La Corte dei conti: “Gravi ritardi nel Piano Carceri, serve accelerazione urgente” corteconti.it, 5 maggio 2025 A dieci anni dalla conclusione della gestione commissariale, l’analisi sullo stato di attuazione del “Piano Carceri” evidenzia situazioni critiche di sovraffollamento carcerario che - soprattutto in Lombardia, Puglia, Campania, Lazio, Veneto e Sicilia - assumono contorni ai limiti dell’emergenza, anche alla luce dei dati del Ministero della Giustizia. È quanto sottolinea la Corte dei conti nella relazione “Infrastrutture e digitalizzazione: Piano Carceri”, approvata dalla Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato con Delibera n. 42/2025/G. Accanto alla necessità legata alla creazione di nuovi posti detentivi, si legge nel documento, emergono la mancata realizzazione di numerosi interventi e l’urgenza di completare quelli di manutenzione straordinaria già avviati, per migliorare le condizioni ambientali, igienico-sanitarie e di trattamento all’interno degli istituti. Molteplici, secondo la Corte, le cause dei ritardi: dalle inadempienze contrattuali da parte delle imprese, ai mutamenti repentini delle esigenze detentive rispetto al passo dei lavori, fino alle carenze nei finanziamenti necessari per attuare le modifiche progettuali, con la necessità - è il richiamo ulteriore dei giudici contabili - di applicare il principio dell’individualizzazione della pena, che impone una corretta collocazione dei detenuti all’interno delle strutture in base alla loro condizione giuridica e alle esigenze trattamentali. All’Amministrazione si è pertanto raccomandato, chiude il documento, di predisporre fin dall’inizio stime realistiche dei costi, accompagnate da una pianificazione efficace delle risorse e dalla definizione di linee guida per le strutture penitenziarie, coerenti con gli standard minimi europei e internazionali. Al nuovo Commissario straordinario si chiede di tenere conto delle criticità emerse dall’indagine e di assicurare un attento monitoraggio degli interventi nel rispetto dei cronoprogrammi procedurali e finanziari, per evitare ulteriori ritardi e criticità operative. Pacchetti sicurezza, così per trent’anni la politica e i media hanno cavalcato l’onda populista di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 5 maggio 2025 Dal 1991 gli omicidi e i reati violenti sono diminuiti del 75 per cento ma i Governi (di destra e sinistra) hanno moltiplicato i dispositivi repressivi trasformando il giustizialismo in consenso. In Italia l’insicurezza cresce. Ma solo nella testa degli italiani. I numeri, invece, raccontano un’altra storia: quella di un Paese sempre più sicuro, tra i più virtuosi d’Europa per tassi di criminalità, con una percentuale di omicidi di 0,55 ogni 100.000 abitanti, decisamente inferiore alla media comunitaria che è di 0,9. Nel 2024 sono stati registrati 319 omicidi il 6% rispetto ai 340 del 2023. Questo calo si inserisce in un trend decrescente che dura da trent’anni e che segna una spettacolare riduzione del 75% dei reati violenti. Sono numeri inequivocabili, eppure la percezione di insicurezza tra i cittadini è in crescita costante. Secondo un’indagine del Censis, l’83% degli italiani considera la sicurezza una priorità generale nella vita quotidiana, mentre il 65% vorrebbe un maggiore impegno del governo nel garantire la sicurezza urbana e nel contrastare la criminalità. La discrepanza tra dati oggettivi e percezione soggettiva solleva interrogativi importanti: in che misura il sentimento insicurezza è stato alimentato dalla politica e dal sistema mediatico? Interrogativi che vengono da lontano. Dalla seconda metà degli anni 90 ai nostri giorni governi di ogni colore hanno infatti gareggiato tra loro nell’approvare “pacchetti sicurezza” di ogni genere con l’obiettivo di contrastare la criminalità, l’immigrazione, il decoro urbano e quant’altro. Il primo di questi nel giugno del 1992 quando i ministri Claudio Martelli e Vincenzo Scotti, in un’Italia scossa dalla strage di Capaci, varano uno dei provvedimenti più severi della storia repubblicana: il 41 bis, il cosiddetto carcere duro per i mafiosi, una misura estrema, definita “una forma di tortura” dalla stessa Corte europea dei diritti umani (Cedu), ma che almeno all’epoca rispondeva a un’emergenza reale e non a un richiamo immaginario. Quell’anno gli omicidi commessi in nel paese devastato dalla guerra di Cosa Nostra allo Stato e dalle faide tra i clan furono circa 1.500 (quasi duemila nel 1991). Per combattere lo spietato clan di Toto Riina in una Sicilia che somigliava sempre di più alla Colombia di Pablo Escobar il governo Amato mobilita anche l’esercito. Sette anni dopo, mentre la criminalità continua a diminuire, il governo D’Alema, in risposta a un incremento marginale dei furti e alla percezione crescente di insicurezza urbana rilevata dai sondaggi di opinione, elabora un pacchetto che verrà poi approvato sotto il governo Amato bis. Il cuore del provvedimento era l’equiparazione sul piano penale tra microcriminalità e reati gravi: pene inasprite per scippi e furti in casa, estensione della custodia cautelare, poteri repressivi rafforzati per i questori e la polizia giudiziaria. E c’è una novità simbolica: la criminalità venne intrecciata, per la prima volta, al tema dell’immigrazione. D’Alema stabilisce una sovrapposizione diretta tra cittadini stranieri e criminalità, ma parla di “intreccio” tra immigrazione e reati diffusi. La porta si è aperta per non richiudersi più. Verrà addirittura spalancata nel 2007, dopo l’omicidio di Donatella Reggiani, violentata e massacrata da un muratore rumeno alla stazione Tor di Quinto di Roma, un caso che scuote la società italiana con gran parte dei media che cavalca l’onda ansiogena, descrivendo un paese in stato d’assedio. Per reagire alle accuse di lassismo lanciate dall’opposizione di centrodestra il governo Prodi bis vara il “decreto espulsioni” per facilitare l’allontanamento dei cittadini comunitari, un provvedimento praticamente ad hoc, rivolto ai rumeni da pochi anni entrati a far parte dell’Unione europea. Con la caduta anticipata dell’esecutivo Prodi, è il terzo governo Berlusconi e il ministro dell’Interno Roberto Maroni che trasformano il decreto in una legge più ampia sulla sicurezza pubblica che accorpa mafia, immigrazione, microcriminalità e decoro urbano. La legge introduce la possibilità per i sindaci di emettere provvedimenti in materia di “sicurezza urbana (migliaia le ordinanze emesse in quel periodo) e porta i militari nelle città italiane con il programma “Strade Sicure”. Nel mirino non solo reati gravi e i crimini violenti, ma anche i comportamenti “minori”: pene più severe per chi imbratta autobus e vagoni di treni e metropolitane, multe salatissime per chi getta rifiuti per terra, sanzioni aumentate per graffitari e artisti di strada, stretta sui locali notturni, divieto di consumare panini in prossimità dei monumenti. Una sottile linea rossa unisce il pacchetto Maroni con il cosiddetto DASPO urbano introdotto nel 2017 dal ministro Antonio Minniti (governo Renzi) e mutuato dai DASPO per gli ultras delle squadre di calcio; un dispositivo amministrativo che vieta a un soggetto di accedere o stazionare in determinati luoghi pubblici, spesso in seguito a comportamenti considerati lesivi il decoro o la sicurezza pubblica. L’obiettivo è esplicito: senza tetto, prostitute, alcolisti. Nel 2018 Matteo Salvini - da ministro dell’Interno del primo governo Conte nato dall’inedita alleanza tra Lega e Movimento 5 Stelle- ha rilanciato con forza l’agenda securitaria incentrata sulla lotta all’immigrazione con la politica dei “porti chiusi”. Il primo decreto (DL 113/2018) taglia la protezione umanitaria e svuota il sistema SPRAR, riducendo l’accoglienza a un fatto residuale. Poco dopo arriva il Sicurezza Bis, con multe milionarie alle ONG che salvano vite in mare e pene più dure per chi protesta in piazza. Con il Conte bis, stavolta sostenuto dal partito democratico, al Viminale arriva Luciana Lamorgese. Vengono ridimensionate le sanzioni alle ong e ridefiniti i criteri del sistema di accoglienza, con tempi ridotti di permanenza nei centri. Nel 2022 sbarca Giorgia Meloni a Palazzo Chigi e l’agenda securitaria si infittisce. Appena insediato, il governo approva il Decreto Rave: una norma scritta in fretta, all’indomani di un party non autorizzato in provincia di Modena. Le nuove pene prevedono fino a sei anni di carcere per “raduni pericolosi”. Pochi mesi dopo, una nuova tragedia impone l’ennesimo giro di vite. A Cutro, sulle coste calabresi, un barcone si schianta: 94 i morti. Il governo risponde con un decreto che inasprisce le pene per scafisti e restringe l’accesso alla protezione umanitaria. Nell’estate 2023 esplode il caso di Caivano - un’aggressione sessuale su due adolescenti in un contesto di degrado - il governo risponde con una mossa muscolare: un nuovo decreto sicurezza che interviene ad ampio raggio, dalla dispersione scolastica ai reati minorili, fino all’uso dell’esercito in “aree a rischio”. Nel 2025 l’ultimo decreto omnibus: reati seriali, manette per chi aggredisce le forze dell’ordine, più poteri ai sindaci, riforma della polizia locale. Ma ancora una volta, al centro non ci sono i dati - che mostrano un calo costante della criminalità - bensì quel sentimento di insicurezza che da oltre trent’anni detta i tempi della politica italiana. Tra repressione e propaganda: cosa cambia per carceri e ordine pubblico di Simona Musco Il Dubbio, 5 maggio 2025 Il governo ha approvato un nuovo decreto Sicurezza, scatenando forti polemiche per l’adozione della forma d’urgenza, considerata da molti una forzatura istituzionale. La premier Giorgia Meloni ha difeso la scelta come necessaria per onorare gli impegni presi con i cittadini e per rafforzare le tutele verso le forze dell’ordine. Il decreto (39 articoli) introduce nuovi reati, aggrava pene esistenti e prevede misure contro terrorismo, criminalità, occupazioni abusive e disordini pubblici. Le opposizioni e alcune associazioni parlano di norme sproporzionate, repressive e di dubbia efficacia, che rischiano di ledere diritti civili e aggravare il sovraffollamento carcerario. Detenute madri - Modificate le condizioni di custodia cautelare per le donne incinte o con figli minori di un anno: non sarà più una possibilità ma un obbligo l’assegnazione agli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri), salvo gravi rischi per il minore. Tuttavia, il giudice potrà disporre misure diverse se ritiene che l’interesse del bambino sia compromesso da gravi condotte materne. Il governo ha dichiarato che la norma vuole evitare l’abuso della maternità per eludere la giustizia, citando il caso delle borseggiatrici seriali. Le opposizioni e associazioni come Antigone denunciano però che la misura rischia di violare i diritti dei bambini e di non garantire condizioni adeguate nei pochi Icam disponibili, mettendo in discussione i principi di umanità e tutela dell’infanzia nel sistema penitenziario. Terrorismo - Viene introdotto il reato di detenzione di materiale con finalità terroristiche (2-6 anni), punendo chi possiede istruzioni per costruire ordigni, armi, o tecniche per attentati. Inasprita anche la punibilità per la diffusione di questi materiali. Tutele per forze dell’ordine - Pene più severe per violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale, con aggravanti se le vittime sono agenti in servizio o se gli atti mirano a ostacolare opere pubbliche strategiche (come Tav e Ponte sullo Stretto). Istituito un nuovo reato per lesioni contro agenti durante il servizio. Introdotto l’uso delle bodycam in contesti sensibili (manifestazioni, stazioni), e consentito il porto d’armi private fuori servizio. Lo Stato potrà anticipare fino a 10.000 euro per fase processuale in favore di agenti, militari e vigili del fuoco indagati per fatti di servizio, salvo dolo o negligenza. Sicurezza pubblica e stradale - Danneggiamento o imbrattamento di beni pubblici: pene da 6 mesi a 1,5 anni, più alte in caso di recidiva. Blocco stradale trasformato in reato (pena base: 1 mese e multa fino a 300 euro; se in gruppo, 6 mesi-2 anni). Patente sospesa da 15 a 30 giorni per chi viola prescrizioni della polizia stradale, in caso di recidiva. Proteste, carceri e resistenza passiva - Il decreto introduce pene più severe per chi incita alla disobbedienza nelle carceri. Nasce il reato di “rivolta in istituto penitenziario”, applicabile a gruppi di almeno tre persone che usano violenza o resistenza contro l’autorità. Le pene aumentano se sono usate armi o vi sono lesioni o decessi. Una disposizione simile