti con reati” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 8 maggio 2024 La premier in Senato punta l’incide sulle decisioni della corte d’appello di Roma che ha disposto il ritorno di chi chiede asilo a Gjader. “Entro la settimana rimpatrieremo il 25 % di chi sta lì”. Cioè 10 persone. “I tribunali rimandano in Italia migranti con reati”, dice Giorgia Meloni in Parlamento rinfocolando la polemica con i magistrati ma dimenticando di dire che questo prevede la legge. E ancora: “Entro la settimana avremo rimpatriato il 25% di quelli detenuti in Albania”, anche qui evitando di dire il numero assoluto (appena 10 persone) e di ricordare che comunque per rimandare nel Paese d’origine chi è detenuti nel Cpr di Gjader occorrerà prima ripassare dall’Italia. La premier utilizza il question time al Senato per fare il punto sulla situazione del Cpr Albania, che rimane in cima alle sue priorità, e per ribadire l’efficacia dell’operazione nonostante i numeri assolutamente insignificanti e la nuova breccia aperta dai giudici italiani che hanno già disposto il rientro in Italia di diversi migranti che, proprio da Gjader, hanno per la prima volta avanzato richiesta d’asilo. Che sicuramente sarà respinta e dunque potenzialmente strumentale ma comunque tale, come era stato previsto da tanti giuristi, da obbligare i giudici a disporre il rientro in un cpr italiano di queste persone. Il protocollo Italia-Albania prevede infatti che a Gjader possano essere trattenuti solo richiedenti asilo a cui possono essere applicate le procedure di frontiera (dunque quelli appena soccorsi, operazioni al momento bloccate in attesa del verdetto della Corte di giustizia europea) oppure irregolari da espellere. Ma non richiedenti asilo che sono già in territorio italiano. E che dunque vi vanno riportati. Come è avvenuto in cinque casi. Una procedura che, con tutta evidenza, potrebbe riportare in Italia diversi altri migranti (molti con fedina penale sporca come sottolinea la premier) in attesa di espulsione. Ma ecco le parole della premier oggi pomeriggio in Senato in risposta ad un’interrogazione presentata dal capogruppo del suo partito Lucio Malan che le offre l’assist per lanciare il suo attacco ai giudici: “Abbiamo deciso di usare i centri realizzati in Albania come ordinari Cpr, abbiamo così iniziato a trasferire migranti irregolari in attesa di rimpatrio. A seguito di questa nuova disposizione alcuni tribunali pare stiano stiano disponendo il ritrasferimento in Italia, ove il migrante avanzi una domanda di protezione internazionale anche quando questa sia manifestamente infondata. Ora non voglio fare polemica ma - ha aggiunto - mi corre l’obbligo di condividere con voi quale sia il curriculum di queste persone a cui dovremmo considerare di dare protezione internazionale: quasi tutti i migranti trasferiti in Albania si sono macchiati di reati molto gravi, tra cui si annoverano furti, rapine, porto abusivo d’armi, tentati omicidi, violenze sessuali, pedopornografia, adescamento di minore, atti osceni in prossimità di minore. Qualcuno vuole a ogni costo fa restare queste persone in Italia, noi invece vogliamo rimpatriarle”. Opposizioni all’attacco: ammissione di fallimento - “Se davvero il 25% dei migranti trasferiti in Albania sarà rimpatriato entro la settimana, come ha annunciato oggi Giorgia Meloni, allora siamo di fronte a una clamorosa ammissione: quei rimpatri potevano essere fatti direttamente dall’Italia, senza spese inutili, senza nuove strutture fuori dai nostri confini e soprattutto senza esporre le persone a ulteriori stress e compressione dei diritti - dice Matteo Mauri, responsabile Sicurezza del Partito Democratico, intervenuto oggi in Commissione Affari Costituzionali alla Camera -. Meloni continua a raccontare l’operazione in Albania come un modello, quando è invece un gigantesco fallimento perché inefficace, opaca nelle procedure e anche inutile.Peraltro - aggiunge Mauri - oggi abbiamo scoperto che, oltre alla nave Libra già regalata dall’Italia, con un emendamento del relatore saranno donate anche due motovedette della Guardia Costiera all’Albania. Altro che accordo alla pari: il costo di questa operazione, stimato per ora attorno al miliardo di euro, sta continuando a crescere di settimana in settimana”. Droghe. Al volante senza doping, le linee guida di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 maggio 2024 Le precisazioni dei ministri dell’Interno e della Salute sugli accertamenti non stravolgono il Codice della strada. Le norme al vaglio della Consulta. La circolare: l’effetto della sostanza va provato con il test. Qualcuno deve aver avvisato il governo Meloni che il nuovo Codice della strada targato Matteo Salvini è già al vaglio della Consulta e galoppa veloce verso un probabile alt per incostituzionalità relativamente a quelle norme che puniscono l’assunzione di sostanze stupefacenti anche se la persona alla guida non è affatto in uno stato di alterazione psicofisica. Motivo per cui l’esecutivo ha tentato di mettere una toppa - finta, a giudizio di alcuni, e che non copre affatto il buco - emettendo nuove linee guida secondo le quali per procedere alla sospensione della patente e alle altre contravvenzioni previste dal Codice deve essere accertata “una correlazione temporale tra l’assunzione e la guida, che si concretizza in una perdurante influenza della sostanza stupefacente o psicotropa in grado di esercitare effetti negativi sull’abilità alla guida”. Ad approfondire la questione, che interroga giuristi e inorridisce scienziati, è una circolare dei ministeri dell’Interno e della Salute inviata a prefetti e questori nella quale si insiste però sul fatto che “la presenza dei principi attivi delle sostanze stupefacenti o psicotrope deve essere determinata esclusivamente attraverso analisi di campioni ematici o di fluido del cavo orale del conducente, le uniche matrici biologiche nelle quali la presenza di molecole o metaboliti attivi costituisce indice di una persistente attività della sostanza, in grado di influire negativamente sulla guida”. Sembra una retromarcia, ma il leader del Carroccio - evidentemente scomodo nei panni dello “zimbello dell’Esecutivo Meloni”, come lo bolla la senatrice pentastellata Gabriella Di Girolamo - dirama una nota: “Nessuna nuova circolare che contraddice le novità del Codice della Strada sulla droga zero”, informa il Mit spiegando che “sono confermati i test” e che “la direttiva che disciplina le modalità dei controlli sull’uso di stupefacenti è stata adottata l’11 aprile in piena coerenza con le nuove regole che puntano a punire chi si mette alla guida dopo aver assunto droghe e superando il concetto (soggettivo e non dimostrabile) di “stato di alterazione”“. E in effetti le linee guida non smentiscono le nuove norme della strada e confermano invece la punibilità di chi “guida dopo aver assunto sostanze stupefacenti o psicotrope, a prescindere da un effettivo stato di alterazione psicofisica”. Tutto sta nel definire quell’avverbio: “dopo”. Anche il segretario di +Europa Riccardo Magi crede che vi sia “perfetta coerenza” tra il nuovo Codice e le linee guida del ministero della Salute, a riprova “che razionalità e scienza si piegano a ideologia e propaganda”. Perché, ricorda Magi, “in precedenza occorreva provare la positività non solo con il test ma la persona fermata doveva essere sottoposta anche a un esame medico per una valutazione complessiva sullo stato di salute: equilibro, linguaggio, vista, deambulazione ecc. Oggi non occorre più la visita medica, ma al medico del pronto soccorso si impone l’obbligo di effettuare un prelievo del sangue e addirittura di verificare con l’autorità giudiziaria la possibilità di farlo in modo coatto qualora la persona fermata si rifiuti”. Ad ogni modo, il caso portato dal tribunale di Pordenone davanti alla Corte costituzionale dopo il ricorso di un’insegnante di Udine (sostenuta dall’associazione Meglio Legale) che si è vista sospendere la patente perché risultata positiva agli oppiacei contenuti nei farmaci che assume, ha costretto il ministero dei Trasporti a precisare: “È utile ricordare che il vicepremier e ministro Matteo Salvini ha ribadito che l’assunzione di droga è ben diversa dall’uso di farmaci, anche cannabinoidi, con l’obiettivo di non penalizzare chi è sottoposto a cure mediche”. EPPURE in mancanza di una valutazione specifica delle capacità di guida, anche sui malati si esercita l’inversione dell’onere della prova. “Il Codice continua ad essere incostituzionale”, insiste Magi che promette: “Continueremo a smontare pezzo per pezzo questa legge nelle istituzioni e nei tribunali”. Droghe. Si allenta la stretta sugli stupefacenti alla guida: via la patente solo in caso di alterazione di Marco Colombo Il Domani, 8 maggio 2024 Una circolare trasmessa dal Viminale e dal ministero della Salute alle prefetture l’11 aprile chiarisce che per il ritiro della patente non sarà sufficiente l’assunzione di sostanze stupefacenti ma che sia avvenuta in un lasso di tempo tale da causare uno stato di alterazione delle capacità di guida. Per il ritiro della patente non sarà più sufficiente la mera assunzione di sostanze stupefacenti, ma bisognerà accertare una effettiva alterazione della capacità di guidare. Lo hanno messo nero su bianco, con una circolare trasmessa l’11 aprile alle prefetture, il ministero dell’Interno e il ministero della Salute. Una nota con cui i due dicasteri competenti provano a chiarezza su uno dei punti più controversi, con tanto di ricorsi già avviati, del nuovo codice della strada. “L’elemento caratterizzante la nuova fattispecie, contenuto nella locuzione “dopo aver assunto”, è costituito dallo stretto collegamento tra l’assunzione della sostanza e la guida del veicolo: in luogo del nesso eziologico tra assunzione e alterazione, il nuovo articolo 187 cds prevede, quale presupposto per la punibilità della condotta, una correlazione temporale tra l’assunzione e la guida, che si concretizza in una perdurante influenza della sostanza stupefacente o psicotropa in grado di esercitare effetti negativi sull’abilità alla guida”. È questo il passaggio cruciale del testo che sembra chiarire una volta per