I Garanti territoriali contro il Decreto-Legge Sicurezza: chiedono di incontrare Mattarella Ristretti Orizzonti, 6 maggio 2025 La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà si è riunita ieri in assemblea a Roma, nella sede della Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome, con la partecipazione del Presidente del Dipartimento di Giustizia minorile e di comunità, Antonio Sangermano. La Conferenza ha approvato un documento di dura critica al decreto-legge sicurezza, che rischia di aggravare la situazione di sovraffollamento nelle carceri e di alimentare tensioni tra i detenuti e gli operatori. Nel corso dell’assemblea, il Portavoce della Conferenza, il Garante della Campania, Samuele Ciambriello, ha comunicato di aver inviato una lettera al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per chiedere un incontro, per poter riferire le preoccupazioni e le proposte dei Garanti territoriali. “La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale - si legge nel documento - ritenendo che tale Decreto sicurezza sia peggiorativo delle condizioni detentive degli Istituti penitenziari per i motivi sopra illustrati, continuerà a stimolare ulteriormente il dibattito pubblico sul tema del carcere, affinché si possa costruire un consenso parlamentare trasversale per introdurre, con urgenza, provvedimenti concretamente e immediatamente deflattivi del sovraffollamento, di indulto, affinché si possa ridare dignità alle persone detenute e coltivare, concretamente, percorsi di speranza. Dentro il carcere - concludono i Garanti - e fuori dal carcere”. I Garanti territoriali delle persone private della libertà contro il Decreto sicurezza La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà esprime grande preoccupazione a fronte della repentina emanazione del DL n. 48 del 2025 (cd. DL sicurezza) che non fa altro che recepire i medesimi contenuti - riproponendone, come è stato efficacemente detto, solo un mero restyling estetico - del precedente DDL (AC 1660), già oggetto di aspre critiche da parte della Comunità dei Garanti. Da un punto di vista del metodo, la Comunità dei Garanti si unisce a quanto già evidenziato dall’Unione delle Camere Penali, dall’ANM e da più di 250 Professori e Professoresse giuspubblicistici e da diverse Associazioni impegnate nella promozione della cultura democratica e della tutale dei diritti inviolabili delle persone. Attraverso la decretazione di urgenza, questo Governo è riuscito a sottrarre alla democratica dialettica parlamentare la discussione di misure normative che incidono in modo profondo sul contenuto e sulle modalità di esercizio delle libertà fondamentali di ciascuna persona, in primis sul diritto ad esprimere dissenso, la critica, che rappresenta la linfa vitale di ogni società realmente democratica. Lo dimostra, evidentemente, il richiamo forzato a generiche motivazioni di necessità e urgenza che dovrebbero giustificare la scelta di intervenire con la decretazione di urgenza: un richiamo che appare prettamente stilistico e strumentale, in violazione di quanto specificato dall’art. 77 della Costituzione italiana, come interpretato nel corso del tempo dalla copiosa giurisprudenza della Corte costituzionale. Preoccupa, poi, il contenuto estremamente eterogeneo del provvedimento introdotto, che replica una tecnica normativa che mal si concilia con i principi costituzionali di proporzionalità, ragionevolezza, offensività e tassatività a cui è tenuto ad attenersi il Legislatore in materia penale. Proprio con riguardo al contenuto, tale Decreto suscita in noi scetticismo e un grido di allarme. Ancora una volta, ci troviamo costretti a esprimere la nostra più convinta critica nei confronti dell’abuso della sanzione penale - per lo più detentiva - come panacea di ogni “male sociale”, indice di una pericolosa deriva securitaria della nostra Forma di Stato. Il ricorso con troppo facilità allo strumento penale, infatti, impedisce al nostro Paese di riflettere a 360 gradi sulle cause di questa dominante sensazione di insicurezza sociale (più apparente che reale, come i dati statistici dimostrano) che forse dovrebbe essere decifrato attraverso categorie giuridiche diverse da quelle penalistiche e affrontata con ben più consistenti misure educative, sociali ed economiche. Ciò appare ancor più vero se si considerano i destinatari delle numerose ipotesi di reato/aggravanti di reato: attraverso questo Decreto, infatti, si intende colpire non solo il dissenso, ma anche la marginalità sociale e la vulnerabilità degli “ultimi tra gli ultimi”, dimostrando di voler assecondare quella logica, sempre più dominante, da qualche anno a questa parte, secondo cui “a minor Stato sociale corrisponde più stato penale”. È evidente dunque che questo Decreto incarna una visione securitaria della società, contrapposta a quella definita dagli articoli 2 e 3 della Costituzione italiana, che pone al centro, la persona umana nelle sue istanze di dignità, libertà e uguaglianza. Facendo appello ai valori costituzionali e democratici, in cui si riflette il mandato dei Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale, ci troviamo ancora una volta a ribadire che il carcere, in un sistema democratico, non può essere la risposta al dissenso, al disagio sociale. Per tale motivo riteniamo tale Decreto irragionevole. Esso non avrà altro effetto se non quello di fare aumentare la popolazione carceraria, con ulteriore aggravio del fenomeno del sovraffollamento e con il definitivo collasso di strutture già allo stremo, come denunciano i quasi quotidiani suicidi, giunti oramai al numero di ventisei dall’inizio dell’anno. Anche le misure normative relative alle condizioni detentive risultano, infatti, di dubbia costituzionalità, in quanto volte a limitare, in carcere, quel “residuo” di dignità e libertà, costituzionalmente protetto, delle persone ristrette. Eclatante, avendo ben presente la drammatica fotografia in bianco e nero della realtà carceraria, è quanto previsto dalle norme del Decreto che mirano a sanzionare, al pari della rivolta - genericamente definita - e della resistenza medianti atti di violenza o minaccia, anche “le condotte di resistenza passiva” negli istituti penitenziari (art. 26) o nei centri di trattenimento dei migranti (art. 27), in palese violazione dell’art. 21 Cost. Il Legislatore, infatti, per di più con una definizione generica, indefinita e non tassativa (e dunque illegittimamente), finisce per punire ogni forma di protesta pacifica e legittima (quali, ad esempio la battitura del blindo, lo sciopero della fame o delle terapie, il non dare seguito all’ordine di rientrare in cella, messe in atto anche in forma collettiva etc..). Condotte, queste, che le persone detenute pongono in essere spesso per esprimere il proprio malessere, disagio psichico o per segnalare l’inerzia protratta dell’Amministrazione penitenziaria a fronte di richieste legittime, che rimangono per troppo tempo inevase. Ma non solo. Ogni forma di dissenso - posta in essere in forma di rivolta, di resistenza attiva o violenza o anche solo passiva - sarà ulteriormente e irragionevolmente punito, in quanto ai sensi dell’art. 34, si estende alle persone detenute, autori di tali condotte, il regime del 4 bis o.p. e dunque, un regime restrittivo rispetto alla concessione dei benefici penitenziari. Ciò in controtendenza rispetto alla necessità (e all’urgenza) di umanizzare la pena detentiva come più volte ribadito dai Giudici della Corte costituzionale. Così come solo in minima parte il Governo ha recepito i rilievi posti dal Presidente della Repubblica in merito alla condizione delle donne madri detenute. Infatti, se con il disegno di legge cd. Sicurezza si voleva abrogare l’obbligatorietà del differimento della pena detentiva per le donne incinta o donne madri di un bambino con meno di un anno di età, il Decreto-legge prevede, per tali categorie, il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena. Inoltre, introduce la possibilità di rinvio facoltativo anche per madri di prole di età superiore a un anno e inferiore a tre anni. Si prevede inoltre che il differimento della pena detentiva sia revocato nel caso in cui la madre ponga in essere un grave pregiudizio alla crescita del minore (tra l’altro senza specificare né quale Autorità possa valutare tale comportamento né la procedura attivabile) e si stabilisce che l’esecuzione della pena non possa comunque essere differita se dal rinvio deriva una situazione di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti. In tali casi, il Decreto prevede comunque che queste donne, con i bambini al seguito scontino la pena presso un Istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Ma non solo. In caso di evasione o in caso di condotte che compromettono l’ordine o la sicurezza pubblica o dell’Icam si prevede che la donna sia condotta in un istituto penitenziario da sola o con il bambino al seguito. È evidente dunque che tale previsione non fuga del tutto il dubbio di legittimità costituzionale di tale norma rispetto all’art. 31 Cost. e rispetto altresì all’art. 117 Cost, I comma, e al principio, di derivazione internazionale, del “the best interest of the child”. In costanza dell’ingravescente fenomeno dei suicidi, del livello di sovraffollamento tornato a destare preoccupazione, tutto ciò appare agli occhi della Comunità dei Garanti territoriali francamente inaccettabile. La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale, ritenendo che tale Decreto sicurezza sia peggiorativo delle condizioni detentive degli Istituti penitenziari per i motivi sopra illustrati, continuerà a stimolare ulteriormente il dibattito pubblico sul tema del carcere, affinché si possa costruire un consenso parlamentare trasversale per introdurre, con urgenza, provvedimenti concretamente e immediatamente deflattivi del sovraffollamento, di indulto, affinché si possa ridare dignità alle persone detenute e coltivare, concretamente, percorsi di speranza. Dentro il carcere e fuori dal carcere. Solo così potremo creare società davvero sicure. La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà Lo stato delle carceri e l’arte del non litigare di Claudio Cerasa Il Foglio, 6 maggio 2025 La civiltà di un Paese si giudica dallo stato delle carceri. La Corte dei conti fotografa ritardi e sprechi. Ogni tanto, tra i faldoni della burocrazia italiana, arriva un documento che grida: “Questo non è un dettaglio tecnico, è una questione di civiltà”. È il caso della delibera n. 42/2025 della Corte dei conti, dedicata al Piano Carceri. Un titolo sobrio per un contenuto esplosivo: un’analisi sistematica dello stato di avanzamento (o di stallo) delle infrastrutture penitenziarie italiane, con l’aggiunta di un dettaglio che dovrebbe far saltare dalle sedie governo e opposizioni: non solo i problemi sono noti, ma molte delle soluzioni sono già sulla carta. Non si fa nulla o si fa troppo tardi. E il carcere resta, come sempre, un mondo dimenticato. I numeri parlano da soli. Dal 2021 al 2024, i fondi ci sono stati. I programmi pure. Ma troppi cantieri restano fermi, troppi interventi sono stati stralciati, troppi lavori iniziano per non finire. A Milano Opera, ad esempio, il padiglione da 400 posti detentivi iniziato nel 2014 è ancora in alto mare: tra fallimenti d’impresa, progetti da rifare e fondi da ricalcolare, siamo al 5 per cento dei lavori conclusi. La Corte rileva tutto: ritardi cronici, mancanza di pianificazione, necessità di nuove linee guida, mutamenti continui del quadro esigenziale (le carceri cambiano più in fretta dei piani che dovrebbero migliorarle), difficoltà nel reperire fondi per varianti progettuali, e infine un dato scoraggiante: molti interventi sono stati semplicemente cancellati, perché non più “coerenti con le esigenze”. Un eufemismo tecnico che, tradotto, suona come: non si è riusciti a farli in tempo. Ma la parte più dura del rapporto non è nei numeri. È nel giudizio implicito. Si capisce, leggendo tra le righe, che il problema non è solo amministrativo: è politico. Le carceri italiane sono sovraffollate, in alcuni casi disumane, ma non abbastanza urgenti da un punto di vista elettorale. Si tratta di persone recluse, quindi invisibili. La classe politica, anche quando è sinceramente preoccupata, fatica a fare fronte comune. Eppure, mai come ora ci sarebbe bisogno di una convergenza. I dati sulla popolazione detenuta, i suicidi in carcere (83 nel solo 2024), gli 8.000 ricorsi ai tribunali di sorveglianza nel 2023 per condizioni degradanti, il richiamo costante della Corte europea dei diritti umani (si veda la sentenza Torreggiani): tutto questo non è un’emergenza da gestire, è una realtà permanente da trasformare. La Corte dei conti ha anche parole chiare sulla necessità di andare oltre la logica del “costruire nuove celle”. Serve digitalizzazione, lavoro in carcere, manutenzione straordinaria, spazi trattamentali, percorsi formativi. E per ogni voce, ci sono risorse - spesso inutilizzate - e progetti già scritti, ma lasciati evaporare nei mille rivoli delle competenze divise tra ministeri, provveditorati, dipartimenti e commissariamenti a intermittenza. La raccomandazione finale della Corte è precisa: serve una pianificazione coerente, un commissario che abbia davvero poteri, un cronoprogramma che sia rispettato, e un sistema di monitoraggio serio. E soprattutto, serve l’idea che una democrazia si giudica anche da come tratta chi ha sbagliato. Se su questo punto si potessero fermare per un attimo gli insulti tra partiti, forse il Parlamento potrebbe decidere che almeno una cosa, una sola, merita di essere fatta insieme. Sovraffollamento, la Corte dei Conti: costruire nuove carceri non è l’unica strada di Valentina Stella Il Dubbio, 6 maggio 2025 “In ragione dei costi e delle tempistiche occorrenti per realizzare nuove strutture carcerarie”, l’edilizia penitenziaria non può ritenersi “l’unica strada da percorrere per superare il problema del sovraffollamento carcerario”: questo un passaggio importante della relazione concernente “Infrastrutture e digitalizzazione: Piano Carceri” diffusa ieri dalla Corte Conti. Dunque l’organo di controllo si pone in posizione contraria a quella intrapresa dal governo che invece punta la sua politica penitenziaria esclusivamente sulla costruzione di nuove carceri, escludendo altri tipi di provvedimenti come la liberazione anticipata speciale, indulto e amnistia. Il report, di quasi 300 pagine, ha come oggetto il programma di interventi di edilizia penitenziaria del periodo 2021- 2024 e l’attività dei ministeri della Giustizia e delle Infrastrutture rispetto alle scadenze previste. La conclusione è che a 10 anni dal termine della gestione commissariale, persistono situazioni critiche di sovraffollamento carcerario soprattutto in alcune regioni: “Il termine dei lavori appare non ulteriormente procrastinabile soprattutto per interventi che insistono su territori, quali quelli delle regioni Lombardia, Puglia, Campania, Lazio, Veneto e Sicilia, ove il fenomeno del sovraffollamento ha raggiunto livelli elevatissimi”. Molteplici, secondo la Corte dei Conti, le cause dei ritardi: dalle inadempienze contrattuali da parte delle imprese ai mutamenti repentini delle esigenze detentive rispetto al passo dei lavori, dalle carenze nei finanziamenti necessari per attuare le modifiche progettuali alla mancanza, presso gli Uffici territoriali (PRAP), di un numero adeguato di dipendenti dotati di competenze tecniche ai fini dell’esercizio delle funzioni legate ai procedimenti di gara. Tra le raccomandazioni della Corte dei Conti quella di “necessità ed urgenza” di giungere “a conclusione gli ulteriori interventi di manutenzione straordinaria già programmati - e tuttora in corso - per il miglioramento delle condizioni ambientali, igienico- sanitarie e trattamentali all’interno degli Istituti”. In conclusione, “anche con riguardo alla nuova figura di Commissario straordinario recentemente istituita”, la Corte “invita a considerare le criticità fino ad oggi riscontrate ed evidenziate nella presente indagine, anche ai fini del monitoraggio delle attività rimesse all’eventuale soggetto attuatore”. Sempre ieri è arrivato anche un report dall’Eurostat, secondo il quale l’Italia è il terzo Paese con le situazioni più critiche per quanto concerne il sovraffollamento. “Nel 2023, 13 paesi dell’Ue hanno registrato celle carcerarie sovraffollate. Il tasso di sovraffollamento più elevato è stato osservato a Cipro, con un tasso di occupazione delle carceri del 226,2%, seguito da Francia (122,9%) e Italia (119,1%)”, si legge nel documento. E stando alle statistiche di oggi del ministero della Giustizia siamo oltre il 120 per cento. Rispetto a questo quadro, il ministro Nordio ha ripetuto quanto detto già in tante altre occasioni: “Le carceri sono un problema quotidiano. Adesso abbiamo il commissario straordinario che ha poteri piuttosto estesi, abbiamo trovato anche buoni fondi per ampliare le strutture carcerarie. L’Italia non è la California o l’Arizona dove puoi instaurare 500 moduli in un mese, piazzandoli nel deserto. Qui da noi, per rimuovere una porta all’interno di Regina Coeli, abbiamo avuto un veto da parte delle Belle Arti, perché sono elementi vincolati”. Secondo il Guardasigilli “è difficile erigere o anche modificare strutture per fare delle carceri, però ce la stiamo mettendo tutta. C’è bisogno essenzialmente di spazi e in Italia non è facile trovarli. Per questo stiamo pensando a edifici compatibili come le vecchie caserme dismesse o anche altri edifici”, ha concluso Nordio. Di diverso parere le opposizioni. Secondo la responsabile giustizia del Pd, Debora Serracchiani, “il problema del sovraffollamento delle carceri è un problema che noi, come Pd, ormai da molto tempo abbiamo fatto presente al governo, un governo sordo e cieco con occhi