Nordio sfida Mattarella: a capo del Dap vuole Lina Di Domenico, gradita al sottosegretario Delmastro (FdI) di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 4 maggio 2025 Il ministro della Giustizia conferma l’indicazione della reggente al Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. Il Colle deve firmare la nomina, ma non sarebbe stato consultato. È il ministro della Giustizia Carlo Nordio, e non il sottosegretario Andrea Delmastro, a nominare il nuovo capo del Dap, il Dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria. Lo fa proponendo un nome al Consiglio dei ministri, senza condizionamenti. E l’attuale responsabile facente funzione, Lina Di Domenico, scelta senza consultare preventivamente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sta dando prova da mesi di “maturata competenza e affidabilità”. Ergo: sarebbe lei il nome migliore per succedere a Giovanni Russo come responsabile dell’amministrazione penitenziaria. L’interrogazione a Nordio e la sfida a Mattarella - È questo il contenuto della risposta che il Guardasigilli ha dato, in forma scritta, al senatore di Italia Viva, Ivan Scalfarotto, che chiedeva con un’interrogazione di spiegare le ragioni dello stallo sulla nomina del nuovo capo del Dap. Una risposta che sta facendo sollevare qualche perplessità anche all’interno della maggioranza perché viene interpretata come un’ulteriore sfida da parte del ministro della Giustizia al Quirinale. Dopo le notizie sullo scontro tra il governo e il Presidente della Repubblica che non era stato informato preventivamente del nome di Di Domenico, infatti, tutto portava a pensare a un possibile cambio di nome. Invece, dalla risposta di Nordio il governo sembra voler andare avanti con la nomina della vice di Russo, scelta proprio dal sottosegretario alla Giustizia di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro. Il Guardasigilli difende Delmastro - Nella sua interrogazione Scalfarotto chiedeva le ragioni dello stallo e di sapere quali azioni Nordio “intenda adottare affinché venga instaurata un’interlocuzione istituzionale che possa consentire in tempi rapidi tale nomina, garantendo il coinvolgimento di tutti gli organi costituzionali interessati”. La risposta del ministro è eloquente. In primo luogo difende la sua autonomia: “Compete al Ministro della Giustizia proporre al Consiglio dei ministri la nomina del Capo del Dipartimento e non certamente al Sottosegretario di Stato continuamente e strumentalmente evocato in questa vicenda, anche in questo caso dagli stessi interroganti”. Insomma, spetta a Nordio nominare il nuovo capo del Dap e non al sottosegretario Delmastro che, però, viene difeso perché evocato “strumentalmente”. Il governo vuole Lina Di Domenico al vertice del Dap - In secondo luogo, però, Nordio fa capire di voler indicare Di Domenico come la nuova responsabile del Dap. Dopo le dimissioni di Russo, il ministro spiega di aver affidato le deleghe alla sua vice Di Domenico (“magistrato di ampia esperienza”) che durante gli ultimi mesi ha “già messo in campo molteplici interventi”. Segue una lista delle cose fatte da Di Domenico: i “provvedimenti attuativi del decreto ministeriale istitutivo del Gruppo di intervento operativo”; la circolare “relativa alle misure di sicurezza per i Reparti territoriali del Corpo di polizia penitenziaria in tema di aggressioni ed eventi critici”; la bozza del decreto “relativo all’introduzione della figura del negoziatore tra le specializzazioni del Corpo di polizia penitenziaria”; le linee guida “per garantire ai detenuti il diritto all’affettività”; il gruppo di lavoro multidisciplinare “per la prevenzione” dei suicidi; le linee guida “sull’utilizzo dei sistemi di videosorveglianza e registrazione in mobilità, del tipo body-cam” e le misure “necessarie a garantire l’operatività del Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria”. Tutto questo, conclude Nordio, dando prova di “maturata competenza e affidabilità”. I precedenti e la replica di Scalfarotto - Quasi a volersi giustificare, infine, il Guardasigilli ricorda che affidare le deleghe del Dap a un responsabile facente funzione non è una novità a via Arenula citando i casi dei predecessori Piero Fassino, Andrea Orlando e Marta Cartabia. La risposta non convince Scalfarotto, senatore renziano e componente della commissione Giustizia: “Siamo davanti a un governo che non solo, aumentando pene e reati, ha aggravato drammaticamente le condizioni del nostro sistema penitenziario ma che, per una gestione sciatta e irresponsabile di delicate dinamiche istituzionali, tiene le nostre carceri da mesi senza una guida nonostante la situazione disperata in cui versano”, spiega. L’oscurità delle leggi ci fa male di Sabino Cassese Corriere della Sera, 4 maggio 2025 Troppe leggi e di cattiva qualità inceppano la macchina dello Stato e producono un effetto negativo sull’economia. Il “Reader’s digest”, per iniziativa di Tullio De Mauro, promosse circa quaranta anni fa, un convegno sulla chiarezza delle leggi. Il male è antico e si è ora aggravato. Se le leggi dei trent’anni passati fossero state chiare, il prodotto interno lordo italiano sarebbe ora più alto di almeno il 10 per cento. Questa è la stima, per ora provvisoria, fatta da un gruppo di valenti economisti del Politecnico di Milano e dell’Istituto Einaudi per l’economia e la finanza guidati da Luigi Guiso e da Claudio Michelacci, che hanno misurato la qualità della scrittura delle leggi e ne hanno stimato gli effetti economici. Essi hanno misurato la lunghezza delle frasi delle leggi, il numero delle parole, il numero di gerundi, il numero degli aggettivi dimostrativi, le citazioni di altre leggi, ed altri indicatori di complessità, mostrando che ambiguità ed incertezza delle leggi diminuiscono la crescita economica. Troppe leggi e di cattiva qualità inceppano la macchina dello Stato e producono un effetto negativo sull’economia. La piattaforma per l’analisi interattiva della legislazione italiana, sviluppata insieme con il Politecnico di Milano, è disponibile “online” e permette di valutare le inefficienze anche per ministero. Non solamente gli economisti, ma anche i linguisti lamentano che il linguaggio giuridico e burocratico, osservato dal basso, da non addetti ai lavori, mostra l’autoreferenzialità delle istituzioni, che così allontanano i cittadini. L’ha dimostrato in maniera eloquente, da ultimo, Sergio Lubello con il bel libro su “Il diritto dal basso. Il grado zero della scrittura giuridico-amministrativa” (Franco Cesati editore, Firenze). La macchina delle leggi mostra però ulteriori inconvenienti, lucidamente analizzati nel rapporto dell’”Osservatorio della legislazione” della Camera dei deputati per il 2024-2025. Da questo emerge che il potere legislativo si è in larga misura spostato sul governo perché il 39 per cento delle leggi è costituito da decreti legge convertiti in leggi e questa percentuale sale al 60 per cento se si considera non il numero delle leggi, ma il numero delle parole contenute nelle leggi. Tuttavia, poi, il Parlamento si prende la rivincita, perché i decreti legge, nel passaggio parlamentare, crescono del 63 per cento in termini di parole, e in questa crescita si registra un dialogo tra maggioranza e opposizione perché il 14 per cento degli emendamenti ai decreti legge in sede di conversione proviene dalle opposizioni. Un altro elemento che si evince dall’ottima analisi della Camera dei deputati riguarda il bicameralismo, ormai solo di facciata, perché tutti i decreti legge emanati nella prima metà della legislatura sono stati esaminati in un solo ramo del Parlamento, salvo mera ratifica nell’altro ramo. Né le cose vanno meglio a livello governativo. Se ci si limita a esaminare il bilancio per il 2025, approvato in gran fretta il 28 dicembre dell’anno scorso, si può notare che esso prevedeva 110 provvedimenti di attuazione, ma di questi, alla fine di aprile, più di 90 mancavano ancora all’appello, con la conseguenza che le relative risorse sono rimaste bloccate. Questo quadro negativo è tanto più incomprensibile in quanto, fin dal 2010, per merito dell’Istituto poligrafico e zecca dello Stato, e poi con la collaborazione della Presidenza del Consiglio dei ministri, della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, disponiamo di una preziosa banca dati chiamata Normattiva, a disposizione di tutti i cittadini, che fornisce su base digitale tutte le leggi e le norme similari dal 1861 a oggi in multivigenza. Avendo digitalizzato tutto il vigente corpo di leggi sarebbe più agevole scrivere leggi chiare, facendo anche buon uso dell’intelligenza artificiale. Quali sono le cause di questa grave malattia della legiferazione? I dati raccolti dagli economisti che ho citato mostrano un peggioramento netto dal 1992 in poi. Ma questo stato gravissimo della nostra legislazione risale a un periodo ancora precedente, anche se ora si sta accentuando. Indagini sugli effetti della oscurità legislativa (ad esempio, sulle importazioni ed esportazioni) sono state fatte anche quaranta anni fa e un Codice di stile, con la spiegazione su come vanno scritti leggi e atti amministrativi, fu preparato dal governo trenta anni fa. Il “Reader’s digest”, per iniziativa di un grande linguista come Tullio De Mauro, promosse, circa quaranta anni fa, un convegno sulla chiarezza delle leggi. Insomma, il male è antico ed è stato segnalato e studiato. Ne sono stati indicati i rimedi. Ciò nonostante si è ora aggravato. Questo non dipende tanto dal corpo politico, certamente molto disattento, quanto da quello politico-amministrativo, dagli staff dei ministeri e dalle strutture serventi della Presidenza del Consiglio dei ministri, che scrivono i decreti legge. Essi ben potrebbero scrivere norme chiare, ma, scrivendole in modo oscuro, finiscono per conservare una condizione di privilegio su tutti i comuni mortali. L’oscurità della legislazione italiana non deriva dal caso, perché ha un carattere sistematico, sembra addirittura frutto di un programma. Certamente c’è un forte peso del passato, che produce un effetto valanga: l’oscurità del passato produce oscurità del presente. Non è colpa della cultura giuridica, come nel caso delle leggi inglesi e americane, dove si insegna il diritto in forma casistica e quindi anche le leggi finiscono per essere scritte in forma casistica. Questo non accade in Italia dove prevale un approccio deduttivo, e l’educazione legale parte sempre dal codice civile e dalla Costituzione italiana, che sono un esempio preclaro di accessibilità, intellegibilità, chiarezza e prevedibilità, i quattro canoni del rispetto del diritto fissati da uno dei maggiori studiosi inglesi. Quindi, rimane una sola possibile causa che è quella dell’oscurità programmatica. Si ricorre all’oscurità per mantenere un’aura di segreto intorno al dettato delle norme. Tutto questo non dipende tanto dal corpo politico, che anzi lamenta “vincoli burocratici sempre più invasivi” (così l’attuale presidente del Consiglio dei ministri al Corriere della Sera il 29 aprile scorso), quanto da un ristretto numero di “scrittori di leggi”. “Se il Governo scrive i Decreti, noi scriveremo un’altra storia” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 4 maggio 2025 A Roma l’assemblea nazionale contro il dl sicurezza. Verso il grande corteo del 31 maggio. Dopo la forzatura del governo, la rete “A Pieno Regime” si prepara alla mobilitazione. Questa mattina alle 10, all’Arci nazionale di via dei Monti di Pietralata a Roma, si riunisce la rete A Pieno Regime, che si batte ormai da quasi un anno contro il disegno di legge sulla sicurezza. Il testo è stato poi trasformato con una forzatura istituzionale in decreto proprio per evitare i rilievi delle opposizioni e per cercare di depotenziare il peso delle mobilitazioni. L’accelerazione ha motivato collettivi, associazioni, organizzazioni e centri sociali nell’andare avanti e a indire un corteo nazionale per il 31 maggio. “Il decreto cambia tutto e non cambia nulla - affermano - La lotta si fa più dura, per questo più necessaria. Contro questo governo neofascista, contro le politiche repressive, contro l’economia di guerra; per un’alternativa dal basso, per immaginare e costruire una società diversa”. Ed ancora una volta, in difesa delle libertà e del diritto al dissenso rivendicazioni materiali e garanzie costituzionali, perché quella che viene indicata come svolta autoritaria del governo Meloni tiene insieme questione sociale e questione democratica. Sarà inevitabile che questa scadenza incontrerà anche la campagna referendaria su lavoro e cittadinanza, altra occasione che apre uno spazio politico e di intervento sociale in cui diritti civili e sociali appaiono per quello che sono: inevitabilmente intrecciati come sono intrecciate esistenza quotidiana e lavoro, democrazia e qualità della vita. Ecco perché già nelle piazze dello scorso 25 aprile molti hanno scelto di caratterizzare la loro presenza per ribadire l’opposizione al dl sicurezza. Ed ecco perché la rincorsa verso la mobilitazione del 31 è cominciata con un appello molto netto di più di duecento giuristi cui hanno aderito diverse migliaia di persone e le camere penali. Il documento definisce il decreto “l’ultimo anello di un’ormai lunga catena di attacchi volti a comprimere i diritti e accentrare il potere” e denuncia “gravissimi profili di incostituzionalità, il primo dei quali consiste nel vero e proprio vulnus causato alla funzione legislativa delle camere, attraverso un plateale colpo di mano del governo”. Poi è arrivato il digiuno a staffetta lanciato da A Buon