La lettera aperta al DAP in sostegno di Ristretti Orizzonti da parte di 35 professori universitari giurisprudenzapenale.com, 7 maggio 2025 Pubblichiamo la lettera aperta - firmata dal prof. Davide Galliani dell’Università di Milano (estensore) e da altri 34 professori universitari - in sostegno di Ristretti Orizzonti a seguito della nota del 27 febbraio 2025 del Direttore Generale della Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento del DAP, avente ad oggetto le modalità di custodia dei detenuti di Alta Sicurezza. Sulla medesima circolare del DAP ha recentemente preso posizione anche l’Unione delle Camere Penali Italiane (UCPI) con un documento a firma dell’Osservatorio Carceri. Lettera aperta al DAP in sostegno di Ristretti Orizzonti (30 aprile 2025) Chi studia il diritto penitenziario non può fare a meno di Ristretti Orizzonti. E crediamo che le duemila visite giornaliere al suo sito internet siano testimonianza della rilevanza per una cerchia più ampia di persone, a tal punto che Ristretti, straordinario strumento di informazione e di apprendimento, appare un bene culturale immateriale da tutelare. Ad esempio, il Notiziario quotidiano dal carcere è un appuntamento che ciascuno attende e dal quale trae beneficio per le attività che svolge. Il tutto senza considerare che Ristretti coinvolge da tempo un cospicuo numero di detenuti in attività aventi come scopo la rieducazione, costituzionalmente imposta. Siamo quindi preoccupati delle conseguenze che si potranno verificare sul lavoro di Ristretti Orizzonti a seguito della nota del 27 febbraio 2025 del Direttore Generale della Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento del DAP, avente ad oggetto le modalità di custodia dei detenuti di Alta Sicurezza. Da un lato, l’art. 13 della Costituzione esige che i “modi” della detenzione siano “previsti dalla legge”. Siamo consapevoli che già si è fatto ricorso a note, linee guida, circolari e simili per intervenire sulle modalità della detenzione, non di meno è il momento di adottare una posizione più netta, anche perché la giurisprudenza costituzionale ha esteso all’esecuzione della pena una serie di principi fino a qualche anno addietro ritenuti validi solo per la fase della cognizione (su tutti, un corollario proprio della legalità, il divieto di retroattività di modifiche in peius: sentenza 32/2020, seguita da decisioni conformi). Esistono spazi di attuazione da riconoscere alla fonte regolamento, ma una questione così importante, come quella delle modalità di custodia dei detenuti (nel nostro caso, di AS), deve trovare nella fonte legislativa la sua prima e insostituibile disciplina. Dall’altro lato, nel merito, ci domandiamo quanto possa essere costituzionalmente legittima la scelta delle “celle chiuse” quale modalità di custodia dei detenuti di AS. I riferimenti corrono a diverse disposizioni della Costituzione. Da quelle che assegnano alla Repubblica compiti inequivocabili - quali garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2) e rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3) - a quelle che disegnano il volto costituzionale del sistema penale, come la responsabilità penale personale, il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e il finalismo rieducativo (art. 27). Non convincono le motivazioni a favore delle “celle chiuse”, laddove si dice che solo in questo modo si rende possibile la individualizzazione del trattamento. Allo stesso modo, non pare opportuno fare discendere conseguenze così gravose sulla generalità dei detenuti in AS. Laddove si sono verificate criticità è giusto intervenire, non lo è farlo in modo indistinto, a tutto detrimento proprio della individualizzazione. Chiediamo pertanto che il DAP intervenga in modo rapido e solerte per rimediare a questa scelta sbagliata e fuori dal perimetro costituzionale. Le persone non sono “reati che camminano”, il diverso trattamento e il differente regime di custodia devono sempre basarsi su valutazioni attuali e individualizzate. Siamo convinti che questo sia il modo più costituzionalmente orientato per garantire insieme l’ordine e la sicurezza entro gli istituti penitenziari e il pieno sviluppo della persona umana. Sottoscrivono: Davide Galliani, Università degli Studi di Milano (estensore) Roberto Bartoli, Università degli Studi di Firenze Francesco Palazzo, Università degli Studi di Firenze Roberto Cornelli, Università degli Studi di Milano Renzo Orlandi, Università degli Studi di Bologna Giovanni Fiandaca, Università degli Studi di Palermo Emilio Dolcini, Università degli Studi di Milano Marco Pelissero, Università degli Studi di Torino Luciano Eusebi, Università Cattolica di Milano Angela Della Bella, Università degli Studi di Milano Stefano Simonetta, Università degli Studi di Milano Emilio Santoro, Università degli Studi di Firenze Stefano Canestrari, Università degli Studi di Bologna Patrizio Gonnella, Università degli Studi Roma Tre Giandomenico Dodaro, Università degli Studi di Milano-Bicocca Lina Caraceni, Università degli Studi di Macerata Franco Della Casa, Università degli Studi di Genova Laura Cesaris, Università degli Studi di Pavia Andrea Pugiotto, Università degli Studi di Ferrara Carlo Fiorio, Università degli Studi di Perugia Silvia Buzzelli, Università degli Studi di Milano-Bicocca Pasquale Bronzo, Università La Sapienza di Roma Marco Ruotolo, Università degli Studi di Roma Tre Gian Luigi Gatta, Università degli Studi di Milano Costantino Visconti, Università degli Studi di Palermo Gian Paolo Demuro, Università degli Studi di Sassari Claudia Pecorella, Università degli Studi di Milano-Bicocca Mauro Palma, Università degli Studi di Roma Tre Adolfo Ceretti, Università degli Studi di Milano-Bicocca Donato Castronuovo, Università degli Studi di Ferrara Vittorio Manes, Università degli Studi di Bologna Antonia Menghini, Università degli Studi di Trento Alberto Di Martino, Università Sant’Anna di Pisa Fabrizio Siracusano, Università degli Studi di Catania Stefania Carnevale, Università degli Studi di Ferrara Le carceri sono al collasso ma la politica guarda altrove di Glauco Giostra Avvenire, 7 maggio 2025 Su giustizia e carceri, i governi del recente passato hanno prodotto, con sensibilità culturale e lungimiranza politica, interessanti progetti di riforma, tradendo poi, per miopi calcoli elettorali, ogni fiduciosa attesa. L’attuale sembra, più “coerentemente”, chiudere qualsiasi spiraglio alla speranza. Si concludono oggi i tre giorni di astensione dalle udienze proclamate dall’Unione Camere penali per protestare contro il c.d. DL Sicurezza, esprimendo il “più ampio e profondo dissenso sia nei confronti delle singole norme, violatine dei principi costituzionali di proporzionalità, ragionevolezza, offensività e tassatività, che della visione securitaria e carcerocentrica”. Difficile non condividere pienamente entrambi i rilievi critici. Basti pensare, sotto il primo profilo - come denuncia il documento delle Camere penali - “alla inutile introduzione di nuove ipotesi di reato, ai molteplici sproporzionati e ingiustificati aumenti di pena, alla introduzione di aggravanti prive di alcun fondamento razionale, alla sostanziale criminalizzazione della marginalità e del dissenso ed alla introduzione di nuove ostatività per l’applicazione di misure alternative alla detenzione”. Nel complesso poi, questa lenzuolata di novità normative ad alta illiberalità ed a bassa efficienza costituisce in effetti l’ennesima espressione di un demagogico giustizialismo, che, a sua volta, altro non è se non il cugino del populismo che ha studiato legge. Ma è sul fronte del dramma penitenziario - fronte su cui l’Unione ha da sempre condotto una battaglia di civiltà, non soltanto giuridica - che la delibera di astensione orienta prevalentemente i suoi rilievi critici, non soltanto perché “l’entrata in vigore di tali discusse norme non farà altro che aumentare la popolazione carceraria, con ulteriore aggravio del fenomeno del sovraffollamento e con il definitivo collasso di strutture già allo stremo”, ma anche per denunciare le responsabilità in omittendo, non essendosi provveduto alle “assunzioni di personale sanitario, amministrativo e di polizia”, al fine di garantire le adeguate “risorse destinate alla sicurezza, al trattamento ed alla assistenza psichiatrico-sanitaria”. Nonostante la meritoria iniziativa delle Camera penali, riesce difficile nutrire qualche speranza di attenzione politica al dramma carcerario, se anche autorevolissimi moniti - condanna per trattamento inumano e degradante dei detenuti da parte della Cedu, preannunci di incostituzionalità della Corte costituzionale, incalzanti raccomandazioni degli ultimi due Presidenti della Repubblica, accorati appelli di Papa Francesco - sono stati sostanzialmente ignorati. Coscienze imperturbabili, salvo qualche frettoloso rammarico di circostanza, anche quando dalla disperante situazione penitenziaria si leva, con agghiacciante frequenza, un esangue indice accusatore: “Devi rispondere anche di questa mia morte, tu Stato, che invece di limitarti a privarmi della libertà, mi hai umanamente distrutto”. I governi del recente passato hanno prodotto, con sensibilità culturale e lungimiranza politica, interessanti progetti di riforma, tradendo poi, per miopi calcoli elettorali, ogni fiduciosa attesa. L’attuale sembra, più “coerentemente’: chiudere qualsiasi spiraglio alla speranza. Il Ministro della Giustizia Nordio ha chiarito che il sovraffollamento e le sue conseguenze dipendono dal numero di coloro che commettono i reati. Considerazione che oscillerebbe tra l’insensato e l’irridente, provenendo da una figura di qualificata esperienza, tanto più se letta insieme alla gragnuola di reati e di inasprimenti di pena introdotta con il Decreto. Ma che ben si spiega, se inscritta nel disegno politico proteso ad esibire alla insicura collettività il rigonfio bicipite della repressione penale. La Presidente del Consiglio, da parte sua, dice di non aver mai creduto “che la strada per ridurre il sovraffollamento siano indulti e svuota-carceri”, ritenendo piuttosto che servano “misure strutturali per ampliare gli spazi a disposizione”. Forse è bene premettere che con l’iperbolico neologismo svuota-carcere si è inteso da tempo connotare allarmisticamente la semplice introduzione di alcune misure alternative alla detenzione per i meritevoli, e con questo allusivo pericolo si è riusciti a far fallire ogni conato di riforma. Un’idea, quella espressa dalla Presidente, in frontale contrasto con le raccomandazioni da tempo formulate dal Consiglio d’Europa: dopo aver avvertito che “aumentare la capacità ricettizia significa aumentare senza vantaggio alcuno la domanda di carcere”, il Consiglio ha esortato a far ricorso alle misure alternative, ritenute “mezzi importanti per combattere la criminalità, per ridurre i danni che essa causa”, evitando “gli effetti negativi della reclusione”. Postilla: seguendo tali raccomandazioni l’Olanda ha chiuso diversi penitenziari e sino ad oggi si è rifiutata di consegnare alle autorità italiane un presunto pluriomicida per lo stato delle nostre carceri “inumane per sovraffollamento, numero di suicidi e inadeguatezza delle strutture”. Carceri abbandonate: il piano del Commissario straordinario ancora assente di Ermes Antonucci Il Foglio, 7 maggio 2025 Nonostante la scadenza fosse fissata a fine gennaio, il commissario per l’edilizia penitenziaria nominato a settembre dal governo non ha ancora presentato il programma degli interventi per far fronte all’emergenza carceraria. La conferma arriva dalla Corte dei conti. Nonostante la scadenza fosse fissata a fine gennaio, il commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria nominato a settembre dal governo, Marco Doglio, non ha ancora presentato il programma degli interventi per far fronte all’emergenza carceraria. La conferma emerge dalla relazione pubblicata lunedì dalla Corte dei conti, intitolata “Infrastrutture e digitalizzazione: piano carceri”. Doglio è stato nominato Commissario il 17 settembre 2024 e, secondo il decreto che ha introdotto la sua figura, “entro centoventi giorni” dalla nomina avrebbe dovuto “redigere il programma dettagliato degli interventi necessari, specificandone i tempi e le modalità di realizzazione”. Sono passati quasi otto mesi e, come conferma la Corte dei conti, il piano ancora non esiste. Che il termine dei 120 giorni fosse stato superato era evidente a tutti. Non era chiaro invece se il commissario Doglio avesse intanto elaborato il programma e lo avesse presentato, in via riservata, al ministro della Giustizia Carlo Nordio e al ministro delle Infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini, competenti sul tema dell’edilizia carceraria. Qualcuno si era anche chiesto se il programma potesse avere una natura confidenziale, visto che la gestione degli istituti di pena chiama in causa anche la tutela della sicurezza nazionale (col risultato, però, che in questo modo ogni controllo politico e dell’opinione pubblica sull’operato del commissario sarebbe negato alla radice). I dubbi sono stati spazzati via dalla Corte dei conti, che per stilare la sua relazione, lunga quasi 300 pagine, ha chiesto informazioni direttamente ai ministeri e alle pubbliche amministrazioni coinvolte nel settore dell’edilizia penitenziaria. Così, a conclusione dell’analisi della figura del nuovo commissario straordinario, la Corte dei conti specifica che “si riferiscono attualmente in corso le interlocuzioni per la definizione del programma”. Tradotto: a distanza di otto mesi, il programma ancora non esiste. Si tratta di una notizia clamorosa, che rende ancora più critica la situazione carceraria. Nella sua relazione, la Corte dei conti evidenzia come a dieci anni dalla conclusione della gestione commissariale emergano “situazioni critiche di sovraffollamento carcerario che - soprattutto in Lombardia, Puglia, Campania, Lazio, Veneto e Sicilia - assumono contorni ai limiti dell’emergenza”. Accanto alla necessità legata alla creazione di nuovi posti detentivi, si legge nel documento, emergono la mancata realizzazione di numerosi interventi e l’urgenza di completare quelli di manutenzione straordinaria già avviati, per migliorare le condizioni ambientali, igienico-sanitarie e di trattamento all’interno degli istituti. La relazione riporta dati ben poco incoraggianti per chi, come Fratelli d’Italia, sostiene che la soluzione al problema del sovraffollamento carcerario sia costruire nuove carceri, e anche per chi, come il Guardasigilli Nordio, promuove da tempo come soluzione quella di trasformare le ex caserme dei militari in luoghi di detenzione. Sul primo aspetto, risulta tragicomica la vicenda del nuovo carcere di Forlì, i cui lavori sono cominciati nel 2007 e, a distanza di diciotto anni, risultano ancora non conclusi. Nella relazione, la Corte dei conti riepiloga tutte le tappe dell’incredibile vicenda, sottolineando anche come nel frattempo il costo dell’intervento sia lievitato da 34 a 62 milioni di euro. Dati non incoraggianti anche sul fronte della riconversione delle ex caserme. Una direzione inaugurata già nel 2018, ma rilanciata da Nordio. Il ministro della Giustizia del governo Meloni ha più volte dichiarato di voler puntare con forza a questa soluzione, immaginando che questa comporti tempi più celeri rispetto alla costruzione di nuove carceri. La questione, tuttavia, risulta essere più complessa. Il progetto di riconversione dell’ex caserma “Barbetti” di Grosseto, ad esempio, è stato avviato nel 2020, ma l’amministrazione penitenziaria è riuscita a firmare il verbale di acquisizione della caserma soltanto il 18 gennaio 2024. E il percorso per arrivare all’utilizzo della struttura sembra ancora molto lungo. “Gli ultimi aggiornamenti forniti dal ministero della Giustizia - si legge nella relazione della Corte dei conti - riferiscono in corso di redazione il quadro esigenziale finalizzato all’avvio delle operazioni di rilievo, analisi strutturale e ambientale dell’intero compendio, che si mostra particolarmente articolato in ragione della vasta estensione dell’area (154.000 mq) e della presenza di ben 32 edifici”. Anche la riqualificazione delle ex caserme, insomma, sembra richiedere un tempo consistente, che mal si concilia con la necessità di intervenire con urgenza per alleviare il problema del sovraffollamento carcerario, alla base anche del record di suicidi fra i detenuti. Così, tra ritardi e commissari assenti, a due anni e mezzo dall’insediamento non è ancora chiaro cosa il governo intenda fare per riportare civiltà nel sistema carcerario. Edilizia penitenziaria: stanziato 1 mln di euro, per rispondere ai bisogni servirebbe 1 miliardo di Patrizio Gonnella Gazzetta del Mezzogiorno, 7 maggio 2025 La Corte dei Conti, nella relazione dedicata