rivolti solo ai numeri del passato ma senza proposte concrete che guardino al futuro. Oggi (ieri, ndr) la Corte dei Conti ribadisce quello che già aveva detto il Pd: la situazione è grave, mancano strutture adeguate, i detenuti vivono in condizioni igienico - sanitarie precarie e le condizioni di lavoro degli operatori sono indecorose. Ma soprattutto mancano i fondi per finanziare nuovi progetti, per costruire nuove strutture e rendere più accessibili e vivibili quelle esistenti laddove possibile”. Per Riccardo Magi di +Europa, “il governo è completamente assente sulla questione delle carceri. Ripropone la soluzione edilizia invece che ribaltare il tema come dovrebbe fare: il punto è evitare che più persone vadano in carcere, non costruirne nuove”. Anche per Fabrizio Benzoni, deputato di Azione, la relazione della Corte dei Conti “conferma, punto per punto, ciò che da anni denunciamo inascoltati: il fallimento strutturale del Piano Carceri, l’incapacità di realizzare interventi già finanziati e programmati, e la totale assenza di una visione coerente per la gestione della popolazione detenuta”. Corte dei conti: “Emergenza carceri, concludete almeno il vecchio piano” di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 maggio 2025 I giudici contabili: “Sovraffollamento oltre ogni limite, attenti ai prossimi interventi”. La nuova gara d’appalto per ampliare la capienza delle carceri italiane è già stata lanciata e il progetto faraonico meloniano di “almeno 1.500 moduli prefabbricati in calcestruzzo entro la fine dell’anno” è già un modellino tecnico di Invitalia da offrire alla propaganda securitaria. Peccato però che neppure l’ultimo Piano di edilizia penitenziaria, varato in nome dell’emergenza dal governo Monti e affidato dal 2012 al 2014 all’allora commissario straordinario Angelo Sinesio, sia stato portato a termine. “A dieci anni dalla conclusione della gestione commissariale, l’analisi sullo stato di attuazione del “Piano Carceri” evidenzia situazioni critiche di sovraffollamento carcerario che - soprattutto in Lombardia, Puglia, Campania, Lazio, Veneto e Sicilia - assumono contorni ai limiti dell’emergenza”. A scriverlo è addirittura la Corte dei Conti che, nella delibera di oltre 240 pagine dedicata a “Infrastrutture e digitalizzazione: Piano carceri”, invita il governo Meloni a concentrarsi piuttosto sulla “necessità ed urgenza che giungano a conclusione gli ulteriori interventi di manutenzione straordinaria già programmati - e tuttora in corso - per il miglioramento delle condizioni ambientali, igienico-sanitarie e trattamentali all’interno degli Istituti”. Condizioni che non sono in linea con il dettato costituzionale e neppure con la decenza, in un Paese civile, e che “rischiano pure l’aggravamento a causa del decreto Sicurezza”, come hanno denunciato ieri i Garanti territoriali dei detenuti chiedendo un incontro con il presidente Mattarella. Dai dati del Dap risulta infatti che sono attualmente oltre 62 mila i detenuti rinchiusi in 46.800 posti letto, pari ad un tasso di affollamento di circa il 133%. In crescita costante, come fa notare il Garante del Lazio, Anastasia, che sottolinea: “Sono 420 in più rispetto all’inizio dell’anno per un tasso di crescita in tre mesi dello 0,7%”. In Lombardia, Veneto e Puglia il sovraffollamento raggiunge il 150%. Secondo l’Eurostat, nel 2023 l’Italia con il 119,1% era al terzo posto tra gli Stati Ùe con maggiore sovraffollamento penitenziario, superata solo da Cipro (226,2%) e Francia (122,9%). In questo contesto, dall’inizio dell’anno in cella si sono suicidati 29 detenuti. “Nel 2013 si prevedeva la realizzazione di 12.024 posti detentivi”, ricorda la Corte dei Conti. Il Piano si è però arenato, anche dopo la conclusione dell’esperienza commissariale avvenuta nel 2014, per cause varie tra cui “inadempienze contrattuali da parte delle imprese”, “mutamenti repentini delle esigenze detentive rispetto al passo dei lavori, fino alle carenze nei finanziamenti necessari per attuare le modifiche progettuali”. Motivo per il quale i giudici contabili chiedono “alla nuova figura del Commissario straordinario” Marco Doglio, nominato nel settembre 2024, di monitorare bene le attività previste dal nuovo Piano carceri perché gli “interventi dovranno, in ogni caso, contenersi entro le scadenze previste dai relativi cronoprogrammi procedurali e finanziari”. Senza dimenticare “la necessità di applicare il principio dell’individualizzazione della pena, che impone una corretta collocazione dei detenuti all’interno delle strutture in base alla loro condizione giuridica e alle esigenze trattamentali”. A questo proposito vale la pena citare - sia pur brevemente - una ricerca appena pubblicata dall’Einaudi Institute for Economic and Finance di quattro ricercatori che, analizzando le informazioni ottenute dal Dap relative a donne detenute in carcere tra il 2012 e il 2022, hanno registrato una diminuzione degli episodi di autolesionismo e una riduzione della recidiva, fino al 16% nei tre anni successivi alla liberazione, quando la pena è stata scontata in carceri totalmente femminili (e dunque con servizi su misura) anziché misti. In Italia vi sono solo tre istituti completamente femminili (Rebibbia, Trani e Giudecca) perché le donne detenute sono circa il 4,5% del totale. Per loro, dunque, c’è anche la pena accessoria della lontananza da casa. L’accusa della Corte dei Conti non ha però scalfito minimamente il ministro Nordio che ha ribadito imperterrito la stessa ricetta di sempre. Il problema però, divaga il Guardasigilli, è che “in Italia è difficile costruire, perché mancano gli spazi più che i fondi”. La Corte dei Conti. Celle piene, nuove strutture in ritardo di Marco Birolini Avvenire, 6 maggio 2025 Anche i giudici contabili rilevano il dramma vissuto dai detenuti: mancano celle e anche i lavori di ristrutturazione vanno a rilento. I detenuti sono 61.861, i posti disponibili solo 51.312. Anche la Corte dei Conti denuncia la situazione drammatica vissuta quotidianamente dai detenuti. A dieci anni dalla conclusione della gestione commissariale, l’analisi sullo stato di attuazione del Piano Carceri evidenzia situazioni critiche di sovraffollamento che - soprattutto in Lombardia, Puglia, Campania, Lazio, Veneto e Sicilia - assumono contorni ai limiti dell’emergenza, anche alla luce dei dati forniti dal Ministero della Giustizia. Lo rilevano i giudici contabili nella relazione “Infrastrutture e digitalizzazione: Piano Carceri”, approvata dalla Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato con Delibera n. 42/2025/G. Accanto alla necessità legata alla creazione di nuovi posti detentivi, si legge nel documento, emergono la mancata realizzazione di numerosi interventi e l’urgenza di completare quelli di manutenzione straordinaria già avviati, per migliorare le condizioni ambientali, igienico-sanitarie e di trattamento all’interno degli istituti. Dalla relazione emergono numeri impietosi: erano 61.861 i detenuti presenti al 31 dicembre 2024, a fronte di una capienza complessiva di 51.312 posti. Ciò comporta un sovraffollamento del 120,5%. Leggermente meglio rispetto al 2023 (121,3%), ma è una magra consolazione. La più “affollata” è la Lombardia, con 8.840 detenuti (circa la metà stranieri), stipati in celle che possono garantire al massimo 6.148 posti. Molteplici, secondo la Corte dei Conti, le cause dei ritardi nei lavori: dalle inadempienze contrattuali da parte delle imprese, ai mutamenti repentini delle esigenze detentive rispetto al passo dei lavori, fino alle carenze nei finanziamenti necessari per attuare le modifiche progettuali, con la necessità - è il richiamo ulteriore dei giudici contabili - di applicare il principio dell’individualizzazione della pena, che impone una corretta collocazione dei detenuti all’interno delle strutture in base alla loro condizione giuridica e alle esigenze trattamentali. All’Amministrazione si è pertanto raccomandato, conclude il documento, di predisporre fin dall’inizio stime realistiche dei costi, accompagnate da una pianificazione efficace delle risorse e dalla definizione di linee guida per le strutture penitenziarie, coerenti con gli standard minimi europei e internazionali. Al nuovo Commissario straordinario si chiede di tenere conto delle criticità emerse dall’indagine e di assicurare un attento monitoraggio degli interventi nel rispetto dei cronoprogrammi procedurali e finanziari, per evitare ulteriori ritardi e criticità operative. Le reazioni politiche non si sono fatte attendere. “La relazione della Corte dei Conti conferma, punto per punto, ciò che da anni denunciamo inascoltati: il fallimento strutturale del Piano Carceri, l’incapacità di realizzare interventi già finanziati e programmati, e la totale assenza di una visione coerente per la gestione della popolazione detenuta - dichiara Fabrizio Benzoni, deputato di Azione -. È ora evidente anche ai giudici contabili che il problema non è solo il sovraffollamento, ma un sistema penitenziario abbandonato, con strutture fatiscenti, cantieri mai completati, progetti lasciati a metà, e una programmazione basata su stime irreali e approssimative. Le carceri italiane, in molte regioni, sono al limite dell’emergenza umanitaria. Manca tutto: spazi vivibili, assistenza sanitaria adeguata, percorsi trattamentali reali. I dati sui suicidi e sui decessi parlano chiaro e non possono più essere ignorati. Chiediamo impegni precisi, una regia politica forte, una pianificazione concreta delle risorse e un monitoraggio rigoroso degli interventi”. “Carceri inumane”. E l’Olanda nega l’estradizione in Italia di Simona Musco Il Dubbio, 6 maggio 2025 La decisione riguarda un 26enne accusato di aver procurato la morte di tre ragazzi a Milano. Le condizioni attuali delle carceri italiane, caratterizzate da sovraffollamento, alti tassi di suicidi e strutture inadeguate, non sembrano molto distanti dalla situazione descritta nel 2013 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che, con la sentenza Torregiani, ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti. Ed è per questo motivo che Washi Laroo, cittadino olandese di 26 anni accusato di omicidio volontario, incendio e tentata estorsione dalla procura di Milano, non verrà estradato nel nostro Paese. Non ora, perlomeno, almeno fino a quando il ministero della Giustizia non sarà in grado di fornire garanzie adeguate su una carcerazione che rispetti la dignità umana. Questa, in sostanza, è la risposta fornita dall’Olanda alla richiesta avanzata dalla procura guidata da Marcello Viola, che indaga sull’incendio doloso divampato in uno showroom di via Cantoni a Milano, “Li Junjun”, costato la vita a tre giovani di origini cinesi: Pan An, 24 anni, Yinjie Liu, 17, e Yindan Dong, 18. Il pubblico ministero milanese Luigi Luzi, che coordina le indagini insieme al procuratore Viola, aveva richiesto tramite il ministero alle autorità giudiziarie olandesi la consegna temporanea di Laroo, al fine di permettergli di partecipare a procedimenti di indagine irripetibili, come previsto dal codice. Ma l’Olanda adotta un approccio severo riguardo all’estradizione verso Stati che presentano problematiche nel loro sistema penitenziario, in linea con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Ue, motivo per cui la decisione dipenderà dalla capacità dello Stato di garantire un trattamento umano, cosa che allo stato attuale non pare essere in grado di fare. La situazione delle carceri italiane, secondo l’Olanda, non è molto diversa da quella stigmatizzata nel 2013 dalla Cedu, quando i detenuti erano 62.536 su 47.709 posti disponibili e l’Italia venne condannata per le condizioni di detenzione in alcuni istituti italiani, ritenute inumane e degradanti. In molti casi, i detenuti disponevano di meno di 3 metri quadrati di spazio personale, soglia minima stabilita dalla giurisprudenza della Corte. Un problema non isolato, ma sistemico e strutturale in tutto il sistema penitenziario italiano, secondo la Cedu, che l’Italia avrebbe dovuto risolvere in un anno, adottando misure concrete per migliorare le condizioni detentive. La situazione, a oltre dieci anni da quella sentenza, non è però migliorata. Così i giudici olandesi hanno chiesto “garanzie dall’Italia sulle condizioni delle carceri” per dare il nulla osta al trasferimento di Laroo, che in Olanda è accusato di altri reati, tra cui rapine, furti, possesso di armi da fuoco, tentato rapimento e traffico di sostanze stupefacenti. La decisione era stata già rinviata a maggio, a seguito della “preoccupazione” espressa dai giudici per il sovraffollamento delle carceri italiane e per l’alto numero di suicidi, come documentato inun rapporto del Consiglio d’Europa dello scorso ottobre. Da qui la richiesta di prove che tale situazione “sia migliorata”, risposta che al momento, a quanto pare, non c’è. Ma anche se Laroo venisse condannato in Italia, per il giudice di Amsterdam il giovane dovrebbe comunque scontare la detenzione in Olanda “per motivi di reintegrazione sociale”. La situazione carceraria olandese è, d’altronde, ben diversa da quella italiana: le carceri sono addirittura costrette a chiudere a causa del basso livello di criminalità. Un risultato raggiunto, secondo gli esperti, grazie all’attenzione rivolta alla riabilitazione piuttosto che alla detenzione. E le celle sono decisamente diverse da quelle italiane: ognuna è fornita di bagno privato, televisione, scrivania e frigorifero e i detenuti condannati a una lunga detenzione possono dedicarsi ad attività come la cura dell’orto e l’allevamento di animali. Un modo di intendere la detenzione diametralmente opposto a quello italiano, dove si è arrivati a mettere in discussione l’articolo 27 della Costituzione e lo stesso fine rieducativo della pena. Di fronte ai rapporti sulla situazione italiana, tra cui quelli di Antigone, l’Olanda ha dunque preso tempo. I dati a cui fanno riferimento i giudici sono quelli del Comitato per la prevenzione della tortura, che al 25 novembre 2024 aveva censito 62.410 detenuti su una capienza di 51.165, ma 46.771 posti effettivi, con un indice di affollamento superiore al 133%. Questo indice varia, però, da carcere a carcere, in base all’inagibilità di diverse camere o intere sezioni detentive, come nel caso di Milano San Vittore, dove l’indice di sovraffollamento è del 231,49%. Sono in totale 151 gli istituti con un indice di affollamento superiore al consentito; in 60 di questi, l’indice supera il 150%. E nel 2025 si è già registrato un suicidio ogni tre giorni. Condizioni ritenute inaccettabili dall’Olanda, ma anche dagli standard internazionali. La situazione, oltretutto, non sembra migliorare ed è aggravata dalla costante crescita della popolazione carceraria, dovuta anche alla creazione di nuovi reati. Le autorità olandesi hanno ora reso l’estradizione di Laroo condizionata alla garanzia che la sua detenzione rispetti gli standard fissati dalla Cedu, inclusi i 4 metri quadrati minimi per detenuto richiesti dal Comitato per la prevenzione della tortura. Toccherà al ministro Carlo Nordio, ora, trattare con le autorità olandesi per trovare una soluzione a questa situazione. In 400 tra volontari e detenuti rimuovono assieme oltre 3.700 kg di plastica e rifiuti ? plasticfreeonlus.it, 6 maggio 2025 Successo dell’iniziativa organizzata da Plastic Free Onlus e Seconda Chance che ha coinvolto 114 detenuti in permesso premio in 10 regioni. Sabato 3 maggio, oltre 400 volontari, tra cui 114 detenuti in permesso premio provenienti da 16 istituti penitenziari italiani, hanno preso parte a una straordinaria giornata di pulizia ambientale in 12 località di 10 regioni, promossa da Plastic Free Onlus in collaborazione con Seconda Chance. L’iniziativa ha portato alla rimozione di circa 3.700 kg di plastica e rifiuti da spiagge, parchi, strade e aree urbane, dimostrando come il rispetto per l’ambiente e il reinserimento sociale possano camminare insieme. L’azione si è svolta simultaneamente a Bari, Napoli, Sabaudia (LT), Padova, Massa, Vasto (CH), Palmi (RC), Teramo, Viterbo, Osimo (AN), Avola (SR) e Cagliari, coinvolgendo detenuti accompagnati dai loro educatori, volontari e referenti Plastic Free. Grazie al supporto della Magistratura di Sorveglianza, dei Comuni, delle aziende locali di gestione rifiuti e di altre associazioni territoriali, ogni tappa si è trasformata in un’esperienza di comunità, lavoro di squadra e cittadinanza attiva. “Non si tratta solo di pulire - commenta Flavia Filippi, presidente e fondatrice di Seconda Chance - ma di dare un significato profondo a ogni gesto. Queste giornate offrono una pausa di umanità e dignità, sono momenti di relazione, ascolto, e spesso anche di emozione per chi non vede il mare o un bosco da anni. Siamo orgogliosi di aver messo in rete così tante realtà e di vedere che il cambiamento passa davvero dall’inclusione”. L’iniziativa si inserisce nel più ampio progetto di responsabilizzazione e reinserimento portato avanti da Seconda Chance, che in questi anni ha raccolto oltre 520 offerte di lavoro attive per i suoi beneficiari in tutta Italia. “La giornata del 3 maggio è la conferma che quando l’associazionismo si apre e si allea, crea valore - aggiunge Lorenzo Zitignani, direttore generale di Plastic Free -. I nostri eventi vogliono essere un ponte tra ambiente, legalità e società civile. Abbiamo costruito una sinergia che ci emoziona e ci responsabilizza. A far del bene non si sbaglia mai”. Visti i risultati e la grande partecipazione, Plastic Free e Seconda Chance annunciano una nuova mobilitazione congiunta per il prossimo autunno, con l’obiettivo di coinvolgere ancora più territori, scuole, istituti penitenziari e cittadini. Perché costruire comunità inclusive e territori più puliti è possibile. Insieme. L’UCPI in piazza contro il Decreto Sicurezza e i Garanti scrivono