Diritto, Acli, Antigone, Arci, Cgil, Cnca, Forum Droghe, L’Altro Diritto, La Società della Ragione, Ristretti Orizzonti. “Vogliamo solidarizzare con tutte e tutti coloro che stanno già subendo le conseguenze violente del dl sicurezza - spiegano i promotori dell’iniziativa che si concluderà proprio alla viglia della piazza del 31 - E vogliamo allargare al massimo il fronte della protesta per l’attenzione ai diritti civili, umani e democratici che questo decreto, presentando evidenti profili di incostituzionalità, mette in discussione”. Tra quelli che hanno dovuto per primi testare la compressione del diritto al dissenso ci sono gli attivisti e le attiviste di Extinction Rebellion, che nei giorni scorsi hanno messo in piedi una piccola campagna di primavera contro il regime di guerra, per la transizione ecologica e in difesa della libertà dei movimenti manifestando davanti al ministero della difesa, occupando l’ingresso della sede di Leonardo, società a controllo pubblico coinvolta nella produzione di armamenti e presentandosi direttamente davanti al ministero della giustizia. Tutte proteste integralmente nonviolente ma finite con l’intervento degli uomini in divisa, che in più occasioni hanno calcato la mano, e con fermi di polizia e denunce. Calendario parlamentare alla mano, il decreto dovrebbe arrivare in aula alla camera qualche giorno prima della grande manifestazione del 31. Per quella data le reti si stanno organizzando per rendere palese il loro dissenso. Che poi si concentrerà sulla scadenza del corteo, che si prevede enorme (già a dicembre 2024 in piazza a Roma furono centomila) e rumoroso, con carri musicali e la presenza del popolo antiproibizionista. “Non siamo alla fine - dicono ancora dalla rete A Pieno Regime - Siamo solo all’inizio. E se loro scrivono i decreti, noi scriveremo un’altra storia. Fermeremo il piano autoritario e le manovre antipopolari del governo Meloni: nelle piazze, nei territori, nella lotta quotidiana per una democrazia vera, sociale, radicale”. Anni di carcere ingiusto. Un rimborso mensile di David Allegranti La Nazione, 4 maggio 2025 La proposta di legge “Zuncheddu e altri” merita la dovuta attenzione. È promossa dal Partito Radicale, che sta raccogliendo le firme online (basta lo Spid; per ora hanno firmato solo 2.427 persone su 50 mila). La proposta punta a garantire una provvisionale economica a chi alla fine di un processo è stato assolto. “Ci sono persone che si sono viste distruggere l’esistenza: la giustizia, in qualche modo, ha sottratto loro anni di vita e non solo perché sono state in carcere, ma a volte anche per poter sopravvivere dopo l’errore giudiziario o l’ingiusta detenzione. La proposta prevede un assegno che parta dal momento dell’assoluzione fino alla sentenza di risarcimento del danno”, dice il Partito Radicale presentando la proposta che porta il nome di Beniamino Zuncheddu, che ha trascorso quasi 33 anni in carcere da innocente: “Io che ho vissuto da vicino la storia e la vicenda di Beniamino”, dice Irene Testa, tesoriera del Partito Radicale e Garante dei diritti delle persone private della libertà personale in Sardegna, “mi sono resa conto che da quando è stato liberato, cioè un anno fa, per Beniamino non è cambiato niente. Sì, come dice lui, si è aperta la porta del carcere e quindi adesso è libero, ma fondamentalmente non c’è stata nessuna forma di sostegno da parte delle istituzioni. Quindi Beniamino, dopo 33 anni, è uscito dal carcere ma continua a dover chiedere alla famiglia un aiuto per poter andare avanti. Continua a umiliarsi”. Beniamino Zuncheddu è “una persona cui è stata sottratta e sequestrata la vita”, ha passato tanti anni di carcere da innocente, ma ora che è uscito “si ritrova costretto a dover pietire e chiedere aiuto per poter sopravvivere. Quindi questa proposta si inserisce in un vuoto normativo, nel quale il legislatore non ha proprio previsto niente: dal momento dell’assoluzione dell’imputato fino alla sentenza di risarcimento danni, non esiste una forma di sostentamento per chi è stato assolto”. Il problema è che le sentenze di risarcimento danni arrivano anche dopo 10, 11, 12 anni: “Questo significa che non è detto che le persone riescano a vederlo, quel risarcimento. I dati ci dicono che neanche la metà delle persone che fanno il ricorso per il risarcimento danni riescono ottenerlo. In ogni caso ci sembra un tempo lunghissimo. È assurdo che in questo periodo queste persone debbano campare di aria o rivolgersi alla Caritas. Quindi chiediamo una cosa semplice: consentire una provvisionale, cioè un assegno di mantenimento, a queste persone in attesa della sentenza di risarcimento danni e dare ai giudici la possibilità di impiegarci non 10 anni ma di pronunciarsi rispetto al risarcimento danni entro poco, grazie a una corsia prioritaria”. Tra quelle 2.427 firme (dati aggiornati a ieri) c’è un elemento statistico. Sul sito del ministero della Giustizia si può leggere la distribuzione anagrafica di chi ha firmato. I più assenti sono i giovani: solo 80 nella fascia 18-22. “È un dato preoccupante, se uno pensa che possa essere il risultato di poca conoscenza o indifferenza. I giovani non ne sono a conoscenza o non sono interessati, come invece lo sono a quelli dell’antiproibizionismo o della legalizzazione. Bisognerebbe parlarne di più nelle scuole e nelle università”. Il Csm bacchetta Nordio sul caso Uss: “Contraddittorio punire le toghe” di Conchita Sannino La Repubblica, 4 maggio 2025 Secondo il consiglio, il ministro avrebbe potuto impugnare la decisione dei domiciliari prima di avviare l’azione disciplinare. I giudici della Corte d’Appello di Milano, “se proprio si vuole spaccare il capello in quattro”, furono soltanto “troppo sintetici” nel motivare la concessione degli arresti domiciliari (seppur rafforzati da braccialetto elettronico e divieto assoluto di comunicazione) per Artem Uss, il potente imprenditore e figlio di un oligarca russo poi evaso, dal milanese, nel marzo 2023. Ma il ministro Nordio - osserva invece la sezione disciplinare del Consiglio superiore - che avrebbe potuto impugnare quella decisione, la difese anche in una missiva di risposta inviata agli Usa. E attese la fuga di Uss, e la successiva ispezione ministeriale, per agire contro le toghe. Atteggiamento, rileva Palazzo Bachelet, “che stride logicamente” e solleva “non poche perplessità”. Per la vicenda Uss - arrestato nell’ottobre 2022 a Malpensa, poi un mese dopo trasferito dal carcere di Busto Arstizio ai domiciliari - erano finiti sotto procedimento disciplinare i magistrati di Corte d’Appello Monica Fagnoni, Micaela Serena Curami e Stefano Caramellino; tutti assolti, sette mesi fa. A loro carico il Csm esclude gli addebiti, specie di metodo - né omissioni nel valutare i pareri restrittivi della Procura, né negligenze - avanzati dal Ministero dopo la clamorosa fuga di Uss, presunta spia che per storia e potere familiare era nel mirino degli Usa (suo padre è amico personale di Putin). Nelle motivazioni appena depositate, firmate dal vicepresidente del Csm Fabio Pinelli e dal togato Antonino Laganà, si dà atto che il pericolo di fuga apparisse attenuato dalle “considerazioni” sul “radicamento degli affari” di Uss in Italia e “sull’acquisto di due case a Basiglio”. Per il Csm “suscita non poche perplessità, l’omessa attivazione ministeriale di alcuna contestazione del provvedimento”. In particolare, a “stridere con la coerenza del sistema” è “il dato” per il quale Nordio, invece di chiedere “l’aggravamento della misura cautelare” o impugnare “per abnormità” il provvedimento dei giudici, ha invece “agito in via disciplinare” contro le toghe. Le stesse delle quali, beninteso, sembra difendere l’operato, subito dopo: lo testimonia la “risposta che l’ufficio ministeriale ha reso agli Stati Uniti a fronte della richiesta”, dopo la sua scarcerazione, “di prendere ogni possibile misura” per riportare Uss in carcere. La lettera è del 6 dicembre 2022 e presenta la decisione dei giudici milanesi “inattaccabile”, “la più idonea a bilanciare il pericolo di fuga con la libertà di un cittadino extracomunitario”. “Le carceri italiane sono degradanti”. L’Olanda non consegna il presunto killer Il Giornale, 4 maggio 2025 Consegna di un presunto omicida negata per “inumanità” delle carceri italiane. Capita nel caso dei tre ragazzi rimasti uccisi nell’incendio dello show room di via Cantoni (nella foto, le tre vittime). Per gli inquirenti, ad appiccare il fuoco è stato Washi Laroo, 26 anni, olandese di origini nordafricane. Laroo è destinatario di un mandato di arresto europeo eseguito ad Amsterdam lo scorso dicembre. Ma l’Olanda non l’ha fin qui consegnato all’Italia. Il motivo è che nelle carceri italiane, per sovraffollamento, numero di suicidi e inadeguatezza delle strutture, si vivono condizioni inumane e degradanti. Le autorità olandesi si richiamano alla sentenza Torreggiani del 2013 con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per il trattamento dei detenuti. Il 26enne è accusato di aver ucciso nel rogo appiccato la sera del 12 settembre 2024 tre ragazzi cinesi di 17, 18 e 24 anni che dormivano nel deposito. Il pm Luigi Luzi, che coordina le indagini con il procuratore Marcello Viola, aveva chiesto tramite il ministero della Giustizia alle autorità giudiziarie olandesi il trasferimento temporaneo di Laroo affinché potesse partecipare, come prevede il codice, ad accertamenti irripetibili che sono necessari per chiudere l’inchiesta. Tuttavia, fermo restando che il giovane, già ricercato nei Paesi Bassi per altri reati, sconterà l’eventuale pena nel carcere dove si trova ora, non è mai arrivato in Italia. La Procura si prepara intanto a chiedere il giudizio immediato per lui e per i presunti mandanti e ideatori del piano, Yijie Yao, di 34 anni, e Bing Zhou, di 40. Da quanto si è saputo, sono comunque in corso trattative tra Italia e Olanda per trasferire il 26enne. Abruzzo. Ok alla cabina di regia per l’inclusione e l’assistenza dei detenuti ilnuovoonline.it, 4 maggio 2025 Sarà una cabina di regia inter istituzionale a fissare i servizi socio-sanitari e di inclusione socio-lavorativa delle persone sottoposte a provvedimenti limitativi o privativi della libertà personale. È quanto stabilisce un provvedimento della Giunta regionale che su proposta dell’assessore alle Politiche sociali, Roberto Santangelo, ha approvato la costituzione della cabina di regia che “dovrà essere il raccordo istituzionale con funzioni operative in grado di programmare e stabilire strumenti di inclusione lavorativa e socio sanitaria per i detenuti”. Nata grazie al recepimento dell’accordo Stato-Regione, la cabina di regia avrà il compito di realizzare il Piano di azione regionale triennale e monitorare la sua applicazione, recependo anche le istanze provenienti dal territorio. “La cabina di regia - spiega l’assessore Roberto Santangelo - è una risposta di civiltà alle numerose istanze che ci provengono dal mondo degli istituti di pena e dai detenuti. Aver predisposto un organismo inter istituzionale in grado di programmare politiche di inclusione lavorativa, rappresenta una garanzia non solo per il detenuto ma per la società stessa chiamata ad un compito altrettanto difficile di ‘riassorbimento’. In questo modo - aggiunge l’assessore - saremo in grado di definire le misure e gli interventi che gli attori coinvolti intendono nei diversi ambiti: istruzione, orientamento e formazione lavoro; inserimento lavorativo; sostegno alle famiglie, housing sociale; giustizia riparativa; continuità terapeutica assistenziale ove necessaria”. La cabina di regia è presieduta dall’assessore alle Politiche sociali e vi fanno parte: i responsabili dei Dipartimenti regionali del Lavoro, Sviluppo economico e Salute, il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, il direttore dell’ufficio di esecuzione penale, il direttore del Centro di giustizia minorile, il presidente regionale dell’Anci e il Garante regionale dei detenuti. Terni. Suicidio nel carcere, il sindaco Bandecchi chiama in causa la Regione umbria.tag24.it, 4 maggio 2025 “Avevamo chiesto aiuto alla Asl ma non ci ha risposto”. Una lettera con richiesta di intervento inviata alla Asl con all’oggetto la “richiesta di sistemazione residenziale per un soggetto con difficoltà”. A scriverla, nel mese di aprile scorso ai vertici tecnici e amministrativi dell’azienda sanitaria ternana è stata l’assessore al welfare del Comune di Terni Viviana Altamura. E ora a mostrarla in diretta sui social con tanto di video di denuncia è il sindaco Stefano Bandecchi. Già, perché quella lettera riguarda il detenuto che lo scorso primo maggio si è tolto la vita nel carcere di Terni. Un suicidio, l’ennesimo, che si verifica in ambiente carcerario dove il sovraffollamento, il disagio psichico e il rischio suicidario sono diventati ormai un’emergenza nazionale. Bandecchi, dunque, ha scelto la strada più diretta. Quella di Instagram. E disintermediando la comunicazione politica, è andato dritto contro la Regione, il sistema sanitario e assistenziale regionale e la presidente della giunta Stefania Proietti, che nei giorni scorsi aveva scritto al ministro Nordio per denunciare la situazione incandescente dell’istituto di pena di vocabolo Sabbione. Il video di Bandecchi, oltre al messaggio di denuncia, contiene anche il testo della lettera che Altamura aveva inviato a CSM, Serd e Direzione generale della ASL. Una missiva nella quale vengono ricapitolate le drammatiche vicissitudini vissute dall’uomo che si è tolto la vita in carcere. “È un argomento pesante - attacca il sindaco di Terni nel suo Reel