Lavoro e sussidiarietà per risolvere il dramma delle carceri di Raffaele Cattaneo Tempi, 31 maggio 2025 Sovraffollamento, suicidi, immobili fatiscenti. Bisogna coinvolgere privati e terzo settore per dare una speranza a chi finisce dietro le sbarre. Questa settimana, nel carcere di Varese, è morto un detenuto di 33 anni, non è chiaro se per suicidio o per cause naturali. Per alcune sere i detenuti - 101 rispetto ai 53 posti regolari - hanno protestato battendo sulle sbarre e gridando “assassini” per oltre un’ora. Ora provate a immaginare la scena e pensate di trovarvi immersi per un’ora ad ascoltare queste urla, in un carcere che ospita il doppio dei detenuti previsti, in un edificio fatiscente che risale al 1893, dichiarato dismesso nel 2001 e dove l’acqua calda nei bagni è stata portata solo nel 2017. Questo è solo uno dei tanti episodi che accadono nelle carceri italiane, dove i dati impressionanti dei suicidi negli ultimi tre anni sono rispettivamente 85, 70 e 91, con un tasso rispetto alla popolazione esterna venticinque volte più alto; carceri in cui i casi di autolesionismo, secondo i dati del Rapporto Antigone, sono in crescita del 40 per cento e riguardano oltre un quarto dei detenuti. Carceri che ospitano 62.749 detenuti a fronte di 46.705 posti disponibili su 51.285 posti regolari, ovvero un tasso di sovraffollamento medio del 134 per cento, con punte di oltre il 240 per cento e, in Lombardia, valori normalmente intorno al 200 per cento. Un “sistema infinito” - L’art. 27 della Costituzione recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Possiamo dire che il nostro sistema carcerario oggi tenda alla rieducazione del condannato? Oppure è forse una sorta di “università del crimine”, dove chi entra rischia di trovarsi invischiato in un sistema caratterizzato da “aria ferma” (titolo di un film sulla vita nelle carceri), “ozio senza riposo, ove il facile è reso difficile dall’inutile” (frase spesso scritta sui muri delle nostre carceri)? Un “sistema infinito” - come è stato definito dall’associazione Spazio Aperto, in un prezioso convegno svoltosi a Milano, ricco di spunti e proposte concrete - nel quale si entra per rischiare di non uscirne più? È un tema che non possiamo più ignorare, soprattutto oggi, quando nell’opinione pubblica l’idea prevalente è: “Mettiamoli in galera e buttiamo via la chiave”. Il dato più rilevante, a mio parere, è quello sulla recidiva, ovvero il ritorno a delinquere dopo un periodo di detenzione. Ma che cosa riduce la recidiva? Condizioni carcerarie dure e punitive, che lascino un segno indelebile nella coscienza del carcerato e scoraggino la ripetizione del crimine, o un carcere che miri a riabilitare il detenuto, responsabilizzandolo e dandogli strumenti per reinserirsi nella convivenza civile? Secondo un rapporto del Cnel del 2024, “è significativo l’abisso che separa lo spaventoso tasso di recidiva del 70 per cento, stimato sull’attuale popolazione carceraria, da quello di solo il 2 per cento che si ottiene se si limita l’osservazione ai circa 20.000 detenuti che hanno un contratto di lavoro”. Forse, allora, la questione va affrontata in termini diversi. Qual è l’interesse prevalente della collettività? La punizione di chi ha commesso un reato, offendendo l’intera comunità, o il fatto che il colpevole non torni a delinquere? Se, come io penso, è il secondo, allora la soluzione esiste e passa dal lavoro. La proposta dell’associazione Spazio Aperto suggerisce di coinvolgere gli imprenditori privati a fianco dello Stato, per costruire nuove carceri che al loro interno abbiano anche vere e proprie attività produttive, sostenute da un pacchetto di benefici fiscali. Ma anche nelle carceri esistenti, dove ci sono possibilità concrete di lavoro, la recidiva crolla. Esperienze come quelle del carcere di Bollate o della cooperativa Giotto nel carcere di Padova sono esemplari. Privato e sussidiarietà - Concludo con una riflessione più generale: il coinvolgimento, in un’ottica sussidiaria, del terzo settore e del privato anche in questo ambito ha dimostrato di essere efficiente ed efficace. Altre esperienze lo dimostrano, come le prime comunità di accoglienza o le case-famiglia per detenuti, come alternativa al carcere, soprattutto per persone che hanno bisogno di fare un percorso per recuperare il proprio equilibrio. Come, ad esempio, ma non esclusivamente, nel caso dei moltissimi detenuti tossicodipendenti, circa un quarto del totale. Ma per costruire queste comunità di accoglienza per i detenuti, occorre la creatività e l’impegno di vocazioni speciali che si trovano nel terzo settore, nell’impresa sociale, nel no-profit, prima e più che nelle strutture dello Stato. Dunque, la sussidiarietà come metodo di governo e il coinvolgimento del privato possono essere la strada per affrontare e risolvere anche il tema drammatico delle carceri: sistema infinito di sofferenza e di pena, ma non di rieducazione e recupero della dignità di chi ha sbagliato. Sorpresa: La Russa è pronto a lottare per gli sconti di pena di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 maggio 2025 Emergenza carcere, nel giorno dell’ennesimo suicidio il presidente del Senato apre alla liberazione anticipata speciale. Un grido strozzato in una cella del carcere Pagliarelli di Palermo, mercoledì scorso. L’ennesimo. Il trentaquattresimo dall’inizio di questo anno maledetto, scandito da una mattanza silenziosa che nessuno sembra voler veramente ascoltare. L’ultima vita spezzata apparteneva a un uomo che avrebbe dovuto riassaporare la libertà tra appena dodici mesi. Lottava contro la tossicodipendenza. La sua disperazione è l’emblema di un sistema penitenziario allo sbando dove la dignità è annichilita da numeri spaventosi, numeri che urlano un’emergenza nazionale: oltre 16.000 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. In questo scenario apocalittico, dove la “certezza della pena” si trasforma nella certezza dell’annichilimento, un segnale inattivo, flebile ma potenzialmente rivoluzionario, arriva dalla sommità dello Stato. Ignazio La Russa, Presidente del Senato, uomo simbolo di Fratelli d’Italia, custode di un rigore penale ultra intransigente, rompe un tabù. Non parla di indulti, rifiuta l’amnistia. Ma la sua esperienza di ex penalista gli impone di guardare in faccia l’orrore e con una nota, ufficialmente apre alla liberazione anticipata speciale. “Non sono disponibile a indulti e amnistie ma ho fatto il penalista e conosco bene la situazione delle carceri, e sono convinto che accanto alla certezza della pena vi debba essere la certezza che la detenzione sia scontata in condizione di assoluta civiltà. E soprattutto, sono convinto si debba spezzare quella catena della recidiva che fa pensare a chi viene detenuto che non vi siano alternative. Il governo ha approntato un piano per affrontare quella che ormai è una vera emergenza, con una presenza di detenuti che spesso arriva al 150% della capienza possibile negli istituti penitenziari. In attesa che alle parole seguano i fatti, ci vorranno almeno due o tre anni prima che le riforme prendano piede. Allora, in questo tempo, vorrei impegnarmi da una parte a favorire il dialogo tra i ministeri competenti e la proposta di “Spazio Aperto” - che ho trovato interessante - dall’altra a favorire a titolo personale l’esame di una proposta sul tipo di quella di Giachetti che aumenti gli sconti di pena già previsti dalla legge per un periodo sufficiente a superare l’emergenza”. È il messaggio con cui il presidente del Senato Ignazio La Russa ha acceso un dibattito destinato a scuotere i palazzi della maggioranza di centrodestra. Un invito a guardare oltre l’orizzonte degli slogan, per mettere al centro un problema da tempo ignorato: il carcere nostrano al collasso. Come riferisce l’associazione Antigone nel suo ultimo rapporto, al 30 aprile 2025 i detenuti in Italia erano 62.445, a fronte di una capienza regolamentare di 51.280 posti. Ma considerando i posti non disponibili (oltre 4.000), il tasso reale di affollamento è del 133%, con circa 16.000 persone che non hanno un posto regolamentare. Su questa folla umana, come detto, si abbatte un’onda nera: 34 suicidi dall’inizio dell’anno, l’ultimo dei quali è avvenuto mercoledì scorso nel penitenziario siciliano di Pagliarelli. L’uomo, con una pena residua di un anno e alle prese con una tossicodipendenza difficile da gestire in cella, non ce l’ha fatta. Un dramma che si ripete con frequenza spaventosa, e che racconta l’urgenza di misure concrete. L’antefatto: l’incontro e la proposta Giachetti - Lo spiraglio non è nato per caso. È il frutto di un incontro concreto, avvenuto la scorsa settimana nello studio del Presidente del Senato. Ad incontrare La Russa sono andati Roberto Giachetti, deputato di Italia viva, storico esponente radicale, e Rita Bernardini, Presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, da decenni - con spirito pannelliano - in prima linea per i diritti dei detenuti. Un dialogo franco, costruttivo, che ha portato La Russa a superare pregiudizi ideologici e a riconoscere la gravità incombente. Al centro del colloquio, la proposta concreta elaborata da Giachetti e sostenuta dall’opposizione tranne il Movimento Cinque Stelle. Non uno “svuota carceri” indiscriminato, bensì una misura temporanea, mirata e selettiva. Oggi chi dimostra buona condotta - niente aggressioni, rispetto delle regole, partecipazione ai percorsi di recupero - può già contare su uno sconto di 45 giorni ogni sei mesi di pena. Giachetti spinge per portare questo beneficio a 75 giorni, per un periodo limitato di due anni. Un’operazione calibrata, che esclude automaticamente chi ha aggredito il personale penitenziario e che punta a scaricare almeno tremila posizioni entro l’anno. La Russa, dal canto suo, crede che basterebbe fissare la soglia a 60 giorni, “così da non svuotare il carcere ma consentire alla pena di essere scontata in modo civile”. E ha ripetuto in questi giorni, spiegando di aver già confrontato l’ipotesi con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni: “A che servono sale cinema o corsi di musica se poi otto persone devono condividere quattro metri quadrati”? Non è dato sapere la reazione di Palazzo Chigi, ma il fatto stesso che il tema sia sul tavolo del vertice è significativo. Ancor più significative sono le uscite di altri esponenti della maggioranza. Renato Brunetta, Presidente del Cnel ed ex ministro, pur non entrando nel merito della proposta Giachetti, insiste sulla necessità di “interventi rapidi”, suggerendo di concentrarsi sui “6-7 mila detenuti con una pena residua inferiore a un anno”. Evoca con forza interventi sul lavoro, l’istruzione e il reinserimento, “fondamentali per ridurre la recidiva”. E il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto (Forza Italia), in videocollegamento al convegno “La fine del sistema infinito”, pur ribadendo la linea dura dell’esecutivo: “Il governo non ha la passione per degli svuota carceri perché riteniamo che non siano provvedimenti rieducativi. Non si può lasciare il carcere perché non c’è posto”, ricorda che in Parlamento “è stata bocciata una norma” sullo sconto di pena presentata da Giachetti. Alla fine del suo intervento Sisto va oltre e lascia intendere che l’apertura di La Russa potrebbe non essere un fuoco fatuo: “Magari si potrebbe valutare una proposta orientata verso percorsi rieducativi”. E alla domanda diretta sull’apertura di La Russa alla norma Giachetti (con modifiche), la risposta è un semaforo giallo, quasi verde: “Se dovesse accadere non saremo noi di FI a storcere il naso”. L’incontro La Russa-Giachetti-Bernardini ha quindi aperto una crepa nel muro di diffidenza della maggioranza. La proposta Giachetti, con la mediazione sui giorni proposta da La Russa (60 invece di 75) e le rassicurazioni sulla selettività (nessun beneficio per gli aggressivi), diventa terreno concreto di una possibile trattativa bipartisan. Ma la strada è irta di ostacoli. La resistenza culturale nel centrodestra ad ammorbidire le misure penali è forte. Il governo Meloni dovrà decidere se assecondare l’iniziativa del suo stesso Presidente del Senato, trasformando quello “spiraglio” in un disegno di legge d’urgenza. Ogni giorno di ritardo ha un costo umano inaccettabile, segnato dal rischio concreto dell’ennesima ecatombe carceraria e situazione esplosiva che non sarà certo l’ennesima legge repressiva ad evitarla. “Nuove carceri con posti di lavoro per i detenuti per evitare la recidiva” di Nino Luca Corriere della Sera 30 maggio 2025, 31 maggio 2025 Il progetto dell’associazione Spazio Aperto presentato a Milano. Il presidente del Senato La Russa: “Certezza della pena, ma è forte ma occorre pagare in condizioni di assoluta civiltà”. Il Centro Congressi Fondazione Cariplo di Milano ha ospitato un importante momento di confronto sul sistema carcerario italiano. Il convegno intitolato “La fine del sistema infinito, il sistema carcerario”, ha visto la partecipazione del presidente del Senato Ignazio La Russa, del governatore della Lombardia Fontana e del sindaco di Milano Giuseppe Sala. Il progetto dell’associazione Spazio Aperto è stato illustrato dal presidente dell’associazione “Spazio Aperto”, Marco Martellucci. “Ad oggi, abbiamo già registrato 33 suicidi nelle carceri italiane. ben 35 suicidi tra gli agenti penitenziari”. Martellucci sottolinea la drammaticità del momento: La situazione è drammatica. “Il sovraffollamento ha ormai raggiunto il 120%, con circa 62.000 detenuti a fronte di soli 51.000 posti disponibili. Oltre il 50% delle strutture carcerarie è obsoleto, costruito prima del 1980. La nostra proposta mira a costruire nuove strutture penitenziarie, all’interno delle quali i detenuti possano lavorare per favorire il loro reinserimento nella società. È la fine del cosiddetto “sistema infinito”: un meccanismo in cui il detenuto, una volta uscito dal carcere, commette nuovi reati, rientra in carcere e si alimenta così il fenomeno della recidiva”. Sul tema lavoro del detenuto si è soffermato l’avvocato Dario Gareri. “Occorrono spazi adeguati e un lavoro regolare, tutelato da un contratto collettivo nazionale, nel rispetto della normativa vigente. La retribuzione sarà suddivisa in cinque parti: una quota destinata al risarcimento delle vittime, una alle spese carcerarie e processuali, una per il sostegno alla famiglia del detenuto, una accantonata per il futuro, e una parte utilizzabile durante la detenzione”. Il sindaco di Milano Giuseppe Sala, si è soffermato sulla situazione di San Vittore. “Sul carcere di San Vittore, capisco che rispetto agli avvocati e ai tanti che fanno servizio di volontariato averlo così vicino in città ha senso. Ma rimane il fatto che non si può pensare di andare avanti a lungo con un carcere così sovraffollato e con dei servizi non dignitosi. Il problema è San Vittore perché le altre carceri comunque alla fine funzionano e sono considerate anche delle ottime carceri nello scenario italiano”. ? In merito ad un possibile spostamento dell’istituto penitenziario, il sindaco che “sarei favorevole a verificare le condizioni, però non ho mai detto che sono totalmente contro”. Poi è stata la volta del presidente del Senato Ignazio La Russa. “In cima ai miei pensieri c’è la certezza della pena, chi sbaglia deve pagare, ma è altrettanto forte da parte mia il convincimento che chi deve pagare deve pagare in condizioni di assoluta civiltà e in condizione da far sperare che non ci ricaschi”. La Russa ha sottolineato che “il convegno odierno punta soprattutto a questo, evitare le recidive, una materia da attenzionare con particolare forza”. Il tema delle carceri, era stata la sua premessa, è un argomento “che io sento molto vicino”. Il presidente del Senato ha sottolineato però di non avere “un potere decisionale su questo tema e, tengo a sottolinearlo, parlo da presidente del Senato, cioè a titolo personale” e che poi “tocca alle forze politiche, compresa quella a cui appartengo e sono iscritto cioè Fratelli d’Italia, fare le debite valutazioni” “Nuovo giunto”, quando il carcere può prenderti la vita di Cesare Battisti L’Unità, 31 maggio 2025 Questo racconto dice come e perché la maggior parte dei suicidi accada nei primi giorni di carcerazione. È il modo poetico per far sapere di una grande tragedia: prevedibile, annunciata, consumata e subito dimenticata. Quella delle 33 persone detenute che si sono tolte la vita dall’inizio dell’anno. Dopo i 90 suicidi nel 2024, il