tutte come a pesare non debba essere l’assunzione della sostanza in sé, ma il fatto che la stessa “sia stata assunta in un periodo di tempo prossimo alla guida del veicolo, tale da far presumere che la sostanza produca ancora i suoi effetti nell’organismo durante la guida”. Sembra così definitivamente accantonata l’interpretazione più restrittiva, caldeggiata dal ministro Matteo Salvini, segnando così un passo indietro rispetto all’eliminazione del requisito di “alterazione psicofisica” applicato fino all’introduzione del nuovo codice della strada. Ma non si tratta di un vero e proprio ritorno al passato. Rispetto a quanto accadeva fino a qualche mese fa, infatti, ad accertare lo stato di alterazione non sarà un medico. La circolare spiega infatti, passo per passo, la procedura che dovranno seguire le forze dell’ordine in caso di controllo. Il primo step sarà un accertamento preliminare condotto sul posto dagli agenti nel corso del controllo. Nel caso in cui il primo test dovesse essere positivo, poi, si dovrà procedere ad approfondimenti con il prelievo di due campioni salivari. Le due provette, conservate a temperatura controllata di 4° C per evitare il congelamento, dovranno essere portate nel più breve tempo possibile al più vicino laboratorio di tossicologia forense per i “controlli di secondo livello”. I laboratori, una volta ricevuti i campioni, dovranno analizzare il contenuto di una provetta entro e non oltre il termine di dieci giorni, mentre la seconda dovrà essere conservata per 12 mesi “a una temperatura di almeno -18°C o inferiore, presso il laboratorio dove è stata eseguita l’analisi, a disposizione dell’autorità giudiziaria per eventuale contro esame secondo le disposizioni da quest’ultima fornite”. Nei dieci giorni, o meno in caso di tempi più rapidi, che intercorrono tra il controllo positivo in strada e la trasmissione dei risultati “all’ufficio da cui dipende l’organo di polizia stradale che ha effettuato il prelievo” scatta il cosiddetto “ritiro cautelare della patente”. Altro punto controverso che viene ora chiarito con la circolare ministeriale è quello che riguarda l’assunzione di farmaci a base di cannabis, in grado di alterare l’esito dei test salivari dando un risultato positivo. Con le nuove linee guida, infatti, si chiarisce che nell’analisi dei campioni i tecnici dovranno tenere conto di “eventuali terapie farmacologiche attestate da certificazioni mediche”. I farmaci e le terapie in corso saranno specificati nel verbale trasmesso insieme ai campioni al laboratorio con l’indicazione dei medicinali e l’orario dell’ultima assunzione “per consentire una più completa valutazione e interpretazione dei risultati degli accertamenti tossicologici di secondo livello”. Papa Francesco doveva salvare la Chiesa, il suo successore deve salvare il mondo di Nicola Lagioia La Stampa, 8 maggio 2024 Il conclave in cui fu eletto papa Francesco aveva come compito la salvezza della Chiesa. Al conclave che è iniziato ieri chiediamo addirittura di salvare il mondo. Benedetto XVI annunciò l’intenzione di dimettersi nel febbraio del 2013. Barack Obama era allora il presidente degli Stati Uniti. Meno di sette mesi prima Mario Draghi aveva pronunciato il suo “Whatever it takes” alla Global Investment Conference di Londra. A proposito, la Gran Bretagna faceva parte della UE. Il mondo globalizzato sembrava reggere, pur tra contraddizioni, opacità e non remote atrocità (l’invasione dell’Iraq, per fare un esempio). In apparenza le due grandi aree di influenza occidentali (l’impero statunitense, e la potenza “erbivora” europea) se la passavano meglio della Chiesa cattolica, travolta da scandali, veleni, rivalità di ogni tipo. Chi sarebbe uscito papa dal conclave avrebbe avuto il compito di trarre in salvo ciò che qualcuno riteneva non emendabile. Bergoglio era quell’uomo. In dodici anni il piano si è ribaltato. La Chiesa oggi è decisamente più solida (e globale) di allora. Il mondo secolare è invece in fiamme, fuori controllo, ristretto nei nazionalismi, gonfio di odio e di violenza, la parte occidentale sprofonda nel baratro di una stupefacente crisi politica e identitaria. Gli Stati Uniti sono sempre più simili all’incubo di Philip Roth ne Il complotto contro l’America. L’Europa sembra la parodia della Cacania (a sua volta parodia dell’Impero austroungarico) del Musil de L’uomo senza qualità, un continente insieme coltissimo e frivolo, bizantino e amletico, un’orchestrina compiaciuta che suona mentre la barca va dritta verso l’iceberg. Che, in quel caso, fu la I guerra mondiale. Mentre il mondo, in questi 12 anni, è diventato un posto sempre più angosciante, la Chiesa di Francesco ha dato l’impressione di sostituirsi proprio malgrado alle cancellerie sempre più fragili (o ai sempre più mostruosi Studi Ovali) degli stati-nazione o delle pseudo-unioni nel ribadire ciò che dovrebbe essere ovvio sia per il Vangelo che per l’Onu. Chi ha continuato a parlare di sostenibilità (Laudato si’ è un’enciclica che passerà alla storia) mentre la crisi climatica usciva dalle agende politiche dei paesi che più quel