postato su Instagram. Ho visto che la Regione ha subito scaricato sul carcere la responsabilità di quello che è successo. Voglio però far sapere a tutti che nel mese di aprile il Comune di Terni su mia sollecitazione ha scritto alla ASL. E per dimostrarlo pubblico la lettera insieme a questo video. Abbiamo chiesto un supporto per questo ragazzo, perché era chiara la strada che stava rischiando di percorrere. Quindi, se è entrato in carcere, se si è tolto la vita impiccandosi, nessuno può chiamarsi fuori dalle responsabilità, a cominciare dalla Regione Umbria, dalla giunta e dalla ASL, che non ha risposto nemmeno alle nostre lettere. Smettiamo di fare i politici da baraccone e cominciamo ad assumerci le nostre responsabilità”. La lettera dell’assessore Altamura racconta il lungo dramma del detenuto che si è tolto la vita a Sabbione. Una storia di disagio e difficoltà cominciata mesi addietro, con pronunciamenti del Tribunale, l’allontanamento dalla residenza per problemi di carattere familiare, la ricerca di una soluzione abitativa “anche fuori da Terni e dalla regione Umbria”, come scrive l’assessore al welfare alla ASL, per reperire una struttura idonea come sancito dall’autorità giudiziaria. “Per quanto tra le nostre competenze vi sia anche quella di provvedere, nei limiti delle risorse disponibili, all’individuazione di possibili soluzioni abitative per i cittadini residenti in situazione di emergenza abitativa - afferma Altamura nella lettera inviata al Centro Salute Mentale, al SERD e alla direzione generale della Asl - tale funzione non può essere agita nel caso di pazienti affetti da conclamate problematiche psichiatriche e di tossicodipendenza, che richiedono uno specifico intervento residenziale di carattere sanitario”. Da qui la decisione del Comune di Terni di rivolgersi alle strutture del servizio sanitario regionale, senza però ricevere - come afferma Bandecchi - una risposta adeguata. Il post su Instagram del sindaco di Terni contiene anche una serie di reazioni di cittadini ed esponenti politici. A cominciare dal vicesindaco di Terni Riccardo Corridore che rincara la dose delle polemiche contro la giunta regionale e i consiglieri del centrosinistra. “I componenti dell’esecutivo della Proietti e i consiglieri ternani di maggioranza - scrive Corridore - fanno comunicati stampa senza senso parlando di sanità… Dire che sono inadeguati è fargli un complimento”. Lecce. “Tbc, assenza di citofoni e decessi”, esposto in Procura di ventinove detenuti lecceprima.it, 4 maggio 2025 Alcuni ospiti della sezione infermeria, lati B e C, lamentano una serie di deficit in un documento inoltrato alle autorità. Chiedono chiarezza e verifiche sulla questione sanitaria in carcere. Sui problemi sanitari nel carcere di Lecce non ci sono solo le rimostranze dell’associazione Antigone, che di recente ha svolto un controllo nell’istituto penitenziario di Borgo San Nicola, ma anche un esposto che ha raggiunto, fra gli altri organi, la Procura di Lecce. A firmarlo sono stati ventinove detenuti, nelle vesti di pazienti dei lati B e C del reparto d’infermeria. Nel documento sono citati, fra l’altro, con nomi e cognomi, tre recenti episodi di decesso nel tato C che, a loro avviso, si sarebbero potuti evitare. Botta e risposta fra Antigone e Asl - Andando con ordine, proprio negli ultimi giorni, dopo aver sondato il campo, ascoltando diversi detenuti, l’associazione Antigone ha emesso un comunicato stampa in cui ha riassunto tutte le presunte carenze rilevate, anche piuttosto gravi, a partire dalla scarsità di personale sanitario. A stretto giro l’Asl di Lecce ha fornito una risposta pubblica, per illustrare tutte le misure in atto e provare a sgombrare il campo da dubbi e sospetti; tuttavia, Antigone ha subito controreplicato, sostenendo che tutte le mancanze evidenziate sarebbero oggettive e verificate. La questione, ora, si riaccende per via di un esposto che viaggia indistintamente dai controlli svolti da Antigone. Redatto a mano il 19 aprile scorso, ha raggiunto undici giorni dopo (dunque, il 30 del mese) la Procura, il presidente del Tribunale di sorveglianza, Maria Mancarella (garante dei detenuti presso il Comune di Lecce), e gli avvocati Raffaele Benfatto e Maria Francesca Conserva, questi ultimi due chiamati a curare le sorti dell’esposto. L’esposto: ventinove le firme - Sono ventinove, come detto, le firme apposte in calce al documento, in cui i sottoscrittori chiedono opportune verifiche affinché si assumano provvedimenti a loro tutela. Si tratta di ospiti del penitenziario in precarie condizioni di salute e residenti in varie località italiane: alcuni leccesi e delle province di Taranto, Bari e Foggia, ma anche lucani, napoletani, calabresi, siciliani, un reggiano e polacco. Nell’esposto si fa riferimento, per esempio, al fatto che sarebbero reclusi per venti ore al giorno, cioè con quattro ore d’aria e, comunque, senza le otto ore di apertura delle celle, e che per loro non sarebbero previste attività di istruzione e ricreative, contravvenendo quindi all’articolo 27 della Costituzione (con il particolare riferimento, evidentemente, al fatto che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e che debbano tendere alla rieducazione del condannato). Tolti questi primi aspetti, però, il problema più serio che intendono sollevare i firmatari dell’esposto è proprio quello riguardante la salute. Lamentano, per esempio, l’assenza di telecamere di sorveglianza nel loro reparto, sospettando addirittura che quello di Lecce possa essere l’unico caso in Italia. E si tratta di dispositivi, sottolineano, che andrebbero a tutela di tutti, detenuti e agenti stessi di polizia penitenziaria. Un aspetto interessante del documento riguarda la riferita assenza di citofoni o campanelli nelle celle. Questo significa che si debba auspicare che il compagno di cella si accorga in tempo, per esempio, di un malore, in modo che possa gridare per richiamare l’attenzione dell’agente di turno, sperando che questi non sia troppo lontano per sentire. Una speranza si riduce al lumicino per chi non condivide la cella con altri. Fra le altre segnalazioni, il fatto che dalle 18 alle 7 vi sarebbe un solo agente per due sezioni, che non sarebbero eseguite visite mediche su richiesta e un’assenza, anche di più giorni, di farmaci prescritti, con la “colpa” di tale carenza - in tutta risposta - attribuita quasi sempre alla farmacia dell’Asl. Il decesso di un 30enne - Quel che più duole ai firmatari, però, è l’assenza di un presidio medico/infermieristico attivo 24 ore su 24 nel reparto. Ovvero, chiedono che, come accade per altri istituti italiani, vi siano un medico e infermieri dedicati per la sezione specifica in cui si trovano (questi ultimi spesso svolgerebbero turni in altri reparti), considerando che è dedicata, appunto, a chi soffre di problemi di salute. Per sottolineare maggiormente questo deficit, viene citato anche un recente caso specifico, quello che vede al centro il decesso di Cosimo Giorgino, 30enne di Casarano. Un caso sul quale è già aperta un’inchiesta della magistratura. Raccontano i detenuti che quel giorno non sarebbero stati presenti infermieri, perché impegnati nel reparto femminile (che sorge nel blocco esterno), tanto che a distribuire la terapia farmacologica e a praticare il massaggio cardiaco sarebbe stato l’agente di sezione. La questione tubercolosi - Dulcis in fundo, raccontano nell’esposto anche di un focolaio di tubercolosi, che a loro avviso non sarebbe stato trattato secondo i dovuti protocolli sanitari. Citando dodici casi, di cui due con ricovero ospedaliero, altri detenuti trasferiti in isolamento sanitario, il sospetto di contagio pure di un paio di un paio di agenti, mascherine (del tipo “anticovid”) distribuite il 5 aprile e prelievi svolti solo il 14 dello stesso mese (a loro dire, venti giorni dopo il primo caso). E tutto questo, dichiarano, pur continuando entrambi i lati della sezione a effettuare le quattro ore d’aria assieme, senza creare, così, una “bolla”. Si tratta, ovviamente, della loro ricostruzione dei fatti. Considerando che la missiva è stata scritta il 19 aprile, si può dire, sulla questione della tubercolosi, che l’Asl abbia già risposto, anche se in maniera indiretta, cioè facendolo ad Antigone. Testualmente, come da comunicato: “Un paziente indice trasferito da altro penitenziario, con anamnesi pregressa muta per patologia tubercolare, è risultato positivo a Tbc e potenzialmente infettante dopo manifestazione di sintomi pneumologici. Trasferito nell’ospedale Vito Fazzi, è ricoverato in isolamento in malattie infettive. Pronta è stata la risposta sanitaria di controllo con sinergia tra Pneumotisiologia territoriale, Dipartimento di igiene e Uos Medicina penitenziaria. Più di 140 i test effettuati a detenuti, sanitari e dipendenti della Casa circondariale includendo anche contatti non stretti. Sono risultati solo pazienti positivi, per aver avuto in passato la patologia o perché vaccinati, quindi non infettanti”. Sintesi, secondo l’Asl “è stato registrato quindi solo un caso”. Verona. “Il Decreto Sicurezza aggrava il sovraffollamento” di Beatrice Branca Corriere di Verona, 4 maggio 2025 Da domani a mercoledì l’astensione dei penalisti dalle udienze per le condizioni dei detenuti. Il nuovo decreto sicurezza, entrato in vigore tre settimane fa, ha favorito l’introduzione di nuove ipotesi di reato e l’inasprimento delle pene.Misure che porteranno quindi a un aumento della popolazione carceraria. Gli avvocati veronesi, preoccupati delle consequenze del nuovo decreto, aderiscono da domani fino a mercoledì all’astensione dalle udienze e da tutte le attività giudiziarie, promossa dell’Unione delle Camere Penali Italiane. “Il decreto sicurezza segna un ulteriore aggravio del fenomeno del sovraffollamento che cresce progressivamente - fa sapere la Camera Penale scaligera - oltre a essere insufficiente nel prevenire il tragico fenomeno dei suicidi in carcere che ha raggiunto nel 2024 il numero record”. A Verona i detenuti che si sono tolti la vita lo scorso anno sono stati quattro, mentre solo nel marzo di quest’anno ci sono stati due suicidi nel giro di 48 ore. “L’auspicio è che molti colleghi aderiscano all’astensione - dice il presidente della Camera Penale scaligera Paolo Mastropasqua -. La nostra attenzione sul carcere di Montorio è sempre molto alta. Dopo la visita dello scorso mese nella casa circondariale abbiamo promosso all’inizio di questa settimana un corso demedici ontologico per gli avvocati nel diritto penale carcerario”. Quell’incontro si terrà mercoledì dalle 16 alle 18 alla Fondazione Toniolo con iscrizione sulla piattaforma Riconosco. A metà aprile la Camera Penale si era recata a Montorio assieme all’associazione Nessuno tocchi Caino, sottolineando come oltre al problema del sovraffollamento dei detenuti ci sia anche un numero insufficiente di agenti di polizia penitenziaria e di educatori. La struttura dovrebbe infatti ospitare 335 posti ma i detenuti sono 604. Gli agenti sono invece 287 anziché i 317 previsti. Insufficiente anche il numero dei che è pari a cinque. Dati che descrivono una “situazione allarmante”, ma in linea purtroppo con altre strutture di detenzione in Italia. “Una visione securitaria e carcerocentrica è quella del nuovo decreto - riporta l’Unione delle Camere Penali nella delibera diffusa dalla sezione veronese -. Nonostante le modifiche, restano di fatto intatte tutte le criticità denunciate sulla inutile introduzione di nuove ipotesi di reato, sui molteplici sproporzionati e ingiustificati aumenti di pena, l’introduzione di aggravanti prive di fondamento razionale, alla sostanziale criminalizzazione della marginalità e del dissenso e all’introduzione di nuove ostatività per l’applicazione di misure alternative alla detenzione”. Bologna. I penalisti in sciopero. Tre giorni senza udienze: “No al Decreto Sicurezza” di Nicholas Masetti Il Resto del Carlino, 4 maggio 2025 Domani, martedì e mercoledì gli avvocati penalisti di Bologna si asterranno da udienze e processi. Tre giorni di sciopero per dire no al ‘Decreto sicurezza’ e per protestare contro la drammatica situazione delle carceri. “Ci aspettiamo l’astensione da parte della totalità dei colleghi”, spiegano il professor Nicola Mazzacuva (nella foto), presidente del Consiglio delle Camere Penali Italiane e presidente della Camera Penale di Bologna, e l’avvocato Carlo Machirelli, segretario della Camera Penale di Bologna. Una protesta deliberata a livello nazionale dalla giunta dell’Unione delle Camere Penali che prevede “l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale”, recita un passaggio della delibera che porterà mercoledì a una manifestazione nazionale a Roma. A Bologna, inoltre, martedì ci sarà un dibattito nella sala Sbaiz della Fondazione Forense Bolognese dal titolo “Dal Ddl sicurezza al Dl sicurezza, metodo e merito dell’ultimo prodotto del populismo penale”. Previsti gli interventi del professor Flavio Peccenini, presidente dell’Ordine degli avvocati di Bologna, dell’avvocato Elisabetta Italia D’Errico, e dell’avvocato Ettore Grenci, consigliere dell’Ordine degli avvocati di Bologna e responsabile della scuola territoriale Camera Penale ‘Franco Bricola’ di Bologna. Oltre ai già citati Mazzacuva e Machirelli ci sarà anche Letizio Magliaro, gip del tribunale di Bologna. Segno che il testo del Decreto sicurezza presenta lacune anche per una parte della magistratura. “Il Dl sicurezza per le modalità in cui è stato approvato e il contenuto del testo normativo, rappresenta una pericolosa deriva illiberale e antidemocratica”, dice