numero più alto da trent’anni a questa parte, superiore addirittura al record che sembrava ineguagliabile di 84 suicidi nel 2022. Per alcuni giorni si è rintanato in cella. Uscire per l’ora d’aria voleva dire mischiarsi al carcere, sfiorare i muri e la sporcizia che li tiene in piedi, sentire il bisogno e la vergogna di accodarsi al macchinale andirivieni. Cominciare a morire a ogni parola pronunciata solo per ispessire il tempo. Non ce la faceva e si rannicchiava, come la preda quando chiude gli occhi per negare l’attacco. È una forma di suicidio passivo, il primo tentativo al quale si abbandona ogni nuovo giunto. È il momento in cui il carcere ci accomuna tutti, forti e deboli, grandi e piccoli, innocenti o colpevoli. Nell’impotenza più assoluta c’è qualcosa che si rompe, la diga cede e, come il martire che si offre a Dio, il nuovo giunto aspetta solo di essere inondato. Ma la morte liberatrice non arriva, lui ricomincia a respirare, staccando il corpo dalla coperta immonda, cerca il punto dove appendere la corda, se proprio non ce la dovesse più fare. C’è chi non vuole dare un minuto in pi ù alla prigione e allora si alza a occhi chiusi, strappa il lenzuolo, comincia a intrecciare. È noto come la maggior parte dei suicidi in carcere succedano nei primissimi giorni di prigionia. La corda è la speranza alla quale il detenuto appende i giorni e le ore di agonia, è anche la via di uscita che si tiene in serbo e grazie alla quale trova il coraggio di uscire allo scoperto. Di ingurgitare la pasta scotta al sugo e specchiarsi sulla faccia attonita dei compagni, assuefarsi alle espressioni burbere di guardie avvizzite dal lavoro, andare all’aria senza aspettarsi niente e dirsi che sarà solo per poco, tanto la corda non gliela può togliere nessuno. Ed è così che essa diventa tanto lunga che i piedi toccano per terra, le gambe si muovono da sole, i passi si fanno fermi e sempre più veloci. I carcerati diventano persone e le chiacchiere non sono più il rumore, pare vogliano digli qualcosa e così il nuovo giunto si mette ad ascoltare. Poi la smette anche di guardare a terra e gli capita di incrociare anche un sorriso, un’espressione seria, un gesto che dice a ltre cose: è il carcere che gli entra nelle vene. Ma imparare a convivere con la caterva di codici di comportamento in carcere, non è cosa facile, sarà l’esame più difficile della sua carriera. Alcuni non lo passano per difetto, altri ci rinunciano in partenza; gli uni e gli altri non avranno pace. Ma il nuovo giunto è prudente, prende il carcere a piccole dosi, vuole resistere all’omologazione, evita di farsi notare. La reclusione in sé non è forse il peggior dei mali. Star chiuso troppo a lungo può portare a crisi di follia, ma anche questo sarebbe uno sfogo umano, una sana reazione preferibile all’inevitabile appiattimento cerebrale. In uno spazio ridotto e affollato c’è da strisciare i muri per non provocare la suscettibilità di guardie e ladri esasperati. Così il nuovo giunto impara a rendersi invisibile, a cogliere da volti spenti e tutti uguali il segnale differente che può essergli vitale. Imbrigliare la mente, ridurre i battiti del cuore sono accorgimenti necessari. Ormai lui è un detenuto, sa di essere una macchina in stand-by. L’attesa sarà lunga, le energie vanno conservate: diventare il fantasma di sé stesso per non consegnare una molecola di vita alla prigione. Potrebbe essere una soluzione, ci vuole credere, ma non è così che funziona. Non si attraversa il fuoco senza bruciature, così come non si respira impunemente l’aria di prigione. Con astuzia e un pizzico di fortuna si può al massimo limitare il danno, ritardare almeno l’ora in cui la mente si rifiuterà tout court di reagire. Ma alla fine, quando sarà giunto il momento tanto atteso e gli si aprirà la porta ambita, all’esperto detenuto non è rimasta più nemmeno la facoltà di capire che tutto ciò che il nuovo giunto era lo ha poco a poco usato per imbrattare un muro di prigione. Ingiusta detenzione: in 30 anni lo Stato ha speso quasi un miliardo in ristori di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2025 Un libro bianco fotografa un Paese dove negli ultimi trent’anni 30mila persone sono state ingiustamente arrestate. In questi giorni in Germania si sta discutendo di un progetto di riforma della giustizia che renderebbe automatico, in caso di assoluzione, la richiesta da parte dello stesso Pm di un indennizzo per la vittima di ingiusta detenzione. Addirittura verrebbero istituiti dei centri di assistenza pubblica per la persona vittima di ingiusta detenzione e per il suo reinserimento nella società. E verrebbero messe a carico dello Stato le spese legali per accompagnare la vittima di ingiusta detenzione nella sua richiesta di indennizzo. In Danimarca addirittura vengono riconosciuti indennizzi per ingiusta detenzione anche per una quota di giorno, per una frazione di giornata. Quindi può capitare di essere indennizzati anche per soli 10 minuti trascorsi da arrestato, essendo naturalmente poi riconosciuti innocenti. Un libro bianco sull’ingiusta detenzione - E in Italia? Un libro bianco sull’ingiusta detenzione in Italia fotografa un Paese dove ogni otto ore una persona viene arrestata ingiustamente. Il fenomeno è descritto dal libro “Innocenti. Il libro bianco dell’ingiusta detenzione in Italia” (Giappichelli editore), scritto dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, fondatori dell’associazione errori.giudiziari.com. Per ingiusta detenzione si intende la custodia cautelare subita da un indagato o da un imputato che poi risulterà definitivamente assolto. Il libro bianco combina dati, analisi e storie vere. Negli ultimi trent’anni sono stati contati 30mila casi di ingiusta detenzione. E lo Stato ha speso quasi un miliardo di euro per risarcirli. Nel libro è stato preso in considerazione un campione rappresentativo di tutte le ordinanze di riparazione per ingiusta detenzione in un unico anno, il 2018. Quasi 600 provvedimenti. Per quali reati mai commessi si finisce in carcere o ai domiciliari? “Al primo posto ci sono i reati contro il patrimonio, in particolare rapine, estorsioni, furti - spiega Valentino Maimone - . Al secondo i reati relativi agli stupefacenti, al terzo quelli contro la persona e quindi dall’omicidio alla violenza sessuale”. Per provare la propria innocenza passano anni - Storie che sono delle autentiche odissee per chi ci incappa. In media per vedere provata la propria innocenza quanto tempo passa? “Abbiamo calcolato il periodo che passa dal momento in cui si viene arrestati in custodia cautelare in carcere oppure agli arresti domiciliari, fino al momento della soluzione definitiva, con sentenza definitiva, e poi anche all’eventuale indennizzo. Ebbene, nei casi più estremi si arriva addirittura intorno ai sei, sette anni. Abbiamo storie di persone che hanno aspettato, ma naturalmente è un unicum per il 2018, addirittura più di vent’anni per vedersi indennizzato un giorno di carcere con una somma di 300 euro. La media è nella fascia tra i tre e i cinque anni di attesa”. Il meccanismo italiano di ristoro - Per il ristoro c’è un meccanismo previsto dalla legge che prevede un tetto prefissato. “Per un giorno trascorso da innocenti in custodia cautelare in carcere, l’importo previsto come minimo tabellare, chiamiamolo così da parte della legge è di 235,82 euro. Nel caso degli arresti domiciliari, invece, un giorno è indennizzato con 117,91 euro. Significa esattamente la metà. C’è un tetto massimo - ricorda Maimone - al di là del quale non si può andare ed è quello dei 516mila euro. È una soglia però va detto che non viene praticamente mai toccata. Veramente sono i casi, pochissimi nel corso dell’anno, e questo è un altro elemento che dovrebbe far riflettere. Nessuna cifra potrà mai effettivamente compensare il danno enorme subito da chi finisce in carcere da innocente”. Madri detenute e reati d’opinione: il decreto sicurezza è peggio del codice Rocco di Anita Fallani Il Domani, 31 maggio 2025 “Vengono introdotte delle nuove norme che sono riuscite a superare anche la fantasia repressiva del codice Rocco”, dice Emilia Rossi, avvocata ed ex Garante nazionale dei diritti dei detenuti. Il confronto caso per caso. “Nel decreto sicurezza voluto dal governo Meloni vengono introdotte delle nuove norme che sono riuscite a superare anche la fantasia repressiva del codice penale fascista, il cosiddetto codice Rocco”. Così dice Emilia Rossi, avvocata ed ex Garante nazionale dei diritti dei detenuti. La Camera ha approvato con 163 sì, 91 no e un astenuto. Ora il provvedimento passa all’esame del Senato per essere convertito in legge entro il 10 giugno. “Il decreto sicurezza è un’ipertrofia del populismo penale che il governo ha dimostrato fin dal suo insediamento. Alla trentina di nuovi reati creati dal governo dal 2022, adesso, se ne aggiungono altri 14 che non si erano visti neanche sotto il regime. A rendere il tutto ancora più preoccupante è il fatto che gli articoli sono scritti malissimo, anche gli esperti della materia come me fanno fatica a capirci qualcosa. E questa voluta confusione è funzionale alla discrezionalità dell’applicazione della legge che è, a sua volta, un tratto repressivo della norma. Quando la norma non è chiara, non è chiaro nemmeno quale comportamento viene perseguito” spiega l’avvocata Emilia Rossi. Secondo i giuristi che hanno parlato con Domani, sono diversi gli articoli presenti nel Decreto Sicurezza che per il loro carattere repressivo superano il Codice penale Rocco voluto dal regime fascista. I neonati in carcere - “Fino ad ora una donna incinta o con un figlio piccolo aveva il rinvio obbligatorio della pena. Significa che lo Stato ti permetteva di partorire, vivere con tuo figlio per i primi anni della sua vita e poi scontare la pena in carcere” ha spiegato la ricercatrice di filosofia del diritto Perla Allegri e attivista nell’associazione Antigone che si occupa dei diritti dei detenuti “adesso invece il rinvio della pena non è più obbligatorio ma facoltativo. Il magistrato che ha in carica il caso può scegliere se rinviare la pena o meno. E, questa scelta, la deve valutare in base alla possibilità di recidiva. Ora, capite che è difficilissimo sapere in anticipo se quella persona commetterà di nuovo quel reato e quindi i magistrati, probabilmente, si baseranno sugli studi in materia che dicono che sono le persone indigenti che hanno commesso reati contro il patrimonio, come i furti, ad avere più probabilità di commettere di nuovo lo stesso reato perché è di quello che vivono”. Le madri detenute e i loro neonati finiranno negli ICAM, gli istituti di custodia attenuata, non perché sono socialmente pericolose ma perché potrebbero (forse) compiere nuovi reati una volta uscite di lì. Questa modifica della norma è stata voluta dalla Lega che l’ha ribattezzata ‘norma anti-rom’ perché i suoi esponenti credono che le donne rom facciano strumentalmente dei figli per evitare la pena. Inoltre, il decreto sicurezza introduce per la prima volta la possibilità che il bambino venga sottratto alla madre perché la donna può essere trasferita in chiave punitiva in un carcere ordinario senza il bambino quando la sua condotta viene considerata ‘inadeguata’. Inoltre, come scrive il XXI rapporto sulle condizioni di detenzioni appena pubblicato da Antigone sorprende anche che si parli di “condotte pericolose realizzate da detenuti in istituti a custodia attenuata per detenute madri” declinando al maschile il sostantivo quando gli Icam ospitano solo donne. Il codice Rocco voluto dal fascismo non permetteva alle donne incinta e ai bambini di stare in carcere. Il reato di resistenza passiva - “È la prima volta che comprare in un codice penale adottato dal nostro paese il termine resistenza passiva. Mai prima di questo momento, nemmeno sotto il fascismo erano considerate reato le manifestazioni non violente” ha commentato il magistrato Livio Pepino. Si tratta di un reato che si rivolge alle persone detenute nei carceri e nei CPR, la pena prevista arriva fino ad 8 anni per i promotori. “I detenuti fanno una enorme fatica a manifestare i loro bisogni perché non sono ascoltati da nessuno. Un educatore ha in media 70 detenuti, lo psicologo segue 100 persone e ha solo 7 ore a settimana. Così, capita che i detenuti organizzino delle manifestazioni non violente per farsi vedere e sentire. Le più frequenti sono la battitura del pentolame, stare in piedi sulla soglia della cella e rifiutarsi di entrare, non mangiare, non lavarsi. È il loro modo per manifestare un disagio. Da ora in poi, se almeno tre persone si rifiutano di obbedire all’ordine di un agente con modalità non violente rischiano fino a 5 anni, 8 per i promotori. Tra l’altro nel decreto si parla di “ordine impartito dal personale penitenziario”. Non c’è neanche specificato se quell’ordine debba essere legittimo oppure si riferisca a qualsiasi tipo di richiesta impartita dalle guardie” ha spiegato la ricercatrice Allegri. Per Antigone il reato di resistenza passiva è il più grave attacco alla libertà di protesta della storia repubblicana italiana. Il rinnovato reato di opinione - “Il codice Rocco ha introdotto i reati di opinione perché era interesse del regime censurare la libera espressione del pensiero. Naturalmente con l’avvento dell’era repubblicana si era molto discusso sulla permanenza dei reati di opinione nel nostro codice, alla fine alcuni sono stati espunti e altri semplicemente disapplicati. E’ dal ‘91 che non si accusa qualcuno di reato di opinione ma con il decreto sicurezza hanno deciso di farlo risorgere dalle ceneri” ha spiegato l’avvocata Emilia Rossi. “Il decreto sicurezza torna a parlare dell’articolo 415 che punisce chi istiga alla disobbedienza delle leggi. Tecnicamente, potrebbe essere accusato di questo reato chi organizza forme di boicottaggio ad esempio. Come dicevo, sono decenni che nessuno viene accusato di questo reato ed è significativo che un decreto simile torni a parlarne. Ma, ancora più grave è la modifica che viene fatta all’articolo 415: è stato aggiunto un secondo comma che prevede un’aggravante per chi istiga la disobbedienza delle leggi tramite comunicazione diretta o scritta all’interno dei penitenziari” ha commentato l’ex Garante nazionale dei diritti dei detenuti. “Per come è scritto il comma anche il mio intervento in questo articolo potrebbe essere accusato di istigazione alla disobbedienza delle leggi, così come una volontaria che scrive alle detenute cosa è da intendersi per resistenza passiva. Perché? Perché è tutto discrezionale. Una cosa del genere nemmeno il codice fascista la prevedeva” ha concluso Rossi. La licenza delle armi - “La legislazione fascista non consentiva agli operatori di polizia di girare armati con un’arma non di ordinanza al di fuori dell’orario di servizio. Adesso, con il decreto sicurezza, un poliziotto in borghese può farlo” ha spiegato il magistrato Livio Pepino. “Durante il fascismo lo Stato non erogava dei soldi ai poliziotti accusati di reati commessi durante il servizio. Adesso si prevedono fino a 30.000 per coprire le spese legali. Non è prevista per nessun’altra figura, solo per i poliziotti. È vero, durante il fascismo non si svolgevano quasi mai i processi contro l’arma ma è significativo che il governo attuale voglia sostenere le forze di polizia e nessun altro tipo di cittadino, soprattutto chi sente di aver subito un torto da una persona in divisa” ha concluso il magistrato. La norma prevede che “chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, commessi da tre o più persone riunite, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Ai fini del periodo precedente, costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”. In sintesi, se tre persone detenute che condividono la stessa cella sovraffollata o un istituto in condizioni detentive non dignitose, si rifiutano di obbedire all’ordine di un agente, anche con modalità non violente, si configurerà il delitto di rivolta con una possibile condanna da due a otto anni di reclusione (per i promotori, organizzatori o dirigenti), e da uno a cinque per i partecipanti. Il Garante dei detenuti Ciambriello: “decreto sicurezza confuso irrazionale e con sproporzioni” Ristretti Orizzonti, 31 maggio 2025 “Decreto sicurezza: confuso, irrazionale e con sproporzioni. Misure incostituzionali, un provvedimento illogico di misure repressive”, così il Portavoce della Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà e Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello commenta le nuove norme approvate dalla Camera e ora al vaglio del Senato del cosiddetto “decreto sicurezza”. La Camera ha approvato il ddl di conversione del decreto recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario. Il Portavoce entra nel merito, spiegando che: “Le criticità del “decreto sicurezza” denunciate dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà riguardano l’inutile introduzione di nuove ipotesi di reato, i molteplici sproporzionati e ingiustificati aumenti di pena, l’introduzione di aggravanti prive di alcun fondamento razionale, la sostanziale criminalizzazione della marginalità, il dissenso e l’introduzione di nuove ostatività per l’applicazione di misure alternative alla detenzione. Suscita particolare preoccupazione l’abrogazione dei commi 1 e 2 dell’art. 146 del codice penale che, rendendo solo eventuale il differimento di pena, va a colpire le donne incinte e le madri di prole di età inferiore a un anno. Non è forse superfluo ricordare che il differimento obbligatorio della pena in capo alle donne incinte e alle madri di neonati era stata introdotta dal codice penale del 1930 con il chiaro intento di tutelare la maternità, il nascituro, l’infante e al contempo la sua relazione con la madre. Su un piano diverso suscita altrettante preoccupazioni l’introduzione di una nuova fattispecie (art. 415-bis c.p.) di “rivolta in carcere” punita con pena da 2 a 8 anni se consistente nella promozione, organizzazione o direzione di una rivolta, e con pena da 1 a 5 anni se consistente nella mera partecipazione. In particolare, preoccupa la previsione che il reato possa essere contestato a un sodalizio di sole tre persone, anche mediante atti di resistenza passiva, e dunque nonviolenta. Analoghe previsioni riguardano le rivolte organizzate nei centri di trattenimento e accoglienza per migranti”. Il Portavoce della Conferenza Samuele Ciambriello così conclude la sua dichiarazione: “I giuristi ritengono stravolto l’impianto del decreto sicurezza da 14 nuovi reati e 9 aggravanti, un’implicita nuova scala di valori, persino aritmetiche: agli agenti indagati 10.000 euro per le spese legali in ogni fase del processo fino a un massimo di 50.000 euro, a fronte di 500 euro di rimborso per l’avvocato che in Albania difende gli stranieri trattenuti nei Cpr”. Fermare la svolta autoritaria, in piazza contro il dl Sicurezza di Antonello Ciervo Il Domani, 31 maggio 2025 Sabato 31 maggio la Rete “A pieno regime” scenderà in piazza a Roma, per riaffermare con chiarezza e intransigenza che la democrazia parlamentare e la Costituzione non possono essere abrogate da un decreto legge. Alla fine la svolta autoritaria si è realizzata e nel peggiore dei modi. Recependo malamente una serie di rilievi del Quirinale in merito al ddl Sicurezza - in discussione in parlamento da oltre un anno e pronto per essere approvato al Senato prima di Pasqua - il Consiglio dei ministri ha trasformato il disegno di legge in un decreto legge che è entrato immediatamente in vigore lo scorso 11 aprile. Si tratta di una grave forzatura, uno strappo alle procedure costituzionali e un esautoramento della funzione legislativa del parlamento che non ha precedenti nella storia repubblicana, nonostante negli ultimi anni l’abuso della decretazione d’urgenza sia stata la prassi per tutti i governi che si sono succeduti. Una cappa di repressione - Ma il tema non è soltanto l’impiego illegittimo del decreto legge, chiaramente privo dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza richiesti dall’articolo 77 della Costituzione, bensì la cappa di criminalizzazione e repressione che si sta abbattendo sulla società civile e lo spettro dello stato di polizia che sta incominciando a prendere forma. I nuovi reati e le numerose aggravanti entrate in vigore, nonché lo scudo penale a “tutela” delle forze dell’ordine, rendono il nostro paese sempre più simile a quei sistemi illiberali che la letteratura scientifica definisce “democrature”, modelli di governo in cui a un apparente rispetto delle formalità costituzionali, fa da contraltare un esautoramento sostanziale della democrazia, attraverso la criminalizzazione della manifestazione del pensiero, del dissenso politico, del conflitto sociale, oltre che dei soggetti più poveri e marginali, in una logica punitiva tipica del diritto penale d’autore. In questo modo, si puniscono le persone non per quello che fanno, ma per quello che sono: stranieri, poveri, marginali, detenuti, militanti politici, attivisti sociali ed ambientali, in un quadro giuridico in cui le forze dell’ordine esercitano le loro funzioni in una posizione di privilegio rispetto ai “normali” cittadini. Deriva autoritaria - Per comprendere la deriva autoritaria in atto basta leggere l’articolo 20 del decreto legge che punisce le lesioni personali ai danni di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni nel corso di manifestazioni di pubblica piazza. Ebbene, in caso di lesioni gravissime, cioè nell’ipotesi in cui un manifestante rompesse il naso a un poliziotto durante un corteo, rischierebbe oggi fino a 16 anni di carcere: si tratta di una sanzione sproporzionata quanto incostituzionale, se solo si pensa che nel nostro ordinamento l’affiliazione a un’associazione mafiosa e il tentativo di strage terroristica (sparare all’impazzata in piazza senza ammazzare nessuno, ma limitandosi a ferire qualche passante) sono punite entrambe con 15 anni di carcere. Sia chiaro, questo paese non ha bisogno né di manifestanti violenti (le riunioni in luogo pubblico, ci ricorda la Costituzione, devono essere pacifiche e senza armi), né tanto più di mafiosi o di terroristi in potenza, ma appare altrettanto chiaro che un manifestante, pur non esercitando correttamente i propri diritti costituzionali e per questo motivo sbagliando, certo non può essere considerato un criminale, socialmente più pericoloso - e per questo motivo da condannare a più anni di carcere - di un mafioso o di un terrorista. Questa norma, ma ce ne sarebbero molte altre dello stesso tenore e che prevedono sanzioni altrettanto sproporzionate, denota la mancanza di cultura democratica del governo che, ponendo la fiducia, ha ottenuto il via libera della Camera al testo, silenziando definitivamente il dibattito nelle aule parlamentari e la voce di quei deputati e senatori che non hanno potuto svolgere le proprie prerogative costituzionali. Per questo motivo, per dare voce all’opposizione politica e sociale a questo provvedimento anti-democratico, oltre che per denunciare la deriva autoritaria in atto nel nostro paese, sabato 31 maggio la Rete “A pieno regime” scenderà in piazza a Roma, per riaffermare con chiarezza e intransigenza che la democrazia parlamentare e la Costituzione non possono essere abrogate da un decreto legge. Niente risse sulla riforma: il Colle e l’alert alle toghe di Errico Novi Il Dubbio, 31 maggio 2025 Dopo il richiamo ai giovani magistrati, Mattarella confida che il referendum sulle “carriere” non incendi le istituzioni. È un crinale molto scosceso. E il rischio che tutto precipiti non può sfuggire a un presidente attento al decoro istituzionale qual è Sergio Mattarella. Il Capo dello Stato sa che nei prossimi mesi il dibattito pubblico sarà sottoposto a una delle prove di tenuta più estreme degli ultimi anni: la campagna referendaria sulla separazione delle carriere. Una sfida che sublimerà, in un certo senso, un quarto di secolo, trent’anni addirittura di conflitti fra politica e magistrati. Ne sarà l’epilogo, la battaglia finale, l’appendice parossistica. Non perché sia scritto tra le pieghe della riforma, che debba essere così: modificare l’ordinamento giudiziario, in fin dei conti, è sì una regolazione “pesante”, ma non al punto da legittimare esiti “sanguinari”. Che tra i poteri dello Stato, in ogni caso, non dovrebbero mai verificarsi. Ciononostante, il pericolo di deragliamento è forte. Riguarda senz’altro la politica, che ha spesso fatto ricorso a toni scomposti nei confronti dei giudici, in particolare davanti a decisioni sfavorevoli in materie come l’immigrazione e il diritto d’asilo. Ma la tentazione di far saltare, virtualmente, il tavolo della dialettica istituzionale incombe anche sulla magistratura. E tre giorni fa, quando il presidente della Repubblica si è rivolto a giudici e pm freschi vincitori di concorso, e si è soffermato su quel principio, indiscutibile, per cui “nessun potere dello Stato -nessuno- è immune da vincoli e controlli”, aveva sì un obiettivo immediato, richiamare le giovani toghe al peso delle responsabilità connesse alla funzione. Ma è difficile escludere che Mattarella prefigurasse davanti a sé anche quello scenario bellicista verso cui partiti e magistratura sembrano già proiettati: il conflitto aperto e totalizzante sulla riforma, il ricorso a ogni possibile strumento polemico per indebolire l’immagine e le ragioni della controparte. Ed è così: l’Anm non è fuori pericolo. Lo scivolamento verso l’eccesso, che pregiudicherebbe l’immagine di “imparzialità” richiamata dal Capo dello Stato mercoledì scorso nell’incontro con le toghe “di prima nomina”, è appena dietro l’angolo. Mattarella d’altronde non può far altro che richiamare tutte le parti a princìpi generali, di rispetto, di decoro istituzionale, di salvaguardia dell’equilibrio tra i poteri. Nient’altro. Il resto dipenderà dal grado di ragionevolezza dei protagonisti. Di Carlo Nordio, di Giorgia Meloni, dei leader del centrodestra. E dell’Anm, del suo presidente Cesare Parodi, dei vertici delle correnti, di alcune figure chiave della magistratura, più esposte, più visibili e più “influenti” per una serie di motivi. Basti pensare non solo e non tanto ai vertici della Suprema Corte - sulla compostezza granitica della prima presidente Margherita Cassano e del pg di Cassazione Pietro Gaeta, Mattarella, per dire, metterebbe due mani sul fuoco, non foss’altro per aver apprezzato la loro sensibilità anche di componenti del Csm - ma soprattutto a procuratori capo molto esposti mediaticamente come Nicola Gratteri, solo per citare l’esempio più facile. Fin lì, d’altra parte, i richiami del Colle non possono spingersi. Ci si deve limitare all’auspicio che ognuno resti nel proprio pur ampio spazio di espressione. È chiaro che a Mattarella sta a cuore l’immagine della magistratura in quanto ordine che garantisce i diritti, che recepisce e interpreta l’affidamento del cittadino nello Stato. Il deragliamento di un leader Anm, in altre parole, sarebbe più doloroso, per l’immagine complessiva delle istituzioni, di un’intemerata di ministri esuberanti come Matteo Salvini o di parlamentari notoriamente “aggressivi” con la magistratura come Maurizio Gasparri. Anche perché l’inquilino del Colle sa bene quale grado incontrollabile di strumentalizzazione potrebbe scatenare, sul fronte politico, un pur occasionale impennata delle controparte “giudiziaria”. Non tutto è prevedibile, non tutto può essere evitato. Ma in un quadro del genere, il tratto e il profilo del presidente Anm Parodi sono un elemento rassicurante. Sebbene sia arrivato al vertice del “sindacato” anche in virtù di una carambola involontaria (al di là dell’indiscussa credibilità personale), il pm che ha raccolto il testimone di Giuseppe Santalucia ha la capacità di avvolgere ogni tensione “politica” in una sorta di sereno e persino ingenuo disincanto, che finisce per disarmare un po’ anche gli avversari. Ed è indiscutibile, anzi risaputo che un’altra figura chiave della contesa governo-magistrati come il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano confidi molto in Parodi come interlocutore aperto, moderato, ragionevole. Può dirsi lo stesso di Nordio. E Meloni, che pure non sarà il “centravanti di sfondamento” della maggioranza, nella campagna referendaria sulle “carriere”, ha capito a propria volta che il nuovo vertice dell’Associazione magistrati non è una “fonte immediata di pericolo”. I rischi sono, per Palazzo Chigi, nelle possibili, inopinate uscite di quegli esponenti dell’associazionismo giudiziario che, come Marco Patarnello, anche lui eletto nel parlamentino dell’Anm, possono spingersi ad additare la premier come una minaccia in quanto “priva di carichi pendenti”, per sinterizzare la tesi del sostituto pg di Cassazione. Ecco: avversari così sono pericolosi non solo perché sgradevoli per una presidente del Consiglio, ma soprattutto perché possono far scattare la scintilla capace di trasformare uno scontro già acceso in un’ordalia. Questo, certo, Mattarella lo sa benissimo. E spera proprio di non dover assumere le vesti di un casco blu costretto a difendere la democrazia dai suoi stessi protagonisti. La schizofrenia punitiva del centrodestra colpisce anche i reati contro gli animali di Ermes Antonucci Il Foglio, 31 maggio 2025 Approvata in via definitiva la legge in materia di reati contro gli animali. “Fine dell’impunità”, esulta la maggioranza. Ma i reati già esistevano: vengono soltanto innalzate le pene previste. E non mancano norme dagli effetti paradossali. “Riforma storica”, “grandissima vittoria”, “rivoluzione copernicana”. Con queste parole i parlamentari della maggioranza hanno salutato l’approvazione definitiva in Senato del disegno di legge in materia di reati contro gli animali, a prima firma di Michela Vittoria Brambilla, deputata di Noi moderati. “Fine dell’impunità che ha regnato per anni”, ha detto Brambilla. Lo stesso il leader del suo partito, Maurizio Lupi: “Questa legge pone fine all’impunità per chi uccide o sevizia gli animali, di chi ne fa oggetto di traffico o di combattimenti clandestini, restituendo così valore a legalità e civiltà”. Di quale impunità parlino Brambilla e colleghi non è dato sapersi. Già oggi il nostro ordinamento prevede precise punizioni per chi ammazza o maltratta un animale. A ben vedere, la “legge Brambilla” non fa altro che aumentare le pene previste da reati già esistenti, secondo la prassi populista seguita dalla maggioranza di centrodestra, che fin dalla nascita del governo Meloni usa il diritto penale come strumento di marketing elettorale su qualsiasi tema (dal rave party al femminicidio). Il reato di uccisione di animali “per crudeltà o senza necessità”? Già esiste (art. 544-bis del codice penale): la pena prevista è la reclusione da quattro mesi a due anni. La riforma la innalza da sei mesi a tre anni, e fino a quattro anni se il fatto è commesso adoperando sevizie o prolungando volutamente le sofferenze dell’animale. Il reato di maltrattamento di animali? Anche questo già esiste (art. 544-ter): la pena prevista è la reclusione da tre a diciotto mesi. La riforma la innalza da sei mesi a due anni. Lo stesso vale per il reato di spettacoli o manifestazioni che comportano sevizie per gli animali, per il reato di combattimenti tra animali, per il reato di traffico illecito di animali da compagnia, per l’abbandono di animali. Tutti reati già previsti, di cui la legge “epocale” approvata in Parlamento non fa altro che aumentare le pene previste. Nella convinzione che l’innalzamento di uno o due anni della pena minacciata avrà un effetto deterrente che spingerà i cittadini a non compiere più condotte così odiose. Mera illusione, come dimostra la storia. L’unica vera novità della riforma approvata è la ridenominazione della rubrica del codice penale che contiene i suddetti reati (da “delitti contro il sentimento per gli animali” a “delitti contro gli animali”), con il riconoscimento quindi degli animali come vittime dirette dei reati. Una grande conquista secondo i promotori della legge, che però in realtà rischia di creare conseguenze paradossali. Come noto, infatti, i reati in questione non riguardano determinate tipologie di animali, come animali da compagnia o domestici. Se si riconosce soggettività giuridica agli animali, svincolando i reati da qualsiasi riferimento al “sentimento” provato dall’uomo per essi, si potrebbe arrivare a riconoscere come reato di uccisione di animali anche l’abbattimento per puro divertimento (“senza necessità”) di una colonia di formiche o di un mucchio di zanzare. Tanto vale mettere al bando repellenti e zampironi. Si scherza ma lo scenario, per quanto folle, è assolutamente compatibile con il nuovo assetto normativo. Risultato: per l’ennesima volta la politica consegna una delega in bianco al giudice. Sarà lui a decidere quali animali e quali condotte rientrano nella nuova disciplina. “Nessuno nega l’importanza di tutelare