alle infrastrutture carcerarie, ha stigmatizzato le condizioni drammatiche in cui versa il sistema penitenziario italiano. Ancora una volta le carceri italiane finiscono sotto le lenti della magistratura, questa volta quella contabile. La Corte dei Conti, nella relazione dedicata alle infrastrutture carcerarie, ha stigmatizzato le condizioni drammatiche in cui versa il sistema penitenziario italiano, del tutto incapace di assicurare gli standard costituzionali e internazionali sulla pena. Il sistema penitenziario è oggi dunque illegale. La Corte identifica nella mancanza di una pianificazione strategica l’attuale crisi del sistema penitenziario che prova, senza riuscirci, a rincorrere in forma emergenziale la crescita della popolazione detenuta. Nonostante i tanti Piani Carceri e i tanti Commissari Straordinari che si sono succediti nel tempo, nonostante tutti i soldi spesi e le parole al vento sulle nuove carceri da costruire, oggi ci sono circa quindicimila persone in più rispetto ai posti realmente disponibili. Ciò significa che le persone dormono a volte per terra, a volte al terzo piano di un letto a castello. La Corte dei Conti, negli ultimi anni, ha più volte ricordato ai vari Governi che non è con mirabolanti e costosi piani edilizi che si affronta la questione carceraria. La storia italiana dell’edilizia penitenziaria è una storia di corruzione, inefficienze, sprechi. Due esempi del passato sono paradigmatici. Era la fine degli anni 80 del secolo scorso, quando prima di tangentopoli scoppiò lo scandalo delle carceri d’oro che portò a non pochi arresti. All’inizio del nuovo millennio ci fu poi la costituzione da parte del ministro leghista Castelli di una società che avrebbe dovuto occuparsi delle carceri nuove, la Dike Aedifica, definita una società fantasma, negli anni a seguire, dalla stessa Corte dei Conti. Lo scorso agosto il Governo ha approvato un decreto nel quale è comparsa la solita norma propagandistica sull’edilizia penitenziaria. Fu stanziato oltre un milione e cento mila euro per finanziare la nuova struttura commissariale per l’edilizia carceraria. In questi mesi è stato solo proposto un container per 384 persone detenute dal costo complessivo di ben 32 milioni di euro, dunque oltre 83 mila euro a posto letto. Posto che qualunque luogo adibito a carcere deve avere spazi conformi alla legge sia per la vita notturna (celle individuali conformi agli standard abitativi) che per quella comunitaria diurna (scuole, spazi aperti per socialità e sport, infermerie, cucine, laboratori), i costi andranno inevitabilmente a salire anche perché, salvo che non si punti all’autogestione (che è anche una opzione), bisognerà assumere il personale educativo, direttivo, di Polizia, medico, socio-assistenziale. Per rispondere alle esigenze del sistema penitenziario attuale, visti i numeri, ci vorrebbe, perciò, più di un miliardo di euro. Un detenuto affidato ai servizi sociali, nonché impegnato in attività di lavoro o studio fuori dal carcere, costa circa venti volte di meno e ha un tasso di recidiva almeno quattro volte più basso. Dunque, per la sicurezza pubblica e per le tasche degli italiani sarebbe più appropriato prevedere per i detenuti condannati a pene brevi sanzioni diverse dal carcere. E pura propaganda affrontare il tema del sovraffollamento promettendo la costruzione di nuove carceri o di riadattare ex caserme. Di fronte a persone costrette a vivere in luoghi malsani, a spazi inesistenti, a una pena che si è trasformata in una punizione illegale, bisognerebbe affidarsi alle parole e alla saggezza di papa Francesco che ha sempre sollecitato per i detenuti umanità, clemenza, misericordia. Alla sua grandezza non si risponda con la propaganda dell’edilizia, ma con il coraggio di scelte dirette a ridurre la popolazione reclusa. Il carcere è oggi un luogo di reclusione delle povertà diffuse, di persone con problemi psichici, di tossicodipendenti. Di loro, in un mondo ispirato a ragionevolezza e solidarietà sociale, si dovrebbe occupare il sistema del welfare e non quello della repressione. L’indultino è il minimo per evitare un’altra condanna della Cedu di Marco Perduca L’Unità, 7 maggio 2025 Il degrado delle nostre carceri è confermato anche dalle relazioni delle Asl ottenute dall’Associazione Coscioni. La società civile continua con le sue denunce pubbliche. Il problema di uno sconto di pena o liberazione anticipata resta allora tutto politico. Da una prima lettura delle 66 relazioni delle visite delle Asl nelle carceri italiane, ottenute dall’Associazione Luca Coscioni a seguito di una richiesta di accessi agli atti di dicembre scorso, si nota che nella stragrande maggioranza dei casi non siano stati effettuati neanche quegli interventi di ordinaria manutenzione spesso necessari a rendere le condizioni ambientali e igienico-sanitarie a norma di legge. Allo stesso tempo si registrano carenze di personale e disomogenea offerta di servizi socio-sanitari. Niente che non fosse già noto grazie alle visite ispettive di parlamentari e associazioni varie, ma che adesso viene confermato dalle Aziende sanitarie locali di mezza Italia - l’altra metà non ha ancora risposto. Questa diffusa negligenza, di per sé già grave, si acuisce alla luce della relazione “Infrastrutture e digitalizzazione: Piano Carceri” pubblicata il 5 maggio dalla Corte dei Conti, in cui si mette in mora lo stato di attuazione del famigerato Piano Carceri evidenziando situazioni critiche di grave sovraffollamento in particolare in Lombardia, Puglia, Campania, Lazio, Veneto e Sicilia. Secondo il sito sovraffollamentocarcerario.it, predisposto dal giornalista indipendente Marco Della Stella che monitora le presenze quotidiane in carcere, al 4 maggio 2025 nei 189 istituti di pena italiani erano recluse 62.487 persone. A fronte di una capienza regolamentare di 51.280, ben 4.488 posti non sono però disponibili, portando l’affollamento al 133,542%! Poco prima di Pasqua, l’associazione Nessuno Tocchi Caino aveva lanciato un appello per un “Giubileo della clemenza”; la commozione per la morte di Papa Francesco e tutto il gran parlare di “ultimi” che ne è scaturito andrebbero colti per far accadere uno di quei fatti straordinari che, come usa dire, avvengono “ogni morte di Papa”. L’ultima legge straordinaria in materia di deflazione carceraria risale al 29 luglio 2006 quando il Parlamento approvò un indulto che riguardò tutti i reati commessi fino al 2 maggio 2006 nella misura non superiore a tre anni per le pene detentive e non superiore a 10.000 euro per quelle pecuniarie. Dal provvedimento furono esclusi i reati di maggiore allarme sociale come associazioni sovversive, sequestro di persona, atti di terrorismo, pornografia minorile, violenza sessuale, tratta di persone e usura. Grazie a quella decisione circa 25.000 persone furono liberate anticipatamente. Ne seguirono polemiche a destra e sinistra ma le carceri poterono “respirare” consentendo importanti interventi di manutenzione anche straordinaria. A tre anni da quell’indulto, il proibizionismo punizionista fece letteralmente scoppiare le carceri rendendo la Repubblica italiana un’osservata speciale da parte della Corte europea dei diritti umani con la famigerata sentenza pilota Torreggiani del gennaio 2013. Un’analisi attenta delle cause del “sovraffollamento” di questi giorni, e delle sue dimensioni, dovrebbe suggerire di evitare una nuova condanna da parte della CEDU. Oltre alle relazioni, l’Associazione Luca Coscioni ha chiesto alle ASL anche le eventuali linee guida seguite per i sopralluoghi, la lista delle istituzioni con cui sono stati condivisi i rilievi e le eventuali risposte dell’amministrazione penitenziaria. Da quanto ricevuto fin qui si evince che solo un paio di Regioni prevedono regole precise per le ispezioni. Nessuna ASL ha fornito la documentazione relativa agli impegni assunti dal DAP o dal Ministero della Giustizia a seguito delle segnalazioni di criticità. Se la società civile continua con le sue denunce pubbliche, e gli scioperi della fame di Rita Bernardini, il problema di uno sconto di pena, o liberazione anticipata, resta tutto politico. Nessuno Tocchi Caino e il Deputato d’Italia Viva Roberto Giachetti stanno lavorando a un “indultino” di un anno per chiunque è recluso. La proposta ha già fatto storcere molti nasi, ma è il minimo necessario per evitare nuovamente la messa in mora continentale di un sistema penitenziario che impone trattamenti inumani e degradanti contrari alla nostra Costituzione e lo Stato di Diritto internazionale. Di cosa parliamo quando parliamo di diritto all’amore in carcere di Ezio Menzione* Il Dubbio, 7 maggio 2025 La sentenza della Consulta apre le porte all’affettività per le persone in stato di detenzione, ma la circolare del Dap le richiude tra vincoli, paure e finto pudore. C’è un gran bel divario fra la sentenza della Corte costituzionale n. 10 del febbraio 2024, che riconosceva il diritto dei detenuti ad esercitare la propria affettività (assieme a quella dei propri congiunti), e la circolare del Dap che, a più di un anno di distanza, stando a quanto era logico sperare, avrebbe dovuto dare attuazione alla sentenza di allora. Tanto era chiaro ed urgente il respiro della sentenza, tanto è, credo volontariamente, ristretto e compromissorio il tenore della circolare attuativa. A cominciare dalla definizione delle linee guida proposte, che portano il nome di “nota” e dunque non intendono essere in alcun modo impegnative. Certo, il fatto in sé che il Dipartimento ministeriale si esprima per la prima volta sul tema posto da quella sentenza, è di per sé elemento positivo. Ma poi, la positività finisce tutta lì. La sentenza del 2024 è molto bella, non solo perché statuisce senza esitazioni un nuovo diritto, ma anche perché ne indica i limiti e le poche ben giustificate esclusioni e si spinge fino a suggerire, con consigli di massima, le possibilità pratiche per l’attuazione. La sentenza di incostituzionalità trasuda urgenza, mentre qui si parla di semestri, prorogabili in altri semestri ancora, e quindi anni. Tacendo del fatto, ben sottolineato dalla sentenza e nemmeno rammentato dalla circolare, che qui non si tratta di un diritto dei soli detenuti, ma anche delle loro famiglie, terzi soggetti coinvolti. Non è infatti di soli rapporti sessuali che qui si tratta - e già così sarebbe coinvolto di volta in volta almeno un secondo soggetto oltre al detenuto - ma altresì dell’intera sfera intima degli affetti di cui quella famiglia è costituita, vale a dire una pluralità di soggetti. È questo il respiro che anima la sentenza. Ma la circolare sembra dire che se ormai il diritto non lo si può negare e ce lo ha detto anche la Cassazione (sez. 1, n. 8/ 2025), e però a noi non piace e ci è scomodo, si faccia in modo di centellinarlo e posticiparlo. Vediamola in concreto questa politica delle restrizioni: durata dei colloqui, non più di 2 ore, dice la circolare, mentre la sentenza non poneva limiti, e anzi indicava, sia pure tangenzialmente, l’esempio dei colloqui familiari dei detenuti minori, i quali, motivando anch’essi sulla base delle necessità affettive e relazionali, vanno da 4 a 6 ore. Nel novero degli esclusi, la circolare pone chi abbia commesso una infrazione disciplinare sanzionata dal consiglio di disciplina, ipotesi non prevista dalla sentenza e molto discutibile, tale da lasciar prevedere una moltitudine di ricorsi. La lungaggine e farraginosità dell’iter per ottenere il “permesso” di colloquio, come se un diritto avesse bisogno di un permesso per essere esercitato. Le indagini sulla persona esterna (coniuge o stabile convivente) da ammettere al colloquio (anche qui, come se l’esercizio di un diritto fosse ammissibile oppure inammissibile). Aggiungere ai rischi per la sicurezza anche i rischi nient’affatto individuati connessi ad ipotesi di partecipazione a disordini: e a questo proposito non si può non ricordare come il recente decreto sicurezza abbia equiparato ai disordini anche la resistenza passiva e rammentare come spesso, in situazioni appunto di disordini all’interno del carcere, l’esperienza ci rammenta come siano state proprio le famiglie a contribuire a calmare gli animi. Le camere saranno arredate “con un letto e con annessi servizi igienici”: e qui il suggerimento si fa veramente odioso, facendoci ricordare dei casini militari, nei quali si pagava un sovrapprezzo per un bidet ad acqua calda, laddove la sentenza del 2024 aveva indicato come la affettività la si ricostruisce in maniera compiuta in ambienti il più possibile simili a quelli domestici, dunque dove sia possibile rilassarsi, conversare, esprimersi anche con carezze e lievi contatti, e pure con un caffè preso insieme o un piatto di spaghetti cucinato come a casa. L’affettività è questo e molto altro ancora e la Corte costituzionale lo ha intuito ed espresso. Per non dire della “biancheria necessaria (asciugamani, lenzuola o altro)”, che “sarà portata al colloquio dalle persone autorizzate al colloquio intimo e sottoposta a controllo”: e qui traspare in controluce quanto per il Dap non ci si voglia immischiare in alcun modo in faccende intime e ritenute anche un po’ sporche. Ipotesi avallata da una recente presa di posizione del Sappe, che non intende che i propri iscritti diventino “guardoni”: gli andrebbe spiegato che, giustappunto, tutto si muove nel solco di come sottrarre i colloqui intimi allo sguardo di terze persone, agenti in primo luogo. *Garante dei detenuti di Volterra Alfonso Papa: “Il carcere è come una malattia, ne parla solo chi ne è vittima” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 7 maggio 2025 Fu il primo parlamentare ad andare in carcere per reati da colletto bianco (poi prosciolto). Sulla lettera di Alemanno a Nordio: “La situazione è così drammatica che è benvenuto chiunque ne parli, anche se doveva farlo prima e non l’ha fatto. La politica è assente perché riflette il sentire del popolo”. “In carcere si registra un’emergenza umanitaria gravissima che non incontra l’interesse della politica istituzionale né della società”. A parlare ad HuffPost è Alfonso Papa, già parlamentare del Popolo della Libertà nonché magistrato che, suo malgrado, si è trovato a conoscere l’esperienza del carcere: 101 giorni di custodia cautelare - il primo parlamentare della storia repubblicana per cui l’aula votò il carcere per reati da colletto bianco - su delle accuse partite da un’inchiesta di Henry John Woodcock che poi si è conclusa con un proscioglimento in appello. Papa, che da qualche anno è lontano dalla vita pubblica ma mantiene l’interesse per le condizioni dei penitenziari, riflette sulla lettera che Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, detenuto nel carcere romano di Rebibbia, ha inviato al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sulla disastrosa situazione cui sono costretti i detenuti. E sul perché i politici spesso si trovino a parlare di carcere solo quando ne ha fatto l’esperienza. Il documento di Alemanno, scritto insieme allo “scrivano di Rebibbia” Fabio Falbo, ha avuto molta risonanza. L’ex sindaco di Roma parla di cure negate ai reclusi, di sovraffollamento, di una situazione “insostenibile”. Cosa ne pensa? Sono rilievi che rispecchiano una situazione nota da moltissimi anni. Che, però, negli ultimi 15 anni è peggiorata. Il Covid, poi, ha inciso ulteriormente ad aggravare questa emergenza umanitaria, che ormai ha carattere di endemicità e che si scontra con il disinteresse della società. E, quindi, della politica. Il disinteresse della politica è spiazzante. Da cosa deriva? In Italia non c’è mai stata una reale sensibilità rispetto a questi temi. E la politica altro non fa che riflettere il sentire del popolo che rappresenta. Della società, per l’appunto. Non c’è una separazione così netta tra le due. Alla luce di questo, le condizioni del carcere vengono denunciate solo quando vengono vissute. Un po’ come accade per le gravi patologie: tutti in astratto le conoscono, ma si muovono solo quando ne sono direttamente colpiti. Però i parlamentari hanno accesso alle carceri liberamente, se volessero potrebbero interessarsene ogni giorno. I sindaci, solo per tornare al caso di Alemanno, hanno i penitenziari ubicati fisicamente nelle città che amministrano. Come è possibile che si occupino del tema solo quando li riguarda in prima persona? Mi lasci dire che la sua è una domanda suggestiva. La situazione delle carceri è talmente drammatica che non può che essere benvenuto chiunque ne parli. Anche se lo fa solo quando, per i percorsi più svariati e rocamboleschi della vita, si trova a viverla in prima persona. Il tema è così importante che deve essere considerata positiva la testimonianza di chi, disponendo di una platea che altri non hanno, fa pubblica la sua denuncia. Mi terrei, quindi, lontano