Machirelli. “Critichiamo il metodo, passato da ddl al vaglio parlamentare a dl senza una vera necessità e urgenza. E poi il contenuto. Nessuno è in grado di dire quante siano le norme incriminative, essendo smisurate. E ore se ne aggiungono altre 19. Inoltre la situazione delle carceri vede un sovraffollamento incredibile. Anche il Papa parlava di questa situazione”, conclude Mazzacuva. E l’incremento dei sucidi in cella ne è la prova, con numeri da record negativi nel 2024: ben 88. Bologna. “Carcere minorile nel caos, comandante rimosso” di Federica Nannetti Corriere di Bologna, 4 maggio 2025 Dopo le tensioni e la rivolta dei giorni precedenti la Pasqua, la situazione del carcere minorile del Pratello è ancora al limite. E lo è su più fronti, a partire dall’ormai cronico sovraffollamento, dalla carenza di personale e dagli spazi non del tutto adeguati. E lo è anche perché, dopo la rimozione del dirigente della giustizia minorile regionale, Antonio Pappalardo, in seguito all’indagine del ministero della Giustizia partita da alcuni post pubblicati sul suo canale Telegram contro Papa Francesco, ora in vista ce ne sarebbe un’altra, ovvero quella del comandante della polizia penitenziaria dell’istituto penale minorile bolognese e, allo stesso tempo, della sezione dei giovani adulti aperta a marzo scorso alla Dozza. A darne notizia, chiedendo spiegazioni, è stata ieri la Fp Cgil, che in mattinata ha appreso dell’imminente partenza: “La polizia penitenziaria sta per vivere l’ennesimo cambio di comandante - hanno fatto sapere Antonino Soletta e Salvatore Bianco -. Da quanto si apprende, l’attuale comandante in missione sarebbe stato rimosso; verrà sostituito con un altro, ad interim, con un altro Ipm”, che sarà a Bologna tre giorni a settimana”. Come spiegato dal sindacato, l’attuale comandante dovrebbe lasciare Bologna già da domani o, comunque, all’inizio della prossima settimana, dopo essere arrivato al vertice della penitenziaria del Pratello solo un paio di mesi fa, in missione appunto, in concomitanza con l’apertura della sezione giovani adulti alla Dozza. Prima di lui il Pratello aveva già vissuto un paio di mesi con il comando vacante per la partenza verso un altro istituto del predecessore; ora un ulteriore cambio. Stando alle informazioni a disposizione del sindacato, che ha lamentato sempre poca chiarezza sulle vicende dei minorili, le ragioni della decisione non sono note: da capire se possano essere collegate proprio ai disordini pre pasquali. “Chiediamo chiarimenti rispetto a quanto si è appreso - hanno aggiunto dalla Fp Cgil. Chiediamo al Dipartimento giustizia minorile di fare chiarezza su quanto sta accadendo, perché la situazione che stanno vivendo gli Ipm è chiaramente allo sbando e a farne le spese sono sempre più spesso il personale e i minori”. Dopo le tensioni delle settimane scorse, “nulla è cambiato - la loro denuncia. Allo stato attuale sono presenti 49 detenuti (stesso numero di presenti prima dei disordini di Pasqua), ma con ben tre camere inagibili. I ristretti presenti sono quindi alloggiati alla meglio”. Che la situazione sia molto complicata l’ha ribadito ieri anche la consigliera regionale di Avs, Simona Larghetti, in ispezione al Pratello insieme al garante per i detenuti Antonio Iannello: ha anticipato l’arrivo di altri 25 detenuti nella sezione giovani adulti della Dozza e ha espresso preoccupazione per “gli equilibri già fragili del Pratello”. Viterbo. Detenuto impiccato in cella di isolamento, l’ex direttore assolto due volte di Silvana Cortignani tusciaweb.eu, 4 maggio 2025 Morte in carcere di Andrea Di Nino, per i giudici d’appello che lo scorso 21 gennaio hanno confermato anche in secondo grado la sentenza di assoluzione dell’ex direttore Pierpaolo d’Andria: “La sentenza di primo grado appare caratterizzata da un significativo rigore logico ed espositivo e fa piena luce in ordine a tutti i profili controversi, fornendo una ricostruzione chiara e pienamente condivisibile di quanto avvenuto”. Si legge nelle motivazioni. Era la sera del 21 maggio 2018 quando il 36enne romano, nonostante la giovane età già padre di cinque figli, fu trovato impiccato nella cella d’isolamento dove si trovava dal 15 maggio, in seguito a un provvedimento disciplinare applicato in via cautelare essendo venuto alle mani con un detenuto magrebino. L’ex direttore della casa circondariale Nicandro Izzo di Viterbo, secondo l’accusa aveva adottato il provvedimento disciplinare dell’isolamento sulla base di una documentazione sanitaria inidonea in quanto emessa in un momento anteriore rispetto alla sua esecuzione, violando così la sequenza procedimentale prevista per legge, e dall’altro il certificato medico aveva dato atto di una generica buona condizione di salute del detenuto anziché contenere una esplicita attestazione di sopportabilità dello stato di isolamento. Nel frattempo, però, tra il trasferimento in cella d’isolamento e il suicidio di Di Nino sono trascorsi sei gironi. ulteriore motivo per cui “anche sotto il profilo del nesso causale sussistono fondati dubbi che possa essere ricondotto al comportamento del direttore del carcere”. “Oltre agli omessi controlli quotidiani di tipo psichico cui il prevenuto avrebbe dovuto essere sottoposto in quanto escluso dalle attività in comune - si legge nelle motivazioni della confermata assoluzione di D’Andria - appare significativo quanto riferito da un testimone detenuto (un 40enne albanese, ndr), il quale ha riportato che circa un’ora prima che Di Nino si togliesse la vita egli, poiché aveva appreso di questa sua intenzione, aveva contattato un agente della polizia penitenziaria il quale era intervenuto dicendo al Di Nino di togliere quella corda perché pensava si trattasse di un gesto dimostrativo; nondimeno, circa 20 minuti dopo Di Nino, lo aveva salutato dicendogli che gli voleva bene e subito dopo egli aveva sentito un colpo; quindi aveva appreso che Di Nino si era tolto la vita”. In conclusione: “La complessiva sequenza causale che ha portato al decesso del Di Nino non può ricondursi con certezza all’odierno imputato, anche avuto riguardo alla circostanza che il provvedimento cautelare da lui emesso risaliva a sei giorni prima, e dunque essendo ravvisabili nel corso di tale periodo ulteriori e diverse condotte suscettibili di incidere sulla verificazione dell’evento sia in tema di omessi controlli che di sottovalutazione di segnali di pericolo che potevano essere percepibili in ordine all’evento che di lì a poco si sarebbe verificato”. Indagini e sviluppi - La procura della repubblica di Viterbo ha aperto di recente un ulteriore fascicolo per omicidio colposo contro ignoti in seguito alle dichiarazioni del supertestimone individuato dalla famiglia. Si tratta di un altro detenuto del carcere di Mammagialla che l’anno scorso si è fatto avanti coi familiari, dicendo che Di Nino è stato vittima di un pestaggio in cella da parte di alcuni agenti, la “squadretta della morte”, di cui avrebbe anche fatto i nomi. Riprenderà invece fra pochi giorni, davanti al giudice Jacopo Rocchi, il processo per omicidio colposo a carico dell’agente penitenziario e dei due sanitari rinviati a giudizio il 6 ottobre 2022 dal gup Savina Poli. Parti civili 13 familiari di Andrea Di Nino. Bari. I volontari e un gruppo di detenuti puliscono il giardino Princigalli: “Un momento di libertà” di Erika Cuscito La Repubblica, 4 maggio 2025 A Mungivacca l’iniziativa dell’associazione Plastic Free onlus in collaborazione con Seconda chance organizzazione impegnata nel reinserimento socio-lavorativo di chi sta scontando una pena in carcere. Coinvolte 13 città in tutta Italia. Prendersi cura delle persone, attraverso la cura dell’ambiente. Anche Bari è stata tra le protagoniste della raccolta di rifiuti nazionale organizzata dall’associazione Plastic Free, in collaborazione con Seconda Chance, impegnata da anni nel reinserimento socio-lavorativo dei detenuti. Grazie a un permesso speciale, infatti, adulti e ragazzi che scontano una pena nel carcere di Bari hanno preso parte al clean up del giardino Giacomo Princigalli, a Mungivacca. Al loro fianco, oltre agli educatori e all’assessora comunale all’Ambiente, Elda Perlino, ci sono stati i membri di Plastic Free Puglia e i numerosi volontari che hanno scelto di collaborare: l’iniziativa, infatti, ha permesso di preparare al meglio il parco in vista della Festa dei Popoli, che si terrà lì dal 22 al 25 maggio. In tutta Italia sono state 13 le città coinvolte: “È il primo anno in cui collaborano così tanti istituti penitenziari e questo ci rende orgogliosi - sottolinea Flavia Filippi, presidente e fondatrice di Seconda Chance - Non si tratta solo di uscire per un paio d’ore a pulire. Queste giornate sono vere e proprie esperienze di comunità: si lavora insieme, si pranza insieme, spesso con i familiari, si condivide un momento di libertà e di umanità prima di rientrare in carcere”. È il terzo anno che la realtà dell’associazione collabora con Plastic Free e secondo il direttore generale, Lorenzo Zitignani, la sinergia creata è merito “dell’associazionismo aperto a tutti, mai esclusivo. Le nostre giornate di raccolta ambientale vogliono sensibilizzare, sì, ma anche offrire opportunità di riscatto e di gratitudine. Perché per cambiare il mondo serve il contributo di tutti, nessuno escluso. E poi, a far del bene non si sbaglia mai. Quindi perché non farlo?”. Proprio quest’anno, Bari ha ottenuto il riconoscimento di Comune Plastic Free a dimostrazione del fatto che “stiamo riuscendo a sensibilizzare sempre più la cittadinanza - spiega Silvana Mitolo, referente locale dell’organizzazione - di qualsiasi età e provenienza, sulla tematica ambientale e di cura del territorio e del creato, che è anche l’eredità che ci ha lasciato papa Francesco”. Palmi (Rc). Volontari e detenuti insieme a pulire la spiaggia: “Momento di costruzione e libertà” di Giuseppe Mancini lacnews24.it, 4 maggio 2025 Alla sua terza edizione l’iniziativa nata dalla sinergia tra “Plastic free” e “Seconda Chance”. Coinvolti gli istituti penitenziari di Vibo Valentia, Locri e Laureana di Borrello. Per cambiare il mondo, bisogna prima di tutto cambiare la percezione di se stessi. Prendere consapevolezza delle proprie risorse interiori, di riflesso, gradualmente, conduce a una serie di effetti positivi, che si innescano uno dopo l’altro, nella realtà circostante. Questa convinzione ha condotto a un’iniziativa simbolo di riscatto, inclusione, condivisione di sani principi. In mattinata, dalle ore 10:00, alla Tonnara di Palmi, nella zona del Fortino di Pietrenere, si è svolta la pulizia della spiaggia, grazie all’impegno dei volontari delle associazioni “Plastic free”, “Seconda chance” e i detenuti degli istituti penitenziari di Vibo Valentia, Locri e Laureana di Borrello. L’evento, alla sua terza edizione, rappresenta qualcosa di più ampio, come una seconda opportunità per affrontare la vita, combatterne i mali e i pregiudizi, per ritrovare una stabilità che porta benefici a livello individuale, familiare e all’intera comunità. L’appuntamento è nato dall’assodata sinergia tra “Plastic Free”, organizzazione impiegata nel contrasto all’inquinamento da plastica e l’associazione del Terzo settore “Seconda Chance” dedicata al reinserimento socio-lavorativo dei detenuti. “È il terzo anno consecutivo che organizziamo qui a Palmi ospiti del Comune - spiega Valeria Votano, responsabile per la Calabria di “Seconda Chance” -. Diamo ai detenuti la possibilità di passare una giornata diversa all’aria aperta. Tutti insieme collaboriamo per un mondo migliore”. Molto soddisfatta anche la referente di zona di “Plastic free” Cristina Altomonte: “Un momento di costruzione e libertà per tutti. Sono sicura che è soltanto l’inizio”. Con il medesimo scopo, questo sabato, anche altre città italiane sono state coinvolte nel progetto, ossia: Bari, Cagliari, Civitavecchia, Massa, Napoli, Osimo, Padova, Avola, Sabaudia, Teramo, Vasto e Viterbo. Con la collaborazione della Magistratura di Sorveglianza, dei Comuni, delle associazioni locali e di numerosi partner, i detenuti in permesso premio e i volontari hanno unito le forze per il bene dell’ambiente. Una giornata ecologica per 18 carceri di 10 regioni italiane, con al centro la sensibilizzazione sulla pericolosità della plastica rilasciata nella natura, il desiderio di rivalsa per riaffermare il proprio valore personale e contribuire all’edificazione di una società più giusta, forte e coesa. L’evento alla Tonnara di Palmi ha ricevuto la completa disponibilità del Comune, e ha potuto contare, per il secondo anno, del prezioso supporto del Sunset Beach Club, che ha scelto di sostenere la causa e unirsi in quest’occasione speciale. “Ormai è una consuetudine per la nostra amministrazione che è lieta di partecipare e contribuire alla sua buona riuscita - ha affermato l’assessore all’ambiente di Palmi Alessandro Riotto-.Il pranzo è stato offerto da un ristoratore locale. Ciò ci fa onore, significa che siamo una comunità sensibile e attenta”. Muniti di guanti, sacchetti, rastrelli, tanto entusiasmo e voglia di fare, detenuti, volontari e singoli cittadini, hanno lavorato insieme guardando il mare, trascorrendo momenti di libertà, oltre le barriere del passato, le difficoltà presenti, contemplando la vita e il futuro attraverso nuove prospettive. Padova. I detenuti a fianco dell’associazione Plastic free: raccolti 220 chili di rifiuti di Leandro Barsotti Il Mattino di Padova, 4 maggio 2025 Volontari di Plastic Free e quindici detenuti del carcere Due Palazzi hanno ripulito l’area attorno allo stadio Euganeo e lungo la strada che collega l’istituto penitenziario: raccolti 220 chili di rifiuti. “Ragazzi, qui c’è di tutto!”