Carceri in emergenza, una scelta politica di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 30 maggio 2025 Chiunque si affidi alla retorica pubblica della legalità deve sapere che le carceri sono oggi i luoghi dell’illegalità istituzionale. Il sistema penitenziario è senza respiro! I detenuti sono senza respiro. Gli operatori sono senza respiro. Come mai negli ultimi decenni in carcere si percepisce sofferenza, tensione, paura. Nelle cento visite di Antigone lungo il 2024 abbiamo potuto constatare con i nostri occhi cosa significa un sistema penitenziario in crisi profonda di identità: corpi ammassati in celle chiuse, spazi inadeguati, tensione alle stelle, sofferenza generalizzata, condizioni igieniche e sanitarie inaccettabili, educatori stanchi, poliziotti in difficoltà, direttori provati, medici preoccupati, volontari a malapena tollerati, progetti educativi, sociali e lavorativi dirottati su binari morti. Il sistema penitenziario deve tornare a respirare aria buona e sana, altrimenti rischia una pericolosissima implosione. Negli ultimi due anni si è smarrito il senso comune di appartenenza costituzionale. Per questo è necessario consolidare un’alleanza costituzionale tra associazioni, operatori penitenziari e sociali, medici, organizzazioni sindacali, accademici, avvocati, magistrati che si opponga a un intento demolitorio di quel che resta dell’Ordinamento Penitenziario del 1975. Chiunque si affidi alla retorica pubblica della legalità deve sapere che le carceri sono oggi i luoghi dell’illegalità istituzionale. Gli istituti di pena per adulti e per minori sono sempre più quella “fabbrica di devianza” di cui parlava Filippo Turati nel lontano 1904. Il carcere, che dovrebbe essere la pena legale, è nella realtà un esercizio di potere esercitato senza preoccuparsi della sua distanza abissale dalle leggi, a partire da quella costituzionale. I detenuti che vivono per mesi o anni in celle fetide, rese nere dalla muffa e infiltrate di acqua; i detenuti che sono costretti a dormire nelle aule scolastiche per mancanza di posti; i detenuti con problemi psichiatrici che sono trattati come bestie; i detenuti che sono posti in isolamento senza un procedimento disciplinare che ne giustifichi il collocamento; i detenuti che non ricevono risposta di fronte a un bisogno urgente di cura; i detenuti che vivono nella paura di subire un’aggressione: sono tutti esempi di un carcere illegale, incostituzionale. Il rapporto di Antigone evidenzia un gap incolmabile tra il dover essere della pena in base alla Costituzione e il suo essere concreto e tragico. Ciò non è solo il frutto di negligenze, rimozioni, burocrazia. Oggi è una scelta politica. Non di rado accade di questi tempi che non solo la pratica, ma anche la retorica pubblica, è esplicitamente aggressiva, truce, illegittima. Il carcere è stato trasformato in una trincea di guerra utile a raccogliere voti e consenso. Chi usa dalle postazioni di Governo toni militareschi o guerrafondai per orientare e gestire la vita carceraria commette un gravissimo atto di insubordinazione costituzionale che renderà durissima la vita degli stessi direttori e operatori di polizia. Per questo è necessaria una solida presa di coscienza collettiva e politica che faccia proprio il discorso di papa Francesco contro i mercanti della paura. A partire dalla pubblicazione di questo rapporto Antigone sarà impegnata a dar vita a una grande alleanza costituzionale, nel nome della quale ci impegneremo a raccontare che il sovraffollamento non è una calamità naturale ma l’esito di scelte illiberali, criminogene, tendenti a trasformare i consumatori di sostanze, gli immigrati, i dissidenti come nemici da abbattere. E saremo ugualmente impegnati a decostruire tutti insieme il decreto legge sicurezza con il suo intento di annichilire i detenuti, trasformandoli in numeri che devono solo obbedire, come nella peggiore tradizione politica italiana di regime. Chiunque abbia a cuore la democrazia deve occuparsi delle condizioni di vita nelle galere, così come fecero i nostri costituenti nel 1948, così come ci suggerì di fare Piero Calamandrei quando, rivolgendosi a un gruppo di studenti, spiegò loro quanto fosse importante andare in pellegrinaggio dove è nata la nostra Costituzione: sulle montagne, nelle carceri, nei campi, ossia dovunque è morto un italiano per riscattare la nostra libertà. Andiamoci in tanti e tutti insieme, senza farci ingannare dalla truffa della sicurezza. *Presidente Associazione Antigone In carcere senza respiro: il report di Antigone parla di sovraffollamento e compressione dei diritti di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 30 maggio 2025 Abbiamo presentato stamattina a Roma il nostro XXI Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, frutto di un anno di monitoraggio del sistema penitenziario avvenuto attraverso oltre cento visite da noi effettuate a strutture penitenziarie per adulti e per minori. Vi raccontiamo quello che vediamo con i nostri occhi. E quello che vediamo non è una bella cosa. Abbiamo intitolato questo Rapporto “Senza respiro”. Tempo fa il sottosegretario Delmastro raccontò di provare un’intima gioia nel togliere il respiro alle persone detenute. Il suo umore deve essere dunque molto alto: in carcere oggi si vive drammaticamente senza respiro. Il tasso di affollamento reale è al 133%, superiore a quello calcolato sui numeri ufficiali forniti dal Ministero della Giustizia. Questi non tengono infatti conto delle tante sezioni carcerarie che sono chiuse da anni per mancanza di manutenzione. Sono solo 36 oggi le carceri che rispettano la propria capienza. Tutte le altre sono sovraffollate. In ben 58 istituti penitenziari l’affollamento supera il 150%. A Milano San Vittore siamo addirittura al 220%, a Foggia al 212%, a Lucca al 205%, a Brescia Canton Monbello al 201%, a Varese al 196%, a Potenza al 193%. E potrei continuare in questa triste classifica. Non si racconti la favola delle nuove carceri da costruire: la popolazione detenuta sta crescendo al ritmo di 150 unità al mese. Se un carcere di medie dimensione ha circa 300 posti, significa che ogni due mesi dovremmo costruire un nuovo istituto, con una spesa di partenza di circa 30 milioni di euro cui si aggiungono le spese di personale e tutte quelle che servono per mandarlo avanti. Le scellerate politiche penali del governo, che introducono nuovi reati a ogni decreto, sono assai costose per le nostre tasche. Il commissario straordinario all’edilizia penitenziaria, nominato dal governo nel luglio 2024, è riuscito a progettare solo 384 posti letto, in prefabbricati che andranno inseriti in carceri qua e là e che già nascono sovraffollati, prevedendo uno spazio a persona inferiore in partenza a quello previsto dalla legge. Ma in carcere si sta senza respiro anche per un’altra ragione: se il respiro lo dà il rispetto dei diritti di tutti, il carcere che si va oggi progettando è un carcere senza diritti per le persone detenute. Il nuovo reato di rivolta penitenziaria - nel quale incorreranno le persone più fragili che possono avere momenti di crisi in detenzione quali i detenuti con problemi psichici, i tossicodipendenti, i minori stranieri non accompagnati - si configura anche in caso di resistenza passiva a un ordine impartito. Punisce con pene altissime anche il semplice dissenso pacifico di un detenuto che rivendica un proprio diritto. Nel solo 2024, anno monitorato nel nostro Rapporto, si sono verificati 1.500 episodi di pacifica protesta in carcere. Supponendo che ciascuno abbia coinvolto una media di quattro detenuti, con il nuovo reato possiamo ipotizzare circa 24.000 anni aggiuntivi di galera. Una follia istituzionale, molto lontana da una pena costituzionalmente orientata. Tutto questo mentre i reati sono in continuo calo e l’Italia si afferma come uno dei Paesi più sicuri al mondo. A ogni populismo penale fa comodo ignorare numeri e statistiche e creare nemici immaginari. Noi nel Rapporto questi numeri li diamo: andateli a leggere e non fatevi prendere in giro. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone “Senza respiro”: così Antigone racconta un carcere al collasso di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 maggio 2025 È stato presentato a Roma il XXI Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia, intitolato “Senza respiro”. Un titolo che non è una metafora, ma una fotografia lucida di un sistema penitenziario al collasso, dove detenuti, operatori e istituzioni sono sempre più in affanno. Nel 2024 l’Osservatorio di Antigone ha visitato 95 istituti penitenziari per adulti e la maggior parte di quelli per minorenni, da Bolzano ad Agrigento. Ciò che è emerso è uno scenario drammatico: corpi ammassati in celle anguste, spazi inadeguati, tensioni continue e una sofferenza che tocca tutti gli attori del carcere. Al 30 aprile 2025 i detenuti in Italia erano 62.445, a fronte di una capienza regolamentare di 51.280 posti. Se però consideriamo i 4.500 posti non disponibili per inagibilità o lavori di ristrutturazione, il tasso reale di sovraffollamento schizza al 133%, con circa 16.000 persone senza un posto “vero”. Solo 36 carceri su 189 restano entro i limiti, mentre 58 hanno un tasso di affollamento superiore al 150%. Milano San Vittore guida la classifica nera col 220%, seguito da Foggia (212%) e Lucca (205%). Oltre 5.000 detenuti in più negli ultimi due anni - Negli ultimi due anni la popolazione detenuta è cresciuta di oltre 5.000 unità, mentre la capienza effettiva è diminuita di 900 posti. Ogni sessanta giorni, in media, 300 persone entrano in più in carcere: vale a dire, l’equivalente di un nuovo istituto ogni due mesi. Un ritmo insostenibile per qualunque piano di edilizia penitenziaria, che rischia di trasformarsi in un pozzo senza fondo, con un costo di 30 milioni di euro per 300 posti. A soffrire di più sono i detenuti più fragili: tossicodipendenti, persone senza dimora, stranieri privi di assistenza legale, chi soffre di disturbi psichiatrici. Proprio queste categorie, spesso condannate a pene brevi, rappresentano la maggioranza di chi potrebbe accedere a misure alternative. E invece, tra i detenuti con condanna definitiva, il 51,2% ha meno di tre anni da scontare e più di 1.370 sono in carcere per pene inferiori a un anno. Il sovraffollamento non risparmia neanche gli Istituti Penali per Minorenni. Per la prima volta superiamo i 600 ragazzi (611, di cui 27 ragazze), contro i 381 di fine 2022. Un’impennata spinta dal “decreto Caivano”, che ha aumentato del 65% i minorenni in custodia cautelare. Nove Ipm su 17 vivono ormai condizioni di sovraffollamento, con Milano Beccaria e Cagliari Quartucciu al 150%. Nel frattempo, l’attivismo punitivo del governo con il “decreto sicurezza” approvato ad aprile 2025 ha introdotto il nuovo reato di rivolta penitenziaria, punendo persino le proteste pacifiche con pene superiori a quelle previste per i maltrattamenti in famiglia e escludendo l’accesso alle misure alternative. Se solo nel 2024 si sono registrati 1.500 episodi di protesta non violenta (coinvolgendo almeno 6.000 detenuti), e ad ognuno di loro fosse applicata una pena media di quattro anni, il carico aggiuntivo supererebbe i 24.000 anni di carcere. Come spiega bene Pasquale Principe nel rapporto di Antigone, la norma entrata in vigore il 12 aprile 2025 col “decreto sicurezza” colpisce già chiunque, in tre o più persone, opponga resistenza - anche passiva - agli ordini degli agenti, trasformando il più piccolo gesto di disobbedienza in un reato di rivolta punibile con uno- cinque anni di carcere (e fino a otto per chi organizza o promuove). In poche parole: basta che tre compagni di cella, stremati dal sovraffollamento o da condizioni degradanti, decidano di non alzarsi al richiamo di un agente, e si ritroveranno sotto processo con il divieto di accedere a qualsiasi beneficio penitenziario. E questo non è un’ipotesi remota: tra il 12 e il 30 aprile si sono già registrati cinque episodi di protesta collettiva in altrettanti istituti, con circa ottanta detenuti coinvolti e un carico aggiuntivo stimato in quattrocento anni di detenzione da scontare. Un meccanismo che cancella ogni possibilità di mediazione e rende definitiva la sofferenza di chi, di fronte al muro di un sistema in frantumi, osa solo alzare la voce. Antigone: clemenza per chi ha ancora meno di due anni di pena - Eppure, Antigone non si limita a denunciare il collasso: mette sul tavolo proposte pensate per dare un primo, effettivo sollievo. Immaginate un gesto di clemenza esteso a chi ha ancora meno di due anni di pena da scontare: non si tratterebbe di un’amnistia generica, ma di un atto calibrato che coinvolgerebbe oltre 17.000 persone, restituendo loro - e alle loro famiglie - un orizzonte di speranza. Allo stesso tempo, l’associazione chiede di riaprire con urgenza i Consigli di disciplina di tutti gli istituti: non più riunioni rituali e al rallentatore, ma sessioni straordinarie capaci di valutare in modo collettivo, tempestivo e umano richieste di grazia e misure alternative per chi ha residui di pena inferiori a un anno. Una forma piuttosto semplice da mettere in campo, che consentirebbe di alleggerire immediatamente il carico di migliaia di detenuti, alleggerendo anche la pressione sugli agenti e sugli spazi carcerari. Infine, Antigone rivendica il divieto assoluto di nuove carcerazioni quando non esiste un posto regolamentare disponibile: un principio di buon senso che eviterebbe di trasformare ogni ingresso - anche per reati minori - in un ulteriore aggravio di un sistema già al limite. Tre mosse distinte, ma convergenti: un invito a riscrivere le regole non con l’ottica del muro o dell’emergenza, ma partendo dalla dignità di chi sta soffrendo, in attesa che lo Stato recuperi un respiro più ampio. Durante la presentazione Patrizio Gonnella ha lanciato un appello a una “grande alleanza costituzionale” che coinvolga università, associazioni, professionisti e sindacati. “Il carcere non deve diventare una trincea di guerra - ha detto -. Chi usa toni guerrafondai commette un atto di insubordinazione alla Costituzione e rende la vita degli stessi poliziotti un inferno”. Gonnella ha ricordato le parole di Papa Francesco per una pena “mite e mai disumana” e il suo monito contro i “mercanti della paura”: “Non è stato ascoltato in vita. Speriamo lo sia dopo la sua morte”. In queste pagine, trattenendo il respiro, Antigone ci consegna la fotografia di un’implosione annunciata. Spetta ora al Paese decidere se continuare col linguaggio della guerra o ricostruire un senso comune di pena che tuteli la dignità di tutti. “Senza respiro” detenuti, operatori e agenti. Celle “a rischio deflagrazione” di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 maggio 2025 Il report restituisce l’immagine desolante di una condizione detentiva sempre più lontana dalle regole democratiche. Dopo 95 istituti penitenziari visitati nel corso del 2024, l’Osservatorio Antigone può ben testimoniarlo direttamente: detenuti agenti e operatori sono “Senza respiro”. È il titolo, appunto, dell’ultimo Rapporto sulle carceri