si applica anche ai Centri di permanenza per il rimpatrio dei migranti. Forti critiche sono arrivate per l’inclusione anche della resistenza passiva - come rifiutarsi di rientrare in cella o sedersi per terra durante una protesta - che, pur non implicando violenza fisica, viene punita alla stregua di atti più gravi. Secondo le associazioni per i diritti umani, questa equiparazione rischia di criminalizzare forme legittime e non violente di dissenso. Occupazioni e truffe - Per l’occupazione abusiva di immobili, previste pene da 2 a 7 anni. È introdotta una procedura accelerata per lo sgombero se si tratta dell’unica abitazione del denunciante. Inserita anche una nuova fattispecie di truffa aggravata ai danni di anziani e persone vulnerabili (2-6 anni di reclusione), con possibilità di arresto in flagranza. Minori e lavoro penitenziario - Inasprite le pene per chi costringe minori sotto i 16 anni all’accattonaggio, soprattutto se con minacce o violenza. Il decreto promuove l’inclusione lavorativa dei detenuti, coinvolgendo anche enti del Terzo settore. Estesa la qualifica di ‘persona svantaggiata’ anche a detenuti e ex degenti degli ospedali psichiatrici giudiziari. Migranti e sim card - I cittadini extra-Ue potranno acquistare SIM mostrando un documento d’identità, senza necessità del permesso di soggiorno, semplificando così l’accesso ai servizi e favorendo una maggiore integrazione. Cannabis light - Punito con per da uno a 3 anni il commercio di cannabis light con Thc oltre i limiti di legge. Rafforzati i controlli e introdotte sanzioni per i negozi non conformi: confisca della merce e multe severe. “Legislazione del nemico”: quando la pericolosità è percepita di Nicola Canestrini Il Dubbio, 5 maggio 2025 Invece di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, lo stato li crea, colpendo in modo sproporzionato le categorie più vulnerabili della società. Negli ultimi anni, in molti ordinamenti democratici anche europei, si è assistito a un incremento dell’adozione di misure legislative che privilegiano un approccio securitario e populista, attribuendo un potere crescente alle forze dell’ordine e al contempo restringendo diritti e libertà fondamentali. In Italia, la legislatura attuale ha consolidato questa tendenza con l’introduzione di nuove fattispecie penali, l’inasprimento delle pene e la marginalizzazione di specifiche categorie sociali. Non si tratta di una legittima messa in opera di un programma politico, che ha del resto trovato legittimazione nel risultato elettorale, ma di un attentato ai diritti fondamentali, secondo una logica sottostante che pare essere quella della cosiddetta “legislazione del nemico”, un approccio che non solo crea categorie di persone percepite come pericolose, ma le trasforma in bersagli prioritari per l’azione punitiva dello Stato. Il concetto di “legislazione del nemico”, teorizzato da Gunther Jakobs, si basa sull’idea che alcuni individui, a causa della loro percepita pericolosità, perdano la loro qualifica di soggetti di diritto e vengano trattati esclusivamente come oggetti di prevenzione o repressione. Nel caso italiano, questa logica ha trovato un esempio paradigmatico nel cosiddetto decreto Anti-rave (Dl 162/2022), che introduce il reato di “invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi”. La norma, originariamente presentata per contrastare i rave party, definisce in termini ampi e vaghi le situazioni che configurano il reato, rendendo possibile la sua applicazione a manifestazioni politiche e sociali e criticata da giuristi e organizzazioni per i diritti umani per la sua potenziale incompatibilità con il diritto alla libertà di riunione (articolo 17 della Costituzione). Il decreto non solo amplia il controllo dello Stato su eventi privati, ma legittima un approccio punitivo a scapito di soluzioni preventive e dialogiche, e senza affrontare i problemi sottesi, che vengono semplicemente rimossi (recte: risolti tramite criminalizzazione). La preoccupante tendenza emerge in maniera ancora più evidente in alcune norme dell’ennesimo, recente decreto cosiddetto sicurezza, che accentuano la criminalizzazione di determinate categorie sociali, come migranti, giovani delle periferie e minorenni, e attivisti politici (sgraditi al potere), donne detenute. Insomma: lo Stato, lungi dall’intervenire rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini e impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (come imposto dall’articolo 3 della Costituzione), crea ostacoli, colpendo in modo sproporzionato le categorie più vulnerabili della società. Queste norme, più che garantire la sicurezza, alimentano un senso di esclusione e ostilità nei confronti di chi già vive ai margini della società. Un esempio? Si pensi alle norme sulle zone rosse, una delle ultime iniziative d’effetto per limitare l’accesso a determinate aree urbane a individui “con atteggiamenti” (?) pericolosi o molesti, violano palesemente il diritto alla libertà di circolazione sancito dall’articolo 16 della Costituzione italiana. Queste misure non sono basate su condanne penali, ma su mere segnalazioni o peggio ipotesi predittive, lasciando ampi margini di discrezionalità alle autorità di polizia. Il ddl 1160 - come altre norme, annunciate o varate - prevede un significativo rafforzamento dei poteri delle forze dell’ordine, in un contesto che già vede un crescente squilibrio tra le autorità statali e i diritti dei cittadini. L’incremento dei poteri discrezionali delle forze dell’ordine, già evidente nelle misure di prevenzione come l’avviso orale o le cosiddette misure rosse, pur ampiamente festeggiate dai politici della maggioranza, si traduce in una crescente asimmetria tra Stato e cittadini, minando il principio di uguaglianza davanti alla legge. Una delle caratteristiche distintive della “legislazione del nemico” è la criminalizzazione del dissenso politico e sociale. Il governo e la sua maggioranza si sono distinti nel pensare a norme che colpiscono duramente manifestazioni, proteste e occupazioni, ampliando la portata delle fattispecie penali e aumentando le pene. Si è addirittura pensato di concepire un reato di “rivolta negli istituti penitenziari e nei centri di detenzione per migranti” punendo anche la resistenza passiva (!) con pene fino a 5 anni di reclusione, tralasciando invece completamente le cause delle proteste (senza curarsi nemmeno dei numeri drammatici di suicidi fra detenuti e personale penitenziario). Si tratta di disposizioni solo apparentemente giustificate da ragioni di ordine pubblico, che invece limitano de facto diritti costituzionali, ivi compreso quello di manifestazione del pensiero, definito nel 1969 “pietra angolare del sistema democratico” dalla Corte costituzionale, riducendo lo spazio per il dissenso e intimidendo i cittadini che intendono esercitare i propri diritti costituzionali. La “legislazione del nemico” non è soltanto una minaccia per i diritti individuali, ma pone un rischio sistemico per la democrazia. L’introduzione di misure straordinarie, spesso giustificate da emergenze reali o percepite, mina i principi fondamentali dello Stato di diritto, come la presunzione d’innocenza, la separazione dei poteri e il diritto a un equo processo. Il frequente ricorso alla decretazione d’urgenza, o lo strangolamento del dibattito pubblico e/o parlamentare, impedisce un dibattito democratico informato e concentrano il potere decisionale nelle mani dell’Esecutivo. Questa pratica, oltre a indebolire il ruolo delle istituzioni rappresentative, riduce la trasparenza e la legittimità delle decisioni legislative. Inoltre, la creazione di nuove fattispecie penali e l’inasprimento delle pene, senza un adeguato bilanciamento con politiche di inclusione e prevenzione, rischiano di trasformare il sistema penale in uno strumento di controllo sociale, piuttosto che di giustizia. Per contrastare la crescente tendenza alla deriva autoritaria, è necessario riaffermare i principi di proporzionalità, uguaglianza e giustizia sociale, promuovendo politiche che affrontino le cause profonde del disagio sociale e della criminalità, piuttosto che limitarsi a reprimerne gli effetti. Solo attraverso un rafforzamento delle garanzie costituzionali e dei diritti fondamentali, con un ritorno a una visione inclusiva della società, sarà possibile preservare la coesione sociale e la dignità di ogni individuo. Reati: chi sale e chi scende. Ma la sicurezza è una bandiera che piace a destra e sinistra di Emilio Minervini Il Dubbio, 5 maggio 2025 Le politiche securitarie sono sempre di moda e la politica (tutta) investe ogni anno in pacchetti e decreti legge che riducono spazi di libertà. L’attuale esecutivo, in continuità con i precedenti anche d’opposti schieramenti, ha fatto della sicurezza una bandiera da sventolare ai comizi, nelle aule del parlamento, nei talk show e sui social. Tema dalla forte presa mediatica e sociale, viene spesso declinato con tomi allarmisti e annunci altisonanti per giustificare l’introduzione di misure “autoritarie” e l’applicazione di politiche securitarie, come il recente decreto sicurezza. Ma sotto le cortine di fumo del dibattito politico qual è la situazione concreta? In base ai dati raccolti da Lab24 dopo essere calati regolarmente dal 2013, in cui sono state registrate 2.892.155 denunce, i reati denunciati sono precipitati nel 2020 con 1.900.624 denunce. Dopo i mesi di confinamento la convivenza è ripresa, segnata però da diverse crisi che si sono susseguite una dopo l’altra, aumentando l’incertezza e alimentando le tensioni sociali. La pandemia ha inoltre portato le forbici della sperequazione ad allargarsi. Tutto questo ha decretato un costante aumento dell’incidenza di reati dal termine delle misure contenitive del contagio. Nel 2022 sono state effettuate 2.255.777 denunce e nel 2023 sono cresciute fino a 2.341.574, segnando così un aumento del 1,72% rispetto ai valori pre-pandemici (2019). Il report rilasciato dal Servizio analisi criminale del Dipartimento di pubblica sicurezza registra un calo degli omicidi volontari nel 2024, rispetto ai due anni precedenti in cui si sono verificati rispettivamente 340 nel 2023 e 328 nel 2022. Diminuiscono, seppur di poco, anche le vittime di sesso femminile passate a 111 rispetto alle 120 del 2023. Aumentano gli omicidi volontari commessi in ambito familiare, dai 148 del 2023 ai 151 dello scorso anno. Per gli scettici della violenza sulle donne potrebbe essere utile il dato sugli omicidi consumati da ex partner, diminuiti di un’unità rispetto ai 70 del 2023, nell’85% (59 sui 69 del 2024) di questi le vittime sono donne. Anche nei delitti commessi tra le mura domestiche le donne risultano essere più esposte dei 151 omicidi 96 sono stati commessi nei confronti di donne, il 63% dei casi. Riguardo alla criminalità predatoria, il Rapporto intersettoriale del ministero dell’Interno mostra un aumento del 9,4% nel 2023 con 28.067 rapine registrate rispetto alle 25.642 del 2022. Il valore relativo al 2023 mostra anche un aumento del 15% rispetto alle 24.276 del 2019 ma una netta diminuzione, del 38% rispetto al valore del 2013, da cui è iniziata una tendenza decrescente giunta al suo minimo con le 20.000 registrate nel 2020. Entrando più nello specifico tra il 2022 e il 2023 c’è stato un aumento del 9,5% delle rapine in pubblica via, del 6,3% negli esercizi commerciali, del 12,9% in abitazione, del 5,9% in locali o esercizi pubblici, del 5,8% nelle farmacie e del 14,4% negli uffici postali, mentre sono diminuite del 12% le rapine a distributori di carburante, del 23% nelle tabaccherie e del 35% le rapine in banca. Guardando i dati in un’ottica territoriale si nota una decisa ripresa post pandemica nel nordovest, una più contenuta al centro e al nordest, mentre al sud e nelle isole dopo un’iniziale timida ripresa il tasso è tornato a scendere. Le province caratterizzate dai maggiori indici di rischio sono Milano e Torino seguite da Bologna. Per quanto riguarda i furti il Rapporto delinea un aumento del 6% nel 2023 rispetto al 2022 con 1.021.116 furti a confronto dei 963.032 dell’anno precedente. Anche in questo caso però si conferma la parabola discendente dal 2013, anno in cui sono stati rilevati 1.554.777 furti. In dieci anni sono diminuiti del 34%. Milano si riconferma in cima alla classifica delle province per indice di rischio allungando con un netto distacco dal secondo posto occupato da Bologna. Gli attacchi agli sportelli automatici e agli OTP (outdoor payment terminal), gli accettatori di banconote della rete carburanti mostrano una netta diminuzione del fenomeno rispetto ai picchi registrati