dal fare una ricerca o un’esegesi delle motivazioni che spingono la persona in questione a compiere la denuncia stessa. L’elenco dei problemi del carcere è lunghissimo. C’è qualcosa che l’ha colpita, e la colpisce, particolarmente? Lo Stato, lasciando le carceri in questa situazione di emergenza, infligge una tortura. E lo fa nei confronti dei condannati, che hanno diritto a espiare la pena in condizioni dignitose e non in quelle, inaccettabili, vigenti, ma anche nei confronti di chi, secondo la Costituzione, è un innocente e si trova in custodia cautelare. Ecco: questa è una mostruosità nella mostruosità. In Italia c’è indubbiamente un abuso di custodia cautelare in carcere. Quando questa misura viene ritenuta necessaria dal giudice, ad esempio perché si ritiene che ci sia un forte rischio di reiterazione del reato, bisognerebbe fare in modo che non sia scontata nelle condizioni estranianti e disumanizzanti attuali. Se dovesse suggerire un solo intervento da attuare subito per migliorare la situazione delle carceri quale sceglierebbe? Quanto tempo è passato da quando Giovanni Paolo II invocò l’amnistia? Da allora ci sono stati dei peggioramenti. Credo di amnistia si dovrebbe ricominciare a parlare, anche per creare le basi di un comune sentire in relazione al tema del carcere. Non abbiamo anche un problema di panpenalismo in questo Paese? Soprattutto questo governo crea reati per ogni emergenza sociale... Credo che sia un errore accostare i due temi. Creare nuovi reati rientra nell’ambito delle politiche legislative di un governo. Spetta alla politica stabilire quali condotte siano da ritenere penali e per quali prevedere il carcere. È fuorviante, quando si parla delle condizioni dei detenuti, discutere nel merito dei singoli reati e dire se sono giusti o ingiusti. Credo che chi attacca questo o quel provvedimento penale lo faccia più per creare un dibattito strumentale che non perché abbia davvero a cuore i diritti dei detenuti. Detto ciò, però, è chiaro che il governo e il Parlamento, quando introducono un reato, hanno il dovere di assicurare che l’espiazione della pena per quel comportamento avvenga nel rispetto della dignità di chi è chiamato a stare in carcere. Dl Sicurezza, correzioni last minute. Maggioranza divisa di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 maggio 2025 Emendamenti anche da FI e Lega. Tentativi di coprire il bug sulla legge intercettazioni. Una cosa è certa: il pacchetto Sicurezza - prima ddl, ora decreto - non fa bene alla democrazia ma neppure all’equilibrio “psico-politico” del centrodestra. Fino a ieri sera, al termine per la presentazione degli emendamenti nelle Commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera dove il dl è all’esame per la conversione prima di approdare in Aula il 26 maggio, i tre partiti della maggioranza di governo sono andati in fibrillazione per la pressione di una parte di Forza Italia che vorrebbe emendare il testo in alcuni punti e in particolare con una norma aggiuntiva che ponga riparo al caos prodotto dall’interpretazione della legge Zanettin sulle intercettazioni adottata dalle procure alla prova del nove. È successo a Messina, in particolare, dove una circolare del procuratore capo ha inserito i reati contro la Pubblica amministrazione tra quelli per i quali non vale il limite di 45 giorni imposto agli inquirenti per effettuare intercettazioni. Un’interpretazione inevitabile, e prevista peraltro durante le audizioni in commissione del provvedimento approvato in tutta fretta in Parlamento. Accortasi del bug, FI avrebbe voluto correggere il tiro ma nei 38 articoli del decreto Sicurezza non ce n’è neppure uno che affronti la materia e a cui, dunque, agganciarsi. In ogni caso i deputati Costa, Calderone, Pittalis e Gentile hanno passato la giornata, ieri, a preparare alcune correzioni “di bandiera”, in particolare sulla custodia cautelare in carcere da limitare per gli incensurati. Pur non scommettendo sulle possibilità di superare la barriera della maggioranza. Anche la Lega, come già accaduto per il ddl, ha colto l’occasione per presentare “pochi emendamenti” ma d’effetto, in particolare sui furti in casa e sull’aumento di pene per l’occupazione abusiva da applicare anche alle seconde case. Ma per Fd’I - al netto di quale singolo deputato tentato dalla fuga in avanti - l’ipotesi di ritardare in qualche modo la conversione in legge del decreto con il quale si è arrivati ad esautorare il Parlamento è fuori discussione. La battaglia parlamentare si presenta già dura per via delle centinaia di emendamenti presentati dalle opposizioni, tanto da convincere il senatore Gasparri a mettere le mani avanti: “Il dl sarà rapidamente approvato, FI lo ritiene fondamentale per dare certezze ai cittadini e tutelare il popolo in divisa contro il quale la sinistra ha fatto ostruzionismo”. La prossima settimana inizierà l’esame - a colpi di mannaia - degli emendamenti. “Dalle correnti di sinistra un uso politico dell’Anm”. L’affondo di Galoppi spacca la magistratura di Errico Novi Il Dubbio, 7 maggio 2025 Il segretario di Magistratura indipendente, gruppo “moderato”, impallina i colleghi progressisti: “I siluri al governo hanno impedito il dialogo sulle carriere separate. Dico sì all’amnistia”. Incredibile a dirsi, le toghe procedono divise verso la meta, il referendum fin-du-monde sulla separazione delle carriere. Con un’intervista al Giornale di ieri destinata a squassare l’associazionismo giudiziario, il segretario di Magistratura indipendente Claudio Galoppi spara a palle incatenate contro gli alleati/rivali, Area e Md. Una frase dice tutto: “Si è fatto dell’Anm uno strumento di contrapposizione politica al governo”, ma così si è persa l’occasione di “incidere concretamente nel percorso della riforma”, la modifica costituzionale sul “divorzio” tra giudici e pm. Colpa loro, è la convinzione di Galoppi, se la separazione delle carriere verrà approvata così com’è. È clamorosa, la presa di posizione del leader di Mi, giacché proviene dal leader della corrente che esprime lo stesso attuale vertice dell’Anm, Cesare Parodi, e che ha indicato quel presidente in accordo proprio con Area e Md, oltre che con Unicost. Un rebus. Ma in realtà si è di fronte al precipitato di una contrapposizione irriducibile, quasi antropologica. Da una parte la magistratura “di sinistra”, storicamente più ideologizzata, dall’altra la corrente moderata, più vicina al centrodestra, a propria volta accusata di collateralismo ma, nella sostanza, più orientata al puro sindacalismo che faziosa. E così ieri Galoppi ha eruttato in un colpo solo tutte le accuse, concentrate sul predecessore di Parodi, cioè Giuseppe Santalucia, ma soprattutto sugli attuali vertici di Area, e in particolare su Rocco Maruotti, che il gruppo progressista ha voluto come segretario dell’Anm, quasi un altero ego di Parodi, pronto a correggerne gli eventuali “eccessi di diplomazia”. “Il segretario Maruotti farebbe bene a specificare se parla a titolo personale o dell’Anm”, silura Galoppi nel colloquio col Giornale. Nessuna replica “urbi et orbi” da parte dei due alleati/nemici di Mi. Solo un paio di segnali sibillini. La presidente di Area Egle Pilla conferma l’adesione del proprio gruppo alla manifestazione in programma oggi contro il decreto Sicurezza, promossa da giuristi e accademici: “Non servono più reati e più pene ma, è la linea espressa dal coordinamento nazionale dell’associazione (la corrente Area, appunto, ndr), più sicurezza sui luoghi di lavoro, più attenzione ai bisogni primari delle persone, maggiore vivibilità delle nostre città”, dice Pilla. Che sembra rivendicare, “alla faccia” di Galoppi, il diritto dei magistrati progressisti a condurre battaglie politiche. Ancora più esplicito il messaggio proveniente da Magistratura democratica, gruppo storico della sinistra giudiziaria, avversario irriducibile del centrodestra negli anni ruggenti del berlusconismo, che poche ore dopo la pubblicazione sul Giornale dell’intervista a Galoppi diffonde un comunicato per annunciare l’adesione al comitato promotore dei referendum su lavoro e cittadinanza dell’8 e 9 giugno: “Intendiamo partecipare al dibattito pubblico sui temi referendari, cercando di contribuirvi, come associazione di magistrati, con il nostro specifico sapere tecnico”. E qui più che di messaggio subliminale si può parlare di avvertimento: le toghe “di sinistra” fanno sapere al loro dirimpettaio, sempre Galoppi, che quando si tratterà di formalizzare l’adesione ai comitati per il No, nella campagna referendaria sulle carriere separate, se ne infischieranno delle pruderie moderate, e si iscriveranno con ancora maggior convinzione al fronte della militanza attiva. Ma per Galoppi, ça va sans dire, si tratta, come ha detto al Giornale, di una riconversione dell’Anm in “soggetto politico di opposizione”. Faziosità ideologica che appunto, per il segretario di Mi, ha compromesso il “dialogo istituzionale, che è quello che ci compete: abbiamo il dovere e il diritto di commentare tecnicamente le leggi, indicando cosa funziona e cosa no, ma non di fare opposizione politica”. Al di là delle probabili reazioni delle prossime ore, è difficile misurare le conseguenze a medio termine dello strappo procurato da Galoppi. Certo, nel “parlamentino” Anm (pomposamente denominato, dai magistrati, “Comitato direttivo centrale”, non senza vaghe assonanze sovietiche), si era consumato uno scontro, sottovalutato all’esterno, proprio fra Magistratura indipendente e il resto della coalizione che sostiene la Giunta (“esecutiva centrale”, ovviamente) presieduta da Parodi. I moderati di Galoppi avevano proposto un norma deontologica secondo cui giudici e pm avrebbero dovuto rinunciare a eventi sulla separazione delle carriere promossi dai partiti. Ma la mozione si era infranta sulla netta contrarietà di Area e Md. Con le dichiarazioni di ieri, il segretario delle toghe moderate ha avvertito gli avversari/alleati che durante la campagna referendaria la sua Mi rinnoverà il proprio dissenso sulla commistione fra magistrati progressisti e partiti di centrosinistra. Secondo fonti della stessa Mi, Galoppi avrebbe inteso mettere sul chi va là persino Parodi, suo “collega di corrente” ma ritenuto “troppo influenzabile dall’estremismo di Maruotti”. Una cosa, al segretario del gruppo meno anti-governativo, va riconosciuta: a dispetto delle accuse di collaborazionismo con Carlo Nordio, rivoltegli puntualmente dai colleghi progressisti, Galoppi ha avanzato una proposta che, con tanta nettezza, neppure la “rossa” Md sarebbe pronta a sostenere: sul carcere “serve un provvedimento di clemenza”, un’amnistia “per i reati meno gravi e per i detenuti meno pericolosi. Mi attacchino pure, ma è ciò che mi dice la mia coscienza”. Spiazzante, come il resto dell’intervista. Che però una cosa certamente la dice: la campagna per il No alle carriere separate vedrà i magistrati disuniti, e a dolersene saranno pure i partiti che si aspettavano di marciare allineati e coperti contro il ddl Nordio. “L’Anm fa politica”. Il clamoroso autogol della destra in toga di Mario Di Vito Il Manifesto, 7 maggio 2025 Il segretario di Mi Galoppi attacca la giunta. Il presidente Parodi in difficoltà. Lo stupore degli altri gruppi: così si rompe l’unità contro la riforma Nordio. Che la destra togata soffra moltissimo il clima teso che si è instaurato tra il governo e l’Associazione nazionale magistrati è cosa nota. Da ieri, però, questo disagio non è più confinato alle chiacchiere di corridoio e alle mezze parole, perché il segretario di Magistratura indipendente, con un’intervista al Giornale, è finalmente riuscito a trovare le parole giuste per definire la sua posizione. Che per molti versi è sovrapponibile a quella dell’esecutivo. Dice Galoppi, infatti, che l’Anm si è ormai trasformato “in un soggetto politico di opposizione” incapace di “instaurare un dialogo” con un governo che aveva la riforma della separazione delle carriere nel suo programma elettorale. E di chi sarebbe la colpa della mancata trattativa? Non dell’attuale presidente dell’Anm, Cesare Parodi, anche lui di Mi, certo. Casomai dell’attuale segretario Rocco Maruotti (Area democratica per la giustizia, il centrosinistra giudiziario), che “farebbe bene a specificare se parla a titolo personale”. E della giunta precedente guidata da Giuseppe Santalucia (Area), i cui danni sarebbero “ormai irreparabili” perché “la partita è persa” e “la riforma verrà approvata”. Piccolo particolare: la giunta Santalucia era, come quella attuale, unitaria, e il segretario era Salvatore Casciaro, iscritto a Mi. L’affondo di Galoppi, dunque, sembra rivolta anche agli esponenti della sua stessa corrente e la faccenda viene vissuta con sentimenti a metà tra il divertito e l’imbarazzato dagli altri gruppi. Di commenti ufficiali ce ne sono pochissimi. Il segretario di Area Giovanni Zaccaro si limita a poche parole: “Mi spiace che il presidente di Magistratura indipendente, in uno momento in cui la unità associativa è un bene prezioso, denigri figure come Santalucia e Maruotti che tanto bene hanno fatto e fanno”. Off the records, in compenso, si parla parecchio. C’è chi esprime solidarietà verso i colleghi attaccati dal proprio segretario. C’è chi pensa che il segretario di Mi stia cercando di scaricare sugli altri l’eventuale sconfitta nella campagna contro la riforma di Nordio. C’è chi si domanda se Galoppi, con questa sua uscita, non guardi verso un futuro senza toga addosso. C’è chi fa una valutazione logica e si chiede come potrà reggere ancora l’attuale presidente, sostanzialmente sfiduciato dai suoi vertici. La presidenza Parodi, del resto, è nata nel segno di una debolezza politica evidente: alle assemblee del comitato direttivo centrale dell’Anm si registrano spesso voci “in dissenso” da parte degli eletti di Mi. E all’incontro di marzo stava quasi per venire giù tutto quando da Area era stata ventilata l’ipotesi di presentare una mozione di fiducia a Parodi: se si fosse votata e fossero arrivati meno consensi rispetto al mese precedente (quando era partita l’avventura della nuova giunta) la crisi sarebbe stata istantanea e le divisioni interne a Mi sarebbero esplose. A un prezzo altissimo, però: la rottura dell’unità della giunta. La sfida della riforma - e il referendum costituzionale che porterà con sé - si può vincere solo a patto che ci sia grande compattezza, altrimenti il banco salta e la destra di governo avrebbe gioco sin troppo facile a dire che almeno una parte della magistratura organizzata è d’accordo a separare le carriere, spaccare in due il Csm e sorteggiarne i membri. Attualmente le cose però non stanno andando così. L’unità dei giudici formalmente regge ancora: persino Galoppi continua a parlare del piano del governo come “sgangherato”. Anzi, a volerla dire proprio tutta, è tra le forze politiche dell’esecutivo che c’è meno tranquillità di quella di solito ostentata: il “fuorionda” raccolto dal Foglio con il sottosegretario Andrea Delmastro che faceva a pezzi le idee di Nordio è ancora lì a testimoniarlo. Le toghe di destra “tornano” da Meloni. Accelerazione sulla riforma della giustizia di Giulia Merlo Il Domani, 7 maggio 2025 Galoppi critica la precedente giunta: “Faceva opposizione”. L’attuale presidente Parodi smorza, i progressisti attaccano. Oggi il “premier time”, con interrogazioni su riforme, Gaza e dazi. Separazione delle carriere in Senato senza relatore. Formalmente quasi tutti tacciono, ma il sismografo che registra le scosse interne alla magistratura associata ha vibrato con forza e il sisma ha avuto il suo ipocentro nel gruppo conservatore di Magistratura indipendente, l’epicentro nell’Anm. A provocare la scossa è stata un’intervista al Giornale del segretario Claudio Galoppi, che è toga navigata degli equilibri di corrente ed ex componente del Csm. L’attacco è stato frontale. “Si è fatto dell’Anm uno strumento di contrapposizione politica al governo”, è l’accusa mossa da Galoppi che, professandosi contrario alla separazione delle carriere, ha sostenuto che “non si è fatto di tutto perché il testo venisse modificato quando era ancora possibile”. Secondo la toga conservatrice, è mancato il dialogo quando era ancora possibile e ha puntato il dito contro la precedente giunta dell’Anm, guidata dal progressista di Area Giuseppe Santalucia, al cui gruppo è dedicato l’affondo più duro sulla politicizzazione. Eppure la bomba non può che investire anche l’attuale Associazione, che è presieduta da Cesare Parodi, espressione però di Mi. Lui è “equilibrato e aperto al dialogo” ma ormai “la partita è persa, la riforma verrà approvata”. Un modo per riparare il proprio collega di corrente, che però non mitiga la portata delle parole di Galoppi. L’intervista è girata di chat in chat e con tutta probabilità arriverà anche