La funzione rieducativa della pena? Ignorata dal decreto “sicurezza” di Andrea Apollonio Gazzetta del Mezzogiorno, 2 maggio 2025 Il decreto legge che sta per approdare in Parlamento per la sua conversione contiene alcune disposizioni “per il rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari”. Il decreto legge che sta per approdare in Parlamento per la sua conversione contiene alcune disposizioni “per il rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari”, come recita la rubrica dell’articolo 26 che introduce, nel codice penale, il reato di “Rivolta all’interno di un istituto penitenziario”; con questa nuova figura si punisce con pene molto elevate chi, nelle carceri, adopera violenza o minaccia di gruppo, o forme di resistenza. È una scelta politica carica di conseguenze di “sistema”, non adeguatamente vagliate. Desta anzitutto perplessità l’utilizzo di uno strumento legislativo straordinario (e provvisorio), ad uso e consumo del Governo, che dovrebbe essere legato a casi di necessità e urgenza. Infatti, la previsione di nuovo conio si incentra sul mondo carcerario, come noto afflitto da problemi di sovraffollamento e di inadeguatezza delle strutture, oramai cronicizzati: un quadro - certo non contingente! - lesivo della dignità umana che è alla base di molti degli episodi di violenza che si registrano negli istituti penitenziari, ai quali il legislatore risponde - mantenendo però inalterato lo status quo - col pugno duro: attraverso una previsione di reato ad hoc. Lo svilimento del Parlamento, a fronte di una scelta governativa così incisiva, pare evidente. Poi: se è vero che il nuovo reato è stato collocato tra i delitti contro l’ordine pubblico, ne andrebbe aggiornata la tradizionale definizione: da intendersi a questo punto non più solo come corretto funzionamento delle istituzioni democratiche, che consente alla collettività di esplicare le proprie libertà e l’esercizio dei propri diritti, ma anche come ferrea disciplina dentro spazi per loro stessa natura “chiusi”; spazi, anzi, istituzionalmente destinati proprio al contenimento di condotte antisociali, che con un inedito ribaltamento di prospettiva possono diventare luogo di turbamento dell’ordine pubblico (“esterno”); potendosi immaginare - ma non è facile, di questi tempi, entrare nella testa del legislatore - che siano piuttosto le “notizie” che provengono dai penitenziari in cui scoppiano le “rivolte” - e quindi, più che il fatto in sé, la sua narrazione - a turbare l’ordinato andamento democratico del Paese. Ma la più grave implicazione non si registra sul piano dell’equilibrio tra i poteri (esecutivo- legislativo) né nell’aggiornamento di categorie penalistiche che sembravano consolidate. È la Costituzione che viene toccata in uno dei suoi principi più sensibili. Paradossale che una scelta incriminatrice così carica di significato, pienamente aderente al nuovo corso “simbolico” del diritto penale, venga effettuata oggi (momento in cui la sicurezza dei penitenziari, grazie anche a sistemi tecnologici molto evoluti, è garantita al massimo livello) e non sia stata invece presa in esame in tempi in cui l’ordine democratico era effettivamente messo a repentaglio non solo dall’incidenza esterna di fenomeni virulenti quali quelli terroristico e mafioso, ma anche, all’interno dei penitenziari dello Stato, dalle “rivolte” organizzate in special modo dai terroristi, tanto per consentirne la fuga, tanto per destabilizzare il circuito detentivo e creare ulteriori condizioni per la “lotta armata”. Se quell’opzione - nel quadro realmente emergenziale degli anni Settanta e Ottanta - non è stata percorsa, non è certo per una minore consapevolezza delle potenzialità repressive dello strumento penale, che anche in quel periodo veniva utilizzato in larga scala; si era piuttosto ben consapevoli che associare la condizione di detenuto a specifiche condotte di reato, da perpetrarsi esclusivamente nelle carceri, volesse dire infrangere quel tabù sociale che - nonostante tutto - le considera luogo di espiazione: in cui si realizza il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena. Oggi è quindi sdoganata per tabulas - e con previsioni di reato di particolare gravità - l’idea che le carceri siano luoghi potenzialmente criminogeni: e per converso ogni accenno di “rivolta”; deve essere non solo sanzionato come già accadeva fino a ieri, e cioè attraverso le “ordinarie” ipotesi di reato e la privazione dei benefici penitenziari (d’altronde, la legge “Gozzini” del 1986, ancora oggi perno dell’ordinamento penitenziario, mira a disincentivare le condotte antisociali in carcere attraverso il meccanismo della “buona condotta”, che si traduce in una riduzione del periodo detentivo), ma represso con la minaccia di (ulteriori) sanzioni detentive, da aggiungersi a quelle che il detenuto già sta scontando. Che le carceri siano luoghi potenzialmente criminogeni, lo si sapeva già. Ma averlo scritto nero su bianco, e mostrare il pugno duro della repressione anziché adoperarsi per un sostanziale miglioramento delle condizioni dei detenuti, infrange l’illusione di un circuito detentivo attento alla dignità delle persone private della loro libertà e alla loro rieducazione, conforme alla Costituzione e alle aspirazioni di una società che, come recita l’art. 3 della Carta, non vuole - o non dovrebbe - lasciare indietro nessuno. I principi, i diritti, sono sempre magnifiche illusioni, è vero; ma il primo passo per avvicinarsi alla loro concreta realizzazione è non disvelarne mai la loro intrinseca irrealizzabilità. È un fragile circuito, che risale alla matrice illuministica della legge e che oggi, almeno rispetto al complesso mondo carcerario e alle sofferenze dei detenuti, anch’essi titolari di diritti, subisce un duro colpo. L’arte come strumento partecipativo: il progetto “Orizzonti” arriva negli IPM di tutta Italia di Maria Carla Rota startupitalia.eu, 2 maggio 2025 “Orizzonti” è il progetto avviato da Gruppo Mediobanca e Fondazione Francesca Rava - NPH Italia ETS per favorire l’inclusione sociale di giovani detenuti e detenute in tutta Italia. Numerose le attività previste, tra cui anche giardinaggio, taglio e decoro, pet therapy e primo soccorso. Di fronte a un muro grigio non servono parole per comunicare. Non importa se si parlano lingue diverse, se la cultura è differente, se le fasce d’età sono distanti. Ognuno ha alle spalle una storia, spesso molto difficile, ma bastano tempere, pennelli e bombolette spray per ritrovarsi fianco a fianco a rappresentare pensieri ed emozioni su una parete anonima, destinata a essere trasformata in un colorato murale. Così, in un caldo pomeriggio di aprile, in uno dei cortili interni dell’Istituto penale per minorenni (IPM) Cesare Beccaria di Milano, la creatività e le idee di alcuni ragazzi detenuti si intrecciano con quelle di persone che lavorano nel mondo dell’economia e della finanza. “Orizzonti”, un ponte tra dentro e fuori dall’IPM - L’attività rientra nel programma “Orizzonti”, progetto ideato da Fondazione Francesca Rava - NPH Italia ETS e sostenuto dal Gruppo Mediobanca per la formazione, l’inclusione e il reinserimento delle giovani e dei giovani di numerosi IPM in Italia. L’obiettivo è far crescere una comunità educante consapevole e responsabile, pronta a sostenere le ragazze e i ragazzi e a prevenire ricadute, attraverso il coinvolgimento diretto in attività manuali e formative al fianco dei dipendenti volontari del Gruppo Mediobanca, delle educatrici della Fondazione Francesca Rava e di figure professionali specializzate. Dopo aver realizzato numerose attività presso gli Istituti Penali per i Minorenni di Roma, Pontremoli, Napoli, Bari e Catanzaro, il progetto è tornato a Milano, presso l’IPM Cesare Beccaria, con la realizzazione di un murale. L’arte accresce la consapevolezza emotiva - A coordinare i lavori del gruppo è Albania Pereira, arteterapeuta che da cinque anni segue il laboratorio di arteterapia all’interno dell’Istituto Beccaria: “L’arte ha tanti benefici: aumenta la consapevolezza emotiva, stimola l’intuizione, rafforza l’autostima e combatte la noia”, spiega, mentre mostra il bozzetto da riprodurre, con due arabe fenici che risorgono. Il messaggio dell’opera? “Per quanto può essere prezioso il nostro passato, è sempre il presente a definire quello che siamo”. I ragazzi si affidano ai suoi consigli e sono pronti a seguirne i suggerimenti, anche quando si tratta di cancellare un disegno appena fatto, che non risulta ben inserito nel quadro complessivo. Perché la libertà di esprimersi è importante, è vero, ma bisogna anche imparare a collaborare con gli altri e a gestire le piccole e grandi frustrazioni che si possono incontrare al lavoro, in famiglia, nella vita. I ragazzi detenuti che realizzano il murale fanno parte del Gruppo Avanzato: ciò significa che hanno la possibilità di uscire dal carcere per andare a lavorare e che per loro si avvicina il momento in cui potranno ricominciare da capo e costruirsi un nuovo futuro. Il pomeriggio trascorso a dipingere con persone estranee li aiuta a tessere relazioni e costruire rapporti: se all’inizio sembra di percepire un po’ di chiusura, nel giro di poco invece la riservatezza lascia spazio all’empatia, alla voglia di scherzare, al desiderio di scambio reciproco. “La diversità genera ricchezza: avere la possibilità di accostare diversi punti di vista, modi di vivere, opinioni, idee ed esperienze porta un grande valore per tutti”, sottolinea Caterina Conti, responsabile delle attività educative di Fondazione Francesca Rava all’interno degli Istituti penali minorili dove opera la Fondazione. Il punto di vista dei volontari e delle volontarie - Questo tempo condiviso fa bene ai ragazzi, ma anche ai volontari e alle volontarie del Gruppo Mediobanca: oggi ci sono Marco, Alessandra, Claudia, Barbara e Marzia, che si alternano ad altre colleghe e colleghi durante i tre giorni necessari per completare il murale. Lasciato in ufficio il computer, si confrontano con una realtà diversa e lontana dalla quotidianità, anche se per qualcuno nemmeno troppo. C’è chi ha già visto situazioni simili durante l’infanzia e l’adolescenza, e chi ha già avuto l’occasione di entrare al Beccaria, per esempio durante il Gruppo Mediobanca Sport Camp, oppure in occasione di spettacoli realizzati in anni più o meno recenti nel teatro del carcere. C’è chi nota con piacere che la struttura, in particolare il giardino interno, è stato rinnovato: i vialetti e l’impianto di illuminazione sono stati rifatti, il giardino è ben tenuto, le pareti tutt’intorno sono abbellite da murales. La vita in un istituto penale a quest’età è difficile: non si è bambini e non si è ancora adulti, mentre si va alla ricerca di un fragile equilibrio, che possa resistere alle tensioni, ai momenti di sconforto, alle difficoltà che inevitabilmente si sperimentano. “Vedere detenuti così giovani colpisce molto: ti chiedi quante situazioni dolorose abbiano dovuto affrontare”, sottolineano le volontarie e i volontari. “Dovrebbero poter fare quello che fanno i loro coetanei e invece si ritrovano qui, per aver compiuto reati da giovanissimi: bisogna riflettere e investire sul futuro delle nuove generazioni”. Un’opportunità concreta di ripartenza, inclusione e riscatto - “Orizzonti”, che si rivolge a persone di età compresa fra i 14 e i 25 anni si inserisce nell’ambito di “Palla al Centro”, progetto più ampio a cura della Fondazione Francesca Rava, destinato a trovare attuazione nei 17 IPM presenti sul territorio nazionale grazie a un Protocollo d’Intesa sottoscritto con il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. In questo caso, con il progetto Orizzonti, a essere coinvolti sono gli Istituti penali per minorenni di Milano, Pontremoli, Roma, Napoli, Bari e Catanzaro. All’interno di queste sei realtà vengono e verranno proposte diverse attività nel corso del tempo: dall’imbiancatura delle strutture penitenziarie ai corsi