Meloni e il carcere: “Niente indulti. Ma quella frase di Papa Francesco…” di Errico Novi Il Dubbio, 3 maggio 2025 In un’intervista al direttore dell’AdnKronos Davide Desario, la premier non cambia linea sul sovraffollamento e insiste con l’edilizia, cioè l’ampliamento dei posti. Ma almeno cita le parole di Bergoglio: “Perché loro e non io?”. Sembra poco. Ma un piccolo segno c’è. E riguarda il linguaggio. Giorgia Meloni risponde sul carcere. Lo fa nell’ambito di un’intervista al direttore dell’AdnKronos Davide Desario. Conclude con la consueta affermazione di intransigenza: “Non ho mai creduto che la strada per ridurre il sovraffollamento siano indulti e svuota-carceri”. E giù con l’altrettanto ricorrente teoria della “capienza” da adeguare alle “necessità”, cioè al numero dei detenuti. Meloni continua cioè ad affidarsi in via di fatto esclusiva a quella che definisce “edilizia carceraria”. Ma non si può sottovalutare il fatto che la presidente del Consiglio senta il bisogno di introdurre la questione con ben altro tono, ispirato al Pontefice appena scomparso: “Mi hanno molto colpito le parole di Papa Francesco quando all’uscita della sua ultima visita a un carcere ha detto che, ogni volta che vede dei carcerati, pensa “perché loro e non io”. Non dobbiamo mai perdere la nostra umanità nei confronti di chi ha sbagliato e sta scontando una pena”. Quella frase citata da Meloni era stata ricordata una settimana fa dalla ex guardasigilli Marta Cartabia in un’intervista al Dubbio. Deve aver colpito la premier. Che la ripete. Certo solo in premessa. Ma in quella premessa trova anche modo di puntualizzare: “Certamente le condizioni carcerarie ci preoccupano, abbiamo ereditato una situazione pesante sia per i detenuti che per gli agenti di polizia penitenziaria a cui stiamo cercando di porre rimedio con interventi straordinari e”, appunto, “un nuovo piano di edilizia carceraria”. La conclusione è, certo, assai meno incoraggiante dell’abbrivio. Come detto, la premier avverte almeno il bisogno di rispondere agli appelli che si moltiplicano, sullo slancio della testimonianza lasciata da Papa Francesco. A guardare il rovescio della medaglia, però, le frasi rilasciate dal Capo del governo all’AdnKronos sono anche una chiusura abbastanza netta all’ipotesi più accreditata nelle dichiarazioni degli ultimi giorni, il, cosiddetto “indultino dell’ultimo anno”. Si tratta della liberazione dei reclusi che abbiano da scontare non più di 12 mesi, sulla quale ha lavorato Nessuno tocchi Caino. L’ipotesi ha avuto un’ampia eco negli ultimi giorni dopo che Pier Ferdinando Casini, in un’intervista al Corriere della Sera di martedì scorso, non aveva esitato a invocare anche provvedimenti straordinari come un’amnistia o un indulto, perché “la situazione delle carceri italiane non è più sostenibile”. È stato sempre il Dubbio a raccogliere il consenso di alcune autorevoli voci della maggioranza all’ipotesi di un indulto limitato all’ultimo anno di pena, secondo l’ipotesi di Nessuno tocchi Caino: prima il vicepresidente forzista della Camera Giorgio Mulè, quindi il leader di Noi Moderati Maurizio Lupi, e ancora altre prime linee azzurre sul fronte giustizia come Tommaso Calderone e Pierantonio Zanettin. È chiaro che Meloni, con la linea centrata sull’ampliamento (tutto teorico, di fatti realizzabile solo nel giro di molt anni) dei posti negli istituti di pena, chiude la porta a questi appelli, e dunque anche a una parte della propria maggioranza: “Non ho mai creduto che la strada per ridurre il sovraffollamento siano indulti e svuotacarceri”, è la già citata replica che la premier consegna al direttore dell’AdnKronos. “Uno Stato giusto adegua la capienza alle necessità, non i reati al numero di posti disponibili”, dice Meloni. Secondo la quale “servono misure strutturali per ampliare gli spazi a disposizione, e per migliorare le condizioni carcerarie, ed è quello che stiamo facendo”. La leader del governo è convinta di “arrivare alla fine della legislatura con una capienza nelle carceri aumentata di almeno settemila unità, ma fermo restando che occorre trovare le risorse il mio intendimento sarebbe di arrivare a 10mila, cioè ai posti medi mancanti secondo le statistiche degli ultimi anni”. La linea non cambia, dunque. Ma adesso il lascito di Francesco, raccolto da figure di rilievo come Cartabia, Casini e Mulè, costringe la presidente del Consiglio a inserire la questione del sovraffollamento carcerario fra le headlines del proprio discorso pubblico. Sberleffo a Bergoglio: Travaglio e Meloni bocciano l’indultino di Angela Stella L’Unità, 3 maggio 2025 “Non ho mai creduto che la strada per ridurre il sovraffollamento siano indulti e svuota-carceri”: così ieri in una intervista all’Adnkronos la premier Giorgia Meloni ribadisce la sua netta contrarietà a qualsiasi forma di atto clemenziale nei confronti dei detenuti. Lo fa nei giorni in cui anche all’interno della sua maggioranza si sta allargando il fronte a favore di una proposta di legge trasversale, a cui sta lavorando Nessuno Tocchi Caino, per un anno di riduzione di pena per tutti i detenuti, in memoria di Papa Francesco. Diverse le sottoscrizioni raccolte anche ieri: Maria Chiara Gadda (Iv); Paolo Emilio Russo (Fi); Riccardo Magi e Benedetto Della Vedova (+Europa); Gian Antonio Girelli (Pd); Mauro Berruto (Pd); Valentina Grippo (Azione); Maria Stefania Marino (Pd); Domenico Furgiuele (Lega). In precedenza, avevano firmato il capofila Roberto Giachetti (Iv), Fabrizio Benzoni (Azione), Maria Elena Boschi (Iv), Paolo Ciani (Pd), Maurizio Lupi (Noi Moderati), Giorgio Mulè (Fi), Emanuele Pozzolo (espulso da Fd’I), Debora Serracchiani (Pd) e Luana Zanella (Avs). Tra le opposizioni, manca il Movimento Cinque Stelle, da sempre contrario a provvedimenti di amnistia e indulto, come pure il giornale Il Fatto Quotidiano che in merito alla proposta scrive di “impunità”. Tornando all’intervista, il direttore dell’Adnkronos Davide Desario ha domandato alla Meloni di commentare l’appello di Pier Ferdinando Casini che, nel solco dell’insegnamento di papa Francesco, le ha chiesto di occuparsi subito delle condizioni pesanti dei detenuti. La presidente del Consiglio ha risposto: “Mi hanno molto colpito le parole di papa Francesco quando all’uscita della sua ultima visita a un carcere ha detto che, ogni volta che vede dei carcerati, pensa ‘perché loro e non io’. Non dobbiamo mai perdere la nostra umanità nei confronti di chi ha sbagliato e sta scontando una pena. Certamente le condizioni carcerarie ci preoccupano, abbiamo ereditato una situazione pesante sia per i detenuti che per gli agenti di polizia penitenziaria a cui stiamo cercando di porre rimedio con interventi straordinari e un nuovo piano di edilizia carceraria”. Tuttavia “non ho mai creduto che la strada per ridurre il sovraffollamento siano indulti e svuota-carceri. Uno Stato giusto adegua la capienza alle necessità, non i reati al numero di posti disponibili. Servono misure strutturali per ampliare gli spazi a disposizione, e per migliorare le condizioni carcerarie, ed è quello che stiamo facendo. Il piano del Governo è di arrivare alla fine della legislatura con una capienza nelle carceri aumentata di almeno settemila unità, ma fermo restando che occorre trovare le risorse il mio intendimento sarebbe di arrivare a 10 mila, cioè ai posti medi mancanti secondo le statistiche degli ultimi anni”. Intanto però, secondo le statistiche del Ministero della Giustizia, in carcere sono ospitati 62.281 detenuti, mentre la capienza regolamentare è pari a 51.283 posti. Ciò significa che il tasso di sovraffollamento è di circa il 122 per cento. Inoltre è di ieri la tragica di notizia di altri due suicidi in carcere, a Gorizia e a Terni, “ormai 31 in questo 2025” conta drammaticamente la presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, giunta oggi al nono giorno di sciopero della fame contro il dl sicurezza e l’emergenza carceraria. La premier, critica la radicale dalla sua pagina Facebook, “non tiene minimamente in conto che fino a che non avrà realizzato i suoi progetti (e si parla di anni) decine di migliaia di detenuti, e di conseguenza agenti e tutto il personale, vivranno in condizioni disumane e degradanti. Ciò è semplicemente illegale, non da Stato giusto, come dichiara, ma da Stato che non rispetta i diritti umani fondamentali, che viola la sua stessa legalità, che si comporta da delinquente professionale senza subirne le conseguenze”. Anche per il Segretario e deputato di +Europa, Riccardo Magi, “la risposta di Giorgia Meloni al problema carcerario e al sovraffollamento è un bel ‘me ne frego!’. Anzi, peggio: vorrebbe aumentare i posti per sbattere più gente in galera. D’altronde i reati non mancano con questo governo, che si inventa ogni giorno un modo in più per perseguitare le persone che mettono mano al codice penale. Misure riempi-carcere come il decreto sicurezza, che rispondono alla logica repressiva del ‘tutti dentro’”. “Prima di parlare di nuove carceri, Meloni dica come e con quali risorse intenderebbe garantire la presenza di medici, mediatori, psicologi, e di tutti i servizi necessari a partire dalla polizia penitenziaria. È uno scandalo. Per noi la risposta è chiara: amnistia, indulto, carceri a numero chiuso e case di reinserimento sociale per chi deve scontare meno di un anno, perché altrimenti il primo ad essere illegale per le condizioni di detenzione nelle proprie carceri è lo Stato”, ha concluso Magi. “No al liberi tutti, ma uno sconto per i reati meno gravi si può fare” di Riccardo Tripepi Il Dubbio, 3 maggio 2025 Paolo Barelli, capogruppo di Forza Italia alla Camera, ha partecipato al congresso del Ppe a Valencia e ha raccontato al Dubbio la discussione sulla futura linea in un momento così delicato per il futuro dell’Ue, affrontando anche il dibattito italiano in tema di indulto e sovraffollamento delle carceri. Pierferdinando Casini, qualche giorno fa, ha rilanciato la proposta di un provvedimento di clemenza per i detenuti, stante la drammatica situazione di sovraffollamento nei nostri istituti penitenziari. I suoi colleghi di partito Zanettin e Calderone si sono detti d’accordo con la proposta di un “mini-indulto” di un anno che permetterebbe di far uscire dalle carceri chi ha ancora 12 mesi di condanna da scontare. Qual è il suo punto di vista? Il Parlamento è già intervenuto con l’approvazione di un disegno di legge proposto dal governo sulle carceri che rappresenta una prima risposta concreta alla crisi delle carceri italiane perché mira a semplificare e snellire le procedure burocratiche per consentire di uscire dal carcere in anticipo a chi ne ha diritto. Il testo approvato promuove inoltre l’umanizzazione degli istituti penitenziari, introduce misure alternative alla detenzione, prevede l’istituzione di un albo di comunità adibite alla detenzione domiciliare, che potranno accogliere alcune tipologie di detenuti - come quelli con residuo di pena basso, i tossicodipendenti e quelli condannati per determinati reati - dove potranno scontare il fine pena. Con la istituzione del commissario alla edilizia carceraria siamo certi che si potranno limitare gli effetti del sovraffollamento, consentendo di intervenire celermente per ristrutturare e adeguare le strutture esistenti e costruirne delle nuove. Per Calderone, in particolare, il sovraffollamento carcerario si risolve evitando di mandare dietro le sbarre i cittadini innocenti e la vera priorità per Fi è modificare la custodia cautelare. Che ne pensa? Riteniamo che si debba limitare l’uso spesso disinvolto della carcerazione preventiva: la custodia cautelare in carcere deve essere un’eccezione, come ricordato anche dalla Corte Costituzionale e dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Il nostro approccio è quello di sempre, garantista. Essere garantisti non significa però un “liberi tutti”. È essenziale in uno stato di diritto garantire la certezza della pena, che dev’essere espiata in condizioni dignitose e rispettose della persona. Su questo fronte è impegnata Forza Italia. Altri provvedimenti come l’indulto per il momento non sono all’ordine del giorno, anche se ritengo che per le residue pene finali, contenute entro i dodici mesi, per i detenuti che hanno commesso lievi reati e si sono comportati bene durante l’espiazione della pena e hanno mostrato concreti segni di ravvedimento, è possibile individuare forme alternative alla detenzione in carcere. Ha preso parte al congresso del Ppe. Quale sarà la linea per riuscire a fare uscire l’Ue da una condizione di ormai endemica debolezza? Tengo a dire che dal congresso sono uscite molte indicazioni importanti, e perfettamente in linea con le proposte che Forza Italia ha portato a Valencia. Per esempio il congresso ha fatto proprio il nostro documento sulla politica industriale europea, che contiene le ricette per combattere la crisi dell’industria e rilanciare le filiere produttive storiche del nostro paese e del nostro continente, a cominciare dal manifatturiero e in particolare dall’automotive, fino alle nuove frontiere dell’intelligenza artificiale. Tajani confermato vicepresidente è un riconoscimento al lavoro di Forza Italia e alle sue posizioni moderate, proprio quelle che spesso non piacciono agli alleati di governo… Il nostro leader ha ottenuto un risultato molto importante, è stato votato con un consenso amplissimo che dimostra la convergenza sul suo nome di tutte le maggiori delegazioni europee. Questo premia il suo impegno europeista di decenni, come parlamentare europeo, capogruppo, Commissario Europeo, Vicepresidente della Commissione e Presidente del Parlamento europeo. Anche a Valencia si è discusso di sicurezza. Tajani ha espresso pieno sostegno alla linea von der Leyen, proprio mentre Salvini diceva che il piano di riarmo è una follia. Come si fa sintesi tra posizioni così diverse? Non è un mistero che i partiti della maggioranza - ed anche quelli dell’opposizione - in Europa appartengono a famiglie politiche diverse ed abbiano sensibilità diverse. Questo esiste da trent’anni e non ha mai impedito al centrodestra di fare sintesi e di governare in modo coerente e senza sbandamenti. La linea del governo è chiara, ed è per la responsabilizzazione dell’Europa e il rafforzamento della difesa europea, nella prospettiva di forze armate comuni. Tajani ha presentato una risoluzione sulla competitività che è stata molto apprezzata. E ha sostenuto la necessità di rivedere il Green Deal. Lei che ne pensa? Non si tratta di mandare in soffitta la scelta ambientalista, che è un’esigenza che tutti condividiamo. L’ambiente, come Tajani ha spiegato molto bene, si tutela con più scienza, più tecnologia, più ricerca. Con una politica sull’energia realistica e concreta, che garantisca energia certa e a prezzi ragionevoli, utilizzando tutti gli strumenti possibili, e non solo alcuni, per ridurre le emissioni, senza fermare l’economia e la produzione. Quindi per esempio il nucleare, quello più sicuro di nuova generazione, è molto importante”. Sulle riforme istituzionali in Europa, invece, c’è bisogno di trovare alleati e idee comuni. Come si potrà arrivare alle riforme che sembrano indispensabili per dare nuova forza all’Unione? Sarà un percorso lungo, me ne rendo conto, ma indispensabile se l’Europa vuole essere un protagonista del futuro. Occorre riformare le istituzioni europee in modo da renderle più vicine ai cittadini, che oggi sentono spesso l’Europa come una burocrazia distante e inutilmente ostativa. Per questo chiediamo l’elezione diretta, e non la semplice indicazione, del Presidente della Commissione, in modo che siano gli europei a scegliere. Chiediamo che il Parlamento Europeo abbia un vero potere di iniziativa legislativa. Chiediamo di superare il principio dell’unanimità nelle decisioni europee, che oggettivamente limita molto le possibilità di una politica estera e di difesa comune”. Carceri, tra criticità e situazioni di vera e propria illegalità. Intervista a Rita Bernardini di Giuseppe Ariola L’Identità, 3 maggio 2025 Rita Bernardini, lei è presidente di Nessuno tocchi Caino. Già solo il nome dell’associazione esprime un concetto fondamentale e troppo spesso ignorato rispetto all’universo delle carceri … Quanto incidono le attività di rieducazione dei detenuti sul loro effettivo