nel 2016, anno in cui ci furono 1.208 attacchi agli OTP, 798 agli ATM bancari e 154 a quelli postali. I dati relativi al 2023 indicano136 attacchi agli OTP, in riduzione rispetto ai 184 del 2022, mentre per gli atm di banche si è verificato un aumento dai 121 attacchi agli ATM presso le banche e 77 a quelli presso le poste del 2022 si è passati ai 147 assalti agli sportelli automatici delle banche e 84 a quelli degli uffici postali. In questo caso la maggiore incidenza è concentrata al sudest, con Foggia prima provincia per indice di rischio, seguita da Barletta- Andria-Trani e Bari. Una tendenza in costante crescita è invece quella dei reati informatici. I dati pubblicati nel Threat intelligence report di Exprivia evidenziano un aumento del 18% nel 2024 rispetto al 2023 con 1927 attacchi informatici. C’è però da osservare che nonostante siano aumentati gli attacchi, sono diminuiti del 10% rispetto al 2023 e del 63% a confronto con il 2022 quelli andati a buon segno. Nel 30% di questi ultimi è stato rilevato l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale. I comparti più sensibili sono quello tecnologico con 760 eventi, in aumento di quasi il 50% in relazione all’anno precedente, seguono il settore finanziario che con 709 attacchi vede invece una diminuzione del 27% dal 2023. Rimane stabile al terzo posto, come nel 2023, la pubblica amministrazione destinataria di 221 attacchi informatici. Un altro deciso aumento si è registrato nel settore retail, oggetto di 218 attacchi lo scorso anno, eventi in crescita a paragone con i 183 del 2023. Il 70% delle violazioni sono finalizzate al furto di dati personali, mentre il 15% è inteso al riscatto in denaro dei dati sottratti. Finite le “certezze” del Dopoguerra, l’Italia si è lasciata sedurre dai profeti della paura di Errico Novi Il Dubbio, 5 maggio 2025 È di pochi giorni fa il “successo” rivendicato dal governo italiano per la gestione dei funerali di Papa Francesco. La presenza improvvisa, e concentrata in poche ore, di gran parte dei leader mondiali a Roma ha messo alla prova l’efficienza di forze dell’ordine e servizi di d’intelligence. In Italia, si ricorda spesso, corpi dello Stato e apparati di sicurezza hanno fronteggiato per anni minacce per lo più sconosciute nel resto delle nazioni progredite. Paese di frontiera durante la guerra fredda, lo Stivale è stato teatro di tensioni violentissime per una presenza di forze politiche filosovietiche, e di gruppi extraparlamentari in alcuni casi armati, sconosciuta al resto d’Europa. E solo in Italia, sempre rispetto al resto dell’Occidente progredito, è esistito un antistato come Cosa nostra, capace persino di una sanguinaria deriva stragista. Tutte condizioni sfavorevoli che, se non altro, avrebbero favorito lo sviluppo di abilità, attitudini, organizzazione e addestramento davvero unici. Un know how acquisito a partire dalla seconda metà del secolo scorso che si sarebbe conservato e trasmesso sia nei corpi dello Stato sia tra gli apparati di sicurezza propriamente detti, cioè nei servizi segreti. Già un quadro del genere - che probabilmente risponde al vero, sebbene nei nostri Servizi si siano conosciute anche terribili “deviazioni” - dovrebbe favorire un approccio più equilibrato al problema della sicurezza in Italia. Già la consapevolezza di contare su strutture collaudate, su forze dell’ordine che hanno acquisito, negli anni, notevoli abilità e informazioni, anche in virtù di un processo di “trasmissione delle competenze”, dovrebbe contribuire a raffreddare la retorica dell’insicurezza sociale, e a frenare i predicatori dell’insicurezza percepita. E invece quel retroterra non basta. Non se ne tiene conto. Ed è incredibile come - nonostante gli anni di piombo siano lontani e la mafia abbia perso la propria connotazione stragista - si riesca a insinuare la convinzione che ora le minacce siano peggiori di quanto non siano state nel secondo Dopoguerra. È un paradosso che può spiegarsi solo con la deriva conosciuta dalla politica nell’ultimo trentennio, e cioè con il dissolversi della partecipazione fisica in favore della virtualità, del proselitismo esclusivamente mediatico e, soprattutto, social. Dai primi anni Novanta in Italia la minaccia di un nemico oscuro, prevalentemente identificato con lo straniero extracomunitario, è un vero e proprio “must” della propaganda. È indiscutibile che a farne un cavallo di battaglia siano stati, storicamente, i partiti di destra e di centrodestra. Ma il “vizio” di spaventare gli elettori e proporsi come i cavalieri che sfidano e scacciano i cattivi fa parte ormai del linguaggio elettorale di quasi tutti gli schieramenti. C’è un’analogia disarmante fra “profezia dell’insicurezza” e processo mediatico. Come la giustizia- spettacolo è basata sull’assoluta indifferenza al dibattimento e alle sentenze d’assoluzione, cioè alla verità processuale, così nel campo della sicurezza c’è una colpevole amnesia sui dati veri dei fenomeni criminali. Come ricordato anche in altri servizi del giornale, da anni l’Italia vede in forte contrazione il numero degli omicidi, e sono relativamente confortanti anche le statistiche su altri delitti che dovrebbero condizionare la percezione della sicurezza. Ma è un dettaglio che i profeti della paura, dell’insicurezza percepita, ben si guardano dal riconoscere. È difficile spiegare com’è possibile che l’opinione pubblica si sia potuta ridurre a moltitudine disarmata, in un Paese in cui fino a quarant’anni fa la partecipazione alla politica era molto diffusa, con una decina di partiti in grado di aprire fisicamente sezioni in ogni centro abitato e in ogni quartiere. Ma siamo forse allo snodo decisivo: la fine del sistema politico e sociale della Prima Repubblica. Il tramonto dei gradi partiti che avevano segnato il Dopoguerra, tramonto coinciso con la fine della guerra fredda, con la caduta del comunismo e la conseguente scomparsa di quella “protezione” che era stata assicurata dal Patto atlantico, dagli Stati Uniti, dal fatto di essere un decisivo Paese di frontiera, appunto, tra due grandi blocchi. La fine di quel paradigma globale si è accompagnata anche alla crisi del precedente modello di sviluppo e, a partire dai primi anni Novanta, a un oggettivo impoverimento. A dirlo sono studi come quelli condotti dall’università di Bologna, da Giovanni Vecchi con il suo “In ricchezza e in povertà”, volume illuminante e documentatissimo del 2011. Se le opinioni pubbliche, e quella italiana senz’altro, si sono scoperte più vulnerabili al senso di insicurezza, è anche per il venir meno delle certezze che, per oltre 40 anni, non solo avevano favorito un benessere meglio diffuso, ma che in generale avevano contribuito a formare un immaginario collettivo più stabile. È nella fine della vecchia politica, della Prima Repubblica, che proliferano la retorica dell’insicurezza, l’ostilità e il pregiudizio nei confronti degli immigrati, l’idea di città sempre sotto la minaccia di un disordine incontrollato. È un’analisi, questa, che conferma ancora come la questione della sicurezza sia legata non a dati oggettivi ma alla percezione diffusa. E tenuto conto di quanto poco convenga, alle forze politiche, ammettere che oggi in Italia si vive assai più sicuri che in molti altri Paesi progrediti, sarà difficile che quella manipolazione si esaurisca in tempi brevi. “Il Decreto Sicurezza è una sfida molto pericolosa allo Stato di diritto” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 maggio 2025 “Viviamo un’epoca nella quale molti Governi cercano di liberarsi dei limiti fissati dalle Costituzioni”. La professoressa Tania Groppi, ordinaria di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università di Siena e membro dell’Associazione Italiana Costituzionalisti, è tra gli oltre 250 giuspubblicisti che hanno sottoscritto un documento per stigmatizzare fortemente il dl sicurezza, nel merito e nel metodo, e che ha unito avvocatura, magistratura accademia. Professoressa, lei e i suoi colleghi contestate la necessità e urgenza del decreto. Ci può spiegare meglio? In Italia, il principio della separazione dei poteri attribuisce, come è proprio di qualsiasi Stato democratico di diritto, il potere legislativo al parlamento. E questo risponde al principio democratico, per cui le decisioni politiche che impattano su tutta la comunità, ancor più se in materia penale, debbono essere adottate nel luogo in cui le diverse opinioni si confrontano in modo trasparente, attraverso procedure che consentano a tutti i parlamentari di far sentire la loro voce, e anche di ascoltare la società civile, attraverso le audizioni. La possibilità, per il governo, di adottare “in casi straordinari di necessità e di urgenza” provvedimenti provvisori con forza di legge, prevista dall’art. 77 Cost., rappresenta una eccezione. L’allontanamento, nei decenni, della prassi da quanto stabilito dalla Costituzione è stato a più riprese stigmatizzato dalla Corte costituzionale, che ha via via messo a punto una giurisprudenza sempre più incisiva, ben sintetizzata nella sentenza n. 146 del 2024, che ne costituisce un punto di arrivo esemplare. Ci sono, però, casi più o meno evidenti di scostamento dai requisiti previsti dall’art.77: quello in questione rientra tra i più gravi e netti. Siamo di fronte a una prova di forza del governo, finalizzata ad esautorare il parlamento e a creare uno stress-test per le istituzioni di garanzia, Corte costituzionale e Presidente della Repubblica. Quali sono i principi costituzionali lesi dalla norma in discussione? Oltre alla questione, gravissima, dell’utilizzo dello strumento del decreto-legge, che viola il principio della separazione dei poteri, ci sono i contenuti. Sotto un titolo non corrispondente al contenuto (mi riferisco alla versione “breve”, con cui è noto, “Decreto-sicurezza”), si camuffano una serie di norme penali che sono finalizzate a reprimere il dissenso e la protesta, in contrasto, tra gli altri, con gli articoli 1, 17 e 18 della Costituzione. Mi pare particolarmente grave proprio l’impatto sul diritto alla protesta: un diritto che spesso costituisce l’ultima risorsa in contesti di involuzione autoritaria che svuotano le istituzioni rappresentative e di garanzia. In Italia questi canali (istituzioni rappresentative e di garanzia) sono ancora aperti, ma ciò non riduce l’importanza del diritto alla protesta come forma di partecipazione popolare diretta in una società democratica, da garantire e proteggere. Condivide il parere del prof avv. Vittorio Manes che in audizione alla Camera ha parlato di “allontanamento dal modello di Stato di Diritto” e di “avvicinamento allo Stato di polizia”? Senza dubbio siamo di fronte a un intervento che si allontana dal modello dello Stato costituzionale di diritto, ovvero dal modello disegnato dalla nostra Costituzione, secondo il quale il diritto penale è da utilizzare nel rispetto del principio di proporzionalità e non rappresenta lo strumento ordinario nel rapporto tra Stato e cittadini, bensì uno strumento straordinario, per reagire a comportamenti individuali devianti. Mi colpisce particolarmente, e mi turba, il fatto che il governo abbia scritto e portato avanti norme manifestamente incompatibili con la giurisprudenza costituzionale in materia penale degli ultimi anni, ignorandola. Vedo anche in questo atteggiamento, in questa evidente e volontaria ignoranza di quel che ha detto la Corte costituzionale, oltre che nel contenuto puntuale dei singoli articoli, una sfida allo Stato di diritto, come mai abbiamo visto all’opera finora in Italia. Secondo Openpolis “il governo Meloni ha raggiunto il numero più alto in valori assoluti di decreti legge pubblicati nelle ultime 4 legislature (84)”. Adesso le polemiche sul dl sicurezza. Inoltre, non è detto che la maggioranza usi anche una tagliola per seppellire tutti gli emendamenti presentati dalle opposizioni al Senato sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere. Lei avverte il rischio di strappo alla democrazia in una logica autoritaria da parte di questa maggioranza e di questo Esecutivo? Siamo in un’epoca storica nella quale, purtroppo, molti governi stanno cercando di liberarsi dai limiti che le costituzioni democratiche hanno introdotto proprio per evitare la tirannia della maggioranza, l’autoritarismo, l’arbitrio. Paradossalmente, essi cercano di giustificare tali azioni richiamandosi allo stesso principio democratico. Le maggioranze, anche le più risicate, come quella che il governo italiano rappresenta (corrispondendo a 12.305.014 voti su 58.997.201 abitanti, ovvero al 20,85% della popolazione italiana), non negano di per sé