teorici e pratici di giardinaggio fino ai laboratori di taglio e decoro, per acquisire nuove competenze ed imparare nuovi mestieri, valorizzando la cultura del bello. Ai ragazzi e alle ragazze coinvolte verrà inoltre offerta la possibilità di realizzare dei murales, come già avvenuto al Beccaria, e di beneficiare così della funzione curativa dell’arte per astrarsi dalla realtà detentiva. E ancora, nella programmazione sono previsti corsi di pet therapy, volti a rafforzare le capacità comunicative e relazionali e a migliorare l’autostima e la collaborazione attraverso l’aiuto reciproco, ma anche corsi di rianimazione cardiopolmonare e disostruzione e infine momenti di condivisione di testimonianze da parte di medici volontari della Fondazione Francesca Rava, intese a trasmettere l’importanza di salvaguardare la vita umana. Lombardia. Decreto Sicurezza, avvocati in protesta: “Nuovi reati, così le carceri scoppiano” di Luca Bonzanni L’Eco di Bergamo, 2 maggio 2025 L’Unione delle camere penali ha proclamato l’astensione dalle attività. Pelillo: “Si introducono pene detentive brevi che ingolfano procure, tribunali e penitenziari”. I penalisti incrociano le braccia contro il nuovo Decreto Sicurezza. Per tre giorni, da lunedì 5 a mercoledì 7 maggio, l’Unione delle camere penali italiane ha infatti proclamato l’astensione dalle udienze e da tutte le attività del settore penale, “contestando con forte preoccupazione i contenuti del decreto, ma prima ancora il metodo: si tratta di un evidente abuso dello strumento della decretazione d’urgenza, non sussistendone i presupposti costituzionali”. La protesta coinvolgerà anche Bergamo e il distretto giudiziario di Brescia, perché la mobilitazione trova fronte comune tra i penalisti: proprio per lunedì 5 maggio alle ore 10, la Camera penale della Lombardia Orientale - cui afferisce Bergamo - ha indetto un’assemblea straordinaria nell’Aula Panettieri del tribunale di Brescia, “per un confronto a più voci e da diversi punti di vista sui temi imposti dall’iniziativa normativa”. I punti critici - “Abbiamo apprezzato molto lo slogan dell’Unione nazionale delle camere penali - sottolinea l’avvocato Enrico Pelillo, presidente della Camera penale di Bergamo -: “Peggio del Disegno di legge Sicurezza c’è solo il Decreto Sicurezza”. La decretazione d’urgenza non ha nulla a che vedere con questi temi, ma deve essere davvero limitata ai casi di necessità e vera urgenza, che qui non si vedono”. È infatti questo uno dei punti critici sollevati dai penalisti: il Decreto Sicurezza, pubblicato in Gazzetta ufficiale lo scorso 11 aprile, è in sostanza la “scorciatoia” imboccata dal governo per superare l’impasse del disegno di legge omonimo, che da un anno giaceva in Parlamento. Si è scelta così la strada della decretazione d’urgenza per introdurre aggravanti (per l’accattonaggio, ma anche per la violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale durante proteste finalizzate a impedire la realizzazione di un’infrastruttura) o nuovi reati (come il reato di blocco stradale, che prima era solo un illecito amministrativo, il reato di rivolta in carcere, punito anche nella forma “passiva” e il reato di “appropriazione di immobile destinato a domicilio altrui”, contro le occupazioni abusive). I dati - In altri termini, come rileva Pelillo, “si introducono nuove pene detentive brevi che ingolfano procure, tribunali e carceri. Chiunque abbia un minimo di attenzione si rende invece conto che le carceri stanno esplodendo: la soluzione sarebbe l’indulto o l’amnistia, invece si viaggia in direzione ostinata e contraria con nuovi reati e nuove aggravanti”. La situazione carceraria resta critica a Bergamo: secondo gli ultimi dati del ministero della Giustizia aggiornati a martedì, in via Gleno si contano 577 detenuti a fronte di 319 posti disponibili (tasso di affollamento del 180,9%). Non va certo meglio nella vicina Brescia: Canton Mombello ospita 364 reclusi per 182 posti regolamentari, esattamente il doppio, mentre a Verziano ci sono 111 detenuti per 71 posti (tasso di affollamento del 156,3%). La Camera penale della Lombardia orientale ha messo nero su bianco un documento di critica al nuovo decreto, “improntato non alla prevenzione ma unicamente alla punizione a costo zero e all’offerta alla pubblica opinione di soluzioni di impatto esclusivamente simbolico, che non miglioreranno la sicurezza dei cittadini. Preoccupa la scelta di reprimere con lo strumento penale forme di dissenso che devono potersi manifestare in una società democratica, così come l’accanimento verso una microcriminalità marginale o ideologicamente oppositiva”. Le misure da cambiare - Si tratta, proseguono i penalisti, di “misure che vanno nel senso diametralmente opposto a quello dell’auspicabile implementazione delle pene e misure alternative al carcere, nonostante la nota, drammatica situazione in cui versano le carceri italiane quanto a sovraffollamento, carenza di lavoro e attività trattamentali, insufficiente tutela della salute fisica e mentale dei reclusi: tutte circostanze destinate a peggiorare la sicurezza nel nostro Paese se non si interverrà, dato che una detenzione vissuta in queste condizioni è destinata ad aumentare il pericolo di recidiva”. “Il 10 maggio - aggiunge Pelillo - visiteremo il carcere di Verziano a Brescia in occasione della Festa della mamma (due anni fa l’iniziativa fu a Bergamo, ndr), per parlare con le detenute e osservare da vicino la situazione”. Terni. Detenuto si toglie la vita in una cella del carcere di Maria Giulia Pensosi umbria24.it, 2 maggio 2025 Il gesto estremo dell’uomo nel pomeriggio di giovedì, a darne notizia il Sappe. Caforio: “Risposte immediate dalle istituzioni”. Detenuto si toglie la vita “Verso le 18, a togliersi la vita è stato un detenuto italiano, per reati contro la famiglia: non si conoscono i motivi, era in cella con altro detenuto italiano. Purtroppo, ogni tentativo di impedire il tragico decesso si è rivelato vano”, scrive Fabrizio Bonino, segretario per l’Umbria del Sindacato autonomo polizia penitenziaria. “Esprimiamo innanzitutto il nostro profondo cordoglio per la perdita di una vita umana. È sempre doloroso, per chi lavora nel mondo penitenziario, trovarsi di fronte a simili tragedie che lasciano un senso di impotenza e di profonda amarezza. Ma ancora una volta, siamo costretti a sottolineare quanto la questione del disagio psichico e del rischio suicidario all’interno degli istituti penitenziari rappresenti una vera emergenza nazionale. La Polizia Penitenziaria, pur con abnegazione e professionalità, continua a operare in condizioni di costante tensione, spesso in solitudine operativa e senza gli strumenti idonei per affrontare adeguatamente situazioni così complesse”. Bonino scrive che il Sappe “ha più volte richiamato l’attenzione delle istituzioni sulla necessità di potenziare i servizi di assistenza psicologica, rafforzare l’organico, migliorare la formazione specifica e garantire presìdi adeguati alla prevenzione dei gesti autolesivi”. “Questo ulteriore suicidio avvenuto nel carcere di Terni deve far riflettere sulla condizione in cui vivono i detenuti e su quella in cui è costretto ad operare il personale di Polizia Penitenziaria”, commenta Donato Capece, segretario generale del Sappe. Il Garante Caforio: “Con l’ennesimo suicidio di oggi primo maggio di un detenuto nel carcere di Terni si ha la conferma della sconfitta della civiltà giuridica del sistema carcerario italiano. Questa ennesima morte è sulla coscienza di tutti e le istituzioni hanno l’obbligo prima morale e poi giuridico di dare immediate risposte”, così il Garante Giuseppe Caforio. Gorizia. Malore fatale in carcere, muore un giovane detenuto triestino di Francesco Fain Il Piccolo, 2 maggio 2025 L’uomo sarebbe rimasto vittima di un malore: escluso l’omicidio e non ci sono elementi per poter dire si sia trattato di un suicidio. Morte improvvisa nella serata del primo maggio al carcere di Gorizia. Un detenuto di 30 anni di Trieste è deceduto. La circostanza viene confermata al Piccolo dal questore di Gorizia Luigi di Ruscio. Escluso l’omicidio e non ci sono elementi per poter dire si sia trattato di un suicidio. L’uomo sarebbe rimasto vittima di un malore. E da quel che è stato possibile apprendere il trentenne era arrivato al carcere di Gorizia due giorni fa ed era tossicodipendente. Il malore pare sia legato proprio alla sua condizione di dipendenza agli stupefacenti. Teramo. Detenuta di 44 anni muore nel carcere di Castrogno certastampa.it, 2 maggio 2025 Una detenuta, è deceduta dentro al carcere di Castrogno nel pomeriggio di oggi. Si tratta di R.D.R. di 44 anni residente in Campania. A causare il decesso sarebbe stato un malore per una patologia pregressa che era monitorata da tempo. Indagini sono in corso. Milano. Celle sempre più invivibili: sovraffollamento record a San Vittore di Fulvio Fulvi Avvenire, 2 maggio 2025 Nel penitenziario milanese l’indice che misura la capienza dei reclusi ha raggiunto il 218%, poco superiore a quello delle case circondariali di Foggia (211%) e Lucca (205%). Rimane ancora altissimo il tasso di sovraffollamento delle carceri italiane, dove non si allentano le tensioni tra i reclusi per le condizioni di estremo disagio in cui vivono. I dati più recenti forniti dal ministero della Giustizia, relativi al 5 aprile, parlano di un sovrannumero con indice complessivo pari al 132% nei 192 istituti di pena italiani (con una crescita dello 0,1% rispetto al 17 marzo). Le cifre non si discostano molto da quelle del mese precedente ma confermano un’emergenza patologica: sono 62.355 le persone detenute (218 in più del precedente rilevamento), a fronte dei 46.808 posti disponibili. Va tenuto presente, inoltre, che la capienza regolamentare è di 51.308 ma diverse camere di pernottamento risultano inagibili determinando un divario ulteriore di 4.500 posti. In sostanza, dunque, i penitenziari “ospitano” in totale 11.047 persone in più rispetto a quelle che possono contenere. La situazione più critica è ancora quella della Casa circondariale di San Vittore, a Milano, con un indice di sovraffollamento del 218% seguita dagli istituti di Foggia con il 211%, Lucca (205%) e Brescia Canton Mombello (201%). Quanto alla cittadinanza dei detenuti presenti, dal dossier del ministero, suffragato dal garante per le persone private della libertà personale, il 31,5% risulta essere straniero, il resto italiano. Interessante è, ancora una volta, il dato dei ristretti in attesa di primo giudizio: 9.316, il 15% del totale. Quelli che invece scontano dietro le sbarre una pena definitiva ammontano a 42.765. Altro elemento non trascurabile: i ristretti che hanno avuto una condanna da 0 a 3 anni sono 9.573. E per quanto riguarda i reati compiuti, sono ancora quelli contro il patrimonio ad avere il più alto numero di condannati: 35.482. I reati contro la persona ascritti a persone finite in cela, sono invece 27.492. La terza categoria di atti criminali contestati o riconosciuti a chi si trova dietro le sbarre è quella contro le leggi sulla droga: 21.297. Che il sovraffollamento sia un problema da risolvere al più presto, lo dice anche il trend in continua, graduale ascesa dei detenuti nelle carceri del nostro Paese: al 31 dicembre del 2020 erano 52.273, quasi diecimila in meno di quelli rilevati oggi. Di fronte a questo incremento va rilevata una diminuzione complessiva dei posti disponibili che cinque anni fa erano 47.193 e oggi sono, come detto sopra, 46.808. Insomma, come sottolinea lo studio del Collegio dei garanti, “il dato relativo al numero della popolazione detenuta è nuovamente risalito in modo preoccupante, così come l’indice di affollamento”, una constatazione che tiene conto, dati alla mano, di un andamento in salita iniziato ben 12 anni fa. Ma cosa accade dietro le sbarre? Gli “eventi critici” aumentano. Dal primo gennaio all’8 aprile 2025 le aggressioni sono state 159, gli atti di autolesionismo 