reinserimento sociale? “Molto poco perché con il sovraffollamento che c’è, con gli organici ridotti all’osso di agenti penitenziari, educatori, psicologi, mediatori culturali, assistenti sociali, magistrati di sorveglianza, medici e infermieri, la detenzione è un incubo. Pochissimi svolgono lavori qualificanti o accedono a percorsi scolastici di vera riabilitazione. I dati parlano chiaro: i reclusi che scontano l’intera pena in carcere al 60% tornano a delinquere”. Al netto dei drammatici episodi che purtroppo ci consegna la cronaca, quali sono le criticità maggiori che riscontrate durante le visite che effettuate presso i penitenziari? “Non parlerei di ‘criticità’ ma di vere e proprie ‘illegalità’. La prima è il sovraffollamento, che ha raggiunto il 132% a livello nazionale. Se tu Stato hai a disposizione 46.000 posti e ci metti oltre 62.000 detenuti, è evidente che tutto salta perché hai parametrato sia le piante organiche di tutte le professionalità sia le strutture con le sue infrastrutture (bagni, docce, impianti elettrici e idraulici) per quel numero di posti. Queste “illegalità” sono in parte certificate dai magistrati di sorveglianza che ogni anno riconoscono a cinquemila detenuti rimedi risarcitori per violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, cioè per trattamenti inumani e degradanti”. Sovraffollamento: se ne è parlato anche al convegno organizzato da Uniti nel fare di Renata Polverini al quale lei ha partecipato. La politica è divisa tra chi propone di risolvere il problema con l’edilizia carceraria e chi è invece favorevole a un ripensamento dell’istituto della detenzione, a partire da quella cautelare. Chi ha ragione? “Chi ha un’impostazione carcerocentrica vuole costruire nuove carceri non per combattere le conseguenze nefaste del sovraffollamento, ma per mettere più gente in carcere nonostante i risultati recidivanti di cui parlavo. Le fornisco delle cifre: lo Stato italiano ha stanziato per l’anno in corso 3 miliardi e 409 milioni per l’amministrazione penitenziaria (quindi, per le carceri), mentre per la giustizia minorile e di comunità (che si occupa dei minori e delle misure alternative al carcere) ha stanziato solo 427 milioni. Rispetto all’anno scorso la spesa per le carceri è aumentata di quasi il 2%, quella destinata alle misure alternative è diminuita del 4,5%. Ricordo che le persone che accedono alle misure alternative al carcere hanno una recidiva che si riduce drasticamente (dal 60 al 20%). Aggiungo che per costruire nuove carceri ci vogliono moltissimi anni e una spesa ingentissima, oltre al fatto che occorre ancora più personale già oggi ridotto al lumicino. Le ricordo che personalmente sono oggi (30 aprile) al 7° giorno di sciopero della fame per sostenere, con la nonviolenza, l’appello di Nessuno tocchi Caino ai parlamentari per la riduzione di un anno di pena a tutti i detenuti in memoria di Papa Francesco il quale, come fu per Marco Pannella fino all’ultimo giorno della sua vita, non ha smesso un minuto di richiedere un atto di clemenza per i reclusi e dare a loro e alle loro famiglie un po’ di speranza. Papa Francesco, recandosi a Regina Coeli lo scorso Giovedì Santo, ha compiuto uno straordinario gesto nonviolento. Nelle condizioni in cui era, stremato e a tre giorni dalla morte, è andato a ‘visitare i carcerati’ trovando la forza e l’umiltà di dire ‘perché loro e non io?’”. Come è possibile che non vengano rispettate norme come quelle relative all’età massima per la detenzione carceraria o la possibilità per i condannati di avvalersi di pene alternative e quanto questo pesa sull’attuale stato di emergenza? “Io non so quanti cittadini abbiano consapevolezza dell’erosione che hanno avuto in Italia democrazia e Stato di diritto. Preciso che non si tratta di un processo in atto con questo governo e con l’attuale Parlamento. Da decenni, chiunque abbia governato, si è fatta l’economia di principi fondamentali come quelli contenuti nella nostra Costituzione. Ci meravigliamo solo quando certe ingiustizie toccano a noi. Oltre alla scarsa qualità della legislazione (norme imprecise, scritte male, difficilmente interpretabili) noi abbiamo in tutta Italia solamente 246 magistrati di sorveglianza che, oltre che dei 62 mila detenuti, devono occuparsi di decine di migliaia di misure alternative e di comunità e di oltre centomila ‘liberi sospesi’: è evidente che l’esecuzione penale così non può funzionare perché le risposte - se arrivano - arrivano tardi e i giudizi sono dati spesso senza conoscere il percorso della persona che ha presentato un’istanza. Inoltre, ci sono poche comunità in grado di ospitare - con adeguata professionalità - sia i tossicodipendenti che le persone con forte disagio psichiatrico”. Digiuno a staffetta per l’indulto. “Voci di dentro” è accanto a Rita Bernardini vocididentro.it, 3 maggio 2025 Voci di dentro aderisce alla battaglia di Rita Bernardini affinché venga ripristinata la legalità nelle carceri, quantomeno mediante il riconoscimento di un indulto per coloro che devono espiare una pena residua di 12 mesi. Sono giorni convulsi e carichi di significato per chi si occupa di carcere. Soprattutto per noi di Voci di dentro che dal 2008 ci immergiamo come palombari nella torbida realtà delle prigioni d’Italia, spesso trattenendo il respiro per non essere sopraffatti dall’odore e dai rumori della disperazione che ormai conosciamo bene. Lo facciamo come volontari, qualcuno da ex detenuto, altri per formazione, e non perché siamo “buoni” o, peggio, “buonisti”, bensì perché crediamo che solamente con il contributo della società civile si possa superare il bisogno di vendetta alimentato dal populismo penale che imperversa. Un populismo penale che ha trasformato le carceri in luoghi dove regnano illegalità e sofferenza ben evidenziate dall’alto numero di suicidi e dai continui episodi di autolesionismo: spie di una crisi anche umanitaria. In occasione del 25 aprile abbiamo voluto scrivere al Presidente Mattarella sottolineando che il processo di riappacificazione deve interessare anche le persone che sono in carcere le quali hanno diritti che non vengono mai meno e che, una volta espiata la pena, devono a pieno titolo trovare possibilità di reinserimento sociale e lavorativo. E oggi non possiamo fare altro che “indossare” e fare nostre le parole di Papa Francesco che, più volte, ha chiesto ai governi un gesto di clemenza connesso alla virtù “giubilare” del perdono, come grazia, clemenza e amnistia. Nel frattempo c’è Rita Bernardini, che incarnando lo spirito del Sathyagraha, ricorre nuovamente allo sciopero della fame per chiedere che il Parlamento faccia proprie le sollecitazioni del Pontefice e del Presidente della Repubblica e si adoperi affinché venga restituita dignità alle persone recluse. La leader radicale ricorre alla protesta pacifica e non violenta di cui Nessuno Tocchi Caino è espressione. Lo stesso dissenso che il Dl Sicurezza pretenderebbe di trasformare in reato all’interno delle carceri è il mezzo con cui Rita Bernardini ha scelto, per l’ennesima volta, di sbattere il suo corpo, la sua salute e la sua storia oltre le sbarre, a disposizione di quanti ritengono che il carcere non riguardi la società tutta. Noi di Voci di dentro siamo accanto alla nostra amica, la sua battaglia è da sempre la nostra battaglia per il rispetto delle persone. Per questo la accompagniamo in questo suo atto di civiltà con cui sollecita la politica a prendersi cura degli ultimi affinché venga ripristinata la legalità nelle carceri, quantomeno mediante il riconoscimento di un indulto per coloro che devono espiare una pena residua di 12 mesi. Ogni giorno i volontari di “Voci di dentro” digiuneranno a staffetta con Rita Bernardini: un piccolo gesto con la speranza che venga adottato un provvedimento di clemenza che riduca, almeno parzialmente, il sovraffollamento degli istituti, l’accatastamento di corpi in luoghi spesso fatiscenti e il carico di lavoro degli operatori penitenziari perennemente sotto organico. Carcere, dall’edilizia all’architettura. Sembra poco ma è tutto di Davide Varì Il Dubbio, 3 maggio 2025 “Perché loro e non io?”, ha detto Papa Francesco uscendo, per l’ultima volta, da un carcere. Una frase decisiva nella sua “semplicità”. Un rovesciamento di ruoli, un ribaltamento di visione tra chi è dentro e chi è fuori, capace di aprire una fenditura nel muro del securitarismo, lì dove trionfa la pena come punizione, vendetta. Una frase ripresa ieri l’altro dalla premier Meloni. Forse non è molto, eppure è pur sempre una crepa nel linguaggio, nella narrazione securitaria e nella retorica punitiva che tiene il carcere incatenato a se stesso come a un destino irredimibile. Un’occasione da prendere al volo - di più al momento non abbiamo - per provare a bandire il termine “edilizia penitenziaria” che richiama alla mente i capannoni in cui si allevano polli da batteria. Il carcere non è una somma di metri quadri, ma un “progetto” politico e culturale. Oppure non è nulla. Lo ha detto, qualche tempo fa, il vicepresidente della Fai Vittorio Minervini, il quale ha chiesto di smettere di parlare di “edilizia penitenziaria” per parlare di “architettura penitenziaria”. È una proposta fondamentale perché mette le mani lì dove si forma il pensiero: nel linguaggio; è una rivoluzione copernicana, un rovesciamento di paradigma che considera chi è “dentro” come parte della nostra comunità e non scarto, rifiuto. Non è una questione da archistar radical chic. È una questione politica e antropologica. Perché non c’è rieducazione in ambienti inumani. Perché una società che tratta il carcere come una discarica, si prepara ad abitare essa stessa in una discarica sociale. Qualcuno in Parlamento ha già ascoltato: Debora Serracchiani, Maria Elena Boschi. Piccoli segnali, certo. Ma i segnali, in politica, sono tutto. Specie quando non hanno rendita immediata. E soprattutto perché - diciamolo - oggi le carceri italiane violano la Costituzione ogni giorno, con il sovraffollamento, con i suicidi, con l’oblio sistematico di chi ci vive. E di chi ci muore. Papa Francesco lo ha detto con semplicità evangelica. Noi dobbiamo ripeterlo con laica devozione: “Perché loro e non io?”. È la sola domanda che può restituire umanità e senso al carcere. Nordio: “Lavoriamo sulla detenzione differenziata e sulla custodia cautelare” agenzianova.com, 3 maggio 2025 “La funzione rieducativa della pena si attua tramite due elementi: il lavoro e l’attività fisica”. Le persone tossicodipendenti “sono più dei malati da curare che dei criminali da punire” e “possono e devono essere detenuti in modo differenziato”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nel corso di un’intervista all’emittente Padre Pio Tv. “La funzione rieducativa della pena - ha spiegato - si attua tramite due elementi: il lavoro e l’attività fisica. Puntare sull’attività lavorativa per chi sconta una pena significa diminuire le tensioni in carcere, imparare una professione e individuare aziende pronte ad assumere i detenuti appena liberati”. Il ponte con il fuori è essenziale anche una volta scontata la pena; il guardasigilli ha ricordato il protocollo firmato con Cnel che ha dato avvio al progetto Recidiva zero: “Siamo convinti andrà avanti bene. Stiamo lavorando per inserire i detenuti subito nella società, equamente retribuiti, per non correre il rischio di rientrare in quella ‘cultura dello scarto’ di cui parlava papa Francesco”. Prioritario è inoltre intervenire sul ricorso alla custodia cautelare. Nordio ha fatto riferimento a “quel 20 per cento di persone detenute in attesa di giudizio che poi sono in buona parte riconosciute innocenti; vi è una ingiustificata detenzione, che poi costa tutta una serie di risarcimenti”. Diverse le direzioni degli interventi, ma “il faro della Costituzione è l’umanizzazione della pena e la rieducazione del detenuto”, ha concluso il guardasigilli. “Caro Nordio, nelle carceri si muore. Ora liberazione anticipata” di Conchita Sannino La Repubblica, 3 maggio 2025 Lettera di Alemanno da Rebibbia. L’ex sindaco di Roma nel penitenziario della capitale da quasi 5 mesi, scrive con un altro detenuto al ministro della Giustizia per lanciare proposte contro il sovraffollamento negli istituti. Caro ministro Nordio, nelle celle si muore. Cinque pagine. L’emergenza sovraffollamento nei penitenziari italiani è così grave che non bastano né i moduli prefabbricati, né il riutilizzo degli edifici demaniali. Tantomeno si può attendere “la costruzione delle nuove strutture”. A riaccendere i fari, al di là della retorica governativa pro-carceri seguita alla morte di Papa Francesco, sono due detenuti da Rebibbia, due profili (diversamente) noti: Gianni Alemanno, l’ex ministro ed ex sindaco di Roma per An, e Fabio Falbo, lo “scrivano” di Rebibbia, che si è laureato in Giurisprudenza, sette anni fa, a Tor Vergata. In Italia, oggi, sono oltre 62mila e 400 le persone detenute, a fronte di una capienza regolamentare di 51mila e 280 posti. Un tema che in queste ore viene affrontato anche dalla presidente Meloni in un’intervista all’AdnKronos, in cui ribadisce il punto fermo e il no ad amnistia e indulto. “Abbiamo ereditato una situazione pesante, la situazione certamente preoccupa - sottolinea la premier. Ma non ho mai creduto che la strada per ridurre il sovraffollamento siano indulti e svuota-carceri. Uno Stato giusto adegua la capienza alle necessità, non i reati al numero di posti disponibili”. Alemanno e Falbo mettono nero su bianco un’articolata denuncia. Si lanciano proposte al ministro, e si punta il dito anche sui magistrati per “l’abuso della carcerazione preventiva”. Alemanno, una vita in politica nel Msi e poi in An, fino alla convergenza e poi allo strappo con Meloni, era stato condannato in via definitiva a 1 anno e 10 mesi per traffico di influenza - uno dei filoni dell’inchiesta sul “Mondo di mezzo” - ma era finito in carcere il 31 dicembre scorso perché accusato di “gravissime e reiterate violazioni” delle prescrizioni legate al suo affidamento ai Servizi sociali. La lettera a doppia firma, in nove punti, inviata al ministro della Giustizia Carlo Nordio, serve a “sensibilizzare le istituzioni e l’opinione pubblica sull’attuale situazione carceraria che a noi, e non solo a noi, appare insostenibile e contraria al dettato costituzionale”. Un appello che punta, così come chiede la proposta di legge Giachetti-Bernardini, a ottenere almeno la “liberazione anticipata speciale”, che mira a modificare e ampliare il sistema di detrazione di pena. Tra i dati posti a fondamento dell’allarme: “Tutte le strutture penitenziarie italiane sono al collasso con tassi di sovraffollamento di oltre il 150 per cento - scrivono i due detenuti - senza considerare che, come lei stesso ministro ha rilevato, le persone detenute crescono circa 5 volte di più rispetto all’aumento dei posti in carcere”. “La situazione è emergenziale - proseguono Alemanno e Falbo, rivolgendosi al Guardasigilli - e come tale comporta il ricorso a parametri valutativi eccezionali e interventi immediati, che superano per ampiezza e urgenza il programma di costruzione di nuovi carceri, di moduli prefabbricati e di riutilizzo di edifici demaniali abbandonati, messo in campo dal suo Ministero”. Quindi, “devono essere utilizzate tutte le misure alternative al carcere, che possono alleggerire la pressione delle presenze negli istituti penitenziari non rese obbligatorie dalla legge”. Vengono innanzitutto citati i fardelli che gravano sulle vite dei detenuti, e anche sulla polizia penitenziaria: i suicidi in carcere e le morti derivanti dalla denegata assistenza sanitaria negli istituti. E non a caso vengono ricordate nella lettera le parole di Giuliano Amato, ex presidente della Consulta. “Non si deve morire in carcere perché non ci sono cure adeguate. Perbacco, questo è inammissibile: ci battiamo perché non accada in Africa e l’Africa ce l’abbiamo nelle nostre carceri?”