gli animali da qualsiasi forma di violenza, ma la legge approvata dal Parlamento si limita in sostanza a innalzare le pene di reati già previsti dal codice penale. Siamo di fronte all’ennesimo uso simbolico del diritto penale”, dice al Foglio Vittorio Manes, docente di Diritto penale all’università di Bologna. “La domanda che dovremmo porci è: ma veramente deve essere il diritto penale a occuparsi di queste cose? Ancora una volta la politica affida al diritto penale compiti di pedagogia morale e culturale che invece dovrebbero essere attribuiti a politiche sociali e culturali”. Dei delitti e delle pene di Vittorio Monti Corriere di Bologna, 31 maggio 2025 Dei delitti e delle pene (Beccaria dixit). Ovvio, parliamone. Ma parliamo soprattutto di inchieste e processi. Tema del giorno, da troppi giorni. Sempre più razione quotidiana, fino all’overdose di chiacchiere, anzi chiacchiericcio. Il problema c’è: purtroppo. Siamo sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, che la macchina della giustizia sforni sempre un prodotto doc? Questione di vita, a volte di morte: mediatica. Quando i colpevoli diventano possibili incolpevoli e i sospettati, seppure assai flebilmente, comunque messi alla gogna. Da giovane cronista, sentii uno stimatissimo avvocato sostenere come fosse più probabile che una persona in manette fosse un innocente finito nei guai piuttosto che un reo caduto in trappola. Allora mi parve l’estro di un battutista controcorrente. Oggi non più. Parere personale: gli errori dentro l’aula giudiziaria esistono, ma sono meno degli sbagli durante le indagini. Temo le sentenze se sanatoria ragionata delle lacune investigative. Dovrebbero agire al contrario, evidenziando le incongruità pilastro obbligato del verdetto assolutorio. Anche a costo di deludere l’opinione pubblica, vogliosa non del colpevole ma di un colpevole. Per rispetto dovuto ai giudici che stanno decidendo la sorte processuale del vigile urbano accusato di avere ucciso una giovane collega, tolgo la vicenda bolognese dal tavolo del ragionamento. Troppa gente è sommaria nei giudizi, infatti reclama giustizia lampo, mentre quella reale fa da lumaca. Nel caso di Annamaria Franzoni, il giudizio di massa fu questione di pochi giorni: qualche trasmissione tv con il plastico della casa di Cogne in primo piano e tutto fatto. Il processo togato contro il figlio di Beppe Grillo e altri, per violenza sessuale, è ancora in prolungata gestazione. Il fatto risale al 2019. Siamo nel 2025 e non è finita l’attesa. Dall’eccesso di fretta, al non è mai troppo presto. Dubito che la maggioranza degli italiani sappia che Pietro Pacciani, detto il mostro di Firenze, prima di morire venne assolto in appello. Sempre in nome del popolo italiano: strano questo popolo che dice e disdice. Nel pasticciaccio brutto di Garlasco, Stasi due volte scagionato e soltanto dopo condannato. Anche se fisiologica l’alternanza, bisogna ammettere che è difficile sentirsi convinti di un “buona la terza”. Quando gli elementi portati dall’accusa non sono granitici, la scelta dell’assoluzione non è smacco ma onestà giuridica, quantunque deluda le più diffuse aspettative. Ad una condizione: che le carenze dell’investigazione siano utilizzate come sprone al contrasto di ulteriori errori e manchevolezze. Resta principio valido il famoso meglio un colpevole libero piuttosto che un innocente in galera, purché non si esageri con il numero di chi la fa franca. La certezza della detenzione oggi è l’argomento più scottante e divisivo. Quando un “detenuto semilibero” (ossimoro generato dalla legge) commette un delitto, apriti cielo. Nessuno parla degli altri che rigano dritto, per costruirsi la possibilità di tornare in pieno recuperati. Esisterà sempre un partito spiccio che teorizza galera subito e via la chiave. Si spera che alzi la voce chi vuole le condanne con incorporata l’azione rieducativa. Questa visione civile entra in crisi di consenso davanti all’eccesso di decisioni ondivaghe: a volte mano dura, altre assai morbida. Lo scrupolo di chi indaga non è mai troppo (vale anche per i casi sotto le nostre torri). Meglio se comprende anche un costante vaglio autocritico delle conclusioni. Sarebbe il più efficace antidoto contro la corrosiva convinzione che soltanto l’innocente deve avere paura di finire sotto processo. Lombardia. Su sanità e carcere è scontro tra governo e Regione di Sara Bettoni Corriere della Sera, 31 maggio 2025 “Non sia di serie B, pochi medici”. “No, mancano strutture”. Botta e risposta tra il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, e il presidente Attilio Fontana. Più sintonia, invece, sul piano di Spazio Aperto per il reinserimento dei detenuti. E Sala apre allo spostamento del carcere di San Vittore. Da una parte, la proposta di Spazio Aperto sponsorizzata dalla Lombardia: una collaborazione tra Stato e privati per favorire il reinserimento dei detenuti tramite il lavoro. Dall’altra, il rimprovero del governo alla Regione: la sanità carceraria non deve essere di serie B. Il botta e risposta tra il governatore leghista Attilio Fontana e il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto (Forza Italia) va in scena durante il convegno “La fine del sistema infinito, il sistema carcerario”, organizzato dall’associazione presieduta da Marco Martellucci al centro congressi di Fondazione Cariplo. Di fronte all’invito a prendere in considerazione il progetto per abbattere i tassi di recidiva, in videocollegamento Sisto replica: “Dico al presidente Fontana, come ho detto ad altri governatori: occhio alla sanità. In carcere è fonte di disperazione. Se ci si mette un occhio in più, si fa cosa buona e giusta. La sensazione, sbagliata, è quella di una sanità di serie B”. “Da parte nostra c’è l’attenzione massima - risponde Fontana - ma la situazione della sanità sconta l’assenza di strutture all’interno del carcere perché non si può andare oltre la visita. Non c’è possibilità di fare diagnostica. Se si vuole fare una sanità migliore, si devono creare le condizioni e su questo servirà l’intervento di chi gestisce le carceri”. Il viceministro, a quel punto, aggiunge: “Ci vuole gioco di squadra. Ad esempio verificando che il numero di medici sia giusto e non meno della metà. Garantire la presenza fisica di medici e infermieri sarebbe già un grande risultato”. C’è apertura, invece, sui contenuti specifici della proposta di Spazio Aperto, che suggerisce un modello in cui l’imprenditore sociale costruisce piccole carceri godendo di benefici fiscali ed economici. Al loro interno ci saranno anche siti industriali per far lavorare i detenuti. Ciascun carcerato riceverà uno stipendio in linea con il contratto collettivo nazionale. La cifra sarà divisa in quinti, da destinarsi alle spese del suo mantenimento, al risarcimento delle vittime del reato, ai familiari, all’accantonamento per il futuro e alle spese personali. Toccherà allo Stato garantire l’ordine pubblico. “Parliamone con dati concreti”, dice Sisto. “Una proposta convincente - secondo Ignazio La Russa, presidente del Senato, che dice no ad amnistie e indulti, ma è “disponibile a favorire un dialogo con il ministro Nordio e i sottosegretari alla Giustizia”. E si dice pronto anche a valutare la “liberazione anticipata” dei detenuti, come suggerito dall’onorevole Roberto Giachetti, per rimediare al sovraffollamento delle celle. A patto però di concedere la misura a chi si distingue per l’impegno a fare “qualcosa di positivo”. Il sindaco Beppe Sala ragiona infine sul caso di San Vittore: “Sono favorevole a verificare le condizioni per uno spostamento, ora i servizi non sono dignitosi”. Palermo. Il giallo del detenuto morto al Pagliarelli: “Temeva per la sua vita”, aperta un’inchiesta di Sandra Figliuolo palermotoday.it, 31 maggio 2025 L’ipotesi è di istigazione al suicidio per il decesso del palermitano M. T., 43 anni, avvenuto mercoledì. Il suo avvocato lo aveva incontrato una quindicina di giorni prima: “Mi ha confidato la sua paura, ma non mi ha spiegato perché”, dice a Palermo Today. Il colloquio riservato con il Magistrato di Sorveglianza e la relazione in Procura. Disposta l’autopsia. Ci sono dei punti da chiarire sulla morte di M.T., palermitano di 43 anni, che mercoledì scorso è stato trovato senza vita nella sua cella del carcere Pagliarelli: nessun dubbio (o quasi) sul fatto che l’uomo, recluso per piccoli furti e con problemi di dipendenza dalla droga, si sia suicidato impiccandosi - stamattina sarà comunque conferito l’incarico per eseguire l’autopsia - quello che la Procura vuole capire, anche spinta dalla famiglia della vittima, è se l’uomo non sia stato in qualche modo istigato a togliersi la vita. L’ipotesi nasce dal fatto che, come racconta Maurilio Panci, l’avvocato di M.T., che ora rappresenta anche la madre e i due fratelli, circa 15 giorni fa “durante un colloquio mi aveva detto di temere per la sua incolumità, anche se non ha voluto spiegarmi per quale motivo”. Il penalista lo avrebbe trovato particolarmente agitato e aveva subito provveduto a coinvolgere il Magistrato di Sorveglianza, col quale M.T. aveva avuto a stretto giro un colloquio in videocollegamento, alla presenza, come è previsto, di un agente penitenziario. Non è noto cosa abbia riferito, ma il verbale dell’audizione è stato inoltrato sia alla Procura che al Pagliarelli. Il detenuto aveva poi sentito uno dei fratelli, che lo avrebbe trovato più tranquillo, anche perché gli era stata ridata la possibilità di parlare con i parenti per telefono. Mercoledì, però, M.T. è stato ritrovato privo di vita dal suo compagno di cella. C’era davvero qualcosa che lo spaventava, a tal punto da fargli temere per la sua sicurezza? Ha visto o sentito che non avrebbe dovuto? Ha denunciato qualcosa di particolare al Magistrato di Sorveglianza, tanto che le sue dichiarazioni sono state inoltrate alla Procura? Saranno le indagini a chiarirlo. Il carcere di Pagliarelli in questi giorni è finito nella bufera perché da un’indagine che ha portato a 12 arresti è emerso non solo che, attraverso due agenti penitenziari corrotti, all’interno del penitenziario sarebbero entrati telefonini e droga, ma anche che tra i detenuti ci sarebbe stata una banda, vicina anche alla cosca di Porta Nuova, che avrebbe fatto il bello e il cattivo tempo dietro le sbarre, arrivando anche a compiere violenti pestaggi ai danni di altri reclusi. Cose che sono venute fuori anche grazie alle testimonianze proprio di alcuni carcerati. Milano. Il sindaco Sala: “Carcere troppo sovraffollato, San Vittore si può spostare” di Paola Fucilieri Il Giornale, 31 maggio 2025 Sala apre al trasloco in una struttura fuori dal centro Sisto: “Già nel 2026 opere per 9mila nuovi posti”. L’impegno delle istituzioni di tutti coloro che operano per un possibile benessere dei detenuti delle carceri italiane, compresi i volontari, fanno a pugni con numeri che indignano e una situazione drammatica. “Ad oggi, abbiamo già registrato 33 suicidi nelle carceri italiane, ben 35 suicidi tra gli agenti penitenziari. Il 60 per cento dei detenuti lo è stato almeno un’altra volta; il 20 per cento è stato detenuto almeno altre cinque volte; oltre il 90 degli istituti penali risale a prima del 1980 e il sovraffollamento supera il 120 per cento” spiega Marco Martellucci, presidente di “Spazio Aperto” che ieri al Centro Congresso della Fondazione Cariplo, in via Romagnosi, ha organizzato una mattinata di confronto all’insegna del miglioramento a ogni costo del sistema carcerario italiano e in particolare contro il sovraffollamento degli istituti di pena. Un convegno dal titolo ambizioso ma anche mirabile La fine del “sistema infinito”, il sistema carcerario. A cui il sindaco Beppe Sala ha subito affiancato la proposta di trasferire in un’altra struttura, lontano dal centro città, il carcere di San Vittore per renderlo più vivibile e meno sovraffollato. “Il problema è San Vittore - ha detto Sala - perché le altre carceri di Milano comunque alla fine funzionano”. Poi ha aggiunto: “Capisco che abbia senso averlo in città per gli avvocati e i tanti che fanno volontariato, ma rimane il fatto che non si può pensare di andare avanti a lungo con un carcere così sovrappopolato, con servizi non dignitosi”. Il “sistema infinito” di cui parla “Spazio Aperto” è la condizione in cui vive il detenuto negli istituti penitenziari, sovente connotata da una negativa inattività e da un isolamento che, statistiche alla mano, lo porta poi alla recidiva e quindi di nuovo in carcere, senza possibilità di reinserimento. “Spazio Aperto” - associazione di volontariato che aiuta i detenuti e le loro famiglie, promuovendo il reinserimento sociale e la dignità umana - propone così un nuovo modello di governo e gestione del sistema carcerario attraverso il coinvolgimento di tre attori: l’imprenditore sociale, il detenuto e lo Stato. La proposta punta a realizzare nuove strutture detentive con il coinvolgimento dell’imprenditoria privata virtuosa, permettendo ai detenuti e agli operatori del settore che fanno riferimento al Dipartimento degli Affari penitenziari, di operare in ambienti conformi alla norma e favorire, con percorsi lavorativi, il processo di reintegrazione e l’abbattimento della recidiva. Anche il presidente del Senato Ignazio La Russa ha aperto al progetto. Sottolineando la necessità imprescindibile, accanto a una certezza della pena che questa si sconti in condizioni di assoluta civiltà. Ha ricordato quindi che in qualità di ministro della Giustizia uscente, 12 anni fa, aveva lasciato un elenco di caserme vuote da poter adibire a strutture carcerarie, senza che però nulla finora sia accaduto. E infine ha lanciato l’idea di riesumare la “norma Giachetti”: il parlamentare di Italia Viva propone infatti, contro il sovraffollamento, la scarcerazione anticipata (45 giorni in meno da scontare per ogni sei mesi di buona condotta). In collegamento da Roma ha parlato anche il vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, che ha promesso entro la fine del 2026 alcune opere di edilizia carceraria per risolvere la situazione di almeno 8-9mila posizioni nelle carceri. Il presidente della Regione Attilio Fontana in questi anni si è reso disponibile e discutere delle criticità del sistema carcerario lombardo e a trovare soluzioni. “Proponiamo il “modello Lombardia”: mettere insieme gli imprenditori, le università, le associazioni professionali e di categoria per costruire un’alternativa nuova, che vada oltre lo schema utilizzato fino ad oggi” ha detto ieri. Sisto gli ha imputato di non far funzionare al meglio la sanità nelle carceri, ma il governatore non si è lasciato sopraffare. “Il limite delle strutture è grande se ogni volta che serve fare qualcosa in più della semplice visita medica siamo obbligati a mandare il detenuto in ospedale” ha risposto. Come dargli torto? Santa Maria Capua Vetere (Ce). Interrogazione Pd: “Nel carcere cure sanitarie non garantite” ansa.it, 31 maggio 2025 Una richiesta d’aiuto firmata da una settantina di detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), in relazione alla gestione della loro salute all’interno della struttura carceraria e inviata tramite lettera ad un’associazione di tutela, si è trasformata in un’interrogazione ai ministri della Giustizia, Carlo Nordio e della Sanità, Orazio Schillaci, che è stata presentata dalla deputata del Pd Debora Serracchiani e dagli altri parlamentari dem Federico Gianassi, Rachele Scarpa, Marco Lacarra, Michela Di Biase. Era stata l’associazione “Sbarre di Zucchero Aps” a ricevere la lettera di denuncia dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere - lo stesso dove il 6 aprile 2020 in pieno lockdown per il Covid 300 agenti pestarono altrettanti reclusi, fatto che ha dato luogo ad un maxi-processo tuttora in corso - e a inoltrare richiesta formale attraverso la presidente Monica Bizaj a Serracchiani affinché si rivolgesse ai ministri competenti. Una lettera che i detenuti hanno indirizzato anche all’ASL di Caserta, in particolare a Giuseppe Nese, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Coordinamento della Sanità Penitenziaria. Nell’interrogazione a risposta scritta, i parlamentari riportano le lamentele dei reclusi, che denunciano “un’insufficienza di accesso alle cure e ai trattamenti medici da ormai quasi due anni, l’assenza quasi totale di medici generici e la insufficiente e inadeguata assistenza per pazienti oncologici; ai pazienti diabetici non verrebbero inoltre somministrate