3.050, i suicidi 25 (ma secondo l’Osservatorio Ristretti Orizzonti le persone che si sono tolte la vita dietro le sbarre sono 29), i tentati suicidi 513. Ancora numeri che fanno rabbrividire, considerando che nel 2024 i suicidi sono stati in totale 91, mai così tanti dal 1992, anno in cui si è cominciato a registrarli. Altra nota dolente che aggrava il quadro già precario del sistema penitenziario italiano: la carenza degli organici del personale addetto alla sorveglianza. Mancano infatti ancora da impiegare 3.212 agenti di Polizia penitenziaria, a fronte di una struttura prevista di 34.149 unità. Ma il numero dei poliziotti è di gran lunga inferiore alle effettive necessità del servizio (il rapporto è di 1,8 detenuti per agente, il più basso d’Europa), visto che i detenuti da custodire sono aumentati negli ultimi cinque anni in modo considerevole. E anche il personale amministrativo è sottodimensionato, di 733 unità rispetto alle piante organiche vigenti, ma anch’esse da aggiornare. Trento. L’abbraccio in tribunale che archivia una storia di bullismo: “La sentenza più bella” di Tiziana Roselli Il Dubbio, 2 maggio 2025 Succede a Trento, dove il procedimento che ha coinvolto sette adolescenti si è concluso tra lacrime e commozione. Il presidente Spadaro: “Punire è facile, educare è molto più difficile”. Di fronte al Tribunale dei minori di Trento, sette adolescenti si sono stretti in un abbraccio che vale più di una sentenza. Non è la conclusione consueta di un procedimento per diffamazione a mezzo social, ma è senza dubbio quella più significativa. Sei ragazzi, tutti sedicenni, erano imputati per aver insultato pesantemente un compagno in una chat scolastica. Una storia dolorosa di esclusione, scherno e parole feroci. Eppure, ciò che poteva finire in un’aula con condanne e risentimenti si è trasformato in un momento di consapevolezza, perdono e rinascita relazionale. A rendere possibile questo esito fuori dall’ordinario è stata una macchina della giustizia che ha saputo mettersi al servizio delle persone, in particolare dei più giovani. Un percorso costruito sul confronto, sull’ascolto autentico e sulla volontà di trasformare un errore in opportunità di crescita. A guidarlo, il presidente del Tribunale dei minori di Trento, Giuseppe Spadaro, che ha accompagnato i ragazzi in un processo che ha lasciato un segno indelebile: “Quel gesto di accoglienza verso il compagno che avevano ferito è stato un passaggio profondamente simbolico. In tanti anni di servizio, poche volte ho percepito così chiaramente il significato profondo del nostro lavoro”, ha confidato al Dubbio, ancora visibilmente commosso. Spadaro non ha nascosto l’emozione per un momento che ha travalicato la giurisdizione per diventare una lezione di vita: “Non capita spesso, in un’aula di giustizia, di assistere a un silenzio così carico di significato, seguito da un abbraccio sincero. In quel gesto c’era tutta la fragilità, ma anche la forza, di questi giovani. È stato un riscatto collettivo”. Il presidente ha poi sottolineato il valore del percorso di mediazione che ha preceduto l’udienza: “La macchina della mediazione ha funzionato egregiamente. È stata la dimostrazione concreta che la giustizia, quando sceglie la via dell’ascolto, sa guarire. Questi ragazzi non hanno solo chiesto scusa, hanno compreso davvero. E hanno restituito dignità al loro compagno, chiudendo questo triste capitolo non con la punizione, ma con un gesto educativo profondo”. Il ragazzo bullizzato, inizialmente ferito e isolato, non chiedeva vendetta, ma riconoscimento. Aveva un solo grande desiderio: spiegarsi, essere ascoltato e potersi reintegrare in quel gruppo da cui si era sentito estromesso. Quando ha trovato il coraggio di raccontare la propria sofferenza, in quell’aula gremita di famiglie, assistenti sociali e avvocati, è successo qualcosa di straordinario: gli altri sei coetanei lo hanno finalmente guardato con occhi diversi. “È stato lì - racconta Spadaro - che ho visto nei loro sguardi il cambiamento. Hanno capito. Non con la testa, ma con il cuore”. Il procedimento si è concluso con il ritiro della denuncia e l’archiviazione del caso. Ma ciò che conta davvero è quello che è avvenuto oltre gli atti processuali: l’applauso spontaneo che ha accompagnato il gesto di riconciliazione, la stretta collettiva che ha unito sette adolescenti e le loro famiglie, e l’impegno concreto per ricostruire. I protagonisti hanno infatti deciso di organizzare un’assemblea scolastica aperta, per raccontare questa vicenda ai compagni e provare a trasformarla in un messaggio di consapevolezza. E proprio da loro è arrivata la richiesta più sincera al giudice che li aveva guidati: “Andrò io a quella scuola per l’incontro… l’idea è stata proprio dei ragazzi al termine dell’udienza… mi han detto: ‘Lei ci ha fatto promettere di essere sempre dalla parte dei più deboli. Ora ci fa lei una promessa… verrà?’”, ha raccontato Spadaro con emozione. Una promessa nata dal cuore, che il giudice ha subito accolto. Il presidente, infine, ha voluto lanciare un messaggio che va oltre il singolo caso: “Questa non è solo una bella storia. È un monito per il sistema: serve più coraggio nel credere nella giustizia riparativa, specie con i minori. Punire è facile. Educare è molto più difficile. Ma quando ci si riesce, il valore umano supera ogni statistica”. In un tempo in cui il bullismo scolastico è spesso affrontato con freddezza o con rigidità, questa storia racconta che esiste un’altra strada. Quella che passa per il dialogo, per la responsabilità condivisa e per la possibilità - reale - di rimettere insieme i pezzi. Non tutti i processi finiscono con un abbraccio. Ma è bello sapere che, a volte, può succedere. E che ci sono adulti, come il giudice Spadaro, pronti a crederci fino in fondo. Firenze. Carceri, il lavoro come speranza ai tempi del Giubileo di Roberta Barbi vaticannews.va, 2 maggio 2025 Nei giorni dedicati al Giubileo del mondo del lavoro, una storia che arriva da Firenze, dove un imprenditore licenziatario di un ristorante Mc Donald’s ha assunto due detenuti provenienti dall’istituto di pena della città: “Bisogna restituire almeno un po’ del bene che si è ricevuto”, la sua motivazione. C’era una volta un ristorante Mc Donald’s situato in via Cavour, nella splendida Firenze, gestito da un imprenditore illuminato, per cui l’inclusione non è solo una teoria “per riempirsi la bocca”, ma una realtà da vivere attraverso l’accoglienza di chi ha semplicemente avuto un percorso diverso. Questo imprenditore illuminato si chiama Giuseppe Troisi, è il titolare della licenza del suddetto ristorante e ha deciso di introdurre all’interno del personale due detenuti: “Sono partito da questo presupposto: ognuno di noi deve restituire almeno un po’ del bene ricevuto nella vita - ha rivelato ai media vaticani - questo è lo spirito con cui ho iniziato questa attività”. Un sogno che diventa realtà - L’idea Giuseppe l’ha “rubata” a un collega che ha fatto la stessa cosa in Sardegna: allora è possibile! Si è detto, ma poi si è dovuto scontrare lo stesso con la burocrazia. Anche questo, però, è stato un dono, perché ha scoperto che fare rete fa vincere, sempre: “Mi sono rivolto a Seconda Chance, un’associazione che si occupa del reinserimento lavorativo dei ristretti - racconta - ma sono stato aiutato anche da altri, comprese le istituzioni locali come il Comune. Mi sono sentito sempre sostenuto in questa scelta, altrimenti non sarei riuscito a raggiungere tale risultato”. I due detenuti selezionati dall’istituto sono stati poi anche “approvati” dal datore di lavoro che ha valutato le loro capacità per il tipo di mansioni che sarebbero andati a svolgere; poi sono stati ospitati da Fondazione Caritas per il tirocinio, finanziato anche con il contributo di Fondazione Cassa di risparmio di Firenze, finché è venuto il momento dell’inserimento. Gli orari di lavoro, ovviamente, sono stati calibrati sulle esigenze del carcere, dove i due dovevano tornare al termine della giornata. Superare il pregiudizio - Giuseppe ha anche altri dipendenti, ovviamente, e a un certo punto si trova davanti a un vero e proprio dilemma: “Mi sono chiesto se comunicare questa mia scelta oppure se inserirli nel personale come fossero lavoratori qualsiasi - prosegue il suo racconto - ma poi mi sono detto: le belle storie vanno raccontate! Includere significa accogliere chi ha fatto un percorso diverso per tanti motivi; un percorso di devianza che magari nelle stesse condizioni avrebbe potuto intraprendere ciascuno di noi!”. Ovviamente qualche timore e qualche diffidenza qualcuno all’inizio l’ha manifestata, ma già dopo il primo giorno sono state superate ampiamente e i due nuovi colleghi erano già parte del gruppo. Oltre la speranza - Il lavoro in carcere, dati alla mano, è capace di abbattere dal 70% (media nazionale) al 2% il tasso della recidiva, ossia la percentuale dei ristretti che una volta rimessi in libertà ricadono nella criminalità e quindi tornano in carcere. Nell’Anno Santo dedicato a questa virtù, quindi, chiediamo a Giuseppe qual è la sua speranza per questi due detenuti, uno dei quali, intanto, è arrivato al fine pena, mentre l’altro è stato ospitato in una struttura di misura alternativa al carcere: “Più che una speranza, per loro ormai il futuro è una certezza - afferma con gioia - il ragazzo che è libero ha un contratto a tempo indeterminato per 24 ore settimanali, e arriverà il momento anche per l’altro, quando avrà saldato il proprio debito con la giustizia”. “Ho parlato a lungo con entrambi - conclude l’imprenditore - sono tutti e due volenterosi di mettersi in gioco, ma soprattutto di lasciarsi alle spalle quell’imbuto di devianza in cui si erano infilati”. Salerno. Detenuti al lavoro con la legge Smuraglia: tavolo tecnico con imprese e istituzioni ilvescovado.it, 2 maggio 2025 Palazzo Sant’Agostino ha ospitato un incontro per promuovere l’inserimento lavorativo dei detenuti grazie agli incentivi fiscali previsti dalla normativa. Il presidente Vincenzo Napoli: “Una sfida civile che abbatte i muri del pregiudizio”. Un’opportunità concreta per ridare dignità e futuro a chi sta scontando una pena detentiva: è questo l’obiettivo del Tavolo Tecnico Interistituzionale che si è tenuto il 30 aprile a Palazzo Sant’Agostino, promosso dalla Provincia di Salerno nell’ambito delle politiche sociali. L’incontro, coordinato dalla consigliera delegata Filomena Rosamilia, ha visto la partecipazione delle principali organizzazioni del mondo del lavoro e dell’impresa per discutere l’applicazione della Legge “Smuraglia”, nata per incentivare l’attività lavorativa dei detenuti e internati. La norma prevede un credito d’imposta per le aziende che assumono detenuti o semiliberi: 520 euro mensili per ciascun lavoratore impiegato internamente agli istituti penitenziari o all’esterno, e 300 euro per chi assume semiliberi. L’incentivo è proporzionato anche in caso di contratti part-time. “Si tratta di una sfida civile e culturale - ha dichiarato il presidente della Provincia Vincenzo Napoli -. Offrire una possibilità concreta a chi ha sbagliato è un atto di responsabilità verso la comunità tutta. Favorire l’accesso al lavoro vuol dire costruire sicurezza sociale e inclusione, abbattendo i muri del pregiudizio”. Per poter assumere i detenuti, le imprese devono stipulare una convenzione con la Direzione dell’Istituto Penitenziario e presentare una dichiarazione di interesse, anche nominativa. Le condizioni sono agevolate, e molte imprese potrebbero trovare in questo canale una risposta concreta alla difficoltà di reperire personale. Il modello, promosso anche da una sorta di associazione no profit denominata “Seconda Chance”, vuole diventare un punto di riferimento stabile per il territorio, affinché giustizia e lavoro possano incontrarsi in un progetto comune di reintegrazione e legalità. Cosenza. Confronto tra studenti e detenuti, una speciale lezione di educazione