il principio democratico, ma cercano di manipolarlo, per portare avanti un’agenda politica che vede al primo posto il mantenimento del proprio potere. Esiste una “circolazione” di tale modello neo-autoritario, che si propaga da un paese all’altro, una sorta di alleanza antidemocratica. Le cause sono profonde e da indagare, perché ci mostrano la fragilità di quel che abbiamo costruito a partire dal Secondo dopoguerra. Se dobbiamo riflettere sulle lacune della democrazia costituzionale e su come renderla più forte e radicata, ciò non toglie che la prima cosa da fare per chi crede in essa sia resistere ai tentativi di annientarla. Da qui anche il nostro appello. Da oggi avvocati penalisti in sciopero contro il Decreto Sicurezza di Irene Famà La Stampa, 5 maggio 2025 Le Camere Penali hanno indetto l’astensione da udienze e altre attività per il 5, 6 e 7 maggio. Il motivo: “Grave offesa dei principi costituzionali”. Le Camere penali protestano contro il Decreto Sicurezza, entrato in vigore il 12 aprile. Così l’avvocatura penalista ha indetto tre giornate di sciopero nazionale il 5, 6 e 7 maggio con astensione dalle udienze e da ogni attività. Il decreto, sostengono gli avvocati, rappresenta un grave offesa ai principi costituzionali e alle garanzie fondamentali dei cittadini. E l’obiettivo della protesta è uscire dalle aule di tribunale per sensibilizzare la società civile. A preoccupare i legali sono diversi aspetti, a iniziare “dall’abuso dello strumento della decretazione d’urgenza, utilizzata senza che sussistano i requisiti previsti dalla Costituzione. Il testo approvato, di fatto, ripropone integralmente il disegno di legge rimasto fermo in Parlamento per oltre un anno”. Il provvedimento era stato approvato in fretta e furia dal Consiglio dei ministri dopo una serie di limature apportate su alcuni punti: dal carcere per le donne in gravidanza al divieto di comprare una sim telefonica per i migranti irregolari. Una manifestazione contro il decreto sicurezza - Tra le criticità evidenziate dagli avvocati italiani ci sono le nuove e “inutili fattispecie di reato, aggravanti prive di logica giuridica, e l’accentuarsi di un approccio esclusivamente repressivo verso fenomeni di marginalità e di dissenso sociale”. Un’impostazione che, sottolineano le Camere Penali, “rischia di aggravare la già drammatica situazione delle carceri italiane, segnate da sovraffollamento, carenza di attività rieducative e difficoltà nel garantire la salute mentale e fisica dei detenuti”. La mobilitazione è nazionale. A Roma, oggi alle 10,30, è prevista una manifestazione in piazza Cavour per raccogliere il dissenso dei giuristi e della società civile. Sempre oggi alle 12, a Torino, presso i locali del Consiglio dell’Ordine a Palazzo di Giustizia, è indetta un’assemblea “contro le derive del decreto sicurezza”. Interverranno l’avvocata Giulia Boccassi della Giunta dell’Unione delle Camere penali italiane e il professor Andrea Giorgis, docente di Diritto costituzionale. “È necessario mobilitarsi a difesa dei principi democratici e dei diritti fondamentali della persona, sia essa libera o detenuta - spiegano -. In primis il diritto di difesa e quello ad un giusto processo, soprattutto per i soggetti socialmente più fragili, le cui garanzie sono messe a rischio dalle nuove disposizioni legislative”. Per aprire un confronto pubblico e istituzionale sul tema, la Camera Penale della Lombardia Orientale ha convocato alle 10 un’assemblea nell’aula Panettieri del Tribunale di Brescia. “Un’occasione - spiegano i promotori - per discutere criticità, raccogliere proposte e sollecitare modifiche urgenti al decreto, coinvolgendo professionisti, cittadini e rappresentanti politici del territorio”. “Voci di dentro” aderisce alla battaglia contro il Decreto Sicurezza vocididentro.it, 5 maggio 2025 “Voci di dentro” aderisce alla battaglia contro il Decreto Sicurezza lanciata da un ampio fronte di organizzazioni della società civile, tra cui A Buon Diritto, Acli, Antigone, Arci, Cgil, Cnca, Forum Droghe, L’Altro Diritto, La Società della Ragione, Ristretti Orizzonti, Forum Disuguaglianze e Diversità e Sbilanciamoci. E parteciperà alla manifestazione nazionale del 31 maggio a Roma. Voci di dentro considera il Decreto Sicurezza un atto liberticida e pericoloso. Fingendo urgenza e emergenza, trasferisce il carattere del regime punitivo tipico del carcere e dei Cpr a tutta la società: la punizione si estende e interessa ogni forma di rivendicazione anche se avviene con mezzi pacifici ad esempio l’uso del corpo nella resistenza passiva. Di fatto sono puniti tutti i comportamenti di conflittuali come ad esempio possono esserlo le occupazioni di case o le proteste contro le grandi opere. Allo stesso modo vengono stigmatizzati non solo le azioni ma gli stessi pensieri critici, lo stesso dissenso. Il Decreto Sicurezza oltre a prendere di mira tutto quello che viene considerato innovativo o alternativo al pensiero imposto dall’autorità, colpisce soggetti, movimenti, gruppi di persone che diventano nemici dell’ordine: i minori e i loro genitori, le donne incinta, i detenuti, i migranti, i poveri. Ma il Decreto Sicurezza non è solo un inasprimento della sanzione e delle pene del carcere. Assicurando alle forze dell’ordine garanzie di non punibilità e autorizzando anche l’uso delle armi a personale non in servizio, il Decreto dà via libera a uno stato di polizia. È un progetto di compressione dei diritti, di accentramento del potere nell’esecutivo e di riduzione del ruolo del Parlamento. E ancora, è un progetto culturale di controllo, di sorveglianza e di persecuzione di un grande pezzo di società che vuole una società diversa, una società che si fonda su rispetto, tolleranza, solidarietà e accoglienza. Che vuole regole condivise e non a favore di una classe su altre classi. Il Decreto Sicurezza è incostituzionale e discriminatorio. In tutto e per tutto uguale agli ordini esecutivi di Trump. Ogni giorno i volontari di Voci di dentro, oltre a aderire alla battaglia di Rita Bernardini per un indulto per coloro che devono espiare una pena residua di 12 mesi, digiuneranno a staffetta contro il Decreto Sicurezza per chiedere al Parlamento di non convertirlo in legge. Lombardia. La sanità penitenziaria, integrazione tra carcere e territorio di Silvia Pogliaghi trendsanita.it, 5 maggio 2025 C’è un paradosso che si ripete nei penitenziari italiani: per molte persone, l’ingresso in carcere rappresenta il primo vero accesso alle cure. Un dato che interroga il sistema sanitario e rafforza la necessità di un’integrazione strutturale tra carcere e territorio. Dal 2008, con il passaggio della sanità penitenziaria dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale, questo obiettivo è diventato norma. In Lombardia, dove si contano tra gli 8.800 e i 9.000 detenuti - circa la metà negli istituti milanesi - il modello di erogazione si distingue: non è in capo alle ASL, ma ad Aziende Ospedaliere come l’ASST Santi Paolo e Carlo. Una scelta organizzativa che rispecchia la complessità dell’assistenza in carcere, tra case circondariali a rapido turnover e case di reclusione più stabili, e che oggi punta a garantire continuità terapeutica anche dopo la detenzione. Ne parlano a TrendSanità Roberto Ranieri (infettivologo e dirigente della sanità penitenziaria in Regione Lombardia) e Barbara Pezzoni (Coordinatrice Sanitaria della Seconda casa di Reclusione Milano Bollate). Dottor Ranieri, qual è la situazione attuale dell’accesso alle cure nelle carceri italiane? “Abbiamo osservato, soprattutto negli ultimi tempi, che molte persone, sia italiane che straniere, ricevono diagnosi di patologie gravi solo al momento dell’ingresso in carcere. Paradossalmente, l’ingresso in un istituto penitenziario rappresenta, per alcuni, la prima occasione di accesso alle cure sanitarie. Vengono così alla luce diagnosi di insufficienza renale cronica così avanzata da richiedere dialisi pochi giorni dopo l’ingresso, o scopriamo patologie oncologiche e infettive come HIV mai diagnosticate prima. Questo fenomeno non riguarda solo persone in situazioni di marginalità sociale, ma riflette un problema più ampio di mancato accesso alle cure”. Come sta cambiando l’approccio alla sanità penitenziaria in Lombardia? “Nella nuova riorganizzazione del sistema sanitario penitenziario lombardo, stiamo concependo gli istituti penitenziari come appartenenti alle “case di comunità”, analogamente ad altre strutture territoriali collegate con gli ospedali, come i SERD, i centri di salute mentale e i consultori. Questo approccio ha due aspetti fondamentali: garantire la continuità di cura tra carcere e strutture sanitarie esterne, e impiegare lo stesso personale sanitario che opera sia in ospedale che nelle case di comunità quindi, nel nostro caso, negli istituti penitenziari”. Ci sono già modelli operativi di questa integrazione? “Sì, presso la Casa Circondariale di San Vittore abbiamo attivato servizi infermieristici condivisi, come l’ambulatorio della ferita chirurgica e del piede diabetico, e servizi di fisioterapia. Anche alcune specialità mediche, come la ginecologia-ostetricia, sono condivise tra San Vittore, Bollate e l’ICAM, Istituto a Custodia Attenuata per le Madri, per le detenute madri con figli. Inoltre, stiamo attivando altre attività come quella odontoiatrica e ortopedica con concorsi specifici come per assumere professionisti che svolgano entrambi i ruoli, ospedaliero e penitenziario. Modelli simili si stanno sviluppando anche a Brescia, Bergamo e in altre realtà fuori dalla Lombardia”. Come viene affrontato il tema delle dipendenze e della salute mentale? “Per queste problematiche esistevano già percorsi strutturati. Nella Casa Circondariale di San Vittore, per esempio, abbiamo la sezione “La Nave” dedicata ai detenuti tossicodipendenti in trattamento avanzato, dove alla terapia farmacologica si affiancano interventi integrati multidisciplinari con educatori, arte-terapisti e musicoterapisti: si tratta di un percorso “elettivo” sono infatti, circa un decimo i detenuti di questa sezione e un decimo dei detenuti tossicodipendenti presenti nella Casa Circondariale. Recentemente, grazie a nuovi finanziamenti, abbiamo potenziato i centri diurni che impegnano le persone con problemi di salute mentale o dipendenza in varie attività educative durante tutta la giornata feriale con l’auspicio di allargarle anche ai festivi, inoltre, per i detenuti “giovani” dell’Istituto Penale per Minorenni Cesare Beccaria di Milano stiamo pensando di estendere le attività fino alla tarda serata. Riteniamo che l’impegno della persona così strutturato possa prevenire comportamenti problematici e ridurre l’utilizzo di farmaci”. Un tema cruciale è la continuità assistenziale dei percorsi terapeutici che intraprendono i detenuti. Come viene gestita in caso di trasferimento tra istituti o al momento del rilascio? “È fondamentale garantire una continuità tra la presa in carico durante la detenzione e dopo il rilascio. Per questo stiamo implementando un sistema di presa in carico anticipata da parte delle strutture territoriali prima del rilascio del detenuto come nel caso dei Centri di salute mentale cosa che già avviene per i Centri SERD. Ci teniamo anche alla presa in carico del paziente cronico, anche la persona cardiopatica o diabetica, cioè tutte le patologie croniche che richiedono una presa in carico ed un elemento chiave è l’attribuzione del codice fiscale all’ingresso in carcere, che permette di mantenere un’identità anagrafica e sanitaria anche dopo il rilascio. Stiamo anche migliorando i sistemi di registrazione delle vaccinazioni, integrandoli con quelli presenti sul territorio”. Parliamo di finanziamenti degli interventi… “In Lombardia abbiamo circa 9mila detenuti, che rappresentano tra un quinto e un sesto del totale nazionale, e spesso con casi più complessi dal punto di vista sanitario rispetto ad altre Regioni. Nel 2024 la Lombardia ha ricevuto 24 milioni di euro di finanziamento per la sanità penitenziaria di cui 19 milioni solo per Milano, ma la spesa effettiva è stata di 35 milioni, costringendo la Regione a coprirne la differenza. Il sistema di finanziamento, basato solo sul numero di detenuti e non sull’effettivo carico sanitario, andrebbe rimeditato. Circa il 33% dei detenuti in Lombardia è straniero e tra il 30% e il 50% ha problemi di dipendenze, con percentuali molto più alte nelle Case circondariali come San Vittore di Milano, dove gli stranieri arrivano al 70% e i casi di dipendenza superano il 50%. Questi sono i dati che dovrebbero essere considerati anche per la presa in carico