disastro lo stavano alimentando? Chi ha parlato di Gaza mentre gli Stati Uniti si pascevano del massacro e l’Europa balbettava imbarazzata (ogni stagione politica ha la sua mitologia fantastica, siamo passati dai “trinariciuti” di Guareschi a una Presidente del Consiglio dea Kalì che con una mano pone un fiore sulla tomba di Francesco, con l’altra impugna la pantofola di Trump, con una terza manda saluti affettuosi a Netanyahu, con una quarta prende a braccetto Milei che sul papa aveva detto più di quanto in Italia è sufficiente a finire in Questura) o per incapacità di uscire dai propri sensi di colpa storici (la Germania)? Chi è stato dalla parte dei poveri in un mondo sempre più diseguale? Chi ha difeso i deboli mentre il mondo si andava affidando alla legge del più forte? Il nuovo Papa dovrebbe dunque riuscire lì dove Trump, von der Leyen, Milei, Meloni, Macron falliscono ogni giorno? Il problema è che la Chiesa non ha per compito salvare il pianeta dalle guerre e dalle crisi economiche, dal collasso climatico e dalle dittature. La Chiesa svolge un ruolo eminentemente religioso. Se ha importanza sul piano politico, dovrebbe essere una conseguenza accidentale. Su questo, invito a leggere il bellissimo libro di Javier Cercas, da poco uscito per Guanda, Il folle di Dio alla fine del mondo, dove lo scrittore spagnolo racconta di un viaggio in Mongolia al seguito del Papa nel 2023. Disastrato un mondo che ha bisogno di un Papa per tirarsi fuori dal baratro! Ma è la paradossale, persino grottesca situazione in cui ci troviamo. Chi riempirà il vuoto dentro di noi? L’umanità diventa spazzatura. Le deportazioni di Israele e Stati Uniti di Guido Rampoldi Il Domani, 8 maggio 2024 Tel Aviv che vuole trasferire i gazawi in massa, gli Usa che inviano i criminali in altri paesi. Progetti spaventosi, che alimentano conflitti e instabilità. L’Europa si limita a mugugnare. Avanza con Donald Trump e con Benjamin Netanyahu la suggestiva idea che esista un’umanità-pattume scaricabile in stati-pattumiera, cioè nazioni con una statualità inconsistente, incapaci di opporre resistenze, non molto più che meri spazi, carcasse alla mercé degli avvoltoi. Si tratta di un’evoluzione del pensiero coloniale che già si era affacciata in Europa in forme radicali (per esempio il nazismo in prima battuta aveva progettato di deportare gli ebrei in Madagascar, all’epoca considerata la terra più malsana del pianeta) e non del tutto estranea a più blandi esperimenti in cantiere presso la Ue. L’immaginifico presidente americano si appresta a spedire immigrati clandestini in Libia, che non ha un governo avendone due, uno dei quali controllato da una famiglia, gli Haftar, con la quale la Cia ha una certa consuetudine. Il premier israeliano pensa più in grande: si propone di tormentare i palestinesi di Gaza facendone morire piccole quote giornalmente di stenti e di bombe, finché i sopravvissuti non vedranno l’esilio come una liberazione. Il vuoto europeo - In entrambi i casi l’Europa al solito mugugna ma nel concreto pare incapace di contrastare. Eppure non si può dire che la faccenda non la riguardi, non solo perché i ‘trasferimenti’ di umanità-pattume fanno strame dei suoi valori fondativi, ma anche per considerazioni pratiche: a Gaza o in Libia dove altro potrebbero cercare rifugio gli espulsi se non sulla sponda europea del Mediterraneo? E non è questo, un’immigrazione di massa e incontrollata, l’incubo dell’Unione europea? Ci piacerebbe considerare l’idea dei “trasferimenti” come il parto di due menti deboli, obnubilate da delirio di onnipotenza, ma così non è. La politica di Trump sull’immigrazione clandestina è l’unico terreno nel quale la popolarità del presidente non sia in caduta. E l’idea di “trasferire” i gazawi altrove è approvata dalla maggioranza del parlamento israeliano. Ciò che chiamiamo la “volontà popolare” a suo modo è rispettata: ma è questo l’unico requisito di una democrazia? Se Israele è “l’unica democrazia del Medio Oriente, per quanto ammaccata”, come garantisce un editoriale del Corriere della sera, allora dobbiamo concludere che le “ammaccature” ormai hanno deformato il profilo dello stato di diritto liberale, al punto che in Europa non riusciamo più a distinguerlo da una democratura, cioè da un sistema misto quale il regime in vigore in Turchia o in Ungheria. Stiamo scivolando su quella china? Se una pulizia etnica risulta appena un’ammaccatura, punire con la deportazione il diritto d’opinione se esercitato da stranieri, come ormai accade in stati e università americane, è solo un graffio. Ma ai nostri carrozzieri vorremmo ricordare come funziona con le ammaccature: prima o poi la repressione dei non nativi si estende ai nativi, e quando accade è troppo tardi per correre ai ripari. Gli ottimisti obietteranno che i progetti di Trump e Netanyahu sono destinati a fallire. Gli sventurati che sognavano New York e si ritroveranno schiavi di una banda libica si conteranno in poche centinaia, non fosse altro perché il clamore suscitato suggerirà prudenza perfino a Trump. Quanto al governo Netanyahu, la sua dichiarata ricerca