civica in carcere di Graziano Tomarchio calabriareportage.it, 2 maggio 2025 Parlare di rieducazione della pena direttamente con chi sta scontando un periodo di restrizione all’interno di un istituto penitenziario ha tutto un altro valore ed assume tutt’altro significato rispetto ad una lezione frontale in classe. È un’esperienza che arricchisce ed educa, promuove momenti di riflessione e confronto con realtà diverse, anche lontanissime dalla propria. È quella che hanno avuto modo di vivere gli studenti dell’IIS Majorana che nelle scorse settimane hanno incontrato i detenuti del carcere di contrada Ciminata Greco, a Rossano. L’iniziativa che si ripete periodicamente durante l’anno e che, in questa occasione ha avuto luogo in prossimità delle festività pasquali sottolinea il dirigente scolastico Saverio Madera si inserisce nel solco della consolidata collaborazione tra l’Istituto e la direzione della casa di reclusione di Corigliano-Rossano, guidata da Luigi Spetrillo. Continuiamo a preferire questo modello aggiunge il Dirigente garantire opportunità di crescita, ed un’offerta educativa che vada oltre i tradizionali contesti didattici. Accompagnati dal Don Mimmo Laurenzano, parroco e docente di religione, e dai docenti Antonio Motolo e Vincenzo Martini, all’incontro hanno partecipato la classe 5A di meccanica e la classe 5A di informatica dell’istituto tecnico industriale. L’obiettivo primario della visita è stato quello di garantire agli studenti una preziosa giornata educativa e formativa sui temi dell’educazione civica; un’occasione unica per confrontarsi direttamente con la realtà del carcere e con le storie di vita dei detenuti. Sono state tante le testimonianze toccanti e i racconti condivisi dai reclusi, così come molteplici sono state le domande poste dagli alunni, desiderosi di comprendere dinamiche sociali complesse e il percorso di rieducazione del condannato. L’incontro tra i giovani e i detenuti si è svolto in un clima di ascolto e di reciproco rispetto. L’iniziativa si conferma come un importante tassello nell’impegno dell’IIS Majorana nel formare cittadini consapevoli e aperti al confronto con le diverse realtà sociali, promuovendo valori di inclusione, rispetto e comprensione umana. Torino. Racconti dal carcere: 800 testi al premio “Meco” di Giacomo Galeazzi interris.it, 2 maggio 2025 In concorso gli scritti dei detenuti: l’iniziativa promossa a Torino per ricordare don Domenico Ricca, sacerdote salesiano e storico cappellano del carcere minorile Ferrante Aporti. Un concorso letterario per celebrare la memoria di don Domenico Ricca, noto come Meco, che ha dedicato la sua vita alla cura degli ultimi e alla promozione del terzo settore. Il Forum del Terzo Settore ha quale obiettivo principale “la valorizzazione delle attività e delle esperienze che le cittadine e i cittadini autonomamente organizzati attuano sul territorio”. Ciò per “migliorare la qualità della vita delle comunità, attraverso percorsi, anche innovativi, basati su equità, giustizia sociale, sussidiarietà e sviluppo sostenibile”. Spiegano i volontari: “Rappresentiamo e promuoviamo il terzo settore del Piemonte a governance democratica, valorizzandone e potenziandone l’azione sul territorio. Rappresentiamo la voce di 41 organizzazioni di secondo e terzo livello o che operano negli ambiti del volontariato, dell’associazionismo di promozione sociale, della cooperazione sociale, della solidarietà internazionale della mutualità volontaria, della finanza e del consumo etico”. Ha raccolto oltre 800 proposte, tra poesie, racconti e saggi brevi, la prima edizione del premio letterario “Meco” promosso per ricordare don Domenico Ricca, sacerdote salesiano storico cappellano del carcere minorile Ferrante Aporti scomparso nel marzo dello scorso anno. Voci dal carcere - “Sono arrivati da tutta Italia e da persone di ogni età, nate dal 1938 al 2012”, spiegano dal Forum Terzo Settore del Piemonte che ha promosso il concorso con i Salesiani di Piemonte e Valle d’Aosta. In collaborazione col settimanale diocesano La Voce e Il Tempo e il patrocinio della Città e del Consiglio regionale. Fra i partecipanti anche i detenuti della casa circondariale di Biella che hanno frequentato un corso di scrittura creativa e hanno pensato di mettere in pratica quanto appreso partecipando al Premio. Elaborati sono stati inviati anche da un gruppo di giovani reclusi al Ferrante Aporti, ai quali è riservata una sezione del concorso. La premiazione sarà il 16 maggio al Salone del Libro quando sarà anche presentata una raccolta dei migliori elaborati. E il ricavato delle vendite sarà devoluto alla Comunità Harambée di Casale Monferrato, che accoglie e sostiene minori fragili e dove don Domenico era di casa. In tema di giustizia minorile, inoltre, nell’ambito della seconda edizione del ciclo di conferenze sui temi del carcere curato dall’Opera Barolo con La Voce e Il Tempo, il 6 giugno ci sarà l’incontro “Carcere minorile e decreto Caivano. Punire o rieducare? Le nuove misure tra inasprimento delle pene e crisi dei percorsi riabilitativi”. Secondo i dati di Antigone sulle carceri nel 2025 già 16mila detenuti in più. Molte strutture penitenziarie che “non garantiscono la disponibilità di servizi minimi come acqua e riscaldamenti”. Una situazione complessiva che “richiede provvedimenti immediati”. Una condizione “drammatica”. È il giudizio espresso dall’Osservatorio di Antigone sul carcere di Vigevano (Pavia), dopo una visita. Sos carcere - “Erano presenti 365 detenuti a fronte di 242 posti regolamentari, con un sovraffollamento del 150% - viene sottolineato nel dossier realizzato dall’associazione -. Di questi 179 stranieri e 80 donne, di cui alcune nell’unico circuito di Alta sicurezza del nord Italia. La forte presenza di stranieri incide sulle difficoltà trattamentali, perché non inseribili nei percorsi. Non sono presenti mediatori culturali e non è possibile rinnovare il permesso di soggiorno all’interno dell’istituto. Nella giornata di pioggia molte parti della struttura erano infiltrate e pioveva dentro, sia nelle aree comuni che nelle zone delle lavorazioni, oltre che in ogni parte degli edifici che avevano un contatto con il tetto”. Antigone segnale anche la mancanza di “acqua calda nel reparto femminile. In un reparto ex art. 32 tutte le finestre del corridoio erano rotte e tutti i blindi chiusi, compresa lo spioncino. Una cella era stata rotta, allagata e parzialmente bruciata. Un detenuto aveva subito due Tso nei giorni precedenti, senza arrivare a una diagnosi. Una detenuta stava svolgendo la chemioterapia in cella, con difficoltà motorie e assenza di piantone o aiuti”. “Nonostante gli sforzi di attivare attività nell’istituto - si legge ancora nel dossier -, compresa la recente apertura di Bee4 (una cooperativa sociale che impiega oltre 20 persone detenute), permane una scarsa presenza del volontariato, che svolge funzioni fondamentali nella vita quotidiana delle persone detenute”. La storia di Renato Del Din, giovane ufficiale degli alpini divenuto partigiano, viene ripercorsa da due voci attraverso fotografie, lettere, scritti e filmati d’archivio in uno spettacolo teatrale, ‘Il fuoco ci prenda’, la cui prima si è tenuta il 25 aprile al Teatro Candoni di Tolmezzo, cittadina morì il sottotenente medaglia d’oro al valor militare, nell’aprile 1944 guidando l’assalto di un gruppo di patrioti della Brigata Osoppo contro la caserma della milizia. Lo spettacolo della compagnia bolognese Solve Coagula, che vede in scena gli attori Francesca Lepiane e Marco Strocchi, con la regia del giornalista e scrittore Alessandro Carlini, è realizzato dalla Nuova Pro Loco di Tolmezzo. Con il contributo del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia. Il patrocinio della Città di Tolmezzo. La collaborazione dell’Associazione Partigiani Osoppo-Friuli e della Sezione Anpi di Tolmezzo “R. Marchetti”. La scelta della data non è casuale: proprio nella notte tra il 24 e il 25 aprile di 81 anni fa ci fu lo scontro tra i partigiani osovani e le truppe del presidio nazifascista che segnò profondamente la storia del capoluogo carnico e la memoria locale. Nello spettacolo l’azione e il pensiero di Renato si alternano in un crescendo di ricordi, emozioni e scelte, con la guerra che fa sentire la sua presenza costante su di lui e la sua famiglia. Si instaura un dialogo capace di portare nel presente, al qui e ora, mentre la storia personale passa attraverso la lotta aperta ai nazifascisti in Friuli. Il sottotenente, aiutato dalla sorella Paola Del Din - anche lei medaglia d’oro al valor militare e patriota 101enne della Osoppo di recente citata da re Carlo III nello storico discorso al Parlamento italiano per il suo servizio reso come agente dello Special Operations Executive britannico nella Seconda guerra mondiale - si oppone a loro in ogni modo possibile. Con l’idea che: “È rischioso, ma va fatto ora”. Le stesse parole nello spettacolo ispirano le donne di Tolmezzo quando sfidano come nell’Antigone le autorità per organizzare il funerale solenne di Renato, dopo aver procurato per lui tutto quello che serviva, dai vestiti a una tomba, senza sapere chi fosse. “Nell’ottantesimo anniversario della Liberazione vogliamo ricordare con questo evento il sacrificio di Renato Del Din per la libertà e lo straordinario coraggio delle nostre donne in quello che viene citato come un grande episodio di Resistenza civile e femminile”, ha detto il sindaco di Tolmezzo, Roberto Vicentini. Lo spettacolo, tratto dal libro ‘Se il fuoco ci desidera’ (Utet) di Carlini, si ispira a una poesia del protagonista, breve quanto la sua vita: “Se il fuoco ci desidera il fuoco ci prenda”. “Ridurre il tema della violenza sessuale o dei femminicidi a questione di nazionalità non tiene conto della complessità di un fenomeno dalle radici antiche. Chiamare in causa presunte provenienze etniche come base di comportamenti criminali significa andare alla ricerca di capri espiatori e nemici. Le statistiche aiutano a decostruire i pregiudizi”, afferma Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “I detenuti stranieri - aggiunge Gonnnella sono in calo rispetto a quindici anni fa, sia in termini relativi che assoluti. Oggi sono circa il 31% del totale della popolazione detenuta contro il 37% di qualche anno addietro. E se guardiamo agli stranieri regolarmente presenti nel territorio i tassi di detenzione sono addirittura più bassi rispetto agli italiani. Una ragionata politica di regolarizzazione di molti immigrati contribuirebbe a creare una società sicura. Gli stranieri sono tendenzialmente condannati per reati meno gravi rispetto agli autoctoni ma non per questo diremmo mai che gli italiani sono tutti tendenzialmente potenziali criminali. I femminicidi commessi da stranieri sono risultati in calo tra il 2023 e il 2024. Secondo i dati Eures sarebbero diminuiti nei primi 11 mesi del 2024 da 23 a 16. Gli stranieri costituiscono il 18% del totale degli autori di femminicidi. 