. Alemanno e Falbo affondano: “Le vogliamo indicare quelle che secondo noi sono le priorità per far fronte in particolare alla situazione tragica delle morti, dei suicidi, dell’assistenza sanitaria inadeguata, di tutti gli ultrasettantenni in carcere, dell’affettività negata, della mancata scindibilità dei cumuli e dell’accesso limitato al lavoro in aziende private”. La lettera illumina casi specifici: “Le gravi inadempienze del Nucleo Traduzioni e piantonamenti” della polizia penitenziaria di Roma, “causate dall’esiguità del personale a disposizione, che non riesce a coprire le necessità di servizio”; i rischi per la salute legati alle inadeguate certificazioni che spesso definiscono “condizioni generali mediocri” ciò che invece “è una situazione appena sufficiente alla sopravvivenza, omettendo qualunque pronuncia in merito alla possibilità di un’effettiva guarigione”. E ancora: nonostante il grave sovraffollamento, “gli uffici di Sorveglianza continuano a rigettare i reclami per l’applicazione dello sconto della pena del 10 per cento”, che è conseguenza della violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle 1ibertà fondamentali, come risarcimento per le condizioni di detenzione contrarie al senso di umanità. “Il ragionamento elementare da fare è questo: se i dati diffusi dal vostro ministero ci dicono che in tutti gli istituti di pena vi è un sovraffollamento dal 150 % al 200 %, con uno spazio nelle celle per ogni singola persona detenuta inferiore agli standard previsti dall’ordinamento, come mai nella maggior parte dei casi il magistrato di sorveglianza non concede il dovuto?”. La lettera lancia un’altra proposta: “Un intervento legislativo potrebbe rendere automatico questo sconto di pena per tutte le persone detenute recluse in carceiri dove si registra un sovraffollamento superiore al 100 per cento dei posti disponibili”. Altro allarme, sulle persone detenute nonostante l’avanzata età. “Gli uffici di sorveglianza non tengono conto della sentenza della Corte costituzionale che ha stabilito che i condannati che hanno più di 70 anni possono beneficiare della detenzione domiciliare. Qui a Rebibbia sono diversi gli ultraottantenni, anche non recidivi, che continuano a vedersi rigettare le loro richieste”. Risultato: “Devono languire in situazione di sofferenza addizionale, si spera non morire, perché allocati anche in celle con altre 5 persone detenute”. Alemanno e Falbo citano, tra gli altri punti, anche quello dell’”abuso della carcerazione preventiva, con 1180 domande di risarcimento per ingiusta detenzione, abuso che non chiama in causa il suo dicastero”, è la frecciata che mira ai magistrati, “ma lei sa bene che contribuisce in modo rilevante ad aggravare il sovraffollamento”. Alemanno e Falbo, pur citando amnistia e indulto, “i provvedimenti emergenziali cui si pensa subito, perché sono ovviamente la via più semplice e immediata per ridurre in modo significativo la popolazione carceraria”, chiedono di valutare, “anche provvedimenti meno drastici, come quelli sopra descritti che potrebbero dare un forte contributo: riducendo il carico di lavoro e quindi i ritardi e i dinieghi smesso incomprensibili della magistratura di sorveglianza”. E si appellano al ministro Nordio perché valuti “la proposta di legge Giachetti” sulla liberazione anticipale speciale che amplierebbe il calcolo della detrazione, passando dagli attuali 45 giorni a 60 giorni per ogni semestre di pena scontata. Concedere questa soluzione, sottolineano Alemanno e Falbo rivolgendosi a Nordio, non vuol dire “cedere a una tentazione permissiva” - leggi: perdere consenso - ma “significa compiere una necessaria conciliazione tra certezza della pena e finalità rieducativa”, come stabilisce la Costituzione. Alemanno e la vita in carcere di Concita De Gregorio La Repubblica, 3 maggio 2025 L’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno è detenuto perché deve scontare una condanna a 1 anno e 10 mesi. È molto istruttiva la lettera che Gianni Alemanno insieme a Fabio Falbo, che in carcere si è laureato in giurisprudenza, scrive al ministro della Giustizia Nordio. Non solo per quello che dice: il contenuto è sì interessante e drammatico ma chi di noi non sa che le galere italiane sono sovraffollate, che le condizioni di vita in cella sono spesso insostenibili e che difatti i suicidi sono all’ordine del giorno, letteralmente. Avvengono ogni giorno. Persone del calibro di Luigi Manconi ne hanno fatto una missione di vita, deputati e senatori hanno presentato negli anni interrogazioni e proposte, associazioni di familiari e i detenuti stessi hanno denunciato portando evidenze. Pochissimo è cambiato. Tutti sono buoni a giudicare da casa ma ci sono questioni che devi conoscere, toccare con mano. Gianni Alemanno è stato ministro, è stato sindaco di Roma. Dubito che non sapesse cosa succede a Rebibbia e a Regina Coeli, per restare a Roma. Che non fosse informato dei numeri. Il 150 per cento di sovraffollamento, i detenuti che crescono cinque volte di più dei posti in carcere. Che non avesse mai sentito dire di violazioni e di abusi anche quando occupavano le prime pagine dei giornali. Che non avesse notato la quotidiana litania dei suicidi, spesso commessi da giovanissimi. Che ignorasse i deficit di personale, di risorse, talvolta di competenze specifiche rispetto a bisogni specifici. Lo sapeva, certamente, come ciascuno di noi minimamente informato sa. Però adesso si trova in carcere, fa esperienza diretta di quello sfacelo, e scrive al ministro. Una lettera dettagliatissima, piena di considerazioni già ampiamente esposte, per esempio, nella proposta di legge Giachetti-Bernardini a proposito di liberazioni anticipate speciali, tra l’altro: proposta ferma lì, inevasa. La richiama, Alemanno, dicendo che adottarla non sarebbe “cedere a una tentazione permissiva” ma “conciliare certezza della pena a finalità rieducativa, come stabilisce la Costituzione”. Infatti. Proprio così. Nuove leggi sul carcere, ma vecchi paradossi di Paolo Doni laprovinciaunicatv.it, 3 maggio 2025 La protesta degli avvocati, che per tre giorni si asterranno dalle udienze per contestare il nuovo Decreto Sicurezza, non solo alza il velo su una condotta funambolica, sulla quale giuristi e professori di diritto hanno rilevato profili di incostituzionalità, ma punta anche il faro su una concezione della pena sempre più “carcerocentrica” e sempre più distante dalla realtà. Molto si è scritto sulla spregiudicatezza di procedere per Decreto su un tema così delicato, cancellando di fatto mesi di iter parlamentare (durante i quali non erano mancate le critiche, anzi). Meno si è detto sul merito del dispositivo, che introduce una serie di nuovi reati e, rispetto ad alcuni già esistenti, aumenta i termini della detenzione in carcere. Misure adottate in coerenza con quella che è stata, fin dall’inizio, l’impronta di questo governo, che a più riprese ha sostenuto l’idea che pene più severe sono la migliore risposta al deficit di sicurezza della società. Solo che questa volta, forse complice la fretta, verrebbe da scrivere che si travalica il semplice buon senso, se non fosse che si tratta di leggi destinate a incidere drammaticamente nella vita delle persone. Qualche esempio: potranno essere puniti con 5 anni di carcere i detenuti che fanno resistenza passiva in carcere (per esempio, l’astinenza dal vitto): la condotta di chi protesta senza essere violento, potrà essere equiparata a quella di coloro che lo fanno in modo violento. Viene introdotta l’aggravante per i reati commessi nelle vicinanze delle stazioni ferroviarie (senza specificare che cosa significa quel “nelle vicinanze”): secondo questo principio, ci saranno pene diverse per lo stesso reato, a seconda di dove sia stato commesso. Inoltre il reato di occupazione di domicilio viene punito fino a 7 anni di carcere, contro ogni criterio di proporzionalità. Infine, viene data facoltà al questore di vietare l’accesso al trasporto pubblico a denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti (contro ogni principio di presunzione d’innocenza). ll testo nel suo complesso prevede l’introduzione di 14 nuovi reati, l’aumento di pena per 9 reati e l’introduzione di svariate aggravanti. Garantiranno maggiore sicurezza? La risposta del presidente dei penalisti italiani, Francesco Petrelli, intervistato dal Foglio, non lascia spazio a dubbi: “Nessuno dei nuovi reati e nessuno degli spropositati aumenti di pena contenuti nel decreto Sicurezza modificheranno qualcosa sotto il profilo della sicurezza reale”. L’effetto più immediato sarà quindi quello di riempire ancora di più carceri già al collasso, dove il sovraffollamento è l’ostacolo principale agli sforzi per garantire pene più giuste, e quindi più efficaci: garantendo lavoro ai detenuti, per esempio, il tasso di recidiva crolla al 2%; senza nessun tipo di trattamento, invece, la probabilità che chi esce torni a delinquere sale al 70%. Ma non è solo una questione di sicurezza reale e percepita, o di differenti sensibilità rispetto ai principi costituzionali. C’è anche dell’altro, qualcosa che ha a che fare con un destino comune ancora tutto da costruire. “Non so perché loro sono in carcere, e non io” ha detto in una delle sue visite in carcere Papa Francesco, voce inascoltata nella richiesta di un gesto di clemenza, cosciente del fatto che solo un provvedimento deflattivo della popolazione carceraria può essere in grado di restituire umanità alla pena. Nei suoi ultimi giorni di vita non ha voluto mancare l’appuntamento a Regina Coeli per celebrare il Giovedì Santo con i detenuti. L’eredità di Francesco passa inevitabilmente anche dai corridoi e dalle rotonde del carcere. Alla politica ha lasciato una grande eredità civile, che passa dalla sfida per costruire un nuovo umanesimo, che in pochi purtroppo hanno saputo o voluto cogliere. Francesco e i carcerati: l’ultima carezza del Papa ai dimenticati di Agnese Pellegrini Famiglia Cristiana, 3 maggio 2025 Anche tre giorni prima di morire, papa Francesco ha voluto raggiungere i detenuti di Regina Coeli, proseguendo una tradizione che ha segnato tutto il suo pontificato. Dal lavaggio dei piedi nel 2013 alla Porta Santa nel carcere di Rebibbia, fino alla proposta di condono nel Giubileo della Speranza: il suo è stato un magistero che ha restituito dignità a chi è rinchiuso, invocando misericordia e giustizia riparativa contro ogni vendetta. Tre giorni prima di Pasqua. Quattro giorni prima di morire. Come era diventata ormai una sua tradizione del Giovedì Santo, anche quest’anno papa Francesco ha voluto “lavare i piedi” delle persone detenute. Metaforicamente, perché le forze non gli permettevano di presiedere la solenne celebrazione della messa “In coena Domini”. Così, il 17 aprile si è recato, quasi senza farsi annunciare, a Regina Coeli, il carcere di primo ingresso di Roma, a due passi dal Vaticano. C’era già stato nel 2018. Un incontro anticipato appena il giorno prima, e che ha coinvolto 70 detenuti. Del resto, proprio la popolazione carceraria di Regina Coeli aveva inviato a papa Francesco, nei giorni del suo ultimo ricovero al Gemelli, lo scorso mese di marzo, una lettera di auguri (che Famiglia Cristiana aveva pubblicato in esclusiva), nella quale si invitava il Pontefice a visitare il penitenziario di via della Lungara. E papa Francesco ha raccolto l’invito. Per Francesco, recarsi in carcere è stata una consuetudine del suo pontificato: nel carcere minorile di Casal del Marmo, il Giovedì Santo del 2013, soltanto due settimane dopo l’elezione al soglio pontificio, celebrò la messa e lavò i piedi a dodici giovani detenuti, tra cui due ragazze, una cristiana e una musulmana, lasciando un’immagine potentissima: lui, chino su persone che hanno commesso reati e che anche grazie a questo gesto di vicinanza umana e spirituale possono ritrovare la propria dignità. Ma se la Misericordia di Dio è per tutti (“Chi sono io per giudicare?”, un’altra delle affermazioni che amava ripetere), allora non poteva mancare la carezza e la consolazione del successore di Pietro anche in questo angolo di mondo, tra sbarre e blindi, quasi sempre dimenticato dalle cronache. Quello tra il Papa venuto dalla fine del mondo e i detenuti si è manifestato fin da subito come un legame particolare. “Ogni volta che entro in un carcere, mi domando perché voi e non io”, è la celebre frase che ripeteva sempre, nelle sue numerose visite nei penitenziari italiani. E, con questo, voleva significare che la caduta e l’errore sono una possibilità per ognuno di noi; che chi commette un reato è gente come noi. Come lui. Lui che li ha “accarezzati” fino alla fine, i detenuti: ai suoi funerali, accanto ai capi di stato e di governo, c’era una delegazione dal carcere di Rebibbia, l’istituto di pena dove il 26 dicembre 2024 papa Francesco ha voluto aprire una Porta Santa del Giubileo della Speranza (la prima volta nella storia dei Giubilei). Inoltre, alcuni di loro erano presenti a Santa Maria Maggiore, con un permesso speciale da parte del magistrato di sorveglianza. Molti di più, migliaia, si sono radunati davanti alla tv delle carceri italiane, per seguire i funerali. E a favore dei ragazzi reclusi nel carcere minorile di Casal del Marmo a Roma, il Pontefice argentino ha lasciato 200mila euro, praticamente tutti i suoi soldi personali. Contro l’ergastolo, che definì una “pena di morte nascosta” nel discorso rivolto ai giuristi dell’Associazione internazionale di diritto penale, nel 2014, Francesco si è espresso più volte (ribadendo due principi: la cautela in poenam e il primatum principii pro homine). Del resto, pochi mesi dopo la sua elezione, a luglio 2013, abolì la reclusione a vita in Vaticano, e contemporaneamente introdusse il reato di tortura e sancì il “giusto processo”. Negli anni, ha parlato di persone detenute come di capri espiatori, di cautela nella pena, di diritto penale razzista, senza moralismo o pietismo: semplicemente, richiamando la Costituzione e il senso della dignità umana che è di tutti, anche di chi si è macchiato di un reato gravissimo. Nei primi anni del suo pontificato, aveva ricevuto in udienza i detenuti del carcere di Opera, che producono le ostie nel progetto “Il senso del pane”, della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, presieduta da Arnoldo Mosca Mondadori. Proprio a testimoniare, appunto, che la speranza deve sempre avere l’ultima parola. Del resto, rivolgendosi nel 2019 all’Associazione Internazionale di Diritto Penale, Bergoglio aveva messo in guardia contro la deriva di chi vede nella pena “l’unica medicina per ogni male sociale”: “Negli ultimi decenni”, aveva detto, “si è creduto di curare malattie diverse con lo stesso farmaco: la repressione. Non è giustizia, è pigrizia. È la resa di chi preferisce fabbricare capri espiatori anziché costruire comunità”. Papa Francesco ha lanciato una sfida: trasformare il carcere da luogo di maledizione, punitivismo e vendetta, a spazio di redenzione. E anche in questo caso, oltre le parole ci sono state le azioni: con la bolla “Spes non confundit”, ha chiesto ai governi di concedere ai detenuti, durante questo Giubileo della speranza, il condono delle pene. Lo aveva già chiesto in occasione del Giubileo straordinario della Misericordia, nel 2016. Ad accogliere l’invito del Pontefice, furono però soltanto Cuba, Paraguay e Mozambico. Il 6 novembre di quell’anno, durante il Giubileo dei detenuti che raccolse a San Pietro gruppi di tutte le carceri italiane, Francesco ricordò: “Tutti abbiamo la possibilità di sbagliare: tutti. In una maniera o nell’altra abbiamo sbagliato. E l’ipocrisia fa sì che non si pensi alla possibilità di cambiare vita: c’è poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società. Ma in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto”. C’è chi ha affermato che il monito del Vangelo di Matteo (“Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”) ha trovato in Bergoglio non una semplice eco, ma un “programma di governo”. Perdono, speranza, attenzione alla persona e dignità sono state la cifra del suo pensiero sul carcere. Ma non solo. In riferimento alla funzione della pena, sempre nell’audizione del 2019, ha proposto il passaggio da una giustizia basata sulla retribuzione a una giustizia basata sulla riparazione, il cui modello è l’icona evangelica del Samaritano: “Senza pensare a perseguitare il colpevole perché si assuma le conseguenze del suo atto”, aveva spiegato, “assiste colui che è rimasto ferito gravemente sul ciglio della strada e si fa carico dei suoi bisogni”. È la sintesi dei percorsi di giustizia riparativa, introdotta soltanto da pochi anni, grazie all’allora ministro Marta