di stati falliti in cui scaricare i gazawi finora non ha prodotto risultati (al più il Sud Sudan). Resta l’opzione radicale: ammassare i palestinesi nel sud della Striscia (l’operazione è in corso) e poi sfondare il confine con l’Egitto, così da “favorire” l’esodo (“volontario”, ci mancherebbe: le democrazie non deportano). Poi occorrerebbe sfondare anche il confine con la Giordania, onde svuotare il West Bank (“Giudea e Samaria”, in democratese biblico). Prudenze americane - Tutto questo probabilmente comporterebbe una grande guerra mediorientale, che Israele potrebbe affrontare solo se gli Stati Uniti l’assecondasse totalmente. Ma per quanto l’amministrazione Trump sia spericolata in patria, lo è assai meno all’estero: improbabile che sia disponibile a infognarsi in un conflitto ampio e di lunga durata. Semmai tende a chiamarsi fuori, con notevole sconcerto israeliano. Ha siglato una pace separata con gli Houthi dello Yemen, decisi a proseguire i lanci di missili su Israele finché non si ritirerà da Gaza. Prospetta all’Iran un accordo per il quale gli ayatollah potranno sviluppare il nucleare per uso civile (con la tecnologia idonea il passaggio dal nucleo civile al nucleare militare è questione di mesi). Mantengono buoni rapporti con la Turchia di Erdogan, il vero competitor di Israele in Medio Oriente. Infine, non hanno obiettato quando la Cina ha condotto manovre militari in Egitto, con voli “ammonitori” di caccia cinesi a ridosso di Gaza e l’impiego di un gigantesco aereo-spia. Se ignoriamo i proclami da gradasso di Trump destinati alla sua audience e andiamo alla sostanza, troviamo tentativi americani di un parziale disimpegno dalle conflittualità mediorientali e nessuna propensione a lasciarsi coinvolgere in attriti militari. Negli spazi da cui gli Stati Uniti si ritirano, si infilano Cina e Turchia, tutto sommato i veri beneficiari della politica estera israeliana. Il Medio Oriente sta cambiando e sarebbe ora che Italia e Unione europea ne prendessero atto. Netanyahu e la destra israeliana non solo non ci sono amici, ma il loro espansionismo ci prospetta solo guai. La guerra di Gaza, l’aggressività dei coloni nel West Bank, i bombardamenti sistematici dell’esercito siriano che privano Damasco dell’unico strumento di cui dispone per sottrarre il paese al rischio di implodere in una mischia etnica, alimentano non solo l’instabilità a ridosso dell’Europa ma anche la diffusione del terrorismo islamico e l’immigrazione verso la Ue. Converrebbe anche a Roma dotarsi di una politica estera più propositiva, non fosse altro che per smentire lo scomodo sospetto che ci vuole di fatto complici, se non altro per ignavia, di una ripugnante pulizia etnica. Tifiamo per i piani di pace arabi, quelli seri però rifiutati da Israele. Sarà colpa delle resistenze opposte da un vasto segmento del parlamento (soprattutto nella destra, ma non solo) e dal pilatismo praticato da molto giornalismo, non siamo né tra i sei Paesi europei che intimano al governo Netanyahu di non procedere all’espulsione di palestinesi e all’annessione di territori (Spagna, Irlanda, Norvegia, Slovenia, Islanda, Lussemburgo), né tra quelli che discutono se riconoscere lo stato palestinese (tra questi Francia e Gran Bretagna). Rispetto ad una vicenda che orienterà la storia di questo secolo, l’Italia semplicemente non è. Medio Oriente. Quel silenzio irreale sulla strage di Gaza di Alessandro De Angelis La Stampa, 8 maggio 2024 Ma come si fa a non dire nulla di fronte a quel che sta accadendo a Gaza? Eppure è esattamente quel che è avvenuto ieri a palazzo Madama nel corso del “premier time”. Lì in Medioriente, e non da oggi, è in corso una gigantesca catastrofe umanitaria: civili che muoiono di sete e di fame, assenza di soccorsi, impossibilità a ricevere cure, perché anche l’ultimo ospedale è stato bombardato. E lì è in atto un drammatico salto di qualità con la decisione, assunta dal governo di Netanyahu, di procedere a un’invasione massiccia di Gaza. Decisione che rende ancora più delicata la situazione umanitaria e densa di conseguenze geopolitiche. Nell’immediato, l’onda di profughi palestinesi verso paesi arabi come l’Egitto con effetti destabilizzanti nel Mediterraneo allargato. In prospettiva, per quel che significa stroncare il sogno di uno Stato palestinese. Insomma, il rischio di un’Intifada su larga scala, con ripercussioni ben oltre il Medioriente. Qui, nelle ovattate stanze del Senato, tutto ciò resta pressoché innominato. La parola Gaza è pronunciata solo dal senatore Giuseppe De Cristofaro di Sinistra Italiana. In sede di replica imputa a Giorgia Meloni di non aver mai espresso un giudizio compiuto. Mentre la premier, in un passaggio di circostanza sull’argomento, si limita a dire che il governo lavora “per la fine delle ostilità” e sostiene il “piano arabo di ricostruzione”. In un altro rivendica la “rinnovata centralità nel Mediterraneo”, omettendo di collegare cotanta ambizione all’esercizio di un ruolo qui ed ora. Che sarebbe poi quel ruolo di “ponte”, a proposito di un termine assai di moda, tra l’Europa e il Medioriente - e dunque anche tra Stati Uniti, Europa e Sud del mondo - che darebbe all’Italia un ubi consistam per contare, meno effimero rispetto al criterio di “affinità ideologica”, scelto invece dalla premier per instaurare un rapporto privilegiato con Donald Trump. In fondo, è ciò che l’Italia ha storicamente rappresentato, per collocazione e vocazione, sin dai tempi di Aldo Moro e Bettino Craxi. C’è da scommettere che sarebbero stati meno taciturni e ben più attivi, in un contesto del genere. La sensazione è di un oggettivo straniamento tra ciò che accade lì e ciò che si dice qui, a maggior ragione in un quadro in cui ciò che accade lì ha ricadute anche qui, come effetto della grande destabilizzazione. E alla fine questa diventa la “notizia”, perché se una cronaca è fuori dal mondo, la notizia non è la cronaca, ma appunto il suo essere fuori dal mondo. E va bene che questa inutile formula del question time prevede domande consegnate dieci giorni fa, con risposte preparate. E tuttavia al di là del fatto che anche dieci giorni fa il problema c’era lo stesso, volendo - e vale per tutti - il modo di parlare si trova. Anche perché, alla fine, tutti hanno comunque forzato il copione previsto dieci giorni fa per cedere spazio a dei “fuori tema” e al battutismo. La verità è che non c’è mai qualcosa che turba un meccanismo eternamente uguale a se stesso. Il Pd ripete sempre le stesse cose su sanità e bollette, i Cinque stelle devono per forza nominare la parola “supercazzola”, Renzi, per apostrofare Giorgia Meloni come incoerente, le ricorda quando nel 2014 lodava Putin (menomale che su questo è stata incoerente), lei magnifica l’Albania. E via così: ognuno parla solo ai suoi follower, secondo il consueto andazzo, scontato e privo di gravitas. Stati Uniti. Torna Alcatraz, l’isola dell’ingiustizia di Sergio D’Elia L’Unità, 8 maggio 2024 Trump vuol riaprire la prigione simbolo della tortura e della disumanità: uno schiaffo a Bergoglio e Mandela. “La Roccia” emerge all’improvviso dall’acqua al centro della Baia di San Francisco e diventa pietra, fortezza, carcere di massima sicurezza. Come “Pena”, il mostro marino che, secondo il mito greco, strappava i figli alle madri e li uccideva, Alcatraz incute timore solo a sentirne parlare e a vederla anche da lontano. Per trent’anni è stato il luogo-simbolo della certezza e della terribilità della pena in America, una minaccia permanente per centinaia di migliaia di detenuti nelle prigioni del Paese, una prospettiva concreta per poche decine di prigionieri riottosi. La originaria fortezza militare diventa carcere duro agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso, durante la grande depressione, per proteggere la nazione dal pericolo pubblico costituito dal “peggio del peggio” della criminalità americana. Il primo gruppo di 137 prigionieri senza speranza di riabilitazione arrivò l’11 agosto del 1934 proveniente dal penitenziario di Leavenworth in Kansas. Giunse a Santa Venetia in California in treno e scortato ad Alcatraz da 60 agenti speciali dell’FBI e da ufficiali della polizia ferroviaria. Il “peggio del peggio” di loro, dicono le cronache, erano “noti ladri di banche, contraffattori, assassini o sodomiti”. I prigionieri continuarono ad arrivare alla spicciolata, qualche decina alla volta, durante tutto il 1935 e il 30 giugno, a un solo anno di vita, il penitenziario contava già 242 detenuti. I prigionieri continuarono ad arrivare alla spicciolata, qualche decina alla volta, durante tutto il 1935 e il 30 giugno, a un solo anno di vita, il penitenziario contava già 242 detenuti. Divenuta una delle prigioni più tristemente famose degli Stati Uniti, negli anni ospitò 1.576 detenuti. Ma i davvero “peggiori dei peggiori” criminali americani detenuti ad Alcatraz si contarono sulle dita di una mano. Tra di essi, uno dei primi ad arrivare e uno dei primi ad andarsene, fu Al Capone. Il capo mafia di origini italiane e pericolo pubblico numero uno dell’epoca del proibizionismo, rimase ad Alcatraz quattro anni e mezzo. Fece qualche lavoretto sull’isola, tra cui spazzare la cella e lavorare nella lavanderia, poi fu liberato. Ma non tutti erano Al Capone, che alla fine dalla Roccia è uscito sano e salvo. Trentadue detenuti, che erano entrati sani, dopo pochi anni erano usciti da Alcatraz con la camicia di forza, impazziti nell’isolamento e nella deprivazione dei più fondamentali sensi umani. Per liberarsi da Alcatraz, nei tre decenni di storia della prigione, 36 detenuti hanno tentato la fuga. Il più famoso è stato il tentativo fallito del maggio del 1946 noto come la “Battaglia di Alcatraz” nella quale persero la vita due guardie e tre prigionieri. Altrettanto famosa fu la fuga del giugno del 1962 di Frank Morris e dei fratelli John e Clarence Anglin. Non si sa se quella fuga abbia davvero avuto successo. Di fatto, ancora oggi, tutti e tre compaiono nella lista dei ricercati dell’FBI. Di tutti gli altri detenuti che tentarono la fuga da Alcatraz si ha la certezza che sono stati uccisi, sono annegati o sono stati catturati. A causa degli alti costi di mantenimento, il carcere