16 donne sono state uccise da stranieri, su un totale di 87 donne uccise in famiglia”. Venezia. A Sottomarina convegno per la rieducazione attraverso il carcere di Eugenio Ferrarese lapiazzaweb.it, 2 maggio 2025 Esplorare il futuro della rieducazione carceraria: successi, sfide e diritti umani nel contesto italiano. Il carcere, un pianeta da scoprire. Qualche settimana fa il teatro San Martino a Sottomarina ha ospitato il convegno “La rieducazione attraverso il carcere: un diritto umano per il detenuto”. I vari relatori intervenuti all’incontro - dott. Donata Favretto, professore associato di Medicina Legale e Tossicologia dell’Università di Padova; avv. Alice Ferrato, ricercatrice dell’Università di Padova; dott. Matteo Boscolo Anzoletti, assistente dell’Università di Padova; dott. Lorella Ciampalini, psicologa e psicoterapeuta; don Yacopo Tugnolo, direttore della Caritas diocesana di Chioggia; dott. Jacopo Buroni, vicepresidente della Cooperativa Sociale “Il cerchio” di Venezia - hanno sottolineato il successo dell’azione rieducativa e i numerosi effetti positivi sui singoli ospiti degli istituti di detenzione come di riflesso sulla collettività. Sono comunque ancora presenti varie criticità, in particolare la fatiscenza della maggior parte delle carceri, il sovraffollamento, la presenza della droga (oltre il 30% della popolazione carceraria è affetto da dipendenza) e il dramma dei suicidi (nel 2024 ci sono stati 88 casi). Nell’art. 27 della Costituzione è prevista, accanto alla pena, anche la rieducazione del detenuto nell’ambito di un previsto reinserimento nella società. Questo reinserimento rimane comunque difficile anche quando vi siano delle esperienze che funzionano, ad esempio il carcere di Padova. A tal proposito Jacopo Buroni, vicepresidente della cooperativa “Il Cerchio” di Venezia, ha raccontato i vari successi della cooperativa nel reinserimento nel mondo del lavoro, durante e dopo il periodo di detenzione. Un altro problema che è emerso nel convegno è il diritto all’affettività del detenuto, ma nelle carceri non ci sono gli spazi per garantire la continuità delle varie relazioni familiari, delle amicizie, dell’intimità sessuale. Un recente rapporto mette in evidenza che, quando gli interventi di sostegno psicologico e di rieducazione sono svolti correttamente, oltre il 70% dei soggetti riesce a maturare un recupero completo. Una laica venerazione, la passione della sinistra per Papa Francesco di Marco Marzano* Il Domani, 2 maggio 2025 Gli orfani del Novecento hanno riscoperto con Bergoglio una nostalgia per il messaggio cristiano, non più vissuto in opposizione con il socialismo. L’incondizionata venerazione è stata poi favorita dal fascino per l’aspetto messianico e per l’eroismo individuale: una sorta di “culto del capo”. L’incondizionata venerazione che molta parte del popolo di sinistra in Italia ha nutrito nei confronti del papa appena scomparso è l’espressione di un sentimento profondo, segnala un cambiamento culturale importante e nient’affatto transitorio. A nutrirlo quel sentimento sono stati soprattutto gli orfani del Novecento, le generazioni più mature, le quali, nelle parole e nei gesti di Francesco, hanno visto materializzarsi buona parte dei loro ideali e delle loro speranze. Alla base della fascinazione ci sono, secondo me, due elementi sopra gli altri. Il fascino del cristianesimo - Il primo è rappresentato dal cristianesimo, cioè dal messaggio evangelico. Buona parte dei fans di sinistra di Francesco è cresciuta nelle parrocchie e negli oratori, che ha poi abbandonato per militare in partiti, sindacati, associazioni accademiche e culturali varie. Il ricordo di quella socializzazione religiosa non è tuttavia mai scomparso, è sempre rimasto latente sottotraccia e quando le impalcature ideologiche del materialismo marxista sono rumorosamente venute giù, molta parte delle persone di sinistra si è voltata in direzione della chiesa, è tornata alle origini, alla visione del mondo appresa nelle aule di catechismo da bambini. L’idea che molti di costoro si sono fatta è che, tutto sommato, il socialismo per il quale hanno combattuto e che ora è archiviato nei libri di storia non sia poi così diverso dalla dottrina sociale della chiesa, che gli ideali e i principi siano gli stessi e che il cattolicesimo rappresenti ormai l’unico ambito davvero comunitario di un paese come il nostro, l’unico luogo nel quale l’odiato individualismo liberale viene davvero e concretamente messo da parte in nome del “noi”. Papa Francesco ha rappresentato il riferimento ideale per questa parte dell’opinione pubblica progressista, dal momento che, erroneamente sul piano storico perché è stato anch’egli a lungo nel continente sudamericano un nemico giurato del marxismo e della teologia della liberazione, non è stato identificato con l’anticomunismo militante. Anche Giovanni Paolo II aveva, nella seconda parte del suo pontificato, molto accentuato le posizioni pacifiste e anticapitaliste, ma la sua immagine era troppo legata al crollo del Muro e alla decennale contrapposizione all’ateismo comunista per risultare davvero attraente per gli orfani italiani del Novecento. In molti casi, per molti soggetti, l’ammirazione per il papa e per il messaggio cristiano si spinge ai confini della conversione religiosa. Il proprio ateismo viene presentato sempre di più come un difetto, una disgrazia (“non ho il dono della fede” si sente dire di frequente). Un ostacolo alla conversione completa, spirituale o solo politica, potrebbe provenire da quella parte, invero la più consistente, della dottrina cattolica che non riguarda la povertà, le diseguaglianze e il profitto, ma la morale e la sessualità. Anche su questo versante però, l’atteggiamento di molti è quello di trovare nelle parole, nettissime, di Francesco contro l’aborto, la teoria gender, il matrimonio omosessuale, il sacerdozio femminile degli elementi di ragionevolezza e di buon senso. Per tanti, la deriva della sinistra sarebbe cominciata nel momento in cui si è prestata un’attenzione eccessiva al tema delle libertà e dei diritti individuali, anticamera del detestato liberismo e della dissoluzione dei vincoli comunitari. Eroismo individuale - Il secondo elemento al fondo della fascinazione di tanti progressisti per il papa è l’aspetto messianico, o dell’eroismo individuale. Nella costruzione, in Italia, del mito di Francesco una parte decisiva è stata giocata dall’idea che il papa argentino fosse un uomo contro l’establishment, un nemico della “casta” clericale, un sovrano certo assoluto ma anche buono e giusto, circondato da perfidi Rasputin in tonaca ma fermamente intenzionato a sconfiggerli mettendo al bando la corruzione e il malaffare. Ad aver insediato un simile monarca-santo al vertice di una delle più potenti organizzazioni del pianeta sarebbe stato lo Spirito Santo intenzionato a dare una lezione esemplare alla sua chiesa oppure una svista dei gerarchi che avrebbero scelto come capo colui che avrebbe in seguito fustigato senza alcuna pietà le loro malefatte. Sia come sia, senza questo “culto del capo”, senza l’idea che il cattolicesimo avesse finalmente trovato un uomo in grado di riportarlo senza esitazioni a Cristo e al Vangelo, l’intera operazione di ritorno di una buona parte della sinistra direttamente all’interno della chiesa o comunque nella sua area di influenza culturale e politica non sarebbe stata possibile. La costruzione del monarca-eroe è il risultato dell’azione di diversi elementi: la semplificazione giornalistica, i modelli hollywoodiani del giusto in lotta contro il sistema, l’antica passione italica per i condottieri solitari, per i prìncipi-martiri, per i capi-santi senza macchia e senza paura. Perché la tendenza che ho descritto e sommariamente cercato di interpretare si stabilizzi e si consolidi c’è bisogno di un successore capace di fare l’uso straordinario che papa Bergoglio ha saputo fare dei gesti, dei simboli e delle parole. C’è bisogno di un profeta che aiuti tanti uomini e donne desiderose di fare il bene dell’umanità ad avvicinarsi alla chiesa e a camminare con essa in un tempo difficile come si preannuncia il nostro. Forse per la chiesa universale questa non sarà la priorità, ma lo è certamente per i tanti progressisti italiani che hanno profondamente amato Francesco negli intensi dodici anni del suo pontificato. *Professore ordinario di Sociologia presso l’Università di Bergamo “Su lavoro e ambiente il prossimo Papa dovrà essere ancora più coraggioso”: l’appello dei giovani di Youssef Taby Il Fatto Quotidiano, 2 maggio 2025 Gli esponenti dei Fridays for future e delle Acli Giovani lanciano un messaggio al prossimo pontefice. E chiedono che le conquiste di Bergoglio diventino strutturali. Con la fine del pontificato di Papa Francesco, si chiude una stagione che ha saputo ascoltare, almeno in parte, il grido di aiuto arrivato dai giovani: dall’emergenza climatica al lavoro, dalla richiesta di dignità a quella di comunità più aperte. Ma molte di quelle istanze sono rimaste sospese. Ora spetta al prossimo papato decidere se e come trasformarle in percorsi reali. “Il cambiamento climatico è già qui, e ogni ritardo si paga a caro prezzo”, dice Marzio Chirico, portavoce di Fridays for Future Italia. Per lui il prossimo pontificato dovrà essere ancora più coraggioso, perché “non possiamo più permetterci mezze misure”. E anche sul piano sociale e comunitario si alza l’asticella delle attese. Simone Romagnoli, coordinatore delle ACLI Giovani, chiede che la Chiesa del futuro restituisca spazi davvero aperti ai territori: “Bisogna far capire a tutti che i centri di comunità non sono proprietà di chi li gestisce. Sono luoghi del popolo di Dio, aperti a tutti, anche a chi si sente distante dalla Chiesa”. Per molti giovani l’eredità di Francesco sarà concreta solo se il prossimo Papa saprà tradurla in scelte stabili. E la svolta si misurerà proprio lì: su quanto ambiente e lavoro diventeranno davvero priorità permanenti per la chiesa. L’ambiente: la rivoluzione incompiuta - Uno degli ambiti in cui il pontificato di Francesco ha lasciato un segno profondo è stato quello ambientale. Con l’enciclica Laudato Si’, la crisi climatica è entrata nel cuore della riflessione ecclesiale come questione di giustizia ambientale e sociale. “Papa Francesco ha avuto un ruolo straordinario nell’aprire la Chiesa alla questione ambientale. Ha saputo connettere spiritualità, scienza e società, costruendo ponti tra credenti e non credenti. Ha dato dignità alla battaglia ambientale in contesti dove prima veniva considerata marginale” spiega Marzio Chirico. Secondo lui, Laudato Si’ ha avuto un impatto decisivo anche nel rafforzare i movimenti giovanili per il clima: “Non era affatto scontato che un Pontefice si schierasse apertamente accanto ai giovani. L’incontro con Greta Thunberg ha segnato un momento simbolico fortissimo”. Tuttavia, quella spinta iniziale non si è consolidata nel tempo: “Dopo l’enciclica si è assistito a un certo rallentamento. È mancata una strategia capillare che trasformasse quelle parole in una pratica quotidiana diffusa”. Se da un lato alcuni segnali positivi, come l’installazione di pannelli solari su edifici religiosi, testimoniano dei passi avanti, dall’altro “la Chiesa non ha saputo strutturare una rete permanente di educazione e attivismo ambientale nei territori”. Il rischio, secondo Chirico, è che Laudato Si’ venga ricordata più come un simbolo che come uno strumento di cambiamento reale: “Un’enciclica senza radici nella pratica quotidiana perde gran parte della sua forza rivoluzionaria”. ?Proprio per questo, l’appello al futuro Papa è chiaro: serve un rilancio netto, radicale, senza timidezze. “È normale che l’impulso iniziale si sia affievolito. Ma ora non possiamo più permetterci che certi messaggi restino lettera morta. Il cambiamento climatico è già qui, e ogni ritardo si paga a caro prezzo” spiega Chirico. Il lavoro e i giovani - Anche il tema del lavoro ha rappresentato un altro grande capitolo del pontificato di Papa Francesco. Fin dall’inizio, il Papa ha ribadito con forza che il lavoro non è una merce, ma parte integrante della dignità umana. “Ha rotto il silenzio su precarietà, sfruttamento e disoccupazione giovanile. È riuscito a dare voce a una generazione spesso ignorata da un sistema economico che scarta i giovani e li condanna a un futuro incerto” osserva Simone Romagnoli. Tuttavia, anche su questo fronte l’impatto pratico resta limitato: “I grandi principi devono tradursi in azioni concrete, sostenendo i percorsi di formazione e inserimento lavorativo. E su questo la Chiesa è stata ancora troppo timida”, afferma Romagnoli. Il contesto globale, segnato da una crescente militarizzazione dell’economia, rende la sfida ancora più dura: “Non possiamo parlare di lavoro se poi l’economia di un Paese si trasforma in un’economia di guerra. Se oggi chiedi a un giovane qual è la sua paura più