Cartabia, nell’ordinamento italiano. Che diventino realtà in tutte le carceri italiane sarebbe il più bel modo per commemorare papa Francesco. “Perché voi e non io?” di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 3 maggio 2025 Tra le rose bianche lasciate accanto alla tomba di “Franciscus”, nella Basilica di Santa Maria Maggiore da senza fissa dimora, migranti e transessuali ci sono quelle di alcuni detenuti, tra coloro che sentiranno più la mancanza di papa Bergoglio. È nel carcere romano di Regina Coeli, che lo scorso 24 aprile, Giovedì della Settimana Santa, il Papa, 5 giorni prima della sua morte, in carrozzella, il volto provato dalla malattia, ha stretto la mano ai reclusi, ha firmato la Bibbia a chi gliela porgeva, ha consegnato a tutti un rosario, per tutti ha avuto una parola di consolazione. L’unico suo rimpianto - ha confessato uscendo - non aver potuto celebrare la Lavanda dei piedi come fece altre volte ha fatto durante le sue visite dietro le sbarre nella Settimana Santa. È come se Francesco avesse voluto chiudere un cerchio con la sua ultima uscita a Regina Coeli prima di tornare al Padre, per sottolineare come nel suo Pontificato i carcerati abbiano avuto un posto preferenziale nel suo cuore: non c’è stata visita apostolica dove non si sia recato in un penitenziario. La sua prima visita dopo essere stato eletto al soglio Pontificio fu proprio in un carcere, l’Istituto penale minorile (Ipm) romano di Casal del Marmo, il 29 marzo del 2013. Anche allora era un Giovedì Santo e Francesco, indossato il grembiule, lavò e baciò i piedi a 12 minori tra cui due musulmani e due ragazze. Ed è proprio al carcere di Casal del Marmo che il Papa ha donato prima di morire 200 mila euro del suo conto personale, destinati ad estinguere il mutuo aperto per allestire un pastificio nell’Ipm perché i giovani ristretti possano essere avviati ad un mestiere. Un gesto in sintonia con l’apertura della seconda Porta giubilare nel carcere romano di Rebibbia, il 26 dicembre scorso: “La prima Porta Santa l’ho aperta a Natale in San Pietro” ha detto Francesco ai detenuti che lo hanno accolto commossi “ma ho voluto che la seconda Porta Santa fosse qui in un carcere. Ho voluto che ognuno di noi tutti che siamo qui, dentro e fuori, avessimo la possibilità anche di spalancare le porte del cuore e capire che la speranza non delude”. Dieci anni prima, nel 2015 in occasione del Giubileo straordinario della Misericordia, Francesco dispose che dietro le sbarre si aprissero migliaia di porte sante: “Nelle cappelle delle carceri i detenuti potranno ottenere l’indulgenza, e ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre, possa questo gesto significare per loro il passaggio della Porta Santa, perché la misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori, è anche in grado di trasformare le sbarre in esperienza di libertà”. Nella sua visita a Torino il 21 giugno 2015, nel Bicentenario di don Bosco e per l’ostensione della Sindone, ha voluto tra i suoi commensali in Arcivescovado accanto ai poveri, anche 11 ristretti nel carcere minorile “Ferrante Aporti” accompagnati dal cappellano don Domenico Ricca. Per questo nella cappella dell’Ipm torinese, per ricordare l’invito a quel pranzo straordinario, l’Arcivescovo Cesare Nosiglia aprì una delle quattro Porte Sante della diocesi. Ma la cura di Francesco per i reclusi viene da lontano, come lui stesso ha raccontato più volte definendosi come “graziato dal Signore”. “Quando andavo a visitare i detenuti nel carcere di Buenos Aires uscendo mi chiedevo: Perché loro e non io? Pensare a questo mi fa bene: poiché le debolezze che abbiamo sono le stesse, perché lui è caduto e non sono caduto io? Per me questo è un mistero che mi fa pregare e mi fa avvicinare ai carcerati”. Fare paura è l’obiettivo del decreto Sicurezza di Cataldo Intrieri Il Domani, 3 maggio 2025 Se le leggi riflettono lo spirito del tempo e la psicologia della politica il messaggio sotteso all’idea del decreto non è semplicemente quello di suggerire una reazione decisa al crimine quanto quello di incutere timore. Scrive lo storico statunitense Timothy Snyder che “gran parte del potere dell’autoritarismo è ceduto volontariamente. In tempi come questi, le persone anticipano ciò che un governo più repressivo vorrà, e si offrono spontaneamente, senza che venga loro chiesto. Un cittadino che si adatta in questo modo sta insegnando al potere ciò che può fare”. Non ce ne accorgiamo ma progressivamente, non solo nell’America di Donald Trump ma anche nell’Italia governata da Giorgia Meloni, anche se può sembrare impercettibilmente, si restringono spazi importanti di libertà. Il ricorso pretestuoso alla decretazione d’urgenza col trasferimento del potere di legiferare dal parlamento al governo è un vecchio vizio di cui si sono macchiati diversi governi di ogni colore nella storia del paese ma mai sino a giungere al punto massimo di torsione del governo Meloni coll’ennesima, ultima versione del “decreto sicurezza”. Disposizioni repressive - Come scrivono le camere penali che hanno ancora indetto un’ulteriore astensione di protesta degli avvocati “peggio del disegno di legge sulla sicurezza c’è solo il decreto legge sicurezza” con cui Meloni ha deciso di rendere immediatamente esecutive una serie disorganica di disposizioni repressive che introducono 14 nuovi reati ed inaspriscono le pene per quelli già esistenti. Alcune norme sono semplicemente insensate come quella che aggrava le sanzioni per tutti i reati se commessi in prossimità di determinati luoghi pubblici come se una truffa in stazione fosse più grave di una a domicilio. Altre tendono ad incidere addirittura su diritti acquisiti e dati per scontati come quello di manifestare il proprio dissenso in pubbliche manifestazioni o di protestare contro condizioni di detenzione degradanti, financo di poter circolare liberamente nei centri cittadini solo per il fatto di essere denunciati e ad insindacabile scelta delle autorità di sicurezza Ulteriori disposizioni sono destinate ad allargare i poteri di intervento e repressione delle forze dell’ordine. Se poi taluno volesse minimizzare, basterebbe il manifesto sottoscritto da circa 250 costituzionalisti, capitanati da tre ex presidenti e due vicepresidenti della Consulta non certo tutti eversori emuli dei fasti di Toni Negri, per capire la gravità del momento caratterizzato da “torsione securitaria dell’ordine pubblico, limitazione del dissenso, accento posto prevalentemente sull’autorità e sulla repressione piuttosto che sulla libertà e sui diritti rappresentano le costanti di questi interventi”. Intimidire - Se le leggi riflettono lo spirito del tempo e la psicologia della politica dietro il messaggio sotteso all’idea del decreto non è semplicemente quello di suggerire una reazione decisa al crimine quanto quello di incutere timore. Ciò che è capitato alla commerciante di Ascoli, “colpevole” di aver esposto un innocuo striscione inneggiante alla resistenza non è casuale, bisognerebbe chiedersi cosa ha spinto la polizia ad accedere per due volte nell’esercizio se non la convinzione di poter fare ciò che in tempi ordinari sarebbe un sopruso. La risposta è che non è un caso: non è una pura coincidenza che le politiche sull’immigrazione in Usa e in Italia e purtroppo anche in Europa siano le stesse così come il ricorso alla decretazione di urgenza con le modalità adottate per il decreto sicurezza ricordano sinistramente i famigerati “ordini esecutivi” con cui Donald Trump ha colpito università, avvocati, studenti, associazioni che hanno l’unico torto di dissentire. Ecco non è un caso che decreti sicurezza ed ordini esecutivi abbiano lo stesso bersaglio da colpire incutendo timore: la libertà di dire semplicemente no. Tagliarsi per farsi ascoltare, punirli per farli tacere di Elton Kalica* Il Riformista, 3 maggio 2025 Negli ultimi mesi il Decreto Legge Sicurezza non solo ha suscitato critiche e preoccupazioni dal punto di vista sociale, ma ha anche mobilitato ampie fasce della società, convergendo su un fronte unitario di critica e resistenza. Un punto particolarmente preoccupante è costituito dalle disposizioni che mirano a criminalizzare le forme di dissenso all’interno delle carceri e dei centri di permanenza per i migranti, realtà già segnate da tensioni, conflitti e profonde diseguaglianze. Si tratta di luoghi che alimentano rabbia e reazioni, ambienti che in passato mi hanno visto per anni direttamente coinvolto come detenuto e che oggi continuo a frequentare in veste di ricercatore e volontario. È opportuno osservare, tuttavia, che l’intervento normativo in questione sembra suscitare sentimenti contrastanti tra coloro che vivono reclusi. Da un lato non ha suscitato grande allarme. Questo perché il carcere è strutturato per neutralizzare la capacità di critica e di resistenza. Laddove esistono margini di negoziazione tra detenuti e agenti, essi si configurano per lo più come dinamiche informali incentrate su piccoli favori o concessioni, funzionali alla preservazione dell’ordine interno. Le azioni collettive rappresentano episodi sporadici, per lo più scaturiti da situazioni eccezionali. Di conseguenza, l’introduzione di nuove fattispecie di reato di rivolta all’interno delle carceri e nei CPR è stata accolta con rassegnazione. Simile disincanto si registra anche rispetto alla nuova incriminazione di resistenza passiva: la mera disobbedienza agli ordini degli agenti è una prospettiva remota per buona parte dei detenuti, considerando che il rifiuto di obbedire comporta, in primo luogo, l’intervento di una squadra autorizzata all’uso della forza, seguito dall’irrogazione di una sanzione disciplinare consistente nell’isolamento e nella perdita di 45 giorni di liberazione anticipata. Contemporaneamente, la direzione può procedere con una denuncia per interruzione di pubblico servizio (art. 340 c.p.), reato punito con la reclusione fino a un anno, oppure, se vi è opposizione attiva all’intervento degli agenti, con una denuncia per resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.), sanzionata con pene comprese tra sei mesi e cinque anni di reclusione. La presenza di tali dispositivi repressivi spiega l’accoglienza cinica con cui è stato recepito il nuovo reato di rivolta, anche in forma passiva: tra i detenuti si sente spesso dire “ma c’era anche prima, cambia solo il titolo del reato”. Tuttavia, esiste un timore più sottile ma concreto: che queste nuove norme colpiscano in particolare i detenuti più poveri e vulnerabili. Gli istituti di pena operano in regime di cronica scarsità di spazi, risorse, attività e personale. Questa situazione costringe i detenuti a un’interazione costante con il personale di custodia per l’ottenimento di beni e servizi essenziali: per esempio, l’accesso ai generi di pulizia è mediato dall’ufficio magazzino gestito da agenti. Analogamente, la corrispondenza, le telefonate, i colloqui con i familiari e persino l’accesso alle cure sanitarie sono filtrati dalla mediazione degli agenti penitenziari. La possibilità di instaurare una relazione di comunicazione efficace con il personale risulta dunque un elemento strategico. Chi dispone di risorse culturali ed economiche è più autonomo; al contrario, chi non è in grado di comprendere la lingua o usare abilmente i meccanismi burocratici risulta maggiormente vulnerabile a risposte negative, spesso percepite come arbitrarie o ingiustificate. Entrato in carcere all’età di vent’anni, nonché straniero, ricordo ancora la sofferenza che derivava dall’incapacità comunicativa, dalla povertà e dall’assenza di sostegno esterno. Di fronte alla quotidiana gestione burocratica improntata a negligenze, rigidità e omissioni, per molti detenuti farsi del male si rivelava l’unico modo per costringere l’istituzione ad ascoltare un bisogno. Tagliarsi infatti attiva protocolli di primo soccorso e procedimenti disciplinari che diventano occasioni d’incontro con la direzione, offrendo così alla persona detenuta l’opportunità di esprimere le proprie motivazioni, nella speranza di ottenere almeno parziali risposte alle proprie esigenze. È in tale contesto che molti detenuti avvertono nel nuovo Decreto Legge la volontà di criminalizzare specialmente questa forma di dissenso. Si vuole sostanzialmente punire penalmente coloro che, privi di risorse economiche, protestano per l’impossibilità di effettuare una telefonata, di inviare una lettera, di acquistare beni di prima necessità. Più che il dissenso si punisce il tentativo di sopravvivenza; più che il reato di rivolta si punisce l’umanità. Una criminalizzazione che colpisce gli ultimi tra gli ultimi, coloro che spesso ignorano persino l’esistenza della norma in questione, che sembra pensata come mezzo per gestire il disagio sociale e le marginalità anche all’interno delle carceri, agendo su persone già colpite severamente dalle stesse politiche penali. Il carcere, ancora una volta, si rivela una utile lente di ingrandimento attraverso cui osservare l’estendersi dello “Stato penale” contemporaneo, che anziché fare giustizia sembra moltiplicare sofferenze, disuguaglianze e discriminazioni. *Sociologo, redattore di Ristretti Orizzonti “Macché sicurezza, il Dl è il più grande attacco alla libertà di protesta” di Angela Stella L’Unità, 3 maggio 2025 Intervista al presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. Il passaggio dal ddl al decreto? “Dal Governo disprezzo per il Parlamento”. “Il dl ha enormi profili di incostituzionalità, spinge verso una criminalizzazione delle lotte sociali, sono norme che si ispirano a un modello di dubbia consistenza democratica. È il più grande attacco alla libertà di protesta nella storia repubblicana”. Professor Patrizio Gonnella, Presidente dell’Associazione Antigone. Partiamo dal punto di vista del metodo: si è passati dal ddl al dl sicurezza. Qual è il suo giudizio su questo? Il Governo con palese disprezzo del Parlamento, impegnato da oltre un anno nella discussione del ddl sicurezza, ha deciso che andava annichilito il dialogo, andava cancellata ogni ipotesi di discussione. È un passaggio grave nella storia parlamentare italiana. Gli stessi deputati e senatori appartenenti alle forze politiche di maggioranza dovrebbero rivendicare un proprio ruolo nella costruzione delle leggi. Altrimenti si autoconfinano dentro un meccanismo di svilimento dell’istituzione parlamentare. Il Governo con la decretazione di urgenza ha azzerato tutto senza però cambiare i contenuti del testo normativo, nonché fingendo di tenere in considerazione delle preoccupazioni del Presidente della Repubblica, informalmente segnalate. Un’enorme presa in giro. Secondo lei esistono profili di incostituzionalità? Esistono enormi profili di incostituzionalità, a partire dalla forma del decreto legge in materia penale. Mancano palesemente i requisiti di urgenza e necessità, rispetto a un testo che era in discussione da tanti mesi. La democrazia è dialogo, ascolto, dibattito. Tra i tanti profili di incostituzionalità alcuni sono legati alla procedura scelta (si pensi alla disomogeneità del testo e al suo essere diatonico rispetto ai principi di cautela che dovrebbero governare la materia penale), altri ai tanti contenuti vessatori in essa presenti, molti dei quali palesemente in contrasto con il diritto penale liberale. Cesare Beccaria nel lontano 1764 aveva improntato il suo modello penale moderno sui principi di dolcezza delle pene, proporzionalità, chiarezza, legalità. Principi che Luigi Ferrajoli ha riproposto di recente per ribadire la sua teoria del diritto penale minimo, un diritto autenticamente capace di minimizzare la violenza. In molte delle norme penali presenti nel testo sono messi in crisi i principi di tassatività, offensività e proporzionalità. Sono introdotte fattispecie penali dal contenuto incerto che non consentiranno ai giudici di valutare quale è la condotta vietata. In particolare? Mi soffermo su una delle norme presenti nel decreto legge 2355, quella che introduce il delitto di rivolta penitenziaria. Andrà a seppellire sotto anni e anni di prigione migliaia di persone, le più vulnerabili, le più giovani. La norma punisce chi si limita a resistere passivamente a un ordine, genericamente motivato. E lo punisce fino a otto anni di carcere. La vita in una comunità, sia essa un carcere, sia