di Alcatraz è stato chiuso il 21 marzo 1963. Ora, dopo quasi un secolo dalla sua apertura e oltre mezzo secolo dalla sua chiusura, il presidente degli Stati Uniti d’America lo vuole riaprire. Coi suoi quattro blocchi di celle, l’ufficio delle guardie, la sala delle visite, la biblioteca, il barbiere, la lavanderia, la sartoria. Con le celle primitive di 4 metri quadrati e alte 2 metri, con il letto, un tavolo, un lavandino e una toilette sul muro di fondo sciacquata con acqua di mare. Senza alcuna privacy, senza luce e senza aria da una fonte naturale. E le cinque celle nel blocco D denominate “The Hole” (il buco) destinate ai detenuti più riottosi, isolati a tempo indeterminato e sottoposti a un trattamento brutale. Prima di morire papa Bergoglio ha aperto la Porta Santa a Rebibbia e, con questo straordinario gesto simbolico e politico, ha “chiuso” il carcere. Dopo la sua morte, Trump si è vestito da Papa e ha riaperto il carcere di Alcatraz. Povero papa Francesco, oltraggiato nella memoria e nella sua ferma opposizione alla tortura, anche a quella “forma di tortura - ha denunciato - che si applica mediante la reclusione in carceri di massima sicurezza”, con “la privazione di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicare e la mancanza di contatti con altri esseri umani”. Povero Nelson Mandela, tradito nelle Regole basilari che in suo nome le Nazioni Unite hanno stabilito per porre un limite al potere degli Stati nel modo di sorvegliare e punire e, in particolare, nella pratica del confinare un essere umano per un tempo indefinito, che è punizione crudele e inusuale in base a tutte le costituzioni democratiche e carte internazionali sui diritti umani. Quante storie e immagini d’altri tempi ritornano nell’America di Donald Trump! Quanti e quali effetti di risonanza esse hanno già nella nostra povera Italia! Nella cintura americana della Bibbia e dell’occhio per occhio, dopo le esecuzioni sulla sedia elettrica, nella camera a gas o tramite fucilazione, si arriva a infliggere la morte anche per asfissia, con il gas azoto che insufflato a forza nei polmoni elimina ogni traccia d’ossigeno dall’aria che respiri. Nella antica culla del diritto, la pena di morte è stata abolita, ma vige la pena fino alla morte e la morte per pena, il diritto costituzionale all’affettività è negato e qualcuno gode del fatto di togliere anche il respiro ai detenuti in 41 bis. Nella terra promessa della libertà e dell’accoglienza, si ergono muri e chiudono frontiere, e gli immigrati, non solo clandestini, rastrellati per strada, rasati a zero e incatenati mani e piedi, vengono deportati con gli aeroplani nei luoghi d’origine e carcerati. Nel Paese degli italiani-brava gente, migranti in massa in ogni parte del mondo, le persone in fuga da guerre, torture e povertà, approdate miracolosamente sulle nostre coste, sono recluse nei “centri per il rimpatrio” italiani o caricate sulle navi e scaricate in quelli albanesi. In una notte da incubo, dopo l’annuncio di Trump su Alcatraz, ho sognato la riapertura delle carceri di Pianosa e dell’Asinara. A Pianosa ci sono stato quasi due anni, nella Diramazione Agrippa, un edificio basso tipo hacienda messicana, battuto tutto l’anno e senza tregua dal vento, dal sole e dalla salsedine. Ricordo le lotte per avere maggiori spazi di socialità, le due costole rotte dalle guardie, la cella d’isolamento e la morfina che mi ha fatto dormire per due giorni e due notti. Alla fine, ottenemmo di fare partite tra squadre di sezioni diverse. A me interessava la socialità per giocare a pallone. Ad altri interessava la vita in comune per fantasticare rocamboleschi piani di fuga. L’Asinara è stata chiusa nel 1998 per volontà di Sandro Margara, illuminato giudice di sorveglianza e grande capo dell’amministrazione penitenziaria. Pianosa è stata chiusa una prima volta nel 1981 da una “rivolta” della polizia penitenziaria, stufa degli spazi troppo aperti e degli abusi di alcuni reclusi. Un giorno si sono presentati compatti in sezione e hanno marciato rumorosamente nei corridoi, hanno aperto le celle, picchiato i detenuti e abbattuto i muri a colpi di piccone. Un brutto sogno nel mezzo di una brutta storia che voglio abbia però un lieto fine. Lo affido a Robert Stroud, ergastolano rinchiuso ad Alcatraz in regime di isolamento. La sua storia incredibile è stata anche raccontata dal regista John Frankeimer nel film L’uomo di Alcatraz. Un giorno, dice il racconto, durante l’ora d’aria nel cortile Robert trova sul selciato un passerotto agonizzante. Lo raccoglie, lo cura, lo salva. Allora, chiese e ottenne di poter allevare in cella alcuni canarini. Fu l’inizio del suo cambiamento. Studiò la biologia degli uccelli da gabbia, scoprì nuovi rimedi per curare le loro malattie, scrisse due trattati sulla materia, divenne un ornitologo di fama internazionale. Robert Stroud, la belva umana, isolata dal mondo esterno e dagli altri reclusi, a causa della sua indole violenta, divenne alla fine un uomo buono, dolce e compassionevole. Nell’America di Donald Trump si vuole aprire di nuovo il famigerato carcere di