nel quale l’associazione può facilmente prevedere che con il Decreto Sicurezza - tramite il quale il codice penale accresce il potenziale punitivo di 486 anni di prigione - il sistema penitenziario è “a rischio deflagrazione”. Tanto più per via del nuovo reato di rivolta penitenziaria che si determina anche con la resistenza passiva, e prevede “pene altissime, superiori nel massimo edittale anche ai maltrattamenti in famiglia”. Tanto che, calcola Antigone prendendo in esame i circa “1.500 episodi di protesta collettiva non violenta verificatesi solo nel 2024”, sono “in arrivo 24.000 anni di carcere” per chi dissente. Dal penitenziario più grande, quello di Poggioreale a Napoli con i suoi 2.031 reclusi nel giorno della visita, fino all’istituto più piccolo, quello a Custodia Attenuata per Madri (Icam) di Lauro “che ospitava in quel momento 5 mamme con 5 bambini”, dalle carceri per adulti agli Ipm per minori, dalle sezioni ad Alta sicurezza dove sono rinchiusi anche i detenuti sottoposti al regime di 41 bis fino ai reparti di isolamento, il report restituisce l’immagine desolante di una condizione detentiva sempre più lontana dalle regole democratiche. “In arrivo 24.000 anni di reclusione per chi protesta” con il nuovo reato di rivolta - A cominciare dagli spazi: 46.780 posti effettivamente disponibili (in diminuzione rispetto al 2023) erano occupati il 30 aprile 2025 da 62.445 persone, con un tasso medio di affollamento di almeno il 133%. “In due anni la capienza effettiva è calata di 900 posti, mentre le presenze sono aumentate di oltre 5.000 unità”. I detenuti infatti “crescono di circa 300 unità ogni due mesi”. Non raramente (in 30 istituti) lo spazio a disposizione di ciascun recluso era minore di quello minimo (3 mq) richiesto dalla Cedu. In alcuni casi le celle erano senza riscaldamento o senza acqua calda. Ora, ragiona Antigone, per contrastare il sovraffollamento bisognerebbe “costruire sei carceri l’anno per un costo di circa 180 milioni di euro, senza contare il personale”. E i nuovi padiglioni prefabbricati in arrivo? “Sovraffollati giù dal progetto”. Il tutto mentre “i tassi di criminalità sono in calo”, in particolare “diminuiscono in modo significativo gli omicidi volontari, anche di donne”, e resta invariato il numero di reati contro il patrimonio, quello più commesso. Il carcere è la misura cautelare più usata, in particolare per gli stranieri, anche se il ricorso alla carcerazione preventiva continua a calare, in linea con il trend degli ultimi anni (“i detenuti con sentenza passata in giudicato, che erano il 71,7% alla fine del 2023, sono saliti al 73,5% alla fine del 2024”). Nel “12% dei casi il recluso non sarà condannato”. La maggior parte dei definitivi (51,2%) ha meno di tre anni da scontare e quasi 10 mila persone hanno condanne inferiore ai tre anni (“soggetti fragili, spesso senza avvocato e plurirecidivi”). Gli stranieri sono “il 31,6%, in diminuzione rispetto al 37,5% del 2007”. Ve ne sono in particolare in Lombardia e Lazio, e sono sempre più giovani. E infatti con i 611 minori reclusi in totale (oltre agli altri 189 appena maggiorenni trasferiti in carceri per adulti), anche gli Ipm sono in sofferenza: sovraffollati ben 9 Istituti su 17. “Una situazione mai vista”, sintetizza Antigone rimarcando l’abuso di psicofarmaci che li caratterizza. Al Beccaria di Milano e a Cagliari il tasso di affollamento è del 150%. Nel complesso, la metà è composta da minori stranieri non accompagnati. E il governo che fa? Trova una soluzione “inedita e inaudita”, che “non tiene conto dell’interesse superiore del ragazzo”, come nel caso della Dozza a Bologna dove una sezione del carcere per adulti è stato trasformato in Ipm. Sia chiaro, a certificare che non esiste alcuna emergenza per la criminalità minorile è lo stesso Ministero della Giustizia che nel presentare i dati assicura: “Il fenomeno appare sostanzialmente stabile o in lieve diminuzione”, “le gang giovanili non appaiono in aumento”. Attualmente sono 11 i bambini detenuti con le loro madri negli Icam. E, “col decreto Sicurezza saranno di più e potranno essere sottratti alle madri”. I suicidi, l’altra grande piaga: nel 2024 sono stati 91, mai così tanti. “In carcere ci si leva la vita ben 25 volte in più rispetto alla società esterna” e “in Italia il tasso di suicidi in carcere è oltre il doppio della media europea”. Gli agenti sono pochi (“più o meno 1 ogni 2 detenuti”) e distribuiti in modo disomogeneo. Mancano poi 93 direttori e una marea di operatori. E mancano i fondi. Perché, malgrado i tanti annunci, “gli investimenti destinati all’amministrazione penitenziaria risultano costanti nel tempo”. Ass. Luca Coscioni: “Liberazione anticipata anche per garantire diritto alla salute dei detenuti” quotidianosanita.it, 30 maggio 2025 “Il sovraffollamento carcerario crea insufficiente attenzione alla salute fisica e mentale nei penitenziari italiani che, aggiunto alle critiche condizioni igienico-sanitarie degli istituti impone un provvedimento deflattivo straordinario: il Parlamento approvi la legge Giachetti sulla liberazione anticipata”. L’Associazione Luca Coscioni pubblica le relazioni sulle visite in carcere delle ASL ottenute con un accesso agli atti del dicembre scorso. Ad aprile, solo 66 Aziende sanitarie locali hanno inviato copia della documentazione richiesta senza specificare, nella maggior parte dei casi, né se la Regione abbia predisposto delle regole o suggerimenti per l’effettuazione delle visite né quali siano state le reazioni istituzionali. “Nella stragrande maggioranza dei casi” si legge in una nota dell’Associazione “negli istituti di pena italiani non sono stati effettuati neanche interventi di ordinaria amministrazione, una negligenza che, già grave di per sé, si acuisce per il sovraffollamento di oltre il 134% e, se non bastasse, alla luce del pronunciamento della Corte dei Conti che, il 5 maggio, ha pubblicato la relazione Infrastrutture e digitalizzazione: Piano Carcere in cui critica lo stato di attuazione del decennale Piano Carceri. Tra le altre cose, la magistratura contabile evidenzia situazioni critiche di sovraffollamento in particolare in Lombardia, Puglia, Campania, Lazio, Veneto e Sicilia”. “Il sito indipendente dal giornalista Marco Della Stella, che monitora quotidianamente le presenze in carcere, denuncia che al 25 maggio 2025 in Italia ci sono 62.742 persone detenute a fronte di una capienza regolamentare di 51.280 posti di cui 4.488 però non disponibili portando pertanto il tasso di affollamento al 134%” “Si rende quindi tanto necessario quanto urgente” conclude la nota dell’Associazione “un intervento straordinario che consenta la liberazione anticipata di un consistente numero di detenuti che possa porre fine all’illegalità diffusa delle condizioni a cui sono costrette decine di migliaia di persone e consentire quei lavori di ordinaria manutenzione necessari per rendere le carceri italiane a norma di legge anche per quanto riguarda il rispetto del diritto alla salute”. L’Associazione Luca Coscioni si appella al Parlamento perché possa, almeno, adottare un indultino di un anno, come proposto dall’organizzazione Nessuno Tocchi Caino e dal Deputato Roberto Giachetti e guardato con favore dal Presidente del Senato Ignazio La russa. Al contempo, l’Associazione si riserva di proseguire con le sue azioni giudiziarie per mettere in mora le negligenze dell’Amministrazione penitenziaria e il mancato rispetto delle raccomandazioni delle Asl da parte del Ministero della Giustizia. Si ricorda che dall’autunno è possibile condividere in modo sicuro e anonimo critiche relative al diritto alla salute in carcere sul sito FreedomLeaks. Il Decreto Sicurezza e l’incoerenza dei fintogarantisti di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 30 maggio 2025 Irrazionalità, contraddizioni e sproporzioni nelle nuove norme approvate dalla Camera e ora al vaglio del Senato. Basterà aver avuto entro 5 anni neanche un rinvio a giudizio, ma appena una denuncia, per vedersi vietare dal “Daspo urbano” del Questore, senza neanche accertamento di pericolo di reati, l’accesso ad alcune aree, pena l’arresto sino a un anno: notevole coerenza per un governo che ovunque evoca la presunzione di innocenza, e dall’1 giugno designa Questore di Monza un dirigente condannato sino in Cassazione per falso sui fatti della scuola Diaz al G8 di Genova. Del resto la dosimetria, che nel “decreto sicurezza” i giuristi ritengono stravolta da 14 nuovi reati e 9 aggravanti - ad esempio nell’occupazione abusiva di una casa in cui la pena diventa la stessa di chi ha la colpa di far morire un operaio in un incidente sul lavoro - è sostituita da un’implicita nuova scala di valori, geografie, persino aritmetiche: agli agenti indagati 10.000 euro per le spese legali in ogni fase (fino a un massimo di 50.000), a fronte di 500 euro di rimborso per l’avvocato che in Albania difenda gli stranieri trattenuti nel Cpr delocalizzato; e chissà cosa sono “le immediate adiacenze” di stazioni dei treni e metrò nelle quali il legislatore aggrava i reati, o “l’onore dell’istituzione” la cui lesione aumenterà la pena del deturpamento di immobili pubblici. Nuove sfide pure per i cultori dei rebus: su come sia possibile far diventare il reato ai danni di poliziotti o medici più grave che se commesso contro tutti gli altri funzionari pubblici; se sia saggio punire con il penale non solo chi blocca una strada con barricate (come oggi) ma pure chi manifesta col proprio corpo una protesta pacifica (oggi multa); e se sia prudente scriminare i reati degli 007 non solo (come oggi) nell’infiltrarsi in associazioni di terrorismo o eversione dell’ordine democratico, ma addirittura nell’organizzarle. Fino al paradosso di uno Stato che, mentre in 6 anni ha dovuto indennizzare 23.500 detenuti per le “condizioni inumane” delle carceri, trasforma in reato di “rivolta” (fino a 8 anni, più veto ai benefici) il solo non obbedire (senza violenza o minaccia già oggi punite) all’esecuzione di ordini, cioè la sola resistenza passiva che invece fuori non integra mai il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Ora resterebbe il Senato. Eppure non si vuol toccare nemmeno lo scordato corto circuito tra due norme che finisce per punire di meno talune lesioni agli agenti: tutto pur di non interrompere l’esproprio del Parlamento che da un anno esaminava l’identico ddl, scippato dal governo con inventati requisiti di “necessità e urgenza” per travasarlo nel 48esimo decreto legge con il voto di fiducia n. 89. Ok della Camera al Dl Sicurezza. Le opposizioni: “Decreto paura” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 maggio 2025 Proteste in Aula: “Misure incostituzionali”. Salvini: “Più tutele per le forze dell’ordine”. Con 163 voti favorevoli, 91 contrari e 1 astenuto la Camera dei Deputati ha approvato ieri in prima lettura la legge di conversione del dl sicurezza. Assenti in Aula la premier Meloni e i ministri che lo avevano presentato (Piantedosi, Nordio, Crosetto, Giorgetti). Martedì scorso il governo aveva incassato la fiducia. Dal 3 giugno toccherà a Palazzo Madama pronunciarsi sul provvedimento: avrà tempo fino all’ 11 dello stesso mese, pena la decadenza del decreto legge. Al termine della votazione finale Alleanza verdi e sinistra, Movimento 5 Stelle e Partito democratico hanno esposto cartelli con le seguenti scritte: “Né liberi né sicuri”, “Non si arresta la protesta”, “La democrazia non si piega”, “Decreto paura”. Tantissimi gli interventi durante tutta la giornata di discussione a Montecitorio. Che sarebbe andata così lo si sapeva da tempo, ma ciascun partito ha voluto rimarcare le proprie posizioni rispetto ad una norma blindata dalla maggioranza. Ovviamente soddisfatto del risultato il vice premier e ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture, Matteo Salvini, che da Reggio Calabria ha dichiarato: “Sono molto contento dell’approvazione del decreto Sicurezza che dà più poteri e tutele legali alle forze dell’ordine. E scelgo uno dei tanti episodi: permette lo sgombero immediato delle case occupate abusivamente da chi non ha titolo di farlo, oltre che prevedere una stretta sulle truffe agli anziani. Quindi sono molto soddisfatto di quel testo”. Ma torniamo al dibattito in Aula. Per la deputata di FdI Augusta Montaruli, “il dibattito parlamentare sul tema della sicurezza e sul provvedimento in sé è stato amplissimo: il ddl era già stato affrontato dalla Camera e dal Senato con un approfondimento importante, che si è anche ripetuto, e questo non solo lo difendo, lo rivendico. Rivendico un governo che ha avuto la capacità di vedere come l’ostruzionismo di sinistra stesse lasciando le persone sole di fronte a fenomeni che non trovavano ancora soluzione nei governi precedenti. Per cui è intervenuto con l’urgenza che richiedevano quei fenomeni”. “Noi difendiamo le vere fasce deboli non i punkabestia che si sdraiano sui binari, difendiamo le persone per bene” ha dichiarato invece Tommaso Calderone annunciando il sì di FI al decreto sicurezza. Calderone ha contestato “la narrazione” delle opposizioni sulle norme del decreto, rispetto alle quali “si è ascoltato del mendacio”. L’esponente azzurro ha quindi letto quattro articoli criticati dalle opposizioni fornendo quella che, a suo giudizio, era la corretta interpretazione, articoli riguardanti tra le altre cose le truffe agli anziani e le occupazioni degli immobili. “Siamo di FI - ha concluso -, siamo garantisti, ci interessano i possibili innocenti nel processo ma non i sicuri colpevoli, perché chi ha sbagliato deve pagare”. Al contrario la segretaria del Pd Elly Schlein rivolta ai banchi del governo ha detto: “Comincio riconoscendovi un merito: siete riusciti nell’impresa di mettere d’accordo giuristi, magistrati, avvocati, tutti uniti nelle critiche al provvedimento, non era semplice. Una serie disorganica di misure repressive con 14 nuovi reati e 9 nuovi aggravanti, portando l’Italia più indietro del codice fascista Rocco del 1930”. Ha aggiunto: “Voi continuerete a contrapporre sicurezza, libertà e umanità. Noi invece sappiamo che è possibile, e anzi che è doveroso per chi sta al governo e siede nelle istituzioni, tenerle insieme. Sicurezza, libertà e umanità. Voi siete forti coi deboli e deboli coi forti. Per voi la povertà stessa è una colpa individuale. Giustizialisti solo con i poveri, poveracci con chi è diverso. Iper garantisti con i criminali che però hanno i colletti bianchi. Questi siete voi”. Anche per la presidente dei deputati di Italia viva, Maria Elena Boschi, “il decreto è una gigantesca operazione di distrazione di massa, sempre per fini esclusivamente di propaganda. Punite il blocco stradale, ma la priorità per le persone ogni mattina non è il blocco stradale, ma il blocco ferroviario da quando Salvini è ministro dei Trasporti. Allora, anziché inventare un nuovo reato fate arrivare i treni in orario, se vi riesce”. Critico anche Riccardo Magi, deputato di + Europa: “Nessun cittadino con questo decreto sicurezza potrà sentirsi più sicuro. È un decreto che porta più propaganda, più conflittualità sociale