a Mattarella di Angela Stella L’Unità, 6 maggio 2025 Domani penalisti in piazza a Roma dopo tre giorni di sciopero, sarà presente anche il magistrato leader di Areadg Zaccaro. Il 31 grande manifestazione nazionale della rete di associazioni. I garanti dei detenuti chiedono un incontro al Capo dello Stato. Si terrà domattina a partire dalle 9:30 a Roma presso Piazza Santi Apostoli la manifestazione nazionale contro il Decreto sicurezza, organizzata dall’Unione Camere Penali Italiane. Nel corso della manifestazione interverranno rappresentanti dell’avvocatura, dell’accademia, della società civile e della politica. La giornata sarà la terza ed ultima di astensione proclamata per criticare il provvedimento, attualmente in discussione nelle Commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia della Camera. “Non si può non denunciare l’abuso della decretazione d’urgenza in considerazione della evidente mancanza delle condizioni che ne legittimano l’utilizzo, ma in particolare con riferimento alla riproposizione di norme già da più parti sottoposte a severe critiche, mentre era in corso un’ampia e approfondita discussione davanti al Parlamento”, hanno scritto le Camere penali nella delibera con cui è stato proclamato lo sciopero. “Nonostante le modifiche - secondo i penalisti - restano di fatto intatte tutte le critiche del ‘pacchetto sicurezza’ denunciate dall’Unione delle Camere Penali Italiane relative alla inutile introduzione di nuove ipotesi di reato, ai molteplici sproporzionati e ingiustificati incrementanti di pena, alla introduzione di aggravanti prive di alcun fondamento razionale, alla sostanziale criminalizzazione della marginalità e del dissenso e alla introduzione di nuove ostatività per l’applicazione di misure alternative alla regolamentazione”. Sarà presente anche Giovanni Zaccaro, Segretario della corrente dell’Anm, Areadg: “La sicurezza è una priorità democratica se serve a garantire i diritti ed i bisogni delle persone. Se invece, in suo nome, si mettono a repentaglio i diritti e le garanzie, non si chiama più sicurezza ma autoritarismo”, ha detto il magistrato. Intanto ieri e oggi sono state organizzate diverse iniziative sul territorio dalle singole Camere penali per dibattere del tema. Sempre ieri la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà ha approvato un documento “di dura critica del decreto legge sicurezza, che rischia di aggravare la situazione di sovraffollamento nelle carceri e di alimentare tensioni tra i detenuti e gli operatori”. Nel corso dell’assemblea, il Portavoce della Conferenza, il Garante della Campania, Samuele Ciambriello, ha comunicato di aver inviato una lettera al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per chiedere un incontro, per poter riferire le preoccupazioni e le proposte dei Garanti territoriali. Ma l’appuntamento più importante sarà il 31 maggio nella capitale quando ci sarà una grande manifestazione nazionale, organizzata dalla rete No Ddl Sicurezza insieme a tutte le realtà che in questi mesi hanno criticato il provvedimento che porta la firma di Meloni, Piantedosi, Nordio, Crosetto, Giorgetti. Tra queste anche tutti i giuspubblicisti autori dell’appello “Per una sicurezza democratica”. Secondo i docenti di moltissime università italiane il decreto sicurezza “viola le prerogative costituzionali garantite al Parlamento e, nel merito, punta a reprimere il dissenso e comprime alcuni diritti fondamentali, tassello fondamentale in qualunque democrazia”. L’appello, che ha superato le 8000 sottoscrizioni, si può firmare su https://www.articolo21.org. Con il Decreto Sicurezza il Governo ignora lo Stato di diritto e maltratta la Costituzione di Glauco Giostra* Il Domani, 6 maggio 2025 A inquietare è la disinvolta arroganza istituzionale con cui si porta avanti questo intervento nel settore penale, utilizzando anche in modo improprio la decretazione d’urgenza e inaugurando una prassi che autorizza il governo a legiferare in luogo del Parlamento. Nel decreto Sicurezza all’esame del parlamento per la conversione in legge ci sono aspetti politicamente censurabili e aspetti democraticamente preoccupanti. Sotto il primo profilo, salvo pochissime eccezioni (ad esempio, in materia di custodia cautelare e di lavoro durante l’esecuzione penale), il puzzle normativo del provvedimento in esame ha un denominatore teleologico comune: la tutela della sicurezza. Estrarre dal cilindro legislativo figure di reato di nuovo conio; inasprire le pene per quelli già esistenti; criminalizzare anche la protesta non violenta dei soggetti ristretti in condizioni disumane; introdurre ulteriori ipotesi di ostatività alla fruizione delle alternative al carcere; ipertutelare le forze dell’ordine, sono note diverse dello stesso spartito. Coerentemente con il mantra di questa maggioranza, che, complice una narrazione mediatica allarmistica e sensazionalistica, lucra elettoralmente sulle paure della gente, anche questo provvedimento per più profili distonico rispetto a uno Stato di diritto usa il passepartout della tutela della sicurezza pubblica; locuzione “messa lì a fare da parafulmine” - per dirla con André Gide - e incollata sul provvedimento “come certe etichette con la scritta “sciroppo” o “gazzosa” sulle bottiglie di whisky durante il proibizionismo”. Una lenzuolata di novità normative ad alta illiberalità ed a bassa efficienza, espressione di quel demagogico giustizialismo, che altro non è se non il cugino del populismo che ha studiato legge. A inquietare, invece, è la disinvolta arroganza istituzionale con cui si porta avanti questo intervento nel settore più incidente sulle libertà dei consociati. Il governo si era correttamente incamminato lungo l’unica strada percorribile, quella cioè del disegno di legge sottoposto al confronto parlamentare. Poi, l’asperità del percorso, gli autorevoli giudizi critici ricevuti da autorità europee, da esperti delle Nazioni unite, dal Quirinale, dalla magistratura, dall’avvocatura e dall’accademia, nonché la maldissimulata contrarietà di una parte della compagine governativa a ogni modifica del provvedimento in questione che ne mitigasse la drasticità punitiva e discriminatoria, lo hanno indotto a escogitare un imbarazzante espediente: la scorciatoia del decreto legge. La scorciatoia - C’era, tuttavia, l’ostacolo di una norma costituzionale fondativa della separazione dei poteri, in forza della quale il governo non può di propria iniziativa emanare decreti con valore di legge, “salvo casi straordinari di necessità e di urgenza” (articolo 77 della Costituzione). Ostacolo scavalcato con disarmante disinvoltura: di colpo tutte le disparate novità sono state immotivatamente “battezzate”, nel preambolo giustificativo del decreto legge, come necessarie e urgenti; ad alcune viene anche attribuita la straordinaria necessità ed urgenza, con ciò implicitamente riconoscendo che le altre non sono nemmeno a parole rispettose della Costituzione. Se poi, spigolando tra le norme del decreto legge, ci si imbatte in disposizioni con cui il governo si autoassegna sessanta giorni (articolo 33) o dodici mesi (articolo 37) per emettere regolamenti volti a disciplinare la materia rispettivamente in oggetto, si avverte quasi un dileggio del precetto costituzionale. Ove con questa operazione si inaugurasse una prassi che autorizza il governo a legiferare in luogo del parlamento, sol che si premuri di affermare tautologicamente l’esistenza della necessità e urgenza del proprio intervento, crollerebbe la colonna portante della nostra democrazia costituzionale: la separazione dei poteri. Si dirà che non è il caso di drammatizzare; che si è trattato di un incidente di percorso. Ci auguriamo davvero che solo di questo si tratti. Purtroppo, però, l’episodio si accompagna ad altre manifestazioni di insofferenza rispetto alle garanzie dello Stato di diritto, quali ad esempio: la frequente delegittimazione della magistratura e di singoli magistrati quando vengono pronunciate sentenze non in linea con l’azione di governo; la pubblica stigmatizzazione e l’oscura intercettazione di giornalisti scomodi; il condizionamento del servizio pubblico televisivo; l’intimidazione nei confronti di chiunque manifesti dissenso, persino di coloro che si limitano a proclamare la fedeltà alla Costituzione nata dalla Resistenza. Sono queste ed altre espressioni di intolleranza rispetto ad alcuni presidi di democrazia che suscitano inquietudine. Per questo, l’attuale usurpazione da parte del governo della funzione legislativa, tanto più in materia penale, preoccupa. Si intuisce il pericolo di una deriva autocratica. “Così come il cane - scriveva Sciascia - sente nella traccia del porcospino, prima ancora di avvistarlo, lo strazio degli aculei, e lamentosamente guaisce”. *Professore emerito di Procedura penale Università Sapienza di Roma La dittatura del vittimismo: quando il desiderio di giustizia si trasforma in sete di vendetta di Cristiano Cupelli* Il Riformista, 6 maggio 2025 Il dibattito sviluppatosi nelle ultime settimane, stimolato tanto dalla proposta di introdurre un’autonoma figura di reato di femminicidio quanto dall’approvazione del decreto-legge n. 48 del 2025, offre una formidabile occasione per interrogarsi se davvero il troppo (e male) punire rappresenti esclusivamente il frutto di spregiudicati calcoli elettorali e vada pertanto ricondotto alle sole responsabilità del decisore politico o se, sullo sfondo, si possano intravedere matrici ulteriori. La bulimia punitiva - Da tempo viene denunciato il dilagare, apparentemente inarrestabile, di una coazione ad ampliare la sfera del penalmente rilevante attraverso la frenetica introduzione di nuove fattispecie incriminatrici, mossa dall’obiettivo di inseguire continue emergenze e placare discutibili ansie securitarie. Il fenomeno, efficacemente ribattezzato “bulimia punitiva”, si traduce in una produzione normativa schizofrenica, ancorata non a effettivi bisogni di tutela ma alla ricerca spasmodica di rendite politico-elettorali: nuovi reati e aumenti di pena quali strumenti di acquisizione del consenso, diretti a massimizzare l’impatto simbolico del loro annuncio per sedare bisogni emotivi di sicurezza e offrire all’opinione pubblica - anche tramite una politica dell’informazione compiacente - la rassicurante sensazione di tenere tutto sotto controllo. La severità dello strumento penale viene così percepita come la risposta più immediata e confortante a problemi complessi, a prescindere dall’effettiva idoneità a risolverli e dalle concrete ricadute di ordine sistematico: ingolfamento del catalogo dei reati, sovraccarico della macchina giudiziaria, drammatica moltiplicazione dei costi economici e umani per indagati destinati a sofferenze preventive inutili e sproporzionate. Al cospetto di questo scenario - e tutto ciò condiviso - occorre provare a fare un passo avanti, guardando al di là del comodo refrain delle colpe della politica e dello scadimento del modello rappresentativo. Sia chiaro: il panpenalismo è un fenomeno degenerativo serio e attuale delle società contemporanee, alimentato dalla combinazione tra l’istinto verso una pervasività del penale in ogni piega delle relazioni sociali, la pulsione emotiva e la fascinazione verso la creazione di nuovi reati; si tratta di fattori che possono prendere il sopravvento sulla preliminare considerazione dell’esistente e sulla serena disamina della realtà fattuale e legislativa, alimentando la proliferazione di fattispecie penali simboliche e ineffettive. La dittatura del vittimismo - Senonché, allontanandoci dalle contingenze e ricordando che i rappresentanti non sono altro che lo specchio dei rappresentati - e dunque le rispettive responsabilità non possono essere disgiunte -, non si può fare a meno di inquadrare la questione in un più ampio contesto sociale, rilevando come questa moderna passione punitiva corrisponda a un sentimento profondamente radicato nella società di oggi, nella quale il desiderio di giustizia si trasforma in sete di vendetta e la ricerca della verità diviene una formula vuota e stereotipata dietro la quale si cela la ricerca di un capro espiatorio da consegnare quanto prima alla dittatura del vittimismo; un’imperante tirannia, quest’ultima, che, abbondantemente enfatizzata dalla proiezione mediatica, pervade la quotidianità in nome dell’ancestrale e deresponsabilizzante canone per cui se qualcosa non è andata per il verso giusto è sempre colpa di qualcun altro, che va (quanto prima) individuato e (penalmente) sanzionato. Come arginare l’inflazione penalistica - Se davvero si vuole provare ad arginare la deriva, aprendo alle ragioni psicosociali, occorre che studiosi e tecnici del diritto si confrontino sull’esatta dimensione del fenomeno, indagando a tutto tondo le complessive matrici di questa inflazione penalistica. Non basta la semplice presa d’atto che punire troppo non rende la società più sicura, né tantomeno più tranquilla, puntando il dito solo verso gli opportunismi della politica. Di certo, non va dimenticato il contributo del diritto giurisprudenziale, che alimenta una non indifferente variante di panpenalismo giudiziario ogniqualvolta, ravvisata l’esigenza di colmare asseriti vuoti di tutela, interviene in supplenza, sul presupposto che il potere legislativo sia stato esercitato in maniera inadeguata o maldestra, lasciando impunite condotte ritenute invece meritevoli di sanzione e quindi bisognose di una “ripenalizzazione” per via interpretativa. La prospettiva, da cui muovere e su cui investire, è dunque più ampia. Certamente impone di diffondere i limiti dello strumento penale, di chiarire alla politica e ai cittadini, al di fuori della contrapposizione ideologica, i termini effettivi della capacità preventiva e orientativa delle fattispecie incriminatrici e di invocare uno sforzo in termini di capacità auto-limitativa del potere giudiziario, chiamato a privilegiare la corretta applicazione dei princìpi che governano l’imputazione penale alle seduzioni palingenetiche. Ma per non risultare vano, l’impegno deve essere accompagnato da uno sforzo ulteriore: studiare, comprendere e superare il dogma vittimistico che dalle viscere del senso di fallimento individuale arriva ormai a condizionare le scelte politico-criminali e la stessa fisionomia del processo penale. Richiamare il potere legislativo e giudiziario a non assecondare l’ansia collettiva di individuare - sempre e comunque - un responsabile rappresenta solo il primo passo *Professore ordinario di diritto penale, Università di Roma Tor Vergata Limite dei 45 giorni per le intercettazioni, è ancora lite Anm-Forza Italia di Valentina Stella Il Dubbio, 6 maggio 2025 Si riaccende la polemica tra politica e magistratura, o meglio tra l’ala più garantista della maggioranza, cioè Forza Italia, e l’Anm. Pomo della discordia: la nuova disciplina sulle intercettazioni. Tutto ha inizio con una recentissima circolare del procuratore di Messina, Antonio D’Amato, avente ad oggetto “Linee guida interpretative” della legge che prevede che le intercettazioni telefoniche e ambientali non possano avere una durata complessiva superiore a quarantacinque giorni - fatta eccezione per i reati di criminalità organizzata - a meno che non emergano, nel primo mese e mezzo di “ascolti”, elementi “specifici e concreti”. Secondo D’Amato, pm che fa riferimento a “Magistratura indipendente” e che è stato togato Csm nella precedente consiliatura, quel limite “ordinario” di durata delle intercettazioni non riguarderebbe però i procedimenti per corruzione e altri delitti contro la pubblica amministrazione. L’iniziativa di D’Amato ha suscitato l’immediata reazione di alcuni parlamentari di Forza Italia. Secondo Enrico Costa, “è inaccettabile che, ogni volta che il legislatore presenta una norma, questa venga stravolta da interpretazioni elusive da parte della magistratura”. Da qui la replica dell’Anm: “La polemica legata alla nuova normativa in tema di intercettazioni non ha alcuna ragion d’essere. Alcuni parlamentari hanno lamentato un’interpretazione ‘ creativa’ da parte della recalcitrante Procura di turno, volta a boicottare le intenzioni del legislatore, sottraendo i delitti di concussione, corruzione e simili alla disciplina che limita gli ascolti a 45 giorni”. In realtà, sostiene la giunta presieduta da Cesare Parodi, “la disciplina delle intercettazioni relativa a questi gravi delitti è la stessa prevista per la criminalità organizzata fin dal 2017, per espressa e inequivocabile disposizione di legge. È evidente, pertanto, che non vi è stata, da parte dei magistrati, alcuna interpretazione diretta a svuotare la volontà del legislatore, bensì mera applicazione della legge vigente. Sarebbe stato superfluo, ma si rende purtroppo necessario, ribadire che se una norma non è stata abrogata deve essere applicata. È viceversa doveroso sottolineare che, se l’intenzione del legislatore di sottrarre i reati contro la pubblica amministrazione alla più rigorosa disciplina in tema di intercettazioni non è stata fedelmente trasfusa nel testo di legge, non può addossarsi alcuna responsabilità alla magistratura”, hanno concluso le toghe. Tanto basta per una replica nel merito e nel metodo da parte del deputato azzurro, e capogruppo in commissione Giustizia, Tommaso Calderone: “L’articolo 6 estende la applicazione dell’articolo 13 Dl 152/ 91 ai reati contro la Pa. Ma la legge approvata fa riferimento ai reati previsti al comma 1 dell’articolo 13, e cioè ai reati di criminalità organizzata e minacce per mezzo del telefono. Non fa riferimento a tutti i reati richiamati con specifiche norme a cui si applica l’articolo 13. La neonata legge fa riferimento solo ai reati previsti dall’ articolo 13 e non ai reati a cui si applica l’articolo 13. L’articolo 6 della legge del 2017 si limita a richiamare l’articolo 13 per