le cure da oltre un mese”. “Nella lettera - si legge nell’interrogazione - i detenuti lamentano una non sufficiente presenza del dottor Pasquale Iannota, dirigente sanitario, che non avrebbe, a quanto riportano, voluto incontrare nemmeno una loro delegazione per un confronto, e chiedono una complessiva maggiore presenza delle figure sanitarie in reparto e cure adeguate”. “Nell’istituto - si legge ancora - non sono presenti reparti detentivi ospedalieri nonostante avrebbero dovuto essere allestiti sin dal 2000 e i detenuti affetti da disturbi psichiatrici risulta siano gestiti come detenuti ordinari a causa dell’assenza di posti nelle Rems”. “Il cosiddetto repartino di Santa Maria Capua Vetere è stato istituito presso un ospedale - il Melorio di Santa Maria - privo di pronto soccorso e dotato di poche unità specialistiche, con il risultato che si rende necessario spostare i detenuti in altri ospedali in ricovero anche per fare solo le radiografie”. Altra criticità lamentata è “l’alta presenza di persone in condizioni psichiatriche difficili tra i detenuti, così come quella di persone in stato di depressione o di dipendenza da sostanze stupefacenti; la presenza di psicologi, psichiatri, personale sanitario è modestissima e le Rems, destinate a soggetti psichiatrici pericolosi, non sono sufficienti per distribuzione e posti per l’accoglienza, il tutto aggravato dal sovraffollamento, dalla carenza di personale, dalle difficoltà di accesso all’assistenza medica e alla difficile continuità delle cure tra il carcere e il territorio”. “L’incarcerazione - scrivono i parlamentari - non dovrebbe mai diventare una condanna a una salute peggiore, visto che l’ordinamento penitenziario garantisce il diritto alla salute e ad un trattamento detentivo conforme a umanità”. I parlamentari chiedono dunque l’intervento dei ministri. Palermo. Bimbo di un mese in carcere con la madre. “Mancano le strutture alternative” di Sandra Figliuolo palermotoday.it, 31 maggio 2025 Il piccolo è recluso con la madre al Pagliarelli, l’istituto più vicino per accoglierli si trova in provincia di Avellino. A segnalarlo è il Garante per i diritti dei detenuti della città, Pino Apprendi, che rimarca: “Al posto di costruire nuovi penitenziari, il governo nazionale e regionale si impegnino a trovare spazi per i più fragili come Rems ed Icam”. “Perdonaci, oggi compi un mese dalla tua nascita e lo passerai al carcere di Pagliarelli, nella città dove sei nato. Forse da adulto nessuno si ricorderà di questa parentesi drammatica, attenuata dal calore delle braccia di tua madre e dai sorrisi che il personale della polizia penitenziaria ti regala, i tuoi occhioni scuri scrutano queste ‘zie’ che ti fanno prio”. A scriverlo è Pino Apprendi, Garante per i diritti dei detenuti in città, che denuncia la presenza all’interno del penitenziario di un bambino di appena un mese, recluso assieme alla madre. “Al momento non distingui le sbarre alla finestra e nemmeno il rumore del blindo - sottolinea - non hai neanche la cognizione degli spazi, hai un tuo lettino bianco che non so da dove sia spuntato. Sai, questa terra è ultima anche in questo, non esistono istituti a custodia attenuata, le Icam dove tu dovresti stare, la più vicina si trova a Lauro, in provincia di Avellino, e poi a Venezia, a Torino, tu non dovresti stare in un carcere, tant’è che la direzione ha già segnalato a chi di competenza”. Apprendi si sofferma anche sul suicidio di. M.T., 43 anni, avvenuto mercoledì scorso nello stesso carcere e sul quale è stata aperta un’inchiesta. “È il trentaduesimo caso in Italia, una percentuale altissima rispetto ai suicidi degli altri cittadini. Il detenuto era seguito da una equipe che aveva avuto il consenso di una comunità per ospitarlo, non appena si liberava il posto. Ma la fragilità di una persona è imprevedibile, i tempi di attesa, per qualsiasi cosa in carcere, sono moltiplicati rispetto ai lunghi tempi di attesa per il cittadino libero, dalla sanità impossibile alla autorizzazione di routine per una normale richiesta”. Il Garante rimarca infine che “il governo nazionale e quello regionale devono impegnarsi a costruire luoghi alternativi al carcere, Rems per i detenuti con problemi mentali, Icam per detenute con bambini e comunità per tossicodipendenti, la finiscano di parlare di nuovi carceri. Avremmo le carceri senza sovraffollamento e certamente meno suicidi e meno sofferenza. In tutto questo - conclude - da mesi non viene nominato il Garante regionale da parte del presidente Renato Schifani”. Napoli. Poggioreale, Gino Cecchettin incontra i detenuti: “Restiamo umani” di Antonio Mattone Il Mattino, 31 maggio 2025 C’era una grande attesa tra i diciotto detenuti del padiglione Genova del carcere di Poggioreale e fin dalla mattina i loro occhi brillavano di commozione al solo pensiero di cosa avrebbe significato l’incontro con Gino Cecchettin. Il padre di Giulia è stato invitato dalla Comunità di Sant’Egidio a parlare della sua drammatica esperienza in uno degli incontri tematici che mensilmente si tengono nell’istituto intitolato a Giuseppe Salvia. L’evento era stato preceduto dalla visione di un film sul patriarcato che aveva provocato una accesa discussione, e dalla lettura del libro “Cara Giulia” scritto dal padre della ragazza. Quando qualcuno ha affermato che se fosse capitato a lui avrebbe ucciso con le sue mani l’autore del delitto, la reazione di chi si è macchiato di un grave reato è stata quella di un forte senso di colpa e di qui l’intenzione di non partecipare all’incontro. Non era la prima volta che Gino Cecchettin si è trovato a faccia a faccia con i detenuti. Era già successo a Padova, un mese prima della sentenza del processo per l’omicidio di Giulia. “Fu un incontro molto importante per me - ha svelato ai reclusi - sentivo l’imbarazzo di dover incrociare lo sguardo di Filippo, ma quella volta mi trovai a parlare con delle persone e non con dei mostri, e così sparirono i miei pregiudizi”. Prova un senso di gratitudine per quel colloquio: “D’altra parte chi sono io per giudicare?”. Queste parole e un buon caffè preparato dai detenuti rompono il ghiaccio. Napoli. A Secondigliano la nuova cittadella dello sport di Alessandro Pendenza gnewsonline.it, 31 maggio 2025 “Questa idea è nata con l’obiettivo di coniugare il benessere fisico con la crescita personale, rientra nelle direttrici organizzative che ispirano la gestione della popolazione detenuta ospite”. A dirlo è Giulia Russo, direttrice della casa circondariale “Pasquale Mandato” di Secondigliano, nell’ambito dell’inaugurazione del rinnovato complesso sportivo dell’istituto campano, il più grande per dimensioni mai realizzato in un carcere italiano. Sono stati costruiti, nell’ambito del progetto Rigiocare il Futuro, un nuovo campo da calcio e due campi da padel, con l’obiettivo di favorire il benessere delle persone detenute, offrendo loro esercizio fisico e nuove prospettive di vita, e prospettive di reinserimento lavorativo e sociale. Lo sport diventa così veicolo e laboratorio di educazione, disciplina e rispetto delle regole. Insomma, come emerso dal confronto tra i protagonisti dell’iniziativa intervenuti, investire nella riabilitazione sociale attraverso lo sport all’interno degli istituti penitenziari significa investire nel futuro del Paese. L’attenzione del Ministero su questo tema è massima, perché un sistema penitenziario efficace offre percorsi di formazione e crescita personale capaci di restituire dignità alle persone, contribuendo attraverso la riduzione dei tassi di recidiva ad una società più inclusiva e sicura. E questo progetto, ha dichiarato la direttrice Russo, “risponde pienamente a queste esigenze, ma anche agli obiettivi voluti dalla nostra Amministrazione, centrale e regionale, che non a caso ha voluto candidare proprio questo progetto all’Europris 2025 considerandolo come quello più meritevole”. “Rigiocare il futuro” è nato dalla sinergia tra le associazioni Seconda Chance e Sport Senza Frontiere. Forte il sostegno di una vasta rete di imprese e altre realtà, a testimonianza della efficacia dell’alleanza tra pubblico, privato e terzo settore. Per la partita inaugurale di calcio e padel, questa mattina, sono scesi in campo insieme detenuti, personale penitenziario e calciatori storici del Napoli. La ciliegina sulla torta per la comunità penitenziaria di Secondigliano che, ha confermato la direttrice, “ha accolto il progetto con grande favore, perché sente forte il bisogno di muoversi, imparare, confrontarsi in modo costruttivo e sentirsi parte di una squadra”. Monza. La libertà ricomincia con le note: “Il carcere come casa discografica” di Alessandro Salemi Il Giorno, 31 maggio 2025 I detenuti impareranno a suonare e comporre canzoni, che verranno messe sul mercato di Spotify. Un’iniziativa che dal silenzio delle sbarre farà risuonare qualcosa di nuovo. È partito ieri Free For Music, il progetto che trasforma la musica in strumento di riscatto e reintegrazione per i detenuti della Casa Circondariale di Monza. Un’iniziativa unica nel suo genere, ideata dall’educatore e consigliere comunale Paolo Piffer in collaborazione con l’etichetta discografica Orangle Records, con l’ambizione di diventare un modello replicabile in altri istituti penitenziari. Free For Music non è un semplice laboratorio musicale. È un percorso formativo e coinvolgente, che punta a produrre la musica che verrà composta dai detenuti. “La recidiva - spiega Piffer - è spesso figlia della mancanza di opportunità. La musica, grazie alla sua forza espressiva, può diventare il veicolo sano in cui incanalare le proprie emozioni, e con cui scoprire nuovi percorsi di vita”. Ogni venerdì, Piffer, che si occupa della parte educativa, e Christian Cambareri, Ceo di Orangle Records, entrano in carcere per accompagnare i detenuti in un viaggio di scoperta e crescita personale. I partecipanti - sette per ora, quasi tutti di diverse nazionalità -, seguono cicli di formazione di 2-3 mesi ciascuno, in cui imparano a scrivere testi, suonare strumenti, cantare, ma anche a conoscere i propri diritti d’autore, le proprie tutele, e comprendere le dinamiche del mercato musicale. Alla fine di ogni ciclo, i brani prodotti vengono registrati nella sala musica del carcere, allestita da Orangle Records con attrezzature professionali. I pezzi verranno poi pubblicati, promossi e venduti online. Gli autori-detenuti riceveranno una parte degli introiti generati dagli stream su Spotify, avendo così la possibilità di trasformare il proprio talento in valore. E non si esclude, nel corso dell’anno, il coinvolgimento di artisti noti a livello nazionale per collaborazioni speciali. A credere nel progetto anche la direttrice della struttura, Cosima Buccoliero. Bologna. Il ritorno in pubblico del Coro Papageno di Piero Di Domenico Corriere di Bologna, 31 maggio 2025 Formato da detenute e detenuti è nato con Claudio Abbado. Il ritorno del Coro Papageno, formato da detenute e detenuti della Casa Circondariale Rocco D’Amato di Bologna e da coristi volontari esterni. Dopo sei anni il coro nato nel 2011 da un’intuizione di Claudio Abbado e diretto da Michele Napolitano, affiancato dal fratello Claudio, pianista, e da Stefania Martin, entrambi docenti di teoria musicale e tecnica vocale, torna a cantare in pubblico. Sabato 7 giugno alla Dozza il concerto “A voce libera” con il Papageno che si esibirà con il coro multietnico di Bologna Mikrokosmos, in una giornata che vedrà anche una raccolta fondi a favore di Pace Adesso, destinata a sostenere le attività del Papageno. Napolitano, come è stato ripartire di nuovo con il Coro Papageno? “Dopo la pausa imposta dal Covid abbiamo pensato di ricominciare con questo progetto che ha ormai una lunga storia. Nel frattempo la Mozart 14 di Alessandra Abbado ha passato il testimone a Pace Adesso, una ODV che lavora molto soprattutto in Africa. Siamo ripartiti con lo stesso team ma in una situazione completamente diversa”. In che senso? “Rispetto a quando abbiamo cominciato, le attività che oggi si svolgono in carcere sono tantissime. E poi abbiamo dovuto ricostruire tutto da zero grazie anche ai volontari dei cori che fanno capo a Mikrokosmos. Del nucleo di vecchi coristi sono rimasti solo in due o tre”. Il concerto è inserito nel “MikrokosmInFestival. Narrazioni corali. Storie, identità ed echi culturali”... “È uno dei dieci concerti del festival, ovviamente con la peculiarità che si svolgerà in carcere per un pubblico di detenuti e per un ristretto pubblico proveniente dall’esterno che si è già prenotato”. Quale sarà il programma? “Inizierà il Coro Papageno con un repertorio dal colto al popolare, con brani swing e diversi canoni, poi toccherà al Mikrokosmos con canti popolari da tutto il mondo in molte lingue, francese, inglese, afrobrasiliano. E ancora spirituals, un canto colombiano e uno emiliano. Un giro per il mondo che si concluderà con i due cori insieme e che vedrà anche un brano di Lucio Dalla, L’anno che verrà, come omaggio alla città di Bologna”. Come è stato tornare in carcere? “È un luogo complesso per svolgere un’attività corale, dove ci si scontra quotidianamente con le tante difficoltà che vive il sistema carcerario italiano, dal sovraffollamento alla carenza di organico. Ma abbiamo avuto grande collaborazione dalla direzione carceraria, il Papageno vedrà ancora cantare insieme uomini e donne e poi resta la grande forza sociale del progetto”. I componenti del Papageno sono quasi tutti nuovi. Come ci avete lavorato? “Nell’immediato abbiamo avuto una restituzione impareggiabile, che fa superare tutte le difficoltà. Quando i componenti alla fine delle prove tornano dentro con un sorriso abbiamo la conferma della forza dell’obiettivo in cui crediamo. Il coro costituisce un piccolo passo, tanto complicato ma importante, prezioso”. L’esperienza del Papageno è servita come esempio? “Il Papageno ha ormai quasi quindici anni di attività e sin dall’inizio è stata presa d’esempio anche in altri istituti carcerari. Sono nati altri progetti simili, per esempio a Bari o a Parma con Gabriella Corsaro”. Nel 2016 il Papageno si è esibito in Senato, in San Pietro con papa Francesco e nel 2019 ha tenuto un concerto al Manzoni con Uri Caine. Cullate l’obiettivo di tornare ancora a cantare fuori dal carcere? “A me piace rimanere con i piedi per terra. L’attività si sta ricostruendo, sta migliorando rispetto all’anno scorso, quello della ripresa, quando avevamo fatto solo un concerto interno. Ma l’ attività fuori richiede un’ organizzazione davvero complessa. È stato bello incrociare in passato Mika o l’Orchestra Mozart ma per adesso, sperando di trovare altre risorse e finanziamenti, cerchiamo di fare qualcosa che serva ai detenuti”. Internati, abbandonati, dimenticati. Quei detenuti figli di un dio minore di Andrea Pugiotto L’Unità, 31 maggio 2025 “Un Ossimoro da cancellare” di Giulia Melani, con contributi di Franco Corleone, Katia Poneti e Grazia Zuffa, illumina a giorno i margini estremi della marginalità più estrema. Dove chi è bollato col marchio della “pericolosità sociale” vive rinchiuso o sotto sorveglianza, in balia dell’incertezza: una condizione peggiore della detenzione in carcere. 1. Caos calmo. Brivido caldo. Vergine madre. Morto vivente. False verità. Sono tutti esempi di ossimoro, figura retorica ottenuta dall’accostamento di due parole che si contraddicono. L’effetto linguistico è spiazzante a indicare qualcosa di assurdo e paradossale. “Case lavoro” non è un ossimoro, ma è come se lo fosse perché, in esse, apparenza e sostanza normativa si contraddicono. Meritano perciò di essere cancellate dall’ordinamento e sostituite con una diversa misura di sicurezza non detentiva, la libertà vigilata, riorientata costituzionalmente. Questa è la tesi del libro di Giulia Melani, impreziosito da contributi altrettanto importanti di Franco Corleone, Katia Poneti e Grazia Zuffa. Un libro a matrioska, contenente tante cose: un saggio giuridico; una raccolta di eloquenti dati statistici criticamente rielaborati; una ricerca sul campo di cui si squadernano gli esiti e gli strumenti d’indagine; una ragionevole proposta di riforma legislativa (AC n. 158 del 2022, on. Magi). Nell’insieme, è un libro estremista, nel senso che illumina a giorno i margini estremi della marginalità più estrema, perché anche tra i soggetti ristretti ci sono, dimenticati, i figli di un dio minore. Come tutte le pubblicazioni promosse da La Società della Ragione, anche Un ossimoro da cancellare. Misure di sicurezza e case lavoro (Edizioni Menabò) è uno strumento di lotta politica. Lo sono i volumi più preziosi, perché - come diceva Umberto Eco - il modo migliore di leggere un libro è usarlo. 