grande, prima ti avrebbe risposto il cambiamento climatico. Ora la maggior parte ti dice: la guerra. È diventato quasi una battuta amara tra i ragazzi: ‘Tanto scoppia la guerra, tanto non si sa che futuro ci aspetta’”. Eppure, qualcosa è germogliato. Il seme piantato da Papa Francesco continua a trovare terreno fertile, secondo Romagnoli. Lo si vede nello stile popolare che ha cercato di trasmettere: “Papa Francesco ci ha parlato della necessità di essere una comunità popolare, che dialoga con tutti, al di là delle appartenenze politiche, del credo religioso e dell’orientamento sessuale. Il nostro spirito popolare ci obbliga a parlare con tutti, senza preclusioni, riconoscendo che anche al nostro interno convivono idee diverse” spiega Romagnoli. In questa direzione, secondo Romagnoli, la sfida del futuro sarà restituire alla Chiesa un volto di prossimità, apertura e radicamento nei territori per tutti: “Papa Francesco ci ha mostrato che è possibile. Ora tocca a noi continuare questo cammino, con coraggio e umiltà”. Il costituzionalista Pallante: “Referendum oscurati, temono che il lavoro ritorni un diritto” di Silvia Truzzi Il Fatto Quotidiano, 2 maggio 2025 “Su Jobs Act, precariato e cittadinanza effetti immediati, ma conta pure il valore simbolico”. “Vivere da cittadini, lavorare con dignità” è il titolo di un appello che tenta di squarciare il silenzio sui referendum dell’8-9 giugno: lo hanno firmato intellettuali e accademici come il premio Nobel Giorgio Parisi, Nadia Urbinati, Silvio Garattini, Gaetano Azzariti, Salvatore Settis e Tomaso Montanari. Tra loro c’è anche Francesco Pallante, ordinario di Diritto costituzionale a Torino. Professore, c’è un gran silenzio attorno all’appuntamento di giugno: perché? I referendum mirano, nel loro complesso, ad aprire una breccia negli attuali equilibri di potere che vedono la finanza e l’impresa dominare in campo economico, al contrario di quel che prevede la Costituzione. Consci dello squilibrio di potere tra datori di lavoro e lavoratori, i Costituenti si erano posti l’obiettivo di riequilibrare i rapporti di forza. Per questo la Repubblica è “fondata sul lavoro”, diversamente dalle Costituzioni ottocentesche che erano “fondate sulla proprietà”, persino quanto al diritto di voto! Le riforme degli ultimi 30 anni hanno ricreato una situazione ottocentesca e chi ne beneficia non vuole perdere gli enormi vantaggi di cui gode. In quest’ottica anche il referendum sulla cittadinanza è importante: ricompone l’unitarietà della categoria dei lavoratori superando, almeno in parte, la contrapposizione tra lavoratori italiani e stranieri. Puntano a non raggiungere il quorum? Sì, purtroppo è oramai invalsa la prassi per cui i contrari all’abrogazione approfittano parassitariamente dell’astensionismo per far fallire i referendum, evitando di mettersi democraticamente in gioco. Come cambierebbe la legge sulla cittadinanza? La regola generale è che la cittadinanza possa essere concessa agli stranieri che risiedono in Italia da almeno 10 anni; nel caso degli stranieri maggiorenni adottati da cittadini italiani vale una regola speciale, per cui è sufficiente un periodo di 5 anni. Il quesito mira ad abrogare la regola generale dei 10 anni unitamente al riferimento all’adozione in quella speciale, trasformando la residenza quinquennale in regola generale (com’era fino al 1992). Poi ci sono i referendum sul lavoro. Uno riguarda la sicurezza: i morti aumentano ma, chiacchiere a parte, la politica sembra disinteressarsene… La mancata sicurezza sul lavoro è una ferita costituzionale sanguinante. Il lavoro non solo è precario e povero, oramai sempre più spesso è anche mortale. Gli esperti spiegano che le catene di appalti e subappalti rendono impossibile assicurare la sicurezza a chi lavora nei cantieri. È chiaro che è lì che occorre intervenire, ma sinora la politica è rimasta inerte. Il referendum mira a sanare questa ferita. Precarietà: l’esempio della Spagna, che è tornata indietro, non è servito… Il caso spagnolo è interessante perché dimostra che, contrariamente a quanto viene ripetuto, rafforzando i diritti dei lavoratori si rafforza il sistema economico nel suo complesso. Per questo i referendum che puntano a ostacolare i licenziamenti e a ridurre i contratti a termine sono fondamentali: procurano beneficio a tutti, non solo ai lavoratori dipendenti. L’abolizione del Jobs Act crea imbarazzo nel Pd. È solo una questione simbolica o cambierebbe davvero qualcosa? I referendum sui licenziamenti e sui contratti a termine produrrebbero cambiamenti immediati e importanti nella vita dei lavoratori, inclusi quelli che lavorano nelle piccole imprese (la gran parte di quelle italiane). Per i datori di lavoro il licenziamento disposto in violazione della legge sarebbe più costoso e si amplierebbero le ipotesi di reintegra. Quanto ai contratti a termine, il loro utilizzo sarebbe circoscritto a situazioni connotate da esigenze produttive oggettive. Chiaramente tutto ciò avrebbe anche un’enorme portata simbolica. L’idea alla base del Job Act (ma, ancor prima, del “pacchetto Treu” e della “legge Maroni”) era che il lavoro fosse un mero costo di produzione, da ridurre al minimo. I referendum puntano a tornare alla concezione del lavoro come diritto: quella della Carta. Dopo i 45 anni dovremmo essere più felici, e invece ci facciamo la guerra: perché? di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 2 maggio 2025 Qual è la correlazione, se c’è, tra la presunta maturità personale di una popolazione sempre più attempata e le zuffe infantili tra radicalismi contrapposti? Nel 2010, mentre cominciavo a tormentarmi con il pensiero dell’inevitabile incombente “crisi di mezza età”, mi capitò tra le mani un articolo proposto dal settimanale The Economist nel paniere de “Gli speciali di Natale”. Il contenuto del pacco-dono si sarebbe rivelato perfetto per me e soprattutto avrebbe assunto il valore di uno spartiacque negli studi sulla longevità: veniva riportata un’indagine secondo la quale dopo i 45 anni l’indice della felicità riprende a salire dopo un paio di decenni in declino. La descrizione era quella di una inversione a U: a metà dei quarant’anni tocchi il fondo (preoccupazioni crescenti per i figli, genitori meno giovani e attivi, qualche tua articolazione dolente, il plateau raggiunto nella vita professionale) ma poi, più o meno magicamente, scendi a patti con quello che sei e con quello che non potrai essere. Fai un ricalcolo di ambizioni e possibilità, riduci la dispersione provocata dallo sciame di troppe aspettative e ti concentri sulle aspirazioni più profonde. In sintesi, ti senti meglio, vivi meglio. Questo rimbalzo, in grado di tirarti su nel diagramma esistenziale fino ai 70 anni (se ci arrivi senza malattie croniche), si produce a qualunque latitudine e in prossimità di incroci sociali disparati. Escluse situazioni estreme, infatti, “la curva” era stata intercettata in 75 Paesi, così come tra persone con livelli di istruzione e standard economici disparati. Semplice deduzione degli studiosi: i fattori esterni contano (genere, salute, soldi, educazione) e producono oscillazioni; tuttavia, il quinto fattore - l’età - sembra tracciare un destino comune. L’esperienza, che porta a una migliore conoscenza del mondo e di sé stessi, contribuisce a ridurre l’esposizione all’insoddisfazione. Non solo. Una sopraggiunta predisposizione alla felicità, o almeno a un’accettazione non depressiva (“è andata così, cerchiamo di prenderci il meglio”), favorisce la salute e pure la produttività. Per qualche mistero algoritmico quel testo, The U-Bend of Life, è stato rilanciato nei circuiti digitali proprio in questa primavera di guerre militari e commerciali, di fatica e malumori. E mi sono chiesta: qual è la correlazione, se c’è, tra la presunta maturità personale di una popolazione sempre più attempata e le zuffe infantili tra radicalismi contrapposti che rendono quasi impraticabili i compromessi? Da dove scaturisce la rabbia che esprimiamo? Sono andata allora a riprendermi il Rapporto sulla Felicità Mondiale 2025, il World Happiness Report, che dal 2012 viene pubblicato grazie alla collaborazione tra l’università di Oxford, i sondaggisti Gallup e le Nazioni Unite. Il capitolo 7, in particolare, dichiara che “infelicità” e “diffidenza” diffuse “spiegano il populismo”. Dal 2015 al 2024, nel decennio che va dalla Brexit alla rielezione di Trump, la perdita di fiducia - nelle istituzioni, nelle leadership ereditate dal ‘900, nel “sistema” cui apparteniamo, negli altri - ha spinto la maggioranza degli elettori nei Paesi occidentali a votare chi prometteva il cambiamento, la rottura, magari lo sfascio. Senza neppure considerare se, privilegiando un determinato partito o movimento, ne sarebbero derivati vantaggi concreti in termini di redistribuzione delle risorse. Il punto era/è sferrare un colpo, alzare un muro, aggrapparsi alla promessa di uno scudo contro quello spaesamento che deriva da cause economiche (le accelerazioni di globalizzazione e tecnologie) e culturali (i flussi migratori, lo schianto delle tradizioni). Ma è pensabile, qui, “un’inversione a U” allargata, universale? C’è la possibilità di una trama di consapevolezze che vada a ricucire le vite individuali, a riavvicinarle punto dopo punto, trasformando la vulnerabilità - che oggi sentiamo tutti - in una ragione di vicinanza e non in un’istigazione al sospetto reciproco? Per affrontare questa nostra crisi (globale) di mezza età, avremmo bisogno di leader tanto competenti quanto coraggiosi, disinteressati ai consensi dal fiato corto, capaci di “lacrime sincere, non di circostanza”, come ha scritto Francesco nelle meditazioni per la Via Crucis. E servirebbe, alla base, una rinuncia al rintanamento, all’isolamento, a favore della comunità. Una comunità da reinventare, da ritentare: al largo di sovranismi pubblici e privatissimi, di ogni tentazione autarchica giustificata dalla paura. Lo psichiatra: “Sempre i social come rumore di fondo. Le azioni non nascono da un pensiero” di Chiara Bidoli Corriere della Sera, 2 maggio 2025 Giovanni Migliarese: “Gli adolescenti sono al picco massimo dell’energia e vivono di impulsi. Di fronte alla sofferenza, noi alimentiamo le loro insicurezze”. Siamo circondati da una narrazione, fittizia e autentica, che vede tra i principali protagonisti i giovani insieme alla violenza, subìta e praticata, espressa in tutte le sue terribili forme, come avviene in “Una figlia”, il film con Stefano Accorsi e Ginevra Francesconi. Sembra che il male sia più vicino, che possa riguardare chiunque, entrare con facilità nelle nostre vite sotto forma di rivoli silenziosi che si insinuano nel nostro quotidiano, portando con sé immagini e pensieri feroci carichi di sofferenza, paura e fragilità. E lo fa attraverso i fatti di cronaca, ma anche alcuni racconti di serie tv e film che mostrano quello che è inaccettabile e incomprensibile: il lato sofferente e oscuro degli adolescenti di oggi. “La violenza è l’eccesso di un linguaggio che ha una natura fisiologica”, spiega Giovanni Migliarese, psichiatra direttore SC Salute Mentale Lomellina Asst Pavia e membro della Società Italiana di Psichiatria. “L’aggressività (dal latino adgredior, avvicinarsi) permette di andare con determinazione verso ciò che si desidera. Ciò che la rende problematica non è tanto la pulsione in sé, ma il modo in cui viene declinata. E questo avviene quando l’aggressività va oltre la linea dell’assertività, che poi è la modalità più adeguata di far valere i propri diritti e interessi perché tiene conto dell’altro. Se viene scelto, invece, un approccio distruttivo saltano tutte le regole civili di convivenza”. Perché c’è tanta violenza nei ragazzi? “Dentro ognuno di noi c’è una quota di energia propulsiva che ci porta ad andare, consciamente e inconsciamente, verso ciò che riteniamo utile e importante. Gli adolescenti sono nella fase della vita che ha il picco massimo di