la applicabilità e applicazione della deroga alle norme procedurali sulle intercettazioni. Se il legislatore avesse voluto escludere, dalla limitazione delle intercettazioni, i reati contro la Pa lo avrebbe specificato. Avrebbe scritto ad esempio che “l’articolo 267 comma 3 non si applica ai reati previsti dall’ articolo 13 comma 1 e ai reati previsti dall’ articolo 6 della legge del 2017”. Calderone poi replica all’Anm: “Io non ho fatto alcuna polemica, respingo e rispedisco al mittente questa lettura dei fatti. Io ho fornito un parere tecnico. Però a questo punto aggiungo: se i magistrati ritenevano che la norma fosse chiara non si comprende per quale ragione abbiano avvertito l’esigenza di fare una circolare. È inaudito, inoltre, che una Procura si rivolga direttamente ai giudici per indicare come applicare una legge appena entrata in vigore. Sembra che le leggi le scrivano direttamente le Procure e che i giudici non siano in grado da soli di interpretare la norma”. Il riferimento del parlamentare è al fatto che il procuratore di Messina ha indirizzato la circolare non solo ai suoi sostituti ma anche al presidente del Tribunale di Messina, “per l’eventuale diffusione tra i giudici”. Così come ai presidenti del Coa e a della Camera penale della città siciliana. Comunque adesso sia Calderone che Costa fanno sapere che il legislatore provvederà a scrivere una norma di interpretazione autentica in un prossimo provvedimento, che potrebbe essere anche il Dl sicurezza. Forza Italia attacca i pm di Messina sulle intercettazioni, ma il problema è il metodo usato dalla maggioranza di Ermes Antonucci Il Foglio, 6 maggio 2025 La polemica tra i forzisti e il procuratore di Messina attorno alla legge Zanettin dimostra i danni prodotti dall’approvazione frettolosa, in modo “blindato”, delle riforme in Parlamento. Parafrasando il proverbio, il legislatore frettoloso fa le norme cieche. Se ne sta accorgendo la maggioranza meloniana, abituata ad approvare in Parlamento, in fretta e furia, testi “blindati”. Lo dimostra quanto sta avvenendo attorno alla riforma, approvata lo scorso marzo, che fissa a 45 giorni il limite per realizzare intercettazioni, salvo alcune deroghe (come i reati di mafia e terrorismo). Forza Italia, che aveva voluto fortemente la riforma, è insorta contro una circolare adottata dal procuratore di Messina, Antonio D’Amato, con le linee guida per i magistrati su come interpretare le nuove norme. A far protestare i forzisti è soprattutto l’inserimento da parte di D’Amato dei reati contro la Pubblica amministrazione nell’elenco dei delitti ai quali non si applica il limite dei 45 giorni. Secondo Enrico Costa, deputato di Forza Italia e relatore della legge (proposta dal senatore Pierantonio Zanettin), l’interpretazione di D’Amato “stravolge la volontà del legislatore”. Costa sottolinea come l’obiettivo della norma fosse infatti quello di ridurre l’abuso delle intercettazioni prolungate nei procedimenti, lasciando deroghe solo per reati di mafia e terrorismo. Questa volta le critiche del buon Enrico Costa, tra i pochi portatori in Parlamento di una visione garantista, appaiono però infondate, e più dovute al caos generato dall’approvazione frettolosa delle proposte di legge. La riforma Zanettin prevede che, dopo i primi 45 giorni, gli inquirenti possano continuare a intercettare soltanto se sono emersi “elementi specifici e concreti” che confermano l’assoluta indispensabilità delle captazioni. A questa procedura ordinaria se ne affianca però un’altra speciale, alla quale non si applica il limite dei 45 giorni. Si tratta dei reati che ricadono sotto la disciplina prevista dall’art. 13 del decreto legge n. 152/1991: reati di criminalità organizzata, terrorismo, traffico illecito di rifiuti, sequestro di persona a scopo di estorsione, i reati informatici e infine i reati contro la Pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni” (per effetto delle disposizioni contenute nel d.lgs. 9 dicembre 2017, n. 216). Che il limite dei 45 giorni non si sarebbe applicato ai reati contro la Pa, proprio per effetto delle disposizioni del 2017, era stato evidenziato nel novembre 2024 in commissione Giustizia alla Camera, nel corso delle audizioni conoscitive della riforma Zanettin, da magistrati come Raffaele Cantone (procuratore di Perugia), Maurizio De Lucia (procuratore di Palermo) e Pasquale Fimiani (avvocato generale presso la Corte di cassazione), e da giuristi come Gian Luigi Gatta. Questi pareri sono stati ignorati, anche perché nel frattempo i leader della maggioranza, come riferiscono al Foglio diversi parlamentari, avevano deciso di “blindare” il provvedimento, cioè di puntare alla sua seconda e definitiva approvazione alla Camera, senza accettare emendamenti che avrebbero imposto di tornare al Senato. L’interpretazione fornita quindi ora dal procuratore D’Amato (tra l’altro non una toga rossa, ma esponente storico della corrente moderata di Magistratura indipendente) risulta perfettamente in linea con quanto previsto dalla riforma. Entrata in vigore la legge, però, Forza Italia scopre ora che questa non è in linea con le proprie preferenze, tanto da valutare l’approvazione - magari dentro al decreto sicurezza - di una norma che garantisca “un’interpretazione autentica”. Che poi autentica non sarebbe. Quanto avvenuto attorno alla riforma Zanettin segnala il rischio che si corre approvando riforme in modo “blindato”. È avvenuto con le norme in materia di sicurezza, contenute in un ddl e improvvisamente trasfuse in un decreto (già entrato in vigore) dopo un anno e mezzo di discussione in Parlamento, senza tener conto delle profonde criticità costituzionali del testo evidenziate da giuristi, magistrati e avvocati. Sta avvenendo con la riforma costituzionale della magistratura, tanto voluta dal ministro Nordio. Blindata anche questa, nonostante la presenza di norme discutibili (come quelle sul sorteggio dei laici al Csm o sull’Alta corte di giustizia), pur di fare in fretta. E pazienza se il risultato potrà essere un pasticcio. Una task force di 500 magistrati smaltirà (da remoto) l’arretrato di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 6 maggio 2025 Nonostante l’Ufficio per il Processo, il carico delle Cause civili non è diminuito, soprattutto in alcune sedi. Via Arenula corre ai ripari con una misura eccezionale. La data di scadenza del Pnrr si avvicina e l’abbattimento dell’arretrato nel settore della giustizia civile, uno dei principali obiettivi concordati con Bruxelles, resta problematico. I dati disponibili raccontano infatti che le vecchie pendenze non solo non sono diminuite ma in alcuni casi sono persino cresciute. E per porre rimedio a quello che suonerebbe come uno smacco a dir poco clamoroso per il Paese, il ministero della Giustizia ha deciso di mettere in campo una super task force di ben 500 giudici. Le toghe (non importa se attualmente si occupino di penale essendo sufficiente che in passato abbiano trattato anche materie civili) saranno applicate “da remoto” negli uffici giudiziari in questo momento in grave sofferenza, e che rischiano di far naufragare l’anno prossimo l’agognato raggiungimento dell’obiettivo della diminuzione del 40 percento dell’arretrato nel civile. L’applicazione sarà, come detto, solo da remoto. I magistrati che decideranno di far parte della task force non si sposteranno quindi dal loro ufficio, come avviene per le normali applicazioni, giacché effettueranno udienze solo cartolari o in video collegamento. Dovendo però retribuire comunque la loro applicazione, il ministero guidato da Carlo Nordio ha già ipotizzato lo stanziamento di circa 20 milioni di euro fino al prossimo anno. La palla è ora al Consiglio superiore della magistratura che dovrà in concreto realizzare questa maxi “applicazione” sull’intero territorio nazionale, in caso la proposta di via Arenula (da inserire in una prossima modifica alla legge numero 56 sul Pnrr dello scorso anno, ndr) ottenga il via libera da parte del Parlamento. Ma non dovrebbero esserci problemi. La soluzione proposta dal ministero della Giustizia può sollevare più di una perplessità. Tralasciando ogni considerazione, se pur opportuna, sul mutamento in corsa del giudice naturale, con la previsione che una causa possa essere decisa a mille chilometri di distanza dal luogo in cui era stata inizialmente incardinata, il nodo è nella ragione per cui, nonostante i miliardi di euro spesi in questi anni per la realizzazione dell’Ufficio per il processo, si debba adesso ricorrere al lavoro “straordinario” di ben 500 giudici. Il problema, fanno sapere alcuni consiglieri del Csm contattati dal Dubbio che preferiscono però l’anonimato per non fare polemiche, considerata la drammaticità della situazione (in ipotesi di non raggiungimento del Pnrr c’è anche la possibilità che i soldi spesi debbano essere in qualche modo restituiti), è “a monte”. “Non era meglio assumere dei magistrati e non stipulare migliaia e migliaia di contratti a termine?”, dice la fonte del Consiglio superiore. E aggiunge un aspetto che, se confermato, sarebbe difficilmente comprensibile: “Ad oggi, dopo quasi tre anni, non abbiamo dati che permettano di misurare realmente la produttività dei Tribunali e delle Corti d’appello che si sono giovati dell’Ufficio per il processo”. Va dato atto al Csm, quando si trattò nel 2021 di redigere un parere sul punto, di aver messo subito le mani avanti. “Appare evidente - scrissero i consiglieri dell’epoca - la sproporzione tra l’ambizioso obiettivo indicato nel Pnrr ossia di ridurre di circa il 40 per cento i tempi dei processi civili ed abbattere l’arretrato, e quelle che dovrebbero essere le sole nuove risorse umane immesse nel sistema giustizia, anche sprovviste di pregresse esperienze professionali, assunti con contratti a termine”. E poi: “La finalità della riduzione della durata del processo non debba essere realizzata a discapito del diritto di difesa di ogni parte del processo, nonché posta sostanzialmente a carico delle parti e dei difensori che dovrebbero fare i conti con aggravate responsabilità processuali connesse alla necessità di operare le scelte in un quadro processuali in un quadro difficilmente pronosticabile”, si poteva leggere ancora nel parere, in cui si sottolineava anche il “rischio concreto della lesione del diritto del cittadino alla difesa ed ad ottenere giustizia” riguardo le innumerevoli modifiche che erano state in parallelo introdotte per abbattere l’arretrato. “Diecimila neo laureati (poi saranno molti meno a causa delle numerose defezioni, ndr) dovranno affiancare il giudice ed aiutarlo a scrivere le sentenze. Oltre a loro, i laureati in giurisprudenza e materia economiche, l’ufficio del processo sarà composto dai giudici onorari e dai cancellieri. Tutti insieme e senza formazione”, disse sempre in quel periodo in un’intervista al Dubbio l’avvocato Stefano Cavanna, allora componente laico del Csm in quota Lega. “Ho fatto presente questa cosa, dell’Ottava commissione del Csm sulla magistratura onoraria, chiedendo di sapere “chi curerà la formazione di questi ragazzi?” e nessuno mi ha risposto. Ricordo che si tratta di assunzioni con contratti a tempo determinato di due anni ed otto mesi. Poi andranno a casa. I soldi, infatti, erano sufficienti solo per assunzioni di tale durata. Che succederà allora? Che ci saranno altre migliaia di precari nella pubblica amministrazione in cerca di un posto”, aggiunse un quanto mai “profetico” Cavanna. Caso Elmasry, il Governo risponde all’Aja. Ora Nordio è al bivio di Mario Di Vito Il Manifesto, 6 maggio 2025 L’autodifesa si intreccia con le conclusioni in arrivo del tribunale dei ministri. La memoria inviata alla Cpi decisiva per chiarire le possibili omissioni. Il caso Elmasry è arrivato a un doppio bivio giudiziario. Da un lato c’è la procura della Corte penale internazionale che vuole deferire l’Italia al Consiglio di sicurezza dell’Onu per non aver eseguito il mandato d’arresto spiccato nei confronti del torturatore libico, accusato di crimini di guerra e contro l’umanità. Dall’altro c’è il tribunale dei ministri, il cui lavoro è agli sgoccioli, che dovrà decidere se archiviare l’indagine o chiedere l’autorizzazione a procedere nei confronti della premier Meloni, del sottosegretario Mantovano e dei ministri Nordio e Piantedosi per peculato, favoreggiamento e omissione d’atti d’ufficio (questo solo per il Guardasigilli). Ieri, in anticipo di un giorno sull’ultima scadenza concordata, il governo ha inviato la sua memoria difensiva ai giudici dell’Aja. Il testo è stato stilato a palazzo Chigi e raccoglierebbe in buona sostanza quanto già detto da Nordio e da Piantedosi. L’accusa della Cpi è di non aver rispettato l’obbligo di collaborazione e di aver consentito a Osama Elmasry di tornare serenamente Libia, peraltro a bordo di un aereo di stato messo a disposizione la sera stessa della scarcerazione. Era il 21 gennaio quando la Corte d’Appello di Roma ha disposto la liberazione di Elmasry a causa della “irritualità dell’arresto” dovuta alla mancata interlocuzione con il ministero della Giustizia. Il fermo era avvenuto due giorni prima, a Torino, in esecuzione di una red notice diramata dall’Interpol il 18 gennaio. La questione delle date è dirimente: Elmasry era arrivato in Europa il 6 gennaio, partito da Tripoli verso Londra, con scalo a Fiumicino. Dopo essersi trattenuto nel Regno Unito fino al 13 gennaio, poi si è diretto a Bruxelles e il 16 gennaio è andato in Germania. L’ultima tappa prima di tornare a casa, in Italia, è stata all’Allianz Stadium di Torino per assistere alla partita di campionato tra la Juventus e il Milan. Il mistero è tutto nei rapporti che non ci sono stati tra la Corte d’Appello di Roma - competente sul caso - e il ministero della Giustizia, che pur sollecitato non ha mai risposto, portando i giudici, su richiesta del procuratore generale, a dichiarare il non luogo a procedere. Per Nordio l’atto della Corte penale internazionale presentava “gravissimme anomalie” tali da renderlo “radicalmente nullo”. Il nodo è nella legge 237 del 2012 secondo cui è il ministero della Giustizia a curare “in via esclusiva i rapporti di cooperazione tra lo Stato italiano” e L’Aja. In questo caso, però, via Arenula sostiene di essere stata esclusa sin da quando, alle 9 e 30 del mattino del 19 gennaio, la Digos di Torino ha tratto in arresto il libico. Di più, la comunicazione “pervenuta al ministero ad arresto già effettuato” avrebbe avuto diversi vulnus non solo formali. Ad esempio non era stata inviata l’opinione dissenziente all’arresto della giudice messicana Maria del Socorro Flores Liera, ma solo quella (favorevole) stilata dagli altri due membri del collegio. La Cpi, però, ribatte che l’Italia era stata informata del caso Elmasry già il 18 gennaio, quando un funzionario era stato mandato a consegnare l’incartamento all’ambasciata dell’Aja. Nordio, ad ogni buon conto, nega che si tratasse di una “richiesta di merito” e quindi non si può parlare di negligenza da parte sua, anche perché “c’erano criticità che avrebbero reso impossibile un’immediata richiesta alla Corte d’appello”. A questo passaggio è appesa anche una parte della decisione che dovrà prendere il tribunale dei ministri: c’è stata o no omissione d’atti d’ufficio da parte del ministero della Giustizia? La chiave del mistero è tutta in una spiegazione che sin qui nessuno ha dato: perché da via Arenula nessuno ha contattato la Cpi per chiedere delucidazioni sugli aspetti poco chiari del mandato d’arresto? I recapiti - email e numero di telefono - erano indicati nei documenti. Ma nessuno ha scritto e nessuno ha telefonato. E così Elmasry è tornato a Tripoli da uomo libero. Stefano Brunetti e le sue ultime parole: “Mi hanno menato le guardie” di Elisa De Marco La Stampa, 6 maggio 2025 Il processo a quattro agenti del commissariato di Anzio è finito con “tutti assolti”. Stefano Brunetti ha 43 anni quando viene fermato a Nettuno, l’8 settembre 2008, durante un tentativo di furto all’interno di un negozio di biancheria per la casa. Ne nasce una colluttazione con il proprietario dell’attività, e poco dopo arriva la polizia. Brunetti viene arrestato e condotto al commissariato di Anzio. È agitato, sembra in stato confusionale. Gli agenti dicono che si comporta in modo violento, che si scaglia contro porte e arredi della stanza dove è trattenuto. A quel punto, chiamano un medico: gli viene somministrato un calmante e viene disposto il suo trasferimento nel carcere di Velletri. Ma le cose, in realtà, non sono così semplici. Nella notte tra l’8 e il 9 settembre, Stefano Brunetti viene spostato in carcere intorno alle due del mattino. Qualche ora dopo, le sue condizioni peggiorano rapidamente. Il personale medico del carcere decide di trasferirlo in ospedale, dove arriva in stato già critico. Il medico che lo prende in carico, Claudio Cappello, gli domanda cosa sia successo. Stefano, a fatica, risponde: “Mi hanno menato le guardie del commissariato di Anzio”. È l’ultima cosa che riesce a dire. Morirà poche ore dopo. L’autopsia rivela due costole fratturate e una rottura della milza: è l’emorragia interna a ucciderlo. La Procura di Velletri apre un’indagine. L’ipotesi è omicidio preterintenzionale. Vengono iscritti nel registro degli indagati quattro agenti del commissariato: Salvatore Lupoli, Massimo Cocuzza, Daniele Bruno e Alessio Sparacino. Secondo l’accusa, Stefano sarebbe stato picchiato durante la detenzione e le sue condizioni sarebbero state aggravate da omissioni e falsi in atto pubblico. Il processo comincia nel 2011 davanti alla Corte d’Assise di Frosinone. La famiglia di Brunetti si costituisce parte civile. Ma la strada della giustizia si fa subito tortuosa. I quattro agenti si difendono, negano ogni responsabilità. La loro versione dei fatti parla di autolesionismo: secondo