nel dibattito di oggi in giunta, dove Parodi arriva con questo problema aperto. Per capire il contesto - e dunque anche l’effetto - delle parole di Galoppi, basti dire che Mi è risultato il gruppo di maggioranza relativa alle ultime elezioni dell’Anm. Inoltre negli ultimi anni l’Anm è stata guidata da una giunta unitaria, con rappresentate tutte le componenti associative. Infatti, il segretario di Santalucia era l’esponente di Mi, Salvatore Casciaro. Non a caso l’unica battuta del segretario di Area, Giovanni Zaccaro, è di “solidarietà al presidente Parodi e all’ex segretario Casciaro, a fronte della delegittimazione del capo del loro gruppo”. A Domani, Parodi ha però ridimensionato la questione. “Non ho dubbi che Galoppi condivida la finalità della battaglia referendaria. Ha espresso la sua sensibilità verso le modalità con cui perseguire questo obiettivo comune” ha detto il presidente, aggiungendo di non voler prendere posizione, “perché più che l’appartenente a un gruppo oggi io sono il presidente dell’Anm e il mio obiettivo è quello di tenere insieme tutti in questa fase difficile”. L’interpretazione autentica di fonti di Mi, del resto, è che l’intervista sia servita a stigmatizzare gli errori del passato che non hanno permesso di fermare la riforma, mantenendo però il credito nei confronti di Parodi. Nessuna “ingerenza nell’attività degli eletti”, ma al contempo “esercizio della libertà di critica sulla passata gestione dell’Anm e dispiacere per il risultato”. L’impressione è che le parole di Galoppi non fossero rivolte tanto alle toghe, quanto invece alla politica e soprattutto al governo. L’affondo, infatti, è arrivato poco dopo la notizia dell’accelerazione sulla separazione delle carriere, che dovrebbe arrivare in Senato senza relatore (evitando almeno un mese di discussione in Commissione) e che quindi è di fatto blindata a qualsiasi modifica, come del resto il centrodestra ha ben fatto capire. Gli effetti - Dunque - e questa è la lettura del mondo di Magistratura democratica - l’uscita di Galoppi può essere sintetizzata così: visto che la battaglia sulla separazione è persa, meglio far ricadere la colpa su altri. Un modo per smarcarsi da parte del vertice del gruppo, insomma, e di imbonire l’esecutivo. L’effetto collaterale della manovra, però, è quello di mettere in difficoltà proprio Parodi e che sia l’attuale Anm a risentirne. Tra i gruppi progressisti si parla di “doppia veste del presidente”, membro di un gruppo il cui segretario muove accuse pesanti a tutti. Il caso restituisce dunque la temperatura dentro la magistratura, tutta schierata contro la riforma ma non monolitica nelle mosse politiche. Qualche novità sulla separazione delle carriere potrebbe arrivare proprio oggi in Senato, dove Giorgia Meloni si appresta a un serrato “premier time” a risposta immediata. I partiti di maggioranza la interrogheranno sullo stato dell’economia, sull’immigrazione e sui dazi e la premier punta a rivendicare i risultati raggiunti sull’occupazione, il ruolo avuto in Ue sui migranti e quello di facilitatrice nel dialogo con gli Usa. Movimento 5 stelle e Pd la incalzeranno chiedendo una presa di posizione del governo sul piano di Israele a Gaza. Italia viva, invece, insisterà sull’iter delle varie riforme. Una di queste riguarda anche un’altra magistratura - quella della Corte dei conti - di cui il governo punta a ridurre i poteri di controllo. Proprio questo rischia di essere un problema rispetto al Pnrr. La Corte dei conti europea, infatti, ha già messo in luce la “debolezze” nei controlli, in capo ai singoli stati. Non un’accusa mirata, ma un avviso ai naviganti da non ignorare. “Giudici invisibili per smaltire le cause? Non ne se parla” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 7 maggio 2025 Task force di magistrati per smaltire l’arretrato nel civile: il senatore Zanettin boccia la proposta di Via Arenula. Che non piace neanche alle associazioni forensi. “Sinceramente sono perplesso circa la proposta di creare una task force di ben 500 magistrati che dovranno smaltire l’arretrato nel settore civile, per raggiungere gli obiettivi del Pnrr, svolgendo udienze solo da remoto e dunque in forma cartolare”, afferma il senatore Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia a Palazzo Madama, commentando così la notizia riportata dal Dubbio. Ironia della sorte, come spesso capita, proprio oggi era in programma in Commissione giustizia al Senato la discussione sul ripristino della oralità nel processo penale, cancellata con la riforma Cartabia. “Come ho già avuto di affermare tante volte, l’oralità è un principio fondamentale nel penale ma anche nel civile. L’oralità è una garanzia per la giurisdizione e la decisione del Ministero della giustizia di disporre l’applicazione di elevato numero di magistrati per fare udienza da remoto non mi trova dunque molto favorevole”, prosegue Zanettin, ricordando che è completamente fuori luogo discutere dell’apertura di nuovi uffici giudiziari in una situazione del genere. Fonti di Palazzo Chigi contattate dal Dubbio hanno fatto comunque sapere che non è affatto scontato il via libera da parte del governo, pressato anche dalla contrarierà delle associazioni forensi, alla proposta di via Arenula. Sul punto si segnala infatti la presa di posizione dell’Unione nazionale delle camere civili che ha diramato una nota prendendo spunto dal “Rapporto sul monitoraggio continuo degli obiettivi Pnrr”, elaborato dalla Direzione generale di statistica del Ministero della giustizia. Si registra, si legge nel Rapporto, una riduzione del disposition time medio nei tre gradi di giudizio civile, passato da 2.512 giorni nel 2019 a 2.008 nel 2024 (-20%). Nel dettaglio, per quanto riguarda i tribunali, si è giunti a 488 giorni nel 2024 (-12,2% rispetto al 2019), ma in crescita rispetto al 2023 a causa dell’aumento delle iscrizioni (+12,4%). Per le Corti d’appello i giorni sono invece 576 (-11,8%) e per la Cassazione 944 (-27,5%). A piazza Cavour, va detto, un discorso a parte merita la Sezione tributaria dove sono incardinati la metà dei ricorsi di tutto il contenzioso civile, con procedimenti iscritti anche da oltre i sei anni. Con questi numeri l’obiettivo del Pnrr negoziato con Bruxelles di ridurre del 40% i tempi del processo civile entro giugno 2026 appare oggi difficilmente raggiungibile, soprattutto alla luce dell’aumento delle pendenze nei principali distretti del Paese, ad iniziare da Roma. “L’Unione nazionale delle camere civili - ricorda il suo presidente, l’avvocato Alberto Del Noce - segnalò al Ministero che l’artificio dell’aumento della competenza per valore dei Giudici di pace, pensato per alleggerire il carico dei tribunali, avrebbe inevitabilmente condotto al collasso degli uffici giudiziari di prossimità. Così come puntualmente è poi avvenuto”. “Il rischio - prosegue - è quello di una giustizia “da remoto”, affidata a magistrati che non hanno preso parte all’istruttoria e che si troveranno a definire controversie di rilevante impatto umano e sociale. Già nel 2021 il Consiglio superiore della magistratura aveva segnalato la pericolosità di tali pratiche, che compromettono tanto il diritto di difesa quanto la qualità complessiva della funzione giurisdizionale”. Per i civilisti, poi, c’è il tema del rispetto del principio del giudice naturale, che verrebbe bypassato con questa proposta, e quello dell’Ufficio per il processo dove, nonostante gli ingenti investimenti, non esiste ad oggi un oggettivo monitoraggio dei risultati. Per l’Uncc serve allora rivedere in modo organico il sistema di reclutamento e formazione della magistratura e del personale amministrativo, razionalizzando il contenzioso e valorizzando i riti alternativi e deflattivi. La convinzione, per l’Uncc, è quindi che il ministro Carlo Nordio, “forte della sua conoscenza delle dinamiche del mondo forense”, possa farsi promotore di una visione di lungo periodo per la giustizia civile, con l’obiettivo di un sistema efficiente e al passo con le esigenze del Paese, da raggiungere non “con interventi spot”, ma con un “impegno costante e risorse adeguate, paragonabili all’importanza di altri servizi pubblici essenziali”. “Solo attraverso un approccio sistemico sarà possibile garantire una giustizia civile efficiente, costituzionalmente orientata e allineata agli standard europei, senza sacrificare i diritti fondamentali. Perché, se il diritto resta senza mezzi e la riforma senza visione, allora a questo punto è come tirare ai dadi o, paradossalmente, sarebbe meglio affidarsi a un algoritmo: almeno quello, i tempi li rispetta”, hanno infine aggiunto i civilisti. E sempre oggi è intervento alla Camera il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari (Lega) ricordando che “la figura dell’addetto all’ufficio per il processo non è contemplata nelle piante organiche e che il Ministero si sta adoperando per darvi piena operatività”. “Al fine di dare continuità al personale in servizio garantendo contestualmente l’efficienza dell’allocazione delle risorse - ha continuato Ostellari - è stata prorogata al 30 giugno 2026 la durata del contratto di lavoro già sottoscritto dal personale assunto a mezzo di procedura concorsuale nell’ambito dei progetti Pnrr”. Il Pd propone legge per fermare i ragazzi con i coltelli: “Norme stringenti ma anche rieducazione” di Conchita Sannino La Repubblica, 7 maggio 2025 L’obiettivo è punire chiunque venda una lama ai minori, in esercizi commerciali oppure online. Serracchiani: “L’escalation è sotto gli occhi di tutti”. Una proposta di legge del Pd e un appello aperto alle altre forze per fermare i ragazzi con i coltelli: punendo chiunque venda una lama ai minori, in esercizi commerciali oppure online. Ma anche un’iniziativa più ampia per “tornare a un reale, efficace percorso di recupero dei ragazzi che commettono reati, che sono ormai tanti e vengono da vissuti, storie, ceti diversi “. E in fondo: una battaglia per non lasciare alla destra la parola “sicurezza”. Non si può eludere la domanda di protezione sociale che sale dai territori, puntualizzano i vertici dem. “Un’istanza giusta, a cui però non si può rispondere con atti di propaganda o con misure incostituzionali”, vedi l’ultimo decreto sicurezza varato dal governo. “Ma con norme stringenti che vadano di pari passo con la rieducazione dei minori”. L’alert esiste, e non solo dopo i diffusi e drammatici episodi dell’ultima settimana: è la premessa della conferenza, alla Camera, di Debora Serracchiani, responsabile Giustizia del Pd, con i colleghi Walter Verini e Filippo Sensi. “L’escalation è sotto gli occhi di tutti, preoccupante: e la violenza tra ragazzi sia precoci adolescenti sia under 20 sempre più spesso è legata all’uso delle lame, un simbolo inquietante di un disagio crescente. Quest’arma, facilmente reperibile, è ormai una presenza costante tra giovanissimi, e viene utilizzata con allarmante frequenza per risolvere conflitti e diverbi”, sottolinea Serracchiani. Che, con Gianassi, Di Biase e Lacarra, ha depositato alla Camera la proposta di legge che prevede in sintesi, nel codice penale, dopo l’articolo 696, nuove disposizioni penali e amministrative che puntano “a contrastare un fenomeno dalle dimensioni ormai preoccupanti”. In concreto: per chiunque venda al minore una lama o un’arma simile, è previsto l’arresto e il carcere “fino a 3 anni” e un’ammenda da mille a 10mila euro. E per il giovanissimo responsabile, è obbligatorio un percorso specifico di rieducazione, con cadenza “almeno settimanale”. Il Pd vuole colmare un “vuoto normativo che esiste nell’ordinamento e per noi era fondamentale - spiega la deputata dem - mettere al centro della proposta di legge l’obbligo di specifici percorsi rieducativi in cui dovrà essere impegnato il minore presso le comunità individuate, e a cui è legata la sospensione condizionale della pena”. Parallelamente, al Senato Verini è primo firmatario della proposta, sottoscritta anche da Sensi, che regolamenta l’uso delle armi da fuoco, con una vigilanza più ferrea sui processi che portano alla concessione di licenze e alla tracciabilità di pistole e fucili. (Proposta poi bloccata nella Prima commissione, perché alle prese con le ex urgentissime riforme della destra: premierato e Autonomia differenziata). “Un’iniziativa che va in senso opposto - sottolineano i due senatori - rispetto alle norme con cui la destra prevede che le forze dell’ordine possano avere anche la seconda arma”. Due strade parallele su cui il Pd intende andare fino in fondo, chiamando gli alleati a fare squadra (sulla proposta Verini-Sensi c’è già l’adesione di Renzi e di Avs) e aprendo a un confronto con la maggioranza. Misure che servono, per i dem, a “dimostrare che non è vero che destra sia sinonimo di sicurezza: le uniche misure che stanno perseguendo, con il decreto Caivano, ad esempio stanno facendo esplodere la questione minorile, aggravata sensibilmente”. Troppe armi in giro. Solo nell’ultima settimana, drammatici e diffusi episodi ripropongono un allarme che , in realtà, era esploso in termini preoccupanti, nel Sud Italia, oltre 10 anni fa. Ora riemerge al nord: prima il 26enne ucciso a Bergamo con una coltellata, poi quattro casi eclatanti di violenza Torino nel giro di pochi giorni, ora un altro morto a Pavia, tutti ad opera di giovani. “Vorremmo fare in modo che sia alla Camera che al Senato si trovino le maggiori convergenze possibili - spiega Verini -. Anche se purtroppo abbiamo una destra che fa il tifo per la giustizia fai da te: filosofia che va combattuta. Anche perché porta a danni non previsti, vedi qualche veglione di Capodanno ...”, è la battuta sulla clamorosa vicenda di Rosazza (Biella) che, per il ferimento di un familiare del caposcorta di Delmastro, avvenuto la notte del primo gennaio 2024, vede oggi a processo il deputato Fdi (sospeso) Pozzolo. “Tra licenze e nulla osta, un report di Sky ha stimato che ci sono almeno cinque milioni di armi in giro per il Paese: il che significa che un italiano su dieci possiede in qualche modo un arma, se vogliamo, una famiglia su cinque”, sottolinea il senatore Sensi, che ricorda come lo stesso fenomeno abbia spinto anche il governo di Londra a risposte urgenti. “Uno dei punti del programma del governo laburista era quello della prevenzione dei knife crime, i crimini da coltelli. Io non penso che agiamo sulla base dell’emotività. La nostra non è una proposta allarmistica e repressiva. La questione della sicurezza va presidiata in questo modo”. Torino. Susan John morì in sciopero della fame, archiviate le accuse contro i medici del carcere di Giada Lo Porto La Repubblica, 7 maggio 2025 La donna protestava da 18 giorni per vedere il figlio. Secondo il pm i sanitari agirono correttamente, ma la famiglia farà opposizione. Non aveva più toccato né acqua né cibo per diciotto lunghissimi giorni. Quel rifiuto era stato il suo grido di disperazione: voleva vedere il suo bambino di tre anni. Non poteva perché, in carcere a Torino, stava scontando una condanna di 10 anni e sei mesi per tratta e immigrazione clandestina. In quella cella del Lorusso e Cutugno Susan John, nigeriana di 43 anni, ha perso la vita l’11 agosto 2023. Quattro medici (difesi dagli avvocati Francesco Bosco e Gian Maria Nicastro) erano accusati di omicidio colposo: nell’ipotesi iniziale non avrebbero disposto per tempo il ricovero d’urgenza e avrebbero ritardato “senza giustificato motivo” il ricovero programmato. La procura aveva cercato risposte nelle comunicazioni all’interno del carcere tra i medici e la direzione e tra il penitenziario e l’ospedale dove la donna non arrivò mai. Per il pm Mario Bendoni non è colpa di nessuno: ha chiesto l’archiviazione sulla scorta di due consulenze tecniche che avrebbero accertato la bontà dell’operato dei sanitari. “Non pare che vi siano state omissioni da parte del personale operante - si legge negli atti del procedimento - sia appartenente all’amministrazione penitenziaria, sia sanitario alle dipendenze dell’Asl. La detenuta, alla luce di quanto scritto dai medici intervenuti, è parsa in grado di intendere e di volere, conscia del suo stato e delle conseguenze alle quali si sarebbe esposta continuando a rifiutare il vitto”. Inoltre - viene precisato - anche se Susan fosse stata ricoverata il giorno prima (come veniva contestato) non è detto che sarebbe sopravvissuta. “L’avvio di cure adeguate nel pomeriggio del 10 agosto - riportano gli atti - sebbene avrebbe permesso di aumentarne le chance, non avrebbe comunque garantito la sopravvivenza della paziente in termini di elevata probabilità prossima alla certezza”. In sostanza “a fronte del quadro di costante rifiuto alle cure - argomenta il pm - gli spazi di intervento medico erano ridotti e l’eventuale chiamata al 118 nel pomeriggio del 10 agosto non avrebbe con certezza