assistenziale”. Dottoressa Barbara Pezzoni, la Seconda Casa di Reclusione Milano Bollate (MI) è considerata un modello di riferimento. In cosa si distingue? “A Bollate, il detenuto in entrata firma un patto di responsabilizzazione con l’amministrazione penitenziaria e con la sanità. È l’inizio di un percorso di riabilitazione sia medico sia civile, venendo così preso in carico dal punto di vista sanitario, come avviene anche nelle altre quattro carceri milanesi. Abbiamo sviluppato percorsi diagnostico-terapeutici personalizzati per i pazienti cronici, con follow-up ed esami programmati a scadenze precise, per evitare che ci siano “pazienti invisibili” che si perdono nel sistema”. Ci può parlare dell’iniziativa dei “peer supporter”? “Abbiamo formato alcuni detenuti come “peer supporter” che si trovano nei vari reparti e possono segnalare precocemente sintomi o malesseri dei compagni, soprattutto per prevenire gesti autolesivi o suicidari. Inoltre, sempre nel campo della formazione e di educazione conduciamo campagne di prevenzione e screening, come la recente prima campagna di vaccinazione antinfluenzale del mese di novembre scorso che ha raggiunto circa 470 pazienti su circa 1.400, e stiamo avviando screening oncologici in collaborazione con la Fondazione Libellule Insieme. Prima di ogni campagna, facciamo un lavoro di educazione e formazione dei pazienti per aumentarne l’adesione”. Avete introdotto altre novità organizzative? “Da gennaio 2025 abbiamo istituito la figura del Medico di reparto, figura che già esiste nelle altre carceri milanesi e fondamentale nella presa in carico sanitaria e nell’educazione del paziente. Avere un sanitario di riferimento è cruciale in un setting chiuso come quello penitenziario per garantire assistenza nel momento del bisogno”. Il nuovo approccio alla sanità penitenziaria rappresenta un cambio di paradigma che vede il carcere non più come un’istituzione isolata, ma come parte integrante del tessuto sanitario territoriale, con l’obiettivo di migliorare la qualità delle cure e garantire la continuità assistenziale anche dopo la detenzione. Terni. 55enne detenuto muore in carcere: ipotesi suicidio, indaga la procura di Nicoletta Gigli Il Messaggero, 5 maggio 2025 Il compagno di cella dorme, lui mette in atto il proposito di chiudere con la vita impiccandosi con un lenzuolo. Sulla tragedia costata la vita a un romano di 55 anni, da una vita residente a Terni, in carcere a Sabbione da un paio di settimane dopo l’aggravamento del divieto di avvicinamento a sua madre, sta indagando il pm, Giorgio Panucci. A dare l’allarme, nel pomeriggio del primo maggio, il compagno di cella della sezione destinata all’accoglienza del penitenziario ma per il 55enne purtroppo non c’era più nulla da fare. Dopo la tragedia il pm Panucci, che si è recato in carcere per i primi accertamenti andati avanti fino a notte inoltrata, ha aperto un fascicolo per ricostruire nei dettagli la dinamica dell’accaduto. Sono stati sentiti sia il compagno di cella, che ha chiamato i soccorsi, che i poliziotti che erano al lavoro nelle ore in cui si è consumata la tragedia. I primi accertamenti indirizzano le indagini sul suicidio. Decisiva per fugare ogni dubbio l’autopsia sulla salma del detenuto, che sarà disposta nelle prossime ore. La morte del 55enne, stando alle indagini, non sarebbe stata preceduta da segnali di malessere. Aveva varcato la soglia del carcere un paio di settimane fa dopo che l’uomo, violando il divieto di avvicinamento a sua madre nell’ambito del procedimento penale per maltrattamenti in famiglia, si era visto aggravare la misura cautelare. In attesa che siano chiariti i contorni dell’ennesima morte dietro le sbarre di un carcere al collasso c’è profondo dolore. C’è la convinzione che non sia più il possibile restare a guardare. “Con l’ennesimo suicidio di un detenuto nel carcere di Terni si ha la conferma della sconfitta della civiltà giuridica del sistema carcerario italiano - dice Giuseppe Caforio, garante dei detenuti dell’Umbria. Questa ennesima morte è sulla coscienza di tutti e le istituzioni hanno l’obbligo prima morale e poi giuridico di dare immediate risposte”. Dopo la tragedia la presidente della Regione, Stefania Proietti si è sentita col direttore del carcere, Luca Sardella, cui ha espresso “il cordoglio per l’ennesima dolorosa perdita di una vita e la vicinanza e la solidarietà al personale dell’istituto, che è sempre più provato dall’insostenibilità della situazione. Di fronte all’ennesima tragedia avvenuta in un carcere - aggiunge Stefania Proietti - tutti abbiamo il dovere di fare qualcosa, non è più possibile far finta di niente. La Regione vuole fare, e sta facendo, la sua parte chiedendo risposte al Governo”. Pochi giorni fa, ancora una volta, la presidente Proietti ha scritto al ministro della Giustizia, Carlo Nordio. per sollecitare la risoluzione delle questioni che riguardano le quattro strutture regionali. E l’ha invitato a visitare le carceri umbre per rendersi conto dal vivo delle problematiche che attanagliano l’Umbria più di ogni altra regione italiana. La presidente dell’assemblea legislativa, Sarah Bistocchi afferma che “la notizia dell’ennesimo suicidio di un detenuto in carcere, a Terni, ci fa toccare con mano le difficoltà di un sistema penitenziario lontano dallo scopo previsto inizialmente dalla Costituzione, quello di una rieducazione capace di andare oltre lo stigma e di fornire ai detenuti gli strumenti per ripartire”. Terni. Il suicidio in carcere di Massimiliano, uno dei tanti di Massimo Solani rainews.it, 5 maggio 2025 Dietro l’ennesimo gesto estremo, avvenuto nel penitenziario di Terni, c’è la grande questione del disagio psichiatrico dei detenuti in Italia. Massimiliano si è impiccato in una cella del carcere di Terni il primo maggio, senza che nessuno si accorgesse di lui. E, senza che nessuno si accorgesse di lui, aveva praticamente vissuto gli ultimi mesi della sua vita. Dal novembre scorso, da quando cioè il tribunale lo aveva allontanato dalla casa popolare che divideva con l’anziana madre perché accusato di maltrattamenti in famiglia. In cura da tempo al servizio per le tossicodipendenze e al centro di salute mentale di Terni, il cinquantacinquenne (a cui qualche settimana più tardi era stata applicata anche la misura del braccialetto elettronico) era rimasto così senza un posto dove vivere stabilmente, al punto che a più riprese il tribunale di Terni aveva chiesto ai servizi socio sanitari di trovargli una collocazione abitativa idonea anche in una struttura residenziale fuori provincia o fuori regione. Raccomandazioni che erano rimaste però lettera morta e a nulla erano servite anche le richiesta di aiuto che Massimiliano aveva rivolto all’assessorato al Welfare del Comune di Terni, che non disponendo di strutture adatte aveva reiterato la richiesta al servizio per le tossicodipendenze, al centro di salute mentale e alla Usl Umbria 2. L’ultima volta il 15 aprile, giorno successivo all’ultima visita di Massimiliano a Palazzo Spada. Solo che Massimiliano nel frattempo era stato arrestato ed era finito a Sabbione per aver violato il divieto di avvicinamento alla madre. Due settimane in una cella del reparto di accoglienza, poi la decisione di farla finita. Un dramma che, come denunciato anche dai sindacati della polizia penitenziaria, dimostra ancora una volta “come la questione del disagio psichico e del rischio suicidi all’interno degli istituti penitenziari rappresenti una vera emergenza”. A cui, come denunciato anche dalla presidente della Regione Stefania Proietti, l’assistenza sanitaria, soprattutto quella relativa alla salute mentale dei detenuti, non è in grado di fornire adeguate fra sovraffollamento e carenza di risorse. Coi referendum di giugno su lavoro e cittadinanza, siamo chiamati a sanare alcune storture di Enza Plotino Il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2025 Ci siamo. Dopo due anni in cui il governo Meloni ha fatto strame di ogni regola e ha calpestato diritti e libertà fondamentali, colpendo con l’accetta il sistema democratico su salute, lavoro, sicurezza sociale, alloggio, cittadinanza, libertà di riunione, diritti dei detenuti e tortura e sulla protezione dei migranti, l’8 e il 9 giugno abbiamo la possibilità di dire la nostra e di modificare alcune norme in materia di cittadinanza, licenziamento e sicurezza sul lavoro che il regime meloniano ha, non ignorato, ma combattuto dal primo momento. I poveri sempre più poveri, i ricchi sempre più ricchi e i migranti… in fondo al mare. Questo l’amaro e ignobile teorema della destra che per dare seguito a questo vergognoso progetto ha prodotto decreti spregevoli e dettati da astio profondo verso la democrazia dei diritti e delle libertà personali e collettive. Al centro dei quesiti referendari, il tema del lavoro. Oggi nel nostro Paese il lavoro è malpagato, precario, non dignitoso, non sicuro, soprattutto nei settori stagionali del terziario, in particolare di turismo e commercio. È un’economia povera di un Paese in declino. In questo contesto così difficile, frammentato e insicuro, i referendum dell’8 e 9 giugno hanno lo scopo di ripristinare un modello di società più giusto e inclusivo e di rimettere al centro del progetto politico e istituzionale del Paese il lavoro, ristabilendo la tutela reale in caso di licenziamento illegittimo, abolita con il Jobs Act, la riforma del lavoro voluta dal governo Renzi (primo quesito); abrogando il limite massimo dell’indennizzo economico previsto per i lavoratori licenziati senza giusta causa nelle imprese con meno di quindici dipendenti, restituendo al giudice la piena discrezionalità nel determinare l’ammontare del risarcimento in base alla gravità della violazione (secondo quesito); eliminando le modifiche legislative degli ultimi anni sui contratti a termine che hanno reso più semplice per i datori di lavoro ricorrere a questo tipo di contratto, con l’obiettivo di ridurre la precarietà e favorire l’occupazione stabile (terzo quesito). Altro tema referendario ultra sensibile è la sicurezza sul lavoro. In questo caso si propone di abrogare alcune norme che limitano la responsabilità delle aziende in materia di prevenzione degli infortuni. L’intento è quello di rafforzare le tutele per i lavoratori, aumentando le misure preventive e le responsabilità dei datori di lavoro (quarto quesito). Infine, ultimo ma non meno importante, il quesito che riguarda la cittadinanza per stranieri non appartenenti all’Unione europea. La proposta mira ad abrogare l’attuale requisito di dieci anni di residenza legale in Italia per ottenere la cittadinanza, riducendolo a cinque. L’impossibilità di cittadinanza per i bambini e i cittadini stranieri che sono nati o vivono in Italia, un Paese in cui la normativa vigente è fondata sullo “ius sanguinis”, è ancora fortemente escludente, impedendo l’accesso, per chi vive e lavora nel nostro Paese, a un pacchetto di diritti che si sono ampliati nella seconda metà del ‘900 in direzione dei diritti sociali: educazione, pensioni, sanità, infortuni, tutela più o meno ampia contro la disoccupazione e la povertà. Gli stranieri residenti non hanno nessun diritto anche se lavorano regolarmente: i primi diritti ad essere acquisiti in epoca contemporanea sono i diritti sociali legati al lavoro, come la pensione e l’assistenza sanitaria. Così come si pone il problema di conferire uno status ai figli, specialmente quando sono nati e cresciuti sul nostro territorio. Finalmente, dopo due anni di malgoverno, siamo chiamati a sanare le storture e a ripristinare un sistema democratico maturo e consapevole che rimetta al centro il diritto ad un lavoro pagato e duraturo e il diritto di ognuno di sentirsi… a casa. Quei giovani che non fanno notizia di Concita De Gregorio La Repubblica, 5 maggio 2025 Diamo spazio e voce anche ai ragazzi che non si accoltellano ma si abbracciano. Che non si ammazzano sulle supercar ma prendono l’85 per andare a scuola. E che se sono ubriachi non guidano, se qualcuno aggredisce una ragazza intervengono, se un amico sta male lo aiutano. I ragazzi, i giovani non esistono. Che categoria sarebbe quella che accomuna le persone della medesima età in un mazzo solo? Voi, che abbiate 42 anni, 54 o 61, vi sentite una sola comunità con i vostri coetanei? Frequentate, fate amicizia, amate e vivete in sintonia solo o meglio con le persone del vostro stesso anno di nascita? Non credo proprio. Esistono geni e idioti, benefattori e criminali, eredi di fortune familiari e nullatenenti, esistono menti ispirate e menti all’ammasso, tra coetanei. Parlo dei miei coetanei, ma vale per sedicenni e