2. Di cosa parliamo quando parliamo di misure di sicurezza? Tra esse, quali peculiarità presentano le case lavoro? Il telaio che tutto regge è il “doppio binario” introdotto dal codice penale del 1930 (IX dell’era fascista), scandalosamente tramandato dall’Italia monarchica all’Italia repubblicana. Per il codice Rocco, la pena serve a sanzionare il reo imputabile (perché “se posso rimproverarti, ti punisco”). La misura di sicurezza, invece, si rivolge a chi è giudicato socialmente pericoloso. Può esserlo il reo incapace d’intendere e di volere, dunque non imputabile, che andrà prosciolto ma “contenuto” (perché “se non posso punirti, devo comunque difendermi da te”): finirà internato in una casa di cura e di custodia o in un ospedale psichiatrico giudiziario (oggi r.e.m.s.) o in un riformatorio giudiziario. Può esserlo anche il reo che, espiata la condanna, è giudicato ancora socialmente pericoloso (perché “anche se ti ho già punito, devo comunque difendermi da te”): finirà internato in una colonia agricola a lavorare nei campi o in una casa di lavoro a svolgere attività artigianali o industriali. Nelle istituzioni totali, si sa, il lavoro rende liberi. Per il codice, dunque, pena e misura di sicurezza detentiva scorrono lungo binari paralleli. Diverse nei presupposti, lo sono anche per natura (penale l’una, amministrativa l’altra) e per funzione (retributiva e rieducativa l’una, precauzionale e riabilitativa l’altra) Il primo merito del libro è di svelare la finalità squisitamente politica di questo modello dualistico. Storicamente giustificato come superamento della “diatriba tra scuola classica e scuola positiva di diritto penale”, in realtà “garantiva un ventaglio ampio di strumenti repressivi, utili per uno Stato autoritario. Le misure di sicurezza, infatti, non offrono le garanzie del diritto penale classico e si presentano come misure amministrative di polizia”. 3. Nella realtà, pena e misura di sicurezza si rivelano gemelli siamesi. Sul piano fenomenico, innanzitutto. I nomi sono fumo negli occhi: le case lavoro sono un “parcheggio d’anime” in sezioni di istituti penitenziari, “strutture in tutto identiche, con regolamenti analoghi e analoghe attività trattamentali” e dove - salvo eccezioni - il lavoro è poco, non qualificato, scarsamente retribuito. Sul piano normativo, poi, una persona può essere - nel tempo e senza soluzione di continuità - detenuta e internata: non esistendo vicarietà tra i due meccanismi giuridici, l’uno non esclude l’altro. Abbiamo, così, una “duplicazione sanzionatoria” che accomuna pena e misura di sicurezza anche negli effetti segreganti. Eppure, su tale realtà, prevale l’abracadabra di un diritto penale che - davanti al socialmente pericoloso - maschera la punizione da misura di sicurezza. A questo conduce il sistema del doppio binario: ad un’autentica “truffa delle etichette”, utile per negare all’internato “le tradizionali garanzie relative alla colpevolezza, alla proporzionalità, alla legalità, alla giurisdizionalità”. 4. Sotto certi aspetti, addirittura, l’internamento è peggiore della detenzione: accade, ad esempio, per la sua durata. Il codice penale la predetermina nel minimo, superato il quale - se il soggetto è ancora socialmente pericoloso - la misura segregante viene prorogata. Di rinnovo in rinnovo, si subiva così un internamento senza fine: un “ergastolo bianco”. Per evitarlo, la legge n. 81 del 2014 ha introdotto una regola che la Consulta (sent. n. 83/2017) riconosce applicabile a tutte le misure di sicurezza detentive: non devono superare il massimo della pena edittale prevista per il reato commesso. Malgrado ciò, possono egualmente toccare vette dolomitiche: la durata media è tra 1 e 2 anni, ma non mancano internamenti in casa lavoro misurabili tra 6 e 10 anni, a volte tra 11 e 20 anni. Quando poi la misura di sicurezza segue l’espiazione della condanna, il periodo di detenzione non si sottrae alla durata massima dell’internamento. Ne risulta un “tempo passato sotto controllo penale” (carcere + casa lavoro), mediamente pari a 8 anni e 7 mesi. Infine, l’internamento può essere seguito o sostituito dalla libertà vigilata, di durata indefinita: applicandola, il giudice aggira ogni limite temporale. E poiché la violazione delle sue prescrizioni giustifica un nuovo internamento, è possibile l’effetto “porte girevoli” tra misure di sicurezza, detentiva e non detentiva. Non stupisce, quindi, che “l’incertezza della durata e la discrezionalità delle proroghe contribuiscano a rendere la detenzione in casa di lavoro, per molti, insostenibile”. 5. Lo “scambio” che indirizza il reo verso il binario del carcere o della casa lavoro scatta in presenza di una categoria risalente all’archeologia criminale: la pericolosità sociale. Il codice Rocco tipizza le figure del delinquente “abituale”, “professionale”, “per tendenza” (tale se rivela “una speciale inclinazione al delitto” e un’”indole particolarmente malvagia”). Con una mappa del genere il giudice naviga a vista, chiamato a un accertamento predittivo dall’incerta attendibilità e dalla dubbia scientificità. E poiché la pericolosità è una “qualità” del soggetto, il diritto penale del fatto lascia il posto al diritto penale d’autore, dove sei punito non per ciò che fai ma per ciò che sei e che - cabalisticamente - farai. Anche qui il libro è prezioso, laddove riporta le testimonianze raccolte nella casa lavoro di Barcellona Pozzo di Gotto. Leggerle è un esercizio istruttivo, perché chi parla è al tempo stesso colui di cui si parla. Nel complesso, le loro storie rivelano un quadro demografico di marginalità sociale tradotto in prognosi di pericolosità. 6. Le case lavoro sono un reperto illiberale, fallimentare, fonte di insensata sofferenza. Sono una pena dopo la pena. Se sopravvivono, è perché le vite di scarto non interessano a nessuno. In tutta Italia sono solo 8 (Alba, Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Castelfranco Emilia, Tolmezzo, Trani, Vasto, Venezia-Giudecca) cui si aggiunge un’unica colonia agricola (Isili). Vi sono internate circa 250 persone: poco meno dello 0,5% dell’intera popolazione carceraria. Rappresentano, dunque, “un fenomeno marginale nel complesso sistema penale”. Eppure servono politicamente, incarnando un monito per tutti: oggi sono pochi, ma domani potrebbero essere di più, molti di più. Indipendentemente dal loro numero, gli ossimori non hanno cittadinanza in Costituzione. Vanno cancellati. Quando accadrà alle case lavoro, sarà vergognosamente troppo tardi. Parole liberate: oltre il muro del carcere di Duccio Parodi L’Unità, 31 maggio 2025 Le persone detenute scrivono per molti motivi e un unico bisogno: trovare ascolto. Ora c’è un premio dedicato a loro, la presentazione il 5 giugno nel carcere femminile di Taranto, il 6 nell’Ipm di Bari. Questo articolo è anche l’annuncio di due eventi che si svolgeranno, il primo, il 5 giugno nel carcere femminile di Taranto, il secondo, il 6 giugno nel carcere minorile di Bari, dove verrà presentato il progetto “Parole liberate: oltre il muro del carcere” promosso dal giornalista Michele De Lucia, dall’attore Riccardo Monopoli e dall’autore Duccio Parodi. Si tratta di un Premio riservato alle persone detenute alle quali viene proposto di essere co-autori di una canzone: la lirica vincitrice è poi affidata a un artista già affermato, affinché la metta in musica e la interpreti. Il 31 dicembre 2024 Elena Scaini ha liberato oltre il muro del carcere le sue parole, e il 3 marzo 2025 si è tolta la vita. Le persone detenute scrivono per molti motivi e un unico bisogno: trovare ascolto. Elena non aveva più motivi, non aveva più bisogno, nemmeno di sapere se avesse “vinto”. Restano le sue tre poesie, le parole che ci ha affidato. A qualcuno verrà in mente Carlo Levi e il suo “le parole sono pietre” e penserà che quelle di Elena questo siano, pietre, e come sempre nessuno ricorderà che, prima delle parole, prima delle pietre, sono le lacrime. E mentre il nuovo pontefice invita a “disarmare le parole” e benvenute siano queste, appunto, parole, sarebbe utile che seguissero le istruzioni su come farlo, questo disarmo, visto che le esortazioni alla tolleranza e le marce per la pace nel mondo non sono servite a granché. E se nei dieci anni trascorsi seminando bandi riservati ai detenuti abbiamo raccolto migliaia di parole, e contato i nomi di chi, come Elena, ha lanciato il proprio corpo disperato un po’ più in là dell’ultimo portone blindato lasciando a noi le istanze e i protocolli e le prassi pallide ma feroci che tanto ci assomigliano, abbiamo anche imparato che le parole da disarmare non sono quelle che vengono da dentro le mura, ma quelle di fuori, quelle della società civile che esulta in tribunale quando il giudice legge la sentenza più gradita, o che si sente defraudata quando la pena è inferiore al massimo e non soddisfa la sua esigenza di vendetta. Certo sarebbe ingiusto stigmatizzare chi prova il desiderio di infliggere un castigo a chi gli ha causato un dolore o una perdita, e sarebbe ridicolo oltre che ingiusto pensare di stravolgere un codice - quello penale, appunto - che di questo si occupa. E quanto “fare giustizia” fosse necessario lo aveva già compreso Hammurabi quasi quattromila anni fa; le sue leggi erano piuttosto semplici: occhio per occhio, dente per dente. Questo simpatico motto rimase in vita fino a quando Mosè con le stesse parole introdusse un diverso concetto, quello della riparazione. Il senso del suo “occhio per occhio” infatti non era “te ne cavo uno a te se tu me ne cavi uno a me” bensì “ti porto in tribunale e me lo paghi, l’occhio”, e seguiva un articolato tariffario. Questa legge appare severa perché infarcita di condanne a morte, ma si tratta di una severità pedagogica ché arrivare a sentenza era molto complicato, dato che se il voto degli anziani era unanime (segno che l’imputato non aveva nemmeno un amico), non si poteva condannare e in ogni caso era necessario almeno un testimone oculare, requisito difficile da soddisfare. Dopo Mosè si tornò alle esecuzioni facili e alle torture e si inventarono le prigioni, e ci vollero due millenni per arrivare a Beccaria; e a quel punto preferimmo Hammurabi. È proprio qui, nell’ambito della giustizia e della pena che una distorsione del significato ha trasformato le parole in armi: penitenziario per esempio significa confessore, non prigione, e questa torsione del significato diviene tortura del corpo, perché penitenziario non è più la persona che redime, ma il luogo dove la pena si infligge, parola che suggerisce percuoti, scaglia contro. Come “carcere”, dal latino “carcer”, recinto per le greggi, a sua volta derivato dall’aramaico “carcar”, seppellire, tumulare, perché i prigionieri in attesa di giudizio venivano calati nelle cisterne scavate nel terreno (vedi Giovanni Battista). Le parole che derivano da pena, quindi penitenziario, espiazione, pietà, penale, punire e punizione trovano la loro radice nel sanscrito “pu” ovvero purezza, pulizia. Castigare e castigo vengono dal latino “castus” anche qui puro, pulito. Dis-armate le parole, resta il senso di una redenzione (ri-comprare, ri-ammettere) attraverso gli strumenti della educazione del reo (vedi edificazione, costruzione della persona, non certo la rieducazione modello cinese) e non della distruzione afflittiva come richiede la vendetta. Il sentimento di vendetta, che comprensibilmente abita nelle vittime dei delitti e che ha originato le accezioni oppressive dei termini che indicano le prigioni (dal latino per “prendere con forza”, e anche “edera”) non può essere trasferito nella legge. Se Fuori (dal carcere) l’unica verità rimane la vita scoperta dentro di Gianluca Iovine Il Dubbio, 31 maggio 2025 Il film di Mario Martone è un racconto emotivo che attraversa la ribellione della scrittrice Goliarda Sapienza a un mondo socialmente vuoto. “Fuori”, di Mario Martone, unico film italiano in concorso a Cannes, è un film d’arte, ed è forse per questo che piegarlo a un giudizio critico sarebbe fuorviante. Più che alle categorie di logica e senso, infatti, la pellicola, che ha tra le interpreti principali Valeria Golino, Matilda De Angelis ed Elodie, mira a un racconto emotivo che si struttura nel tempo preciso dell’alba degli anni Ottanta del Novecento, per poi tradire quella dimensione temporale, in un continuo flashback. Analogamente questo avviene nella narrazione dei luoghi, in un’intenzionale entropia dove la ricchezza delle immagini e degli scambi effettivi tra Goliarda Sapienza e le amiche del carcere di Rebibbia serve a rendere ancora più straniante il silenzio del mondo intellettuale verso la poetessa e scrittrice catanese. La sua diviene così una chiusura di opposizione, decisa per ribellione a un mondo vuoto, convenzionale. Che non avrebbe mai potuto pubblicare L’arte della gioia senza dissolversi. Nel corpo nudo e scabro, e negli occhi che non rintracciano più un orizzonte, la maturità espressiva di Valeria Golino incarna l’angoscia di una donna che sente mortalmente il velo del tempo come quando gioca a ingabbiarsi nella tenda trasparente di una doccia, nella fantasia ammessa e negata di lasciarsi andare via, per sempre, inconoscibile e incompresa, in un non luogo, dove finalmente dentro e fuori possano farsi sintesi. Soggetto e sceneggiatura del film partono dal testo L’Università di Rebibbia e dalla breve reclusione della poetessa per una storia di gioielli rubati e documenti falsi. Lo sguardo del regista napoletano esplora l’aporia di chi, anche uscito, trasporta fuori privazione e sicurezze del carcere. Nella continua, ambigua dialettica tra dentro e fuori, nella relazione con l’ambiente, e la rivelazione dei sentimenti, tra la conquista di una dignità e il confronto con le regole sociali, si sviluppa una storia di amicizia tra donne che nel tempo attenua il reale protagonismo della scrittrice, tanto da indirizzare il pubblico verso l’angelica, sfrontata terrorista Roberta, che Matilda De Angelis arricchisce di un vissuto irregolare e complesso. Elodie con la sua Barbara tiene bene il confronto visivo, lasciando una dolcezza che l’aspra Ottavia di Daphne Scoccia controbilancia al meglio. Del monumentale romanzo di Goliarda Sapienza, adagiato in una cassapanca tra blocchetti e pagine sparse, rifiutato per anni, e pubblicato solo grazie all’amore testardo del secondo compagno, il palermitano Angelo Maria Pellegrino, grecista e grande caratterista del cinema che Corrado Fortuna rende con assoluto nitore espressivo, oggi resta la condanna imprescrittibile per superficialità, per aver capito solo da vent’anni, dopo editori tedeschi e francesi, che grande autrice (ed attrice, anche!) del nostro Novecento sia la Sapienza. Costretta a lungo nella marginalità, tra snobismo dei salotti e cure psichiatriche, nel filmato di fine film, ringraziava Rebibbia per averle dato quello che nessuno le aveva riconosciuto. La ricostruzione rigorosa dello scenografo Carmine Guarino e della costumista Loredana Buscemi restituisce un’epoca plumbea che auto, manifesti e insegne svelano nell’ingresso del consumismo e nel progressivo abbandono delle ragioni dell’anima, travaglio da troppi accettato con rassegnazione, e per le donne di cultura vissuto come mortale. Incompiuto a tratti, eppure splendidamente spiazzante come la vita, “Fuori” ci riporta a un’epoca di lotte e sentimenti dell’essere, che nel nostro avere a tutti i costi, talvolta ci rifiutiamo di riconoscere offuscati dalla deriva cui tempo e scelte ci hanno condotti. Capodarco di Fermo, un’esperienza su cui riflettere di Goffredo Fofi Il Manifesto, 31 maggio 2025 La morte pochi giorni fa di don Franco Monterubbianesi fa ancora ragionare sull’enorme lavoro svolto dalla comunità di Capodarco di Fermo, insieme alla sua sede romana, per rendere più vivibile la vita delle persone con disabilità. A partire da quel viaggio a Lourdes di molti anni fa in cui alcuni preti che vi avevano accompagnato tutto un gruppo decisero insieme a quelli di non più accettare il pietismo e l’emarginazione con cui venivano trattati, e avviarono un’iniziativa - in una villa donata da qualcuno su una collina vicina a Capodarco - che ha cambiato la sorte di tanti tra loro. Ma non si limitarono a vivere insieme, tante persone con disabilità anche