escluso la morte”. I familiari però non si arrendono: il marito della donna ora si è opposto alla richiesta di archiviazione con l’avvocato Manuel Perga. Durante le indagini preliminari era emerso che “la struttura carceraria non ha protocolli specifici per la gestione di scioperi della fame: tutte le procedure confluiscono nel documento “rischio suicidario”, si legge negli atti. Il caso di Susan John fece scalpore anche perché poche ore dopo un’altra detenuta di 28 anni, si uccise impiccandosi. Per giorni si tornò a parlare dell’allarme suicidi nei penitenziari. Anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio si precipitò a Torino per gestire le criticità del penitenziario. Torino. Detenuta si lasciò morire di fame e sete in carcere, la famiglia: “Non si archivi” di Ludovica Lopetti Corriere di Torino, 7 maggio 2025 Susan John “è parsa in grado di intendere e di volere, conscia del suo stato e delle conseguenze alle quali si sarebbe esposta continuando a rifiutare il vitto”. Quando gli operatori del carcere cercavano di convincerla ad alimentarsi, lei nascondeva la testa tra le mani e serrava le labbra. Lo ha fatto fino alle estreme conseguenze: alle prime ore dell’11 agosto 2023 la donna 43enne è stata trovata riversa nella cella, dopo 18 giorni di digiuno. La sua morte si poteva evitare? E se sì, qualcuno ha delle responsabilità? Non per il pm Mario Bendoni, che nelle scorse settimane ha chiesto l’archiviazione per quattro medici indagati con l’accusa di omicidio colposo. Dovevano rispondere del mancato ricovero d’urgenza quando la donna era ormai a rischio della vita e del ritardo nel ricovero programmato, autorizzato il 9 agosto. All’esito degli accertamenti però l’ipotesi accusatoria è stata smentita: nel caso di Susan, si legge nella richiesta di archiviazione, “non pare che vi siano state omissioni da parte del personale operante, sia esso appartenente all’amministrazione penitenziaria, sia sanitario alle dipendenze dell’Asl”. La donna sarebbe stata monitorata sin dal suo ingresso al Lorusso e Cutugno “mediante visite mediche e colloqui psichiatrici giornalieri” e “il protocollo suicidario risulta essere stato correttamente applicato”, anche oltre il periodo di osservazione prescritto dalle circolari del Dap. Inoltre “l’avvio di cure adeguate nel pomeriggio del 10 agosto, sebbene avrebbe permesso di aumentarne le chance, non avrebbe comunque garantito la sopravvivenza in termini di elevata probabilità prossima alla certezza”. La pensano diversamente i familiari della vittima, difesi da Manuel Perga, che si sono opposti all’archiviazione. Il gip deciderà nelle prossime settimane. Nel documento del pm si ripercorre il periodo trascorso da Susan in carcere: l’ingresso il 22 luglio, lo sciopero della fame e della sete (mai dichiarato), i malori, il rifiuto “a qualsiasi forma di supporto farmacologico e di aiuto”. La donna doveva scontare una condanna per tratta di esseri umani, ma sin da subito aveva rifiutato cibo e acqua perché “non si capacitava di dover scontare la pena all’interno dell’istituto” e era preoccupata per il figlio di 4 anni. L’assenza di “condizioni psicopatologiche” ha impedito ai sanitari di disporre un Tso. Roma. Storia di Antonio Z., trasferito da un posto all’altro come un pacco di Gianni Alemanno* Il Dubbio, 7 maggio 2025 Venerdì scorso, le 9 di sera. Finito di mangiare, ci predisponiamo ai nostri soliti rituali serali di cella: la partita a carte, la scelta del film da vedere alla televisione, All’improvviso si affaccia alle sbarre della nostra cella la più arrogante di tutte le guardie carcerarie del nostro Braccio, con in mano un rotolo di sacchi da immondizia. Chiama: “Antonio Z.” e subito dopo “Preparati, domani alle 6: 30 sei trasferito. Quanti sacchi ti servono per mettere la tua roba?”. Antonio, seduto sulla sua branda al secondo piano del letto a castello, trasecola, il suo volto assume i tratti dello sgomento. “Perché, cos’ho fatto? Dove mi portate?” domanda con voce già incrinata. “Non ti posso dire niente. Dimmi solo quanti sacchi ti servono” la risposta sprezzante dell’uomo in divisa. Antonio accenna a ribellarsi: “Non voglio essere trasferito, voglio rimanere qua”. II carceriere taglia corto: “Se non mi dici quanti sacchi ti servono, me ne vado e domani ti portiamo via senza niente”. Intervengono i più anziani di cella, si fanno dare tre sacchi e la guardia si allontana. Antonio scoppia in lacrime tra le braccia di Ciro, il più giovane della cella, arrivato insieme a lui da un altro braccio. Io ingenuamente chiedo se è successo qualcosa, se Antonio ha fatto qualcosa di male, se ha litigato con qualcuno. I più anziani dei miei compagni di cella - Luciano, Marco, Valerio - mi rispondono che Antonio non ha fatto nulla, che questa è una consuetudine del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria): quando bisogna riequilibrare la distribuzione della popolazione carceraria tra i diversi istituti di pena, si trasferiscono i detenuti che hanno creato qualche problema e, se questi non sono in numero sufficiente, se ne scelgono altri più meno a caso. Antonio è uno di questi. Siamo stretti attorno a lui per consolarlo, poi comincia a raccogliere le sue povere cose e a metterle dentro i tre sacchi della spazzatura che gli sono stati consegnati. Un po’ di vestiti, gli oggetti dell’igiene personale, un pacco di biscotti, qualche carta, la cartella di plastica con i libri di scuola. La branda viene disfatta per riconsegnare lenzuola e coperte all’Amministrazione. Piccoli residui di un minimo habitat che ogni detenuto crea attorno a sé, tracce di un’esistenza umana messa all’angolo. Per Antonio, andarsene da Rebibbia significa abbandonare suoi amici, le sue abitudini, la sua frequenza a scuola per ottenere il diploma, la vita di cella dove un po’ di calore di ritrova negli ottimi piatti preparati da Valerio, nelle lunghe chiacchierate, nelle interminabili partite a carte. La preoccupazione di avvertire i familiari che, ovviamente, non sanno nulla del trasferimento e non si sa come la prenderanno. Ma chi è Antonio, questo pacco postale mandato verso l’ignoto? Un ragazzone di 47 anni, nato a Isernia, 110 chili su 1,80 d’altezza, soprannominato “er bruschetta” per la sua passione per il pomodoro sopra il pane abbrustolito, mansueto e giocoso come solo certi meridionali riescono ad esserlo, sempre pronto a fare il caffè o la camomilla per tutti, la cui imprecazione abituale è “porca paletta!”. Perché è in carcere? Perché è stato scoperto a guidare senza patente durante un regime di sorveglianza a cui era sottoposto. Sullo sfondo svariati periodi di carcere, sempre per lo stesso maledetto vizio della droga e per lo spaccio necessario a finanziare questo vizio. Ma Antonio negli ultimi tempi, prima di tornare in carcere, aveva trovato lavoro in un albergo, dove era apprezzato per la sua disponibilità e la sua voglia di fare, di cui anche noi avevamo un po’ abusato nella nostra vita di cella. Più tardi in quell’ultima serata insieme, è venuto un altro “assistente” (il modo con cui vengono chiamati i sottufficiali della polizia penitenziaria) ad aiutarci a sostenere Antonio, quasi a scusarsi della brutalità con cui veniva trattato. Perché la stragrande maggioranza degli uomini in divisa qua dentro sono così: persone corrette e cortesi che fanno il proprio lavoro, certe volte quasi degli amici. Poi la mattina dopo, Ciro, che aveva accompagnato Antonio fino alle porte del Braccio, torna con la notizia: “Lo portano a Cassino”. Il carcere di Cassino: uno dei più brutti e fatiscenti, teatro di una rivolta conclusa con il trasferimento di massa dei detenuti e che adesso, dopo una rapida ripulitura, doveva essere nuovamente riempito. Chi dà il diritto a quattro oscuri burocrati dell’Amministrazione centrale del Dap di disporre delle vite delle persone detenute in questo modo? Non gente che ha sbagliato e che merita una punizione, non soggetti pericolosi che per sicurezza è meglio trasferire. Ma persone come Antonio che non hanno fatto nulla e che ora a Cassino devono, per l’ennesima volta, ricostruire tutto da zero, magari trovando un ambiente ostile? Questi sono i percorsi di rieducazione che l’Ordinamento dovrebbe garantire, secondo i principi costituzionali? Certo, il sovraffollamento delle carceri porta anche a questo: operazioni semplicistiche di redistribuzione della popolazione carceraria, basate magari su un astratto dato anagrafico di residenza. La causa principale è sempre questo maledetto sovraffollamento che la Politica non vuole vedere. Antonio la sera ha pianto, ma la mattina si è avviato alle porte del carcere con il suo solito sorrisetto strafottente. Dedico questa pagina di diario alle lacrime e al sorriso coraggioso di Antonio. Persona detenuta non pacco postale spedito in quel di Cassino. *Ex sindaco di Roma, ora detenuto a Rebibbia Bologna. Senza luce né materasso, cinque giorni d’inferno per un ragazzino nell’Ipm di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 maggio 2025 Un ragazzino del carcere minorile “Pratello” di Bologna sarebbe rimasto chiuso in isolamento duro per cinque giorni, dal 19 al 23 aprile, in una cella senza materasso e con le finestre sigillate, giorno e notte. A denunciare l’accaduto è Roberto Cavalieri, Garante regionale per le persone sottoposte a misure restrittive, che il 5 maggio ha inviato una lettera formale al direttore dell’Ipm di Bologna, al responsabile del Centro per la Giustizia minorile e al Capo dipartimento della giustizia minorile a Roma, chiedendo risposte puntuali sulle condizioni della struttura dopo i disordini di Pasqua. Tra i punti più gravi segnalati dal Garante spicca la vicenda di un minore straniero, detenuto in isolamento dal 19 aprile: cinque giorni in un locale al primo piano con le aperture sigillate, un buio totale che ha stravolto il ritmo sonno- veglia, e un giaciglio inesistente. Secondo le testimonianze degli altri ragazzi, la cella era “inadatta alla dignità umana”: freddo, umidità e silenzio forzato hanno trasformato quel breve periodo in un’esperienza di sofferenza fisica e psichica. Cavalieri ha chiesto risposte precise: “Chi ha deciso questa punizione? Qual era la base giuridica? E il magistrato di sorveglianza ne è stato informato?” Nulla di tutto ciò risulta ancora chiarito dalle autorità penitenziarie. La visita del Garante, svolta il 28 aprile, è intervenuta dopo i tumulti di fine aprile, senza che finora siano emerse spiegazioni ufficiali. Durante i disordini, il comandante in carica - da poco rimosso - avrebbe fatto irruzione nelle celle con casco e manganello, “aggravando il clima di dialogo anziché sedarlo”. Oggi il comando ad interim è affidato a Mario Salzano, già responsabile del carcere minorile di Firenze, che però sarà a Bologna solo un paio di giorni alla settimana, dovendo occuparsi anche della nuova sezione giovani adulti alla Dozza, aperta a marzo. La replica del DAP Con nota di martedì 6 maggio, il Capo dipartimento Antonio Sangermano contesta le ricostruzioni del Garante. Secondo le relazioni di servizio raccolte dagli operatori in forza all’Ipm “Il Pratello”, quei fatti “non corrispondono” alla realtà: il minore in questione avrebbe partecipato a una rivolta violenta, barricandosi insieme ad altri in una camera da letto e opponendo resistenza alle misure di de- escalation. Solo dopo l’intervento del Gruppo intervento operativo (G.I.O.) l’ordine sarebbe stato ristabilito. Sangermano assicura però che “sono in corso tutti i necessari accertamenti”, affidati agli organi competenti per tutelare diritti e immagine delle istituzioni. Ma il Dap non fornisce ulteriori dettagli. Il ragazzino è finito comunque in isolamento e, soprattutto, in quelle condizioni descritte dalla missiva grazie alle testimonianze raccolte? Poche righe di risposta, quindi permangono tuttora dubbi sulle condizioni effettive di detenzione e sulle garanzie legali adottate. La contesa tra Garante e Dap lascia ancora aperti interrogativi sul rispetto della dignità dei minori in custodia. Tornando alla missiva di Cavalieri, il Garante denuncia anche nella sezione distaccata della Casa circondariale, riservata ai giovani adulti, gravi carenze: pasti “scarsi e ripetitivi” (spesso solo riso, insalata e formaggio), rifiuti accatastati intorno all’edificio, piatti di plastica e avanzi che attirano roditori e insetti. Cavalieri chiede pulizie giornaliere e un servizio mensa dignitoso. Preoccupa anche il contatto tra giovani adulti e detenuti della sezione ordinaria, con passaggio di sigarette “volanti” negli spazi comuni, e l’assenza proattiva dei mediatori, confinati nelle aree non detentive. “Servono interventi strutturati per evitare influenze negative e favorire il reinserimento”, sottolinea. Oltre ai chiarimenti sull’isolamento e sulla gestione dei disordini, Cavalieri sollecita un piano concreto per sanità, igiene e vitto, più una revisione del modello di mediazione. Le autorità (Dipartimento della giustizia minorile e direzioni locali) ancora non hanno risposto al Garante regionale. Intanto resta impressa l’immagine di un ragazzino minorenne chiuso al buio per cinque giorni e senza materasso. In un Paese che si definisce “culla del diritto”, è una scena che non dovrebbe accadere. La politica, e in particolare il ministro della Giustizia, interverranno? Bologna. I Radicali: “Abolire le carceri minorili” di Camilla De Meis incronaca.unibo.it, 7 maggio 2025 Blengino, alla Dozza contro il Dl sicurezza, assiste a una protesta nella sezione minorile. “Il sovraffollamento nelle carceri non è una questione di spazi, ma è soprattutto un disagio psichico. È folle ospitare i ragazzi in uno spazio così perché, con l’arrivo dell’estate, si rischia un aumento di suicidi”. Queste le parole di Filippo Blengino, segretario dei Radicali che, negli ultimi mesi, ha girato per gli istituti penitenziari d’Italia e oggi, insieme agli altri esponenti di partito Bianca Piscolla, Nora Righini e Irene Zambon, ha fatto visita alla casa circondariale, manifestando poi la sua preoccupazione sulle gravi condizioni in cui versano i detenuti. Non a caso ha raccontato, al termine, di avere assistito alla protesta dei giovani trasferiti in un carcere per adulti con una misura che ritiene inadeguata. “Molti ragazzi si sono rifiutati di rientrare nelle celle a pranzo. Gesti che mettono in seria difficoltà un personale già pesantemente sotto organico”. L’aumento delle pene che il governo ha introdotto, e la decisione di distaccare decine di minori dai rispettivi istituti per reinserirli all’interno delle strutture per adulti, sono i fattori che hanno contribuito alla crisi del modello rieducativo a Bologna. “Secondo le promesse del ministro Carlo Nordio e del sottosegretario Andrea Ostellari, questa struttura dovrebbe restare in funzione tra i tre e i sei mesi ma pensare di ospitare anche solo temporaneamente i ragazzi qui è folle”, ha ribadito Blengino. Le carceri italiane sono al collasso: cinquanta sono le nuove pene stabilite dall’amministrazione Meloni, per un totale di 450 anni di detenzione in più. Con la conseguenza, secondo il radicale, che si puniscono atti non esattamente criminali. “La nostra presenza nelle carceri serve a diffondere una denuncia, oltre a offrire il pretesto per strutturare una risposta concreta a una crisi che si sta diffondendo a macchia d’olio in tutte le regioni d’Italia”, ha continuato il segretario. L’obiettivo, per i Radicali, è quello di formare un gruppo interparlamentare alla Camera che smuova il Governo e, in particolare, Forza Italia, a far fronte a una situazione grave non solo per gli effetti logistici. Blengino, questa mattina, davanti al distaccamento della Dozza, ha contestato lo spirito di reinserimento avallato dal centro-destra, opponendo un modello che reinventi l’istituto penitenziario. “Bisogna abolire le carceri minorili” ha detto “per sostituirle con le cosiddette strutture alternative”. Nel pomeriggio, Blengino ha visitato il carcere minorile del Pratello. “C’è bisogno di atti dimostrativi che diano un segnale”, ha concluso il segretario. Bolzano. Detenuti vicini alle famiglie, in campo la Croce rossa di Matteo Macuglia Corriere dell’Alto Adige, 7 maggio 2025 Telefonare ai propri cari, dal carcere. Un gesto semplice, che per i detenuti però può trasformarsi in un calvario. Spesso a causa della distanza, ma ancor di più se quella telefonata deve raggiungere luoghi lontani, anche migliaia di chilometri, dove magari è in corso una guerra, stravolgimenti sociali o economici. Per questo nei giorni scorsi, presso la casa circondariale di Bolzano, è stato sottoscritto un protocollo d’intesa tra l’istituto penitenziario e la Croce rossa per facilitare, insieme, i contatti dei detenuti con i propri cari. Una questione molto sentita, in particolare modo nel carcere di