quattrenni. Ricordo quando dicevo ai figli, in spiaggia: vai a fare il castello con quei bambini, vedi? hanno la tua età. Non ci andavano mai, poi un giorno uno di loro mi ha detto: mamma avranno anche la mia età ma non mi piacciono, vacci te a giocare con loro se ti interessa fare un castello. Il punto è difatti - non l’ho più dimenticato - cosa ti interessa fare. Qual è il tuo orizzonte, il tuo desiderio, il tuo bisogno: può essere il medesimo di un decenne o di un novantenne. Le classi di età funzionano solo per le statistiche. Servono per esempio a sapere quanti hanno casa, quanti hanno lavoro, quanti hanno figli. Grandi numeri. È importante, sì, ma i numeri non dicono niente delle persone. Ogni persona è un mondo. Già chiedere cosa sia il Manifesto di Ventotene o cosa celebri il 25 aprile, come spesso si vede in certi servizi tv, quelli fatti fuori da scuola o al centro commerciale - nessuno sa mai la risposta giusta, che desolazione - non ha un grandissimo valore informativo. Dipende. Da dove sei, a chi stai chiedendo. Ci sono diciottenni che conoscono almeno di nome Berlinguer e persino Calamandrei, giuro che ci sono e sì certo saranno una minoranza, sì certo dipende da cosa ti insegnano a scuola, da cosa ti dicono a casa, se hai dei nonni che ti raccontano la loro vita o se no. Però ci sono. Ci sono bande per strada che si accoltellano. A leggere le cronache sembra che tutti si stiano accoltellando proprio in questo momento. Che nessuno esca di casa senza una lama in tasca. Solo in un giorno: a Bergamo, a Castelfranco Veneto, a Napoli. Rissa fra tifosi, rissa fuori dalla discoteca, rissa per un’inezia, una discussione, una spinta. Ne scrivevo giorni fa perché esiste, certo, un tema di paura e di consapevolezza. Lo vedo, lo sento da chi, di mia minore età, entra ed esce da casa: sanno che in certi posti c’è pericolo, sanno dove e quando. Però ho visto anche, in questi giorni, una moltitudine di giovani e meno giovani affollare il concerto di Lorenzo Cherubini, Jovanotti, a Roma. Ne ha scritto Gino Castaldo. Un palasport sempre esaurito per dodici sere, migliaia e migliaia di persone. (Che poi, in quell’arena: erano giovani, i genitori trentenni con i figli piccoli in spalla o lo erano solo i ventenni? E i genitori cinquantenni che li accompagnavano e cantavano con loro? No, certo, a cinquanta non sei giovane. A quaranta? A quaranta forse sì, considerato che gli ottanta-novantenni continuano a occupare i posti chiave nella società, che è anche giusto e si capisce, per carità, specie se portano ascolti e denari. Nel mondo fuori non è come al Conclave, che a ottanta resti a casa. Nel mondo fuori a quaranta porti pazienza e resti umile). Dicevo del concerto, e di quel campione a cui fuori dal Palasport nessuno ha chiesto con le telecamere da cosa ci abbia liberati il 25 aprile: lo sapevano, grosso modo. Quando Jovanotti lo ha citato hanno fatto un coro fortissimo e un applauso molto lungo. Ragazzi che si baciano, che si tengono per mano, che si fidanzano proprio in quel momento (l’anello, la promessa), che si stanno per sposare o celebrano un anniversario, l’amicizia. Sembravano molto felici, e certo sarà perché condividono lo spirito del cantante che amano: riparare, condividere, guardare avanti con fiducia. Ti viene voglia di essere migliore, dopo tre ore a cantare con il ragazzo fortunato, per quanto di recente scampato a un incidente terribile e per questo ancor più grato e fortunato. Ma allora domando. Abbiamo parlato per settimane di Adolescence, la serie tv che in Inghilterra daranno nelle scuole come antidoto alla possibilità che un tredicenne accoltelli una compagna senza consapevolezza di cosa sia la morte (“Ti sei reso conto di quello che hai fatto?”. Silenzio), come cura al guasto dei “giovani”, che vivono in un mondo virtuale, misogino, senz’altro maschilista, abitato dal senso del possesso, dall’inadeguatezza e dal silenzioso indecifrabile rancore. I maschi che uccidono le femmine. Assenti, violenti, assassini da qualche parte però anche innocenti, i genitori increduli. È questo il mondo in cui viviamo, il futuro che ci aspetta? Per una parte, certo, ma non solo. Allora si tratta di capire su cosa fare leva. Di certo c’è in tutti, è vero, uno smarrimento nuovo. Ansia, disturbi alimentari, disturbi del sonno, fatica a trovare il proprio posto in un mondo che non ti dà posto. Se a quaranta devi aspettare il tuo turno con pazienza, a venti non hai nemmeno una lista d’attesa cui segnarti. D’altra parte. Guardi il telefono e trovi Trump vestito da Papa, trovi l’assurdo, l’insensato al comando. Trovi i meme, per una risata sull’orlo del baratro. Non funziona come prima, che se sai fare una cosa e la vuoi fare vedrai che succede. È un terno al lotto, tutto è imprevedibile e si capisce l’ansia. L’insonnia, l’autolesionismo. Il senso di estraneità al gioco di ruolo che abbiamo - noi, adulti - immaginato e costruito per loro. O che non abbiamo saputo arginare con una proposta alternativa, che è pure peggio. Ma così, in un lunedì di primavera e si sa che il lunedì non è un bel giorno, per l’ottimismo, direi però. Diamo un po’ di spazio e di voce anche a quella immensa moltitudine di ragazzi che non si accoltellano ma si abbracciano, come al PalaJova. Che non si suicidano e non si ammazzano a trecento all’ora sulle supercar prese a noleggio o ereditate dai padri ma che prendono l’85 per andare a scuola, il monopattino per uscire la sera e che se sono ubriachi non guidano, se qualcuno aggredisce una ragazza intervengono, se un amico sta male lo aiutano, danno ripetizioni ai figli dei vicini senza sentirsi per questo sfigati. Perché ci sono e sono credo la maggioranza. Solo che non fanno notizia, non fanno scandalo. Ma occhio, a farci portavoce con pensosa preoccupazione dei “giovani senza ideali” come categoria. Le categorie non esistono, i biondi, i medici e i mancini sono molto diversi fra loro, per non parlare dei quindicenni. Forse rappresentare anche quelli che non fanno il saluto romano e non disegnano svastiche sul banco, che non si scambiano sul telefono foto della ragazza della terza B, che non la aggrediscono in branco: aiuterebbe. Occhio a non dare un posto a chi non lo trova: se non lo trova è perché noi, che ci siamo da prima, non glielo stiamo dando. Laura ha “bisogno di morire presto” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 5 maggio 2025 “Tutte le sere il corpo mi parla e mi dice che è ora. I giorni stanno diventando sempre più una tortura”. Due anni per avere una risposta dalla sua Asl di riferimento. Due anni di denunce, diffide, un ricorso d’urgenza, un reclamo… E alla fine la Asl, a novembre 2024, ha detto che sì, Laura Santi - consumata da una forma progressiva e avanzata di sclerosi multipla - ha tutti i requisiti per accedere al suicidio assistito. Peccato che fra novembre e oggi non siano stati fatti gli ultimi due passi: individuare il farmaco e stabilire la modalità di esecuzione della dolce morte. Quindi il via libera c’è ma senza quei due passi non vale niente: è di nuovo tutto fermo. L’associazione Coscioni, come sempre guidata nella parte legale dall’avvocata Filomena Gallo, sta cercando di sciogliere il nodo, ma Laura è arrivata alla fine delle sue forze e dal suo finale ha scritto questa lettera al mondo: “Amici, Io ho bisogno di morire presto e il motivo della mia scelta è soltanto il corpo. Tutte le sere il corpo mi parla e mi dice che è ora. I giorni stanno diventando sempre più una tortura; per il caldo che comincia - e dovrei affrontare l’estate come l’anno scorso, ma con la malattia progredita in questi 12 mesi -; per i dolori (e ne stanno venendo di sempre nuovi); per la paralisi progressiva e per la fatica neurologica. I giorni si stanno svuotando di tutto a livello di minima attività e partecipazione sociale, sono sempre più un corpo inerte pieno di dolori e complicato da gestire. Ho quindi preso contatto con un’organizzazione che fornisce aiuto per la morte volontaria in Svizzera: un orizzonte concreto e obbligato, perché la mia regione, l’Umbria, e la mia Asl, Perugia, non mi danno risposte sulle modalità pratica per ottenere il mio diritto al suicidio assistito qui in Italia. Affrontare la Svizzera per me significa pianificare un viaggio di oltre 9 ore fisicamente molto dolorose, e per cosa poi? Per andare in un Paese straniero con persone estranee e seguire una procedura che francamente non pensavo di dover subire, perché da novembre scorso io ho il diritto di morire qui. Spero di non doverlo fare e mi batterò per questo fino all’ultimo momento utile, cioè fino al giorno prima di partire per la Svizzera. Mi manca un tanto così per eseguire la mia volontà, conto sul vostro aiuto per ottenerlo”. Per quel poco che possiamo fare eccolo il nostro aiuto per Laura: amplificare le sue parole per farle sentire più forte a chi finora non le ha ascoltate. Migranti. “Sentiamo i lamenti e le urla di dolore dei reclusi a Restinco” di Isabella De Silvestro Il Domani, 5 maggio 2025 “Abbiamo chiamato ambulanze, ma non sono state fatte entrare”. La rete pugliese No Cpr ha organizzato un presidio dopo il decesso di un migrante nella struttura tenuta nascosta anche a un deputato in visita. Secondo le testimonianze raccolte sarebbe morto con la schiuma alla bocca: “Potrebbe indicare un’overdose da farmaci”. Un uomo nigeriano di 35 anni è morto tra l’1 e il 2 maggio all’interno del cpr di Brindisi, in circostanze ancora da chiarire. La notizia del decesso, avvenuto poche ore prima della visita del deputato del partito Democratico Claudio Stefanazzi, non è stata comunicata neppure al parlamentare, che è stato accolto “in un clima sereno” dagli operatori che poche ore prima avevano gestito la morte di una delle persone trattenute. Nessuna nota ufficiale è stata diffusa, ma le prime voci hanno iniziato a circolare rapidamente, spingendo gli attivisti dell’assemblea No Cpr Puglia a organizzare un presidio la sera del 3 maggio davanti alla struttura. Comunicare con le persone trattenute è possibile solo gridando da una parte all’altra del muro di cinta. Vedere, invece, non è concesso. “Quando siamo arrivati sentivamo le persone lamentarsi da dentro. Uno diceva di avere le mani rotte, un altro soffre d’asma e ha un’ernia”, racconta un attivista presente. Non è la prima volta che la rete No Cpr si raduna fuori dalla struttura di Restinco, ma questa volta la priorità era chiara: far sentire ai reclusi che, fuori, qualcuno li ascolta. “È accaduto un fatto gravissimo. Volevamo che sapessero di non essere soli, completamente isolati. E anche cercare di capire in che condizioni di salute si trovano”, aggiunge. Poco dopo l’inizio del presidio, una camionetta della polizia si è posizionata all’ingresso del centro, sono arrivati molti poliziotti, sia in divisa che in borghese. Secondo le testimonianze raccolte dagli attivisti, l’uomo sarebbe morto fra le convulsioni e con la schiuma alla bocca: un dettaglio che, dicono, potrebbe indicare un’overdose da farmaci, facendo ipotizzare l’ennesimo caso di contenimento farmacologico. “È una pratica diffusissima, tanto nelle carceri quanto nei Cpr. Un po’ come il bromuro nelle caserme di leva: i farmaci vengono somministrati non per curare, ma per sedare. È una ‘pratica’ che, per negligenza, leggerezza o un errore di dosaggio, può facilmente sfuggire di mano e avere conseguenze gravi. Tra i farmaci mescolati al cibo e quelli somministrati come terapia, può capitare di sentirsi male. In passato, alcuni sono stati portati d’urgenza in ospedale dopo un malore”. Dopo aver comunicato con i reclusi che lamentavano dolori e condizioni di salute gravi gli attivisti di No Cpr hanno chiamato un’ambulanza, due volte. “L’ultima l’ho chiamata io personalmente”, racconta uno di loro. “Ho fornito le mie generalità, il mio numero, tutto. L’ambulanza è arrivata due volte, sempre la stessa. La prima volta, dopo molte insistenze: abbiamo dovuto chiamare cinque, sei, sette volte prima che ci dicessero “Va bene, vi mandiamo un mezzo”“. Ma anche quando è arrivata, non è stato possibile farla intervenire. “La prima volta i cancelli sono stati aperti, ma il medico della struttura ha rifiutato l’intervento, dicendo che non ce n’era bisogno. La seconda volta non è nemmeno potuta entrare”. Solo dopo ulteriori pressioni, e grazie all’intervento di un’avvocata contattata dagli attivisti, è stato possibile ottenere una minima apertura da parte della direttrice del Cpr, che ha promesso che lunedì mattina una delle persone che sta male verrà portata a fare una visita medica esterna. “È assurdo”, commentano. “Deve morire qualcuno perché venga ascoltato chi