. Un volontario chiama gli altri nel fossato vicino all’ingresso Est dello stadio Euganeo: bottiglie di vetro, alcune rotte, lattine di birra, plastica varia (confezioni, sacchetti scatolette alimentari). È un sabato speciale intorno allo stadio: l’associazione Plastic Free ha messo in campo i suoi volontari per fare pulizia. Con loro, un gruppo di detenuti del carcere Due Palazzi che hanno ripulito i bordi della strada che dall’istituto di detenzione porta fino al parcheggio dell’Euganeo. L’evento è stato organizzato da Plastic Free in partnership con Seconda Chance, un’associazione che lavora con il mondo carcerario. La giornata si è concentrata su due aree principali: i volontari di Plastic Free hanno operato attorno allo stadio Euganeo, mentre i detenuti hanno ripulito il percorso che va dal carcere Due Palazzi fino al punto di incontro vicino allo stadio. L’iniziativa ha visto la partecipazione di quindici detenuti, autorizzati a prendere parte all’evento grazie a un permesso concesso dal magistrato. Sono stati selezionati dagli educatori e dalle educatrici dell’istituto penitenziario in base alla loro sensibilità verso il tema ambientale. “L’obiettivo principale è sensibilizzare le persone a non buttare rifiuti e plastica nell’ambiente e far conoscere i danni che questi rifiuti possono causare”, hanno spiegato Federica Maratini e Anna Luisa Zanettin, referenti di Plastic Free Free. “Nonostante l’aumento del numero di volontari e persone sensibili, sembra esserci anche un aumento dell’inciviltà e dell’indifferenza. Il problema non riguarda solo la plastica, ma una generale mancanza di attenzione verso l’ambiente. Non c’è differenza tra il mozzicone e la bottiglia. È la mentalità. Un esempio lampante è la presenza di rifiuti a terra anche vicino ai cestini, o il ritrovamento di una spesa intera buttata lungo l’argine di via Isonzo”. Nel caso del grande parcheggio dello stadio Euganeo è vero che ci sono molti rifiuti lasciati a terra dopo le partite di calcio, ma è anche vero che il parcheggio non è dotato di cestini o punti di raccolta di immondizia. La partecipazione dei detenuti aggiunge una dimensione sociale e rieducativa all’iniziativa. Dafne Satta, referente di Seconda Chance, ha commentato: “Siamo riusciti a unire una mission sociale che riguarda tutta la comunità, quindi la pulizia del territorio, con una giornata di libertà di persone che sono nei termini e che escono già in permesso. L’attività all’aperto permette di rendersi conto di quante cose non vedi quando cammini nella quotidianità”. Salvatore, uno dei detenuti coinvolti, originario di Roma, ha spiegato il motivo per cui ha partecipato: “Prendersi cura dell’ambiente è un po’ prendersi cura di se stessi. Di conseguenza, rispettando l’ambiente in cui viviamo, rispettiamo anche noi stessi. Questo concetto, l’ho imparato con il tempo, a mie spese, sulla mia pelle. Ho capito che se mi fossi voluto bene forse la mia vita sarebbe stata diversa”. Al termine della mattinata, sono stati raccolti 220 chili di vetro e plastica: “Vedere tutti questi sacchi ci regala una forte gratificazione personale e ci spinge ad essere ancora più attenti verso il mondo che ci circonda”, hanno ammesso i partecipanti. Frosinone. I detenuti ripuliscono il Circeo, iniziativa promossa da Plastic Free e Seconda Chance ciociariaoggi.it, 4 maggio 2025 Una mattinata all’insegna dell’impegno civile e della tutela ambientale. È quella che ieri ha visto protagonisti dieci detenuti della casa circondariale di Frosinone, impegnati nella pulizia della spiaggia della Bufalara, all’interno del Parco nazionale del Circeo. L’iniziativa è stata promossa dalle associazioni Plastic Free e Seconda Chance, con il patrocinio dell’ente parco, che ha fornito supporto organizzativo e logistico. L’attività, inserita in un progetto nazionale già attivo in oltre dieci istituti penitenziari italiani, punta a creare occasioni di reinserimento e responsabilizzazione per i detenuti attraverso azioni concrete di volontariato ambientale. Nel corso della mattina, i partecipanti - accompagnati da agenti della polizia penitenziaria e dal personale educativo dell’istituto - hanno lavorato fianco a fianco con i volontari delle due associazioni, contribuendo alla rimozione di rifiuti lungo la Bufalara, uno dei tratti più sensibili del litorale del Parco. Al termine delle attività, i partecipanti sono stati accolti nell’area pic-nic del centro visitatori del parco a Sabaudia per un momento di condivisione informale. A seguire, hanno visitato il museo naturalistico e percorso il sentiero didattico, approfondendo la conoscenza del territorio e della sua biodiversità. La visita guidata è stata curata dal personale dell’Istituto Pangea, che ha contribuito al progetto, accompagnando i partecipanti alla scoperta delle peculiarità naturalistiche del Parco. “Abbiamo voluto aderire a questa iniziativa perché rappresenta un incontro virtuoso tra due pilastri della nostra missione: la salvaguardia dell’ambiente e l’inclusione sociale - ha dichiarato Emanuela Zappone, commissario straordinario dell’ente parco - Questa iniziativa dimostra come, attraverso il rispetto dell’ambiente e il senso di responsabilità collettiva, sia possibile creare percorsi concreti di rieducazione e inclusione. Ci auguriamo che i ragazzi impegnati in questo progetto facciano tesoro di questa esperienza, con la consapevolezza che il cambiamento è possibile”. Roma. Il teatro per evadere dalla detenzione: vanno in scena “Le Donne del Muro Alto” di Gabriele Ciraolo Il Domani, 4 maggio 2025 Allo Spazio Rossellini di Roma lo spettacolo Olympe della compagnia attiva nel carcere di Rebibbia. Su 150 donne che in 12 anni hanno partecipato, solo due sono rientrate nell’istituto penitenziario, registrando un livello di recidiva vicino allo zero: “Il teatro ha un potere trasformativo su queste ragazze”. Le loro testimonianze. Via della Lungara 19, secondo piano. Il corridoio è lungo, scuro, deserto. Stanza 105. Il cartellino sulla porta bianca recita: Sala Movimento. Parquet, luci soffuse, specchio su tutta la parete di fronte. Siamo nella sala prove. Capelli ricci, dinamismo esuberante, Francesca Tricarico, la regista, dirige il training. Scalze, camminando nella piccola sala prove, le attrici si muovono spasmodicamente per tutto lo spazio. Poi la calma. Sdraiate sul pavimento, rilassano occhi e muscoli prima di cominciare. Sulle loro maglie nere a maniche corte il nome della compagnia: Le Donne del Muro Alto. Sono le prove generali di Olympe, lo spettacolo che portano in scena allo Spazio Rossellini di Roma. Ci sono solo quattro sedie a comporre la scenografia. Le attrici fingono con padronanza di utilizzare gli oggetti che utilizzano in scena: un tavolo, un letto, utensili da cucina, una scopa. “Questo nome nasce nella sezione alta sicurezza di Rebibbia, una sezione più chiusa delle altre: un muro nel muro” ci spiega Tricarico, fondatrice nel 2013 della compagnia in carcere. Tutto è iniziato quell’anno con un laboratorio che da 12 anni replica nella sezione femminile di Rebibbia. Le detenute partecipano “per uscire dalla cella, per non stare in sezione, per tenere la testa e il tempo impegnato” ci dice Bruna Arceri, 55 anni. Capelli chiari, sguardo risoluto, è un’attrice delle Donne del Muro Alto dal 2018. Lei è la snob del gruppo. L’hanno soprannominata così nella sezione femminile del carcere di Rebibbia il terzo giorno e da quel momento in poi quel soprannome non l’ha più lasciata. Recitare le ha permesso di evadere dalla detenzione. Per lei Olympe è “qualcosa di eccezionale. Un testo molto importante per le donne, per i più deboli, i più fragili, gli emarginati”. Arceri interpreta Olympe de Gouges, paladina dell’emancipazione femminile durante la Rivoluzione francese, autrice della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, e ghigliottinata da Robespierre nel 1793 per essersi opposta al nuovo governo. “Il carcere è un luogo di detenzione a dimensione d’uomo. Le donne che stanno in carcere spesso hanno gran parte della famiglia detenuta” dice Tricarico. “Un uomo ha sempre una mamma, una sorella, una cugina, una scema come noi che lo va a trovare, le donne no”. Alcune donne hanno dei figli e il rapporto con loro durante la detenzione è difficile. Daniela Savu, 42 anni, capelli ramati, sorriso stanco, è un’attrice dal 2017. Alle sue figlie non diceva di essere in carcere: “Non potevo spiegare loro come stavano davvero le cose con un’ora o due di colloquio. Non accettavo di parlare al telefono con loro perché in 10 minuti di telefonata che puoi dire?”. Quando è uscita le ha portate a vedere Medea, lo spettacolo in cui interpretava la protagonista: “Loro mi hanno chiesto perché volessi fare teatro anche fuori dal carcere e io ho risposto che volevo far capire alla gente che non siamo soltanto ex-detenute”. Savu ha deciso di continuare anche dopo la libertà perché del teatro non ha più potuto fare a meno. Anche per Betty Guevara, 58 anni, labbra carnose e sorriso solare, il teatro è parte fondamentale della sua vita. È in misura alternativa alla detenzione, quella condizione per cui la pena del reato commesso viene scontata fuori dal carcere ad altre condizioni. Per lei fare teatro con la compagnia di ex-detenute è un modo per riprendersi la vita: “Io sono recidiva e lotto per non ricaderci nuovamente, per me è un percorso molto educativo. Non voglio più sbagliare, perché ho visto che ho perso tanto. Ho perso una parte della mia vita. Ho perso i miei affetti”. “Noi siamo per l’inclusione e accettiamo anche chi non è stato in carcere” dice scherzosamente Arceri riferendosi a Chiara Ferri e Raquel Electra Robaina Tort, attrici della compagnia. Chiara Ferri, 25 anni, è entrata da tirocinante durante gli anni dell’università. Per i primi sei mesi ha assistito alle prove da ascoltatrice, poi Tricarico le ha dato la possibilità di fare una piccola parte. Da quel momento non ha più lasciato la compagnia, che ha dato una nuova forma alla sua esistenza. Grazie alle Donne del Muro Alto ha capito quanto “dentro ciascuno di noi ci sia tutto, sia nel bene che nel male”. Raquel, invece, è stata chiamata per una sostituzione nel 2020. Lei è il jolly della compagnia, sa a memoria la parte di tutti per sopperire alle assenze improvvise. Il suo primo spettacolo è stato Ramona e Giulietta, incentrato sull’amore omosessuale: “Dopo averlo visto per la prima volta sono rimasta zitta e sono tornata a casa carica di emozione”. Quando varchiamo la soglia dello Spazio Rossellini di Roma Betty Guevara è indaffarata con gli ultimi preparativi: in Olympe non è di scena. La sala è gremita, le attrici sono già pronte. Indossano abiti lunghi e neri che ricordano quelli della Francia rivoluzionaria. Francesca Tricarico si sposta rapidamente tra la postazione di regia e le maestranze che le chiedono l’ultima autorevole parola. Olympe inizia, le attrici entrano alle spalle della platea, ricordando i Sei personaggi in cerca d’autore. Gli spettatori sentono le loro voci e si girano ora da un lato ora dall’altro. L’attenzione è altissima. Una dopo l’altra Raquel Electra Robaina Tort, Bruna Arceri, Daniela Savu e Chiara Ferri si alternano in platea con un monologo per poi salire sul palco a comporre la scena e calarsi nella Francia del diciottesimo secolo, ognuna al proprio posto. Olympe dura poco più di un’ora. Sul finale, spinte dalla musica, tutte e quattro gridano all’unisono “Libertà! Libertà! Libertà!”