con le loro famiglie, a volontari e medici esperti, produssero documenti e avviarono lotte che hanno cambiato la condizione dei disabili nel nostro paese. Per diversi anni ho seguito da vicino quest’esperienza e apprezzato l’energia di don Franco, ma anche quella di don Vinicio Albanesi che lo affiancava e di vari altri preti e volontari. Mentre la spinta del ‘68 stava languendo, mi sembrò a suo tempo significativo che gli eredi più determinati di quel grande movimento fossero piuttosto preti e credenti che non dei raggruppamenti politici, ed è per questo che si può parlare del “‘68 dei cattolici” come di una delle poche eredità immediate dei movimenti. Erano anche gli anni di monsignor Di Liegro e della Caritas, e don Franco fu attivo avviando, con gli altri del movimento, iniziative in altri paesi, e lui stesso soprattutto in Africa. Capodarco avviò gruppi e iniziative soprattutto in Italia - in Veneto, in Umbria, in Calabria - e in Calabria il gruppo di Progetto Sud di Lamezia si rese autonomo, come altri, con impronte diverse adeguate all’ambiente e alle sue emergenze. Si apprezzava la loro azione di questi vari gruppi perché affrontavano, collegandosi ad altri del posto, le diverse forme di emarginazione - i rom, gli immigrati, la prostituzione organizzata delle ragazze africane, l’ autismo infantile, il recupero in cooperative contadine di tossicodipendenti eccetera. Sì, la più sostanziosa eredità del ‘68 la si trovò nei gruppi cattolici molto più che in gruppi decisamente laici, molti dei quali hanno saputo tuttavia agire in altri modi, dentro nuovi tempi. Don Franco Monterubbianesi, energico e determinato, è stato soprattutto alle origini di un’azione e di gruppi. Di un movimento che andava molto oltre una pur degnissima azione di assistenza, e che dava della carità e dell’amore del prossimo interpretazioni antiche ma anche nuove, perché nuovi erano i tempi. E oggi? Il cosiddetto sociale è chiamato a sostituire interventi pubblici carenti, occupandosi pur sempre di emarginazione e disagio, ma ha un peso, nelle decisioni dei politici, molto minore di quello che dovrebbe avere, e questo anche per sua colpa, per sua debolezza. E sconta il fatto avere interlocutori politici assai fiacchi, rendendo per questo più faticosi gli interventi non di parole ma di fatti. I messaggi di Mattarella: il Governo è intollerante alle leggi e ai giudici di Vitalba Azzollini* Il Domani, 31 maggio 2025 “Nessun potere dello Stato - nessuno - è immune da vincoli e controlli”, ha detto Sergio Mattarella durante l’incontro con i magistrati ordinari in tirocinio. “La stessa sovranità popolare - ha proseguito il presidente della Repubblica - viene esercitata “nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione”, come questa dispone nel suo primo articolo”. Le parole di Mattarella paiono indirizzate, tra le righe, a esponenti del governo che, specie in tema di immigrazione, non perdono occasione per mostrare una certa intolleranza verso i vincoli costituzionali e i controlli della magistratura, accusata di ostacolare le politiche dell’esecutivo. Emblematico è il commento che la presidente del consiglio formulò dopo la prima mancata convalida del trattenimento di migranti in Albania, nell’ottobre scorso, lamentando “un certo menefreghismo rispetto al voto popolare”. L’idea - opposta a quella espressa dal Quirinale - è evidentemente che una mal intesa “sovranità popolare” conferisca al governo una sorta di onnipotenza, rendendolo superiore alla legge, e quindi anche ai tribunali che la legge interpretano e applicano. Di recente, il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Alfredo Mantovano, è andato pure oltre, criticando i giudici che, specie in tema di immigrazione, erodono gli “spazi regolativi del legislatore nazionale”, dando preminenza alla Costituzione e ai vincoli europei e internazionali. Ma tale preminenza non è un’invenzione dei giudici: è sancita dalla stessa Costituzione, nonché affermata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea. La lettera alla Corte Edu - L’intolleranza del governo a vincoli e controlli si rinviene nella lettera con cui il 22 maggio scorso, Italia e Danimarca (e poi Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia), hanno accusato la Corte europea dei diritti umani (Corte Edu) di interpretare la Convenzione europea sui diritti dell’uomo (CEDU) in modo tale da ridurre i loro margini di azione nel gestire l’immigrazione, e soprattutto le espulsioni di migranti. “In tutta modestia - affermano i firmatari della lettera - crediamo di essere fortemente allineati con la maggioranza dei cittadini europei”. Il concetto è sempre lo stesso: se la volontà popolare apprezza certe politiche dei governi, queste ultime devono prevalere rispetto a leggi e giudici. La lettera indirizzata alla Corte Edu risulta lesiva, nel metodo e nel merito, delle prerogative della Corte stessa. Quanto al metodo, la nota si configura come uno strappo istituzionale, in spregio alle modalità - accordi interpretativi o i protocolli addizionali - con cui i governi possono intervenire sulla Cedu. Circa il merito, essa appare come un atto di ingerenza politica nell’attività di un organismo sovranazionale di garanzia. Nonostante i firmatari affermino di credere nei diritti umani, il loro fine è palese: arginare la portata delle pronunce della Corte per ampliare quella delle proprie decisioni politiche, anche a discapito dei diritti dei migranti. La replica del Consiglio - Alla lettera ha replicato il segretario generale del Consiglio d’Europa, Alain Berset, ribadendo “l’indipendenza e l’imparzialità della Corte”. “In una società governata dallo Stato di diritto - ha detto Berset - nessun organo giudiziario dovrebbe subire pressioni politiche. Le istituzioni che proteggono i diritti fondamentali non possono piegarsi ai cicli politici. Se lo fanno, rischiano di erodere la stabilità che esse stesse devono garantire”. “La Corte non deve essere usata come arma, né contro i governi, né da loro”, ha scritto ancora il segretario, perché se “il dibattito è salutare, politicizzare la Corte non lo è”. Insomma, prosegue l’opera di delegittimazione degli organismi di giustizia che il governo italiano ha iniziato da tempo. Sorge spontanea una domanda. Quando l’esecutivo, che accusa spesso i giudici nazionali di fare politica, chiede a quelli della Corte Edu di adottare decisioni che si conformino alle esigenze politiche dei governanti, si rende conto della propria incoerenza? Ragazzi assassini, identità fragili e desiderio di ordine di Giorgia Serughetti* Il Domani, 31 maggio 2025 La sequenza di femminicidi che coinvolgono uomini e donne giovanissime costringe a sporgersi su un vuoto di senso. Cos’è che fa della violenza estrema un “rimedio” all’insostenibilità di un conflitto, di una delusione, di un rifiuto? E cosa si cela dietro quell’insostenibilità? Sono ragazzi all’apparenza fragili, fragilissimi, incapaci di sostenere il rifiuto di una coetanea o un abbandono sentimentale; eppure, si rivelano capaci di commettere crimini di violenza inaudita. Sono maschi in età adolescenziale, o poco più, la cui vita dovrebbe essere aperta al futuro; e che vivono invece la frustrazione per la fine di una relazione come la perdita di ogni orizzonte, intravedendo una via d’uscita solo nell’uccisione di quella donna da cui sembra dipendere la sopravvivenza stessa del sé. La sequenza di femminicidi che coinvolgono uomini e donne giovanissime - l’ultimo quello con cui Alessio Tucci, 19 anni, ha tolto la vita a Martina Carbonaro, 14 anni - costringe a sporgersi su un vuoto di senso. Cos’è che fa della violenza estrema un “rimedio” all’insostenibilità di un conflitto, di una delusione, di un rifiuto? E cosa si cela dietro quell’insostenibilità? Cultura del controllo - Parlare di cultura del controllo e del possesso, radicata in una storia di assoggettamento delle donne al potere maschile, coglie senz’altro il punto. Ogni mano maschile che uccide una donna in quanto donna, armata dal rifiuto di accettarne e sostenerne la libertà, manifesta la persistenza di un ordine materiale e simbolico fondato sul dominio degli uomini e l’oppressione delle donne. Insomma, di ciò che chiamiamo patriarcato. Eppure, lo sgomento che produce ogni nuovo caso di violenza efferata tra le nuove generazioni si deve anche allo stridore che avvertiamo tra sistemi valoriali, norme sociali e dispositivi di giustificazione del passato e del presente. In un tempo in cui il diritto ha fatto avanzamenti fenomenali nel riconoscimento delle forme di violenza e nella predisposizione di strumenti per la prevenzione e il contrasto, l’aumento di vittime e carnefici minorenni o giovanissimi suscita interrogativi nuovi o ulteriori. Identità fragili - Da un lato, il fenomeno rivela il generale ritardo nel processo di trasformazione della cultura diffusa, a dispetto dell’innovazione nelle normative. Proprio la messa in discussione delle norme di genere tradizionali si scontra con la mancanza o indisponibilità di nuovi modelli di maschilità, dove trovino spazio capacità emozionali e comunicative, attitudini rivolte alla condivisione e alla cura. Qui è una delle radici della violenza maschile contro le donne, che trasforma in pretesa di dominio la percezione di perdita di potere. Dall’altro, non si può ignorare che, se parliamo di giovani e giovanissimi, la persistenza dell’antica radice patriarcale si intreccia con la profonda incertezza in cui è avvolto il presente, e con la percezione di mancanza di futuro che le indagini demoscopiche rivelano tra le nuove generazioni. Colpisce infatti, in queste storie di controllo ossessivo, gelosia patologica, indisponibilità al confronto e avversione al rifiuto, la misura di dipendenza degli autori di violenza dalle donne che hanno designato come “loro”. La relazione con una donna che possano chiamare “loro” diventa per questi uomini un puntello dell’identità fragile, a cui si aggrappano come piante rampicanti, incapaci di sviluppare un’autonomia serena. L’ansia identitaria, la ricerca disperata di un posto nel mondo, trova così nella violenza uno strumento per ripristinare la parvenza di un ordine in cui sentirsi al sicuro. E qui è un’altra radice del fenomeno che stiamo indagando. La visione della destra - Non è casuale che l’inasprirsi di queste forme di violenza letale avvenga in un contesto in cui entrambe le radici sono alimentate su scala più ampia dalla visione della destra radicale, che mira a farsi egemone, in cui la risposta allo smarrimento culturale e al senso di perdita di status dei gruppi storicamente dominanti passa attraverso una promessa d’ordine. La promessa di ripristinare un ordine “naturale” della società, che rinsaldi le gerarchie di genere, sessualità, “razza”, classe. La violenza, a livello micro come a livello macro, appare come un mezzo per ricomporre (almeno immaginativamente) un ordine disuguale. E riconoscerla e combatterla, partendo dalle generazioni più giovani, è tutt’uno con la resistenza al pericolo autoritario che avanza. *Filosofa Referendum cittadinanza. Ostellari: “Chi diventa italiano deve impegnarsi a seguire un percorso” di Alice D’Este Corriere del Veneto, 31 maggio 2025 Una cittadinanza che va “meritata” e non “elargita e regalata”. Alla base del “no” al referendum, o meglio dell’astensione sostenuta dalla Lega e dunque anche dal Sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari c’è soprattutto questo concetto, legato alla proposta di abbassare a cinque gli anni di permanenza in Italia per poterla richiedere. Perché no? “In realtà, la Lega è per l’astensione su tutti i quesiti. Perché? Perché la cittadinanza non si regala, perché l’occupazione sta crescendo e l’Italia ha bisogno di meno vincoli per tornare a correre”. I primi quattro quesiti riguardano il lavoro e in particolare un’inversione rispetto al Jobs act introdotto da Renzi. Come la vede in questo senso? “La Lega rimane coerente: sin dal 2018, Matteo Salvini ha ribadito che quella riforma aveva anche aspetti positivi. Altri lo sono meno, come l’eliminazione dei voucher che ha moltiplicato il lavoro nero. Per fare un esempio pratico il secondo quesito, se passasse, rischierebbe di terremotare la piccola impresa veneta, che mai come oggi ha bisogno di certezza sui costi potenziali”. Parlando di cittadinanza, invece? Il quesito chiede di abbassare a cinque anni la possibilità di richiederla... “Sono contrario. Non è un fatto di slogan, ma di numeri: il 33% dei detenuti nelle nostre carceri è di origine straniera. La percentuale in quelle minorili sale addirittura al 50%. Siamo sicuri che concedere la cittadinanza a tutti migliorerà le cose? Dieci anni sono il tempo adeguato, non c’è necessità di accorciare i tempi”. Il referendum sulla Cittadinanza Italiana non modificherebbe però gli altri requisiti richiesti (la maggiore età, non aver commesso reati, avere un reddito adeguato, rispettare gli obblighi fiscali, conoscere la lingua italiana ecc)... “I dati Eurostat dimostrano che comunque un numero significativo di stranieri ottiene la cittadinanza già con il sistema attuale, con una media che è di molto superiore a quella dei 27 paesi Ue. Piuttosto se serve un intervento, va fatto sulle tempistiche di esame delle domande”. In Italia molte industrie hanno bisogno di manodopera, e tra i lavoratori in particolare ci sono spesso persone straniere... “Non mi pare che la gran parte di chi entra illegalmente nel nostro paese cerchi di integrarsi e lavorare. E, d’altra parte, per lavorare, la cittadinanza non serve. Può invece essere un obiettivo da raggiungersi dopo un percorso fatto anche di responsabilità e impegno”. Ritiene al contrario che abbassando la soglia della richiesta diventerebbe una corsa alla cittadinanza senza reale interesse? “Siamo sinceri, sappiamo tutti che questi referendum non hanno alcuna possibilità di raggiungere il quorum…” Chi appoggia il referendum sostiene che la copertura mediatica sia stata insufficiente... “Di questi referendum mi pare se ne stia parlando, lo stiamo facendo anche noi con questa intervista. Detto questo, non mi sembra che per i referendum sulla giustizia voluti dalla Lega, nel 2022 si siano fatte trasmissioni televisive o faccia a faccia sulla stampa”. Migranti in Albania, la Cassazione rinvia alla Corte Ue la normativa italiana di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2025 Nel mirino le previsioni della legge 14/2024 laddove permette di trasferire persone destinatarie di provvedimenti di trattenimento convalidati o prorogati; e il trattenimento del migrante destinatario di provvedimento di espulsione che abbia presentato domanda di protezione. La Cassazione ha rinviato alla Corte di giustizia Ue, la legge dello scorso anno di ratifica ed esecuzione del Protocollo Italia e Albania nella parte in cui consente di trasferire persone destinatarie di provvedimenti di trattenimento convalidati o prorogati nei centri di trattenimento albanesi, senza concrete prospettive di rimpatrio. In subordine, chiede alla Cgue se sia c0mpatibile con la normativa europea la possibilità di trattenere in Albania un migrante destinatario di un provvedimento di espulsione che abbia presentato domanda di protezione internazionale dopo il trasferimento. Il provvedimento nasce dal ricorso del Ministero degli Interni contro due decisioni della Corte d’appello di Roma di mancata convalida dei trattenimenti. Per il segretario di Più Europa Riccardo Magi “la Corte di Cassazione rinvia i casi di trattenimenti illegittimi nei Cpr in Albania, confermando tutti i dubbi che avevamo espresso da subito sotto il profilo della legittimità giuridica di questi centri disumani”. “I Cpr albanesi - prosegue - , pagati dai contribuenti italiani quasi un miliardo di euro, non sono solo un fallimento politico ma anche giuridico: l’intero impianto del protocollo va palesemente contro le norme europee e non rispetta alcuno standard umanitario”. La Corte di giustizia dovrà dunque affrontare due questioni. La prima se la direttiva 2008/115/Ce sui rimpatri di cittadini di paesi terzi, entrati irregolarmente, sia contraria alla legge n. 14 del febbraio scorso laddove consente (in particolare, all’art. 3, comma 2) di condurre in determinate zone, individuate dal Protocollo del novembre 2023, “persone destinatarie di provvedimenti di trattenimento convalidati o prorogati ai sensi dell’art. 14 d.lgs. 286 del 1998, in assenza di qualunque predeterminata e individuabile prospettiva