essa una caserma, una scuola, una famiglia, è fatta di continui rapporti, dialoghi, proteste, voci alte e voci basse. Qualora sia introdotta questa norma saranno seppelliti in carcere ragazzi, persone con problemi psichiatrici, tossicodipendenti. Sono loro che, come chi conosce il carcere ben sa, non sanno farsi la galera. Sono loro che disobbediscono agli ordini, che dal legislatore non sono stati neanche definiti legittimi. I mafiosi non disobbediscono. I mafiosi hanno altri strumenti di pressione. Esemplifico. Tre ragazzi che non vogliono uscire dalla cella, tre persone che battono le sbarre per segnalare un problema, tre persone che rifiutano il cibo o le medicine andranno a processo. Manca palesemente la ragionevolezza e manca palesemente la tassatività. È un passo di non ritorno verso il carcere regolato nel 1931 dal regime fascista, quando i detenuti dovevano camminare a testa bassa, in silenzio. Neanche l’allora Guardasigilli Rocco aveva pensato a un reato di questo tenore, violativo dei principi di offensività, proporzionalità (la rivolta con resistenza passiva è punita quanto i maltrattamenti in famiglia) e tassatività. Nel caso arrivassero all’attenzione di questa nuova Corte Costituzionale, lei nutre fiducia rispetto a pronunce di illegittimità? Immagino che non pochi avvocati e giudici solleveranno questioni di legittimità costituzionale sulle tante norme presenti in un decreto legge che mira a criminalizzare il dissenso entificando il lavoro delle Polizie, come in un’antica tradizione nazionalista. Negli ultimi anni la Corte Costituzionale, si pensi alla decisione sulla affettività in carcere, ha cercato di rimediare all’inerzia del legislatore e a porre freni alla bulimia punitiva. Speriamo che si continui a produrre una giurisprudenza in questa direzione. Può elencare quali sono gli aspetti più critici nel merito? Antigone da novembre 2023 ha affermato che il testo era palesemente in contrasto con le regole classiche della rule of law. Su questo producemmo un documento circostanziato insieme all’Asgi. Non cito il delitto di rivolta penitenziaria di cui ho già parlato. Il testo, in tante altre sue norme, si pone in evidente contrasto con una serie di principi costituzionali che reggono il nostro ordinamento giuridico, specificamente nel campo del diritto penale, del diritto dell’immigrazione e del diritto penitenziario. Le nuove disposizioni che il Governo vorrebbe introdurre appaiono, infatti, impostate ad una logica repressiva, securitaria e concentrazionaria: la sicurezza è declinata solo in termini di proibizioni e punizioni, ignorando che è prima di tutto sicurezza sociale, lavorativa, umana e dovrebbe essere finalizzata all’uguaglianza delle persone. Il disegno di legge del Governo strumentalizza, invece, le paure delle persone e contravviene ai doveri di solidarietà di cui all’articolo 2 della Costituzione. Ci spieghi meglio… Le norme spingono verso una criminalizzazione delle lotte sociali, trasformando in reati comportamenti che hanno a che fare con il disagio e la marginalità sociale, oltre che con le disuguaglianze economiche e con le grandi questioni sociali. Temi come quello delle occupazioni delle case andrebbero affrontati con le tradizionali vie del welfare comunale, del dialogo, della composizione dei conflitti e dell’integrazione sociale; allo stesso modo gli atti di protesta per il miglioramento climatico dovrebbero essere oggetto di dibattito pubblico, quali che siano le modalità di tale dibattito, purché siano evidentemente pacifiche e non-violente. E invece? Si prevedono abnormi aumenti di pena che potrebbero, tra le altre nefaste conseguenze, determinare un sovraffollamento ingestibile del sistema penitenziario, già in crisi. Nella logica repressiva delle lotte sociali che caratterizza il decreto legge, alla polizia e più in generale all’autorità di pubblica sicurezza viene riconosciuto un privilegio, in ragione del ruolo che essi svolgono, in quanto rappresentanti dell’autorità costituita nella “pubblica piazza”, privilegio che di fatto si trasforma sul piano giuridico in una vera e propria immunità funzionale che, ancora una volta, determina una criminalizzazione dei manifestanti. Una lesione loro inferta vale di più di quella provocata dalla polizia. Le norme del decreto legge governativo, infine, si ispirano a un modello di diritto penale di matrice autoritaria e non liberale che risponde ad una ben chiara matrice culturale e politica, di dubbia consistenza democratica. In che modo? In nome di una indefinita, quanto pericolosa, idea della “certezza della pena” si prevedono norme che mascherano intenti discriminatori, come quella che prevede il carcere (non cambia nulla pure se si tratta degli Icam) per le donne in stato di gravidanza, norma dall’evidente contenuto simbolico, finalizzata a reprimere un particolare gruppo sociale, connotato sul piano culturale e razziale, ossia le donne rom. Rischia di assecondare le pulsioni razziste già presenti nella società. Parliamo di una decina di persone in tutta Italia. Non è questa sicurezza ma disumanità contro le donne e contro i bambini che nasceranno. Davvero questo dl incarcererebbe anche Gandhi? Se Gandhi fosse detenuto e si rifiutasse, seduto a gambe incrociate nella sua cella, di obbedire a un ordine di un poliziotto penitenziario sarebbe processato per rivolta. Se Gandhi fosse nelle strade a protestare con il proprio corpo senza produrre danni a persone o cose sarebbe ugualmente processato. È la criminalizzazione della disobbedienza nonviolenta. Si privilegia molto la tutela delle forze dell’ordine a discapito di altre categorie di persone. Si va verso uno Stato di Polizia? L’Osce, l’Onu e il Consiglio d’Europa hanno affermato che c’è un rischio per la tenuta dello stato di diritto. Noi abbiamo parlato del più grande attacco alla libertà di protesta nella storia repubblicana. Speriamo che le istituzioni di secondo livello tengano. Su questo sono fiducioso. In generale lei avverte una torsione securitaria nell’azione di Governo e della maggioranza? Purtroppo c’è una torsione securitaria che costituisce un cambio di paradigma. Di fronte a questo scenario uso le parole di papa Francesco rivolte all’associazione internazionale degli studiosi di diritto penale: “Negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina. Non si tratta di fiducia in qualche funzione sociale tradizionalmente attribuita alla pena pubblica, quanto piuttosto della credenza che mediante tale pena si possano ottenere quei benefici che richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione sociale. Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma oltre a ciò talvolta c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste. In questo contesto, la missione dei giuristi non può essere altra che quella di limitare e di contenere tali tendenze. È un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società. Coloro che hanno una così grande responsabilità sono chiamati a compiere il loro dovere, dal momento che il non farlo pone in pericolo vite umane, che hanno bisogno di essere curate con maggior impegno di quanto a volte non si faccia nell’espletamento delle proprie funzioni”. Sul carcere sembra essere calato l’ennesimo assordante silenzio. Eppure il sovraffollamento permane e si continua a morire. Qual è la situazione al momento? La situazione in carcere è drammatica. Sovraffollamento, suicidi, chiusure ingiustificate, rottura con il mondo sociale, proteste, morti. Il sistema penitenziario è in crisi grave. Una crisi che ha colpito anche il sistema minorile, per la prima volta anch’esso sovraffollato e in fiamme. In questa situazione generale cosa possono realmente le opposizioni politiche e la società civile? Possono fare molto. Prendere coscienza che la crisi di una democrazia si vede dai temi di confine, come quello penale e carcerario. Bisogna parlare alla zona grigia della popolazione e spiegare che la sicurezza così declinata è una truffa elettorale. Contro il dl sicurezza le opposizioni hanno reagito. Lo ha fatto anche la società civile. Lo sta facendo anche l’accademia. Bisogna occupare gli spazi dell’informazione per costruire un’altra narrazione. La protesta e l’impegno dei penalisti di Francesco Petrelli* Il Riformista, 3 maggio 2025 Il “giro di vite” procura consenso facile. Mettere in competizione libertà e sicurezza è l’effetto più grave del provvedimento. Dietro l’ennesimo abuso della decretazione d’urgenza nella materia penale, restano così svelate le finalità strumentali, puramente “acceleratorie”, dell’iniziativa del Governo. Ma la censura, oltre che il metodo, deve attingere anche il merito. L’Unione, infatti, già nel novembre dello scorso anno aveva indetto un’altra astensione e riunito a Roma per la prima volta l’Accademia dei costituzionalisti e dei sostanzialisti, proprio per denunciare la grave violazione da parte delle norme penali contenute nel “pacchetto sicurezza” dei princìpi costituzionali di ragionevolezza, offensività, determinatezza, eguaglianza e proporzionalità ed il totale tradimento dei valori fondamentali del diritto penale liberale. Violazioni e tradimenti che gli emendamenti al testo originale non hanno in alcun modo sanato. Restano intatte, ed in parte anche aggravate, le irragionevolezze e gli spropositi di questa iniziativa legislativa, dimostrando come dietro l’impronta securitaria, autoritaria e illiberale di quella legge si nasconda l’incapacità di porre in campo un serio e reale “incremento della sicurezza” dei cittadini, diffondendo sussidiariamente nella collettività una qualche “percezione di sicurezza”. Il “giro di vite” procura sempre consenso e plauso unanime a favore di chi lo pratica e genera attorno a sé un’estesa aura di rassicurazione. Queste potenzialità, ben note alla politica, hanno garantito in ogni tempo il successo di simili espedienti. Occorre, tuttavia, rilevare come questo “pacchetto sicurezza” per la vasta eterogeneità degli interventi, tutti sapientemente collocati nell’immaginario del disordine sociale (accattonaggio, occupazione di immobili, rivolte in carcere e CPR, violenza a Pubblici Ufficiali, blocchi stradali, daspo urbani, imbrattamenti, madri e bambini in carcere …), e per la sua generalizzata carica penitenziario, non potranno certamente produrre alcun concreto aumento della sicurezza, al tempo stesso espandono l’illusorio potere salvifico della formula “più carcere, più sicurezza”, e portano alle sue estreme conseguenze l’inganno circa il potere risolutivo dello strumento penale. Ma sarebbe ingenuo immaginare che simili interventi si risolvano semplicemente in una sorta di gioco virtuale ed in una sostanzialmente innocua truffa delle etichette. Si instaura, infatti, attraverso questo intervento legislativo, ideologicamente attrezzato, un diverso rapporto fra Stato e cittadino, fra autorità e libertà. Si indicano alla pubblica opinione non tanto singole condotte di reato, ma piuttosto categorie di rei: gli imbrattatori, gli occupanti, i manifestanti, i disobbedienti, le madri borseggiatrici, i detenuti in rivolta. Ovvero reati pensati per tipi di autore da additare al pubblico e da criminalizzare in quanto tali. Ne esce fuori una idea di società disciplinare nella quale è sufficiente una denuncia affinché un Questore in tenera età, la “eccezionale rilevanza” che impedisce il differimento della pena riguarda il “pericolo di commissione di ulteriori delitti” e non la qualità e gravità degli stessi, con la conseguenza che un alto rischio di recidiva anche se di reati bagatellari conduce in carcere la donna incinta, circostanza che era esclusa dal fascistissimo codice Rocco del 1930. Per non dire della tutela iperbolica ed ipertrofica dei tutori dell’ordine. Sembra una vetrina di quel “museo degli orrori” delle politiche criminali della contemporaneità, di cui parla Emilio Dolcini. Ma ciò che appare più grave è che con questo intervento si mettono tragicamente in competizione i princìpi di libertà con quelli di sicurezza, come se si trattasse di un super-valore al quale poter sacrificare ogni altro principio, dimenticando, invece, che senza libertà non vi può essere vera sicurezza. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Verso la sentenza che può cambiare tutto: è legittimo fare ricorso per accedere alla giustizia riparativa? di Graziano Arancio Il Dubbio, 3 maggio 2025 Una recente ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 14833 del 2025, depositata lo scorso 28 marzo, ha rinviato avanti le Sezioni unite la questione dell’impugnabilità del rigetto della richiesta di ammissione ad istituti di giustizia riparativa. Solo in apparenza la questione è di natura “meramente” tecnica ed è senz’altro riduttivo confinarla al solo ambito processuale. Essa tocca in realtà il cuore della riforma Cartabia e la sua visione di una giustizia “più umana”, che non rinunci al dialogo tra vittima e autore del reato. È noto che l’articolo 129- bis del codice di procedura penale, introdotto nel 2022 e modificato nel 2024, consente - su richiesta delle parti o d’ufficio - l’invio a un centro per la giustizia riparativa. Ma cosa succede se il giudice rigetta questa richiesta? I contrasti interpretativi che il Supremo collegio è chiamato a dirimere ruotano intorno alla individuazione della natura del rigetto: se lo si considera un atto non giurisdizionale, privo cioè di effetti concreti sul processo, dovrebbe discenderne la sua non impugnabilità. Alcuni collegi giudicanti, invece, hanno riconosciuto la possibilità di impugnare la decisione, specie nei casi in cui il mancato invio incida su diritti e interessi rilevanti come, ad esempio, la sospensione del processo per 180 giorni, prevista nei reati perseguibili a querela soggetta a remissione. La Quinta Sezione, chiamata a decidere in un procedimento per atti persecutori, ha evidenziato il carattere “concreto e attuale” dell’interesse del ricorrente, sottolineando che l’eventuale percorso riparativo avrebbe potuto portare a un esito deflattivo o, quantomeno, a conseguenze rilevanti sul piano sanzionatorio (si pensi all’attenuante del risarcimento del danno ex articolo 62 n. 6 c. p. che valorizza la partecipazione a programmi di giustizia riparativa con la vittima del reato, conclusisi con esito riparativo). Non solo: la Corte ha respinto l’idea che l’inattuabilità pratica dei centri riparativi - invocata dal Procuratore generale - possa giustificare il rigetto tout court della richiesta. Al contrario, la Corte ribadisce che il giudice ha l’obbligo di verificare concretamente l’esistenza e la disponibilità dei servizi riparativi, attualmente esistenti, previsti dalla normativa vigente, senza potersi limitare a rilevarne in modo astratto l’inoperatività. Secondo questa prospettiva, in capo all’imputato (e forse anche al condannato) v’è qualcosa in più di un mero interesse a vedere equamente valutata la sua istanza di accesso all’istituto in questione. Infatti, se difficoltà o carenze organizzative dei servizi preposti non possono giustificarne una limitazione, si profila una posizione di diritto soggettivo pieno, la cui tutela coincide tendenzialmente col controllo giurisdizionale più tipico e proprio e che si esplica negli ordinari gradi del giudizio. Ecco perché non si tratta di una questione solo processuale: a ben guardare la possibilità o meno di impugnare il rigetto della richiesta di ammissione alla giustizia riparativa è strettamente collegata alla funzione e alla concezione che attribuiamo alla pena, all’idea che la possibile sua estinzione non debba necessariamente discendere dalla più afflittiva espiazione. Insomma, la giustizia riparativa, come si è osservato sin dalla sua introduzione nel nostro ordinamento, può assumere una portata per certi aspetti rivoluzionaria del nostro sistema penale. E proprio il tema dell’impugnabilità o meno del suo rigetto costituisce una sorta di cartina al tornasole di una tale così dirompente portata. Una lettura restrittiva, che neghi l’impugnabilità, tutelerebbe la più ampia e incontrollabile discrezionalità del giudice e così, al contempo, rischierebbe di svuotare di significato una delle innovazioni più ambiziose della riforma, perché, nei fatti, la giustizia riparativa rimarrebbe relegata ad un ambito residuale e solo astratto, quando, invece, deve