e porta più discrezionalità nei giudici. Sono norme scritte male e in buona parte incostituzionali. State rendendo il paese più insicuro, più conflittuale e state introducendo dei piccoli elementi da stato di polizia”. Contrario alla norma anche il gruppo di Azione. Ha infatti dichiarato Fabrizio Benzoni: “Si tratta di un provvedimento totalmente illogico, confuso, privo di visione che produce danni per il nostro territorio ma lo chiamiamo sicurezza perché così possiamo andare in conferenza stampa”. Sì alle carriere separate e fiducia (solo) nel Colle. Lo dice il rapporto Eurispes di Valentina Stella Il Dubbio, 30 maggio 2025 Cresce lo scetticismo degli italiani nei confronti di quasi tutte le istituzioni, crollo di credibilità anche per la magistratura. “Sei italiani su dieci (59,3%) si esprimono favorevolmente” in merito alla separazione delle carriere, “in affinità con il dibattito introdotto dal Governo in carica sul tema, contro il 40,7% di chi si dichiara, invece, contrario”: è quanto emerso dal Rapporto 2025 dell’Eurispes, reso noto ieri. A questo dato si aggiunge un calo di tre punti del consenso nei confronti della magistratura rispetto al 2024: “Se a dirsi fiducioso è, infatti, il 43,9% degli italiani, il 46,5% si esprime, al contrario, in maniera negativa”. Questi numeri fotografano una situazione non incoraggiante per giudici e pubblici ministeri impegnati nella campagna pre-referendaria sulla riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario. La percentuale degli italiani favorevoli alla separazione negli anni è stata più o meno sempre la stessa. Quindi non è tanto questo l’elemento che preoccupa le toghe, consapevoli del fatto che il Governo e i suoi azionisti non avrebbero mai investito così tanto politicamente su questa riforma invisa ai cittadini. L’elemento più preoccupante è, invece, il calo di fiducia rispetto all’anno scorso, proprio in un momento in cui l’Anm si sta impegnando nei palazzi, nelle piazze e sui social network per convincere i cittadini che a loro parere quella di Nordio è una riforma sbagliata. C’è anche da considerare che il quesito è stato proposto ai cittadini nei mesi di marzo e aprile, quindi dopo lo sciopero dell’Anm del 27 febbraio, e questa sovraesposizione dei magistrati nelle risposte fornite dagli interrogati potrebbe aver pesato. C’è poi un altro dato che dovrebbe mettere in allarme non solo i magistrati ma anche quelle parti politiche, in primis il Partito democratico, che stanno contrastando fortemente la riforma in Parlamento. Infatti se è pacifico che “si esprimono positivamente sulla separazione delle carriere dei magistrati i rispondenti di destra (71,7%) e centro- destra (71,6%), in affinità con il Governo in carica” tra i rispondenti di sinistra, “una quota minoritaria (ma non trascurabile) del 47,5% si dichiara favorevole alla separazione delle carriere”, nel “centro- sinistra: 60% di favorevoli”. Insieme alla magistratura, scendono i consensi anche nei confronti del Parlamento (dal 33,6% al 25,4% di quest’anno) e dell’Esecutivo (dal 36,2% del 2024 al 30,2%), in linea con il trend degli ultimi anni. Al contrario, cresce sempre più quella nei confronti del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, dal 60,8% del 2024 al 63,6% del 2025. È lecito dunque chiedersi come il calo di fiducia nei confronti del Governo, si accordi con l’aumento di quella verso la riforma della giustizia, sbandierata proprio come la madre di tutte le riforme da questo stesso esecutivo. Mettendo insieme i dati, si potrebbe ipotizzare che la modifica costituzionale targata Nordio venga percepita favorevolmente non tanto per le implicazioni specifiche normative che comporta, quanto come un colpo ad una delle tante caste che agli occhi dei cittadini si stanno sempre più squalificando. Certo, ci vorrebbe un’analisi più approfondita anche perché la rilevazione è stata realizzata tramite la somministrazione di domande a risposta chiusa o semichiusa. Un’altra composizione di dati che lo stesso Rapporto descrive come “per nulla scontata” è quella per la quale “l’attrito tra maggioranza e magistratura, evidente negli ultimi mesi, sembra non aver intaccato la fiducia degli elettori che si dichiarano di destra e che nel 62,4% dei casi si sentono fiduciosi nei confronti della magistratura. Ma ancora di più, questa categoria è, tra tutte, quella dove l’apprezzamento è massimo in termini percentuali. Anche nel centrodestra, con il 48,4% delle indicazioni positive si riscontra un buon numero di elettori a favore della magistratura”. Quindi in pratica a molti elettori di centrodestra piacciono le toghe ma allo stesso tempo ritengono necessaria la separazione delle toghe, osteggiata dagli stessi giudici e pm. Anche qui occorrerebbe una riflessione più ampia, difficile da esaurire con solo questi numeri a disposizione. Comunque, la riforma costituzionale dovrebbe approdare nell’Aula della Camera nel mese di luglio per la terza lettura. È quanto emerso al termine della conferenza dei capigruppo di Montecitorio, che ha stilato il programma trimestrale dei lavori. L’intenzione del Governo è stata confermata dal capogruppo di FdI Galeazzo Bignami che ha spiegato: “È in dirittura d’arrivo, il Senato dovrebbe licenziarla a breve e poi arriverà alla Camera”. Infatti la comparsa nell’Aula di Palazzo Madama è prevista per l’11 giugno, senza probabilmente avere la possibilità di dare il mandato al relatore e senza aver terminato l’esame di tutti gli emendamenti. “Il reato di femminicidio è un’operazione di marketing”. Le critiche di 80 giuriste di Ermes Antonucci Il Foglio, 30 maggio 2025 “Il nostro ordinamento già prevede l’ergastolo per chi uccide una donna”, dice la prof. Ilaria Merenda, tra le promotrici di un appello contro l’introduzione del reato di femminicidio. “Questa misura è una sorta di ansiolitico sociale. Abbandoniamo l’idea che il diritto penale serva a educare”. Il reato di femminicidio? “Il nostro ordinamento già prevede l’ergastolo per chi uccide una donna. Siamo di fronte all’ennesimo uso simbolico del diritto penale, a un’operazione di marketing senza alcuna efficacia concreta”. Lo dice al Foglio Ilaria Merenda, docente di Diritto penale all’università Roma Tre, tra le promotrici di un appello contro l’introduzione del reato di femminicidio (proposta dal governo) sottoscritto da 80 giuriste di tutta Italia. “La nostra preoccupazione è che questo intervento sposti l’attenzione sui veri ambiti nei quali il legislatore dovrebbe intervenire, che riguardano soprattutto la formazione e la prevenzione”. “Da recenti episodi di cronaca, per esempio il caso Turetta, emerge che già oggi i soggetti che compiono femminicidi possono essere condannati all’ergastolo. Questo dimostra che dal punto di vista normativo non ci sono vuoti di tutela”, sottolinea Merenda. “Grazie alle modifiche normative intervenute negli ultimi anni, infatti, la disciplina già coglie lo specifico disvalore della condotta, consentendo di applicare la pena dell’ergastolo all’uccisione di una donna per motivi di genere. L’introduzione di un reato autonomo per il femminicidio, punito con l’ergastolo, come proposto dal ddl governativo, assume quindi una valenza meramente simbolica”, aggiunge. “Abbiamo persino letto dei parallelismi tra il femminicidio e il reato di associazione mafiosa. C’è chi ha sostenuto che il 416 bis venne introdotto perché c’era un vuoto normativo e lo stesso andrebbe fatto per il femminicidio. Ma sono fenomeni totalmente diversi. Quando è stato introdotto il 416 bis non c’erano norme che si occupavano delle associazioni mafiose. Invece oggi il nostro sistema già prevede la pena dell’ergastolo per chi commette il reato di femminicidio”, ribadisce la professoressa Merenda. Nel documento sottoscritto da 80 giuriste si evidenzia anche lo scarso effetto di deterrenza della minaccia dell’ergastolo, come emerge dall’esperienza di diversi stati sudamericani, che hanno incriminato il reato di femminicidio in presenza di un numero elevatissimo di donne assassinate. “Un soggetto che arriva a commettere un reato così grave difficilmente può essere in qualche modo disincentivato dalla commissione del reato perché anziché essere soggetto a una pena di 21 anni avrà la pena dell’ergastolo. Parliamo di tipologie di reato che hanno a che vedere con dinamiche complesse e motivazioni di carattere affettivo e soprattutto culturali così radicate da rendere inefficace la mera minaccia della pena”, spiega Merenda. Il reato di femminicidio proposto dal ddl governativo risulta peraltro essere molto discutibile sotto il profilo della tipizzazione e determinatezza penale. Insomma, quella del governo “rischia di essere un’operazione di marketing. Si introduce un reato spot non necessario. Una sorta di ansiolitico sociale: la collettività ha l’impressione che il governo si stia occupando di questo fenomeno, ma non è così. Questo ddl non prevede alcun investimento sul piano finanziario, che è ciò che servirebbe per aiutare i centri antiviolenza e per promuovere attività di formazione”. “Bisognerebbe abbandonare l’idea che il diritto penale serva a educare”, aggiunge la giurista. “Il diritto penale serve a tutelare i beni giuridici e abbiamo una tutela adeguata del diritto alla vita, inclusa quella delle donne. Per educare servono altri strumenti. Una società che delega al diritto penale l’educazione dei propri cittadini è una società che ha fallito”. Da qui nasce l’appello delle giuriste contro il reato di femminicidio: “Siamo allarmate rispetto a un atteggiamento del governo che sa un po’ di presa in giro. Con il nostro intervento non intendiamo contrapporci a iniziative di contrasto alla violenza contro le donne, né sminuire la rilevanza del problema. Vorremmo sollecitare, invece, una riflessione più ampia e articolata sul tema”, conclude Merenda. Così il Governo fa risorgere dalle ceneri persino il reato di parentela di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 30 maggio 2025 Non manca la stretta sulla “prevenzione”: perdita del lavoro per i familiari di chi subisce una confisca. Il decreto Sicurezza, che il Governo ha sostanzialmente sottratto all’esame del Parlamento, ponendo il voto di fiducia, contiene disposizioni assai eterogenee, tutte accomunate da una neanche troppo latente violenza di fondo. Come sempre, infatti, ai problemi sociali - veri o presunti - il Governo risponde con nuove figure di reato, inasprimento delle pene, giri di vite sull’ordinamento penitenziario e, non da ultimo, maggiore estensione della “repressione preventiva”. Il refrain di questa ennesima stretta securitaria è, non a caso, la “sicurezza” come bene da conseguire, al quale fa da contraltare l’”insicurezza” come condizione immanente e incombente. È l’inganno del “governo attraverso la sicurezza” denunciato da Agamben, così simile allo statuto dei poteri assoluti e non illuminati di stampo prettamente medioevale: il potere mistico e salvifico del Re, la cui dimensione divina lo rende incontestabile e presuntivamente volto al bene del popolo da lui amministrato come un gregge. Il buon pastore che ci difende dal lupo che crediamo essere in agguato. La Fortezza Bastiani, che ci protegge dai tartari che non arrivano mai… e intanto ci tiene prigionieri. Così, il governo punirà la “non violenza” dei detenuti. Non basta che siano in carcere (“e sono tanti, e sono troppi” gli innocenti tra loro), privati della libertà, della dignità, degli affetti: se protesteranno per le condizioni di detenzione indecorose di alcuni istituti penitenziari fatiscenti e sovraffollati; se oseranno alzare la testa dai miasmi di alcune celle buie e promiscue, allora saranno severamente puniti in nome della “sicurezza”. E siccome una frequente forma di manifestazione di disagio carcerario è il suicidio, è facile prevedere che inibire altre forme di protesta porterà ad altre morti, ad altre tragedie. Si potrebbe obiettare che punire il dissenso non violento sa di dittatura, che viene mortificato il principio di offensività, alla base della proporzionalità che deve sorreggere la pena; che viene ignorato il principio di materialità; che il diritto penale liberale diviene un vuoto simulacro; che la Costituzione viene stracciata. Ma basta dire che una riforma del genere offende il buon senso, mortifica quel minimo di intelligenza e di coscienza che ancora dovrebbe albergare nelle menti e nei cuori di chi ci governa. Punire la “resistenza passiva” significa non tanto ignorare le basi del diritto penale, ma disconoscere la storia del colonialismo occidentale e la lezione, ad esempio, di Gandhi. Nel decreto Sicurezza, ovviamente, non poteva mancare un sguardo alla prevenzione, sempre animato dalla medesima logica. È prevista, ad esempio, l’estensione del Daspo urbano, misura disposta dal Questore e come tale impugnabile solo davanti al Tar, a tutti coloro che siano anche solo denunciati per reati commessi “nelle aree interne e nelle pertinenze di infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano”. A costoro sarà inibito l’ingresso in determinate zone urbane e l’avvicinamento ai locali pubblici. Insomma, il ritorno al bando previsto, agli albori della prevenzione, per gli oziosi e i vagabondi, con buona pace delle sentenze della Corte costituzionale che, nel secolo scorso, avevano cancellato questa misura vergognosa. Sul versante delle misure di prevenzione patrimoniali, poi, si prevede che la confisca definitiva di un’azienda determini, automaticamente, la risoluzione dei contratti di lavoro del coniuge, del convivente, dei parenti e degli affini del destinatario del provvedimento, senza specificazione del grado. Finiranno per strada, a ingrossare le file degli emarginati, dei disadattati, persone (a migliaia ogni anno, secondo stime del tutto prudenziali), la cui unica “responsabilità” è essere cugino o cognato di un soggetto colpito da confisca. Secondo una logica della “terra bruciata” tipica di uno stato d’assedio, nel quale il bene superiore - di respingere il tartaro perennemente (immaginato) alle porte - val bene qualche danno collaterale, qualche vittima innocente. Il “rischio calcolato” della malagiustizia, sdoganato in sede penale dal ghigno sprezzante di qualche giurista da salotto (televisivo e senza contraddittorio), diviene il fine dichiarato e non più eterogeneo dell’azione di prevenzione. Bisogna espellere dal circuito economico non solo il soggetto pericoloso, ma anche tutti coloro che siano in qualche modo legati a lui, a prescindere dal loro profilo personale. Occorre, secondo una visione violenta e cieca, amministrare (in) giustizia, sradicare, “costi quel che costi”. Ma l’analisi dei costi non è stata fatta, o è stata fatta assai male. Colpire sul piano di un diritto di rilievo costituzionale, come quello al lavoro, soggetti estranei al procedimento di prevenzione, rispetto ai quali non è stato reso - neanche incidentalmente - un giudizio di pericolosità, che non rientrano nell’ambito di applicazione della presunzione di fittizietà della intestazione, che non sono stati chiamati a contraddire nel procedimento applicativo della