di rimpatrio”. La seconda, da proporre solo in caso di risposta negativa, se l’art. 9, par. 1 della direttiva 2013/32/Ue sulla protezione internazionale, sia contraria alla legge 14/2024, che permette il trattenimento del migrante destinatario di provvedimento di espulsione, che abbia presentato domanda di protezione. La Prima sezione penale ha chiesto che la questione sia decisa “con procedimento d’urgenza” e nelle more ha sospeso il giudizio “sino alla definizione della questione pregiudiziale”. La parola passa, dunque, alla Corte di Lussemburgo che dovrà decidere se la strategia del Governo italiano sulla immigrazione irregolare sia compatibile con il quadro giuridico europeo o debba essere riconsiderata. Le due questioni riguarderebbero due casi diversi, le cui cause sono state però riunite. Il primo sarebbe un migrante in una situazione di irregolarità amministrativa; il secondo un richiedente asilo che ha fatto domanda di protezione internazionale dal Cpr. Per il primo il dubbio è che il trasferimento dall’Italia all’Albania contrasti con la direttiva rimpatri. Per il secondo un analogo sospetto riguarda la direttiva accoglienza. Il dispositivo Corte di cassazione, esito del procedimento: preso atto del provvedimento di riunione al presente procedimento di quello recante il n. 14055 del 2025, sottopone alla corte di giustizia dell’unione europea, in via pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del trattato sul funzionamento dell’unione europea (Tfue) le seguenti questioni: 1) se la direttiva 2008/115/ce del parlamento europeo e del consiglio del 16 dicembre 2008 recante norme e procedure comuni applicabili negli stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare e, in particolare, gli articoli 3, 6, 8, 15, 16 ostino all’applicazione di una disciplina interna (art. 3, comma 2, della l. 21 febbraio 2024, n. 14) che consente di condurre nelle aree di cui all’art. 1, par. 1, lett. c) del protocollo tra il governo della repubblica italiana e il consiglio dei ministri della repubblica di Albania per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria, fatto a Roma il 6 novembre 2023, persone destinatarie di provvedimenti di trattenimento convalidati o prorogati ai sensi dell’art. 14 d.lgs. 286 del 1998, in assenza di qualunque predeterminata e individuabile prospettiva di rimpatrio; 2) in caso di risposta negativa a tale questione, se l’art. 9, par. 1 della direttiva 2013/32/ue del parlamento europeo e del consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, osti ad un’applicazione della disciplina interna (l. 21 febbraio 2024, n. 14) che consente di disporre, in ragione del ritenuto carattere strumentale della domanda di protezione, il trattenimento, in una delle aree di cui all’art. 1, par. 1, lett. c) del protocollo tra il governo della repubblica italiana e il consiglio dei ministri della repubblica di Albania per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria, fatto a Roma il 6 novembre 2023, del migrante destinatario di provvedimento di espulsione, che, condotto in queste ultime, abbia presentato tale domanda. chiede che la questione pregiudiziale sia decisa con procedimento d’urgenza e sospende il presente giudizio sino alla definizione della suddetta questione pregiudiziale. ordina la trasmissione di copia della presente ordinanza, unitamente agli atti del giudizio, alla cancelleria della corte di giustizia dell’unione europea. Migranti. Sui Centri in Albania il Governo continua il rilancio di Andrea Colombo Il Manifesto, 31 maggio 2025 L’ennesimo fallimento sui Cpr non muta l’atteggiamento dell’esecutivo sui centri. Ma la premier preferisce il silenzio. “Andiamo avanti”. La reazione del governo all’ennesimo fallimento albanese viene solo sussurrata in via ufficiosa. Per il resto, a parte la poca assennata intemerata del capogruppo FdI Bignami contro il manifesto, reo di aver diffuso una notizia, nel governo e nella maggioranza regna una consegna: quella del silenzio perfetto. In certi casi l’unica via d’uscita è far finta di niente sperando che la figuraccia sfugga di vista. L’interpretazione del governo, in attesa delle motivazioni delle sentenze gemelle di Cassazione che affondano il terzo tentativo di uscire a testa non troppo bassa dal disastro del centro di Gijader, è che tra una riga e l’altra c’è spazio a sufficienza per procedere comunque. O almeno per far finta. Una delle sentenze, argomentano, riguarda solo i Paesi con i quali non vige un mutuo trattato per i rimpatri. Ma quelli con cui quel trattato vige si contano. E non si capisce bene cosa i pochissimi interessati stessero a fare in Albania. Il secondo caso indicato dalla Cassazione, secondo il governo, coinvolge solo i cittadini stranieri che non hanno richiesto asilo. Chi lo ha richiesto e gli è stato negato potrà comunque essere deportato oltre mare. Salvo che lo richieda di nuovo, tornando così a essere richiedente e dunque soggetto alla “richiesta di chiarimento” inoltrata dalla Cassazione alla Corte penale europea di Lussemburgo. I “dubbi” sulla compatibilità dei trasferimenti con le norme Ue quasi non lasciano scampo. Il silenzio dei governanti è rumorosissimo. Meloni è in missione nel Kazakhistan. La distanza non le impedisce di disquisire un po’ su tutto con una sola eccezione: la sberla della Cassazione, il terzo flop consecutivo. Un record. Salvini, solitamente gran divoratore di immigrati clandestini, è occupato a costruire ponti. Non gli si faccia perder tempo. Piantedosi, ministro dell’Interno, è in Spagna proprio per discutere di immigrazione. Preferirebbe glissare ma rivendica “come Italia”, il “primato di aver avviato la discussione sugli hub extra regionali per il rimpatri dei migranti, che poi si svilupperà in Ue”. Il mutismo di tutti gli altri non è segno di imbarazzo. È che in caso contrario bisognerebbe ammettere la sconfitta, dichiarare la resa, rassegnarsi a quella che era sin dall’inizio la sola strada: aspettare il pronunciamento della Corte del Lussemburgo scontando l’accusa, inevitabile perché giustificata, di aver buttato soldi a valanga in un’operazione non solo sbagliata nei fondamentali ma anche tradotta in pratica con rara inettitudine. Per evitare quella figuraccia, dal novembre scorso, la premier prova ad aggirare l’ostacolo con percorsi sempre più funambolici, prima sottraendo la competenza alla Sezione Immigrazione del Tribunale di Roma solo per vedere il medesimo verdetto confermato dalla Corte d’Appello, poi modificando la funzione dell’edificio fantasma eretto in Albania ora svuotato di nuovo dalla sentenza degli ermellini. Ogni rilancio si è risolto in figuracce ancora più incresciose. Non c’è da stupirsi se ieri l’intera opposizione ha bersagliato il governo con toni a metà strada fra la denuncia e l’irrisione. Il fiore all’occhiello dell’esternalizzazione, il progetto di circondare la fortezza Europa con un anello di Paesi e pronti a sporcarsi le mani purché ben pagati, si sono sin qui risolti in una farsa imbarazzante e inutilmente costosa. La decisione di “andare avanti” comunque condanna il governo a restare sulla graticola ancora a lungo. I “chiarimenti” chiesti dalla Cassazione non arriveranno infatti a stretto giro. Anche se fosse accolta la richiesta di procedere d’urgenza ci vorrebbero mesi. In novembre dovrebbe arrivare l’altra decisione, quella sui Paesi sicuri che dovrebbe sbloccare o affossare il piano albanese della premier. La grande maggioranza dei Paesi europei sta con lei, preme per una sentenza che permetta l’esternalizzazione dei campi, permetta all’esperimento pilota italiano di decollare. Ma la lentezza della Corte, la scelta di affidarsi alla procedura accelerata invece che d’urgenza e il rinvio da giugno a novembre autorizzano il sospetto che tra politica e amministrazione della giustizia qualche problema ci possa essere anche a Bruxelles. Come nell’America di Trump. Come nell’Italia di Giorgia Meloni. Migranti. L’allergia alle notizie che fa infuriare i meloniani di Mario Di Vito Il Manifesto, 31 maggio 2025 “Come ha fatto il manifesto ad avere accesso a questi provvedimenti?”, si domanda il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia evocando un possibile complotto dei giudici in combutta con questo giornale. Al ministero della Giustizia l’imbarazzo è palpabile e la speranza quasi dichiarata è che Galeazzo Bignami non dia davvero seguito alla sua idea di interrogare Carlo Nordio per ottenere chiarimenti in merito alla notizia uscita ieri sul manifesto dei due rinvii della Cassazione alla Corte di giustizia Ue sui trattenimenti nei Cpr albanesi. “Come ha fatto il manifesto ad avere accesso a questi provvedimenti?”, si domanda il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia evocando un possibile complotto dei giudici in combutta con questo giornale. In realtà bastava soltanto che un cronista facesse il suo lavoro, perché le due ordinanze di cui si parla sono uscite giovedì e da quel momento erano a disposizione delle parti interessate e di chiunque. Tutte cose che in via Arenula sanno e che auspicano di non dover ribadire, anche perché da quelle parti la situazione già è piuttosto complicata tra la completa rivoluzione degli uffici andata in scena nelle scorse settimane e l’incudine del tribunale dei ministri che ha sentito diversi funzionari - e vorrebbe sentire anche il guardasigilli in persona - per la vicenda della scarcerazione del boia libico Osama Elmasry. “Sempre il manifesto - parole ancora di Bignami sull’affaire Cpr - ha preannunciato che la Cassazione avrebbe diramato un comunicato al riguardo, cosa puntualmente avvenuta. Perché lo sapeva?”. Qui un mistero in effetti c’è, ma è tutto nelle parole di Bignami: il comunicato che sarebbe stato “puntualmente” diramato, alla fine in realtà non è uscito in virtù del fatto che la notizia ormai era stata resa pubblica. Perché dirlo allora? Anche qui la risposta sembrerebbe essere la più semplice. Il fratello d’Italia sa come si sta al mondo, o quantomeno come funziona il dibattito pubblico: se sei in un guaio, sparala grossa. In questo caso attaccare il manifesto e la Cassazione serve a coprire il fatto che i piani di deportazione dei migranti del governo sono andati per l’ennesima volta a sbattere davanti alla legge. La grancassa mediatica e social che suona da mesi non è bastata, né è servito a molto cambiare le composizioni dei tribunali e le competenze dei giudici: le manovre albanesi di Meloni continuano a non funzionare. Bignami, insomma, ha cercato a modo suo di distogliere l’attenzione da un fatto che a questo punto vale la pena ribadire: la prima sezione penale della Cassazione ha rovesciato la sua precedente decisione di equiparare il Cpr di Gjader a quelli italiani e ha espresso qualche dubbio sulla conformità delle leggi varate a Roma con le normative europee. “Nel caso in questione la normativa prevede un’udienza con l’intervento di pm e difensore - commenta Stefano Celli, esponente di Magistratura democratica nella giunta dell’Anm -. Alla fine la corte legge il dispositivo e gli interessati, oltre ad ascoltarlo, possono ottenerne copia e comunicarlo a chi vogliono. Non c’è nessun segreto e un bravo giornalista immagino curi le sue fonti. Sul merito mi permetto di consigliare prudenza e attendere le decisioni della Corte di giustizia. A meno che il ministero non rinunci al ricorso, come ha fatto nel caso di cui si occupò la giudice Apostolico, rendendosi probabilmente conto che il provvedimento del tribunale era più che corretto”. Anche il segretario di Md Stefano Musolino affonda il colpo: “Duole che la necessaria e utile critica ai provvedimenti giudiziari, invece di affrontare il merito giuridico delle questioni indugi su approssimative ricostruzioni, faziosamente artefatte, per rappresentare una realtà in vero inesistente, ma compiacente a chi la dichiara. Non fatti, ma fattoidi che creano un’opinione pubblica pregiudizialmente ostile alla magistratura, fondata sul nulla”. E il segretario di Area democratica per la giustizia Giovanni Zaccaro: “Mi meraviglio che un esponente di una maggioranza liberale annunci un’interrogazione su una notizia, fra l’altro vera, data da un giornale, visto che la libera informazione è un architrave delle democrazie”. In tutto questo, le opposizioni hanno gioco facile a battere sul merito di quanto detto dalla Cassazione. Se per il dem Matteo Mauri quella del governo è “solo propaganda”, per il verde Angelo Bonelli e il pentastellato Alfonso Colucci siamo in presenza di “una costosa farsa” dal valore di un miliardo di euro. Da + Europa Riccardo Magi si spinge un po’ più in là: i Cpr dall’altra parte dell’Adriatico non sono “solo un fallimento politico di Meloni, visto che finora hanno ospitato pochissime persone, ma lo sono anche da un punto di vista giuridico: l’intero impianto del protocollo va palesemente contro le norme europee e non rispetta alcuno standard umanitario”. EasyJoint e la sentenza sulla cannabis light che sconfessa il Decreto Sicurezza di Maria Carla Sicilia Il Foglio, 31 maggio 2025 Dopo tre anni di inchiesta e sei di processo, Luca Marola è stato assolto dall’accusa di cessione e vendita di stupefacenti “perché il fatto non sussiste”. Ora il decreto che mette fuori legge le infiorescenze vanifica la sentenza. Ma il processo è un precedente che potrebbe fornire elementi giuridici contro la norma del governo Meloni. Assolto perché il fatto non sussiste, nello stesso giorno in cui la Camera ha approvato il decreto Sicurezza del governo Meloni. Che tra le altre cose mette fuori legge le infiorescenze della canapa e la filiera che la produce e la trasforma. È la storia paradossale di Luca Marola, imprenditore e attivista radicale di Parma, il primo in Italia a fondare un’azienda grossista di cannabis light. “Dopo tre anni di inchiesta e tre di processo la sentenza è stata un grande sollievo, ma ora è tutto di nuovo illegale. Non ho avuto neppure un giorno di gloria”, scherza rispondendo al Foglio. Nel 2019 la procura di Parma ha avviato un’inchiesta contro di lui con l’accusa di cessione e vendita di stupefacenti. Praticamente spaccio. Per questo il procuratore capo Alfonso D’Avino aveva chiesto una pena di quattro anni e dieci mesi, oltre a una multa di 55 mila euro. Il presupposto, lo stesso su cui si basa oggi la norma del decreto Sicurezza, è che non fosse legale commercializzare i fiori di canapa industriale perché equiparabili a una droga. “È giusto che una procura si intestardisca su un’opinione sgangherata e minoritaria, producendo settemila pagine di inchiesta di fronte alle quali un giudice ha semplicemente detto: il fatto non sussiste. Davvero si possono spendere così i soldi pubblici, provocare danni a persone e imprese con intercettazioni e sequestri?”, si chiede oggi Marola. All’epoca la sua EasyJoint esisteva da due anni e contava su un fatturato di circa un milione di euro all’anno, aveva 12 dipendenti diretti più un indotto di una cinquantina di persone. Il primo sequestro della procura ha svuotato il magazzino di 650 chili di cannabis, per un valore di circa 2 milioni di euro. In Italia l’azienda è stata un’esperienza pioneristica. Oggi la filiera conta duemila imprese agricole e circa mille commerciali, tra una decina di grossisti e molti negozi di vendita al dettaglio, oltre a trentamila lavoratori, secondo i dati dell’associazione Imprenditori canapa Italia. Per questo settore il decreto Sicurezza rappresenta una mannaia. “E’ una norma confusa, fatta male e ideologica. Non si può mettere l’infiorescenza di canapa, che non ha capacità psicotropa, nella stessa tabella delle droghe”, dice Marola, forte della sentenza che lo scagiona dall’accusa di cessione e vendita di stupefacenti. Dal punto di vista giuridico, il processo a EasyJoint rappresenta un precedente importante per la canapa industriale in Italia, la cui produzione e trasformazione è stata finora normata da una legge del 2016 su cui sono intervenute diverse sentenze e pronunce della Cassazione. Ora le motivazioni della sentenza che assolve Marola potrebbero fornire elementi giuridici a coloro che puntano a disinnescare la norma del governo Meloni. “La struttura dell’accusa è identica alla struttura del decreto Sicurezza”, dice il fondatore di EasyJoint. “Per questo quando arriveranno le motivazioni della sentenza sarà interessante capire se ci sono strumenti giuridici che potranno essere usati per smantellare il decreto Sicurezza. Siamo pronti a rimetterci all’opera”.