tradursi in strumenti concreti, accessibili e tutelabili, perché la giustizia penale non deve essere solo punizione ma, precipuamente, responsabilità, dialogo, riparazione. È anche questa la via che conduce, almeno in parte, a superare una concezione che finisce, tragicamente, con l’essere carcerocentrica e brutalmente retributiva. È alle Sezioni Unite che ora spetta il compito di restituire alla giustizia riparativa il ruolo che le compete: non un’utopia normativa, ma uno strumento vivo, concreto, efficace. Una giustizia che non si limiti a punire, ma che sappia anche “ascoltare, comprendere e trasformare”. La “vendetta” contro Cospito: gli negano anche i libri di Frank Cimini L’Unità, 3 maggio 2025 All’anarchico al 41bis vietato l’acquisto dei vangeli apocrifi e di libri di fisica e fantascienza. I libri sono pericolosi. Nel caso specifico parliamo di un testo sui vangeli apocrifi, uno di fisica quantistica e due di fantascienza. La direzione del carcere di Sassari Bancali ne ha vietato l’acquisto all’anarchico Alfredo Cospito adducendo un parere negativo dell’autorità giudiziaria che non vi sarebbe stato secondo i difensori, i quali hanno presentato ricorso. Sarà celebrata un’udienza per stabilire se Cospito può avere quei libri perché evidentemente la giustizia ha tempo da perdere. “Nell’ultimo mese - spiega l’avvocato Flavio Rossi Albertini - a Cospito era stato negato pure l’acquisto di un Cd musicale. Era stato negato l’accesso alla biblioteca del carcere che non aveva neppure provveduto a ritirare tempestivamente un pacco inviatogli dalla sorella, determinandone il rinvio al mittente”. In relazione all’accesso alla biblioteca la direzione della prigione spiegava che il “disguido” era stato generato da problemi organizzativi interni e che sarebbe stato emesso apposito ordine di servizio. Le condizioni di detenzione dì Cospito ristretto al 41bis sono peggiorate non proprio per caso dopo la condanna in primo grado per rivelazione del segreto d’ufficio del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro delle Vedove per la vicenda delle intercettazioni ambientali divulgate in Parlamento, delle conversazioni tra Alfredo e gli altri reclusi che all’epoca facevano parte del “gruppo di socialità”. Altre “coincidenze” che viene da pensare possano avere il loro peso in questa vicenda sono le dimissioni alla fine del dicembre scorso del direttore del Dap, Giovanni Russo, che aveva testimoniato non proprio a favore di Delmastro nel processo a suo carico, e ancora, il ritorno al comando della sezione 41bis di Bancali del graduato del gruppo operativo mobile che era stato trasferito proprio per il suo coinvolgimento nella faccenda delle intercettazioni. Alfredo Cospito sta continuando a pagare sulla propria pelle il lunghissimo sciopero della fame per protestare contro il 41bis non solo e non tanto per sé ma per gli altri 700 detenuti ai quali viene applicato. Le simpatie suscitate dal digiuno avevano messo in imbarazzo il sistema che da allora si sta vendicando. Era stato considerato una sorta di sciopero della fame “a scopo di terrorismo”. La storia dei libri negati è solo l’ultimo episodio di una lunga serie. Negare la possibilità di leggere rappresenta una tortura ulteriore. Libri pericolosi. Negli anni ‘70 un bambino spiegava l’arresto del padre “terrorista” dicendo: “Aveva troppi libri in casa”. Terni. Suicidio in carcere, la governatrice Proietti scrive al ministro Nordio di Alessandro Antonini Corriere dell’Umbria, 3 maggio 2025 “Di fronte all’ennesima tragedia avvenuta in un carcere tutti abbiamo il dovere di fare qualcosa, non è più possibile far finta di niente. La Regione vuole fare, e sta facendo, la sua parte chiedendo risposte al Governo”. Interviene così la presidente della Regione Stefania Proietti che, appresa la notizia del suicidio di un detenuto avvenuto nell’istituto penitenziario di Terni, si è sentita con il direttore del carcere Luca Sardella a cui ha espresso il cordoglio per la ennesima dolorosa perdita di una vita e la vicinanza e la solidarietà al personale tutto dell’istituto che è sempre più provato dalla insostenibilità della situazione. La presidente ha anche ricordato che “la Regione continua a denunciare, sin dai primi giorni dell’insediamento, i problemi che affliggono le carceri umbre, dal sovraffollamento alla carenza di personale, alle carenze strutturali di un sistema carcerario sovradimensionato rispetto alla popolazione in cui i detenuti sono inviati da altre regioni. Pochi giorni fa, ancora una volta, la presidente della Regione Stefania Proietti ha scritto al ministro della Giustizia Carlo Nordio per sollecitare la risoluzione delle questioni che attengono le quattro strutture regionali. Nella lettera la presidente ha ricordato i gravissimi e ripetuti episodi di violenza che continuano a susseguirsi, in una situazione che desta oggettivamente allarme, esprimendo una profonda preoccupazione sia per le condizioni di sicurezza in cui si trovano a dover lavorare gli agenti e il personale, militare e civile, addetto alla gestione delle carceri, sia per le drammatiche condizioni in cui vivono quotidianamente i detenuti”. La presidente ha anche invitato il ministro Nordio a visitare le carceri umbre per rendersi conto dal vivo delle problematiche che attanagliano l’Umbria più di ogni altra regione italiana. Una richiesta avanzata dalla presidente della Regione è quella di restituire prima possibile all’Umbria il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, attualmente condiviso con la Toscana, perché come organo periferico di livello dirigenziale generale del Ministero della giustizia potrà seguire da vicino le questioni relative alle carceri umbre. “Un’altra problematica ancora più delicata - ricorda la presidente - riguarda l’assistenza sanitaria, in particolare per quanto attiene la salute mentale dei detenuti che è completamente a carico della Regione anche per i reclusi che provengono da fuori Umbria, e che sconta l’assenza di una Rems mai realizzata nel passato ove contenere i casi psichiatrici più critici. Il tutto in una situazione di sovraffollamento evidente che, unito al rischio della gestione e dell’organizzazione, deriva proprio da presenze carcerarie non umbre”. In conclusione la presidente chiede con forza che il Governo intervenga sulla questione del sistema carcerario umbro con “una riforma seria del sistema penitenziario, con l’immediata attuazione del provveditorato dell’Umbria, con l’assunzione di personale di vigilanza e con il concorso alle spese sanitarie che permetta la realizzazione di una Rems e più in generale di politiche socio sanitarie in grado di ridurre le tensioni e soprattutto i rischi per la vita delle persone, detenuti e personale”. “Occuparsi della soluzione del sistema carcerario umbro è una questione morale oltre che giuridica, di dignità delle persone e di funzione della rieducazione della pena. La questione del sistema carcerario umbro non può più attendere. Ci faremo portavoce instancabili, oltre a fare la nostra parte per quanto riguarda gli aspetti sociali e sanitari, delle istanze della comunità carceraria, dei reclusi ma anche di tutti i lavoratori, chiedendo con forza condizioni dignitose per chi è recluso e per tutti coloro che operano nelle carceri umbre. Oggi purtroppo così non è”, conclude Proietti. Gorizia. Giovane triestino trovato morto nel carcere di Gianpaolo Sarti Il Piccolo, 3 maggio 2025 Il triestino trovato morto in una cella del carcere di Gorizia si chiamava Denis Battistuti Maganuco, 30 anni, residente a Opicina. Il cadavere è stato rinvenuto ieri sera, giovedì primo maggio, attorno alle 19.45. L’uomo sarebbe rimasto vittima di un malore: escluso l’omicidio e non ci sono elementi per poter dire si sia trattato di un suicidio. Il giovane era una persona con problemi di tossicodipendenza; era stato arrestato dai Carabinieri nei giorni scorsi per un furto all’esterno di una farmacia di Staranzano, dove era stato sorpreso assieme a un complice - un altro giovane triestino di Muggia - mentre rubava medicinali usati e scaduti. È stata disposta l’autopsia. “In accordo con la famiglia andremo fino in fondo per capire cosa è successo a questo ragazzo”, afferma l’avvocato Massimo Scrascia, legale del trentenne deceduto. Teramo. Detenuta muore per un malore, aperta un’inchiesta Il Centro, 3 maggio 2025 Si chiamava Rita De Rosa la quarantunenne di origini campane deceduta ieri pomeriggio nel carcere di Castrogno, a Teramo. La garante dei detenuti Monia Scalera ha visionato il fascicolo della De Rosa e parlato con gli organi interni di pertinenza. La detenuta doveva scontare una pena per furto, era benvoluta da tutto il corpo della polizia penitenziaria e dalle compagne recluse. Recentemente aveva completato con successo un corso di sartoria. La De Rosa era affetta da numerose patologie, tra cui un tumore. La donna aveva accusato un malore alcuni giorni fa ed era stata trasportata all’ospedale di Teramo, dove le era stata diagnosticata una bronchite, per poi fare rientro a Castrogno con la conseguente terapia farmacologica. Le compagne però hanno riferito che Rita stava sempre più male e accusava dei forti dolori al petto. A nulla sono valsi i soccorsi immediati dei sanitari del carcere e successivamente quelli del 118: la De Rosa è morta nel pomeriggio del primo maggio. La procura di Teramo ha aperto un’inchiesta per fare chiarezza sulle cause del decesso. Ivrea (To). Sovraffollamento, carenza di volontari e infermieri: l’allarme del Garante dei detenuti quotidianocanavese.it, 3 maggio 2025 Il Garante dei diritti dei detenuti Raffaele Orso Giacone ha tracciato un quadro aggiornato sulla situazione della casa circondariale di Ivrea durante la seduta del consiglio comunale del 29 aprile. Sovraffollamento, carenza di volontari adeguatamente formati, mancanza di risorse, pochi medici e, soprattutto, infermieri disposti e capaci di svolgere un servizio tanto importante quanto delicato. Il garante dei diritti dei detenuti Raffaele Orso Giacone ha tracciato un quadro aggiornato sulla situazione della casa circondariale di Ivrea durante la seduta del consiglio comunale del 29 aprile, evidenziando criticità, ma anche qualche segnale più incoraggianti. “La mia presenza è settimanale: entro in carcere, ascolto i detenuti e raccolgo le loro richieste. Per parlare con me bisogna fare una specifica domanda. Un foglio di carta su cui il detenuto chiede un incontro con il garante della casa circondariale. Spesso mi chiedono cose che non posso risolvere. Molte volte si tratta di un trasferimento. In tre anni, per fortuna, non ho ricevuto denunce dirette di maltrattamenti”. Raffaele Orso Giacone, ribandendo al consiglio l’importanza del ruolo del garante, sottolineando come la funzione di ascolto e di presenza rimanga fondamentale, ha poi sottolineato il problema del sovraffollamento. A peggiorare la situazione sono sicuramente la carenza di volontari formati, spesso limitati a compiti materiali, e la difficoltà nel realizzare colloqui relazionali con i detenuti, complicata anche dalla pluralità di lingue e culture e dalla burocrazia: “La situazione è ancora abbastanza tesa. Tutte le carceri, e Ivrea non fa eccezione, sono sovraffollate ed è difficile organizzarle e gestirle. In questo fanno un grande lavoro sia la direzione sia gli stessi detenuti, ma anche, aspetto importante, le altre figure che la costituzione prevede: i volontari. Fanno un po’ fatica a svolgere il loro compito, ostacolati dai lacciuoli della burocrazia finiscono spesso ad essere limitati a esaudire delle richieste materiali, come portare vestiti. Hanno bisogno come tutti di formazione e questo non sempre è possibile. Bisogna investire in questa presenza con una adeguata formazione”. Tuttavia il carcere di Ivrea può contare su presenze stabili e rassicuranti, come la direttrice e il comandante della polizia penitenziaria, che, ha spiegato Raffaele Orso Giacone, non esitano a farsi carico in prima persona dei problemi, cercando di risolverli nel minor tempo possibile. Tra le criticità e le urgenze c’è sicuramente quella per i detenuti di pensarsi in un futuro prossimo: “Trovare un lavoro o un alloggio, ecco le richieste che mi arrivano - ha detto Raffaele Orso Giacone - Servono strutture in grado di accoglierli e affiancarli e supportarli anche solo per le uscite e i permessi. Abbiamo bisogno di più comunità con personale preparato che supporti la fase di reinserimento, come quella che c’è Candia”. Altro problema pressante è la sanità penitenziaria, che dal 1° giugno tornerà sotto gestione diretta dell’Asl di Ivrea: “La salute in carcere è una questione grave - ha concluso Orso Giacone, evidenziando anche una certa assenza in carcere dei magistrati del Tribunale di sorveglianza di Vercelli - I detenuti sono spesso affetti da malattie non curate, come il diabete, problemi al cuore o di deambulazione. Ci vogliono medici e infermieri motivati e preparati, capaci di gestire situazioni complesse. Finalmente, è stato trovato una dentista, ma mancano ancora gli infermieri che possano supportarlo. Infine, va migliorata la continuità farmaceutica per chi esce dal carcere”. (Gaia Sala) Reggio Emilia. Il Consiglio comunale si riunisce in carcere Il Resto del Carlino, 3 maggio 2025 Una sede inedita per il Consiglio comunale di Reggio che si riunisce lunedì. L’assemblea di sala del Tricolore, per la prima volta nella storia della città, svolgerà infatti propri lavori nel carcere di via Settembrini, in una seduta “aperta” per fare conoscere la realtà carceraria a tutte le forze politiche e capire come migliorare le condizioni sia dei detenuti che degli operatori. L’iniziativa, che ha pochi precedenti in Italia, è stata voluta dal presidente del Consiglio comunale Matteo Iori che già il 10 luglio dell’anno scorso, partecipando alla “maratona oratoria” contro i suicidi in carcere organizzata dalla Camera Penale di Reggio, aveva annunciato che si sarebbe impegnato per realizzarla. “Il carcere è una parte della città e come tale è importante occuparsene e credo che sia anche un bel segnale poterlo fare a pochi giorni dalla scomparsa di Papa Francesco che nella sua ultima uscita visitò proprio un carcere per sottolineare quanto sia importante mettere al centro delle proprie politiche anche i detenuti e i loro percorsi di recupero”, commenta Iori. L’accesso sarà consentito solo ai consiglieri comunali e a due persone della Segreteria Generale che si occuperanno delle registrazioni audio e della trascrizione del verbale della seduta che verrà reso pubblico. Per ovvi motivi di privacy dei detenuti e per i divieti che vigono in carcere, la seduta non sarà trasmessa in streaming come di consueto. Il Consiglio comincerà con l’appello del segretario generale, a cui seguirà una breve premessa del presidente del Consiglio Comunale Matteo Iori e successivamente interverranno i relatori esterni. Dopo questi interventi si aprirà la fase in cui potranno intervenire i consiglieri comunali. Potrà intervenire solo un consigliere per ciascun gruppo politico e ognuno avrà al massimo 10 minuti. Dopo l’intervento dei consiglieri ci sarà l’intervento del sindaco e infine la parola tornerà per un ultimo intervento alla direttrice e al comandante del carcere per poter rispondere a eventuali sollecitazioni emerse dal dibattito. Sono previste cinque relazioni da parte della direttrice del carcere Lucia Monastero, del comandante Armando Di Bernardo, della garante dei detenuti Francesca Bertolini, di Lucia Gianferrari, responsabile dei progetti comunali in carcere e di Carmela Gesmundo, referente dell’area educativa. A seguire gli interventi dei consiglieri che decideranno di prendere la parola su designazione dei gruppi e del sindaco Marco Massari. Torino. “Le parole, tra noi leggere”. Cultura & carcere al Salone del Libro di Anna Grazia Stammati* tecnicadellascuola.it, 3 maggio 2025 Lunedì 19 maggio, dalle ore 14:15 alle 16:15 il “CESP-Rete delle scuole ristrette” presenterà, nell’ambito di un seminario che si svolge al Salone Internazionale del Libro di Torino, Biblioteche innovative, un modello che si diffonde, presso la Sala Book Lab del Lingotto Fiere. Il 2024 è stato per le carceri, un anno particolarmente difficile che ha registrato più di 90 suicidi e altrettanto problematici