via Dante, all’interno del quale buona parte dei detenuti è di origine straniera, proveniente da Paesi lontani. La Croce rossa metterà a disposizione dei volontari, e all’interno della casa circondariale verranno svolte una serie di “attività funzionali a garantire il ripristino dei contatti tra i detenuti stranieri e le loro famiglie di origine, nel caso in cui sia interrotta la comunicazione o laddove la stessa sia particolarmente difficoltosa”. Attraverso il servizio “Restore family links” (questo il nome del programma della Croce rossa) sarà possibile, per i detenuti, mantenere i contatti con le famiglie nel caso la separazione sia dovuta a conflitti armati, migrazioni e altre situazioni che richiedono una risposta umanitaria. Ai volontari il compito di compilare la richiesta insieme ai detenuti, per poi procedere al rintraccio dei famigliari, nella speranza di riuscirli infine a raggiungere telefonicamente. Tutto questo, assicura dal carcere di Bolzano il direttore Giovangiuseppe Monti, “non è mai stato messo in pratica in tutto il Triveneto, rendendo così l’Alto Adige e il suo carcere pionieri in questo progetto a favore dei detenuti”. Alla sottoscrizione dell’accordo erano presenti, oltre a Monti, anche il presidente della Croce rossa, Manuel Pallia, Ottavio Casarano dell’ufficio Affari generali, personale e formazione e Angela Venezia, direttrice dell’ufficio Detenuti e trattamento del provveditorato regionale. Nuoro. I detenuti di Badu e Carros donano le frecce di direzione al Cammino di Bonaria di Graziano Canu L’Unione Sarda, 7 maggio 2025 La consegna all’associazione avverrà venerdì 8 maggio. Nel giugno dello scorso anno, una piccola delegazione aveva partecipato a una delle tappe del Cammino, quella da Nuoro alla Chiesa di Nostra Signora di Gonare, fra Sarule e Orani. Ora invece, dopo aver lavorato a lungo nella falegnameria dell’istituto, i detenuti di Badu e Carros, hanno deciso di donare oltre venti frecce di direzione all’associazione “Il Cammino di Bonaria”. La consegna arriverà giovedì 8 maggio a margine di un appuntamento della rassegna “Il maggio dei libri”, durante il quale i detenuti dialogheranno con Antonello Menne, autore del libro: “Il ritorno. A piedi da Milano a Bonaria”. In questo libro l’autore racconta l’esperienza dell’agosto 2020, quando, in compagnia dei suoi figli prima e poi di altri pellegrini, partì da Milano per raggiungere il Santuario di Bonaria a Cagliari. Da quel “viaggio di ritorno”, è nato il Cammino di Bonaria che il prossimo 14 giugno verrà presentato a Cagliari, presso la Basilica della Patrona dell’Isola. Le frecce donate dai detenuti, indicheranno la strada ai pellegrini della tappa Monte Ortobene - Orani/Sarule - Nostra Signora di Gonare. “È la prima volta in Italia che un carcere si mette concretamente al servizio di un cammino ed è per noi motivo di orgoglio e di gioia sapere di camminare sotto la protezione della Madonna di Bonaria ma con l’orientamento offerto dai detenuti di Badu ‘e Carros a cui va il nostro grazie più sincero”, sottolinea Antonello Menne, presidente dell’Associazione. Mentre si avvicina il 14 giugno, data di presentazione ufficiale del Cammino a Cagliari, Il 9 maggio a Onanì, alle 11.30, ci sarà la cerimonia di posa delle pietre “Siste Viator”, con gli interventi di don Totoni Cosseddu, della sindaca Clara Michelangeli, dell’assessora Liana Curreli, dell’artista Diego Asproni e di Diego Carru dell’associazione Il Cammino di Bonaria. La Spezia. Trenta detenuti di Villa Andreino diventano pizzaioli grazie al Rotary di Marco Magi La Nazione, 7 maggio 2025 Bella iniziativa sostenuta realizzata in collaborazione con Cna La Spezia. Un corso di 232 ore. Grazie al progetto sostenuto dai Rotary Club La Spezia e Rotary Club Sarzana-Lerici e i corrispettivi Club Rotaract, una trentina di detenuti del carcere spezzino hanno svolto un percorso di formazione teorico e pratico per pizzaiolo e panificatore, realizzato in collaborazione con la Cna spezzina. Ai detenuti sono stati consegnati gli attestati di partecipazione che certificano il percorso formativo svolto in un momento di incontro in cui non è mancato un gustoso assaggio delle abilità acquisite. “La formazione insieme all’istruzione è uno degli elementi centrali del trattamento delle persone detenute - commenta Licia Vanni, responsabile educativa della casa circondariale della Spezia -. L’occasione che ci ha donato il Rotary è stata importantissima, ha permesso a un gruppo di detenuti di acquisire una professionalità con un corso di pizzeria avanzato. I detenuti hanno aderito con passione e hanno potuto vedere la possibilità del futuro, questa è la cosa più importante. La rieducazione senza una formazione è impossibile e il senso profondo della detenzione è nell’impegno per il successivo reinserimento nella società civile, ma scegliere di sostenere il carcere richiede un elevato senso di civiltà”. “La possibilità di avere un attestato, gli consentirà di trovare subito un lavoro - spiega Salvatore Teja, presidente Rotary Club La Spezia. Il momento più delicato è proprio quello in cui la pena finisce e si rientra nella società esterna. È lì che scatta il rischio di recidiva. Ecco, questa è l’occasione per avere dare a questi ragazzi l’opportunità di un lavoro immediato entrando nelle pizzerie, come gli è stato insegnato. Hanno seguito il corso con tanto entusiasmo, noi siamo stati lieti nel fornire questo supporto, abbiamo visto anche il carcere molto soddisfatto dell’attività realizzata. Ringrazio tutti i partecipanti a nome del Rotary”. “I ragazzi hanno partecipato numerosi perché questi corsi formano realmente un professionista - aggiunge Alfredo Bianchi, docente del corso e referente della scuola italiana per pizzaioli - . Grazie alle ore di formazione viene maturata una buona esperienza e si può essere inseriti da subito nel campo lavorativo. Inoltre, c’è molta richiesta di queste figure professionali”. “Il percorso è stato strutturato per permettere ai detenuti di poterselo spendere al meglio all’uscita del carcere - sottolinea Raffaella Bicci responsabile di Cna Ecipa La Spezia. Il corso ha avuto una durata di 232 ore, di cui 200 ore in attività di panificazione e pizzeria, le restanti su salute e sicurezza del lavoro, Haccp, primo soccorso e formazione lavoratori. Alcuni detenuti hanno partecipato esclusivamente alla parte pratica, quindi hanno ottenuto l’attestato come pizzaiolo e panificatore, mentre altri hanno fatto le lezioni o di Haccp o di primo soccorso a seconda anche delle attestazioni che possedevano già. Sono tutte qualifiche utili nel mondo del lavoro”. “Nella vita si può sbagliare, quindi è giusto pagare una pena equa, l’obiettivo deve essere quello della rieducazione e del rinserimento, come prevista dall’articolo 27 della nostra Costituzione - conclude il sindaco della Spezia Pierluigi Peracchini. Questi corsi servono proprio a dare una professionalità e una speranza di una nuova vita. Siamo vicini alle istituzioni penitenziarie che investono in formazione e ringraziamo chi sostiene questi percorsi”. Parma. Un coro di detenuti canterà al Regio: “Lezioni in carcere, la lirica parla a tutti” di Lucia De Ioanna La Repubblica, 7 maggio 2025 Un coro di detenuti canterà arie d’opera al Regio: “Lezioni in carcere, la lirica parla a tutti”. Il 10 maggio la storica prima volta a Parma, grazie al lavoro di Gabriella Corsaro, direttrice musicale del progetto. Dalla volontà di portare l’arte là dove i suoi raggi non arrivano nasce il progetto Opera in Carcere che il prossimo 10 maggio alle 15 porterà il coro dei detenuti di via Burla sul palco del Teatro Regio di Parma. “L’emozione per questo concerto al Regio è del tutto inedita”, racconta Gabriella Corsaro, direttrice musicale del progetto e musicista con all’attivo importanti collaborazioni artistiche. Seduta a un tavolino in piazzale Picelli, nel cuore dell’Oltretorrente, Corsaro spiega: “Si tratta di un coro composto da artisti - mi piace chiamarli così - del carcere di Parma che eseguiranno pagine corali e arie d’opera. Un concerto unico: mai un istituto penitenziario italiano e nel mondo ha eseguito musica lirica in un teatro d’opera, figuriamoci in uno dei templi mondiali della lirica”. Il progetto - Il progetto, vincitore nel 2024 del Premio Abbiati, in linea con il Manifesto Etico del Regio rivolto a portare arte nei luoghi di fragilità, si apre finalmente a tutti. “In questi anni sono entrata in carcere ogni settimana per preparare i miei allievi all’esecuzione delle stesse opere che erano in cartellone al Regio ma poi all’esibizione in carcere poteva assistere solo un pubblico ristretto composto da autorità, operatori e stampa. Questa volta, invece, la città intera potrà andare ad ascoltare il Coro di via Burla, accompagnato dal pianista Milo Martani e Sandu Nagy, primo flauto della Filarmonica Toscanini, orchestra che proprio il 10 maggio compie 50 anni: le due grandi istituzioni musicali cittadine condividono la scena con il coro dei detenuti. Non sarebbe stato possibile senza la collaborazione di tanti e la grande apertura di Barbara Minghetti, di Verdi Off”. L’incontro con l’arte non è un modo per evadere ma per “liberare il cuore vincolandosi a regole, imparando a rispettare un codice chiaro, intonandosi agli altri: così si arriva a un accordo in cui ogni diversità è necessaria. Alla fine il coro è scuola di democrazia”, precisa Corsaro che è anche consigliera comunale e vice-presidente Aerco (associazione emiliano-romagnola cori). Il pentagramma - L’opera è musica ma anche racconto. “Sì, e questo ha portato alcuni a superare l’analfabetismo imparando a memoria le parole e i segni sul pentagramma, scoprendo che un segno spigoloso è silenzio mentre quello arrotondato è musica. Così hanno trovato la dignità di colui che legge. Conquistati dalla trama, alcuni si sono messi a scrivere poesie, pièce teatrali o pensieri”. Come li ha conquistati? “Comportandomi con loro come con uno dei più importanti cori professionisti. A partire dal presentarmi sempre elegante, curata. Tornando all’opera, è lei ad averli conquistati con un contagio di bellezza: la polizia penitenziaria mi ha raccontato che i coristi fanno risuonare i canti nelle sezioni e raccontano le trame a chi non è nel coro, fino a commuoversi per E lucevan le stelle e per Una furtiva lacrima”. Amore e tradimento - E quali aspetti delle vicende li hanno più colpiti? “L’errore per troppo amore, il tradimento ne Il ballo in maschera, l’idea che l’amicizia possa tacitare un amore, il dramma di un padre che non crede alla figlia in Giovanna D’Arco. E poi, hanno accolto con straordinaria tenerezza il tradimento di Tosca. I loro giudizi non sono mai banali. Ogni corista ha ricevuto un encomio. Di solito, l’encomio si dà a chi salva una vita. Questo encomio dice a ognuno di loro: attraverso la bellezza, stai salvando la tua vita”. Foggia. “Imperfetti”, i detenuti diventano attori con Dino La Cecilia immediato.net, 7 maggio 2025 Appuntamento giovedì 8 maggio 2025, alle ore 16.30, con il saggio teatrale di fine corso realizzato nell’ambito del progetto “Radici”. La Casa Circondariale di Foggia presenta “Imperfetti”, saggio teatrale di fine corso realizzato nell’ambito del progetto Radici, laboratorio espressivo rivolto ai detenuti. Lo spettacolo, fortemente voluto dalla Direzione del carcere e coordinato dall’Area Trattamentale, andrà in scena giovedì 8 maggio 2025, presso il teatro dell’istituto. Scritto e diretto da Dino La Cecilia, “Imperfetti” rappresenta l’esito di un percorso artistico e rieducativo che ha coinvolto i partecipanti in un’intensa esperienza collettiva di riflessione e creazione. Al centro dello spettacolo, i temi dell’identità, del limite e della possibilità di cambiamento, affrontati attraverso la forza del linguaggio teatrale. Il progetto vede la collaborazione del Piccolo Teatro di Foggia. La cura del suono è affidata a Guido Paolo Longo, con l’assistenza alla regia di Fabio Conticelli. Lo spettacolo si terrà alle ore 16.30, con ingresso previsto per le ore 16.15. Atti sul delitto Moro, milioni di pagine digitalizzate dai detenuti di Rebibbia consultabili online di Concetto Vecchio La Repubblica, 7 maggio 2025 Digitalizzate montagne di carte, presto si potranno leggere i faldoni giudiziari sul sequestro e omicidio dello statista democristiano. È un Everest di carte sugli anni di piombo. Interrogatori. Perizie. Foto. Identikit. Memorie difensive. Volantini. Comunicati. Milioni di atti. Tutti i processi per il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro conservati presso la Corte d’assise di Roma sono stati riordinati e digitalizzati dai detenuti del carcere di Rebibbia affiancati da archivisti: un lavoro durato otto anni. Ora questa montagna, che contiene la verità giudiziaria sul più grave delitto politico del Dopoguerra (su quella storica si litigherà in eterno), sarà presto online sulla Rete degli archivi per non dimenticare del ministero della Cultura (https://memoria.cultura.gov.it/). Le sentenze di primo grado e di appello sono già pubblicate e consultabili. Sugli atti processuali è in corso l’ultimo vaglio relativo ai dati sensibili e alla privacy. “Entro l’anno anche questo passaggio sarà ultimato e a quel punto l’intero giacimento sarà a disposizione di chiunque”, annuncia Antonio Tarasco, direttore generale degli Archivi, che ha coordinato il progetto insieme all’Istituto centrale per gli Archivi del ministero della Cultura, il ministero della Giustizia, Csm, Cassa delle Ammende, Anm, Archivio Flamigni. “Soldi ben spesi”, specifica, “perché è compito dello Stato fare trasparenza”. Grazie a questa sinergia erano già state digitalizzate e pubblicate le lettere di Aldo Moro dal “carcere del popolo” e recuperata la copia originale del Memoriale, ovvero il contenuto degli interrogatori a cui i terroristi sottoposero l’ostaggio durante i 55 giorni, e che non resero mai pubblico, per misteriose ragioni. Come sanno bene i tanti giornalisti, storici, semplici cittadini che da anni s’interrogano sui lati in ombra della vicenda Moro, molte di queste carte erano già accessibili online grazie al lavoro dell’Archivio Flamigni, diretto da Ilaria Moroni. Ma erano documenti acquisiti o prodotti dalle Commissioni parlamentari d’inchiesta (ce ne sono state due, più una sul terrorismo in generale) e non i materiali originali dei processi. “La novità - spiega Tarasco - è che stavolta la fonte sono i fascicoli processuali per intero di tutti i dibattimenti”. Solo le pagine delle varie sentenze sono 5.657. Un iter accidentato. Ricapitoliamo. Aldo Moro, il presidente della Dc, venne rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978 in via Fani, a Roma. Lo uccisero, dopo 55 giorni di prigionia, il 9 maggio 1978. Il primo processo si aprì il 14 aprile 1982, grazie a un’istruttoria condotta dai giudici Ernesto Cudillo, Achille Gallucci, Rosario Priore, Ferdinando Imposimato. Presidente della Corte d’assise era Severino Santiapichi. Era l’Italia del Mundial spagnolo, e in questo clima, già molto diverso dalle cupezze degli anni Settanta, alcuni terroristi pentiti, tra cui Roberto Peci, Antonio Savasta, Emilia Libera, iniziarono a collaborare. La Corte comminò alla fine 32 ergastoli, tra cui quello a Mario Moretti, il capo delle Br, l’uomo che aveva gestito il sequestro, e che era stato arrestato a Milano il 4 aprile 1981. L’ultima parola, da parte della Cassazione, venne pronunciata il 14 novembre 1985. Sorse in quel periodo una seconda inchiesta Moro che in corso d’opera venne unificata al primo processo: il Moro bis. Ma non era finita. Perché nel frattempo erano emerse altre risultanze, contro Giovanni Senzani, il criminologo fiorentino che aveva partecipato al sequestro e all’uccisione del fratello di Peci, Roberto, e due membri del commando di via Fani, Alessio Casimirri e Rita Algranati, che erano riparati in Nicaragua. Questa indagine, condotta da Rosario Priore, sfociò nel Moro ter, che si concluse in terzo grado il 10 maggio 1993. Poi ci fu un quarto processo, contro un altro brigatista latitante in Svizzera, di cui si è parlato spesso in questi anni: Alvaro Lojacono. Altri verbali, testimonianze, perizie, accertamenti finirono così nel Moro quater. Iniziato nel 1991 il dibattimento venne dichiarato chiuso con sentenza definitiva il 14 maggio 1997. Nel frattempo emersero altri due brigatisti sfuggiti alle maglie della giustizia: Raimondo Etro, che nel ‘78 aveva fatto sopralluoghi preparatori al rapimento, e Germano Maccari, “l’ingegner Altobelli”, ribattezzato dai giornali “il quarto uomo” del covo di via Montalcini dove Moro era stato tenuto prigioniero. Il Moro quinquies si chiuse nel 1999. Erano passati ventun anni dal sequestro. La digitalizzazione è stata avviata nel 2017 dal precedente direttore dell’Archivio