loro, Stefano avrebbe sbattuto più volte il torace contro gli arredi della cella. Nel 2013 arriva la sentenza di primo grado: tutti assolti. Il giudice stabilisce che non ci sono elementi certi per dimostrare un pestaggio. Non si può escludere, afferma la sentenza, che le lesioni siano state provocate durante la colluttazione con il commerciante, oppure da gesti autolesivi. La Procura ricorre in appello, ma anche la Corte d’Assise d’Appello conferma l’assoluzione. Infine, nel 2016, la Cassazione chiude il caso: assoluzione definitiva. Nessuno ha colpe. Nessuno paga. La famiglia di Stefano non solo non ottiene giustizia, ma si ritrova a dover sostenere anche le spese processuali. Le parole pronunciate da Stefano sul letto d’ospedale, le lesioni evidenti, il caos di quella notte - tutto viene spazzato via da un verdetto che non riconosce alcuna responsabilità. Oggi il nome di Stefano Brunetti è uno dei tanti associati ai casi di morte sotto custodia in Italia. Una vicenda che solleva interrogativi mai risolti sul trattamento dei fermati, sulla trasparenza nelle fasi di arresto e sulla difficoltà - troppo ricorrente - di ottenere risposte quando le vittime non hanno voce. Una morte che resta nel limbo tra la verità giudiziaria e il sospetto. E che lascia dietro di sé una sola certezza: Stefano Brunetti non c’è più. E per la sua morte, nessuno ha mai pagato. Processo Sabr, sentenza storica: la schiavitù in Italia esiste di Yvan Sagnet Il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2025 Ma i veri mandanti la fanno ancora franca. La sentenza della Corte di Cassazione riconosce per la prima volta il reato di riduzione in schiavitù nel contesto del lavoro agricolo, rappresentando così un precedente storico. Tredici anni fa, a Lecce, si apriva il processo “Sabr”, a seguito delle denunce sporte contro caporali e imprenditori agricoli che, per decenni, avevano sfruttato braccianti stranieri nelle campagne di Nardò. Un processo che mi ha visto tra i testimoni chiave. Il principale, tra i reati contestati, era quello di riduzione in schiavitù, previsto dall’art. 600 c.p. Una norma ambigua e di non semplice interpretazione. La sentenza della Corte di Cassazione riconosce per la prima volta il reato di riduzione in schiavitù nel contesto del lavoro agricolo, rappresentando così un precedente storico, destinato a fare scuola. Resta, tuttavia, l’amarezza per l’assoluzione dei mandanti, ovvero degli imprenditori italiani. A differenza degli intermediari - i cosiddetti caporali, spesso stranieri - non sono stati ritenuti penalmente responsabili per il reato di schiavitù, in quanto non direttamente coinvolti nelle modalità operative dello sfruttamento. Una decisione che non possiamo condividere, perché conferma, ancora una volta, che i più forti - in questo caso gli imprenditori agricoli - riescono il più delle volte a farla franca. Ma ciò che davvero segna questo processo è che la Corte Suprema ha finalmente accertato una verità scomoda: in Italia la schiavitù è una pratica tutt’altro che estinta, ma viva e vegeta e per troppo tempo negata. Per anni lo abbiamo denunciato, accendendo i riflettori sul fenomeno del caporalato e del grave sfruttamento, ma siamo stati spesso accusati di danneggiare l’immagine dell’Italia. Oggi possiamo dire che la nostra azione è servita e siamo fieri di aver dato il nostro contributo. *Ingegnere ed ex bracciante, Associazione NoCap Ancona. Detenuto morto in cella di isolamento: “Nessuna istigazione al suicidio” di Marina Verdenelli Il Resto del Carlino, 6 maggio 2025 La Procura ha chiesto l’archiviazione del caso dopo l’esposto della madre. La donna chiedeva di indagare sul gesto estremo del figlio Matteo Concetti. Si era ucciso in cella di isolamento, il 5 gennaio dello scorso anno, nel carcere di Montacuto, ora la Procura di Ancona ha chiesto l’archiviazione per la morte di Matteo Concetti, 25 anni, fermano. Il pm Marco Pucilli aveva aperto un fascicolo per istigazione al suicidio dopo che la madre del giovane aveva presentato un esposto, attraverso il suo avvocato Giacomo Curzi, sostenendo che il figlio, affetto da disturbi psichici era stato lasciato solo e non sarebbe dovuto finire in cella di isolamento. La donna chiedeva di indagare sul gesto estremo del figlio ravvisando possibili responsabilità da parte delle istituzioni. Per la Procura però, che aveva poi anche disposto l’autopsia sul corpo del giovane, non ci sono elementi per proseguire dal punto di vista penale. L’esame autoptico aveva confermato la morte per suicidio, “una asfissia meccanica violenta”. La richiesta di archiviare il caso è arrivata in questi giorni e i familiari del 25enne potranno decidere se opporsi o meno chiedendo ulteriori indagini. Ieri mattina intanto c’è stato un intervento per un tentato suicidio in centro. Qualcuno inizialmente ha pensato all’inseguimento di un ladro, altri ad una rapina per via delle sirene che, attorno alle 13, hanno iniziato a suonare insistentemente in centro. Non erano però per nessuna delle due ipotesi. Le volanti della polizia sono arrivate in emergenza in via Palestro dopo la chiamata fatta al 112 dove era stato indicato che c’era un uomo che voleva buttarsi da un palazzo. Gli agenti sono arrivati a sirene spiegate e hanno incrociato per la strada la persona che voleva suicidarsi. Era ferita alle braccia, probabilmente per gesti autolesionistici. Si è creato un po’ di trambusto ma poi l’uomo, di nazionalità romena, con problemi di droga, un paziente anche psichiatrico, è stato bloccato e fatto portare in ospedale. Bologna. Al Pratello un minorenne in isolamento per giorni: “In cella senza finestre e materasso” di Federica Nannetti Corriere di Bologna, 6 maggio 2025 Il garante Roberto Cavalieri ha visitato il carcere minorile dopo i disordini dei Pasqua e il caso di Antonio Pappalardo. Ha chiesto chiarimenti ai vertici della giustizia minorile: “Chi ha deciso la punizione?”. Sarebbe stato tenuto in isolamento, per cinque giorni, all’interno di una cella priva di materasso e senza finestre, perché le uniche presenti sarebbero state sigillate quale forma di punizione. A rendere note le condizioni in cui avrebbe vissuto nelle settimane passate un detenuto del carcere del Pratello e a chiedere chiarimenti, il garante regionale per i detenuti Roberto Cavalieri, in visita nei giorni scorsi all’istituto penale minorile di Bologna in seguito ai disordini di Pasqua; tensioni rispetto alle quali il garante ha fatto sapere di “non aver ricevuto alcuna comunicazione dalla direzione del carcere o dal centro giustizia minorile”. La richiesta di chiarimenti - Su questi punti - e non solo - Cavalieri ha dunque sollecitato un riscontro con una lettera inviata ai direttori dell’Ipm, del centro di giustizia minorile e al capo dipartimento giustizia minorile. Che la situazione fosse ancora delicata lo si era percepito anche nelle settimane successive la Pasqua: alcuni promotori della rivolta sono stati trasferiti, ma il numero di ragazzi presenti è tornato subito a sfiorare i 50 (ben al di sopra della capienza regolamentare); poi è arrivata la rimozione del dirigente della giustizia minorile ad interim per l’Emilia-Romagna, Antonio Pappalardo, in seguito all’indagine del ministero della Giustizia partita da alcuni post pubblicati sul suo canale Telegram contro Papa Francesco; ora l’avvicendamento del comandante della penitenziaria. Provvedimento punitivo - Come spiegato dallo stesso garante, che ha appreso dell’isolamento durante un colloquio con due giovani ristretti, un ragazzo sarebbe stato tenuto in una cella “senza finestra nel bagno e con finestre vicino al letto che, però, risultano essere sollevabili ed estraibili dalle cerniere fissate al muro. Sarebbero quindi state tolte come forma punitiva”. Da qui le ulteriori richieste del garante: quale il provvedimento alla base della disposizione dell’isolamento; la gestione del ragazzo durante quel periodo e se sia stata data comunicazione alla Procura minorile e al magistrato di sorveglianza. E poi, ancora, una richiesta di conferma sul fatto che, durante i disordini del 18 aprile, il comandante della penitenziaria sia “entrato nella cella dei ragazzi asserragliati con casco e manganello”. Il comandante rimosso - Comandante che, come anticipato nei giorni scorsi dalla Fp Cgil, è stato rimosso dall’incarico, dopo appena un paio di mesi dal suo arrivo, in concomitanza con l’apertura della sezione dei giovani adulti alla Dozza. Ai sindacati non sono ancora state fornite le motivazioni ufficiali del provvedimento, che è comunque arrivato in un contesto di complessa gestione dell’Ipm bolognese e di tensioni. Da ieri ha assunto l’incarico, ad interim con l’Ipm di Firenze, il comandante Mario Salzano, che sarà a Bologna un paio di giorni alla settimana e che dovrà occuparsi anche della sezione giovani della Dozza. Sindacati preoccupati - Una situazione, dunque, che continua a destare preoccupazione da più parti, anche nei vari sindacati di polizia penitenziaria, che hanno ricordato come al Pratello i cambi al vertice siano cosa frequentissima: “Per lungo tempo è mancato il comandante - ha ricordato Domenico Maldarizzi, segretario Uilpa -, mancano i sottufficiali e ora rischia di essere cambiato anche l’ispettore. L’unica figura stabile è il direttore Alfonso Paggiarino, che potrebbe però lasciare presto per la pensione”. “Serve una guida stabile”, un auspicio anche per il sindacato Sappe. Padova. Delmastro e Soranzo in visita al Due Palazzi: “Siamo di fronte a sfide strutturali” padovaoggi.it, 6 maggio 2025 La visita s’inserisce in un piano nazionale promosso dal Governo per affrontare le criticità più urgenti del sistema penitenziario italiano, a partire dal sovraffollamento, dalla carenza di personale e dalle condizioni di lavoro della Polizia penitenziaria. Il Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia, on. Andrea Delmastro Delle Vedove, è stato oggi in visita alla Casa di reclusione e alla Casa circondariale di Padova, accompagnato dal Vicepresidente del Consiglio regionale del Veneto, Enoch Soranzo. La visita s’inserisce in un piano nazionale promosso dal Governo per affrontare le criticità più urgenti del sistema penitenziario italiano, a partire dal sovraffollamento, dalla carenza di personale e dalle condizioni di lavoro della Polizia penitenziaria. Nel corso della mattinata, Delmastro e Soranzo hanno avuto occasione d’incontrare il personale della Polizia penitenziaria, i dirigenti degli istituti e le rappresentanze sindacali, dando ascolto alle esigenze specifiche del territorio e promuovendo un confronto costruttivo tra istituzioni e operatori. Appuntamenti come questi si collocano in un contesto nazionale segnato da numeri allarmanti: secondo i dati aggiornati al 26 gennaio 2025, il tasso di sovraffollamento carcerario in Italia ha superato il 132%. A fronte di una capienza regolamentare di poco più di 51 mila posti, le persone detenute sono 61.921. In Veneto, in particolare, sono presenti 2.722 detenuti, a fronte di una capienza di 1.938 posti, con un tasso di sovraffollamento pari al 140%. La percentuale di detenuti stranieri nella regione è del 51,8%, una delle più alte d’Italia. “La visita di oggi conferma l’importanza di mantenere alta l’attenzione sul sistema carcerario, che non può essere lasciato solo di fronte a sfide strutturali come il sovraffollamento e la carenza di risorse”, ha dichiarato il vicepresidente del Consiglio regionale Enoch Soranzo. “Oltre che a strutture più dignitose, massima attenzione deve essere riservata alla salute e alla sicurezza, sia per chi è detenuto sia per chi lavora ogni giorno negli istituti. Come Regione continueremo a fare la nostra parte, sostenendo ogni sforzo utile a migliorare le condizioni di detenzione e la qualità del lavoro degli operatori penitenziari” Modena. Il nodo delle carceri: “Necessario e urgente trovare più spazi” di Eugenio Tangerini Il Resto del Carlino, 6 maggio 2025 Il tema di giornata è la futura Cittadella della giustizia. Ma si finisce, inevitabilmente, per parlare anche dello scottante tema carceri. Il procuratore Luca Masini, sollecitato a fine evento dai giornalisti riguardo alle indagini sulla rivolta di alcuni anni fa a Sant’Anna, non si sottrae a una risposta sintetica: “Noi - dice - concluderemo tra poco tutto quello che dobbiamo concludere”. Molto più ampio, e con un profilo generale, il discorso del ministro Carlo Nordio. “Le carceri - osserva - sono un problema quotidiano, una delle nostre priorità che si riassume in una parola soltanto: spazi”. Quanto ai fondi, “c’è un commissario straordinario che ha poteri piuttosto estesi, con il compito di reperire risorse per ampliare le strutture”. I nuovi spazi potrebbero essere destinati al lavoro e allo sport, “elementi fondamentali per allentare la tensione”. Ma non è facile trovarli. Per questo il ministero sta pensando ad edifici compatibili, come le vecchie caserme dismesse. L’Italia, prosegue Nordio, non è la California o l’Arizona, “dove puoi costruire 500 moduli in un mese, piazzandoli nel deserto. Qui per rimuovere una porta all’interno del carcere di Regina Coeli abbiamo avuto un veto da parte delle Belle Arti: sono elementi vincolati”. Questo per capire “quanto sia difficile erigere o anche modificare strutture da destinare a carceri, però ce la stiamo mettendo tutta”. Il ministro, inoltre, annuncia in dirittura di arrivo “importanti provvedimenti che riguardano la possibilità di trasferire i detenuti tossicodipendenti in comunità terapeutiche per la detenzione differenziata. Più che delinquenti da punire - spiega - sono malati da curare”. Detto questo, il discorso torna al progetto di trasferimento di tutti gli uffici giudiziari modenesi nel complesso dell’ex Manifattura Tabacchi. “Un bell’evento per Modena”, dice Nordio ribadendo quanto in Italia “i vincoli idrogeologici, culturali e paesaggistici rendano sempre complesso posare o rimuovere un mattone”. Qui, invece, i tempi per avere la nuova Cittadella della giustizia dovrebbero essere ravvicinati proprio perché “ci sono tutti i presupposti logistici e organizzativi, ancora più importanti di quelli finanziari”. E ciò accade “grazie all’abilità, da parte dei protagonisti, nell’avere concordemente individuato un’area in cui non ci sono le problematiche cui ho accennato”. “La presentazione dell’iter per la nuova cittadella della giustizia di Modena è una notizia che attendevamo da tempo e che ora, grazie all’impegno del ministro Carlo Nordio e del presidente del Tribunale Alberto Rizzo prende finalmente forma. Si tratta di un progetto strategico che finalmente dà risposte concrete a un territorio in cui le gravi carenze strutturali del tribunale e della procura erano note da tempo”. Così Michele Barcaiuolo, senatore e coordinatore regionale Fdi, dopo la tappa modenese del ministro questa mattina. “Un plauso va al ministro Nordio - continua Barcaiuolo in una nota- che ha mantenuto alta l’attenzione su Modena e ha ribadito con chiarezza la volontà politica di accelerare i tempi e restituire alla città una sede giudiziaria moderna, funzionale, all’altezza delle necessità di chi lavora ogni giorno al servizio della giustizia. Il recupero dell’ex Manifattura Tabacchi rappresenta una scelta intelligente anche dal punto di vista urbano: un investimento sulla legalità e sulla riqualificazione di un’area storicamente difficile. Fratelli d’Italia- conclude il parlamentare- sostiene con convinzione questo percorso, che rappresenta un investimento concreto nella giustizia e nella presenza istituzionale sul territorio”. Pisa. “290 detenuti con una capienza di 200. Un progetto per il carcere con ingegneri e architetti” di Antonia Casini La Nazione, 6 maggio 2025 Una “visita costruttiva”. L’ha organizzata ieri nella casa circondariale Don Bosco di Pisa la Camera Penale di Pisa, aderendo all’astensione dalle udienze penali indetta dalla giunta nazionale delle Cpi fino a domani. La protesta è contro il decreto sicurezza e la situazione delle carceri. “Manifestiamo in modo costruttivo - spiega la presidente della Camera penale di Pisa, l’avvocato Serena Caputo - La risposta al problema sicurezza non può essere il carcere”. “Oggi entreremo grazie alla direttrice - aggiunge poco prima del sopralluogo - Abbiamo invitato interlocutori qualificati (ingegneri e architetti) per acquisire pareri come tecnici. La capienza è di 200 detenuti e al momento sono 90 in più. Ma oggi parleremo di progettazione con un tavolo di confronto aperto”. La direttrice Alice Iazzarotto aggiunge: “La situazione è complessa. E questa non è una novità. Sono arrivata da pochi mesi e ho preso contezza solo da poco. Sono molto motivata. La mia idea è aprire le porte dell’istituto alla città. L’idea è invitare occhi esperti a vedere la struttura e capire che cosa si può fare e come la società esterna ci può aiutare”. Con loro anche il presidente del consiglio regionale, Antonio Mazzeo, che ha sostenuto la visita. “L’iniziativa si concluderà con un progetto concreto e un messaggio forte. Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri. Ecco, occorre lavorare perché chi è stato detenuto esca come una persona diversa. La repressione non è la strada giusta”. La delegazione (non tutti sono entrati) è stata guidata dalla presidente della Camera Penale di Pisa e dai referenti locali dell’osservatorio carcere per la CP di Pisa, avv. Chiara Benedetti e Massimiliano Soldainj, dall’avv Laura Antonelli, past president della CP di Pisa ed attuale membro della giunta Ucpi e dagli avvocati Alessandro Niccoli, Andrea Cariello e Irene Braca. Rovigo. “Il carcere minorile apre l’anno prossimo”. L’annuncio del sottosegretario Delmastro di Francesco Campi La Voce di Rovigo, 6 maggio 2025 L’apertura del carcere minorile di via Verdi non sarà prima di un anno: “A metà 2026”. A dirlo, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, che è stato nel carcere di Rovigo per un incontro con i vertici ed il personale della struttura nell’ambito di un più vasto tour nelle strutture penitenziarie per “toccare con mano” le loro condizioni. In questo momento nella casa circondariale di Rovigo ci sono 254 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 209, mentre gli agenti di polizia penitenziaria sono 144 rispetto ai 175 previsti. E proprio il problema dell’organico è stato sollevato dai rappresentanti sindacali presenti all’incontro. “Ci rendiamo conto della sofferenza e il provveditore ci ha segnalato la particolare difficoltà a Rovigo: abbiamo mantenuto la promessa di un direttore e un comandante in pianta stabile e abbiamo avviato ulteriori percorsi di assunzioni: arriveranno 7 ispettori e non meno di 10-15 agenti dal 185esimo corso”, ha rimarcato Delmastro alla presenza del provveditore dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto Rosella Santoro, del direttore del carcere di Rovigo Mattia Arba, del comandante della polizia penitenziaria Antonio Zaza, del senatore Bartolomeo Amidei, oltre che dell’assessore regionale Valeria Mantovan. Delmastro ha poi promesso di riavviare il percorso per la revisione delle piante organiche e della circolare sulle bodycam che non consentirebbe l’attivazione anche in caso di flagranza di reato in assenza di autorizzazione preventiva, aggiungendo: “Il taser, invece, è una promessa che non manterrò. Perché ho cambiato idea sull’utilizzabilità di questo strumento nel contesto del carcere, mentre abbiamo pensato al flash-ball (i fucili con proiettili di gomma, ndr), ma l’azienda francese che li produce è in amministrazione controllata e stiamo attendendo di capire”. Infine, per quanto riguarda l’ampliamento del carcere di Rovigo con la costruzione di uno degli otto padiglioni previsti dal Pnrr in tutta Italia, dalla capienza inizialmente da 120 posti poi abbassati a 81, con progettazione ed esecuzione aggiudicati nel novembre 2023 per 12,2 milioni, ma con i lavori ancora non iniziati, il sottosegretario Delmastro ha rimarcato: “I lavori devono essere conclusi entro la fine del 2026, ma credo che potrà essere terminato anche prima di dicembre 2026”. Intanto, il coordinatore regionale della Fp Cgil Penitenziari Gianpietro Pegoraro e la segretaria regionale della Fp Cgil Franca Vanto attaccano per la loro esclusione dal confronto all’interno del carcere “perché non firmatari del contratto penalizzante per la polizia penitenziaria: la nostra esclusione dimostra l’arroganza di un governo che non vuole ascoltare e non accetta il confronto con le minoranze e che, come Cgil, diamo fastidio. Con la sottoscrizione di quel contratto si è cancellato di fatto, il principio fondamentale per cui un contratto nazionale deve innanzitutto difendere gli stipendi dall’inflazione”. Terni. I detenuti digiunano per Papa Francesco e per la pace e lanciano l’appello: “Unitevi a noi” di Nicoletta Gigli Il Messaggero, 6 maggio 2025 Una giornata di digiuno dietro le sbarre del carcere dedicata a Papa Francesco e alla pace nel mondo. L’iniziativa si svolgerà giovedì e coinvolgerà diversi detenuti dell’area media sicurezza della struttura detentiva di Sabbione. Dal penitenziario ternano, da tempo alla ribalta della cronaca per aggressioni, violenza e purtroppo per suicidi e atti di autolesionismo, parte l’idea del digiuno in memoria del Papa, da sempre accanto a chi sta scontando una pena dietro le sbarre. “Alcuni detenuti mi hanno chiesto di farmi portavoce di questa loro volontà perché loro non possono parlare al mondo fuori” dice il regista ternano Folco Napolini, l’unico professionista del teatro impegnato nel volontariato in carcere. A settembre ha riunito venticinque detenuti con i quali sta preparando lo spettacolo teatrale che andrà in scena a giugno. Durante le prove alcuni “attori” hanno avuto l’idea di organizzare la giornata di digiuno in memoria di Papa Francesco. Hanno raccolto decine di firme per trasformare l’idea in realtà. L’iniziativa ha avuto l’ok del direttore, Luca Sardella e della comandante della penitenziaria, Vanda Falconi e i promotori sperano nell’adesione di tanti altri detenuti nelle carceri italiane. “Il loro appello è rivolto ai detenuti dei penitenziari di tutta Italia - dice Folco Napolini. Da Sabbione lanciano l’invito ad unirsi nel digiuno di giovedì per dare simbolicamente un contributo alla pace nel mondo e onorare la memoria del Papa. La gran parte di loro, grazie a frate Mimmo, il cappellano del carcere, va a messa e sente molto la religione. I detenuti della media sicurezza si augurano che saranno tante le persone ristrette in carcere, da nord a sud, ad aderire ad una iniziativa a cui tengono molto”. Folco Napolini racconta con entusiasmo del progetto teatrale che impegna i detenuti per due volte a settimana. È nata la compagnia “Noi non siamo questi” a sottolineare che, anche chi ha sbagliato e sta pagando il conto con la giustizia, ha il diritto di avere un’altra possibilità. “Lo spettacolo che stiamo preparando si intitola Lo specchio e per loro sarà un modo per raccontarsi a se stessi e agli altri. Durante le prove - dice Napolini - c’è una grande armonia anche con alcuni detenuti considerati fuori di testa o deviati. Con loro inevitabilmente stiamo riflettendo su quello che avviene dentro il carcere, sul sovraffollamento, sulle morti. La certezza è che per loro, sentirsi accolti e valorizzati, significa avere un’altra opportunità per gestire anche le giornate no”. Il significato del percorso di teatro pedagogico iniziato a settembre in una lettera scritta dagli stessi detenuti: “Il nostro regista ci ha lasciato esprimere senza impedimenti quello che siamo e che viviamo. Ha sacrificato molti dei nostri incontri per creare quell’alchimia alla base di qualsiasi progetto si debba seguire. In questi incontri - scrivono gli i detenuti che studiano da attori - si è creata una grande carica emotiva con momenti commoventi che hanno toccato le corde più profonde del nostro intimo e momenti di confronto che hanno fatto sfogare la nostra compressione per quanto viviamo e come lo viviamo”. Prato. Studenti in visita al carcere: l’incontro con i detenuti e le storie che fanno riflettere Il Tirreno, 6 maggio 2025 Cinque classi del Copernico hanno varcato la soglia della Dogaia e hanno incontrato persone detenute, funzionari ed educatori. Lo scorso 9 aprile cinque classi quarte del liceo Copernico di Prato hanno potuto conoscere da vicino la realtà del carcere della Dogaia. Trenta alunni e alunne, accompagnati dal dirigente scolastico Luca Borgioli e dai docenti Marco Biagioli, Silvia Caserta, Lorenza Miretti e Chiara Scala, si sono recati nella struttura e hanno avuto l’opportunità di dialogare con alcune persone detenute e con funzionari ed educatori, mentre gli altri studenti hanno assistito collegati dalla biblioteca. L’iniziativa si è svolta nell’ambito del progetto di Educazione alla cittadinanza “Res publica”, in collaborazione con il progetto “Voci dall’altra parte della città”, portato avanti dalla polizia municipale di Prato che ha supportato il liceo nell’organizzazione. Gli studenti sono stati preparati dai docenti che hanno approfondito il tema attraverso la lettura di testi e soffermandosi sull’articolo 27 della Costituzione italiana e quindi sul valore rieducativo della pena. Ecco le loro osservazioni. “Avvolti da emozioni forti” Siamo stati avvolti da emozioni forti: fin dai primi passi, tristezza e spaesamento sono entrati in noi. Dopo attenti controlli iniziali, infatti, abbiamo percorso un lungo corridoio celeste decorato da disegni realizzati probabilmente dai detenuti stessi. A tratti, mentre camminavamo, i nostri sguardi si sono incrociati con quelli di alcuni dei carcerati che sarebbero poi venuti a parlare con noi. Non nascondiamo, quindi, che forti pregiudizi hanno invaso i nostri animi nel vederli così, liberi nel corridoio, a pochissima distanza da noi. Poi ci siamo sistemati in una sorta di auditorium e qui abbiamo avuto il piacere di affrontare un dibattito, preceduto e concluso da interventi istituzionali, con i detenuti stessi. L’attività è stata davvero molto toccante, motivo per cui ci teniamo a ringraziare la scuola e i professori che hanno deciso di aderire a questo progetto. Ascoltare riflessioni, in certi casi non superficiali, di persone che agli occhi della società possono apparire “inferiori” si è rivelato davvero interessante poiché ci ha fatto capire che in realtà sono persone semplicemente “diverse” da noi, che abbiamo più possibilità e occasioni sotto tutti i punti di vista rispetto a molte di loro. È stato inoltre piacevole percepire il loro desiderio di reinserimento e la voglia di rivalsa nella società: coloro che abbiamo ascoltato sono persone determinate, decise e convinte di voler cambiare in positivo il loro futuro. Questa giornata si è conclusa in modo differente da come era iniziata, poiché ci siamo portati dietro un’esperienza inedita, diversa da quella che acquisiamo a scuola, ma per certi versi anche più formativa dal momento che ci ha permesso di venire a contatto con la vera vita facendoci capire chi si nasconde, in alcuni casi, dietro quelle sbarre. Alessandro Gestri, 4ªHs “Credo nel reinserimento” Nonostante fossi già da prima incuriosito dall’evento, non mi aspettavo niente di così interessante e coinvolgente, non mi aspettavo di interagire con i detenuti e di conoscere le loro storie. Ma, come il resto degli studenti, sono rimasto sorpreso positivamente. Alcuni dei ragazzi del carcere hanno raccontato la loro esperienza e hanno risposto alle nostre domande. Sono in via di recupero o a fine pena, tutti decisi a riprendere in mano le proprie vite, chi attraverso lo studio, chi attraverso gli affetti all’esterno e chi attraverso i sogni da realizzare una volta usciti da lì. Tutti loro hanno sottolineato come il carcere sia un luogo di sofferenza, in cui non tutti riescono ad alzarsi ogni giorno dal letto, in cui sei solo e devi trovare il modo di riempire il tempo, unica cosa che lì non manca mai. Eppure proprio l’abbondanza di tempo ha dato ad alcuni di loro la possibilità di studiare e di imparare nuove cose, ma soprattutto di pensare, riflettere e cercare di ritrovare sé stessi. Un ruolo importante lo ricoprono educatori ed educatrici che accompagnano ogni detenuto lungo questo percorso, oltre ad ascoltarli e a sostenerli. L’esperienza penso abbia arricchito tutti noi, probabilmente in modo diverso. Io, per quanto valga, credo più di prima nelle seconde possibilità e nel reinserimento nella società. Dietro ogni errore spesso si trova una particolare circostanza che porta a commetterlo: l’umano sicuramente è fragile e non sempre riesce a evitare di sbagliare. Antonio Manetti, 4ªHs “Speranza oltre il dolore” Per noi l’incontro al carcere della Dogaia è stato interessante e stimolante, i ragazzi che hanno avuto la fortuna di partecipare all’incontro in presenza hanno inizialmente provato un po’di timore ma si sono ricreduti grazie alle testimonianze dei detenuti che abbiamo scoperto essere persone come noi. Anche i ragazzi che hanno partecipato all’incontro tramite videochiamata dalla biblioteca del nostro istituto hanno apprezzato gli interventi dei carcerati e hanno capito cosa succede dentro quelle mura, che sono sì luoghi di sofferenza e reclusione, ma anche di nuove possibilità e speranza. In generale pensiamo che questo incontro sia stato utile per capire che dentro a quelle mura ci sono delle persone come noi con sogni e aspirazioni, ci teniamo a ringraziare tutte le persone che lo hanno reso possibile perché è stata davvero una bella esperienza. Studenti della 4ªDs “Ogni storia è diversa” Dopo essere entrati nella struttura carceraria abbiamo effettuato numerosi controlli, tra cui il sequestro dei cellulari e di ogni oggetto metallico sulla persona, ci hanno guidato attraverso i corridoi del carcere. Dopo un’introduzione del progetto da parte dei dirigenti della Dogaia e del nostro dirigente scolastico, i detenuti hanno iniziato a gruppetti a raccontarci la loro vita nel carcere, del loro percorso scolastico o universitario al suo interno, e delle loro opinioni sul carcere come struttura. Ogni storia era diversa dalle altre: chi è carcerato da qualche mese, chi da più di 10 anni, chi aspettava di rivedere i propri genitori, chi i propri figli, chi è alla Dogaia da sempre e chi ha cambiato struttura più volte di quante ne poteva contare, ma tutti concordavano su una cosa, cioè il fatto che il carcere è un posto da evitare. Nonostante ciò, in molti hanno testimoniato il cambiamento che ha causato questo tempo speso nella prigione, dando loro anche l’opportunità di studiare e ottenere una laurea. Questo progetto ci ha permesso di percepire da molto vicino un mondo che normalmente è distaccato da noi e poter capire in parte come è davvero la vita per i detenuti e la loro percezione del carcere. Dilaver Kokalari 4ªFS Bergamo. Premio narrativa, i voti dai detenuti. “Per alcuni sono stati i primi libri mai letti” di Sergio Rizza Corriere della Sera, 6 maggio 2025 Un gruppo di lettura della prigione ha partecipato alle valutazioni del premio letterario con opinioni diverse. Ben due voti per “I santi mostri”, il romanzo di Ade Zeno vincitore del Premio Bergamo, sono giunti dai detenuti di via Gleno. “Una decisione presa all’unanimità da entrambi i gruppi, una ventina di persone, con cui ho lavorato”. A dirlo, la direttrice di quella fucina che è la giuria carceraria, Adriana Lorenzi, scrittrice, formatrice, insegnante di sostegno alle scuole medie di Urgnano: con il Premio Bergamo e la Casa circondariale, dove tiene un laboratorio di scrittura, ha una lunga collaborazione. Le vicende avventurose, raccontate da Zeno, del gruppo di artisti deformi sotto la cappa della Germania nazista “hanno conquistato i reclusi, che si sono identificati in questo gruppo di perseguitati”, commenta Lorenzi. Si rinnova così il riscatto letterario dietro le sbarre, la conquista di uno spazio (solo interiore, ma preziosissimo), di libertà. Un appuntamento cui i carcerati tengono moltissimo. “I loro giudizi sono netti. “Lagunalabirinto” di Pietro Nicolaucich - continua Lorenzi - pur essendo illustrato, è stato trovato difficile, e scritto troppo fitto: i detenuti sono spesso giovani e non conoscono Hugo Pratt. Faticosa per molti di loro è stata anche la lettura di “Muster. Una giovinezza fantastica” di Bruno Pischedda, anche se è piaciuto il tema dei ricordi della giovinezza. Mentre “Patologie” di Antonella Moscati (a metà tra il racconto semicomico di una ipocondria famigliare e riflessioni filosofiche sul concetto di memoria, ndr) l’ho affidato a Matteo, un recluso che racconta sempre le sue malattie: si è divertito e non lo ha trovato così impervio. Bene, anche, è stato recepito “Invernale” di Dario Voltolini (è il racconto della malattia e della morte del padre dello scrittore, un macellaio, ndr)”. Lorenzi racconta com’è andata: “Ho lavorato solo con i detenuti uomini della sezione penale e del circondariale. Tra i primi anche quest’anno c’era Diego: non ha neanche finito gli studi tecnici ma è un lettore forte. È l’unico ad aver letto tutti e cinque i romanzi. Tutti, alla fine, hanno discusso e scritto le loro impressioni”. Nel gruppo del circondariale spicca Jonathan: ““I santi mostri” è stato il primo libro che, in vita sua, sia riuscito a leggere dalla prima all’ultima pagina”. C’è un rammarico: “Avrei voluto che Ade Zeno incontrasse i detenuti: purtroppo non è stato possibile”. Anche quest’anno le recensioni dei reclusi confluiranno nella rivista in pdf “Spazio. Diario aperto dalla prigione”. Il prossimo numero sarà pronto a giorni (scrivere a lorenziadriana@gmail.com). Dentro le carceri con Daria Bignardi: “Ci illudiamo di poter tenere chiuso lì il male” di Carlo Torregrossa cronachejunior.it, 6 maggio 2025 La scrittrice e giornalista ha presentato il suo ultimo libro dedicato alle prigioni sul palco di Macerata Racconta: “Mettono in luce la nostra umanità”. Il carcere ci riguarda, ed è importante parlarne per riuscire a metterci in comunicazione con quel mondo, che è tenuto distante da noi. “Credo che l’interesse riguardo alle carceri faccia bene a tutti” afferma Daria Bignardi che per l’ultima serata di Macerata Racconta ha presentato al Cinema Teatro italia il suo ultimo libri “Ogni prigione è un’isola”, edito da Mondadori. Assieme a lei sul palco era presente anche il professore dell’Università di Macerata Sergio Labate Il libro di Bignardi si apre con una sua seduta dallo psicanalista nella quale lei riflette su che che cos’è il carcere. Quest’ultimo è percepito come un luogo così lontano da noi, quando invece non lo è. “Il carcere è un’istituzione pubblica come un ospedale” spiega Bignardi. Si può entrare in contatto con il penitenziario per diversi motivi, non solo da detenuto, ma perché magari si ha un parente o una persona reclusa. Spesso quando si parla di carceri le persone non si interessano, hanno di meglio a cui pensare, ma il carcere è qualcosa che ci riguarda e rappresenta anche un problema etico esistenziale: “All’interno del carcere è chiusa tutta la nostra illusione di tenere dentro quel luogo il male” sostiene l’autrice. “All’interno del carcere l’essere umano è come illuminato a giorno, per citare Svjatlana Aleksievi? - afferma Bignardi - Aleksievi? raccontò nei suoi libri la caduta e il declino dell’Unione Sovietica, andando ad intervistare le persone comuni, io in tutti questi anni nei quali ho lavorato all’interno delle carceri ho voluto fare lo stesso”. Perché dentro questi luoghi c’è tutta la nostra umanità: il carcere è maschilista, abitato da maschi, con regole per maschi, ma dove abitano anche le donne, che attualmente sono il 4% questo vuol dire che non ci sono