denuncia una situazione di sofferenza. E anche la morte, da sola, non basta. Ci sono volute venti persone fuori dai cancelli a fare rumore per ore, a pretendere ascolto”. A differenza di altri Cpr, come quelli di Bari-Palese, Trapani-Milo o Palazzo San Gervasio, il Cpr di Brindisi Restinco non compare chiaramente nelle mappe ufficiali. Non è segnalato da Google Maps, non è menzionato nei siti istituzionali. Anche una semplice ricerca online restituisce pochi risultati, e solo scavando nella seconda o terza pagina si può trovare qualche riferimento ufficiale, spesso vago, alla “struttura già nota come Cara (Centro di Accoglienza per richiedenti Asilo)”. Per chi da anni segue da vicino questi luoghi di detenzione e orrore è un dettaglio per nulla marginale, che nasconde anzi un’intenzione politica. “Per noi questa è una forma di rimozione sistematica dallo sguardo pubblico”, spiegano gli attivisti. “Non si tratta solo di isolamento fisico o logistico: è una cancellazione della presenza stessa del Cpr dalla percezione cittadina, anche nella sua proiezione digitale. È come se questi spazi fossero sottratti allo sguardo sia concretamente che simbolicamente”. Un fatto che ha conseguenze rilevanti e, come in questo caso, gravi: non sapere dove si trovano questi luoghi, chi vi è recluso, come viene trattato, in che condizioni di salute si trova e quali violenze quotidiane subisce o addirittura quali sono le cause della sua morte - significa non poter esigere il rispetto dei diritti di una popolazione che, per definizione, non avendo i documenti in regola, è politicamente fragile se non insignificante. La terza morte in tre mesi - Quella dell’uomo nigeriano è la terza morte nel giro di tre mesi sotto le mani della stessa azienda appaltatrice: il consorzio composto dal gruppo Agh Resort Ltd e Hera Società Cooperativa Sociale. Perché, ricordiamo, i Cpr sono gestiti da aziende, spesso vere e proprie multinazionali della detenzione, che vincono gare d’appalto proponendo importanti ribassi sui costi di servizio con il rischio, praticamente garantito, di gravi violazioni dei diritti fondamentali dei trattenuti. In particolare, i trasferimenti verso i cpr di Bari, Brindisi e Palazzo San Gervasio sono considerati da chi li subisce e da chi li monitora dei trasferimenti punitivi. Le strutture sono fatiscenti, le infrastrutture vecchie e malfunzionanti, l’accesso a cure mediche, informazioni legali e beni di prima necessità è ancora più limitato. “A Bari fino a poco tempo fa le persone vivevano in prefabbricati roventi, gli stessi installati in fretta e furia quando, vent’anni fa, fu aperto il primo cpt in emergenza”, continua l’attivista di No Cpr - Puglia. Rispetto a centri come quello di Ponte Galeria a Roma o al vecchio Cpr di Torino in corso Brunelleschi, quelli pugliesi sono considerati strutture di maggiore isolamento e degrado, e quindi strumenti di pressione ulteriore sui reclusi. Le violazioni sono molte e di varia natura. Un esempio: nel Cpr di Brindisi non esiste un telefono della struttura a disposizione delle persone recluse. Chi vuole comunicare con l’esterno deve contare sul proprio telefono personale, a patto che non sia uno smartphone, perché quelli vengono sistematicamente confiscati perché dotati di fotocamera. Chi non ha un cellulare idoneo deve farselo spedire da amici o familiari. In alcuni casi, raccontano gli attivisti, sarebbero state le stesse guardie a vendere telefoni ai reclusi, sovraprezzati. I Cpr sono luoghi marginali di violazione dei diritti, opacità e soprusi. Ancora più ermetici del carcere - istituzione a sua volta fuorilegge -. In questi luoghi si può morire, nel silenzio e nell’umiliazione, senza che la propria morte valga almeno un comunicato ufficiale. Migranti. Scambiato per maggiorenne, da due anni nel carcere con gli adulti di Alessia Candito La Repubblica, 5 maggio 2025 Nonostante la legge Zampa preveda un accertamento multidisciplinare, una radiografia del polso è bastata per spedirlo dietro le sbarre a Trapani: “Aiutatemi ad andare in comunità”. “Sono partito dalla mia terra solo per aiutare mia madre nelle sue sofferenze. Per favore, aiutatemi”. La scrittura è quella stentata di chi da poco tiene la penna in mano, l’italiano quello zoppo di chi da solo ha imparato a riconoscere parole e suoni, ma inciampi grammaticali e sintattici non nascondono lo smarrimento che traspare da ogni riga. Mouad, nome di fantasia, ha fatto diciott’anni da poco più di due mesi, ma per lui non c’è stata nessuna festa. Anzi, il suo compleanno ufficialmente non esiste. Per lo Stato italiano, lui è nato il primo gennaio 2005, è maggiorenne, come tale è stato processato e condannato come “scafista” e da due anni è detenuto in un carcere per adulti. Nello specifico, a Trapani, nell’istituto di pena dove 11 agenti sono finiti ai domiciliari, 14 sono stati sospesi dal servizio e altri 21 sono indagati per torture, abusi e umiliazioni inflitte ai detenuti. L’accusa - Per lui, l’accusa è di aver guidato un gommoncino di sei metri con a bordo 13 persone fuggite da Monastir, in Tunisia. Nel febbraio 2023 - emerge dagli atti del processo - il motore, che già più volte si era fermato durante il viaggio, li pianta definitivamente al largo di Pantelleria, dove li soccorre la Guardia costiera. Tre passeggeri, tutti tunisini, puntano il dito contro Mouad e un altro ragazzo, che viaggia insieme alla moglie. Loro sono gli unici subsahariani a bordo. I loro accusatori fanno anche saltare fuori una foto che ritrae il ragazzo seduto nei pressi del motore. La radiografia del polso - Durante i primi colloqui Mouad dice subito di essere minorenne, ma non viene creduto. Nonostante la legge Zampa preveda che in casi di dubbio l’accertamento dell’età avvenga attraverso un’analisi multidisciplinare - che prevede una visita pediatrica, una odontologica, un colloquio psicologico - a Trapani viene identificato come maggiorenne dopo una semplice radiografia del polso. Il referto recita semplicemente: “il controllo attuale evidenzia completa saldatura di tutti i nuclei di ossificazione e pertanto è riferibile a paziente di età scheletrica matura”. Ma per l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, che ha stilato precise linee guida per l’accertamento dell’età dei minori stranieri non accompagnati, si tratta di un esame “soggetto ad un margine di errore, quantificabile in un intervallo corrispondente ad almeno due anni superiore o inferiore rispetto all’età rilevata”. Nel periodo dell’adolescenza “può arrivare fino a cinque anni in difetto o eccesso”. Alla ricerca dell’atto di nascita - Inutilmente l’avvocata Frustreri, che assiste il ragazzo, ha prodotto una dichiarazione giurata sostitutiva dell’atto di nascita arrivata dal tribunale della città più vicina al suo villaggio in Guinea. Per i giudici della Corte d’appello di Palermo, “il documento non risulta formato su un certificato di assistenza al parto o dalla dichiarazione di un pubblico ufficiale in data coeva, ma sulla base di dichiarazioni degli stretti congiunti”. E le loro testimonianze non bastano. Il certificato di nascita ufficiale, rilasciato dall’Ufficiale di Stato Civile, con tanto di timbri e numero di protocollo, è arrivato solo a processo concluso. Il viaggio di Mouad - Ai mediatori prima e in aula, quando viene processato come scafista poi, Mouad ha provato a spiegare la sua storia. Il suo viaggio è iniziato verso la fine del 2019, quando aveva poco più di dodici anni. “Sono scappato dal mio Paese a causa della guerra insieme a mia madre e mio padre”, spiega in un delle lettere inviate agli attivisti del circolo Arci Porco Rosso di Palermo, che da anni mantengono una corrispondenza con i “capitani” finiti in carcere. Da solo - emerge dagli atti del processo - ha attraversato il Mali, il Senegal e poi il deserto fino alla Tunisia, dove ha iniziato a lavorare per sopravvivere, senza mai vedere un soldo. Non un’eccezione da quando il presidente Kais Saied ha bollato i migranti subsahariani come “persone non gradite” e contro di loro è iniziata una vera e propria campagna di linciaggi, rastrellamenti e persecuzioni. In cambio di più di due anni di fatica, sarebbe stato il suo datore di lavoro a pagare il passaggio su quel gommone cencioso. Durante la traversata - spiega - lui si è limitato a sostituire una candela quando il motore si è fermato. Inizialmente racconta di aver guidato per un tratto perché minacciato dagli altri passeggeri, dopo nega qualsiasi coinvolgimento. Non sa nulla dell’organizzazione, non ha contatti, è stato trattato esattamente come gli altri, dice. E lo confermano anche i suoi accusatori. Anche se al momento dell’incidente probatorio solo uno degli uomini che lo ha accusato risulta reperibile, al tribunale basta per decidere che il ragazzo è colpevole. Pur riconoscendogli le attenuanti generiche, il giudice fa pesare anche l’aggravante dell’ingiusto profitto “sia pur indiretto” perché - si legge in sentenza - “aveva accettato di guidare il gommone in cambio dell’opportunità di raggiungere l’Italia senza pagare i 5mila dinari versati dagli altri”. Mouad continua a dirsi innocente. La solidarietà - “Per favore, aiutatemi a andare in una comunità per poter lavorare e aiutare mia madre - scrive dalla sua cella - Ha una grave patologia ai reni, non può camminare, può muoversi solo in sedia a rotelle”. Per molto tempo non è riuscito ad avere notizie di lei, l’istanza per i colloqui telefonici ci ha messo oltre un anno per essere processata. “Lo capiranno che ho detto la verità”, ha detto, convinto, per mesi. Ma l’ultima sentenza lo ha fatto sprofondare. “Sono scoraggiato, sono perduto, ho perso la felicità, sto male”, scrive adesso in ogni missiva, chiedendo aiuto. La parrocchia Santa Lucia di Palermo si è resa disponibile ad accoglierlo ai domiciliari, ma in prima istanza ancora una volta il tribunale ha detto no. Adesso la palla passa al Riesame, che dovrà decidere anche sulla base dei nuovi documenti arrivati dalla Guinea. Una speranza, spiegano la legale e gli attivisti del circolo Arci che con lui sono in contatto, a cui il ragazzo tenta di aggrapparsi. E non è l’unico, avvertono, in questa situazione. “Solo negli ultimi due anni sono state arrestate circa 300 persone semplicemente per aver guidato una barca. Tra loro ci sono diversi minori - dicono gli attivisti di Arci Porco Rosso -. Si tratta solamente della sistematica ricerca di un capro espiatorio su cui addossare la responsabilità per le sofferenze causate dai confini e dalle politiche Italiane ed Europee che li mantengono”. Cosa salverà le democrazie (non i divieti) di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 5 maggio 2025 Una democrazia liberale può prendere provvedimenti contro chi si propone di minarne i fondamenti? I fascismi novecenteschi si affermarono sulla scia dell’inazione dei governi in carica, che consentirono loro di sfruttare le garanzie liberali e le elezioni democratiche per impadronirsi del potere. Per la seconda volta in pochi mesi, gli uomini di Trump hanno accusato l’Europa di tendenze autoritarie. Venerdì scorso Marc Rubio si è scagliato contro le autorità tedesche, colpevoli di aver definito Alternative für Deutschland un partito di estrema destra, pericoloso per la democrazia: un caso di “tirannide sotto mentite spoglie”. A Monaco il vicepresidente Vance aveva rivolto una accusa simile alla Romania, dove proprio ieri si è tenuto il primo turno delle elezioni presidenziali. La Corte Costituzionale di Bucarest aveva annullato le elezioni dello scorso novembre, vinte dal leader di destra Georgescu, a fronte di prove su interferenze russe e violazioni della Costituzione. Si potrebbe rispondere che le prediche americane andrebbero oggi rispedite al mittente, vista la svolta illiberale di Trump. Conviene invece cogliere l’occasione per riflettere su una domanda seria: una democrazia liberale può prendere provvedimenti contro chi si propone di minarne i fondamenti? I fascismi novecenteschi si affermarono sulla scia dell’inazione dei governi in carica, che consentirono loro di sfruttare le garanzie liberali e le elezioni democratiche per impadronirsi del potere. C’è chi teme possa succedere di nuovo in Germania. E proprio per evitare uno scenario simile, al romeno Georgescu è stato impedito di ricandidarsi alle elezioni di ieri. Attenzione però. Le limitazioni dei diritti fondamentali rischiano di creare precedenti, che possono poi essere invocati da leader con vocazione autoritaria. Pensiamo all’Ungheria di Orbán. Nei primi Anni Novanta il personaggio era vicepresidente dell’Internazionale Liberale. A Budapest era stato parte