. Poi il silenzio. Non appena finisce, un lungo applauso accoglie l’inchino della compagnia. La platea è composta da alunni di quarto e quinto liceo. Provengono quasi tutti dal Blaise Pascal di Pomezia. Molti ci raccontano di essere rimasti stupiti dallo spettacolo. Christian, occhiali squadrati e codino biondo, confessa di aver affrontato la partenza della mattina come una gita scolastica. Eppure, l’esperienza l’ha segnato: “Spesso consideriamo i detenuti come degli estranei. Subito ci viene da pensare che siano venuti da un’altra parte del mondo e non vogliamo averci niente a che fare. Questo spettacolo mi ha fatto capire che sono persone come noi”. La professoressa Barbara Zadra spiega che da anni il liceo Pascal porta avanti il progetto Libertà e Carcere, per osservare da un punto di vista differente l’esperienza carceraria: “Attraverso le forti emozioni provocate dal testo, dalla recitazione e dalla testimonianza delle attrici, spettacoli come questo scardinano molti pregiudizi”. Mentre la sala si svuota raggiungiamo Daniele Tagliaferri, assistente di Tricarico da un anno e mezzo, indaffarato a smontare le scenografie. Partecipa sia ai laboratori in carcere, sia alle attività della compagnia di ex-detenute. Ci racconta che lavorano a una riscrittura della Bisbetica domata di Shakespeare nel laboratorio che stanno conducendo in questi mesi a Rebibbia: “Mi stupisce sempre, in ogni laboratorio, il potere trasformativo che ha il teatro su queste ragazze”. Il teatro trasforma. Lo conferma il campione di 150 donne che in 12 anni Tricarico ha conosciuto. Di queste soltanto due sono rientrate in carcere, registrando un livello di recidiva vicino allo zero. Per i detenuti che non hanno svolto alcuna attività la percentuale si alza al 60 per cento. Una differenza notevole che lascia dedurre quanto le attività teatrali facciano bene alle detenute e ai detenuti. Per Tricarico non è stato facile dirigere i laboratori in carcere: “La parte più difficile è guadagnare la loro fiducia. Se chiedi loro di essere vere, di spogliarsi, non puoi mentire, devi spogliarti anche tu. Il nostro teatro è fatto di verità”. Tricarico deve andare dalle sue ragazze in camerino. Prima di uscire ci lascia con un’ultima battuta: “Se osservi il carcere, osservi te stesso e il mondo che ti circonda. Se scegli di guardarlo davvero, ti puoi guardare dentro”. La giustizia è degli ultimi di Gustavo Zagrebelsky e Virginio Colmegna La Repubblica, 4 maggio 2025 “In un mondo di grandi disuguaglianze, i problemi si possono impostare partendo dai potenti o dai deboli. Papa Francesco è stato rivoluzionario perché ha indicato la necessità di guardare i nostri problemi a partire dai deboli. Purtroppo la separazione tra deboli e potenti è stata ben rappresentata in piazza San Pietro, nell’”evento” in cui è stato trasformato il suo funerale: in prima fila i governanti e lo schieramento dei cardinali, il “popolo” tenuto lontano, oltre le transenne” commenta Gustavo Zagrebelsky. Replica don Virginio Colmegna: “Il grande insegnamento di papa Francesco è che dalla povertà viene un richiamo alla carità in rapporto con la giustizia, che chiede la conversione degli stili di vita, sull’esempio dei Vangeli. Papa Francesco ci ha fatto sognare una Chiesa povera, una Chiesa dei poveri, in un messaggio di condivisione della fraternità. In fondo, il grande insegnamento che ci ha lasciato con le encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti, è superare l’assistenzialismo e portare i poveri al centro della costruzione di una società giusta”. Gustavo Zagrebelsky: “Sono stato colpito, durante una recente visita a Parigi, dalla vista del Palais de Justice, con i simboli imponenti della giustizia associata al potere, alla potenza e alla sovranità; una “giustizia” che schiaccia, che celebrava i riti del suo adempimento anche simbolico nell’annessa Conciergerie, l’ultima sosta dei condannati a morte prima di salire al patibolo. Dopo tanti, troppi anni di pratica nel mondo del diritto, rifletto. Quando ho iniziato, se mi fossi interrogato sulle ragioni d’essere diventato giurista, avrei forse detto a me stesso che il diritto ha un compito, la difesa e il sostegno delle ragioni degli impotenti contro i prepotenti. Gli umiliati, i deboli, gli sconfitti a che cos’altro possono appellarsi perché le loro ragioni siano riconosciute? I potenti hanno tanti mezzi per farsi valere. Hanno la forza e possono anche trasformarla in legge. Posso dire d’essere un tecnico al servizio d’una scienza la cui nobiltà consiste precisamente nell’essere protetta dalle perturbazioni delle passioni. Così è possibile non prendere posizione; cosa molto difficile da evitare se, invece che dal diritto, si procedesse a partire dalle esperienze concrete di vita delle persone. Non prendere posizione, tuttavia, significa evidentemente prenderla a favore dello status quo, spesso denominato il “sistema”, un concetto che codifica e, in un certo senso, nobilita gli squilibri di potere da cui derivano le grandi ingiustizie sociali. Prendere posizione può significare costruire alleanze: è possibile un’alleanza tra laici e credenti? C’è qualcosa che la impedisce? Laico o credente fa differenza, davanti alla Costituzione? Questo è il tema”. Virginio Colmegna: “Credo che la giustizia sia il terreno privilegiato su cui costruire quest’alleanza. Da parte mia, voglio provare a portare l’esperienza, l’incarnazione di questa possibilità. Quando il cardinal Martini volle affidarmi la costruzione della Casa della Carità, dove avrei vissuto per oltre vent’anni, andai da lui e obiettai: “La parola carità non mi convince, viene confusa con beneficenza, elemosina, sussidio; è ormai impoverita, nel senso comune, del suo valore di condivisione e di alternativa”. Lui mi rispose: “No, la parola carità va rispolverata, non dobbiamo privarcene; dobbiamo invece riappropriarcene, farla nostra, perché abbracci la giustizia spingendola oltre l’utilità sociale. Valorizza questa parola”. La solidarietà, si pensava allora, è il terreno dei laici, mentre la carità, la benevolenza, la bontà sono il terreno dei credenti. Il superamento di quella divisione nacque durante un dibattito dove riuscimmo a connettere i vari aspetti partendo da un diverso punto di riferimento: l’ingiustizia, la disuguaglianza, la debolezza, la fragilità; tutto ciò che mostra l’incrinatura del confine che attraversa la complessità”. G.Z.: ““Solidarietà” parola laica, “carità” parola cristiana. Può essere, ma non sono in contraddizione. Semmai, la seconda aggiunge una motivazione ulteriore alla prima. Giustamente, da credente, parli di spiritualità, e la spiritualità la possiamo riscontrare dappertutto. Altrettanto giustamente, secondo me, ne vedi la sostanza anche nella Costituzione, che è un documento, diciamo così, secolare. La Costituzione italiana è il risultato di diverse “confluenze” politiche e ideali. Il segno dell’umanesimo cristiano c’è ed è ben visibile, così come c’è un umanesimo che si fonda su radici culturali autonome. Oggi ci si sorprende che quella confluenza ci sia stata, in anni di contrapposizioni radicali. Pensiamo, tuttavia, che al tempo si avevano alle spalle la dittatura, il colonialismo, il razzismo, l’ideologia fascista, la guerra: un coacervo di esperienze vissute, non una biblioteca di teorie politiche dalle quali attingere fior da fiore”. V.C.: “Per trovare il senso della giustizia bisogna dubitare. Rifuggo da chi ha una visione manichea di cosa sia giusto e cosa sbagliato. Fu Martini a dirmi: “Per credere, devi far parlare il non credente che è in te”. Mi consegnò l’orizzonte laico del discorso. Per credere bisogna anche dubitare, far parlare il non credente che è in noi”. G.Z.: (...) Quella tensione tra credente e non credente che, forse, è presente in ogni umana esperienza quando facciamo opera di autoriflessione a contatto con le esperienze della vita non è un modo per collegare inevitabilmente ed essenzialmente l’astratto con il concreto?”. V.C.: “Dal punto di vista di un cristiano, dunque di uno che è animato dal Vangelo, ritorna sempre la stessa domanda: come facciamo a richiamare alcuni principi, se poi non li radichiamo nella dignità della persona? Se non mettiamo al centro della nostra riflessione la persona e la sua dignità? Il cardinal Martini citava la parabola del Samaritano per dire che non sempre i sacerdoti si fermano ai bordi delle strade: spesso vanno avanti tranquilli, hanno le loro funzioni da svolgere. In quel caso la religione si “accomoda” al potere, al massimo fa qualche beneficenza, ma senza essere capace di radicarsi nei diritti. Il Samaritano, invece, scende dalla cavalcatura, si prende carico, si fa carico, si ferma a deporlo in quella che chiamo “l’osteria dei diritti”. Dice all’oste: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”“. G.Z.: “E poi ritorna. Ritorna per controllare come stanno le cose”. V.C.: “Esatto. Si fa artigiano di cura. Questa è una lettura del potere. Quando ero insegnante di religione, il preside della mia scuola chiese alla diocesi di esonerarmi dall’insegnamento perché leggevo in classe Lettera a una professoressa di don Milani. A quei tempi era una lettura scomoda, forse lo è anche adesso. Il nodo continua a essere la dignità della persona che segna il superamento dell’assistenzialismo, della pietà generica, per diventare assunzione di responsabilità, condivisione, reciprocità. L’assistenza è una forma subdola di potere. “Hai bisogno di soldi, ti do i soldi, ma il potere lo tengo io”. Rovesciare le prospettive, questo va fatto. Vale anche per la giustizia. Pensiamo a don Andrea Gallo, una grande figura che senz’altro riprenderemo a proposito della Costituzione, o a don Primo Mazzolari che, vissuto in periodo democristiano, nel Giovedì Santo del 1958 tenne una predica su “nostro fratello Giuda” che fece grande scandalo nella sua parrocchia di Bozzolo”. G.Z.: “La conosco bene. Avevo quel discorso su un 78 giri in vinile”.. V.C.: “Anch’io ho ascoltato quel 78 giri, e sono cresciuto con l’idea di nostro fratello Giuda, il reietto per antonomasia. Oggi, chi è più reietto di chi si consuma nelle nostre carceri? Dovremo parlare del dramma che si vive oggi nel carcere inteso come contenitore di scorie; e dovremo parlare di potere”. G.Z.: “Certamente dobbiamo parlare del carcere, e di povertà, di malattia, di abbandono, mettendoci in ascolto delle voci dei respinti ai margini; chiedendoci se la Carta fondativa della nostra democrazia costituzionale - così come il Vangelo è fondativo per i credenti - sia davvero messa in atto; se sia fatta vivere nel suo dettato e nel suo spirito più vero e profondo, ovvero se esista una “Costituzione dei poveri”; o se invece da quella nostra casa comune proprio i poveri siano sostanzialmente respinti. Ogni politica dovrebbe cominciare da qui, e quando non accade, si dà il fallimento delle politiche che chiamiamo sociali, democratiche, progressiste, e il ritorno delle pulsioni più egoistiche, feroci, e al fondo potenzialmente criminali”. Il successore di Papa Francesco. Perché questa elezione parla a tutta l’umanità di Anna Foa La Stampa, 4 maggio 2025 Si aprirà a breve il conclave che darà un successore a papa Francesco. Quasi tutti i cardinali sono già a Roma dove sono impegnati nelle discussioni preliminari al vero e proprio conclave. Per Roma, città dove fino al 1870 il governo della Chiesa si sovrapponeva a quello civile, il conclave, come tutto quello che tocca la Chiesa e il Papa, è un argomento coinvolgente. Ecco quindi i pettegolezzi che circondano i suoi preparativi, il fatto che per potervi partecipare un cardinale abbia addirittura falsificato la sua data di nascita, posticipandola, o che un altro cardinale, degradato da Francesco per pedofilia, si sia presentato in veste cardinalizia, come se la morte del papa avesse annullato subito anche le sue decisioni. Infuriano i pettegolezzi, le fake news, l’ultima delle quali sosteneva che il cardinal Parolin avesse avuto un malore. Imperversa anche il totoconclave, il gioco a indovinare chi sarà designato dalla fumata bianca che segnalerà la nomina del nuovo papa. Per ora siamo nel periodo di sede vacante, termine con cui oggi si designa solo la vacanza della sede apostolica ma con cui nel passato si intendeva anche una sorta di vuoto nel governo stesso della città: non pochi periodi di sede vacante sono stati in passato segnati da violenze e sollevazioni popolari. Nel Medioevo, successe anche che i cardinali riuniti in conclave ci misero talmente tanto a decidere che furono messi a pane e acqua e fu scoperchiato il tetto della sala dove si riunivano perché prendessero infine una decisione, spinti dal freddo e dalla fame. In realtà, a parte questo gossip vaticano, è vero che le decisioni che il conclave prenderà nei prossimi giorni sono davvero molto importanti. Ci sarà o non ci sarà una continuità con il governo di papa Francesco, le riforme da lui intraprese avranno seguito nel nuovo pontificato o si bloccheranno, se non saranno addirittura cancellate? Questa scelta avrà implicazioni non solo sulla politica della Chiesa cattolica, ma sul mondo e soprattutto sui conflitti che lo tormentano in questi giorni. A rappresentare la continuità, seppure una continuità prudente, è senz’altro il segretario di Stato, cardinal Parolin, molto quotato fra i papabili. Un altro candidato dell’ala progressista molto quotato è il francescano Pizzaballa, dal 2020 Patriarca latino di Gerusalemme. Le sue posizioni sulla guerra condotta da Israele contro Gaza sono molto vicine a quelle che hanno reso difficili i rapporti di papa Francesco col governo israeliano. Al tempo stesso il cardinale ha una profonda conoscenza della situazione in Medio Oriente, ha studiato all’Università ebraica di Gerusalemme, è stato uno dei maggiori sostenitori del dialogo ebraico cristiano. Il governo di Netanyahu non lo vuole perché, ove eletto papa, potrebbe rappresentare un punto di riferimento, difficile da accusare di antisemitismo, per le opposizioni ebraiche in Israele e nella diaspora, oltre che per i palestinesi. Consideriamo un altro dei “progressisti” più papabili, Matteo Zuppi. Il cardinal Zuppi ha un passato di abile negoziatore per la Comunità di Sant’Egidio in Mozambico. Ancora, si è personalmente adoperato per restituire ai loro famigliari i bambini ucraini rapiti dai russi. In questo momento, le sue scelte e le sue capacità possono essere preziose a livello internazionale. Dalla parte dei conservatori, l’insistenza non sembra invece essere sui temi di politica internazionale. Il cardinal M?ller, uno dei più quotati fra i conservatori, ha parlato soprattutto, ad esempio, di gender e di omosessuali e ha attaccato i diritti delle donne nella Chiesa, prospettandoci un mondo riportato indietro di oltre cinquant’anni. Il suo riferimento alla politica internazionale è stato in funzione antiislamica. Davvero in questo momento, in cui guerre e massacri devastano tante parti del mondo, la Chiesa vorrebbe occuparsi prevalentemente di sessualità e procreazione, e considera essenziale rimettere le donne in un ruolo subordinato nella Chiesa, con i problemi finanziari e con la questione della pedofilia che la mettono in crisi? Quale significato avrebbe questa scelta? Nonostante questo gruppo conservatore ami richiamarsi all’esperienza del pontificato di Benedetto XVI, sembra che siano in realtà molto lontani dal suo magistero. Il conclave che si apre riguarda tutti noi, cattolici o di altre religioni, credenti o non credenti. Perché il suo risultato inciderà sul nostro futuro, grazie al credito di una Chiesa universale che per quanto in crisi ha ancora molto da dire