energia, sia fisica che mentale e, biologicamente, sono più impulsivi, non hanno ancora sviluppato la capacità di prevedere le conseguenze delle loro azioni, possiamo considerarli come delle auto potenti con dei freni da utilitaria. Il punto sta nella modalità in cui questa energia viene indirizzata”. Perché gli adolescenti di oggi tendono a usarla oltre il senso comune del consentito? “Il loro cervello si sviluppa in un contesto di iperstimolazione. È come se i nostri adolescenti crescessero “ovattati” dagli stimoli che ricevono di continuo, perché troppo e sempre iper-esposti. Per sentire le emozioni - ovvero per sentirsi vivi - devono alzare di continuo l’asticella delle esperienze, esporsi a situazioni estreme, da vivere con sempre maggiore intensità. Solo così riescono a uscire da una condizione di rumore di fondo che è sovraffollata, in cui fanno fatica a inserirsi ed esprimersi”. L’iper-stimolazione viene da mondo digitale? “Dai social sicuramente, ma anche da una situazione di stress continuo. Viviamo in una costante riduzione di tempi e spazi che portano a sperimentare una condizione di perenne ubiquità, dove tutto è veloce e le azioni avvengono non appena le pensiamo. Non c’è più l’attesa, il pensiero ragionato e, nei ragazzi che già di per sé sono istintivi, alzare l’asticella senza alcun freno porta a effetti che possono essere gravi. Pensiamo alle azioni nate da un impulso del momento, magari da un’emozione forte, generate da certe forme di rabbia o frustrazione che possono portare a conseguenze serie e irreversibili”. Da una parte vediamo adolescenti violenti, dall’altra ci sono coetanei che si isolano in camera, come si spiega? “C’entra sempre la loro energia. I ragazzi sono in difficoltà perché non sanno dove metterla. Se non sanno essere creativi, se non riesco a indirizzare in maniera costruttiva la loro forza hanno due possibilità: o si auto-depotenziano, con effetti depressivi e di isolamento, oppure mostrano aspetti di disregolazione con l’aggressività che esce in modo improvviso e irrefrenabile. I giovani devono potersi sentire vitali e trovare contesti in cui essere riconosciuti, dove possano esprimersi liberamente”. Di cos’altro hanno bisogno? “La piramide di Maslow, la teoria di metà del secolo scorso sui bisogni dell’uomo, ricordava i bisogni primari, come quello di essere nutrito, di sentirsi sicuro e di realizzarsi. Successivamente lo psichiatra Victor Frankle ha aggiunto il bisogno di senso, ovvero quella necessità di attribuire significato alle cose. Per i ragazzi di oggi aggiungerei il bisogno di riconoscimento, la cui mancanza, in alcuni casi estremi, può sfociare in violenza che, senza giudizi morali, può essere anche letta come una reazione improvvisa di tutela. Provando a semplificare: se un ragazzo ha costruito un legame simbiotico con una persona, e questo legame in qualche modo viene interrotto in un modo improvviso, potremmo ipotizzare che un’eventuale reazione distruttiva sia, per colui che la attua, una reazione paradossale di protezione, di tutela di un’istanza vitale, come avviene nel film Una figlia”. Dovremmo insegnare ai figli a gestire le separazioni e a “stare nel dolore”? “Imparare ad accettare, e a costruire, la separazione è fondante durante l’adolescenza. Diventare adulti vuole dire infatti anche entrare in un rapporto di responsabilità con la propria storia, con le giuste distanze. L’obiettivo degli adulti dovrebbe essere quello di tracciare una rotta, di dare dei punti di riferimento a livello di valori, prospettive, di modelli di vita e poi lasciare andare i ragazzi, facendo sempre sentire la propria presenza, ma a distanza. Amare un figlio significa amarlo in quanto tale, in quanto in grado di prendere un’altra strada. Kahlil Gibran diceva che i figli sono frecce che, una volta partite dall’arco, devono continuare ad andare”. È più difficile lasciare andare i figli se li vediamo in difficoltà? “Di fronte alla sofferenza di un figlio i genitori sono spesso i primi a non reggere la situazione e rischiano di alimentare insicurezze perché intervengono per sistemare le cose, sono iperprotettivi, ma così non li allenano a superare gli ostacoli e le delusioni della vita. Per affrontare il dolore, e aiutare i figli a farlo, bisogna innanzitutto riconoscere il valore del tempo, che insegna che non esistono sempre risposte immediate e che, talvolta, il dolore e la fatica possono avere un significato”. Nella scena finale di Una figlia c’è una riflessione sul fatto che un genitore rimane un genitore “qualunque cosa accada”. “È così, anche un figlio rimane sempre un figlio, anche quando diventa un genitore. Nel tempo però questi ruoli cambiano profondamente, deve evolvere la modalità di attaccamento e il legame reciproco. Centrale è investire nella relazione. Tendiamo a essere “figliocentrici” e fare tutto in funzione di ciò che vogliono loro. Amare un figlio, però, vuol dire - come diceva Daniel Pennac parlando di libri - far dono delle nostre preferenze a coloro che preferiamo. Che significa donare ciò che ci piace, condividere le nostre passioni e, nello stesso tempo, guardare con curiosità a quelle dei figli. Solo così è possibile investire su una relazione che si costruisce su semplici, ma significativi, momenti di felicità condivisa”. “Adolescence” ha molto in comune con le cronache giudiziarie sui minori: alle loro parole va ridata centralità di Maurizio Montanari* Il Fatto Quotidiano, 2 maggio 2025 Le parole di un bambino devono avere un valore primario rispetto alle teorie che cercano di interpretarle. Le parole fraintese o inascoltate dei bambini e gli inciampi di chi li deve valutare costituiscono a mio parere l’elemento portante della serie televisiva “Adolescence”, nella cui trama possiamo reperire spunti clinici utili a commentare fatti di cronaca, anche drammatici, che hanno come oggetto il vaglio della volontà del minore. L’intenso scambio tra la psicologa Ariston e Jamie nel terzo episodio mi dà il destro per ragionare sulla necessità di dare una rinnovata centralità alle parole dei bambini quando sono sottoposti ad analisi di tipo psicologico-valutativo, parole spesso messe in ombra da costrutti teorici che rischiano di lasciare in secondo piano volontà spesso espresse in maniera inequivocabile. La parte nella quale la psicologa cerca di indagare i motivi che hanno spinto il ragazzino ad uccidere una coetanea brilla per il crescendo di errori che la suddetta compie. Partendo da idee preconcette (il voler validare ad ogni costo che il gesto di Jamie è una diretta conseguenza di un ambiente patriarcale e machista) si tramuta il gioco delle libere associazioni e della valutazione imparziale in una sorta di interrogatorio viziato da un’atmosfera confessionale, tradendo la libertà laica sulla quale si basa il rapporto psicoterapeuta-paziente. Tutta la prima parte del dialogo scivola in un tentativo di confermare ciò che lei ha già deciso: Jamie non è altro che un piccolo maschio figlio di una società patriarcale, colpevole non tanto perché libero di decidere di dare la morte, ma perché indiscutibilmente ancorato ad un retroterra culturale abietto e padronale. Dunque non un soggetto con una propria personalità e dotato di un libero arbitrio, ma il frutto di una cultura irredimibile. La gragnuola di colpi si abbatte sul ragazzo al suono di frasi quali: ‘Cosa pensi di tuo padre e tuo nonno?’. ‘Tuo padre è nervoso?’. È talmente cieca la volontà di convalidare la facile equazione padre nervoso = figlio aggressivo che si scontra contro la giusta obiezione del soggetto che si sente scavalcato e ignorato: ‘Lo stai mettendo sotto esame? Ruota tutto attorno a lui?’. Il gesto del ragazzo che si alza e la sovrasta anche fisicamente, indice di una caduta irrimediabile di autorevolezza, non basta alla psicologa per rettificare la sua azione e orientarla ad una valutazione che parta dalle parole di Jamie. Anzi, rincara la dose: ‘Tuo padre come tratta tua madre?’. ‘Ricominci ad attaccare mio padre?’. ‘I suoi amici sono uomini. Come tuo padre hai amici solo maschi’. ?Jamie ha sì ucciso brutalmente l’amica, ma l’ha fatto spinto da un odio personale, figlio dei suoi complessi inelaborati, mosso dal desiderio di eliminare fisicamente chi lo aveva definito un ‘incel’, termine che viene tradotto come celibe involontario. Insomma uno sfigato che non attrae le ragazze. È stato lui e solo lui ad ideare e mettere in atto il delitto. E come scrissi in questo post, è la volontà del soggetto che lo rende colpevole, ben prima di qualsiasi teoria preconcetta che estenda ad altro, diluendola, la colpa del suo efferato gesto. Solo alla fine del drammatico confronto Jamie rivela le sue nascoste fragilità: ‘Posso farti una domanda? Ti piaccio almeno un po’? È il suo grido ultimativo per ottenere dalla psicologa quell’accettazione forse mai avuta nel mondo dei coetanei. Psicologa che, freddamente, dunque sbagliando ancora una volta la posizione, gli dice seccamente di essere stata convocata solo per un parere professionale. Il suo ‘non ti piaccio nemmeno un po’?’ ci svela un ragazzino che si vive brutto e isolato, incapace di suscitare interesse alcuno, specie nel mondo femminile. Il suo pianto finale contiene un ‘non andartene ora che ti ho trovato’, bisognoso di essere contenuto e al contempo privo di qualsiasi senso di colpa per l’assassinio di cui si è reso colpevole. Volontà non ascoltate, dicevamo. A Roma una bambina, pur di non essere allontanata dalla madre, si sarebbe legata alla sedia per evitare il collocamento in una casa famiglia, mobilitando un intero palazzo che si è opposto al suo prelievo bloccando momentaneamente il decreto del Tribunale dei Minori. Le cronache mediatiche riportano che decisiva sarebbe stata una consulenza secondo la quale la madre avrebbe trasmesso alla minore un “rifiuto genitoriale”, esponendola a un “trauma dissociativo”. Ancora. La Cassazione ha bocciato un procedimento pronunciato in Emilia Romagna nel quale l’affidamento di due minori e la regolamentazione delle visite paterne è stato determinato da una consulenza che avrebbe bollato la madre come ‘ostativa-alienante’. La Corte di Cassazione, motivando questa bocciatura, esprime “censura dell’omesso ascolto” dei minori e stigmatizza la valutazione della “non idoneità genitoriale ricostruendo il profilo psicologico dalla consulenza tecnica d’ufficio”, concludendo che: “Non è possibile far discendere dalla diagnosi di una patologia, anche se scientificamente indiscussa e a maggior ragione se dubbia, una presunzione di colpevolezza o inadeguatezza della funzione genitoriale”. “Nel processo - scrive la Cassazione a gennaio 2025 - si giudicano i fatti e i comportamenti. La diagnosi può aiutare a comprendere, ma non può da sola giustificare un giudizio di non idoneità parentale a carico di un genitore”. Questo pronunciamento ribadisce quello che un clinico sa bene, vale a dire che le parole di un bambino devono avere un valore primario rispetto alle teorie che cercano di interpretarle. L’indagine psicologica non può togliere la centralità alla parola e al vissuto che essa comporta. Questo significa che ‘Voglio stare con quel genitore, e non con l’altro’ molto spesso significa semplicemente quello che il bambino dice. Per dirla con Freud, un sigaro a volte è solo un sigaro. *Psicoanalista Migranti. Nell’hotspot di Lampedusa quasi mille persone di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 2 maggio 2025 Piantedosi il 10 aprile aveva parlato di un calo del 30% “per merito di una miriade di accordi internazionali”. Crollano gli sbarchi dei tunisini, dall’11,5% del 2024 all’1,5% di quest’anno. In testa le nazionalità più difficili da rimpatriare, anche dai Cpr. “Una diminuzione degli sbarchi del 30 per cento rispetto allo stesso periodo del 2024?, aveva detto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi il 10 aprile parlando di una conferma del trend innescato già l’anno scorso, con il 60% di arrivi in meno