confisca, che non possono difendersi rispetto alla perdita automatica del proprio posto di lavoro, è un vulnus inimmaginabile a tutti i cardini del nostro ordinamento democratico. Travolge i principi di personalità della responsabilità, di proporzionalità della sanzione, di effettività della difesa, di ragionevolezza nel bilanciamento tra interessi collettivi e diritti individuali. Ma non si tratta solo di un problema giuridico. Nuovamente, la prevenzione mostra la sua tendenza criminogena nella sua attitudine a distruggere anche l’economia legale, così generando nuova marginalità, nuova povertà, nuova attrattiva dei sistemi economici “alternativi” e, in definitiva, nuova insicurezza. Che poi giustificherà ulteriori interventi legislativi, ancora più restrittivi ed obnubilanti. Fino a quando la capacità del sistema di autoalimentarsi dei suoi stessi frutti chiuderà il cerchio della “dittatura della prevenzione”, nella quale sembriamo - a dire il vero - essere già scivolati. *Avvocati Carcere per chi maltratta gli animali, Michela Brambilla: “Riforma storica, la fine dell’impunità” di Giovanna Cavalli Corriere della Sera, 30 maggio 2025 Approvata la legge. La deputata che ha fondato la Lega italiana difesa animali e ambiente (Leidaa): tutti i giorni mi segnalano episodi di crudeltà. È contenta. “Felicissima. Questa è una grande vittoria non solo mia ma dell’Italia intera, di tutti quelli come me che amano gli animali e vogliono che siano rispettati. E siamo tanti”. C’è voluto tempo... “Sono vent’anni che aspetto. E quattro legislature. Finalmente è successo, è una riforma storica, epocale”. Michela Vittoria Brambilla, deputata di Noi Moderati e presidente della Leidaa (Lega italiana difesa animali e ambiente), celebra il via libera del Senato alla legge che punisce - anche con il carcere - maltrattamenti, violenze e crudeltà verso cani, gatti &Co. Un fenomeno tristemente diffuso, purtroppo... “Non c’è giorno in cui, ovunque, tramite i rappresentanti della mia associazione non mi sia segnalato un caso di tortura, di abbandono o di crudeltà. Ci ho lavorato tanto e sono orgogliosa che la legge porti il mio nome”. Cosa cambia? “Viene completamente ribaltata la prospettiva. D’ora in poi il titolo IX bis del codice penale non tutelerà più il sentimento dell’uomo, ma direttamente gli animali in quanto esseri senzienti. Nel solco della riforma della Costituzione da noi auspicata e che inserisce all’articolo 9 la tutela degli animali e dell’ambiente”. In termini concreti? “Mettiamo fine alla quasi totale impunità che ha regnato nel nostro Paese e che ha permesso a dei delinquenti socialmente pericolosi, colpevoli di crimini atroci verso le creature indifese, di cavarsela con niente. E questa impunità di fatto ha portato al dilagare di atti violenti. Adesso chi uccide un animale rischia 4 anni di carcere e una multa fino a 60 mila euro, che non vengono attenuati dal patteggiamento o dalla messa in prova. E se i gesti abietti vengono poi diffusi in rete, le sanzioni sono aumentate di un terzo”. Puniti i maltrattamenti... “Molto diffusi purtroppo tra le mura domestiche, prevedono due anni di reclusione più una multa fino a 30 mila euro. Elementi deterrenti importanti”. Catene vietate... “Su tutto il territorio nazionale. Era ora di abolire questa abitudine medievale”. Così come i combattimenti tra cani... “Il reato si configura anche per chi assiste o partecipa a questi eventi clandestini”. Qualcuno però si era messo di traverso... “Quando il testo è stato approvato alla Camera, lo scorso novembre, una forza politica dell’opposizione, con i media a lei collegati, ha cercato in ogni modo di fermare la riforma, perché non portasse il timbro del governo Meloni. Hanno cercato di screditarmi, attaccandomi personalmente, ma sono abituata a lavorare duro. I loro tentativi sono stati vani”. Chi è stato? “Non meritano menzione. Però non ci sono riusciti, oggi è legge. E l’Italia con questa normativa è addirittura avanti rispetto al resto dell’Europa, siamo da esempio”. Un primato positivo, una volta tanto... “Come già in passato, la verità è che tutte le leggi per gli animali sono arrivate con il centrodestra. Ringrazio Giorgia Meloni, che ci ha creduto e con la sua sensibilità ha voluto un iter di approvazione veloce. E il mio presidente Maurizio Lupi che si è speso tantissimo”. Come pensa sarà accolta la nuova norma? “La maggioranza degli italiani ama gli animali e vuole che siano rispettati”. Ha una dedica speciale... “Sì, voglio dedicare questa riforma alle vittime mute di gesti crudeli, come il cane Angelo e il gatto Leone, il cane Aron e il micio Grey, morti per mano di delinquenti sciagurati. Gli avevamo promesso giustizia e la avranno”. Palermo. Tragedia dietro le sbarre: detenuto si suicida in carcere al Pagliarelli palermotoday.it, 30 maggio 2025 Un detenuto si è suicidato nel carcere Pagliarelli di Palermo, impiccandosi nel reparto riservato e protetto dei reclusi con problemi di droga. L’uomo, 43 anni, stava scontando la pena, che si sarebbe conclusa entro un anno, per spaccio e rapina. L’equipe che lo seguiva aveva preso contatti con una comunità e non appena si fosse liberato un posto sarebbe uscito dal carcere. Gli agenti penitenziari hanno tentato di salvarlo ma i soccorsi si sono rivelati inutili. Gioacchino Veneziano, della Uil-pa Polizia penitenziaria Sicilia, commenta l’accaduto sottolineando come “questo suicidio si aggiunga alla lunga lista di tragedie simili nelle carceri italiane”. Il sindacalista pone l’accento sulla “grave carenza di personale, problema che ricade ingiustamente sulle spalle degli agenti di polizia penitenziaria”. Firenze. Il degrado di Sollicciano, tra muffa, afa e poche speranze. “Ecco il famoso inferno” di Pietro Mecarozzi La Nazione, 30 maggio 2025 Abbiamo visitato aree di trattamento e spazi comuni guardando da vicino le sezioni detentive. Inagibili una cucina e la sesta sezione dopo la rivolta del 2014. Ma c’è anche chi si diploma. Il pallone rimbalza sul campo di terra arsa. Il sole picchia su muscoli strizzati nelle magliette. Non ci sono schemi, nessuna tattica, uno vale uno: chi ha fiato gli corre dietro. A ogni gol, tutti esultano. Poco distante, nella penombra dell’officina comune, sigarette incendiano volti tatuati. Bocche con pochi denti ne sputano il fumo. C’è odore di sudore, rimorsi e rabbia. Dalle celle qualcuno lancia un grido. Ci spostiamo: dentro la luce è tagliata dalle sbarre blu fissate alle finestre. I colori si spengono. Una macchia verde di muffa, ai bordi annerita dal tempo, ci guarda dall’angolo del soffitto. Dall’aula della biblioteca, tra le migliaia di pagine degli oltre 5mila volumi presenti, si rimane ironicamente senza parole: uno spicchio della ‘corona’ carceraria di Sollicciano si staglia verso l’alto come la curva di uno stadio. Sulle celle, esposte al calore del sole, una patina che assomiglia alle croste tipiche delle chiglie. Qualche abito appeso dai detenuti spezza la monotonia del grigio. “Ecco il famoso inferno”, commenta qualcuno. Nel penitenziario fiorentino la vita scorre lenta. A piccoli passi, puntando obiettivi facili che per molti diventano però montagne da scalare. Durante la nostra visita siamo stati nelle aree trattamentali e negli spazi comuni, guardando da vicino, ma senza toccare con mano, le sezioni detentive (per quei luoghi non ci è stata fornita l’autorizzazione). Lì dove, secondo medici, tecnici e operatori Asl, non sono garantite ai detenuti le condizioni igienico sanitarie adeguate. Dove dall’inizio dell’anno ci sono state già tre vittime: due suicidi e un’overdose. Dove le infiltrazioni d’acqua e il caldo soffocante fanno da calendario. Mentre camminiamo, alcuni detenuti prendono appunti su come coltivare un orto, mentre altri, donne e uomini, si battono la penna sulla fronte alla ricerca d’ispirazione per il finale del loro tema (il corso è quello di scrittura creativa). Le classi, che il carcere porta avanti in collaborazione con alcuni istituti di Firenze, sono un modo per ricominciare. “Alcuni detenuti, non tantissimi, sono riusciti anche a diplomarsi”, spiega il referente dei laboratori. I corridoi si snodano nel ventre del gigante di cemento. Ci sono rotonde, pass di controllo, una chiesa. I funzionari giudiziari - cinque invece che undici, come previsto da organico - ci mostrano dove avviene “la prima accoglienza”. Al detenuto vengono fornite subito un’assistenza psicologica e una visita medica. Il suo ‘profilo’ viene poi analizzato anche dagli agenti di polizia penitenziaria, che valutano quale protocollo attivare, tenendo conto anche di eventuali campanelli di allarme che possono portare a “eventi critici”. C’è poi l’inserimento nella sezione di transito: le porte dell’inferno. Tutte le paure, gli spasmi provocati dall’abuso di stupefacenti, le crisi che assalgono la mente dei neo reclusi vengono sfogati su quelle mura: un po’ bruciacchiate dagli incendi, un po’ demolite da coloro che reagiscono male alla perdita della libertà, un po’ deteriorate dal tempo e l’usura. Le strade, da lì, portano poi ai bracci. Sono 13 le sezioni in totale: 5 penali (dedicate ai definitivi) e 8 giudiziarie (dedicate alla detenzione di persone in attesa di giudizio). Sono una quarantina i detenuti per ogni blocco. La sesta sezione, dopo la rivolta di luglio 2024, è ancora inagibile, mentre un’altra è usata come cuscinetto per trasferirci i detenuti da celle sottoposte a lavori di manutenzione. Siamo arrivati in uno spiazzo che si apre ad albero. A sinistra l’infermeria e l’impresa mantenimento (una sorta di magazzino dove i detenuti possono acquistare cibo); a destra la mensa. Infermeria e reparto per la salute mentale sono praticamente un blocco unico, “così da prestare attenzione massima a quei detenuti”, ci spiegano. Delle due cucine, invece, solo una è agibile. Nel frattempo, dall’altra parte dell’istituto, sul campo da calcio, qualcuno ha segnato. E un grido di gioia, impensato, si leva sopra Sollicciano. Torino. “Non toglieteci il liceo artistico, ci salva dalla depressione e riempie le nostre giornate” di Chiara Sandrucci Corriere di Torino, 30 maggio 2025 Una protesta pacifica contro la decisione dell’Ufficio scolastico regionale mentre fuori al carcere era in corso un presidio degli insegnanti degli istituti professionali Plana e Giulio e del Primo liceo artistico. Hanno protestato restando in classe a studiare con i loro docenti e saltando il pranzo. “Non toglieteci la scuola, ci salva dalla depressione e riempie le nostre giornate”, hanno chiesto i circa 50 detenuti allievi che seguono le lezioni del Primo liceo artistico nel carcere Lorusso Cutugno di Torino, dopo l’annuncio del taglio di organico ai corsi di istruzione per adulti. In campo anche il Pd - Una protesta pacifica, mentre fuori era in corso un presidio indetto dagli insegnanti degli istituti professionali Plana e Giulio e del Primo liceo artistico, alla presenza di diversi esponenti del centro sinistra all’opposizione in Consiglio regionale. “Chiediamo che ci vengano restituite tutte le cattedre di diritto che avevamo prima per garantire la continuità di cui questo tipo di scuola ha ancora più bisogno”, ha riassunto Annalisa Gallo, referente del Primo liceo artistico, mentre Avs ha presentato un’interrogazione parlamentare e Gianna Pentenero, capogruppo Pd in Regione Piemonte, ha incontrato i detenuti. I corsi - Nel carcere delle Vallette si può prendere il diploma di terza media con il Cpia1, frequentare tre diversi indirizzi di scuola superiore e anche laurearsi grazie al Polo universitario per studenti detenuti, attivo dal 1998. Non è facile, ma finora è stato possibile frequentare l’istituto professionale Plana, 120 iscritti, presente dietro le sbarre fin dal 1953, che rilascia la qualifica regionale di “Operatore del legno”, il Primo liceo artistico, 90 iscritti, o l’istituto di istruzione superiore Giulio, 150 iscritti, indirizzo socio sanitario. Non sempre si riesce a completare il ciclo di studi, ma chi ce la fa può arrivare all’esame di maturità. Il corso del liceo artistico è rivolto in particolare ai detenuti “sex offenders”, poi aperto anche ai “comuni”. Alle Vallette interi corridoi sono tappezzati da opere realizzate da loro. L’istruzione per adulti funziona allo stesso modo sia fuori che dentro, sia nelle scuole serali che nelle sezioni carcerarie. È suddivisa in tre periodi didattici, il primo che corrisponde al biennio, il secondo al terzo e quarto anno e l’ultimo che si conclude con la maturità. Un’offerta che verrà ridimensionata a causa dei tagli all’organico. Suraniti (Usr): “Non abbiamo azzerato il biennio” - “Lo scorso anno il Primo aveva 5 classi, quest’anno ne abbiamo autorizzate 3, ma ci saranno altre ore a disposizione per garantire sia il primo che il secondo anno”, spiega Stefano Suraniti, direttore dell’Ufficio scolastico del Piemonte. “Non è vero che abbiamo azzerato il biennio: da un punto di vista dell’organico è come se ci fosse una classe in meno, ma con le risorse assegnate si può far funzionare il primo periodo didattico che comprende primo e secondo anno”. Il taglio lineare all’organico che penalizza le scuole serali e le sezioni carcerarie torinesi deriva a sua volta dalla legge di bilancio che ha previsto la decurtazione a livello nazionale di 5.660 posti, di cui 300 in Piemonte, a causa del calo demografico. I corsi serali, così come le sezioni carcerarie, non sempre possono contare su una frequenza regolare degli alunni. In carcere, ad esempio, capita spesso che i detenuti vengano trasferiti, liberati o messi ai domiciliari. Ma secondo i docenti che lavorano ciò non giustifica i tagli. “La riduzione delle classi e del numero di insegnanti rappresenta una grave violazione del diritto allo studio per le persone detenute, diritto riconosciuto dalla Costituzione e dalla normativa nazionale e internazionale”, fanno presente i docenti del Primo che si appellano al ministero dell’Istruzione. “Studiare in carcere è spesso l’unico strumento reale per ricostruire un futuro diverso, per non tornare a delinquere, per reintegrarsi nella società. Colpire la scuola penitenziaria significa colpire l’intera collettività. La scuola non può essere una parentesi, né un privilegio. Deve essere un diritto. Ovunque. Per tutti”. Ivrea (To). Si sono arresi i 5 detenuti saliti sul tetto del carcere: “Condizioni insostenibili” di Andrea Bucci La Stampa, 30 maggio 2025 Il sindacato Osapp: “La sofferenza legata al sovraffollamento e alla disorganizzazione imperante accomuna poliziotti e detenuti”. Si sono arresi - dopo aver parlato col garante comunale dei detenuti, Raffaele Orso Giacone, i cinque detenuti saliti nel primo pomeriggio di oggi sul tetto del carcere di Ivrea chiedendo di parlare con un magistrato. I primi due verso le 19,30 sono scesi dal tetto e sono stati trasferiti in un altro istituto di pena. Gli altri si sono arresi più tardi. A scatenare la protesta sono state le condizioni carcerarie ogni giorno più insostenibili. A renderla pubblica è stato il sindacato Osapp: “L’episodio - dice il segretario generale, Leo Beneduci - è l’ennesima dimostrazione