sono stati questi primi mesi del nuovo anno, nei quali sono stati già segnalati 29 suicidi. Proprio per tale motivo il CESP e la Rete delle scuole ristrette, hanno deciso, nonostante le tante difficoltà interne ai penitenziari, di perseguire con tenacia il proprio obiettivo: fare di istruzione e cultura gli elementi centrali dell’esecuzione penale. Un obiettivo che si è concretizzato con la realizzazione di attività che si sono dimostrate oltremodo preziose per i detenuti, per la capacità di costruire relazioni, di riempire di contenuti culturali le interminabili giornate trascorse spesso nel nulla, di far uscire dall’isolamento forzato la popolazione detenuta, di far acquisire conoscenze e competenze spendibili all’esterno. Tra i vari laboratori proposti, Biblioteche innovative in carcere è riuscito a rendere la biblioteca, anche in uno spazio detentivo, luogo essenziale per un apprendimento interattivo, nel quale i detenuti vengono formati come ‘operatori di biblioteca’, acquisendo contenuti e competenze specifiche per essere occupati, prima presso gli istituti penitenziari di appartenenza e, una volta nei termini di legge, anche nelle Biblioteche, pubbliche e private, dei singoli territori. Seppur con varie difficoltà e impedimenti, il progetto si sta diffondendo in più istituti penitenziari ed è in via di svolgimento, o in via di approvazione, presso la Casa di Reclusione di Saluzzo, la Casa Circondariale di Grosseto, la Casa Circondariale di Livorno, la Casa di Reclusione di Gorgona, la Casa Circondariale di Rebibbia, la Casa di reclusione di Aversa. All’interno di questo contenitore, la Rete, ispirandosi ad Adotta uno scrittore, il progetto più antico del Salone Internazionale del Libro, ha voluto creare una ‘liaison’ con il progetto che da 23 anni fa incontrare studenti e studentesse con le migliori autrici e autori contemporanei, mettendo al centro la lettura e la parola attraverso il coinvolgimento diretto degli scrittori e delle scrittrici che entrano in istituti e classi delle scuole di ogni ordine e grado di tutta Italia. Così, con l’ampliamento della partecipazione delle scuole “ristrette” ad Adotta uno scrittore (in carcere), si è cercato di saldare gli incontri con gli autori alle biblioteche degli istituti penitenziari, affinché queste, previste normativamente dall’Ordinamento penitenziario e dal successivo Regolamento, collegate in rete con le altre biblioteche del territorio, delle Scuole e delle Università degli Studi, siano strutturate in modo da diventare dei veri e propri poli culturali. In questo percorso sono stati coinvolti oltre venti istituti penitenziari, da Nord a Sud, e si è diffusa una pratica attraverso le quali le conoscenze acquisite diventano abilità utili al reinserimento sociale attivo e consapevole dei detenuti e degli internati, basate su percorsi culturali incentrati anche sulla conoscenza e sull’uso esperto delle tecnologie e delle informazioni, per un reale abbattimento della recidiva. L’attività ha previsto l’adozione di un autore o più autori che si sono alternati, presentando nella biblioteca dell’istituto penitenziario un proprio testo e lavorando in quello spazio con gli studenti, gli insegnanti, gli educatori e/o i volontari disponibili. La scelta delle scuole e degli istituti penitenziari in cui svolgere il progetto Adotta uno scrittore dovrebbe, infatti, sempre essere legata alla reale esistenza delle Biblioteche, all’utilizzo degli spazi per attività di formazione e di lettura, alla presenza di detenuti occupati nei servizi bibliotecari interni, in modo che tali biblioteche diventino dei veri e propri poli culturali. Al progetto hanno aderito, a titolo gratuito, numerosi scrittori che sono entrati negli istituti penitenziari, grazie ai docenti della Rete e così, presso la Casa di Reclusione e la Casa Circondariale di Rebibbia, la Casa Circondariale di Genova Marassi, la Casa Circondariale Pavia, la Casa di reclusione Ucciardone, la Casa Circondariale Montorio - Verona, la Casa Circondariale di Venezia - Casa di pena femminile Giudecca, si sono alternati gli scrittori: Matteo Martone, Daniele Mencarelli, Maurizio Careddu, Sara Carbone, Paola Ronco, Antonio Paolacci, SiMohamed Kaabour, Carlo Marconi, Michele Burgio, Susanna Bissoli, Manuele Fior. Gli autori hanno incontrato e si sono confrontati con i detenuti, studenti e corsisti presso gli istituti penitenziari di riferimento della Rete, contribuendo, con la propria presenza, alla diffusione di un modello culturale e relazionale in carcere che costituisce un fattore di crescita personale per i detenuti, oltre che di sviluppo di nuove professionalità, per coloro che riescono a partecipare ai corsi di formazione “Biblioteche innovative in carcere”. *Presidente CESP Pescara. Torna la “La colletta del libro”, per donare un volume ai detenuti o ai minori in affido ilpescara.it, 3 maggio 2025 Appuntamento sabato 3 maggio iniziativa promossa dall’associazione Stella del Mare e dalla casa circondariale di Pescara con il patrocinio del Comune di Pescara. Sabato 3 maggio in diverse librerie di Pescara si svolgerà la nona edizione della “Colletta del Libro”, iniziativa promossa dall’associazione Stella del Mare e dalla casa circondariale di Pescara con il patrocinio del Comune di Pescara, e la collaborazione del Centro servizi per il volontariato. Verrà chiesto di acquistare uno o più libri e poi donarli all’uscita ai volontari; tutti i libri raccolti sono destinati ai detenuti del carcere o a minori in affido. Paolone, Presidente di Stella del Mare, ha dichiarato: “Aiutare chi è in difficoltà vuol dire farlo crescere, e non c’è niente di meglio, in un luogo di reclusione, che un libro per aiutarlo nel percorso di recupero e inserimento nella società civile, come ha scritto Mauri: I libri sono un piacere che non crea dipendenza ma indipendenza. Memori dell’attenzione che l’amato Papa Francesco ha sempre avuto per i detenuti, invitiamo tutti ad imitarlo”. Nelle passate edizioni sono stati raccolti e donati complessivamente più di mille libri. Anche quest’anno tra i volontari che si alterneranno davanti le librerie coinvolte, ci saranno dieci detenuti in permesso speciale che chiederanno di acquistare i libri. È un’occasione per rendersi utili e prendere coscienza dei loro errori e poter restituire in parte alla società il loro contributo. Anche attraverso piccoli gesti come la Colletta dellLibro, possono manifestare la speranza in un futuro diverso e pensare ad un reinserimento nella vita quotidiana una volta fuori. Per questa ragione si può scrivere una dedica sui libri donati, per instaurare un dialogo con chi leggerà quel libro. Le librerie coinvolte sono: Pescara: libreria San Paolo (corso Vittorio Emanuele), Feltrinelli (via Milano), Ubik (via Firenze). Spoltore: Giunti al Punto (Centro commerciale Arca). Montesilvano: On the road (galleria Europa); o altre librerie che esporranno la locandina della Colletta del Libro. Tutti quelli che vogliono coinvolgersi, “volontari per un giorno” per 1 o 2 ore da dedicare a questa iniziativa, possono contattare il n. 347 9549548 o per mail: info@lastelladelmare.org. Padova. Detenuti e volontari uniti per ripulire la città padovaoggi.it, 3 maggio 2025 Protagonisti della giornata saranno alcuni detenuti della Casa di Reclusione “Due Palazzi”, coinvolti nell’iniziativa grazie alla collaborazione con la Magistratura di Sorveglianza e all’impegno condiviso per la costruzione di percorsi di responsabilizzazione e inclusione. Oggi, sabato 3 maggio, Padova sarà una delle tredici città italiane coinvolte nell’iniziativa nazionale promossa da Plastic Free Onlus e Seconda Chance, che vedrà impegnati fianco a fianco detenuti in permesso premio e volontari nella pulizia del territorio. In Veneto, l’appuntamento sarà in viale Gino Cappello a Padova. Protagonisti della giornata saranno alcuni detenuti della Casa di Reclusione “Due Palazzi”, coinvolti nell’iniziativa grazie alla collaborazione con la Magistratura di Sorveglianza e all’impegno condiviso per la costruzione di percorsi di responsabilizzazione e inclusione. L’attività ambientale sarà coordinata da Federica Maratini e Anna Luisa Zanettin, referenti di Plastic Free, con il supporto di Seconda Chance, associazione che si occupa del reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. Patrocinata dal Comune, l’iniziativa potrà contare sulla collaborazione di Acegas Aps Amga. L’evento rappresenta un’azione simbolica e concreta al tempo stesso, che unisce il rispetto per la natura alla possibilità di riscatto personale per chi ha commesso errori in passato. Dichiara Flavia Filippi, presidente e fondatrice dell’associazione: “Seconda Chance è sempre più un punto di riferimento per la popolazione carceraria che cerca una via per reinserirsi. Non si tratta solo di uscire per un paio d’ore a pulire. Queste giornate sono vere e proprie esperienze di comunità: si lavora insieme, si pranza insieme, spesso con i familiari, si condivide un momento di libertà e di umanità prima di rientrare in carcere. È il primo anno in cui collaborano così tanti istituti penitenziari e questo ci rende orgogliosi: oggi abbiamo una rete attiva in tutta Italia e oltre 520 offerte di lavoro già attivate per i nostri beneficiari”. Un modello inclusivo che si sposa perfettamente con la missione di Plastic Free, come spiega il suo direttore generale Lorenzo Zitignani: “Abbiamo costruito questa sinergia, giunta al terzo anno di fila, su un principio semplice: l’associazionismo deve essere aperto a tutti, mai esclusivo. Le nostre giornate di raccolta ambientale vogliono sensibilizzare, sì, ma anche offrire opportunità di riscatto e di gratitudine. Perché per cambiare il mondo serve il contributo di tutti, nessuno escluso. E poi, a far del bene non si sbaglia mai. Quindi perché non farlo?”. Milano. “Nel carcere di Bollate un’oasi di bellezza per detenute e figli” di Cristina Lacava Io Donna - Corriere della Sera, 3 maggio 2025 Francesca De Stefano, 55 anni, avvocata, è la moglie di Santo Versace e vicepresidente della fondazione intitolata al marito. Scivoli, altalene, un angolo picnic con tavoli e panchine e tanto verde: là dove c’era uno spazio esterno abbandonato, nel carcere di Bollate (MI), verrà inaugurata la settimana prossima, a pochi giorni dalla Festa della mamma, un’area riqualificata per far passare alle detenute un po’ di tempo in tranquillità con i figli. Un posto bello, dove i bambini e le madri abbiano voglia di tornare per condividere momenti preziosi. Il progetto “Abbracci in libertà” è della Fondazione Santo Versace, che l’ha realizzato con il supporto di Banca del Fucino. A seguirlo passo dopo passo, dall’idea al taglio del nastro, è Francesca De Stefano, moglie di Santo, avvocata, ex dirigente dello Stato, ora impegnata a tempo pieno nella solidarietà come vicepresidente della fondazione. Una donna che, come ripeterà spesso nella nostra conversazione, si sente grata alla vita per quello che ha ricevuto. E che, grazie anche a un percorso di spiritualità compiuto insieme al marito, sta cercando di restituire il più possibile a chi, invece, ha avuto poco o niente. Com’è nata l’idea di “Abbracci in libertà”? Un’amica ci ha segnalato questo spazio inutilizzato a Bollate. Eravamo già presenti nelle carceri con alcuni progetti, in questo abbiamo scelto di sostenere la maternità. Il momento dell’incontro tra una detenuta e un figlio è molto delicato; se si svolge in un luogo inadatto, squallido, diventa mortificante e porta dolore. Ci siamo detti: perché non ne facciamo un’oasi di bellezza in modo che sia attrattivo, che i bambini vogliano tornarci per condividere un tempo sereno con la mamma? Abbiamo deciso di dare spazio ai giovani e ci siamo rivolti ad architetti under 35. Alla fine abbiamo scelto il progetto di Imge Duzgun, 28 anni, dello studio Ideas di Milano, che ci ha emozionato di più. È uno spazio aperto con tante aree per momenti diversi; ci sono altalene e scivoli, tavoli e panche per mangiare insieme o chiacchierare, giochini educativi da condividere, aiuole fiorite, alberi e siepi per garantire la privacy. Pensate di replicare il progetto? Non è il vostro primo progetto per le detenute... No. A Taranto, nel reparto femminile, sosteniamo l’ampliamento di Made in carcere, un laboratorio dove si realizzano con tessuti di scarto accessori, magliette, borse, gadget. Pensiamo che la funzione della pena sia il recupero delle persone, e il modo per arrivarci è prima di tutto il lavoro che, è dimostrato, abbatte la recidiva. Non tutti la pensano così, purtroppo. Noi invece ci crediamo fortemente e cerchiamo di offrire gli strumenti per aiutare il reinserimento nella società. Oltre al lavoro, è importante poter esercitare la genitorialità: una detenuta che può fare la mamma si sente viva, ha una sua dignità e una motivazione in più per non tornare dentro. Aggiungo una nota personale: non sono madre, ma riesco ad appagare il mio istinto materno aiutando le madri in difficoltà a essere felici con i figli. Mi sento felice con loro. “Abbracci in libertà” è l’ultimo progetto della Fondazione. Ci racconta com’è nata? Eravamo già vicini a diverse situazioni di fragilità, come appunto Made in carcere. Qualche anno fa abbiamo deciso di organizzarci, creare una struttura. Mio marito Santo, l’amore della mia vita, voleva che la fondazione si chiamasse Santo e Francesca Versace. Gli ho detto che se avessi avuto un figlio avrei voluto che fosse come lui, un vulcano, e che questa fondazione sarebbe stata un po’ un figlio nostro. Il nome doveva essere il suo. E così è stato. Non abbiamo fatto una scelta precisa, abbracciamo la fragilità a 360°. Abbiamo un progetto internazionale in Kenya, “Il miracolo della vita”, dove abbiamo creato una casa rifugio per le giovani madri che vivono in strada. Le più fortunate si prostituiscono; le altre sniffano colla per non sentire i morsi della fame. Noi le Di che cosa vi occupate? Accogliamo grazie a una mentore che conosce quella vita; offriamo un alloggio e insegniamo loro un lavoro, affinché siano autonome. In Italia siamo al fianco della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Benzi, per le donne vittime di tratta. Con il “Gusto del bene” sosteniamo il laboratorio artigianale Redenta, dove producono marmellate e succhi di frutta. Vado spesso a trovarle, ho battezzato alcune delle loro figlie, hanno una forza incredibile. E ogni volta mi sento grata a Dio, alla vita, a mio marito, alla famiglia. Faccio un lavoro che mi rende felice, sono fortunata. Lei è avvocata, è stata dirigente alla Presidenza del Consiglio, ha lavorato in Senato. Poi ha lasciato tutto. Perché? Ero all’apice della carriera, tornavo a casa la sera tardissimo. Mi sono resa conto, però, che il mio desiderio più grande era godermi ogni momento con Santo. Ho lasciato tutto. Da vent’anni vivo in questa condizione di grazia. Il nostro è un grandissimo amore; ho conosciuto Santo a 35 anni, ora ne ho 55. Ci siamo sposati l’8 luglio 2023. Nel 2014 vi eravate già sposati civilmente. Perché la scelta del matrimonio in Chiesa, dopo nove anni? Quando ci siamo conosciuti Santo era agnostico, io una credente “tiepida”. Insieme abbiamo condiviso un cammino spirituale, abbiamo scoperto la forza della preghiera. Ci siamo arrivati mano nella mano, rovesciando le nostre priorità. Lavorare mi piaceva molto, ma solo impegnarmi nell’aiutare il prossimo mi ha resa felice. Con la fondazione posso farlo in modo sistematico, cercando di restituire il più possibile i doni che ho avuto dalla vita. Creare una rete virtuosa, perché se si lavora insieme a uno stesso fine si raggiungono risultati più importanti. Stiamo iniziando a farlo: penso alla Cittadella dei ragazzi a San Vittore Olona, per adolescenti in difficoltà, dove collaboriamo con Dolce & Gabbana. Se c’è una connessione, si ottimizzano gli interventi. Me l’ha insegnato mio marito quando ha creato la Fondazione Altagamma, che riunisce le imprese dell’eccellenza italiana. Ora lo faremo con la solidarietà. Adolescenti nel tunnel della solitudine di Walter Veltroni Corriere della Sera, 3 maggio 2025 Si ripetono tra i più giovani le manifestazioni di disagio, di ansia - parola chiave del nostro tempo - le forme di depressione o di disperazione che si tramutano in comportamenti autolesionistici. Davvero