di Stato di Roma Michele Di Sivo, oggi diretto da Riccardo Gandolfi. Nessuno dei detenuti che si sono alternati nel lavoro aveva legami con il terrorismo. Sono stati scelti perché inseriti in progetti di reinserimento sociale, come l’ex comandante della Costa Concordia, Francesco Schettino. Hanno lavorato nell’aula della Corte d’assise accanto al carcere di Rebibbia. Il direttore Tarasco assicura che questo è solo il primo gradino. Il progetto è di mettere in rete anche tutte le carte relative alle stragi e al terrorismo sia politico sia mafioso oltre alle sentenze da tempo già pubblicate. Referendum. Il silenzio dei colpevoli di Vincenzo Vita Il Manifesto, 7 maggio 2025 Ecco una novità tutt’altro che banale sui referendum dei prossimi 8 e 9 giugno. La decisione delle destre di invitare elettrici ed elettori a non andare a votare è assai grave, perché costituisce un evidente atto di viltà, essendo chiaro che i quesiti referendari sul lavoro e sulla cittadinanza godono di un’ampia condivisione. L’unica possibilità per bloccarli è fare mancare il quorum necessario. Ci sono diversi precedenti, tutt’altro che commendevoli: dal rinomato “andate al mare” esclamato da Bettino Craxi sulla legge elettorale nel 1991, a quello omologo del Cardinal Ruini nel 2005 in merito alla scadenza sulla fecondazione assistita. E poi ci sono i casi gestiti dietro le quinte, come fu nel 1995 contro la consultazione che toglieva una rete alla Fininvest, come scritto dalla Corte costituzionale nel dicembre dell’anno precedente. Le destre hanno paura del voto. È fin troppo evidente che una sconfitta sarebbe un colpo ferale per la tenuta della maggioranza: dura e prepotente, ma all’inizio di una parabola (presto) discendente. L’Italia nella sua materialità soffre e non si accontenta dell’irriducibile propaganda menzognera propinata da media in grande parte servili. Torniamo, però, alla novità. Con i regolamenti varati dalla Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai (e pende qui un ricorso al Tar di +Europa) e dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni simile posizione non ha alcun diritto alla rappresentazione radiotelevisiva, che prevede la par condicio tra il sì e il no. La viltà non paga, insomma. I due organismi di controllo evocati (tra l’altro lo scorso lunedì l’Agcom ha sottolineato in un felice comunicato che l’informazione referendaria ha da essere puntuale e rilevante) hanno ora di fronte a sé un problema non dappoco: nelle circostanze previste dalla comunicazione politica la sedia assegnata virtualmente alla destra deve rimanere vuota. E neppure un santo potrebbe cambiare le cose. Non si capisce, se non per le considerazioni accennate, come mai non ci si voglia impegnare in una contesa pubblica e trasparente, sostenendo legittimamente un orientamento contrario alle abrogazioni richieste dai Comitati referendari. È già accaduto in precedenti circostanze, ma la degenerazione etica in corso ha pure simili effetti collaterali. Non solo. Se si guardano i dati, ancora assai limitati, dell’Osservatorio di Pavia, si nota quanto sia esigua la presenza del tema sulle reti del servizio pubblico, cui spetta l’obbligo di mettere cittadine e cittadini al corrente di un appuntamento tutelato dalla Costituzione. Anzi. Il Contratto di servizio che regola i rapporti tra lo Stato e la Rai è esplicito sulle caratteristiche fondamentali in base alle quali è lecito parlare di servizio pubblico. Il rispetto della Carta fondamentale, innanzitutto. Sarebbe un indizio di ulteriore discesa agli inferi dell’Italia, già collocata al posto n.49 nella classifica sulla libertà di informazione stilata anche quest’anno da Reporters sans frontières. Nell’elenco del 2024 si era al n.46 e nel 2023 al 41. Le ragioni di tale impressionante caduta sono tristemente note: dalle minacce a croniste e cronisti, alle cosiddette querele temerarie, alle concentrazioni editoriali in assenza di adeguate normative antitrust e di una seria legge sul conflitto di interessi, alla distanza inquietante tra la governance del servizio pubblico e le disposizioni dell’European Media Freedom Act in vigore sul cruciale punto dell’autonomia e dell’indipendenza dal prossimo 8 agosto. Peraltro, sia la competente Commissione del Senato in cui sono depositate le ipotesi di riforma sia la stessa Commissione parlamentare di vigilanza sono di fatto bloccate dall’ostruzionismo della maggioranza. Non si sbaglia se si prevede una perdita ulteriore di postazioni nella prossima classifica di Rsf. Andrebbe, per cercare di porre qualche rimedio alla situazione, immaginato un talk quotidiano dedicato a spiegare -ovviamente con pareri plurali- i contenuti dei quesiti referendari, che toccano problemi essenziali per la vita quotidiana. Si sorteggino conduzioni e partecipanti. Presto. Vita, morte e diritti: il governo giuridico del corpo tra limiti e libertà di disporne di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 7 maggio 2025 Vi sono molte ragioni che rendono difficile inserire il corpo in quella categoria elastica e incerta di diritti della personalità percepiti, organizzati e tradotti in modo differente dal diritto civile, dal diritto penale, dal diritto pubblico e dalla consuetudine. Un’analisi che deve muovere innanzitutto dal significato giuridico di “disporre di se stesso”. L’espressione “diritto di disporre di se stesso” può avere come referente: a) il potere di disporre della propria vita, ovvero b) il potere di disporre del proprio corpo sia dopo la morte che in vita (cellule, gameti, sangue, cornee, midollo, reni, ecc.). Con riferimento alla seconda accezione, si può innanzitutto osservare come il potere di disporre liberamente del cadavere non ponga delle difficoltà interpretative. Gli ordinamenti giuridici più evoluti hanno in genere considerato il diritto di disporre del proprio corpo dopo la morte come ricollegabile a valori di libertà e di solidarietà naturale piuttosto che a un diritto soggettivo. Disporre invece del proprio corpo in vita, può significare attribuire a questo potere la qualifica di jus in re (facoltà di disporre liberamente di sé) e comporta restringerlo nella signoria assoluta del volere, identificarlo in un diritto di proprietà. Ne scaturisce una visione che suscita perplessità, forse poco rigorosa. Schema di riferimento altrettanto superato, dettato dall’accostamento del fenomeno alla struttura contrattuale come referente primario, è quello che assimila gli atti di disposizione del proprio corpo a donazioni inter vivos. Il collegamento con l’istituto della donazione non sembra tecnicamente corretto. Anzitutto l’atto di disposizione non potrebbe mai essere un dono. Lo stesso termine dono è utilizzato in questo contesto per sottolineare il carattere di gratuità, l’assoluta libertà e spontaneità dell’azione, il valore di solidarietà, e non per qualificare giuridicamente la disposizione. Anche la terminologia più attuale non è quella di donatore, bensì in materia di fecondazione di “datore” e in materia di trapianto di “cedente”. Ma a parte ciò, è da dire che la donazione codicistica è fatta intuitu personae, cioè in considerazione diretta delle qualità proprie del donatario e del legame tra il donante e il donatario. Salvo casi eccezionali (es. donazione del rene: L. 26 giugno 1967, n. 458), chi si separa da una parte del proprio organo a vantaggio di qualcun altro il più delle volte non conosce il destinatario: il dono è generalmente anonimo. Tutto ciò ci spinge a considerare i diritti di disposizione del proprio corpo come appartenenti ad una categoria intermedia tra le libertà (fisiche) ed i diritti soggettivi propriamente detti. Si potrebbe parlare di libertà individuali che, a seconda delle circostanze, possono essere sia imbrigliate dall’indisponibilità, sia dall’interesse generale, sia ricondotte ad una prerogativa a carattere patrimoniale. D’altronde, al diritto di disposizione non corrisponde alcuna obbligazione reciproca. È un diritto senza un vero creditore e, se vogliamo, privo anche dell’oggetto del diritto, perché, trattandosi della persona stessa, si ricade nella ben nota obiezione già avanzata alla teoria del diritto di proprietà: il corpo non è un bene. Bisogna, dunque, innanzitutto inventare categorie giuridiche nuove che permettano di qualificare il vivente umano distaccato dalla persona. Esso non rientra oggi nella categoria delle res derelictae né in quella delle res publicae né in quelle delle res privatae. Da tali future categorie dipenderanno le regole che dovranno governare l’uso o la destinazione di questi nuovi beni, né cose né soggetti. L’attuale incapacità presente in molti ordinamenti giuridici di pensare il diritto del corpo vivente e depersonalizzato è una delle ragioni primarie del caos che regna in questa materia e delle difficoltà che la società trova nell’affrontare questioni pratiche che si pongono con sempre maggiore frequenza. È pertanto a seguito di molte incertezze, sia etiche che giuridiche, che oggi nelle nostre società occidentali si modificano le rappresentazioni, una volta comuni, del corpo e delle sue parti. Un dibattito che, rispetto al passato, si caratterizza anche a seguito dello sviluppo della tecnologia medica che, qualora ve ne fosse ancora bisogno, definitivamente fa venire meno e relativizza quella antica percezione quasi “angelica” della corporeità umana. Migranti. Cpr di Torino, tempi indefiniti e un telefonino in 15. “Peggio del carcere” di Gabriele Guccione Corriere di Torino, 7 maggio 2025 Un cellulare da spartirsi in quindici. Viene consegnato ogni mattina e ritirati ogni sera. È l’unico canale che li unisce al resto del mondo, alle proprie famiglie d’origine, in Nordafrica o altrove, oltre le gabbie di ferro zincato che circondano ciascuno dei sei blocchi dove sono rinchiusi, oltre le mura che nascondono il Cpr agli occhi dei torinesi che transitano senza farci troppo caso in corso Brunelleschi o in via Mazzarello. I cinquantasette “ospiti” - perché, almeno in teoria, carcerati non sono - reclusi al momento nel centro di permanenza per il rimpatrio comunicano così. Da quando l’altra settimana, nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio è scoppiata la prima rivolta dalla riapertura, un mese fa, uno dei sei padiglioni è stato chiuso. Il risultato: i migranti trattenuti nella struttura si sono dovuti stringere, e se prima erano suddivisi in tre blocchi, adesso ne occupano due (altri tre erano già inutilizzabili perché in corso di ristrutturazione). “È un sistema inumano, questi posti vanno chiusi, in queste condizioni è inevitabile che si creino tensioni che alla fine arrivino ad esplodere in rivolte o gesti violenti”, si sfoga Alberto Unia, già assessore della giunta Appendino, oggi consigliere regionale del M5S. Con la sua capogruppo, Sarah Disabato, e il collega del Pd, Daniele Valle, si sono presentati ieri davanti al pesante portone del Cpr, per ispezionare la struttura. Così hanno potuto constatare con i loro occhi la situazione. Ogni blocco è recintato, ha un cortiletto e un dormitorio con 6 camerate da 5 posti letto ciascuna. “I trattenuti sono soprattutto giovani, abbiamo parlato con loro, alcuni hanno problemi psichiatrici, lamentano soprattutto una cosa - racconta il dem Valle: la condizione di indeterminatezza in cui si trovano, non sanno quanto tempo dovranno restare dentro. Un ragazzo mi ha detto: preferirei stare in carcere, almeno saprei quanti giorni mi restano da scontare”. A gestire la struttura è la cooperativa Sanitalia. Si è aggiudicata un appalto da 8 milioni di euro per farlo. Oltre agli operatori sociali, ci sono decine di poliziotti, carabinieri e finanzieri, e la presenza fissa dei militari. “Un dispiegamento di uomini e mezzi - sottolinea la pentastellata Disabato - che potrebbero essere impiegate altrove, sul territorio, a tutela della sicurezza delle nostre città”. E invece stanno lì, si danno il turno, a controllare che 57 immigrati irregolari (tra migliaia e migliaia) non scappino o non si rivoltino. “È chiaramente un sistema di gestire l’immigrazione irregolare che non ha senso, non solo per le condizioni inumane a cui sono sottoposte le persone, ma per l’enorme impiego di risorse economiche”, fa notare Unia. Da settimane la politica torinese, dal Pd al M5S, con l’eccezione di Lega e FDI, battaglia contro la riapertura del Cpr. E ora la palla passa alla Regione: “Chiediamo con urgenza un sopralluogo delle commissioni Sanità e Legalità del Consiglio regionale - dichiarano i tre eletti -. Un sistema che ammassa le persone dentro le gabbie, con una prospettiva temporale indeterminata, non può funzionare”. Migranti. Roma ha un nuovo carcere, ma è in Albania di Edoardo Iacolucci lacapitale.it, 7 maggio 2025 Valentina Calderone, Garante capitolina dei detenuti ha spiegato come Roma abbia la competenza di 12 posti in più in Albania. Si legge nei dati di aprile, sul portale del ministero della Giustizia. Il numero di carcerati di competenza della Garante dei detenuti di Roma è aumentato: 12 unità, 12 posti in più, per ora liberi - nonostante non si trovino sul territorio italiano. Si tratta della ormai celebre struttura di Gjader, in Albania. Come osserva con sorpresa la stessa garante capitolina dei detenuti, Valentina Calderone: “Vai a controllare i dati mensili del Ministero della Giustizia sulle presenze negli istituti penitenziari, e ti accorgi che il numero delle carceri di tua competenza è aumentato. Dodici posti, per ora vuoti. È ora di organizzare una trasferta”. Il Cpr e carcere in Albania - Il trattenimento di alcune decine di migranti nel centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) costruito dall’Italia a Gjader rappresenta il primo concreto utilizzo della struttura, rimasta praticamente inattiva per mesi. Inizialmente pensato come centro multifunzionale per la gestione delle persone intercettate nel Mediterraneo, contenente anche una sezione carceraria, è stato riconvertito con un decreto-legge di marzo 2025 per essere utilizzato almeno come Cpr a tutti gli effetti. “Tutto quel complesso che è stato costruito - spiega la garante capitolina Calderone, a La Capitale - prevede varie strutture, tra cui un Cpr, centro per migranti e anche una piccola sezione carcere”. “E quindi questi 12 posti che sono comparsi questo mese per la prima volta nella statistica del ministero della Giustizia sotto il territorio di Roma sono la sezione prettamente carceraria di Gjader. Nei medesimi dati risalenti al 31 marzo non c’era - precisa Calderone - e in questi numeri relativi al 30 aprile è invece comparsa questa nuova voce”. Come funziona il Cpr in Albania - I Cpr ospitano persone a cui è già stato notificato un decreto di espulsione, e che sono in attesa di rimpatrio. In Italia ce ne sono circa dieci, a Roma si trova vicino Fiumicino, a Ponte Galeria. Spesso sono state denunciate le condizioni detentive ardue ed inadeguate con violazioni sistematiche dei diritti umani. Anche il centro di Gjader, secondo quanto riferito da Cecilia Strada (europarlamentare del Pd) e Anna Pellegrino (avvocata Asgi), rispecchia queste criticità. Dal primo trasferimento, avvenuto l’11 aprile, sono già stati registrati 35 “eventi critici”, soprattutto atti di autolesionismo, tentativi di suicidio e proteste. Si tratta di una media di 2,5 eventi al giorno, ha detto Pellegrino al Post. Le condizioni nel Cpr - Le condizioni all’interno del Cpr, dopo la visita dell’europarlamentare, sono definite al Post particolarmente dure: scendono ammanettati. Una volta dentro, elementi architettonici pericolosi che facilitano i tentativi di impiccagione, come sprinkler antincendio accessibili e tavoli fissati proprio lì sotto. Secondo Strada, il trasferimento è avvenuto senza informare i detenuti né consentire loro di contattare le famiglie o gli avvocati. “Sono stati svegliati all’alba, legati con fascette, portati prima in pullman per ore e poi in nave, sempre con le mani legate. Non hanno potuto nemmeno mangiare o andare in bagno liberamente”, denuncia Strada ai microfoni di Radio Radicale. Nonostante non sia sovraffollato, il centro è caratterizzato da un isolamento estremo: mancano contatti con l’esterno, non si può usare il cellulare, non si ricevono pacchi e i colloqui con avvocati italiani sono rari. “Un limbo” lo definisce la dem, dove i migranti non sanno nemmeno dove si trovano né per quanto tempo resteranno. Tra i 25 migranti attualmente presenti ci sono persone già passate da altri Cpr italiani o da carceri, spesso con un peggioramento delle loro condizioni psicofisiche. Alcuni provengono da detenzioni in cui si è fatto largo uso di psicofarmaci. Canapa: il TAR si arrende alla paura di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 7 maggio 2025 Il Tar del Lazio con la sentenza n. 07509/2025 depositata il 16 aprile scorso, ha