del fatto che in ambito penitenziario alle molteplici promesse dei governi di opposti schieramenti non seguono mai fatti concreti”. Qui, mercoledì scorso, un detenuto che ha cercato di uccidersi è stato salvato all’ultimo dalla Penitenziaria. A protestare sono stati i detenuti nelle celle del terzo pieno, in regime ordinario di carcerazione: sono riusciti a raggiungere il tetto attraverso i corridoi passeggio. Tutto - a quanto si apprende - è nato in seguito a una protesta nel settore di isolamento, dove sono stati dati alle fiamme alcuni materassi, incendio domato rapidamente. “La sofferenza interna alle carceri legata al sovraffollamento e alla disorganizzazione imperante e che purtroppo accomuna poliziotti e utenza - aggiunge - sta producendo conseguenze deflagranti in cui anche problemi di semplice soluzione diventano insormontabili e temiamo che con la calura estiva le criticità esistenti andranno ad assumere livelli di estrema drammaticità con effetti sulla stessa società”. Caserta. L’inclusione dei detenuti passa per il lavoro, il modello Asi-Unicri che guarda il mondo casertanews.it, 30 maggio 2025 Focus sul progetto di reinserimento sociale tra prevenzione della recidiva e la necessità di selezionare i più meritevoli. L’allarme di Gratteri: “In carcere comandano le mafie”. Il progetto di inclusione lavorativa per i detenuti, con la finalità del loro reinserimento sociale, promosso dall’Asi di Caserta e dall’Unicri (Istituto Interregionale delle Nazioni Unite per la Ricerca sul Crimine e la Giustizia) varca i confini nazionali. Alla Scuola Internazionale di Alta Formazione per la Prevenzione e il Contrasto al Crimine a Caserta, il programma è stato al centro del convegno dal titolo “Cultura della legalità e partenariato tra pubblico e privato per l’inclusione sociale dei detenuti: la provincia di Caserta come nuovo modello di sviluppo internazionale”. Il progetto Asi-Unicri per il lavoro ai detenuti: il modello Caserta - L’iniziativa, che mira a rafforzare la resilienza del territorio, trae ispirazione dal modello promosso dal Consorzio per l’area di sviluppo industriale della Provincia di Caserta per il reinserimento dei detenuti attraverso lavori di pubblica utilità ma anche le criticità di un sistema penitenziario che poco tende alla rieducazione e al reinserimento sociale dei reclusi. In questo contesto, il programma attuato a Caserta ha dimostrato un forte potenziale nella prevenzione della recidiva, grazie a percorsi di inclusione sociale e di avviamento al lavoro. Partendo da questa esperienza, l’Unicri ha elaborato un modello teorico che identifica le caratteristiche ideali di un sistema efficace di prevenzione della recidiva attraverso il reinserimento sociale delle persone detenute. Alla fase di ricerca e di sviluppo seguiranno la progettazione degli strumenti operativi e formativi, e l’applicazione a livello internazionale del modello. “La riduzione della recidiva non è soltanto un obiettivo delle politiche del sistema penitenziario, ma anche un imperativo sociale più ampio - ha sottolineato durante il suo intervento Leif Villadsen, Direttore ad interim dell’Unicri - Per raggiungere questo traguardo non sono sufficienti una buona legislazione, un’amministrazione penitenziaria efficiente e un personale adeguatamente formato. Il reinserimento deve essere radicato nelle comunità locali, sostenuto dalla società e fondato su una solida cultura del lavoro. I partenariati rafforzano le comunità promuovendo la sicurezza, l’inclusione economica e la coesione sociale. Continueremo a lavorare per garantire che il modello sviluppato a Caserta possa costituire un punto di riferimento per altri Paesi”. Pignetti: “Modello di cooperazione che parla al mondo” - “L’applicazione del modello di inclusione socio-lavorativa dei detenuti avviato dal Consorzio, insieme al progetto con l’Unicri, possono generare benefici non solo in termini di riduzione della recidiva, ma anche sul piano dello sviluppo del tessuto imprenditoriale - ha dichiarato la Presidente di Asi Raffaela Pignetti -. In un territorio troppo spesso raccontato solo attraverso le sue difficoltà, queste iniziative sono nate come esperimenti coraggiosi. Oggi rappresentano esempi concreti di buona riuscita: un modello di cooperazione che parla al mondo, perché ha saputo coniugare legalità, inclusione e sviluppo. Reinserire un detenuto è un atto di giustizia. Sottrarlo alla criminalità è un atto di sviluppo. Non può esistere una crescita autentica se lasciamo interi territori ostaggio della criminalità”. Pignetti ha anche evidenziato la “diffidenza” inizialmente incontrata nell’attuazione del programma: “Abbiamo formato 99 detenuti con l’obiettivo del loro inserimento nel mondo del lavoro. Adesso l’obiettivo è quello di tracciare la ‘recidiva zero’ e inserire questi detenuti meritevoli in una sorta di collocamento che possa favorire la loro occupazione. Attraverso Unicri e grazie all’attenzione del governo - conclude Pignetti - Possiamo partire da questo progetto per migliorare la situazione anche in altri paesi”. L’allarme di Gratteri: “Nelle carceri italiane comandano le mafie” - Ma non è tutto oro ciò che luccica. A lanciare un allarme è il procuratore capo di Napoli Nicola Gratteri che evidenzia come “nel 90% le carceri italiane sono dei contenitori in cui non si riesce a fare alcun trattamento, perchè mancano all’appello negli organici della polizia penitenziaria 15-16 milia unità, dopo che nel 2010 il Governo ha bloccato le assunzioni nella pubblica amministrazione. Ed inoltre in tale quadro è stato un grave errore tenere aperte nelle carceri le sezioni di Alta e Media sicurezza e quelle per detenuti comuni; ciò vuol dire che le mafie comandano nelle carceri”, ha detto Gratteri. Il procuratore di Napoli si è poi soffermato sull’altra grave e annosa criticità del sistema carcerario, “il sovraffollamento”, che, premette, “è un problema che si trova in tutta Europa, ma in particolare in Italia, dove per miopia, incapacità o codardia, non si costruiscono nuove carceri dagli anni ‘70, e da decenni neanche si edificano nuove sezioni per le carceri già esistenti. Questo anche perchè chi ha posti di responsabilità non si muove per paura di sbagliare”. Il problema, per Gratteri, è che tanto le norme sulla giustizia quanto quelle sull’ordinamento giudiziario “sono state fatte da persone mai andate in udienza, e senza mettere attorno al tavolo o interpellare alcun direttore di carcere”. Ardita: “Uscire da retorica dell’ideologia” - Secondo Sebastiano Ardita, Procuratore Aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Catania, il riferimento alle prassi e ai migliori modelli internazionali è un valore aggiunto per il rafforzamento dei sistemi penitenziari di tutti i Paesi: “Bisogna uscire dalla retorica del garantismo e dell’ideologia a tutti i costi”, ammonisce Ardita. Lina Di Domenico, Responsabile facente funzione del DAP del Ministero della Giustizia, ha portato i saluti del Ministro Carlo Nordio e ha sottolineato come “in questi anni siano stati portati avanti, rinnovati e ampliati i protocolli d’intesa con Asi Caserta che porteranno al trasferimento delle esperienze accumulate nel contesto di questo progetto anche a livello internazionale con il supporto di Unicri”. Cirielli: “Evitare che prepotenti prendano il controllo delle carceri” - Nel corso del suo intervento Edmondo Cirielli, Vice Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, ha affermato: “In Italia, grazie alle forze dell’ordine e del sistema giustizia e magistratura siamo visti come un esempio di buone pratiche, questo progetto ne è la dimostrazione. Purtroppo dobbiamo superare due gap. Il primo è quello della mancanza di risorse, abbiamo tremila miliardi di debito. Il secondo è l’introduzione del reato di tortura. Ho visto personalmente video in cui poliziotti non reagiscono alle aggressioni da parte dei detenuti. Siamo lo Stato e non possiamo comportarci da delinquenti ma il sistema penitenziario favorisce che i prepotenti prendano il controllo delle carceri”. Nel corso del suo intervento, che ha chiuso la prima parte dei lavori, Vincenzo Lo Cascio, Prison Expert di Unicri, ha sottolineato la necessità di porre “un’attenzione globale sulle carceri, massima attenzione agli ultimi che vivono lo stato di detenzione in condizioni di indigenza. Bisogna rafforzare il ruolo della polizia penitenziaria e degli educatori sulla selezione dei detenuti impegnati nei programmi di pubblica utilità che vanno intensificati. Penso ad esempio alla cura del verde pubblico. Il detenuto che aiuta la natura a rinascere lavora anche alla rinascita di se stesso”. Durante il convegno sono stati presentati esempi di partenariati tra il settore pubblico e quello privato nel contesto di programmi di successo avviati dal Ministero della Giustizia assieme a Tim, Leand lease e Italia Camp. L’evento, che è stato patrocinato dal Ministero della Giustizia, ha visto la presenza dei rappresentanti delle istituzioni, del mondo accademico e del settore privato, tra cui: Lucia Volpe, Prefetto della Provincia di Caserta; Domenico Forte, Direttore della Scuola Internazionale di Alta Formazione per la Prevenzione e il Contrasto al Crimine Organizzato; Marco Musumeci; Massimiliano Molese, componente del Comitato Scientifico del progetto; Michele Papa, Università della Campania “Luigi Vanvitelli”; Donatella Rotundo, Direttrice della Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere; Andrea Grassi, Questore della Provincia di Caserta; Marco Puglia, Magistrato di Sorveglianza; Fabrizio Sammarco, Amministratore Delegato di ItaliaCamp; Nadia Boschi di Lendlease; Sabina Strazzullo di TIM e Maurizio Vallone, Direttore della Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia. Treviso. In carcere “Guardare oltre”, percorso di educazione all’inclusione e cittadinanza attiva trevisotoday.it, 30 maggio 2025 A guidare i ragazzi è l’architetto Rodolfo Dalla Mora, Disability Manager del Comune di Treviso, attraverso incontri tematici, testimonianze e attività esperienziali pensate per abbattere stereotipi e pregiudizi. È stato avviato “Guardare oltre”, un progetto innovativo di educazione all’inclusione e alla cittadinanza attiva promosso all’interno dell’Istituto Penale per Minorenni (Ipm) di Treviso. Un’iniziativa che punta a sensibilizzare i giovani detenuti al valore della diversità, accompagnandoli in un percorso formativo e umano alla scoperta dell’altro e di sé stessi. A guidare i ragazzi è l’architetto Rodolfo Dalla Mora, Disability Manager del Comune di Treviso, attraverso incontri tematici, testimonianze e attività esperienziali pensate per abbattere stereotipi e pregiudizi, sviluppare empatia e promuovere una visione positiva della disabilità come elemento di arricchimento della comunità. All’evento di apertura erano presenti la Direttrice dell’IPM, Barbara Fontana, l’Assessore alla Città Inclusiva Gloria Tessarolo, il Consigliere comunale e Presidente della Commissione Sociale Luigi Caldato, e il Sostituto Commissario Coordinatore Salvatore Pellicano. “Questo progetto è un esempio concreto di come la rieducazione possa passare attraverso il riconoscimento dell’altro”, afferma l’assessore alla Città Inclusiva del Comune di Treviso, Gloria Tessarolo. “Parlare di diversità in un contesto come l’IPM significa restituire ai ragazzi strumenti per abbracciare la cultura della civiltà, del rispetto e della responsabilità. La vera inclusione nasce dalla consapevolezza che ogni persona, con le proprie fragilità e unicità, ha un valore”. Così Rodolfo Dalla Mora, Disability Manager del Comune di Treviso: “Con “Guardare oltre” invitiamo i ragazzi dell’IPM ad aprire uno sguardo nuovo, fatto di inclusione e rispetto. È un progetto in cui crediamo molto e che siamo certi possa contribuire a creare nuova consapevolezza, anche e soprattutto nelle nuove generazioni”. L’iniziativa è resa possibile grazie al supporto della coordinatrice scolastica del CPIA “Alberto Manzi”, Maria Concetta Bonetti, nell’ambito di una rete virtuosa tra IPM, Comune di Treviso e CPIA, fondata sulla collaborazione istituzionale e sull’impegno condiviso per la crescita personale e sociale dei giovani coinvolti. Milano. Nel carcere di San Vittore detenuti, prof e studenti creano le panche del riscatto di Luca Bergamin Corriere della Sera, 30 maggio 2025 Detenuti e volontari, grazie al sostegno del Politecnico e Rilegno, realizzano opere d’artigianato nel reparto La Nave. Non è semplice né scontato che persone detenute dentro un carcere partecipino a “costruire” dentro quel carcere qualcosa che lo renda un po’ meglio anche per chi verrà dopo. Non in senso metaforico ma proprio materiale: in questo caso si tratta di panche. Per chi si stupisse va detto che certo di attività artigianali nelle carceri se ne fanno magari anche molte, vedi la più volte raccontata costruzione di violini col legno dei barconi affondati. E tante altre ce ne sarebbero. Però qui parliamo di panche costruite “per” il carcere. Da lasciare lì. E fatte insieme da più mani, più menti, più realtà: detenuti, prof e studenti del Politecnico di Milano, volontari e volontarie dell’Associazione Amici della Nave, con il contributo fattivo di Rilegno - consorzio per il recupero e riutilizzo del materiale cui si riferisce il nome - e la collaborazione della direzione del carcere milanese di San Vittore. È successo nel reparto La Nave, gestito da Asst Santi Paolo e Carlo per la cura e il trattamento avanzato di detenuti-pazienti con dipendenze. Antefatto del progetto era stata l’apertura di uno spazio Off Campus del Politecnico all’interno del carcere, cui erano seguite mostre e idee. Fino al proposito di una realizzazione concreta: sistemare la principale sala di attività comuni del reparto. Da lì riunioni con operatori e persone detenute per capire cosa e come fare, poi sopralluoghi, misurazioni, quindi disegni con studenti e colleghi del professor Gianfranco Orsenigo, poi l’assemblaggio nei laboratori universitari in Bovisa con Mariano Chernicoff a istruire volontari e volontarie (il suo motto: “Tutto ciò che non si rigenera degenera”), infine il montaggio in reparto con la partecipazione attiva dei pazienti. “Niente come il lavoro - ha detto Stefano, uno di loro, il giorno dell’inaugurazione - è la via per iniziare una vita diversa da quella che ci ha portato qui”. Nel frattempo sempre da Rilegno, in particolare dai ragazzi della sua community “We Are Walden”, arriva anche la realizzazione e presentazione di una “falegnameria mobile” pensata per aggiustare con tempestività le piccole cose che si rompono nei quartieri: di fatto il prototipo di una officina itinerante che verrà inaugurata il 7 giugno a Cascina Nosedo, zona sud di Milano, dove prenderanno il via le prime attività in collaborazione con l’altro Off Campus del Politecnico e la rete delle associazioni del quartiere Corvetto. Napoli. “Non chiudiamo gli occhi”, obiettivo carcere: rieducazione e rispetto della dignità umana L’Unità, 30 maggio 2025 Si svolgerà, venerdì 30 maggio alle ore 16.30, presso il Centro Diocesano Pastorale