c’era bisogno di Adolescence per capire che quello che sta accadendo, da tempo, nell’animo dei ragazzi che oltrepassano la “linea d’ombra” della vita? Davvero si resta sorpresi, a bocca aperta, di fronte a quello che è accaduto a Monreale dove un ragazzo di diciannove anni ha sparato diciotto colpi di pistola, per colpire giovani rei solo di aver raccomandato ad alcuni guidatori spericolati di scooter di andare più piano per non investire i frequentatori di un luogo affollato? Da anni, almeno dall’inizio del Covid, su questo giornale si richiama l’attenzione su quella che non esito a definire un’emergenza. Si ripetono tra gli adolescenti le manifestazioni di disagio, di ansia - parola chiave del nostro tempo -, le forme di depressione o di disperazione che si tramutano in comportamenti autolesionistici. Si vada con la memoria a questi mesi, ci si sottragga alla futile smemoratezza del presentismo, e si ritroveranno mille episodi di violenza giovanile, di atti gratuiti di sangue, di conflitti tra coetanei o con i genitori sfociati in sconvolgenti e strazianti notizie la cui lettura non smette di atterrire. E non sono necessariamente solo le condizioni sociali, come nel caso del ragazzo del quartiere Zen di Palermo, a determinare questi comportamenti. Il male di vivere dei ragazzi è trasversale e non conosce confini. I dati riportati dal libro “Adolescenti interrotti” di Stefano Vicari, non un passante ma il responsabile dell’unità operativa di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell’ospedale Bambino Gesù, sono scolpiti nella pietra. Proviamoli a leggerli pensando che dietro a quei numeri ci sono gli occhi di una ragazza o di un ragazzo: “Le visite in urgenza sono rimaste stabili per molti anni, circa 230 all’anno, fino al 2013. Da allora, hanno iniziato a crescere: aumentano progressivamente (ma sarebbe più corretto dire esponenzialmente) toccando quota 1059 nel 2019, anno pre-pandemico, e raggiungendo il record di 1824 nel 2022”. E ogni anno, nel mondo, ci sono 46.000 suicidi di adolescenti, uno ogni quarto d’ora. Il mondo appare oggi ai ragazzi come una selva di pericoli, un luogo dal quale ritrarsi chiudendosi in sé stessi, fino alla soluzione estrema dell’Hikikomori, o cercando, sempre più nell’alcol, un modo per fuggire dal presente e dal contesto. Vengo da una generazione che fu falcidiata dall’ improvviso arrivo, la cui genesi non smette di suscitare sospetti, di una massa spaventosa di eroina che devastò i giovani adulti e gli adolescenti di quel tempo. Ma ora il fenomeno del disagio è più diffuso, più esteso e, se negli anni settanta prevaleva la delusione per sogni non realizzati, ora a prevalere è la sensazione di vivere in un tunnel senza fine, popolato di lupi. E di essere sempre sotto il giudizio degli altri, inseguiti dalla messa in pubblico dei propri difetti, isolati nella finta socialità dei social. Ci ricorda Vicari che in Italia il 78,3% dei bambini tra gli 11 e i 13 anni utilizza Internet tutti i giorni e lo fa soprattutto attraverso lo smartphone. “Inoltre si abbassa sempre di più l’età in cui si possiede per la prima volta uno smartphone, e i bambini che utilizzano il cellulare tutti i giorni sono sempre di più: erano il 18,4%o nel biennio 2018-19, il 30,2 nel 2021-22, oggi superano il cinquanta per cento”. Bambini tra gli undici e i tredici anni, nell’età fondamentale della vita. Ancora Vicari: “Dati del 2023 indicano che i bambini di età compresa tra i 6 e i 12 anni trascorrono, in media, tre o quattro ore davanti a un display”. Tutto senza conseguenze? Un semplice adeguamento ai doveri del tempo? Non sembra, se un recente studio su 2400 bambini sotto i cinque anni, citato nel libro di Vicari, dimostra come “trascorrere più di due ore al giorno davanti al display si accompagni a una riduzione delle capacità di concentrazione e della memoria a breve termine”, così come delle “capacità linguistiche e cognitive”. Ma la questione, sotto questo aspetto, non sembra riguardare solo i giovani. L’Ocse ha certificato recentemente la recessione cognitiva nella quale siamo immersi: un terzo della popolazione ormai non si orienta più nella lettura di un paragrafo di testo. Siamo diventati followers, non più cittadini. E se ne vedono le conseguenze, esposti come siamo alle fandonie comunicative e alla follia di poteri senza ragione e razionalità. Ci sono evidentemente molte cose da fare per genitori, insegnanti, governanti. La prima è capire, incontrarsi, a cellulari spenti, parlarne. E poi, se dovessi indicare una sola priorità contro il rischio delle “vite interrotte” direi scuola, scuola, scuola. Immaginare la formazione dei ragazzi, e degli insegnanti, in questo tempo digitale, cercare di non diventare schiavi delle tecnologie ma essere capaci di guidarle a fini di crescita collettiva, far divenire le scuole, magari tutto il giorno, luoghi di incontro fisico e di espressione della creatività dei ragazzi, questo sì, mi sembra decisivo. La fragilità può non essere una malattia, può diventare uno strumento di comprensione e gestione del proprio percorso di vita. Ma questo è possibile a una sola condizione: non essere mai lasciati senza relazioni umane e sociali. Né i genitori davanti alla porta chiusa della stanza dei propri figli, né gli insegnanti di fronte al dovere di dire dei difficili no, né i ragazzi costretti, dallo spirito del tempo, a stare con la testa curva su uno schermo, soli. Migranti. Il sistema di accoglienza al collasso: sulla strada finiscono anche i rifugiati di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 3 maggio 2025 Il Governo si concentra sulle espulsioni, ma ogni 100 sbarcati ne rimpatriamo 8. Mentre chi rimane finisce sulla strada anche se ha diritto all’asilo: il caso del Cara di Bari. Nel 2025 sono sbarcati più migranti che nello stesso periodo del 2024. Il trend ribassista che il governo vedeva confermato anche per quest’anno è stato cancellato dagli arrivi delle ultime settimane. Dal 25 aprile al primo maggio sono sbarcate 2.659 persone. Un anno fa, stesse date, gli sbarchi erano stati 106. Mentre nel cpr di Gjader, in Albania, ci sono una ventina di irregolari in attesa di rimpatrio, nell’hotspot di Lampedusa si contano 1.052 ospiti. Numeri da “centro al collasso”, attaccava Giorgia Meloni quando al Viminale c’era Luciana Lamorgese, promettendo il blocco navale. Gli sbarchi, invece, sono aumentati anche col governo Meloni, arrivando a 157mila nel 2023, ma così tanti dal 2017. Poi il calo in seguito al memorandum tra Bruxelles e Tunisi: 66mila nel 2024, meno 60% rispetto al 2023. Il 10 aprile il governo ha parlato, evidentemente troppo in fretta, di trend confermato nel 2025. E adesso? Decreto dopo decreto, la strategia si riassume in poche parole: difesa dei confini, procedure in frontiera, centri per il rimpatrio (cpr), espulsioni. Dunque? Su 13.779 bangladesi sbarcati nel 2024 (sono i più numerosi anche quest’anno), i rimpatri sono stati 73, di cui solo 11 transitati da un cpr. Rispetto ai 66mila arrivi via mare, l’anno scorso abbiamo espulso 5.414 persone, l’8 per cento. Tutti gli altri, regolari o no, restano. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha rivendicato un aumento dei rimpatri del 16% rispetto al 2023. “A dimostrazione dell’efficacia della strategia messa in campo per contrastare l’immigrazione irregolare”, dichiarava il 27 dicembre. Bene, ma parliamo di 800 persone in più per un Paese, il nostro, dove nel 2024 sono state presentate 158.712 richieste d’asilo. Delle 90mila decisioni adottate durante l’anno, il 68% è negativo: 62mila nuovi irregolari. A fronte, appunto, di 5mila espulsioni. Come gestiamo la presenza dei 57mila irregolari che non rimpatriamo perché gli accordi coi relativi Paesi d’origine non ci sono o funzionano male? In attesa di capire se, dove, come e quando si concretizzerà la proposta della Commissione Ue sui cosiddetti hub di rimpatrio in Paesi diversi da quelli di origine, l’unica risposta è la promessa delle espulsioni, che non possiamo mantenere. Ma c’è di peggio. L’anno scorso 6mila richiedenti hanno ottenuto lo status di rifugiato, 11mila la protezione sussidiaria e 12mila quella complementare, per un totale di 28.807 persone. Hanno il “diritto di restare in Italia”, come lo chiama qualcuno, ma per gli italiani legittimamente preoccupati dall’immigrazione irregolare non è una garanzia. Quello che è accaduto ai primi di maggio nel Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Bari è indicativo delle conseguenze di una strategia politica che punta unicamente al rimpatrio. “Dal 27 gennaio 2025 a oggi, il Cara ha sfrattato più di 100 persone che da pochi giorni avevano ricevuto la protezione internazionale, senza alcuna sistemazione alternativa. Non avendo accesso al Sai (Sistema di accoglienza e integrazione, la seconda accoglienza post-protezione internazionale), ci ritroviamo senza alloggio né cibo, spesso per strada, e senza documenti d’identità reali se non un foglio A4 che attesta lo status”, denunciano i migranti del centro di Bari e quanti di loro hanno già ottenuto protezione internazionale, in una lettera diffusa da Sportello sindacale Fuorimercato Bari. Grazie alle “pressioni sulla prefettura” successive alla morte di “quattro migranti in cinque mesi nel centro”, e dopo le proteste per le condizioni invivibili (“acqua gelata per tutto l’inverno, container sovraffollati, bagni allagati, scarafaggi, ratti e cimici”), la Commissione ha accelerato le procedure d’asilo. Ma “una volta ottenuta la protezione internazionale bisogna lasciare il Cara entro 5 giorni”. E “con la protezione internazionale si vive per strada - denunciano -. Perché i canali Sai, gestiti dai Comuni, sono insufficienti”, e lasciati soli “non si ha modo di completare la procedura per ottenere i documenti perché in questura le informazioni sono fumose e incomprensibili”. Il risultato? “Con la protezione internazionale, senza una residenza ufficiale riconosciuta dall’autorità locale, ossia dai Comuni, è impossibile compiere qualsiasi passo amministrativo: richiedere la carta d’identità, aprire un conto bancario. E senza un documento d’identità è estremamente difficile accedere alla formazione o trovare un lavoro sicuro e legale”. Insomma, irregolari anche se regolari, alla faccia della sicurezza. Quello che succede a Bari non è un caso isolato. Il rapporto ‘Accoglienza al collasso, Report 2024’ di ActionAid e Openpolis evidenzia il peggioramento nella gestione di chi ha “diritto a stare in Italia”. Secondo il rapporto, le richieste di inserimento nel Sai da parte delle prefetture hanno subito un “calo vertiginoso” a partire dal decreto legge 20/2023, che ha di fatto escluso i richiedenti asilo dal circuito Sai, mentre nei grandi centri dell’accoglienza straordinaria il governo ha “azzerato i servizi di informazione e orientamento legale, orientamento al territorio, assistenza psicologica e corsi di lingua italiana”. E una volta usciti da questo limbo? Per i trasferimenti dai Centri di accoglienza straordinaria (Cas) al Sai non c’è alcuna linearità, si legge. Al contrario, aumentano gli episodi di “revoche dell’accoglienza per richiedenti riconosciuti rifugiati, senza trasferimento in Sai, mandandoli quindi per strada”. Nonostante gli inserimenti siano stabili, tra 2023 e 2024 migliaia di persone aventi diritto non sono riuscite ad accedere al Sai e sono finite sulla strada. Facciamo di tutto per trattenere i richiedenti, addirittura in Albania, ma accettiamo di perderli di vista una volta riconosciuto il loro diritto a rimanere, condannandoli a marginalità, lavoro nero, sfruttamento e, perché no, al crimine, anche quando si tratta di minorenni. Importa? “Non c’e? monitoraggio ne? valutazione”, dice il rapporto. “L’ultima relazione annuale del Viminale sull’accoglienza riguarda il funzionamento del sistema nel 2021”. Mentre la macchina dei rimpatri resta al palo con numeri ininfluenti, la fabbrica degli sbandati gode di ottima salute. Migranti. “Le persone trattenute in Albania sono in pericolo” di Luciana Cimino Il Manifesto, 3 maggio 2025 Il rapporto delle dem Rachele Scarpa e Cecilia Strada a Strasburgo. Nell’ultimo mese le dem Rachele Scarpa (deputata) e Cecilia Strada (europarlamentare) hanno visitato il cpr di Gjader 10 volte, assieme ad altri membri delle opposizioni e con il supporto del Tavolo asilo e immigrazione (Tai). Scarpa e Strada hanno tratto dalle loro ispezioni un rapporto dettagliato sulle condizioni di vita a cui sono costretti i migranti trattenuti in Albania. Lo scorso 30 aprile il testo è stato trasmesso al Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti del Consiglio d’Europa. Le conclusioni a cui giunge il documento sono molto gravi: le persone detenute oltre l’Adriatico rischiano la salute e la vita a causa del fallimentare progetto di esternalizzazione delle frontiere portato avanti con ostinazione da Giorgia Meloni. Nei primi 13 giorni di trattenimento, su complessivi 41 transitati, si è verificata una media di 2,7 tentativi di suicidio o di atti di autolesionismo al giorno in un contesto dove il soccorso non può essere immediato: l’unico ospedale di secondo livello raggiungibile si trova a Tirana, a più di un’ora di distanza. “Dalla semplice lettura del registro degli eventi critici - denunciano le parlamentari del Pd - emerge che non è stata effettuata alcuna selezione per escludere che persone con vulnerabilità psichiatrica fossero condotte nel cpr albanese”, anche se la direttiva del ministero dell’Interno del 19 maggio 2022 lo imporrebbe. Per quanto fuori dai confini, il centro di detenzione di Gjader si configura come cpr italiano pertanto le persone trattenute dovrebbero essere sottoposte a una valutazione di idoneità alla detenzione da parte di un medico del sistema sanitario nazionale che escluda seri problemi di salute fisica o mentale. Questo non è accaduto per tutti i migranti trasferiti in Albania ledendo il loro diritto costituzionale alla salute, tanto che su 41 persone trasferite, almeno 12 sono rientrate in Italia per inidoneità medica o mancate convalide del trattenimento. Senza dimenticare che il viaggio verso Gjader comporta l’uso di navi della marina militare non attrezzate per gestire persone con problemi di salute. “Almeno due persone, di quelle valutate a Bari, manifestavano da giorni problemi fisici o comportamenti spia di un grave stato di malessere - si legge nel rapporto inviato a Strasburgo - . Abbiamo ragione di ritenere che si tratti del trattenuto Id 30, che lamentava da settimane dolori all’addome e a cui era stata diagnosticata presso Gjader una cisti pancreatica superiore a 6 centimetri e del trattenuto Id 23, che dal giorno 15 aprile manifestava con consistenza comportamenti anticonservativi”. Un altro migrante detenuto, visitato per l’ultima volta a novembre 2024 e già in terapia con diversi farmaci, ha compiuto 8 atti di autolesionismo e ha tentato di togliersi la vita in meno di 48 ore. “Dai colloqui emerge che nessuna delle persone trasferite aveva compreso che sarebbe stata portata in Albania fino al momento dello sbarco e nessuno ha ricevuto un congruo preavviso del trasferimento stesso, questo esacerba le criticità psicologiche”, spiegano Scarpa e Strada. Le esponenti del Pd sottolineano anche le difficoltà trovate nello svolgere lo loro funzione ispettiva tra registri compromessi (anche attraverso sbianchettamento dei testi), documenti spariti e collaborazione difficile con i gestori del centro. “Come tutti i cpr italiani anche quello di Gjader è un luogo patogeno - osserva Scarpa - il governo ha esportato un modello che genera e produce esiti del genere e racconta che le garanzie sono le stesse ma non è vero, soprattutto il diritto alla salute: le testimonianze e le evidenze raccolte mostrano che la vita e l’incolumità di chi si trova trattenuto a Gjader sono in pericolo”. Di conseguenza le deputate dem chiedono “in via prioritaria e urgente che il Comitato europeo per la prevenzione della tortura organizzi una visita ad hoc” nella struttura albanese. “Va rigettata l’esternalizzazione delle frontiere di Meloni che continua a propagandare fake news - denuncia al manifesto Scarpa - queste persone non sono detenute perché hanno commesso eventuali reati ma solo perché non hanno i documenti in regola, è un’assurdità”.