Alcatraz per “i criminali più spietati e violenti d’America”. “È un’idea che ho avuto, è un simbolo di legge e ordine”, ha spiegato il Presidente. Nell’Italia di Marco Pannella, il leader della nonviolenza, si vuole introdurre il nuovo reato di rivolta in carcere consumato mediante atti di “resistenza anche passiva” all’esecuzione degli ordini impartiti. Anche qui “per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica”. L’illusione autoritaria degli stati di emergenza, del valore deterrente delle pene e dei regimi di detenzione, unisce oggi le terre d’origine di George Washington e di Cesare Beccaria, un tempo illuminate e governate da stati più elevati di diritto e di coscienza. Stati Uniti. Prima Salvador e Alcatraz, ora la Libia: le prigioni di Trump per i migranti illegali di Paolo Guzzanti Il Riformista, 8 maggio 2024 L’amministrazione americana valuta deportazioni nonostante torture e abusi nei centri di detenzione Possibili trasferimenti già da questa settimana. La deterrenza di questo programma funzionerà? Prima la grande fortezza per detenuti a vita in Salvador, poi una in Venezuela, quindi la voce di una riapertura del più famoso e feroce luogo di detenzione americano sullo scoglio di Alcatraz. E ora siamo in attesa della conferma di un altro campo di concentramento per immigrati clandestini con fedina penale, in Libia, nella zona controllata dal generale Haftar come cui gli Usa starebbero concludendo contratti che comprendono sia l’estrazione del petrolio che la edificazione e gestione di campi di concentramento in cui chiedere a vita gli immigrati clandestini accusati di gravi delitti e spaccio di droga nel gli Stati Uniti. Sembra che l’amministrazione Trump abbia adottato come programma anticriminalità le parole che Dante ha posto all’ingresso dell’infermo: “Lasciate ogni speranza, oh voi ch’entrate”. I criminali entrati clandestinamente negli Stati Uniti non saranno rimpatriati e messi in libertà nei Paesi d’origine, ma creperanno vivendo una vita carceraria orrenda in vari luoghi scelti fuori dagli Usa, salvo il caso di Alcatraz. Le associazioni umanitarie stanno protestando contro le condizioni disumane dei posti di detenzione ma sembra sia proprio questo il messaggio che l’amministrazione vuole diffondere: vi aspetta l’inferno. L’amministrazione ha lanciato poi l’idea alternativa di premiare i clandestini disposti ad andarsene con un premio di mille dollari. Secondo voci di ieri, si diceva che già oggi potrebbe decollare per la Libia il primo aereo militare americano pieno di detenuti ammanettati. Saddam Haftar. figlio del dittatore del dittatore libico di Bengazi, ieri era a Washington per raggiungere un accordo: petrolio privilegiato e campi di concentramento. La notizia indica l’obiettivo propagandistico di Trump: rendere l’immigrazione illegale negli Usa diventi una porta per l’inferno. Sta già accadendo a El Salvador, il cui “hombre fuerte” Nayb Armndo Bukele ha messo a disposizione degli americani un sistema carcerario da cui nessuno uscirà mai. Neppure se un arresto si rivelasse ingiustificato. È un caso reale perché Kilmar Abrego Garcia - salvadoregno - è stato arrestato per errore in America e spedito al carcere di San Salvador benché in possesso di un regolare permesso di soggiorno. Ma il presidente del Salvador, Bukele, ha espresso parere negativo e l’innocente resta all’ergastolo. E adesso si apre la pagina libica con cui gli Stati Uniti stanno concludendo contratti per lo sfruttamento dei pozzi dell’Est su cui domina Haftar e che include le carceri. Nei giorni scorsi aveva sconvolto l’opinione pubblica la notizia secondo cui Trump intende riaprire l’antico e infernale carcere di Alcatraz. Tutto il mondo ricorda come una leggenda dell’orrore quel carcere su un’isola da cui non si può fuggire, benché resista la leggenda secondo cui un detenuto riuscì a saltare in mare e suo corpo non fu più ritrovato. El Salvador, Alcatraz, l’Est della Libia, sono per ora i luoghi di castigo eterno per chiunque sia sorpreso negli Stati Uniti dopo esservi entrati illegalmente. La funzione di questa politica è quella di creare un terrore preventivo che faccia passare la voglia di varcare la frontiera con gli Stati Uniti per raggiungere la malavita organizzata. Finora gli espulsi dagli Stati Uniti consideravano la cacciata come un incidente rimediabile perché gli espulsi trovavano prima o poi il modo di rientrare attraverso i consueti passaggi. Trump ha deciso di scoraggiare in modo drastico qualsiasi tentativo di rientro illegale praticando lo spietato criterio di non rimpatriare gli illegali nei loro paesi di origine, ma di imprigionarli per sempre. Amnesty International chiede la chiusura dei siti “orrifici” e lo stesso Rapporto annuale americano sui diritti umani definisce le. Condizioni di detenzione in Libia come “durissime e capaci di mettere a rischio la vita compresa quella dei bambini cui sarebbe negato il diritto di rivolgersi a un tribunale americano per un regalare processo. Il New York Times riferisce di altri voli per deportazione di detenuti in India, Guatemala ed Ecuador.