Carceraria di Napoli alla Via Giuseppe Buonomo, 39 Napoli, organizzata dal Partito Democratico della Campania, una iniziativa sulla situazione delle carceri in Campania e la devianza minorile. In Campania ci sono 7.509 persone detenute a fronte di 5.584 posti disponibili. Il carcere di Poggioreale ha un indice di sovraffollamento pari al 155,45%. Nella nostra regione si sono registrati 20 decessi di cui 11 suicidi. Si registra, inoltre, un significativo aumento dei minori in carcere. Il PD vuole impegnarsi per costruire un fronte ampio in Parlamento per giungere ad una umanizzazione e ad una visione rieducativa e costruttiva (art. 27 della Costituzione) della pena con interventi efficaci volti a migliorare le condizioni di vita dei detenuti e a contrastare politiche fondate su una visione punitiva e arcaica del carcere. E, allo stesso tempo tutelare e valorizzare il lavoro degli operatori penitenziari. È tempo di uscire dall’emergenza e cancellare le zone d’ombra. I lavori saranno introdotti da: Antonio MISIANI, Commissario Regionale e Paola GENITO, Referente Giustizia PDCampania. A seguire, una tavola rotonda moderata da Franco ROBERTI, già Procuratore Nazionale Antimafia. Interverranno: Samuele CIAMBRIELLO, Garante detenuti Campania; Mario CASILLO, capogruppo PD Regione Campania; don Franco ESPOSITO, Direttore pastorale carceraria Diocesi di Napoli; Stefano LANFRANCO, Presidente Associazione Life scugnizzi a vela; Antonio MATTONE, portavoce Comunità Sant’Egidio; Rita CAPRIO, Presidente Cooperativa l’uomo e il legno; Gianluca GUIDA, Direttore Istituto Penale per minorenni di Nisida; Paolo MANCUSO, già vicedirettore DAP; Andrea MORNIROLI, Forum Disuguaglianze e Diversità. Le conclusioni saranno affidate a Debora SERRACCHIANI, Responsabile Giustizia PD Nazionale. Ascolto e condivisione di testimonianze. Ferrara. “Coro Out/In”: è nato l’ensemble dei detenuti di M. Chiara Marchesini* lavocediferrara.it, 30 maggio 2025 L’anno scorso accettai la scommessa di un corso di chitarra facile per un gruppo di detenuti comuni del carcere di Ferrara, sfociata in un concerto tenutosi all’interno del carcere di Ferrara a marzo 2024, in cui, con l’amico Patrizio Fergnani, abbiamo coinvolto i nostri figli musicisti e alcuni amici a suonare con i detenuti. Questa esperienza straordinaria e inaspettata, in cui il “fuori” ha incontrato il “dentro”, in cui persone esterne sono entrate in carcere per collaborare con i detenuti ad un progetto musicale, ha dato il via, lo scorso settembre, a una nuova scommessa: formare un coro composto da detenuti e volontari esterni. Ha preso così vita il “Coro Out/In”. Il progetto ha subito raccolto molte adesioni da parte di donne e uomini provenienti da esperienze corali cittadine (Sonarte, Coro Mondine di Porporana, Coropercaso S.G.Lav., Coro S. Spirito…), disponibili a partecipare come volontari. Per tutti era la prima volta dentro un carcere; tanta la voglia di cominciare, misto di curiosità e anche un poco di incertezza… Per i detenuti non è stata immediata l’adesione a questa esperienza: cantare è un mettersi in gioco più diretto che il suonare uno strumento, nel canto è il nostro corpo che si esprime, nel suonare abbiamo lo strumento come oggetto mediatore. Perciò ho proposto ai detenuti del corso chitarra di trattenersi a fine lezione e partecipare di seguito al momento del coro, in modo da accompagnare i canti con le chitarre. Così, pian piano, alcuni partecipanti hanno cominciato anche a cantare e a vivere in benessere le due ore di “musica” tra loro e con i coristi esterni. La musica è servita come collante tra le persone, come mezzo di comunicazione e veicolo per le emozioni di ciascuno, si è imparato che si può interagire con gli altri nel rispetto delle regole di “orchestrazione”: ascoltarsi, aspettarsi, seguire un ritmo insieme, collaborare. Per tutti i coristi esterni è stato sorprendente scoprire quanti talenti musicali si nascondono dietro le sbarre, ed è stato bellissimo vedere la stessa gioia sprigionare dai volti dei detenuti e dei coristi durante le improvvisazioni che ogni volta scaturivano dalle prove, lasciandosi andare con la musica. In ogni incontro non si canta soltanto, ci si conosce, ci si racconta, ci si ascolta, si ride con qualche barzelletta; alla fine ci si stringe la mano, ci si saluta come amici. Frasi come “oggi mi sono emozionato”, “grazie per la musica insieme” e soprattutto “queste sono persone come me”, “non mi aspettavo una esperienza simile” indicano che insieme abbiamo raggiunto un obiettivo importante: l’abbattimento dei pregiudizi e la costruzione di ponti di dialogo e scambio. Musica che unisce, musica che cura, musica che si prende cura. E così, un accordo dopo l’altro, un canto dopo l’altro, con fatica e tanta pazienza, anche i chitarristi meno esperti hanno suonato durante un concerto formato da canti e musiche suggerite da coristi e detenuti. Concerto che si è tenuto nel pomeriggio dello scorso 19 maggio all’interno del teatro del carcere di via Arginone, a favore degli altri detenuti, del personale e dei vari volontari. I canti eseguiti sono stati proposti in parte dal coro e in parte dai detenuti stessi, e parlavano di realtà diverse: da un canto dei pellirosse Cherooke a un brano su testo aborigeno, da “Vivere” di Vasco Rossi a “Father and son” di Cat Stevens, da un canto filippino a uno albanese, e anche brani allegri e divertenti come il “Coro dei pompieri” di Bud Spencer e Terence Hill oppure “Sarà perché ti amo”, e vari altri. Ogni canzone aveva un senso e voleva raccontare qualcosa, dall’amarezza alla speranza, dal senso di appartenenza all’intimismo, dalla voglia di un altrove all’allegria dello stare insieme, e il pubblico dei detenuti e dei volontari presenti ha dato riscontro di questo con applausi e apprezzamenti. Che dire? Credo che la scommessa iniziale sia stata vinta: attraverso la musica, il coro, le chitarre, il dentro e il fuori si sono incontrati e si è formato davvero un ponte, un luogo di scambio in cui dare e ricevere, in cui il diritto di sentirsi persone è riconosciuto, un luogo in cui si respira un poco di aria fresca di libertà. E l’esperienza continua… *Volontaria referente Coro/Chitarre in carcere “Amomamma”, in un libro il carcere visto attraverso i tatuaggi La Repubblica, 30 maggio 2025 In un volume l’indagine sulla pelle intesa come spazio di libertà curata da Daniela Attili, Paola Bevere e Gabriele Donnini. Il tatuaggio è un linguaggio visivo antico, una forma d’arte che racconta storie, emozioni e identità. Per chi vive in carcere, diventa molto più di un semplice ornamento: rappresenta l’unico spazio personale che non può essere sottratto. Amomamma. Il carcere visto attraverso il tatuaggio, curato da Daniela Attili, Paola Bevere e Gabriele Donnini, esplora questo tema con profondità e rigore, mettendo in luce il valore simbolico e le implicazioni sociali di questa pratica. Il volume, pubblicato da Meltemi Editore, sarà disponibile dal 30 maggio e analizza il tatuaggio come strumento di comunicazione, autodeterminazione e libertà all’interno delle carceri. Gli autori spiegano come questa pratica, sebbene pericolosa e spesso clandestina, rappresenti un punto di resistenza per i detenuti, privati di uno spazio personale e di un’identità riconosciuta dalla società. L’opera affronta diverse tematiche, tra cui la relazione tra il codice informale delle carceri e quello formale dell’ordinamento penitenziario, la storia del tatuaggio in situazioni di restrizione della libertà e le strategie di riduzione del danno. Inoltre, il libro include interviste a tatuatori e detenuti, fornendo una prospettiva diretta sulle motivazioni e i rischi di questa pratica. Una sezione importante è dedicata agli aspetti sanitari e alle normative che regolano il tatuaggio all’interno delle strutture penitenziarie, con riferimenti a progetti come I.Ri.D.E., che nel 2017 ha analizzato l’applicazione delle strategie di prevenzione delle malattie infettive nelle carceri italiane. La pubblicazione sarà accompagnata da una serie di eventi e presentazioni, tra cui appuntamenti a Ventotene, Roma e Garbatella, con la partecipazione di esperti, scrittori, giornalisti e attori come Claudio Amendola ed Edoardo Purgatori. Gli incontri offriranno un’opportunità di dialogo su un fenomeno che tocca la dignità umana e i diritti fondamentali dei detenuti. I curatori hanno inoltre annunciato l’invio di una copia del libro a tutti gli istituti penitenziari italiani, contribuendo alla riflessione su questo tema spesso ignorato. L’obiettivo? Sensibilizzare il pubblico e promuovere una visione più inclusiva e consapevole del carcere, inteso come luogo di privazione ma anche di resistenza e espressione. Kento: “Cari genitori, imparate ad accettare i fallimenti dei figli” di Andrea Galli Corriere della Sera, 30 maggio 2025 Il viaggio del Corriere nel mondo degli adolescenti. In questa puntata, l’incontro con Kento, 48 anni, uno dei musicisti più impegnati con i ragazzini (e non soltanto). Gli incontri nelle scuole e le visite in carcere: “Io sto con Caino, tra i minori detenuti vedo anche talento e volontà”. E dunque carissimo Kento, ovvero il 48enne Francesco Carlo, qual è la prima esigenza, la prima urgenza, la prima richiesta dei ragazzini di oggi? “Detta così è molto semplice: essere ascoltati”. Poi, chiaro, ci passa l’infinito. Ma a furia di chilometri e di incontri nelle scuole e di visite nelle carceri e di esplorazioni, ampie e trasversali, sia urbane sia di provincia nella geografia dell’adolescenza d’Italia, ad ascoltare, ascoltare, ascoltare, il tutto unito al primo lavoro, quello appunto di musicista, un rapper di quelli definiti impegnati, militanti, che però ha anche un ruolo di mediatore culturale che s’è guadagnato sulla strada, ecco oggi Kento è una delle primissime voci da ascoltare sul tema oggetto del Corriere, e qui approdata all’ottava puntata: la generazione dei maranza. (Premessa per i neofiti del medesimo tema: per maranza, la Treccani intende un giovane che fa parte di comitive o gruppi di strada chiassosi caratterizzati da atteggiamenti smargiassi e sguaiati e con la tendenza ad attaccar briga, riconoscibili anche dal modo di vestire appariscente con capi e accessori griffati, spesso contraffatti e dal linguaggio volgare. Al contrario di una opinione diffusa, non esiste una peculiarità per nazioni o continenti, i maranza non sono soltanto, come si crede e ripete, nati all’estero oppure figli di seconda generazione venuti al mondo in Italia da genitori per lo più nordafricani. Tutto ciò chiarito, proseguiamo pure con Kento. “Un tempo, direi fino a pochissimo tempo fa, le ragazzine e i ragazzini mi chiedevano in quanti avessero scaricato i miei brani sulla piattaforma Spotify, quanto avesse venduto la mia musica, quanta gente mi ascoltava. Oggi l’unica domanda che mi pongono, ma proprio l’unica per davvero, senza mai eccezioni, è il numero dei followers sul canale social Instagram; il numero esatto, perché già subito, dinanzi al dato nudo e crudo, iniziano a farsi un’idea: questo tipo qui vale, vale meno, non vale per niente; questo tipo allora è famoso, invece no, non lo conosce nessuno, dunque è uno sfigato fra gli sfigati e devo lasciarlo perdere, non ha senso neanche che cominci a interagire con lui o mi metta ad ascoltarlo”. Senta Francesco, nativo di Reggio Calabria, poi emigrato a Roma, e lì residente, a maggior ragione in questa stagione disgraziata di mediocri, di crisi economica, di uno che vale uno nel senso che tutti possono tutto anche senza studio, gavetta, preparazione, noi qua che facciamo, viriamo immediatamente sugli adulti, giusto, alla ricerca dei veri responsabili che tanto, per forza, sono loro? Laddove nasciamo più o meno con i medesimi doni, il corpo quello è, il cervello pure, poi alla lunga incidono certe caratteristiche specifiche ma in modo quasi assoluto dipendiamo dagli ambienti di crescita, la famiglia, la scuola, il paese o il quartiere dove si vive... Insomma, lei che ci dice al proposito? Kento dice questo: “Risulta sempre un esercizio difficile, e al contempo non corretto, quello di generalizzare. Siamo individui con storie individuali ma certo, sì, una famiglia attenta con i propri figli, e ripeto “attenta”, di solito, e ripeto anche “di solito”, potrebbe avere minori brutte sorprese... C’è un argomento che reputo centrale: il fatto che il fallimento sia messo in assoluta opposizione rispetto al successo. Il successo dev’essere perseguito e raggiunto, non esiste alternative possibile, ma se la ragazzina o il ragazzino incappano in un fallimento, allora basta, la convinzione degli adulti è che non ci potrà mai più essere il successo, la ragazzina o il ragazzino diventano come un prodotto da scartare, non più buono, non più valido, fine, con l’impossibilità di un cambiamento di scenario, così è e così sarà, capitolo chiuso. Ma santo cielo, il fallimento è funzionale al successo, col fallimento si impara, ci si esamina, si cerca una forza interiore aggiuntiva, si cercano nuovi stimoli, si riparte di slancio, si lavora sulla propria autostima, s’ingaggia una sfida maggiore con se stessi. I fallimenti devono esserci, i fallimenti devono avvenire e anche più di uno, e non bisogna, al contrario, implorare che non entrino mai nell’esistenza di nostro figlio”. Insomma l’incipit, più che mai in questa generazione contemporanea di genitori, di educatori, potrebbe essere una quotidiana speranza che il percorso sia liscio, privo di ostacoli, che i voti a scuola siano ottimi fin dalle elementari, che le amiche e gli amici delle prime compagnie siano perbene, educati e parimenti con ottimi voti a scuola, che pure alle superiori lo scenario si ripeta identico, eccetera eccetera... “Tutto, nella testa dei genitori, deve essere al massimo. Perfetto. Fatto e compiuto. Qui, se vogliamo, possiamo inserire anche una tendenza diffusa, un’ulteriore tendenza diffusa: quella di riempire la vita degli adolescenti come fosse una scatola vuota, allora ci metto quello, ci metto quell’altro, ci aggiungo questo, e velocemente la scatola diventa piena, e si genera la convinzione che ci sia tutto quello che serve, di avere il controllo...”