della Commissione che aveva stabilito il divieto per gli esponenti del vecchio partito comunista di accedere alle cariche politiche. Dopo una rapida conversione al populismo nazionalista, durante il suo secondo mandato (2010-2014), Orbán iniziò a fare a pezzi la Costituzione per tenere a bada tutti gli oppositori, compresi quelli liberali, del “nuovo Stato” ungherese. Se George Simion (il nuovo candidato dell’estrema destra) dovesse conquistare la presidenza, anche la Romania potrebbe imboccare la via ungherese. Scrivendo durante la Seconda guerra mondiale, il filosofo della società aperta Karl Popper mise in guardia contro il “paradosso della tolleranza” che caratterizza i regimi democratici. Per proteggere se stessa, la democrazia ha il diritto/dovere di difendersi, imponendo restrizioni a movimenti e organizzazioni che si propongono di sovvertirla. La fermezza di Popper è stata successivamente “sfumata” da altri grandi pensatori liberali. Per John Rawls, ad esempio, le restrizioni sono legittime solo nei confronti di gruppi effettivamente mobilitati a sopprimere i diritti e la democrazia. Una società liberale dovrebbe essere capace di intervenire prima, integrando gradualmente le persone intolleranti attraverso politiche inclusive. Anche Norberto Bobbio era di questa opinione: reprimere gli intolleranti è “eticamente povero” e rischia di essere politicamente inopportuno. “L’intollerante perseguitato ed escluso non diventerà mai un liberale”. È chiaramente il caso di Georgescu e dei suoi seguaci, che dopo l’annullamento delle elezioni si sono ulteriormente radicalizzati. Come seguire praticamente il richiamo alla prudenza di Rawls e Bobbio? Con una doppia strategia. Una società democratica funziona bene se i suoi cittadini sono tolleranti “consapevoli”: credono nelle istituzioni liberal-democratiche e hanno le competenze per farne uso. La crescente manipolazione delle informazioni, la cultura della post-verità, la declinante attitudine al pensiero critico stanno erodendo la capacità di resistenza di questo gruppo di cittadini. Ne sono chiari sintomi la sfiducia nella politica, il calo della partecipazione, la vulnerabilità rispetto a interferenze e ingerenze straniere (la Russia era intervenuta pesantemente per far vincere Georgescu in Romania). Gli sforzi per rafforzare e accrescere la tolleranza consapevole vanno fatti pensando soprattutto ai giovani, e dunque agendo su scuola e formazione. La seconda strategia va indirizzata contro gli intolleranti “inconsapevoli”: i tanti elettori della destra radicale che votano più in base a paure di natura economica e sociale che a credenze di principio. L’elettorato di AfD (e più ancora quello di Alleanza per l’Unione della Romania, il partito di Simion) è composto dai ceti più colpiti dalle crisi dell’ultimo quindicennio. Nei loro confronti, le politiche inclusive di cui parla Rawls devono avere una robusta componente materiale. Ossia misure di protezione e investimento sociale capaci di sottrarre questi elettori alla spirale di impoverimento che li spinge verso le sirene populiste. Nel programma di Ursula von der Leyen c’è l’obiettivo di creare un vero e proprio “scudo democratico” contro le minacce illiberali. In Romania, potrebbe essere già troppo tardi, soprattutto se George Simion, forte di un clamoroso successo al primo turno di ieri, dovesse poi vincere il ballottaggio del 18 maggio. Tratteniamo il respiro. E iniziamo subito a realizzare lo scudo di von der Leyen. Uno strumento che andrebbe a buon diritto considerato parte integrante della difesa comune europea. Stati Uniti. I tagli ai fondi per la lotta all’Aids: il disimpegno che condanna di Francesco Gesualdi Avvenire, 5 maggio 2025 Nonostante gli altolà posti dalla magistratura americana, l’Amministrazione Trump sta andando avanti imperterrita col suo progetto di rottamazione dell’Usaid. Nonostante gli altolà posti dalla magistratura americana, l’Amministrazione Trump sta andando avanti imperterrita col suo progetto di rottamazione dell’Usaid, l’agenza di cooperazione statunitense creata nel 1961 per iniziativa di John Fitzgerald Kennedy. Una riforma che nelle intenzioni del Governo dovrebbe anche comportare la sottrazione all’Usaid di una serie di linee di finanziamento che entro il 1° luglio 2025 dovrebbero passare sotto la competenza di altre strutture governative. Fra le attività in predicato di trasferimento sono citate anche l’assistenza sanitaria e umanitaria, due attività appartenenti alla ragion d’essere dell’Usaid. Tanto da chiedersi cosa ne rimarrebbe dell’agenzia di cooperazione, qualora il Congresso ratificasse in toto i propositi espressi dal governo. Ma il quesito maggiore è cosa accadrebbe, come Avvenire sta raccontando da diverse settimane, a tutte quelle popolazioni che vivono in stato di emergenza alimentare e sanitaria. Nel 2024 l’Usaid ha destinato dieci miliardi di dollari, quasi la metà del suo intero bilancio, per iniziative di emergenza umanitaria allestite in 66 Paesi afflitti da conflitto armati o disastri naturali. Un’altra somma piuttosto consistente è stata utilizzata anche per progetti di carattere sanitario fra cui il Pepfar, il programma finalizzato alla cura e prevenzione dell’Aids, che interessa oltre venti milioni di persone, già ammalate o a rischio malattia, sparse in 55 Paesi. Il peggio è che altri quattro Paesi molto attivi contro l’Aids, hanno annunciato tagli ai loro programmi fra l’8% e il 70% nei prossimi due anni. Si tratta di Gran Bretagna, Francia, Germania e Olanda, che assieme agli Usa garantiscono il 90% di tutti i fondi internazionali destinati alla lotta contro l’Aids. Uno studio della rivista scientifica Lancet ha calcolato che il taglio degli stanziamenti da parte dei grandi donatori, può provocare una pericolosa recrudescenza dell’Aids nei Paesi più poveri con conseguenze drammatiche per la popolazione. Lo studio ipotizza la comparsa di nuovi casi di positività stimabili in 4-11 milioni di persone e una crescita di decessi compresi fra 700mila e tre milioni, nel prossimo quinquennio. Giova ricordare che l’Aids è una malattia provocata da un virus, l’Hiv, che attacca il sistema immunitario ed è trasmissibile da persona a persona non solo tramite rapporti sessuali non protetti o per il tramite di aghi infetti, ma anche da madre a figli al momento del parto. Le persone positive all’Hiv non sottoposte a cura possono sviluppare la malattia che nel tempo può risultare fatale. L’Aids è stata la malattia infettiva più mortale nei primi anni Novanta del secolo scorso. Non c’è ancora una cura risolutiva contro il virus, ma i farmaci moderni riescono a tenerlo sotto controllo permettendo a chi si cura adeguatamente di vivere senza sintomi e di non contagiare altri. I continui sforzi per accrescere la consapevolezza, per rafforzare la prevenzione, per individuare precocemente i nuovi casi e per curare i positivi, ha ridotto la malattia del 39% all’anno facendo passare i positivi da 2,1 milioni nel 2010 a 1,3 milioni nel 2023. Anche le morti si sono ridotte del 51% all’anno, passando da 1,3 milioni a 630mila nello stesso periodo. I miglioramenti più significativi si sono registrati in Africa Sub-sahariana dove l’epidemia è da sempre più pronunciata. Tutt’oggi quasi due terzi delle persone Hiv positive vivono in Africa Sub-sahariana, mentre si può dire che la quasi totalità dei positivi si trova nei Paesi a reddito basso e medio. Se i fondi contro l’Aids continuano ad essere tagliati, la malattia può tornare a galoppare a livello mondiale fino a raggiungere 3,4 milioni di Hiv positivi nel 2030, che è un numero superiore a quello che si registrò durante il picco del 1995 (3,3 milioni). La regione che ne risentirebbe di più, sarebbe senz’altro l’Africa Sub-sahariana considerato l’attuale numero di positivi e la sua capacità di cura altamente dipendente dai contributi esteri. Ma si potrebbero avere ripercussioni negative anche a distanza soprattutto fra i gruppi sociali più vulnerabili, come i tossicodipendenti che fanno uso di siringhe e gli omosessuali, fra i quali si registra una presenza di infezione da Hiv fino a sei volte più alta rispetto al resto della popolazione. Nel 2023, i Paesi asiatici del Pacifico, che dopo l’Africa Sub-sahariana hanno la maggior circolazione del virus, hanno ricevuto contributi internazionali pari a 591 milioni di dollari per la lotta all’Aids. Per cui anche questa regione è a forte rischio di ripresa in caso di tagli ai contributi. Ma siamo in tempo di grande mobilità internazionale e il contagio può espandersi rapidamente da una zona all’altra, come abbiamo constatato anche con il Covid. D’altra parte, è stato accertato che più del 10% degli Hiv positivi nati in Australia si sono contagiati all’estero. Un avvertimento che dovrebbe farci capire come scherzare con le malattie infettive non conviene a nessuno. Ma soprattutto dovrebbe insegnarci che quando crediamo di donare agli altri, in realtà doniamo a noi stessi. Stati Uniti. Trump vuole riaprire la prigione di Alcatraz per rinchiudere i criminali più spietati di Iacopo Luzi La Stampa, 5 maggio 2025 Il progetto per modernizzare la prigione, chiusa negli anni 60, sarebbe però estremamente costoso. Al Capone, il celebre boss della mafia di Chicago, e il gangster George “Mitragliatrice” Kelly non saranno più gli unici personaggi famosi associati alla prigione di Alcatraz. Il presidente Donald Trump ha appena ordinato la riapertura ed espansione del rinomato ex-carcere, situato su un’isola difficile da raggiungere al largo di San Francisco, in California. La struttura è chiusa da oltre sessanta anni. Attualmente è un museo e una delle attrazioni turistiche da non perdere nella città del Golden Gate Bridge. Su Truth Social, il presidente ha dichiarato che la prigione sarà di massima sicurezza e servirà a detenere i criminali più violenti e spietati degli Stati Uniti: “Quando eravamo una nazione più seria, in passato, non esitavamo a rinchiudere i criminali più pericolosi e a tenerli lontani da chi potesse fare del male. È così che dovrebbe essere”. L’ordine di Trump di ristrutturare e riaprire il penitenziario, chiuso da tempo, è soltanto l’ultima iniziativa della sua crociata per rivedere le modalità e i luoghi di detenzione dei prigionieri federali e dei migranti illegali. Allo stesso tempo, riaprire Alcatraz sarebbe un progetto estremamente costoso, impegnativo da realizzare e che richiederebbe anni di lavoro. Il carcere, infatti, fu chiuso nel 1963 a causa del degrado delle infrastrutture e degli elevati costi di mantenimento dell’isola, poiché tutto, dal carburante al cibo, doveva essere trasportato via mare. Adeguare la prigione agli standard moderni richiederebbe ingenti investimenti, in un momento in cui il governo sta tentando di ridurre le spese federali, con l’obiettivo di tagliare miliardi di dollari al Dipartimento della Giustizia. Trump ha dichiarato di aver avuto questa idea a causa della sua frustrazione nei confronti dei giudici, da lui definiti “radicalizzati”, poiché insistono affinché chi è deportato riceva prima un giusto processo. Da mesi Trump si scontra con le sentenze dei tribunali, mentre ha già rinchiuso centinaia di migranti in un carcere di massima sicurezza in El Salvador. Il presidente ha detto che Alcatraz da tempo è un: “Simbolo di legge e ordine. Sapete, ha una storia piuttosto lunga”. La prigione ha catturato, negli anni, l’immaginario pubblico come la dimora del “peggio del peggio”. L’ufficio che gestisce le prigioni negli Stati Uniti ha affermato che l’agenzia rispetterà la volontà del presidente. Tuttavia, Nancy Pelosi, ex-presidente della Camera dei Rappresentanti e democratica californiana, ha messo in dubbio la fattibilità di riaprire la prigione dopo così tanti anni. “La proposta del presidente non è seria”, ha scritto su X. Un portavoce del governatore della California, Gavin Newsom, ha riso quando gli è stato chiesto dell’ordine del presidente. “Sembra che sia di nuovo il giorno della distrazione a Washington”. Soprannominata “la Roccia” e famosa per la sua altissima sicurezza, Alcatraz ha avuto soltanto tre prigionieri evasi nella sua storia. Non furono mai ritrovati e non è ancora chiaro se siano sopravvissuti alla fuga a nuoto dall’isola, che si trova a più di due chilometri dalla costa in acque fredde e con forti correnti. Oggi, il penitenziario è noto soprattutto per essere un luogo umido, gelido e nostalgico, meta di pacchetti turistici e gite scolastiche per bambini. A titolo di paragone, l’attuale carcere federale di massima sicurezza di Florence, nello stato del Colorado, non ha mai visto un detenuto evadere.