respinto il ricorso presentato da associazioni e imprese della filiera della canapa italiana contro il decreto del Ministero della Salute che ha inserito le composizioni orali a base di cannabidiolo (CBD) nella sezione B della tabella dei medicinali del DPR 309/1990. Una decisione che, al di là del tecnicismo giuridico, rappresenta un passo indietro sul piano della razionalità normativa e del buon senso scientifico. Il cuore della motivazione risiede nell’invocazione del principio di precauzione, che giustificherebbe l’assoggettamento del CBD a una disciplina tipica delle sostanze psicoattive, nonostante l’assenza di una reale pericolosità. I giudici amministrativi si sono affidati ai pareri dell’Istituto Superiore di Sanità e del Consiglio Superiore di Sanità che, pur ammettendo l’assenza di evidenze conclusive sugli effetti psicotropi del CBD, segnalano possibili rischi legati a prodotti non standardizzati e a contaminazioni accidentali con il THC (Tetraidrocannabinolo). Ma è proprio qui che si manifesta tutta l’inadeguatezza della risposta pubblica: di fronte a possibili rischi legati non al CBD in sé, ma alla mancanza di controllo e trasparenza sul mercato, il TAR avalla una logica proibizionista, che scarica su imprese e consumatori l’incapacità dello Stato di regolare il settore. Fornisce così un assist al Governo, impegnato a vietare le infiorescenze di canapa industriale col decreto sicurezza. Invece di lavorare a norme chiare, con standard di qualità, tracciabilità e limiti di contaminanti, in Italia si preferisce proibire. Certo, non è compito dei giudici amministrativi produrre norme, ma la loro decisione ci porta nell’assurdo di assoggettare alle norme sugli stupefacenti preparati non psicotropi ottenuti da piante esplicitamente escluse dalle convenzioni e dal Testo Unico sulle droghe. Un non senso giuridico e scientifico che relega il CBD, almeno nelle sue preparazioni full sprectrum, ai soli canali farmaceutici, con prescrizione non ripetibile. Si tagliano fuori così centinaia di piccoli produttori e si rende più difficile la vita ai consumatori non medicalizzati. Un approccio miope - per il quale non va mai dimenticata la responsabilità dell’ex ministro Speranza, che per primo presentò il decreto - che confonde l’assenza di regolazione con l’intrinseca pericolosità della sostanza e che - fra i mille paradossi - non tocca le preparazioni orali a base di CBD sintetizzate, che continueranno a poter essere vendute. Il TAR, pur riconoscendo che la cannabis è una pianta complessa e che il CBD non presenta di per sé un rischio, sceglie di considerare le “composizioni orali ottenute da estratti” come sostanzialmente incontrollabili, perché “non purificabili” dal THC. Ma questa è una resa alla mistificazione, perché le tecnologie di estrazione consentono di ottenere preparati a contenuto controllato, così come la presenza di tracce di THC, fino allo 0,2% secondo l’Oms, non implica effetti psicotropi o altri particolari effetti collaterali. Il principio di precauzione, nato per gestire l’incertezza scientifica, non dovrebbe aver campo dopo due anni di revisione della letteratura medica da parte dell’Oms. Serve solo a coprire l’ombra lunga del proibizionismo. In questo caso, il “rischio” non riguarda la sostanza, bensì il contesto di mercato in cui essa viene commercializzata. E allora perché non intervenire sul contesto, con norme e controlli? La paura è la cifra di questo Governo. Un sipario, dietro il quale lo Stato sceglie di non regolare, ma solo di proibire. Così, come con l’art. 18 del decreto sicurezza che equipara la cannabis light a quella psicoattiva, invece di proteggere la salute pubblica, si favorisce il ritorno al mercato nero e alla clandestinità. Insomma, l’erba è comunque maledetta e da vietare. Torture, violazioni ed esecuzioni sommarie: l’inferno delle frontiere esternalizzate dall’Ue di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 7 maggio 2025 64 migranti sopravvissuti raccontano alla ong Sos Humanity il calvario subìto in Libia e Tunisia. La ong tedesca ha raccolto le testimonianze tra il 2022 e il 2024 e mette in luce la complicità delle istituzioni europee che finanziano gli apparati di sicurezza nordafricani. Dieci anni di salvataggi in mare e di storie che documentano le violazioni dei diritti umani a danno di migranti in Nord Africa. Spari, maltrattamenti, uccisioni, torture, arresti e detenzioni arbitrarie, il tutto con la consapevolezza delle istituzioni europee che da anni finanziano l’esternalizzazione delle frontiere foraggiando apparati securitari violenti come la guardia costiera libica e quella tunisina. Le testimonianze dei migranti sono raccolte nel rapporto Frontiere di (In)Humanità, pubblicato dalla ong Sos Humanity che da dieci anni è attiva nel salvare vite in mare. In totale più di 38.500 migranti sono stati soccorsi. Il documento raccoglie le storie di 64 sopravvissuti soccorsi a bordo della nave Humanity I in tredici diverse operazioni di salvataggio tra l’ottobre del 2022 e l’agosto del 2024. L’obiettivo è raccontare le conseguenze delle politiche di esternalizzazione di Bruxelles e dei governi dei paesi membri. I sopravvissuti sono partiti principalmente da Tunisia e Libia attraversando il Mediterraneo centrale. Le testimonianze riguardano uomini, donne e bambini di 15 paesi diversi, partiti sia dalla Libia che dalla Tunisia, registrate in sette lingue: inglese, francese, arabo, urdu, bangla, tigrino e punjabi. Raccontano dettagli su discriminazioni razziste, sessiste e religiose subite in Libia e/o Tunisia. Di schiavitù, torture e violenze fisiche e sessuali. Chi è stato imprigionato nei centri di detenzioni libici riferisce di esecuzioni sommarie, condizioni terribili nelle strutture, rifiuto di cure mediche e assistenza per i malati. Molti di loro sono stati venduti come schiavi a trafficanti di ogni tipo lungo il confine con la Tunisia. Violazioni che accadono spesso sotto gli occhi o per mano di agenti di frontiera o di polizia finanziati dai fondi dell’Unione europea. Anche in mare la situazione non cambia. I sopravvissuti hanno riferito di pestaggi, spari contro le imbarcazioni cariche di migranti e speronamenti intenzionali per farle affondare. Nelle testimonianze, i migranti hanno raccontato anche come le autorità europee non hanno provveduto al salvataggio o al coordinamento, favorendo invece la loro cattura da parte delle guardie costiere tunisine e libiche. “Chiediamo con forza al cancelliere federale Friedrich Merz di porre immediatamente fine a tutti gli accordi con paesi terzi che portano alla violazione dei diritti dei rifugiati e alla morte di persone in cerca di protezione. Non ci deve essere alcun sostegno tedesco per l’esternalizzazione della protezione delle frontiere o della ricerca e del soccorso se I diritti fondamentali sono dimenticati. Inoltre, dovreste fare una campagna per un programma europeo di ricerca e soccorso. L’Europa non deve più stare a guardare mentre le persone muoiono nel Mediterraneo”, ha detto nella conferenza stampa di presentazione del rapporto Till Rummenhohl, direttore generale della Humanity. In questi dieci anni, secondo la ong tedesca, l’Ue ha speso almeno 242 milioni di euro per esternalizzare la gestione delle frontiere sul confine esterno meridionale. Soldi che si sommano a quelli spesi singolarmente dai vari stati membri come l’Italia, che dal 2017 finanzia la guardia costiera libica attraverso il Memorandum of understanding voluto dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti. “Non solo è profondamente disumano, ma un programma di ricerca e soccorso dell’Ue sarebbe anche più efficace dal punto di vista dei costi”, dice uno degli autori del rapporto Sasha Ockenden. Ma i rischi di aumenti di violazioni a danno dei migranti sono destinati ad aumentare con il nuovo Patto sull’asilo e la migrazione approvato dall’Ue e che entrerà in vigore entro il 2026. Tra le varie cose la nuova normativa prevede una procedura accelerata di frontiera, un aumento dei rimpatri verso i paesi di origine e minori tutele per la protezione internazionale. I confini e le parole perdute di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 7 maggio 2025 L’infinita battaglia a Gaza tra i terroristi di Hamas e l’esercito israeliano. Bene e male “sono intrecciati” e quel confine “passa nel cuore di ciascuno”, spiegava papa Francesco, non divide territori o gruppi umani. Le parole. Quelle, sì, sono difficili da trovare, perché definirebbero un confine etico: ma bene e male “sono intrecciati” e quel confine “passa nel cuore di ciascuno”, spiegava papa Francesco, non divide territori o gruppi umani. Eppure, sulle parole, dritte o ambigue, e sul loro utilizzo, si è basata una parte non piccola della battaglia per i cuori e le menti combattuta in questi diciannove mesi, dall’infame pogrom del 7 ottobre 2023 in terra d’Israele sino alla carestia annunciata, protratta e forse programmata nella Striscia di Gaza. Come fosse anche una guerra di marketing: la potente propaganda di Hamas rilanciata mille volte nelle università e nelle piazze occidentali contro la hasbara, la rete di pubbliche relazioni israeliane per rendere più accettabili scelte ogni giorno più indigeste. E allora conviene aggrapparsi alle parole di chi sa, perché ne ha vissuto il senso sulla propria carne. Siamo passati dal miraggio di due popoli in due Stati alla realtà di “una trappola per due popoli” fondata sull’odio, dice Liliana Segre alla nostra Alessia Rastelli nel libro Non posso e non voglio tacere, riflessioni di una donna di pace, edito da Solferino. No, non si possono mettere sullo stesso piano gli architetti di questa trappola: di qua dittature di islamisti dediti all’annientamento dello Stato ebraico e di là un governo democraticamente eletto nell’unica, per quanto ammaccata, democrazia del Medioriente. E, tuttavia, diciannove mesi e molti morti dopo, è ineludibile quel sentimento di “repulsione” che Segre ammette di provare verso le azioni dell’esecutivo di Gerusalemme, ricordiamolo, pesantemente condizionato dalla destra religiosa e radicale. Non è giusto parlare di genocidio, ci spiega chi ne è stata bersaglio da ragazzina, e tuttavia non si può tacere sulle stragi e le atrocità sofferte dai gazawi in una guerra di reazione che ha perso ogni proporzionalità. Il confine delle parole è tutto, nella grande tragedia che incatena tra loro israeliani e palestinesi. E bisogna rispettarlo, per non perdersi nella terra di nessuno del relativismo. Israele combatte dalla fondazione una guerra “esistenziale”, avendo detto sì nel 1947 alla risoluzione Onu 181 sui due Stati e avendone ricevuto in contraccambio la prima aggressione della Lega Araba nel 1948. Questa natura di sopravvivenza inscritta in ogni guerra israeliana ci viene rammentata ciclicamente dai suoi leader, “dobbiamo vincere perché non avremmo nessun altro posto dove andare”. E non è un modo di dire, le parole hanno un senso: “Palestina libera dal fiume al mare”, slogan di tante sfilate pro-Pal, postula semplicemente un’idea nazista, la stessa che il Gran Muftì di Gerusalemme condivideva con Hitler, la scomparsa degli ebrei dalla faccia della terra. Sicché la guerra esistenziale è sempre disperata, isola chi la conduce anche se la vince, anzi, soprattutto se la vince, imprigionandolo dentro una dimensione perennemente bellica, rendendolo rispettato e abietto al tempo stesso. “Dobbiamo essere percepiti dal nemico come un cane pazzo, troppo pericoloso per essere disturbato”, sentenziava Moshe Dayan, che impersonava l’intera epopea dello Stato ebraico, sabra nato in un kibbuz, adolescente nell’Haganah, eroico trionfatore della guerra dei Sei Giorni. Ma la guerra esistenziale si può imbattere nella voragine morale della guerra asimmetrica, di cui molto ha detto Michael Walzer: quella nella quale il più debole combatte facendosi usbergo del proprio popolo, una guerra insurrezionale condotta in mezzo a donne e bambini, dentro scuole e ospedali, riversando sul più forte, sull’esercito avversario ad alta tecnologia, il carico della scelta etica, il preavviso del bombardamento che di rado salva davvero gli innocenti, il fardello di esodi di massa che troppo ricordano le deportazioni. Il senso di colpa. La contraddizione insanabile. All’esercito di Gerusalemme si chiedeva forse l’impossibile: preservare l’umanità anche per conto d’un nemico che per diciannove mesi ha seviziato nei tunnel di Gaza duecentocinquanta israeliani catturati il 7 ottobre; ricordare ogni giorno il rigido codice etico dell’Idf e i dettami stessi del Talmud, che non discrimina tra appartenenze quando rammenta il valore universale d’una singola vita da salvare. Si può dire che Netanyahu e i suoi compagni di viaggio si siano fermati molto al di sotto di questi obiettivi. “C’è una dolorosa verità al centro di questa guerra, la vita dei palestinesi comuni è devastata”, ha dichiarato ad Haaretz il colonnello Peter Lerner, già portavoce dell’Idf per i media stranieri: “Se ci deve essere una speranza di porre fine a questa guerra senza piantare i semi degli estremisti della prossima generazione, la strategia deve cambiare”. Non sembra andare in questo senso l’ultima strategia annunciata dal governo israeliano, con una pianificata occupazione di territori e nuovi spostamenti coatti della popolazione. Netanyahu combatte ormai per la propria sopravvivenza politica. Ma non pochi tra i suoi connazionali sembrano decisi a battersi piuttosto per la loro anima e per la loro democrazia, non considerandole scindibili. Il capo di stato maggiore dell’Idf, Eyal Zamir, ha ammonito gli estremisti al governo: “Non possiamo affamare la Striscia, esiste il diritto internazionale e noi ci impegniamo a rispettarlo”. Channel 12 aveva appena mostrato un gruppo di bambini palestinesi che si contendevano strillando un mestolo di zuppa, in una Gaza dove non entrano aiuti da due mesi. A raccontare, senza l’incertezza delle parole e con la forza di un’immagine, un confine violato in molti cuori. Sansal, in galera il Voltaire algerino di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 7 maggio 2025 Il mondo europeo della sinistra e dei diritti, sensibile su tanti temi, è stato piuttosto distratto sulla condanna a 5 anni di galera dello scrittore maghrebino, un laico reo d’avere detto che un tempo certe zone dell’Algeria appartenevano al Marocco e perciò processato. “In tempi remoti, dimenticati anche da storici sinceri, uomini frustrati riuniti intorno a un abbeveratoio nel deserto inventarono questo odio e ne fecero la fonte della loro vita e il patrimonio inalienabile dei loro discendenti e dei discendenti dei loro discendenti fino al Giudizio Universale, che, per inciso, avrebbe segnato la fine dei tempi e di tutte le cose per tutti, ma non per loro; inventarono un nemico favoloso per dare corpo al loro odio e abbellire i loro crimini. Di cosa è colpevole questo orribile nemico? Di aver falsificato le sue stesse Scritture che annunciavano la sua fine e la nascita di un nuovo vero profeta, amico personale di Dio, o semplicemente di essere stato il primo a scoprire e riconoscere l’unico Dio e di aver ricevuto da lui la promessa infallibile di una terra benedetta?”. È impossibile non riconoscere in queste parole così dure con l’Islam, pubblicate nella prefazione a “La haine islamiste: Origines et complicités” (l’odio islamista, origini e complicità) del saggista francese Bernard Hadjadj, già ai vertici degli uffici Unesco, le vere ragioni della ferocia con cui l’Algeria tiene in carcere da sei mesi il grande scrittore algerino, tradotto in oltre venti lingue, Boualem Sansal. Quello che il filosofo francese Robert Redeker, ricorda il Foglio, chiama “Il Solgenitsin algerino”. Di più: “Boualem Sansal è per il mondo musulmano ciò che Voltaire è stato per il mondo cristiano”. Esagerato? Può darsi. È purtroppo vero, però, che il mondo europeo della sinistra e dei diritti, sensibile su tanti temi, è stato piuttosto distratto sulla condanna a 5 anni di galera dello scrittore maghrebino, un laico reo d’avere detto che un tempo certe zone dell’Algeria appartenevano al Marocco e perciò processato, come ha scritto Paolo Lepri, senza l’avvocato da lui scelto, l’ex ambasciatore ed europarlamentare François Zimeray, respinto dai giudici locali perché bollato come “sionista”. Danno fastidio al regime forte di Algeri, per quieto vivere coi fanatici islamisti, certe tesi di Sansal come quella che “l’Islam è diventato una legge terrificante, che non fa altro che promulgare divieti”, finite su Wikipedia? Piacciano o no, sono opinioni: non reati. E il minimo che possano fare gli europei, quali che siano i loro orientamenti, è schierarsi dalla parte di uno scrittore finito in un carcere di massima sicurezza, a 76 anni, solo perché è un uomo libero.