. Invece? “Mah, invece, per esempio, ma non si affronta a dovere la questione, gli adolescenti danno meno importanza al sesso nella misura della scoperta del proprio corpo e del corpo degli altri, delle emozioni, della fisicità, dell’incontro materiale con il prossimo. Stanno a distanza, indietreggiano, non cominciano. A parole sanno più di noi adulti, magari, ma poi evitano l’appuntamento, ancor più evitano di sperimentare il sesso, preferiscono starne lontano. Dopodiché, e questo riguarda il mondo del carcere del quale, se possibile, mi piacerebbe parlare poiché si possono aprire migliaia di parentesi che ai più non interessano, ci sono adolescenti che scoprono proprio in un penitenziario il primo ambiente che dovrebbe occuparsi della loro educazione”. “Io sto con Caino” - Ci occupiamo dei ragazzi nati all’estero o dei cosiddetti figli delle seconde generazioni; soprattutto sono marocchini, tunisini, libici ed egiziani (del Nordafrica l’unica nazione pressoché fuori dai circuiti delle partenze verso l’Europa è l’Algeria; nell’ultimo periodo, la comunità più numerosa negli arrivi a Milano e in Lombardia è quella egiziana), ma questa non è mai un’analisi per nazionalità, ci mancherebbe il contrario, e come in ogni migrazione da quando esse sono cominciate nella storia del mondo, che ancora per secoli le ospiterà poiché migrare è un fenomeno fisiologico di determinati periodi e determinati luoghi, l’errore inteso come errore penale può essere uno degli effetti collaterali. Parola a Kento: “Non vorrei esagerare in spiegazioni retoriche a prescindere, perché nelle carceri minorili trascorro molto, molto tempo, provando a condividere momenti e percorsi con i ragazzini grazie al rap, creando canzoni, aiutando chi ha talento, chi ha volontà, chi se lo merita, ad avere un primo contatto con le case discografiche; le carceri sono luoghi dove abbondano professionalità elevate, competenze, giornate che si svolgono tra sacrifici e fatica vera, la fatica reale della vita reale, il che ovviamente non nega l’oggettivo e diffuso stato critico delle strutture: ci sono adolescenti detenuti che trascorrono l’inverno in celle con finestre aperte, prive di ante, insieme a periodi di grandi caldo dove nelle stesse celle è quasi fisicamente impossibile stare, figurarsi dormire. Dopodiché esiste, sempre a mio modestissimo avviso, la necessità di potenziare il dibattito su quale misura davvero sia utile per aiutare i ragazzini, visto che si insiste nel parlare di “ri-educare”, di “re-inserire”, queste parole qui, e si delega tutto quanto al carcere... Dopodiché io sto, sempre, dalla parte di Caino: c’è stata una vittima, nessuno lo nega, ci sono stati delitti efferati, ci sono state tragedie disumane, ma se ti accanisci contro il responsabile di un delitto perdi anche lui. È questo che vogliamo? Non prendiamoci in giro: sapere che i colpevoli vengono chiusi lì dentro ci permette di stare tranquilli, di sapere il mostro rinchiuso e incapace dunque di commettere un nuovo delitto, di avere la consapevolezza che, stando egli chiuso e rinchiuso, noi possiamo vivere in pace. La durezza contro il reo è una finta durezza”. Droga, soldi e insonnia - Kento è dapprima un musicista. Lo sappiamo. L’abbiamo menzionato subito all’inizio. Domanda: ma per quale motivo tutti questi testi con dentro la droga, il sesso sguaiato, e poi le solite noiose esistenze da nottambuli, e risse, pestaggi, agguati, ubriacature, soldi facili, soldi spacciando, soldi rubando, soldi su soldi, montagne di soldi, paccate di soldi, e le sofferenze, le ferite che tanto non si rimarginano mai? “Quando i giovani detenuti leggono questi testi, ridono di gusto. Basta aver conosciuto un briciolo di vita di strada per capire come questi rapper, nella maggioranza dei casi, scrivano cose che ignorano, e avanzino di fantasia, di luoghi comuni... Stesso discorso credo valga per l’intera fascia degli adolescenti, abbiano o non abbiano commesso reati, abbiano esistenze iniziate nella marginalità o nella comoda dimensione del ceto medio per salire verso la piccola borghesia... I ragazzini sanno benissimo che tutto quello che viene cantato non ha alcuna aderenza con la realtà dei medesimi cantanti; semmai le canzoni possono esercitare un certo fascino, un richiamo, sui più piccoli ancora, quelli delle scuole medie, i dodicenni, che anzi da queste narrazioni possono venire travolti, e serve tanta attenzione”. Kento, lo spazio a disposizione c’impone, purtroppo, d’andare a conclusione: cosa ci siamo dimenticati? “La grande crescita di ragazzini con problemi psichiatrici e il grande uso, o abuso, di farmaci. Un altro argomento che merita discussione”. La tragedia di Martina, la rabbia di Alessio: i nostri figli non cresciuti di Alberto Pellai Avvenire, 30 maggio 2025 Come è possibile che quelle che un tempo chiamavamo cotte adolescenziali, oggi siano diventate vicende da cronaca nera? Il copione dell’amore tossico ha raggiunto i piccoli. Martina muore a 14 anni perché Alessio, da poco maggiorenne, non tollera che lei lo abbia lasciato. Erano ragazzo e ragazza. Poi non più. Ora Martina è morta. Alessio avrà davanti una vita fatta di carcere per un tempo che gli sembrerà infinito. I femminicidi negli ultimi anni hanno rappresentato narrazioni quasi quotidiane, all’interno delle nostre vite. Ma quasi sempre si trattava di storie che riguardavano “cose da grandi”. Uomini adulti che uccidono donne con cui hanno acceso relazioni amorose che poi diventano prigioni e infine si trasformano in condanne a morte. Oggi, sempre più spesso, veniamo a contatto con storie di femminicidi che hanno copioni completamente diversi. Perché i protagonisti sono giovanissimi. In alcuni casi si tratta di qualcuno che è appena uscito dalla scuola media. Come è possibile che quelle che un tempo chiamavamo cotte adolescenziali, oggi siano diventate vicende da cronaca nera? Come è accaduto che ragazzi e ragazze che dovrebbero abitare il territorio dell’amore adolescenziale sognando il primo bacio, mandandosi biglietti teneri pieni di sogni e desiderio, sentendo battere il cuore nell’attesa di un cenno, di una risposta, di una corrispondenza affettiva, oggi si trovino a vivere amori che sono già impregnati della tossicità del peggiore amore tra adulti? Il tremendo delitto di Afragola contiene tutti gli ingredienti di una generazione che attraversa l’età evolutiva sperimentandosi in copioni adulti, pur essendo abitata da soggetti che sono ancora tremendamente piccoli e fragili. I media ci raccontano che Alessio ha ucciso Martina con una pietra non riuscendo a regolare un impulso di rabbia associato, quasi certamente, al fatto che lei gli deve avere riconfermato che la loro coppia non si sarebbe mai ricongiunta. Solitamente la rabbia esplode in un moto incontrollabile e violento quando non sei capace di integrarla con il supporto dei pensieri. La persona emotivamente competente, sente un’emozione, la riconosce e invece di agirla, le fornisce significati e la trasforma in parola, in attesa, in strategie che rendono le relazioni luogo di rispetto e protezione. E non luogo di violenza ed aggressione. Imparare a sostituire la pulsione col pensiero è un compito complesso. E deve essere allenato attraverso l’educazione, la riflessione, la lentezza, la significazione, l’etica, la morale. Non si può evitare alla propria mente di accendersi con un impulso infuocato, ma la si può dotare della capacità di non trasformare quell’impulso in un incendio che tutto distrugge. Per riuscirci si deve prima imparare a pensare e solo poi autorizzarsi all’azione. Ma oggi, i nostri figli agiscono tutto, in un tempo in cui la loro immaturità cognitiva - che è fisiologica a questa età - viene amplificata da un mondo che stimola, eccita, distrae e non spinge mai ad essere connessi con la propria interiorità. Interiorità che è desertificata anche dal vuoto spirituale e morale in cui cresciamo figli cui chiediamo di fare tutto in fretta e tutto bene oppure a cui non chiediamo nulla. Ma che poco e raramente invitiamo alla riflessione intorno alla questione etica che permea il loro agire e che dovrebbe portarli, prima di qualsiasi azione che può avere conseguenze tremende, a domandarsi se ciò che stanno per fare è bene o è male. Spesso i ragazzi che agiscono azioni criminali e che poi si trovano - spalle al muro - a doverne rendere conto, piangendo ammettono di aver fatto ciò che hanno fatto senza pensare alle conseguenze, senza rendersi conto di quanto quella cosa fosse grave. Questo aspetto è ciò che la psicologa che intervista Jamie, preadolescente assassino della serie Tv “Adolescence”, constata nel dialogo con il ragazzo, interrogandolo sul senso della morte e cercando di capire se ha compreso perché il valore della vita è inestimabile. In casi come questi, ci si accorge che ci sono ragazzi giovanissimi che fanno tutto, senza avere la capacità di costruire significati intorno a ciò che fanno. Oggi invochiamo giustamente che la scuola promuova educazione emotiva, affettiva, sessuale, di genere perché come adulti siamo terrorizzati che i nostri figli si trovino dentro a situazione in cui l’agito (ovvero l’azione mossa dalla pulsione) si sostituisca all’azione pensata e significata. Ma ciò che chiediamo alla scuola dobbiamo prima di tutto chiederlo a noi genitori. Siamo noi che dobbiamo far capire a un figlio cosa significa rispettare le proprie tappe di crescita, rallentare la velocità di un mondo che gli chiede di fare tutto in fretta, tutto troppo presto. Il delitto di Afragola non è solo la vicenda di un maschio incastrato nella trappola del patriarcato. Questa spiegazione è solo una parte del problema. L’altra parte sta scritta nella fragilità educativa che può trasformare una cotta adolescenziale in una tremenda vicenda criminale. Agnese Allasia: “Contro i femminicidi vanno ascoltati i bambini” di Laura Aldorisio Corriere della Sera, 30 maggio 2025 La sorella di Silvana, uccisa 11 anni fa dal convivente, ripercorre la vicenda e insiste sulla prevenzione. Subito dopo l’omicidio ha chiesto in affido i due nipoti distrutti dalla violenza di cui sono stati testimoni. Undici anni fa l’omicidio di Silvana Allasia per mano del convivente ha riempito le prime pagine dei giornali. Poi è caduto il silenzio. Ma, mentre le luci dell’attualità si spegnevano, i due figli di Silvana, di 7 e 10 anni, che avevano assistito all’uccisione della mamma, hanno cercato di vivere. “Sono vittime superstiti del femminicidio”, dice la zia Agnese che, insieme al marito e ai suoi figli, nel giro di pochi minuti ha deciso di chiedere l’affido dei nipoti. “La forza e la conferma di questa scelta sono in ogni notte e in ogni giorno, dediti a salvare due bambini distrutti fisicamente e interiormente dalla violenza vista e subita”. Racconta che quel male è dentro odori, rumori, immagini che scatenano ricordi ancora oggi, “al punto che rimangono incastrati nel passato o, al contrario, cercano di rimuoverlo”. Il trauma parla attraverso decine e decine di sintomi: paura del buio, di spostarsi da una stanza all’altro da soli, tremori, comportamenti distruttivi o aggressivi, idee suicide. E la lista è, ancora, molto lunga. Agnese per loro è stata ed è protezione e cura, il marito il gioco e l’ironia, tutta la famiglia l’affidabilità. “Farli sentire al sicuro è la cosa più importante”. In questi undici anni hanno cercato in ogni modo di avvalersi di esperti, percorrendo migliaia di chilometri, con un unico scopo: “Farli stare nel presente, perché nella loro mente non esiste il qui ed ora”. Ma “non pensavamo di lottare a volte con gli stessi enti preposti ad aiutarci. Per esempio, abbiamo dovuto portare mio nipote nel reparto di Neuropsichiatria, dove era già stato portato dalla madre. Aveva, infatti, manifestato importanti disagi e qui aveva condiviso la paura che suo padre potesse uccidere la madre nella notte. Ma il bambino non collaborava. Poi, ci ha riferito che, al tempo, gli avevano risposto “non ci pensare”. Impossibile per lui farsi curare tra quelle mura. Abbiamo chiesto di spostarlo, ma ci hanno comunicato che l’assegnazione era per competenza territoriale. Siamo, allora, ricorsi a cure private, ma, intanto, non ci siamo arresi. Abbiamo chiesto un incontro con la Garante per l’Infanzia e l’adolescenza regionale, il tutore e il responsabile dell’Asl. In quest’incontro si è deciso che lo ospitasse un altro ospedale”. I controlli - Un processo simile è avvenuto per il cambio della scuola. “Per più di un anno abbiamo chiesto che uno dei due bambini frequentasse un’altra primaria. Ma ci veniva contestata questa richiesta, perché il bambino si sarebbe dovuto separare dai compagni, mettendo in secondo piano l’importanza di toglierlo da luoghi attivatori di flash back. Quando abbiamo ottenuto di poterlo spostare in una nuova scuola, ci sono stati dei benefici di apprendimento e di relazione”. Le sue parole sono un grido, la domanda di essere prima di tutto ascoltati, ma sopra ad ogni cosa, “la prevenzione dei femminicidi può avvenire anche dando ascolto ai figli, che spesso chiedono aiuto ancora prima delle loro mamme. Bisogna creare uno strumento sanitario, affiancato a quello giuridico, specifico per i bambini, che valuti i segnali della violenza e la gravità per allontanarli dal violento e per evitare i danni e la psichiatrizzazione”. E si domanda: “perché non si costruisce in anticipo un percorso che permetta di identificare il narcisista maligno nel soggetto che compie atti di violenza per impedire l’escalation della violenza e l’assassinio? Un preventivo “trattamento rieducativo obbligatorio”, perché il soggetto pericoloso venga inserito obbligatoriamente, in forma residenziale, in una struttura rieducativa ad hoc. Ma non esiste ancora nulla di simile e vorrei che partisse proprio dall’Italia questa iniziativa”. Aggiunge che mancano centri specializzati per curare il disturbo post traumatico da stress ai quali affidare le vittime di violenza e che è necessario istituire il Garante delle vittime di atti violenti. “Non si tratta solamente di costruire una cultura sul tema nel Paese, ma di credere a chi ne fa esperienza ogni giorno, a chi è testimone della piaga della violenza”. Serve un nuovo diritto di famiglia: il Paese è pronto, il Governo no di Gianfranco Pellegrino* Il Domani, 30 maggio 2025 I pronunciamenti della Corte costituzionale sull’adozione e la riproduzione assistita degli ultimi mesi sono un grande passo avanti e una significativa supplenza all’inerzia politica di questo governo, ma la Consulta registra, non può legiferare. La destra non farà mai la riforma. L’attuale papato chiude a ogni visione diversa della famiglia. Il compito rimane alla sinistra. I pronunciamenti della Corte costituzionale sull’adozione e la riproduzione assistita degli ultimi mesi sono un grande passo avanti e una significativa supplenza all’inerzia politica di questo governo, come sostiene Mariano Croce su questo giornale. Lo stesso vale per i ripetuti pronunciamenti della Corte sul fine vita. Ma non bastano. Le due sentenze più recenti in materia di genitorialità, per esempio, stabiliscono che la madre non biologica di una coppia di donne che ha avuto un figlio tramite procreazione assistita all’estero dev’essere automaticamente riconosciuta come genitrice (sentenza 68/2025) e che i singoli possano accedere all’adozione internazionale (sentenza 33/2025). Poi, però, nella sentenza 69/2005 la Corte nega il diritto a una donna singola di accedere alle tecniche di riproduzione assistita, in nome ancora dell’interesse del nato ad avere un padre, o una doppia figura genitoriale. Le basi di queste sentenze sono i diritti di chi nasce (diritto all’identità, diritto allo status giuridico certo e stabile, diritto ad avere cure genitoriali) e i diritti di chi vuole essere genitore. I secondi sono sempre subordinati ai primi, per la Corte, e non sono diritti che costituiscono pretese automatiche, nonostante gli attacchi da destra mettano in bocca ai giudici costituzionali questa concezione del diritto a essere