a tutti. Perché il pontefice che uscirà da questo conclave potrà dare un contributo fondamentale a fermare violenze e guerre, o potrà invece ostacolarne l’arresto. Potrà incidere sulla libertà delle minoranze, qualunque esse siano, anche di quelle di genere, aiutando a conculcarla o invece a svilupparla. Per questo, ad aspettare la fumata bianca che annuncia un nuovo papa ci sono anche i non cattolici e i non credenti, con speranze e timori. Votare ai referendum è una scelta di civiltà. E l’astensionismo la mette a rischio di Mauro Biani L’Espresso, 4 maggio 2025 L’8 e il 9 giugno gli italiani sono chiamati al voto per esprimersi su cinque referendum abrogativi, in materia di lavoro e cittadinanza. Prima ancora di pensare a quale potrebbe essere l’esito di questa tornata referendaria, è necessario che le consultazioni popolari siano valide, superando il quorum. La tendenza degli ultimi anni fa temere che sarà questo lo scoglio: convincere più della metà degli aventi diritto a esprimere il proprio voto. Alle elezioni europee dello scorso anno, l’affluenza è stata del 48,31%, quasi due punti percentuali al di sotto della soglia del 50%. Ma se la crisi delle urne per le elezioni è figlia della sfiducia dei cittadini verso politica e istituzioni, il voto referendario parla della (s)fiducia che la società ha in se stessa. Qui non si tratta dell’approvare l’operato di una o dell’altra parte politica. È, piuttosto, una scelta di civiltà: il referendum resta uno strumento unico di democrazia diretta, per non lasciare ad altri la possibilità di decidere sulle norme contrattuali, sulla sicurezza dei luoghi di lavoro, sulla riduzione delle disuguaglianze. E di scegliere, votando, che tipo di società vogliamo essere. Bisogna ridare valore a questo diritto tanto agognato e per cui tanto si è combattuto. È necessario andare casa per casa a ricordare agli elettori di rispolverare la scheda elettorale. Anche bussare alle porte delle stanze pagate a caro prezzo dai fuori sede. Mai dire referendum. La nota dei prefetti è un caso politico di Daniela Preziosi Il Domani, 4 maggio 2025 Il comitato per il Sì al quesito sulla cittadinanza denuncia che per la Rai “i referendum sono fantasmi” e lancia la petizione “Rompiamo il silenzio”. L’informazione pubblica sul voto dell’8 e 9 giugno è quasi nulla, secondo Riccardo Magi di Più Europa, la “scusa” ufficiosa è che in tv è difficile trovare rappresentanti del No, ma l’effetto “è che il regolamento per l’informazione sui referendum è diventato un regolamento per l’astensione”. Perfetto per la destra di governo che, con rare eccezioni, ignora l’appuntamento e scommette sull’astensione per farlo fallire. E non è solo la Rai a latitare. In questi giorni molte prefetture stanno inviando alle pubbliche amministrazioni, e in particolare alle scuole, una circolare che ricorda che “ai sensi dell’art.9 della legge 22 febbraio 2000, n.28, dalla data di convocazione dei comizi referendari e fino alla chiusura delle operazioni di voto, “è fatto divieto a tutte le amministrazioni pubbliche di svolgere attività di comunicazione, ad eccezione di quelle svolte in forma impersonale ed indispensabili per l’assolvimento delle proprie funzioni”“. In pratica è un invito a non fare informazione, ancora per Magi, “con l’utilizzo non estensivo ma abusivo di una legge che invece nasce per chiedere alle amministrazioni, e ai governi anche locali, di non utilizzare il proprio ruolo per le campagne elettorali: ma non vieta affatto di organizzare momenti di informazione corretta sui referendum”. Più Europa annuncia un’interrogazione parlamentare. “Stanno facendo di tutto per rendere invisibile questo referendum”, dice anche Giuseppe Conte da un video social diffuso il Primo Maggio. “Il M5s ha scelto di schierarsi perché si tratta di quesiti che migliorano la vita dei lavoratori, indipendentemente dalle idee che siano conservatrici o progressiste, di destra, di sinistra, di centro”. Con il messaggio, Conte entra finalmente nella campagna referendaria, dalla quale fin qui si era tenuto abbastanza alla larga, mentre Elly Schlein cerca di mobilitare la base del Pd a fianco della Cgil, come si è visto anche dalla partecipazione alla piazza di giovedì a Roma a fianco di Landini. Conte dunque è della partita? Sì, ma non del tutto: annuncia che il movimento dirà solo “quattro volte sì”: dunque sì ai quesiti contro i licenziamenti illegittimi e per la sicurezza sui luoghi di lavoro. Non una parola su quello sulla cittadinanza, sul quale ha lasciato libertà di coscienza ai suoi. Concertone muto, Renzi no Giovedì al concertone di piazza San Giovanni, a Roma, non si è sentita pronunciare una parola sul tema. La ragione sta nel fatto che i quesiti sono promossi solo dalla Cgil, la Cisl li vede come il fumo negli occhi, e la Uil dà indicazione di votare sì all’abolizione del Jobs Act e per la sicurezza sul lavoro, libertà per gli altri tre. Risultato: gli artisti sono stati “invitati” a non parlare del tema. Unico fuori programma, durante l’esibizione di Ghali: un gruppo di attivisti nel pubblico ha aperto uno striscione per il sì. Ma le telecamere della diretta Rai hanno rapidamente cambiato l’inquadratura. Eppure il quorum potrebbe non essere una missione del tutto disperata. Un noto istituto di sondaggi ha rilevato la “propensione al voto” sui referendum. Il risultato è sorprendente: fra il 38 e il 40 per cento degli italiani sarebbe propenso a votare. Ma il committente non ha deciso di rendere pubbliche questi numeri, forse per ora. La pensa al contrario Matteo Renzi che ieri a Tagadà (La7) ha spiegato di avere l’impressione “che il quorum non si farà neanche col binocolo”. Ma Iv non fa campagna per l’astensione: vota no al quesito sul Jobs act e sì alla cittadinanza. Dalla strage di Monreale al neomelodico in diretta dal carcere, quali modelli per i nostri ragazzi? di Manlio Viola blogsicilia.it, 4 maggio 2025 “Non ci fidiamo dello Stato, non sappiamo se avremo mai giustizia”. Sono parole forti quelle pronunciate da alcuni parenti delle vittime della strage di Monreale. Parole che potrebbero sembrare figlie del dolore, di una emozione forte e devastante ma che in realtà rischiano di essere molto di più dello sfogo di un momento drammatico. La denuncia che ha avuto particolare eco a margine dei funerali di Salvatore, Massimo e Andrea, le cui giovani vite sono state spezzate da quella sparatoria, deve, però, farci riflettere oltre il singolo fatto, ancorché drammatico e inaccettabile. Il neomelodico in diretta dal carcere - In queste ore assistiamo ad un altro fatto, non di sangue, ma comunque grave e indicativo. Durante un concerto davanti a 20 mila persone a Catania, al One Day alla Plaia un rapper, che come nome d’arte ha scelto “baby gang” videochiama un neomelodico molto noto: Niko Pandetta. Ma Pandetta, acclamato dalla folla, si trova in carcere. Nato come cantante neomelodico Pandetta è poi divenuto un trapper ma agli onori delle cronache era arrivato dedicando un brano a suo zio, il boss Turi Cappello. Non è chiaro se la telefonata fosse veramente in diretta o se sia stata registrata prima, fatto sta che i due cantano insieme una canzone. Qual è il messaggio lanciato ai giovani durante quel concerto del primo maggio? Il criminale come eroe potente e rispettato - A noi “boomer” appare abbastanza chiaro quanto inaccettabile: il messaggio è sempre lo stesso ovvero quello del criminale come eroe potente e rispettato. Una cosa che nessuna delle precedenti generazioni si sarebbe mai sognata. Eppure adesso è così e con questo dobbiamo fare i conti. I modelli di questi ragazzi sono fiction come Gomorra e Mare Fuori, solo per citare quelle che anche a Monreale sono state additate con striscioni indignati. Fiction che mitizzano il criminale. Che il “boss” possa avere un fascino “dark” è cosa risaputa. Ma fino ad un decennio fa (o forse ventennio) questo fascino si limitava ad “acchiappare” fasce di disagio, giovani con poche prospettive. Era lì che bisogna intervenire per dare opportunità a quei giovani e sottrarli al “fascino criminale”. Adesso le cose non stanno più così. Il “fascino criminale” avvolge anche ragazzi che di scelte ne avrebbero tante. Raccoglie proseliti fra le ragazze che voglio essere “cattive”. Non c’è più differenza di provenienza, opportunità, istruzione. Imporre il proprio dominio è diventato una scelta. Forse non sempre consapevole ma una scelta. Armi a portata di mano - In questo mondo in cui la sopraffazione diventa stile di vita nel quotidiano, è diventato facile anche girare armati. Per questi ragazzi avere un’arma non è cosa complessa. Su Instagram ci sono anche gruppi nei quali è possibile procurarsi armi con estrema facilità. Aprono e chiudono di continuo gruppi Telegram. insomma i social hanno interconnesso anche questo genere di mercato nero rendendolo accessibile a chiunque. La sfiducia di padri e madri e la paura di una società senza speranza - In questo clima bisogna leggere la sfiducia e la paura che affondano le loro radici in modo più profondo nella società: monrealese oggi perché la strage di sabato scorso è accaduta a Monreale, ma di qualsiasi altro luogo, quartiere città. La tragedia di Monreale poteva essere prevista, forse evitata, sostengono amici e parenti delle vittime. ed emerge anche che, secondo il si dice, quello di sabato scorso non era, il primo scontro fra i palermitani e i monrealesi. In altre occasioni gruppi di giovani si erano pesantemente insultati, qualche volta erano anche venuti alle mani. Niente di così grave ma gli episodi ripetuti potevano e dovevano essere un segnale di allarme. Ma nessuno lo ha denunciato, nessuno lo ha raccontato. Nessuno lo sapeva? La paura - Adesso regna la paura. Una paura che si è avvertita in occasione della fiaccolata di martedì scorso quando in tanti non sono scesi in piazza perché si era sparsa la voce che i palermitani erano tornati. I genitori, così hanno tenuto i ragazzi a casa e ora il grido è comune: dov’erano le forze dell’ordine quella sera, dove erano nelle settimane precedenti quando l’escalation era cominciata. Ma qualcuno aveva allertato le forze dell’ordine? Questa la domanda che ci poniamo noi da osservatori. E poi genericamente le forze dell’ordine hanno le risorse per essere sempre presenti ovunque? Bisogna cambiare rotta - Quello che serve è certamente un cambiamento di rotta. Non illudiamoci, nessuno di noi ha la soluzione. Ma una cosa appare evidente non basta l’approccio sociale e non basta, l’approccio repressivo. serve una nuova vera alleanza fra istituzioni, società e famiglia. Serve la scuola ma non basta, serve la famiglia che torni a svolgere il suo ruolo, servono i servizi pubblici per dare opportunità e vie da seguire, servono i media che rinuncino al facile approccio dell’audience (globale, insomma che sia televisiva, radiofonica, on line, social) e propongano modelli responsabilmente costruiti. Ma per farlo serve soprattutto tornare ad un sistema sociale che non sia disintermediato fino al punto da sdoganare anche la morte, l’omicidio, il sangue come fosse solo una fiction. Migranti. Forzare il diritto non è una soluzione di Vitalba Azzollini* Il Domani, 4 maggio 2025 Il decreto, in corso di conversione, che destina i centri albanesi anche a Cpr, presenta profili di illegittimità che probabilmente saranno rilevati pure dai giudici. E c’è il rischio di danno erariale, anche per i costi derivanti dal fatto che i migranti devono comunque tornare in Italia prima di essere rimandati al loro Paese. Mentre la gestione delle strutture in Albania avviene nell’opacità, sottraendo alla conoscenza pubblica quanto accade ai migranti, è in discussione alla Camera la legge di conversione del decreto (37/2025) che destina tali strutture anche a centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Esse erano previste solo per stranieri provenienti da paesi sicuri, salvati in acque internazionali da mezzi delle autorità italiane. Ma alcuni ricorsi alla Corte di giustizia dell’Unione europea hanno determinato uno stallo. E così, in attesa della pronuncia della Corte, il governo ha stabilito che nel centro di Gjader siano trasferite anche persone presenti in Cpr italiani, già colpite da provvedimenti definitivi di rimpatrio. La decisione presenta profili di dubbia legittimità, evidenziati da esperti nelle audizioni in parlamento. Il diritto di difesa - Come avviene la scelta delle persone da portare in Albania? Non è dato saperlo. Il decreto non precisa i criteri di selezione e, in base al Testo unico sull’immigrazione, lo spostamento di un migrante in un Cpr diverso da quello di originaria assegnazione non è necessariamente deciso con un provvedimento munito di motivazioni, né è richiesta una convalida dell’autorità giudiziaria. Tutto questo viola la riserva di legge assoluta e la riserva di giurisdizione previste dall’articolo 13 della Costituzione. Sussistono, inoltre, irragionevoli differenze di trattamento tra i migranti trattenuti nei Cpr in Albania rispetto a quelli che si trovano in Cpr italiani. I primi hanno contatti con i loro avvocati difensori solo da remoto, e questo può minare l’effettiva garanzia del diritto di difesa. Diritto messo a rischio anche dal fatto che lo straniero sia interrogato da un giudice non di persona, ma solo in videoconferenza. E non basta. La legge di ratifica del Protocollo con l’Albania attribuisce al “responsabile italiano del centro” il compito di adottare “le misure necessarie a garantire il tempestivo e pieno esercizio del diritto di difesa dello straniero”. In altre parole, la difesa è lasciata alla discrezionalità