progetti per loro, “il carcere è classista” ha detto Bignardi, gli istituti di pena sono per la maggior parte popolati da stranieri, tossicodipendenti, piccoli ladruncoli che poi escono anche peggiori: “Gente che non ha senso rimanga dentro a diventare un criminale peggiore”: Bignardi ha riferito le parole di Luigi Pagano, un ex direttore di istituti penitenziari (fu per 40 anni il direttore di San Vittore) perché in molti casi il carcere rappresenta una vera e propria scuola di delinquenza. Il carcere in qualche modo siamo anche noi, “rappresenta le nostre paure” afferma Bignardi”. Carcere, può essere anche una condizione in cui noi ci sentiamo imprigionati: come ad esempio una malattia o un legame complicato. Ma la prigione rappresenta in qualche modo anche un’isola e al suo interno ci sono codici ben precisi “sei protetto da tutte le contraddizioni, ma allo stesso tempo rappresenta un luogo che ti chiude” sottolinea Bignardi. “Il carcere è peggio della morte” Così l’autrice riporta le parole di alcuni detenuti di San Vittore, che parlando di Wanda Marchi affermavano di provare pena per lei. Perché in carcere non si sta bene, in carcere si soffre e ad affermarlo non sono solo i detenuti ma guardie carcerarie, direttori di penitenziari, magistrati di sorveglianza. Il carcere è un luogo estremamente complesso, di cui si parla poco, ma che ha tanto da insegnarci, e che dovremmo provare a comprendere. I ragazzi di Nisida e l’idea del lusso: “L’abito è tutto. L’amore si può imporre con i regali costosi” di Chiara Marasca Corriere del Mezzogiorno, 6 maggio 2025 Le riflessioni dei giovani detenuti dell’Ipm nel laboratorio di lettura a partire dal libro “Il Narcos” di Daniela De Crescenzo, sulla storia del boss Raffaele Imperiale. Ma c’è chi dice: “Non è un esempio perché vendeva la droga”. C’è un ragazzo detenuto a Nisida che dice così: “Per avere più soldi e fare la bella vita noi facciamo le rapine e le truffe. Va bene, siamo finiti in carcere, ma chi va per questi mari questi pesci prende. Non ci mettiamo a piangere dietro le sbarre”. Ma, per fortuna, nello stesso istituto penitenziario, solo qualche cella più in là, c’è una minorenne che la pensa così: “I miei valori qui sono cambiati, ho capito che i soldi non sono tutto, la lettura e la musica sono loro, adesso, il mio tutto”. E sembra di vederli, a leggere queste parole, amaramente in contrasto tra loro, i personaggi di “Mare Fuori” che in questi anni ci hanno raccontato, nella finzione scenica, come può essere la vita da reclusi per gli adolescenti. Quella dei baby boss recidivi e quella di chi si pente. Ma queste parole, a differenza di quelle recitate nella fiction di successo, sono vere e messe così, nero su bianco, ci proiettano davvero nel loro mondo, offrendoci una prospettiva che è, in verità, solo raramente confortante, perché nella maggior parte dei casi prevale uno scorcio cinico, distorto, ancora lontano dall’approdare alla consapevolezza dell’errore. Il laboratorio di lettura - Le riflessioni dei giovani detenuti sono emerse nel corso del laboratorio “Un libro per far crollare un muro”, partito nell’Ipm diretto da Gianluca Guida il 18 febbraio 2025. Al centro del percorso c’è stata la lettura del libro “Il Narcos”, scritto dalla giornalista napoletana Daniela De Crescenzo insieme al finanziere Tommaso Montanino, vincitore della sezione Nisida del premio Elsa Morante, che racconta la storia del narcotrafficante Raffaele Imperiale. Un boss che ha commerciato con le Farc boliviane e ha gestito una fabbrica di coca in Brasile, alimentando un giro di affari valutato dalla Dea più o meno in 23 miliardi di dollari; che ha stretto patti con gli scissionisti di Scampia; che ha consegnato allo Stato due quadri di Van Gogh e un’isola al largo di Dubai per trattare sconti di pena, e che, dopo l’arresto si è, infine, deciso a collaborare con la giustizia. Una vita rocambolesca e spericolata che, si è immaginato, potesse suscitare la curiosità dei ragazzi. E così è stato. “Gli operatori che li hanno seguiti nel progetto - dice De Crescenzo - ci hanno raccontato che si sono appassionati alla lettura e quasi si strappavano il libro di mano”. Un libro che è stato pretesto, e opportunità, per avviare con i giovani detenuti un dibattito - portato avanti insieme a docenti, operatori e guardie carcerarie - sui temi che riguardano direttamente la loro vita: il valore del denaro e del lusso, l’amore, il valore della scuola a partire dalla primissima infanzia, la famiglia, l’amicizia, la libertà. L’obiettivo era provare ad infrangere, incontro dopo incontro, quei miti che hanno alimentato la vita del criminale di cui leggevano, riconoscendone il veleno. Ma gli scritti dei ragazzi raccontano che solo in alcuni casi il terreno è risultato già fertile per questa operazione. In altri, invece, il percorso si è mostrato ancora in salita, perché profondamente inquinato da pericolosi stereotipi, diffusi purtroppo in un’ampia fascia giovanile. I disvalori - “Quello che colpisce”, commenta De Crescenzo, “è che i disvalori che sembrano guidare i comportamenti e i pensieri di questi ragazzi detenuti, come l’eccessiva importanza data al denaro e ai vestiti firmati, che spesso li ha spinti a compiere reati, o una visione malata dell’amore, non sono poi molto diversi da quelli di tanti minorenni che compiono percorsi regolari, nella legalità. C’è una bolla che avvolge gli uni e gli altri, la convinzione che senza l’adesione a certi codici si faccia fatica ad essere accettati dal gruppo e più in generale dalla società”. Sulla stessa linea la riflessione di Luigi Salvati, docente dell’Ipm che ha coordinato il progetto (con lui Maria Giulia Spadetta, Claudio Bolognino, Eloisa Di Rosa, Ersilia Saffiotti, Rossella Luongo, Francesca Siano, Francesca De Lucia, Ornella Pulcrano e Pina Canonico): “L’Ipm funge da casa di risonanza, qui tutto si amplifica, ma la verità è che i disvalori di questi ragazzi pertengono in modo più ampio al clima e alla realtà di questo momento storico. E attraversano tutte le classi sociali. C’è stato uno sviluppo economico, ma non un progresso e in questo contesto la persona sparisce”. E dunque? Da dove ripartire? “Proprio dagli scritti dei giovani detenuti. Dai loro analfabetismi etici, sociali ed emotivi. Bisogna fare lavoro di squadra, nessuno ha la ricetta”. Il lusso - Nei fogli consegnati dai ragazzi al laboratorio di lettura c’è chi scrive che “L’abito è tutto, io voglio firmata anche la cinta”, e chi “I soldi nella vita hanno un valore enorme, più hai soldi e più vieni rispettato”. E così, chi come Imperiale ha inseguito con ogni mezzo la ricchezza e si è fatto strada nel mondo criminale, viene visto da molti come un eroe: “Con la sua intraprendenza è riuscito a guadagnare tanti soldi con i quali ha contrattato con lo Stato. Con astuzia ha saputo raggirare le persone e ad imporsi a livello internazionale diventando un uomo di potere terribile. Non condivido, però, che abbia deciso di collaborare con la giustizia”, scrive un detenuto, mentre un altro pensa che “sia stato una mente brillante costruendo e mantenendo un largo giro di corruzione. Anche se si è pentito per essere un esempio per i figli, non condivido che abbia coinvolto amici e conoscenti coi quali ha realizzato un impero illegale”. Infonde speranza, invece, chi scrive così: “Per me è giusto che si dia una seconda possibilità alle persone che hanno sbagliato. Imperiale, per me, non è un esempio perché vendeva la droga, un male che uccide migliaia di giovani”. L’amore - L’amore, dicevamo. “Non so cos’è l’amore, non mi sono mai sentito amato, non ho mai avuto un bacio, un abbraccio o una carezza. Non so dare amore perché non so cosa è, lo vorrei sapere!”, scrive un detenuto, o una detenuta, descrivendo con poche e semplici parole quei vuoti emotivi che molto spesso spingono su strade sbagliate. Fino alla più terribile: “Per amore io sono qui dentro. Io per amore ho commesso un reato e capisco tutti quelli che fanno un reato per amore”. E delle dinamiche affettive emerge molto spesso un’idea completamente sbagliata: “Si può imporre il sentimento dell’amore, perché se io porto la mia ragazza in un bell’albergo e le faccio regali importanti lei poi mi deve ringraziare con il suo amore”. Ma qualcuno pensa, al contrario: “Farei qualsiasi cosa per fare innamorare di me la ragazza che mi piace, ma non comprandola con ristoranti e vestiti costosi, ma scrivendole poesie e facendole ascoltare musica romantica”. La libertà - Infine la libertà, idea complessa e dalle molte letture. Ancora di più per chi vive, come i giovani detenuti, in un contesto in cui è sacrificata. “Mia madre si spacca la schiena per lavare le scale in tre palazzi, la mattina presto poi va da un’anziana, le cucina e la sistema. Poi la sera si occupa di noi cinque figli. Mia mamma non li fa i reati, ma lo stesso non è libera. Io con le rapine in dieci minuti mi faccio quello che lei prende in tre mesi di fatica, sono molto più libero io di lei anche se sono in galera”, si legge in uno degli scritti raccolti, mentre un altro racconta: “Secondo me la libertà è dentro di noi. Mi piace dire a me stesso che lascerò questo posto quando lo decido io”. Referendum, si accende lo scontro. Forza Italia: “Non votate”. L’ira delle opposizioni di Adriana Logroscino Corriere della Sera, 6 maggio 2025 Tajani: scelta politica. Anche la Lega per l’astensione. Landini: messaggio pericoloso. Disertare le urne convocate per i referendum dell’8 e del 9 giugno su lavoro e diritto di cittadinanza. Dopo i rumors lasciati filtrare da Fratelli d’Italia, rompono gli indugi Forza Italia e Lega. Provocando la dura reazione di Pd, M5S, Avs e +Europa: “Chi governa non dovrebbe promuovere il non voto”. Mentre Noi moderati, quarta forza di maggioranza, difende una scelta autonoma: “Voteremo convintamente no”, dice Maurizio Lupi. Antonio Tajani, segretario azzurro e vicepremier, sollecitato dai cronisti a margine di un evento argomenta così la posizione: “Non andare a votare a un referendum è una scelta politica, non dimostra disinteresse nei confronti degli argomenti. Se c’è un quorum, significa che i cittadini devono riconoscere l’importanza di questa consultazione. Noi non la consideriamo, non la condividiamo”. Quindi, prevedendo le polemiche, rincara: “Illiberale è obbligare la gente ad andare a votare al referendum”. Più tardi anche il salviniano Igor Iezzi schiera la Lega: “La nostra linea è quella dell’astensione. Non è certo un segnale di disimpegno. Anzi è il massimo dell’impegno: puntiamo a fare in modo che non si raggiunga il quorum. È una posizione prevista a livello costituzionale”. È il segretario della Cgil, proponente dei quesiti sul lavoro, a provocare la dichiarazione pubblica di FdI. Maurizio Landini infatti definisce “grave e pericoloso che il partito di maggioranza del governo, che è il partito anche del presidente del Consiglio, dia indicazione di non andare a votare, tanto più che il presidente della Repubblica ha appena ricordato come la partecipazione politica sia l’essenza della nostra democrazia”. Alberto Balboni, presidente meloniano della commissione Affari costituzionali, punge: “Landini sarà un eccellente sindacalista ma zoppica in diritto costituzionale. Il voto non è un dovere, ma piuttosto un diritto. La nostra Costituzione prevede che sia pienamente legittima la scelta dell’astensione al referendum”. Ma all’astensionismo invocato dal centrodestra, Noi moderati esclusi, reagiscono praticamente a una sola voce gran parte delle forze di opposizione. “Non hanno il coraggio di dire apertamente che vogliono che si continui a sfruttare il lavoro”, dice Nicola Fratoianni di Avs che si appella agli elettori centrodestra: “Non ascoltateli”. Per Giuseppe Conte, presidente del M5S, “i politici che invitano i cittadini a non votare vogliono aggravare le condizioni della democrazia”. Stessa linea del Pd, con Arturo Scotto che rimprovera gli avversari: “Chi governa dovrebbe combattere l’astensionismo, non incentivarlo”. Enzo Maraio segretario del Psi, dice caustico: “Tajani, che sui diritti di cittadinanza aveva avuto posizioni coraggiose prima di essere sbugiardato dalla destra populista, ora asseconda i desiderata degli alleati”. Sull’appuntamento di giugno prende parola anche la segretaria dem, Elly Schlein, che promette l’impegno del Pd a “far salire la partecipazione a un appuntamento che non si può mancare” per “far valere la dignità e la sicurezza del lavoro”. Tuttavia è noto che l’ala riformista che rivendica la bontà del Jobs act, messo in discussione da uno dei quesiti, non condivida lo stesso obiettivo. Quindi il referendum è uno snodo anche interno: se la segretaria incassasse un buon risultato di affluenza, potrebbe provare a capitalizzarlo anticipando il congresso col vento in poppa. Dai detenuti di Rebibbia appello per i referendum: “Votate 5 sì anche per noi che non possiamo” L’Unità, 6 maggio 2025 Da Rebibbia appello per i referendum dell’8 e 9 giugno. Mancano 33 giorni ai referendum. Si voterà per decidere il destino dei migranti e quello dei lavoratori. Da almeno 20 anni vengono solo approvate leggi che danneggiano i lavoratori e tendono a ridurre in schiavitù i migranti. O ad affogarli. I cinque referendum, che andranno al voto l’8 e il 9 giugno, provano a invertire questa deriva. Ieri un gruppo di detenuti di Rebibbia ha lanciato un appello ai “liberi” perché vadano a votare. Tajani ha rivolto un appello ai “reazionari” perché non ci vadano. Scegliete voi. Qualcuno - magari fra quelli che dicono “buttate le chiavi e lasciateli in galera” - dirà che non sono fatti nostri, che non ne sappiamo nulla. Ma pure se non se ne parla mai, anche nelle carceri c’è il lavoro. Duro, sfruttato, sfruttatissimo, mal retribuito, concesso dalle direzioni come un privilegio non come un diritto. Perché in carcere sono i detenuti a pulire le celle, i corridoi, a portare il vitto, a scrivere le domandine, a tagliare l’erba nei cortili. Con un salario che serve a pagare la permanenza dietro le sbarre e, nel migliore dei casi, a mandare pochi euro a casa. Per quelle famiglie che contavano solo sulle entrate di chi ora è privato della libertà. Sì, in carcere, a Rebibbia c’è il lavoro. Ed è duro, sfruttato. Senza diritti. Ecco perché chiediamo a chi sta fuori di andare a votare al referendum di giugno. Di andare a votare sì (noi non possiamo farlo) per abrogare le norme che hanno ridotto i diritti sul lavoro, i diritti delle persone che vivono in questo paese. Magari - perché non sperarlo? far crescere i diritti “fuori da queste sbarre” avrà ricadute anche per chi vive e lavora dietro quelle sbarre. I detenuti della redazione di Radio Rebibbia Jail House Rock Migranti. Morto nel Cpr di Brindisi, hanno nascosto il cadavere al parlamentare in visita di Angela Nocioni L’Unità, 6 maggio 2025 Abel Okubor è morto rinchiuso nel Centro per il rimpatrio di Restinco, vicino Brindisi, aveva 35 anni e veniva dalla Nigeria. È morto, per ragioni tutte da indagare, nella notte tra il primo maggio e il 2. Di quel cadavere sul lettino del lotto A nulla è stato detto a un deputato andato in ispezione qualche ora dopo nel Cpr. A Claudio Stefanazzi, del Pd, che era lì assolvendo al dovere di controllo delle condizioni in cui lo Stato tiene le persone private di libertà (dovere proprio di tutti i parlamentari e assolto da pochissimi) quel cadavere è stato nascosto. Ha detto Stefanazzi: “La sensazione è stata, come ogni volta che ci vado, che lì dentro ci sia una assenza di vita ad eccezione di quella biologica. Anche stavolta nelle camerate le persone detenute dormivano, alle 11. Anche stavolta mi è stato riferito che la percentuale di quelli che devono ricorrere a psicofarmaci è di oltre il 50%”. “Da quando poi il governo ha trasformato il centro in Albania in un Cpr è iniziata una specie di lotteria. Dopo l’ordine da Roma vengono pescati dal mazzo ragazzi con storie diverse, con problemi differenti. E spediti lì senza che sappiano che stanno andando in un altro Paese. Chi ha un avvocato che lo segue in Italia non lo può contattare prima di sbarcare in Albania. Poche ore prima che arrivassi nel Cpr era morto un uomo. Nessuno me l’ha detto. C’era il personale sanitario quando ha avuto il malore? Si poteva fare qualcosa per salvarlo? Vedremo se qualcuno risponderà all’interrogazione parlamentare che depositerò. La cosa incredibile è il silenzio. Cosa stanno nascondendo? Per una cosa del genere cade un ministro. Anche tra i lavoratori del centro, poi, c’è un clima orrendo. I migranti che vengono trasferiti in Albania lo vengono a sapere cinque minuti prima del trasferimento”. Denuncia la rete Mai più lager - No ai Cpr: “Il centro di Brindisi Restinco è uno di quelli dai quali non siamo riusciti ad avere mai notizie, tanto è ermeticamente chiuso ogni spiraglio che possa lasciare intravedere quella che ha tutti i presupposti per essere una delle più terribili realtà di detenzione amministrativa, in un centro isolato e fuori dalla portata di alcun controllo della società civile”. Così descrivono il centro di Restinco gli attivisti che i Cpr li hanno studiati tutti per scrivere l’utilissimo libro “Non ci potete rinchiudere, no ai Cpr” curato da Stefano Galieni e Yasmin Accardo: “Il Cpr di Brindisi Restinco come quello di Bari, nasce come Cpt nel 1999 sotto la gestione dalle “Fiamme d’Argento” (carabinieri in pensione) chiuso poi nel 2007 a seguito del lavoro svolto dalla Commissione De Mistura. Viene riaperto 10 anni dopo, come Cpr, sotto la gestione della cooperativa Auxilium. È in aperta campagna, fra la ex stazione ferroviaria di Restinco e la caserma del battaglione San Marco, è parte di un più ampio complesso che ha al suo interno anche il Cpa, centro di prima accoglienza per richiedenti asilo (ex Cara). Si tratta di una gabbia, in cui il visitatore autorizzato entra