genitori. Nonostante le incoerenze, la Corte presuppone e stabilisce due principi. Innanzitutto, il principio di eguaglianza dei nati: tutti i nati sono uguali, indipendentemente dalla loro origine. Si tratta di una mossa tipica. Ogni dichiarazione di eguaglianza, infatti, serve a escludere differenze che si presumevano moralmente rilevanti e invece non lo erano. Tutti gli esseri umani sono uguali, indipendentemente dal colore della loro pelle, dal loro sesso o genere, dal loro censo, dalle loro convinzioni politiche o appartenenze sociali. Con queste sentenze, l’eguaglianza fra cittadini (si ricordi che i nati sono cittadini) fa un passo avanti: si dichiara moralmente irrilevante l’origine e la meccanica della procreazione. È uno sviluppo naturale: come si è dichiarata irrilevante la legittimità presunta della nascita all’interno di un matrimonio, abolendo la odiosa distinzione fra figli e figlie illegittimi e legittimi, così si fa con tutti gli altri modi di nascere. Il pensiero naturale e ovvio è: i nati umani hanno diritti - alla cura, all’identità, alla famiglia - in quanto umani e in quanto nati. Il resto non conta. Ma, da questo principio di eguaglianza, che deriva direttamente dall’art. 3 della Costituzione, ne discende un altro, che potremmo chiamare principio della famiglia intenzionale. Come tutti i nati sono eguali, tutti coloro che sono in grado di prendersene cura e hanno l’intenzione di farlo sono uguali, indipendentemente dal loro sesso e genere, indipendentemente dalle loro relazioni - sposati o meno, in coppia o meno - indipendentemente dalla loro biologia - che siano quelli che hanno condotto la gestazione, o fornito materiale genetico, o meno. Si noti che questo principio non esclude, ma include: non dice che la madre gestazionale debba perdere diritti, ma dice che ci possono essere altre figure che hanno diritti. Questo principio, dunque, non è automaticamente a favore di tutte le forme di gestazione per altri. Ma non si può usare per affermare alcuna priorità dei diritti di genitori biologici o gestazionali sui genitori intenzionali. Come sempre accade nei casi di eguali diritti, la compossibilità dell’esercizio del diritto dev’essere assicurata dagli ordinamenti. Ed è questa la ragione per cui serve nuovo diritto, che renda coerenti le applicazioni di questi principi. Serve un nuovo diritto di famiglia, che affermi la concezione di famiglia che le Corti registrano ma non possono sviluppare: una concezione che il paese è pronto ad accettare. Serve andare oltre minoranze rumorose - alcune femministe di sinistra, le femministe di destra, i corifei della cosiddetta famiglia tradizionale, pezzi della Chiesa e teo-conservatori vari - e rendere legge il sentire civile della maggioranza, di chi cresce figli non biologici (genitori adottivi e affidatari, genitori intenzionali compagni e compagne di genitori biologici o gestazionali), di chi cresce figli biologici, di chi si prende cura degli altri nelle varie forme possibili. La destra oggi al governo non farà mai questa riforma del diritto di famiglia. L’attuale papato chiude a ogni visione diversa della famiglia. Il compito, dunque, rimane alla sinistra, che dovrebbe compierlo lasciandosi dietro ansie elettoralistiche e scrupoli non fondati dei cattolici di sinistra. Le Corti possono fare tanto, ma non tutto. La società civile può andare avanti, ma senza protezioni di legge il progresso morale su momenti essenziali dell’esistenza umana - l’inizio e la fine della vita - sarà sempre imperfetto. *Filosofo Migranti. La Cassazione affonda il progetto Albania di Giansandro Merli Il Manifesto, 30 maggio 2025 Due rinvii alla Corte del Lussemburgo mettono in dubbio la compatibilità del Cpr di Gjader con il diritto Ue. La prima sezione penale ribalta una sua precedente pronuncia. Ora si bloccherà tutto, di nuovo. La Cassazione dubita che il Cpr di Gjader sia compatibile con la direttiva rimpatri e con la direttiva accoglienza. Per questo ieri ha rinviato due cause alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Per la seconda fase del progetto Albania, quella che riguarda i migranti “irregolari” a cui il decreto di fine marzo (poi convertito in legge) ha esteso l’uso dei centri, si tratta di un colpo durissimo. I rinvii sono contenuti in due provvedimenti fotocopia nati dai ricorsi del Viminale contro altrettante non convalide del trattenimento oltre Adriatico. Le aveva decise la Corte d’appello di Roma. Anche se non ci sono automatismi, verosimilmente fino alla decisione dei giudici del Lussemburgo sarà molto complicato che un tribunale italiano possa dare il via libera alla detenzione nelle strutture del protocollo Roma-Tirana. Oggi la cassazione pubblicherà un comunicato per entrare nel merito, poi bisognerà attendere le motivazioni. Ma già ieri il manifesto ha visionato il dispositivo che non lascia spazio a dubbi. Gli ermellini pongono due questioni che riguardano entrambi i casi attualmente possibili a Gjader: quello di un migrante in situazione di irregolarità amministrativa e quello di un richiedente asilo che ha fatto domanda di protezione internazionale da dietro le sbarre di quel Cpr. Per il primo il dubbio è che il trasferimento dall’Italia all’Albania contrasti con la direttiva rimpatri (era il tema che il manifesto aveva posto al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi già il 28 marzo scorso, nella conferenza stampa sul dl). Per il secondo un analogo sospetto riguarda la direttiva accoglienza. Il tema è quello della territorialità: la prima sezione penale è tornata sui propri passi capovolgendo una precedente decisione in cui aveva equiparato il Cpr di Gjader a quelli che si trovano in Italia. Su pronunce con la portata di quella di ieri la regola è che ci sia una discussione di tutta la sezione, oltre il singolo collegio giudicante. La possibilità che qualcosa si stesse muovendo nella direzione poi ratificata era emersa due settimane fa, quando gli ermellini avevano rimandato la sentenza sui due casi, prendendosi del tempo per approfondire. Ha avuto dunque ragione la Corte di appello di Roma a dire, il 19 maggio scorso, che il pronunciamento favorevole ai piani del governo non era corretto, prendendosi la responsabilità di disattenderlo. Anche in ragione del fatto che era “unico e isolato”. Tale rimarrà. Alla luce dell’orientamento espresso in quella circostanza, e a maggior ragione adesso, è prevedibile che ogni volta che un migrante chiederà asilo dall’Albania lo stesso tribunale ne ordinerà il rientro in Italia. Casi diversi sono quelli della proroga o del riesame della detenzione di un cittadino straniero “irregolare”: finiranno davanti al giudice di pace della capitale. Ma ci sono tutti i margini perché anche così la persona debba essere riportata indietro: se la Cassazione ha dei dubbi di compatibilità con il diritto Ue, nell’attesa che li chiarisca la Corte di Lussemburgo, dovrebbe condividerli pure un giudice non togato, come quello di pace. Anche perché in gioco c’è un diritto fondamentale, la libertà personale tutelata dalla doppia riserva di giurisdizione e di legge dell’articolo 13 della Costituzione. Gli ermellini hanno chiesto ai magistrati europei di applicare la procedura d’urgenza: la più rapida in assoluto che, comunque, richiederebbe diversi mesi. Lo avevano fatto anche i tribunali che hanno rinviato le cause sul tema dei “paesi di origine sicuri”, quelli relativi alla fase originaria del protocollo, riservata ai richiedenti asilo mai entrati in Italia. Poi la Corte Ue ha optato per la procedura accelerata, più veloce di quella ordinaria ma meno di quella di urgenza. In quel caso il rinvio esaminato a Lussemburgo risale a novembre 2024, l’udienza si è svolta a febbraio 2025, la decisione era attesa per giugno ma, a quanto appreso da questo giornale, nonostante sia già stata deliberata dovrebbe essere pubblicata a ottobre. In pratica sarà passato un anno in cui il governo non ha potuto portare a Gjader nessun richiedente asilo. Per questo a fine marzo aveva deciso di ampliare l’uso dei centri ai migranti “irregolari” già presenti in Italia. In totale ne ha trasferiti poco più di cento. Al momento a Gjader sono una cinquantina. È probabile ci resteranno ancora per poco. Migranti. Torture e pestaggi nella questura di Verona, altri 9 agenti indagati di Giulio Cavalli Il Domani, 30 maggio 2025 Sono 16 i poliziotti per cui è stato chiesto il rinvio a giudizio. Le indagini, avviate dalla squadra mobile, si sono basate su intercettazioni ambientali e telefoniche, che hanno documentato un clima di complicità e brutalità. Almeno due anni di abusi tra le mura della questura. La procura di Verona ha formalizzato nei giorni scorsi la chiusura delle indagini per altri nove agenti della squadra Volanti, portando a sedici il numero di poliziotti per cui è stato chiesto il rinvio a giudizio, oltre a due per cui è stato chiesto il giudizio immediato. Le accuse vanno dalla tortura alle lesioni, dal peculato alla falsificazione di atti pubblici, con aggravanti legate all’odio razziale. Le indagini, avviate dalla squadra mobile, si sono basate su intercettazioni ambientali e telefoniche, che hanno documentato un clima di complicità e brutalità. In una conversazione un agente diceva: “Evitiamo di alzare le mani nell’Acquario… se dovete dare qualche schiaffo, nei corridoi”. In un’altra, l’assistente capo A.M. si vantava con la compagna: “Ho caricato una stecca, bam - si è irrigidito tutto, un ko”. Una poliziotta, in un altro dialogo, commentava: “Questo era da buttare nell’Adige”. E mentre un fermato era incosciente, un collega ironizzava: “Non l’hai ancora ammazzato?”. Le frasi, giudicate “sadiche e consapevoli” dai magistrati, contribuiscono all’impianto accusatorio per tortura. Altri episodi contestati includono l’interruzione di una perquisizione domiciliare per favorire un conoscente in possesso di strumenti atti a offendere, e l’appropriazione indebita di denaro contante e sigarette sottratti a una donna fermata. Tra le condotte contestate configurano anche i reati di peculato, omissione di atti d’ufficio e falso ideologico. Alcuni agenti sono accusati di non aver denunciato colleghi o di aver firmato verbali artefatti per coprire violenze già avvenute. L’inchiesta - Le indagini si sono sviluppate a partire dal 2022 sotto il coordinamento dei pm Carlo Boranga e Chiara Bisso. Su 28 indagati totali, sono stati chiesti 16 rinvii a giudizio, due giudizi immediati, due patteggiamenti e otto archiviazioni. Nel giugno 2023 furono arrestati cinque agenti, per cui vennero disposte misure domiciliari. L’udienza preliminare per i nuovi indagati è fissata per il 22 settembre 2025 davanti alla gup Arianna Busato. Le prove comprendono anche filmati interni che documentano l’aggressione a Nicolae Daju, colpito fino allo svenimento e poi spruzzato con spray al volto. Un agente usò il suo corpo “come uno straccio per pulire il pavimento”, secondo l’ordinanza del gip Livia Magri. L’inchiesta aveva acceso anche un duro scontro istituzionale. L’eurodeputato Flavio Tosi, ex sindaco di Verona, due anni fa criticò duramente la gip Magri, accusandola di “atteggiamenti ideologici” e di aver gestito le misure cautelari “in modo sproporzionato”. In una dichiarazione pubblica parlava di “uso politico della giustizia” e di “clima da caccia alle streghe”. La procura aveva reagito querelando Tosi per diffamazione aggravata sottolineando come le parole di Tosi “ledano l’indipendenza della magistratura e mirino a delegittimare un giudice impegnato in un’inchiesta di particolare gravità”. Ad aprile dell’anno scorso il Consiglio superiore della magistratura ha aperto una pratica a tutela della giudice Magri respingendo ogni insinuazione su pressioni o parzialità nel suo operato. Secondo l’ordinanza del gip, le violenze documentate “non sono episodiche, ma strutturate secondo uno schema consolidato”, e il trattamento riservato ai fermati “denota una sistematica violazione della dignità”. Le telecamere della sala Acquario e le registrazioni ambientali costituiscono il cuore probatorio del processo. In attesa del giudizio, la procura ha ribadito che il procedimento “non riguarda la Polizia di Stato come istituzione, ma la responsabilità individuale di specifici agenti”. Ma il caso Verona rimette al centro la necessità di un controllo interno effettivo e trasparente sui poteri coercitivi dello stato. Migranti. La storia dell’uomo che bivaccava in un condominio finito nell’inferno del Cpr di Ilaria Blangetti La Stampa, 30 maggio 2025 La denuncia della cuneese Giulia Marro, antropologa e consigliera regionale: “La legge prevede che persone come lui non possano andare in quei centri”. Lo scorso aprile la polizia è intervenuta in un condominio di via Nasetta, a Cuneo, dove da tempo un uomo di origine nigeriana, irregolare, bivaccava sulla rampa del garage accumulando oggetti e destando preoccupazione per i suoi comportamenti. Numerose anche le segnalazioni effettuate dai residenti. A carico dell’uomo erano già stati emessi provvedimenti di Daspo urbano. “In considerazione dell’elevata pericolosità”, l’uomo è stato portato al Centro di permanenza per i rimpatri di Torino. La cuneese Giulia Marro, antropologa e consigliera regionale eletta nella lista Alleanza Verdi Sinistra, dopo l’ultima visita effettuata al Cpr di corso Brunelleschi denuncia “l’inadeguatezza di questi luoghi per ospitare persone come Michael. Si tratta di un uomo con problemi psichici, accumulatore, con frequenti deliri, che ha bisogno di cura”. “In realtà la legge prevede che persone come lui non possano andare nei Cpr, perché si viene ammessi con una visita di idoneità dell’Asl. C’è un vuoto giuridico che non chiarisce chi deve prendere in carico persone senza residenza e senza permesso di soggiorno valido, ma con problemi di salute mentale. Si ritrovano in strutture repressive e non di cura, senza la necessaria assistenza medica che dovrebbe essere garantita a tutti sul territorio nazionale”. Durante la visita al Cpr dello scorso 13 maggio, Giulia Marro racconta di essere venuta a conoscenza del fatto che l’uomo “non dormiva in camera, ma nel refettorio, proprio per il suo stato di salute mentale. Al momento, dopo gli ulteriori roghi al Cpr di Torino, è stato trasferito, però non sappiamo dove”. “Queste persone non possono stare lì, anche perché non possiamo chiedere al personale del Cpr e alle forze dell’ordine di fare da medici o da assistenti sociali. Chi come lui non ha residenza e non riesce a tenere i documenti a posto, diventa una persona per la quale il suo benessere non è responsabilità di nessuno”. Marro sottolinea che “Michael non è stato invisibile sul territorio, il Comune di Cuneo si è preso carico con coraggio di una situazione non di sua competenza in quanto persona non residente. Si è provato a inserirlo in percorsi, con l’impegno dei servizi sociali e di quelli di volontariato, ma questa persona ha problemi psichici e rifiutava l’aiuto”. E conclude: “Sono stata tre volte al Cpr di Torino e posso dire una cosa: se non ci entri pazzo, ne esci pazzo. Sono luoghi spaventosi”.