del funzionario amministrativo, in violazione dell’articolo 111 della Costituzione, secondo cui “il giusto processo” dev’essere regolato dalla legge, e dell’articolo 24 della Costituzione, che impone l’accessibilità a un “ricorso effettivo”. Peraltro, nei Cpr in Albania, rispetto a quelli situati in Italia, è anche difficile e oneroso ricevere la visita di familiari, amici e associazioni; fruire delle cure che qui sono garantite dal servizio sanitario; chiedere asilo o protezione internazionale. Le coperture finanziarie - Né il testo del decreto legge, né la relazione illustrativa della legge di conversione indicano i costi derivanti dall’uso dei centri albanesi anche come Cpr. Si afferma che la nuova destinazione avviene nei “limiti delle risorse previste”, ma ciò non dissipa i dubbi di violazione dell’articolo 81 della Costituzione, che impone obblighi di copertura finanziaria. I costi coperti sono solo quelli originari di trasferimento e detenzione di migranti assoggettati a procedure accelerate di frontiera, la cui durata è per legge pari a 28 giorni. Invece, il trattenimento nei Cpr può protrarsi fino a 18 mesi. E costi ulteriori derivano dal fatto che i migranti - in conformità alla vigente direttiva europea (2008/115/CE), nonché alla recente proposta di un nuovo regolamento Ue - devono comunque tornare in Italia prima di essere rimandati al loro paese, com’è avvenuto per i primi rimpatri di persone trattenute a Gjader. L’uso dei centri in Albania come Cpr è stato voluto dal governo non solo per dare un senso a quel “fun-zio-ne-ran-no” scandito da Giorgia Meloni ad Atreju, ma forse anche per depotenziare l’accusa di danno erariale contenuta in esposti presentati alla Corte dei conti. Il confronto con i costi dei Cpr italiani attesta comunque lo spreco di risorse pubbliche. La questione di incostituzionalità - Sarebbe bene si tenesse conto dei rilevati profili di possibile incostituzionalità, che probabilmente emergeranno pure in sede giudiziaria, come sta accadendo in altri casi. Da ultimo, il 2 maggio scorso, la corte d’Appello di Lecce ha sollevato la questione di legittimità del decreto Flussi, convertito in legge nel dicembre 2024. Il decreto, voluto dal governo a seguito delle mancate convalide dei trattenimenti in Albania da parte della sezione immigrazione del tribunale di Roma, aveva spostato la relativa competenza alla corte d’Appello. Tra i profili di dubbia costituzionalità c’è la mancanza dei motivi di necessità e urgenza (articolo 77) che giustificano l’adozione del decreto legge; la violazione del principio del giudice naturale (articolo 25), poiché una convalida assegnata a giudici di secondo grado rappresenta un’anomalia; l’eccessiva compressione del diritto di difesa (articolo 24) nel ricorso per Cassazione contro i provvedimenti delle corti d’Appello; l’irragionevolezza del cambio di competenza (articolo 3), in quanto le sezioni specializzate dei tribunali hanno un’esperienza in tema di immigrazione di cui le corti non dispongono. Le forzature sul piano del diritto non sono mai una soluzione. Peccato che il governo si ostini a non capirlo. *Giurista Migrante muore al Cpr di Brindisi, disposta l’autopsia di Eliana Riva Il Manifesto, 4 maggio 2025 Un 35enne nigeriano forse colto da infarto. Presentata un’interrogazione. Il deputato Pd Stefanazzi: “Sono stato lì in visita ma non mi hanno detto nulla”. Era al Cpr di Restinco (Brindisi) dallo scorso gennaio e, nella notte tra l’1 e il 2 maggio, è morto nel suo letto apparentemente per cause naturali. La storia di un 35enne nigeriano filtra così, senza ulteriori spiegazioni, da uno dei centri di detenzione amministrativa in cui vengono trattenuti cittadini stranieri in attesa di espulsione. Sul corpo dell’uomo verrà eseguita un’autospia e solo allora si saprà di più su quanto è accaduto. Le prime testimonianze parlano di un infarto fulminante arrivato nel cuore della notte: inutili i soccorsi arrivati sul posto, inutili i tentativi di rianimazione. Il giorno successivo alla sua morte, al Cpr di Restinco si era recato in visita il deputato del Pd Claudio Stefanazzo, al quale però non è stato riferito nulla della tragedia appena avvenuta. “Non sono stato informato - dice - magari perché qualcuno ha pensato non fosse così importante, oppure per evitare inutili fastidi. C’era il personale sanitario quando ha avuto il malore? Si poteva fare qualcosa per salvarlo? Vedremo se qualcuno risponderà all’interrogazione parlamentare che depositerò”. La questione del Cpr di Restinco, del resto, è ormai da diversi mesi salita all’onore delle cronache. “Mi è stato riferito - dice ancora Stefanazzo - che la percentuale di quelli che devono ricorrere a psicofarmaci è di oltre il 50 percento. Da quando il governo ha trasformato il centro in Albania in Cpr è iniziata una specie di lotteria. Dopo l’ordine da Roma vengono pescati dal mazzo ragazzi con storie diverse, con problemi differenti e spediti lì senza che sappiano che stanno andando in un’altra nazione. Costretti a contattare, dopo essere giunti lì, i loro avvocati, quelli che li seguivano in Italia, con tanti saluti ai diritti che le leggi riconoscono persino a questi disperati. C’è qualcosa di perverso in questo meccanismo, che interroga tutti noi, e che fa ricadere sulla politica, di cui sono parte, colpe enormi”. “Apprendiamo con indignazione della morte di un ragazzo detenuto nel centro di Restinco - dichiara il segretario di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo -. Il livello di impunità raggiunto in questi campi di internamento è tale che, anche durante l’ispezione di un parlamentare è stata taciuta la notizia del decesso. Non sappiamo ancora se anche l’uomo ucciso dal Cpr fosse o meno destinato all’esternalizzazione delle espulsioni in Albania. Di lui sappiamo ancora poco, del resto la sua come quella di chi è rinchiuso negli altri centri, è considerata vita di scarto”. Venivano da Restinco anche le due persone il cui trattenimento è stato bloccato venerdì dalla Corte d’appello di Lecce, che ha sollevato la questione di costituzionalità relativamente all’ultimo decreto flussi. La faccenda adesso verrà approfondita dai giudici della Consulta. Migrante morto. Stefanazzi: “Ero in visita, nessuno mi ha informato. Cosa c’è da nascondere?” di Isabella De Silvestro Il Domani, 4 maggio 2025 Il politico annuncia un’interrogazione parlamentare: “Credo che questo cortocircuito dell’informazione sia peculiare del Cpr di Brindisi e di quello di Bari, città dai cui porti partono i trasferimenti verso l’Albania. I ragazzi detenuti in questi Cpr vengono spostati senza alcun preavviso, e solo una volta arrivati scoprono dove sono. Da lì dovrebbero contattare i loro legali che si trovano in Puglia: è indegno Quando si omette una morte, le ipotesi sono due: o c’è qualcosa da nascondere, oppure si ritiene che quella vita non conti. È difficile stabilire quale delle due motivazioni abbia prevalso nel caso del Cpr di Brindisi Restinco, dove il 2 maggio il deputato del Partito Democratico Claudio Stefanazzi, in visita alla struttura, non è stato informato del decesso di un uomo nigeriano di 35 anni avvenuto la notte precedente. “Sono stato dentro un’ora e mezza, ho incontrato gli ospiti e anche gli operatori sanitari - racconta Stefanazzi - e nessuno si è degnato di dirmi che poche ore prima era morto un ragazzo. L’ho scoperto solo nel pomeriggio, quando la voce ha cominciato a circolare. È una cosa che mi ha amareggiato profondamente”. Per il parlamentare si tratta di un grave segnale di opacità: “C’è un embargo delle informazioni, pressioni sugli operatori perché non escano notizie che potrebbero causare problemi. È scandaloso che, a distanza di più di 24 ore, non ci sia ancora un comunicato ufficiale che chiarisca cosa è successo”. Secondo quanto appreso informalmente, l’uomo sarebbe morto per un infarto. Ma, aggiunge Stefanazzi, “non so se avesse patologie pregresse, se è stato soccorso, se c’era un defibrillatore. L’ambulanza sarebbe arrivata intorno alle sette del mattino, ma il ragazzo era già morto. Tutto questo mi è stato detto solo in modo informale”. Il quadro che emerge è preoccupante ed è probabile che risponda a una precisa intenzione politica: “Credo che questo cortocircuito dell’informazione sia peculiare del Cpr di Brindisi e di quello di Bari, città dai cui porti partono i trasferimenti verso l’Albania. I ragazzi detenuti in questi cpr vengono spostati senza alcun preavviso, e solo una volta arrivati scoprono dove sono. Da lì dovrebbero contattare i loro legali che si trovano in Puglia: è indegno. Sembra che l’obiettivo sia evitare che si alzi l’attenzione dell’opinione pubblica. Cosa c’è da nascondere?”. Durante la visita, Stefanazzi ha contato circa 16 persone detenute in un solo blocco, uno dei quattro presenti nella struttura. “Entrare in un blocco è come entrare in un carcere - dice -. Il cortile è chiuso da un tetto di plexiglas. Alle undici del mattino dormivano tutti: sedati dagli psicofarmaci”. Psicofarmaci che vengono assunti dal 50 per cento delle persone detenute. “Mi ferisce pensare che la mia visita si sia svolta in un clima apparentemente sereno, senza che mi venissero riferite emergenze. Eppure avevano gestito, poche ore prima, la morte di un ragazzo. Questo fa paura. Se riescono ad accogliere un deputato senza accennare a una morte, è difficile fidarsi di quello che accade in questi centri”. Ma non è tutto. Stefanazzi sottolinea anche un aspetto poco noto della gestione dei cpr: “Le persone in ingresso al centro arrivano con una valutazione medica sul loro stato psichico, che dovrebbe accertare la loro idoneità a vivere in una comunità ristretta. Eppure, la dirigente chiede spesso di ripetere questa perizia psicologica, perché è evidente che molti dei ragazzi che arrivano si trovano in condizioni psichiche molto gravi, incompatibili con la detenzione”. La diagnosi che stabilisce l’idoneità diventa quindi un atto puramente burocratico, e nulla ha a che vedere con la cura che una figura medica dovrebbe garantire ed esigere. Gli attivisti di Nocpr Puglia denunciano casi di autolesionismo, tentativi di suicidio e, appunto, abuso di psicofarmaci. Ma per un occhio esterno è difficile capire cosa accade davvero nei centri per il rimpatrio: “Ho dovuto insistere molto per entrare con un mediatore culturale di mia fiducia, e non affidarmi a quelli interni. Nonostante questo, è evidente che le persone lì dentro - detenuti e operatori - vivono in uno stato di soggezione e di forte pressione psicologica, per cui è difficile avere farsi un’idea reale”. A commentare la vicenda interviene anche Luigi Manconi, sociologo e presidente dell’associazione A Buon Diritto: “Emergono due questioni fondamentali. La prima riguarda le condizioni di vita e di salute nei Cpr: il dato secondo cui il 50 per cento delle persone lì recluse fa uso di psicofarmaci è allarmante, oltre che potenzialmente illegale. Le prescrizioni dovrebbero essere valutate caso per caso, e non possono diventare uno strumento di disciplinamento o di controllo”. La seconda, continua Manconi, è la questione della vigilanza: “Il fatto che a un deputato sia stata nascosta la notizia di una morte è gravissimo, ma purtroppo si inserisce in una linea politica costante, che tende a ostacolare l’accesso anche a figure che la legge autorizza a visitare i centri, come parlamentari nazionali e regionali. Questo è un problema democratico di fondo”. Alla luce di quanto avvenuto, Stefanazzi ha annunciato che presenterà un’interrogazione parlamentare lunedì 5 maggio per chiedere conto di questa morte. Ma una morte taciuta in un luogo di detenzione amministrativa interroga non solo la politica, ma l’idea stessa di giustizia in una democrazia. Migranti. La nave “Conscience” alla deriva dopo l’attacco. Malta nega l’approdo di Eliana Riva Il Manifesto, 4 maggio 2025 Nonostante la nave abbia subito un gravissimo attacco armato in acque internazionali, la Guardia costiera le ha vietato l’entrata in un porto sicuro. Rimane in acqua al largo di Malta la Conscience, la nave della Freedom Flotilla bombardata nella notte tra giovedì e venerdì da due droni che hanno gravemente danneggiato i motori e il sistema elettrico. La falla causata dal raid è sotto controllo anche se la nave potrebbe riprendere a imbarcare acqua. Gli attivisti a bordo sono riusciti a far ripartire uno dei due generatori e hanno chiesto alle autorità di Malta un ingresso di emergenza. Ma, nonostante la nave abbia subito un gravissimo attacco armato in acque internazionali, la Guardia costiera le ha vietato l’entrata in un porto sicuro. La sagoma alla deriva rappresenterà per sempre la vergogna internazionale di una barca umanitaria bombardata e abbandonata a se stessa a dodici miglia dalle coste europee. I volontari a bordo (diciotto e non trenta come gli organizzatori avevano comunicato ieri per proteggere l’integrità del gruppo), hanno potuto solo salutare da lontano gli altri attivisti, tra cui Greta Thunberg, che avrebbero dovuto imbarcarsi ieri per portare aiuti umanitari a Gaza. Le motovedette circondano lo scafo e tengono lontane le barche della flotta inviate in soccorso. L’organizzazione denuncia un accanimento da parte dei militari, che da ieri controllano e ricontrollano i documenti dei volontari, intimando a qualcuno di loro di recarsi presso la stazione di polizia per approfondimenti. Israele, che è stato accusato dell’attacco, non ha ancora commentato l’accaduto, né spiegato per quale motivo un suo aereo da guerra abbia sorvolato per ore la costa di Malta e l’area in cui si trovava la Conscience.