dopo accurato controllo, sottrazione dei telefoni e sotto lo stretto controllo delle forze dell’ordine. Muri alti e corridoi stretti e poi i blocchi circondati oltre che da sbarre da plexiglas e chiuse in alto da una rete. Asfissia è la parola cui si pensa quando si entra, e si incrocia il cemento, il caldo, il muro delle forze dell’ordine. Dalle testimonianze raccolte non sarebbero rari i pestaggi. Molto usate le stanze di isolamento spacciate per stanze di prevenzione sanitaria. L’attuale gestione del Cpr e del Cpa è ad oggi affidata al Consorzio Hera, società cooperativa sociale insieme all’Agh Resort Ltd. Entrando nel complesso dell’ex caserma, dall’ingresso principale si incontra un cortile asfaltato. Sul lato sinistro ci sono i moduli dell’ex Cara, sul lato destro invece c’è un secondo fabbricato circondato da mura alte 5 metri, a cui si accede da una porta blindata oltre la quale si trova il Cpr. Subito di fronte all’entrata, c’è un fabbricato in cemento per gli uffici delle forze dell’ordine e l’infermeria. Esternamente invece, dietro il fabbricato sono presenti i moduli abitativi destinati alla reclusione delle persone straniere. Si tratta di 3 lotti, A, B e C, delimitati da cancellate di ferro, con un lucernario in basso, coperto da cellofan, utilizzato per comunicare con i detenuti. Nella parte antistante ogni lotto, vi è un cortile esterno cementato, interamente coperto da reticolato. In ogni lotto ci sono i letti a castello e i servizi igienici; anche in questo caso i pasti vengono distribuiti e consumati direttamente all’interno dei moduli. Il Cpr di Restinco normalmente ha una capienza di 48 posti: 20 posti nel lotto A, 14 posti per i lotti B e C. Attualmente è in funzione un solo lotto, quello C. Come per Bari, non è previsto alcun tipo di attività e l’accesso al campo sportivo è proibito. Le persone vengono trattenute per mesi in celle sovraffollate, in attesa del giorno del loro rimpatrio, privi di garanzie, costretti a condizioni di vita tali da causare disagi psicologici, atti di autolesionismo, un costante aumento della richiesta di psicofarmaci, tentativi di suicidio”. Migranti. Cpr di Brindisi, i silenzi e le morti sospette di Luciana Cimino Il Manifesto, 6 maggio 2025 La denuncia degli attivisti: “Il centro dove giovedì scorso è deceduto un migrante è un buco nero, visite mediche tardive e psicofarmaci. Abel Okubor, il 37enne nigeriano trovato morto nel Cpr di Brindisi nella notte tra giovedì e venerdì scorso, era in procinto di essere assunto e di conseguenza avere tutti i documenti in regola. Il proprietario dell’azienda agricola in cui lavorava come bracciante aveva manifestato l’intenzione di metterlo in regola ma non ha fatto in tempo. L’autopsia sul corpo di Okubor sarà eseguita domani dal medico legale Domenico Urso. L’incarico dato dal pm di Brindisi Pierpaolo Montinaro punta a fare piena chiarezza su quanto è accaduto: a una prima ricognizione sembrerebbe essersi trattato di infarto fulminante, resta da capire se ci siano state cause scatenanti. La storia di Okubor, conosciuto come Mimmo, è quella di un uomo morto nell’attesa: destinatario di un decreto di espulsione, il suo trattenimento era stato da poche settimane prorogato fino a luglio. E non è un caso isolato: come Mimmo finiscono nei Cpr non solo migranti appena sbarcati sulle coste italiane ma anche persone che vivono e lavorano stabilmente nel paese da anni ma a causa di impieghi e abitazioni precarie convivono con la spada di Damocle della detenzione amministrativa sulla testa. Nella stessa camerata da 8 letti dove è stato trovato morto Okubor, erano detenuti anche M., di origine marocchina e A., algerino. Come tanti, sono finiti nel Cpr di Brindisi per una vicenda surreale. Entrambi vivevano nella chiesa di Sant’Antonio a Tarsia, a Napoli, occupata 8 anni fa dagli attivisti dell’Ex Opg Je so’ pazzo con la Rete di solidarietà popolare per dare un riparo ai senza fissa dimora. I Padri Redentoristi, proprietari dell’istituto religioso nel centro di Napoli, hanno deciso di affidare a un’impresa uno studio di fattibilità per un restauro in vista dell’eventuale vendita del sito. Da quel momento hanno iniziato a sparire marmi e manufatti dall’interno. A una prima denuncia di furto a opera dei proprietari se ne è aggiunta un’altra degli occupanti che intanto avevano raccolto prove ed evidenze sugli autori delle manomissioni. Quando a febbraio scorso, proprio a seguito degli esposti, Digos e carabinieri del nucleo per i Beni culturali sono entrati nella chiesa per un sopralluogo, hanno anche denunciato per occupazione abusiva M. e A. che invece si erano adoperati per custodire il bene. “Gli stessi senza fissa dimora che avevano contribuito a delineare le responsabilità dei furti nell’imprenditore che aveva attenzionato l’immobile e a far ritrovare alcuni degli oggetti trafugati sono stati arrestati e rischiavano di essere espulsi”, spiega la consigliera di Pap della II Municipalità di Napoli, Chiara Capretti. “Non era una disposizione obbligatoria, visto il contesto, potevano imporgli di presentarsi in questura”. A. e M. hanno visto Mimmo Okubor poche ora prima del decesso. “Non stava male”, hanno raccontato poi agli attivisti dell’ex Opg, dopo che il giudice di pace ha imposto il loro rilascio. Sarà l’autopsia a stabilire le cause del decesso del nigeriano, tuttavia si può affermare che nel Cpr pugliese, come negli altri, è complesso, quando non impossibile, essere visitati da un medico all’ingresso per l’idoneità. M., ad esempio, è arrivato con la pressione alta e problemi cardiovascolari certificati. Per 45 giorni non è stato visitato per accertare la sua condizione, “quindi - racconta ancora Capretti - non ha ricevuto le pillole per la pressione né abbiamo la certezza che gli siano state somministrate dopo la visita, sappiamo però che a lui, come a tutti, ogni giorno veniva fatto ingerire uno psicofarmaco in assenza di uno screening. Per quanto blando non si può sapere se fa reazione o allergia”. “Tutti i Cpr sono buchi neri ma quello di Brindisi è gigante”, commentano dalla Rete No Cpr. Da anni la rete ha un centralino per ricevere chiamate d’aiuto dalle persone detenute nei centri. “Il nostro numero è noto, riceviamo chiamate anche dal Cpr albanese, ma in tutto questo tempo nessuno si è fatto vivo dal centro pugliese, temiamo sia impedito anche l’uso del telefono”, spiegano. “In questi anni - denunciano gli operatori - ci sono state 40 morti sospette nei Cpr, quattro nel solo centro di Brindisi, spesso archiviate come morti naturali ma cosa c’è di naturale nel morire durante una detenzione, senza cure?”. Il caso di Okubor solleva ulteriori dubbi: “Perché una persona abituata a lavorare nei campi, con una corporatura solida e senza apparenti problemi pregressi è morta di colpo? Se aveva un qualche predisposizione doveva essere rilevata alla visita di idoneità”, denunciano dalla Rete No Cpr che un anno fa ha avviato con Asgi e Simm una campagna informativa diretta ai valutatori cioè “precari del pronto soccorso che vengono precettati per analizzare in fretta decine di persone ammanettate di cui non conoscono il background” con il rischio, per i sanitari, di essere denunciati e, per i migranti, di morire nelle mani dello Stato. A Gaza si sta combattendo una guerra contro i bambini. Nell’indifferenza di Riccardo Redaelli Avvenire, 6 maggio 2025 In questi giorni il giornale israeliano Haaretz, certo non un foglio liquidabile come antisemita, ha scritto che, se proprio vogliamo continuare a definire quanto avviene a Gaza con il termine di guerra, dobbiamo precisare come si tratti di una guerra di generali contro bambini. È confortante che siano ancora molte le voci in Israele di chi rifiuta la deriva razzista, fondamentalista e xenofoba del governo di ultradestra al potere; e che parte di quella società non rinunci a provare orrore verso la catastrofe umanitaria della popolazione palestinese e la cinica indifferenza governativa verso le sorti dei cittadini israeliani ancora ostaggi. Una catastrofe, va ricordato, frutto della deliberata volontà del primo ministro Netanyahu di continuare sine die la guerra, per permetterne la rioccupazione a lungo termine - con alcuni ministri che proclamano apertamente essere “per sempre” - e per avviare lo “spostamento” dei suoi abitanti, secondo quanto previsto dall’incommentabile piano del presidente Trump per creare una nuova “riviera del Mediterraneo”. In Europa, stretti fra la doverosa memoria delle nostre colpe storiche nei confronti del popolo ebraico e il timore di essere associati agli odiosi rigurgiti di antisemitismo, siamo spesso cauti nel giudicare le azioni del governo di Tel Aviv nei confronti dei palestinesi. Ma di fronte a queste decisioni, dinanzi alla vergogna di un blocco degli aiuti umanitari che dura da più di due mesi e che impedisce di portare acqua, cibo e medicinali alle donne, ai bambini e agli uomini che tentano di sopravvivere nella Striscia, non si può non scrivere che Netanyahu stia attuando una politica abietta, inconciliabile con gli ideali liberali. Anche l’ultima proposta del governo israeliano di permettere la distribuzione di aiuti di pura sopravvivenza tramite imprecisate “agenzie private”, sembra solo un escamotage per impedirli di fatto. E l’orrore di Gaza, purtroppo, è solo una tessera di un puzzle più ampio che la destra nazionalista o ultrareligiosa porta avanti per ricreare l’Israele biblico. In Cisgiordania siamo dinanzi a una occupazione strisciante, con la creazione continua di insediamenti ebraici illegali che spingono alla distruzione delle terre agricole palestinesi e all’evacuazione di villaggi. Sono quotidiani i soprusi e le violenze dei coloni israeliani, con la convivenza delle forze di sicurezza, contro la popolazione locale. Violenze, umiliazioni e minacce che non risparmiano la comunità cristiana e talora interferiscono con le sue pratiche religiose. In Siria, la caduta del regime di al-Assad, ha creato una situazione magmatica che vede Israele intervenire con azioni mirate in quel Paese, di cui - va ricordato - occupa già le alture del Golan, annesse allo Stato ebraico senza il riconoscimento delle Nazioni Unite. La giustificazione formale è la difesa dei villaggi in Siria della minoranza drusa, dato che almeno 150.000 di essi vivono in Israele e molti servono nelle forze armate. Ma in tanti ormai sospettano che l’obiettivo vero sia un ampliamento dei territori siriani controllati. Dinanzi a tutto ciò, l’inerte silenzio di buona parte della comunità internazionale appare deprimente, e mostra quanto ormai ci si stia assuefacendo al dilagante virus della logica di potenza, della realpolitik più cinica, che esalta la forza militare e irride chi crede nella forza della diplomazia e della pace. Sembra che non vi sia neppure più l’interesse di arrivare a una tregua permanente a Gaza: falliti i precedenti tentativi, si volge lo sguardo da un’altra parte. Del resto, le guerre e le crisi umanitarie non mancano nel mondo. E invece bisogna ribadire con forza che una strada per fermare le armi a Gaza vada cercata con ostinazione e trovata. È necessario tentarlo per sottrarre due milioni di abitanti della Striscia dall’inferno in cui sono piombati da più di un anno e mezzo. Ma è necessario anche per Israele, che rischia di perdere se stesso nella convinzione che la sua impunità possa garantirgli l’onnipotenza. Israele si fermi e ascolti Segre di Anna Foa La Stampa, 6 maggio 2025 “Non posso e non voglio tacere”, così la senatrice Segre intitola un suo libro in uscita il 6 maggio per le edizioni Solferino e anticipato in un’intervista sul Corriere il 5 maggio. Molti e importanti sono i temi che Liliana Segre tratta, non solo la questione mediorientale, ma la guerra russo-ucraina, la presidenza Trump, il crescere dell’antisemitismo. Un ampio panorama in cui anche i temi che riguardano più da vicino Israele e gli ebrei sono inseriti e ricontestualizzati. Per quanto riguarda Israele, Liliana Segre non crede, e lo dice, che quello che sta succedendo a Gaza sia un genocidio. Non esita però a definirlo un crimine contro l’umanità e un crimine di guerra, come aveva già fatto nel novembre, in un’intervista che le aveva suscitato contro violenti attacchi da parte dell’ala più estrema dei propal, attacchi spesso a carattere antisemita. E temo che anche questo accada adesso, che i titoli e le reazioni sui social si concentrino sulla questione del genocidio, da una parte accusandola di negarlo, dall’altra sottolineandone invece la negazione. Quasi parlare della distruzione di Gaza in termini di crimini sia qualcosa di molto meno grave che usare il temine genocidio, quasi questi fossero termini condivisi dal mondo ebraico maggioritario della diaspora, che invece si è schierato con il governo di Israele e che ha glissato elegantemente su quel riferimento. Considerai allora come oggi invece l’uso di quei termini del diritto internazionale come importanti e, da parte della senatrice Segre, coraggiosissimi e vidi nella volontà di ignorarli un’occasione perduta del mondo ebraico. E il richiamo di Liliana Segre a quel diritto, conculcato e denigrato da tante parti ma in particolare dal governo di Israele, va letto in questo contesto. Un diritto internazionale, che troppo spesso è stato dimenticato, e che ha colpito coi suoi mandati di cattura tanto i macellai di Hamas quanto i criminali del governo di Netanyahu. Personalmente, credo che la questione del genocidio possa essere discussa, analizzata. E man mano che la guerra contro Gaza diventa più pesante e sanguinosa sono sempre più incline ad accettarlo, con grande infinito dolore. Ma credo che focalizzare il discorso su questo termine e sul suo uso sia oggi anche un modo per evitare di approfondire l’analisi di quanto succede e per sventolare invece dei vessilli propagandistici, da ambedue le parti, quella dei propal e quella dei sostenitori del governo israeliano. Mi si consenta, per la sintonia che trovo con le sue parole, di continuare a guardare all’intervista di Liliana Segre. Una sintonia che non elimina differenze, ma che vede in questo suo intervento un monito fondamentale su cui tutti dovremmo riflettere. Liliana si definisce “una donna di pace”, la stessa pace che chiedono a gran voce sempre più israeliani in questi giorni. Una pace che non è quella della vittoria della forza sull’aggredito, come il suo riferimento alla Conferenza di Monaco del 1938 ci chiarisce, ma quella di un mondo caratterizzato dal riconoscimento e dal rispetto dell’altro. Di qui il suo riferirsi ancora, mentre tutti la definiscono impossibile, alla soluzione dei due Stati, che implica il diritto di ambedue i popoli a quella terra. Senza nascondersi i mille problemi, i mille dubbi, le mille violenze passate, a cominciare dalla Naqba e poi proseguendo col terrorismo a finire con gli attacchi dei coloni nella West Bank. Ma un futuro che è’ l’unico possibile, anche se i tempi di una vera convivenza ci appaiono sempre più lunghi. E ancora: “Non posso e non voglio tacere” è quanto oggi gridano nelle piazze in Israele minoranze disperate, decise a resistere ad una guerra ingiusta contro i civili, all’attacco alla democrazia, alla distruzione di ogni futuro per israeliani e palestinesi, per ebrei e arabi. E anche, credo, per noi ebrei della diaspora. Iran. Nei primi quattro mesi dell’anno superate le 340 impiccagioni di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2025 Un prigioniero è stato messo a morte per otto omicidi avvenuti in Iran e attribuitigli mentre non si trovava in Iran. Dall’inizio di gennaio alla fine di aprile, in Iran il boia è entrato in azione oltre 300 volte: le impiccagioni sono state almeno 342. L’avverbio “almeno” è d’obbligo, dato che meno della metà delle condanne eseguite viene resa nota dalle autorità giudiziarie di Teheran: per completare il drammatico quadro, che da tempo sfiora le 1000 esecuzioni all’anno, occorre il lavoro certosino delle organizzazioni abolizioniste nazionali e internazionali e il coraggio dei familiari che rendono nota l’impiccagione di un loro caro nonostante vengano minacciate di rappresaglie se romperanno il silenzio. Una delle recenti esecuzioni ha riguardato un prigioniero politico di origine curda, il quarantenne Hamid Hosseinejad Haydaranlu, messo a morte il 18 aprile. La sua impiccagione è stata resa nota sì dalla magistratura iraniana, ma alla stampa e tre giorni dopo, senza avvisare prima avvocato e familiari. Haydaranlu era stato condannato a morte per il reato di baghi, ribellione armata, giudicato colpevole di appartenenza al Pkk (il Partito dei lavoratori del Kurdistan) e di aver ucciso otto membri delle forze di sicurezza nella provincia dell’Azerbaigian occidentale. Il suo ultimo appello contro la condanna a morte era ancora in corso. La famiglia ha chiesto almeno di riavere il corpo, invano. L’arresto era avvenuto nel 2023, sei anni dopo le otto uccisioni, alla frontiera con la Turchia. Inizialmente, Haydaranlu era stato accusato di contrabbando. Ma, dopo 12 mesi trascorsi in isolamento, sottoposto a torture, senza contatti neanche telefonici con parenti e avvocati, l’accusa era stata trasformata in coinvolgimento in un attacco terrorista. La questione della frontiera è importante: Haydaranlu ha sempre dichiarato che, il giorno in cui ci fu l’agguato, si trovava in Turchia con l’anziana madre, la moglie e i loro due figli. In altre parole, un prigioniero è stato messo a morte per otto omicidi avvenuti in Iran e attribuitigli mentre non si trovava in Iran. A causa della mancanza di trasparenza e dell’arbitrarietà delle procedure giudiziarie in Iran, non sapremo mai quanti altri casi del genere ci saranno stati ogni anno. Dati i numeri di cui si parla, potremmo meglio dire ogni mese. O addirittura, ogni settimana. *Portavoce di Amnesty International Italia