rispetto al 2023 “per merito di una miriade di accordi internazionali”, aveva precisato. Parole che appena due settimane dopo non avrebbe più pronunciato, perché gli arrivi via mare sono aumentati, con più di 1800 sbarchi solo nell’ultima settimana di aprile, mese che si chiude con 6.400 arrivi, più 35% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso, quando erano stati 4.721. Per un totale di 15.543 sbarchi nel 2025, che quasi pareggiano i 16mila del primo quadrimestre dell’anno scorso. Il 29 aprile a Lampedusa, l’hotspot di Contrada Imbriacola è arrivato a registrare 935 ospiti, con l’immediato trasferimento disposto per 265 persone verso Porto Empedocle. Bangladesi, pakistani, egiziani, etiopi, sudanesi, somali e nigeriani tra le nazionalità sbarcate, con partenze principalmente dai porti libici e soccorsi operati per lo più dalle motovedette della guardia costiera. Al primo posto per numero di arrivi via mare si confermano i cittadini del Bangladesh, con 5.796 sbarchi al 30 di aprile. Mentre al secondo posto sono ora gli eritrei, con 1.748 sbarchi, più che triplicati rispetto ai 510 al 31 marzo. Nel 2024, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) ha contato oltre 683.000 rifugiati e richiedenti asilo registrati provenienti dall’Eritrea, frutto di decenni di guerra e di uno dei regimi più repressivi al mondo. L’anno scorso Freedom House ha classificato la protezione delle libertà civili in Eritrea alla pari con quella della Corea del Nord. Tanto che, nonostante sia illegale lasciare il paese senza un visto, che è praticamente impossibile da ottenere, l’esodo continua e si calcola che un terzo della popolazione viva fuori dai confini eritrei. Molti fuggono in Sudan, anche per proseguire sulla rotta del Mediterraneo centrale attraverso la Libia, non senza subire omicidi, torture, schiavitù, violenze sessuali, detenzione arbitraria e altre forme di abusi. Nella classifica degli sbarchi stilata dal Viminale seguono Pakistan (1.675 sbarchi), Egitto (1.575), Siria (937), Etiopia (752), Sudan (564), Somalia (394), Tunisia (246) e Mali (195). Rispetto all’anno scorso, quando erano al terzo posto con 7.677 sbarchi (11,5% del totale), nel 2025 i tunisini sono appena l’1,5%. Un problema per le statistiche dei rimpatri che il governo intende migliorare. Quello con la Tunisia è l’unico accordo di riammissione che finora ha veramente funzionato. Su 5.414 persone rimpatriate nel 2024, 1.974 sono tunisini, il 36%. Mentre gli egiziani, secondi per numero di rimpatri tra le nazionalità arrivate via mare, sono stati 359 e i bangladesi, in testa alla classifica degli sbarchi, sono stati solo 73. “Abbiamo bisogno di risultati migliori sui rimpatri”, ha detto il 29 aprile nel suo intervento al Congresso del Ppe la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. “Non è possibile che solo il 20% di coloro che hanno una decisione negativa in materia di asilo lascino effettivamente l’Europa. È una percentuale troppo bassa e non riusciamo a spiegarla ai nostri cittadini. Dobbiamo fare meglio”, ha detto, rivendicando la proposta per il nuovo regolamento Ue sui rimpatri, alla quale è seguita la controversa proposta di emendamento del nuovo Patto migrazione e asilo per anticipare l’entrata in vigore delle norme che facilitano la designazione dei cosiddetti Paesi di origine sicuri, compresa la possibilità di dichiarare tali tutti i Paesi i cui cittadini hanno in Europa un tasso di accoglimento delle domande d’asilo inferiore al 5%. Motivo per cui nella lista Ue dei Paesi d’origine sicuri proposta dalla Commissione sono rientrati anche Bangladesh ed Egitto, esattamente come auspicato dall’Italia. ?Scelte che, almeno politicamente, dovrebbero sostenere il governo Meloni, alle prese col fallimentare Protocollo sui centri costruiti in Albania, dove alle poche decine di richiedenti asilo, tutti finiti in Italia, si sono sostituite poche decine di irregolari in attesa di rimpatrio. Quelli effettivamente rimpatriati si conterebbero sulle dita delle mani e attualmente a Gjader ci sarebbero ancora una ventina di persone. La deputata Sara Kelany, responsabile immigrazione di Fratelli d’Italia, ricorda che “è in discussione alla Camera un decreto legge che ai centri in Albania aggiunge alla possibilità di espletare le procedure accelerate di frontiera anche la possibilità di trattenere i migranti già raggiunti da provvedimenti di espulsione come negli ordinari di Cpr”. Questo, ha chiarito, “per aumentare la possibilità di rimpatrio, perché il trattenimento è funzionale al rimpatrio”. Una affermazione che però non trova conforto nei numeri del Viminale. Il trattenimento nei cpr italiani, infatti, ha funzionato per lo più coi tunisini grazie all’accordo di riammissione che prevede un paio di charter per un’ottantina di persone a settimana. Nel 2024 sono transitati da un cpr 1.680 tunisini sul totale dei 1.974 rimpatriati. Per gli altri, dicono i dati del Viminale, il trattenimento serve a poco. Sempre per citare le principali nazionalità per numero di sbarchi, nel 2024 gli egiziani rimpatriati dopo la detenzione in un cpr sono stati 196, appena 12 i pakistani, 11 i bangladesi, un maliano. Medio Oriente. All’Aja gli Stati Uniti all’attacco di Unrwa di Eliana Riva Il Manifesto, 2 maggio 2025 Terzo giorno di udienze alla Corte internazionale di giustizia sugli aiuti ai Territori palestinesi occupati. Intanto a Gaza 29 uccisi dai raid israeliani: “A Nuseirat sembrava un terremoto”. Sessanta giorni di assedio totale. Il blocco di cibo, medicine e merci ordinato da Israele dura da due mesi ormai e diffonde fame, sete, malattie, morte. I palestinesi di Gaza mangiano “qualsiasi cosa riescano a trovare” ha fatto sapere l’Unrwa, anche se si tratta di alimenti avariati, infestati da vermi e insetti, secchi e duri o marci e putrescenti. L’associazione Mercy Corps denuncia che le famiglie muoiono di fame mentre i prezzi di ciò che è rimasto sono aumentati del 500%: “Questa è la fase più dura della guerra”, ha dichiarato l’ong. Il primario del reparto di nefrologia dell’ospedale al-Shifa di Gaza City, Ghazi Al-Yazji, ha fatto sapere che mancanza di cure e distruzione dei macchinari ha causato la morte del 42% dei pazienti sottoposti a dialisi nella Striscia. E intanto le bombe scuotono Gaza come un terremoto. Così i residenti descrivono gli attacchi che nella notte tra martedì e mercoledì hanno preso di mira Nuseirat, nel centro. Un edificio è stato raso al suolo, uccidendo otto abitanti. I soccorritori hanno tentato per ore di raggiungere tutte le persone rimaste intrappolate sotto le macerie. Almeno 29 palestinesi sono stati ammazzati dall’alba al tramonto. Ieri, nel terzo giorno di udienze alla Corte internazionale di giustizia, gli Stati uniti hanno difeso l’alleato, dichiarando che Israele avrebbe il diritto di decidere quali organizzazioni possono o non possono fornire supporto alla popolazione palestinese dei territori che lui stesso occupa. L’affermazione serve a giustificare la decisione di Tel Aviv di bandire l’Unrwa da Gerusalemme est, estendendo il divieto di operare anche a Gaza e in Cisgiordania. Proprio ieri l’agenzia Onu che si occupa dei profughi palestinesi ha fatto sapere che tra meno di dieci giorni entreranno in vigore gli ordini di chiusura emessi da Israele per sei scuole Unrwa a Gerusalemme Est. Significa che circa 800 ragazzi e ragazze palestinesi non potranno più ricevere un’istruzione. “Questi ordini violano gli obblighi di Israele ai sensi del diritto internazionale”, ha dichiarato Unrwa. La chiusura riguarderà anche gli istituti scolastici nel campo profughi palestinese di Shu’fat, chiuso e circondato dal muro israeliano. Gli studenti del campo non hanno il diritto di recarsi in una scuola israeliana e sono fortemente limitati nei propri spostamenti anche all’interno del territorio palestinese. Gli Usa hanno dichiarato alla Corte che esistono “seri dubbi” sull’imparzialità dell’Unrwa. Poco dopo, il capo dell’agenzia, Philippe Lazzarini, ha scritto su X che far circolare informazioni infondate sull’organizzazione è una minaccia alla vita e alla sicurezza del personale delle Nazioni unite a Gaza e in Cisgiordania. In seguito all’irruzione dell’esercito israeliano nella città di Beita, a sud di Nablus, sono scoppiati scontri con i combattenti palestinesi. Due militari potrebbero essere rimasti feriti prima che venissero schierati i rinforzi e i soldati bloccassero l’ingresso della città. Un bambino di 13 anni è stato ferito invece ad al-Yamoun, nei pressi di Jenin e diversi palestinesi sono stati arrestati in tutta la Cisgiordania occupata. Il ministro della sicurezza nazionale Ben Gvir è tornato a parlare della pena di morte per i prigionieri politici palestinesi detenuti in Israele. In un incontro pubblico si è vantato di aver cambiato (in senso peggiorativo) tutte le condizioni di reclusione per i palestinesi e ha dichiarato che la legge che prevedrà la condanna a morte è di prossima approvazione. Russia. Il corpo di Vika Roshchyna e quel crimine contro tutti noi di Paolo Giordano Corriere della Sera, 2 maggio 2025 Le storie dei giornalisti nelle zone occupate sono spie di come va il mondo. E non va bene. Dalla parte più alta di Nikopol, sulla sponda del Dnipro libera dall’occupazione russa, si vede Enerhodar. La centrale nucleare, che noi chiamiamo “di Zaporizhzha”, si staglia al di là del fiume. A luglio 2023, dopo il sabotaggio della diga di Khakovka, non c’era quasi più acqua in quel tratto. Al netto dei cecchini e delle mine, sembrava possibile raggiungere i reattori a piedi. Nello stesso mese in cui mi trovavo lì, a valutare quella distanza, Victoria Roshchyna lasciava l’Ucraina per raggiungere proprio Enerhodar occupata. Per arrivarci ha dovuto aggirare la linea del fronte, percorrere più di duemila chilometri attraverso la Polonia e la Lituania, poi da nord a sud nella Russia nemica e lungo la sponda nord del mare di Azov. Forse per scacciare l’immagine del suo cadavere devastato, nelle scorse ore ho pensato soprattutto all’assurdità del percorso che Roshchyna aveva compiuto, a quei venti chilometri trasformati in duemila dall’invasione russa. A come la guerra lacera anche lo spaziotempo oltre alle persone. E ho pensato a quanto profonda dev’essere stata la sua solitudine in quel tragitto, ancora prima di essere arrestata, prima di essere torturata e uccisa. Era pericoloso quello che faceva Victoria Roshchyna. Troppo pericoloso. Dissennato. Una giornalista ucraina che svolge indagini sugli agenti dell’FSB nelle zone occupate. Più che fegato ci va della follia. Perfino il suo giornale si era rifiutato di sostenerla nell’ultima missione, così lei aveva continuato come freelance. La caporedattora di Ukrainska Pravda, con cui da allora collaborava, ha dichiarato: “Victoria era il ponte fra l’Ucraina e quei territori. Da quando è scomparsa non c’è più copertura di ciò che succede lì”. La questione sull’opportunità del rischio che aveva preso per sé rimane dunque aperta, soprattutto per chi si occupa di informazione. Non ha una risposta semplice, forse non ha una risposta sola. Meno di un mese prima che Roshchyna partisse, un’altra Victoria, Amelina, anche lei originaria dell’Ucraina dell’est, era stata uccisa in un bombardamento russo. Il suo libro rimasto incompiuto e pubblicato da poco in Italia, Guardando le donne guardare la guerra, si concentra proprio sull’impossibilità di conciliare fra loro certi principi fondamentali, come l’essere madre e l’essere una scrittrice chiamata a documentare i crimini commessi nel proprio Paese. Ora apro le fotografie di Victoria e Victoria e le affianco sullo schermo. Le due “Vika”, entrambe impegnate nell’ultimo tempo della loro vita a dimenticarsi di sé stesse per registrare crimini, dalle sponde opposte del Dnipro, dai due lati del fronte. Sarà suggestione ma è impossibile non notare qualcosa di simile anche nei loro volti: gli zigomi larghi e alti, gli occhi rotondi, la bocca ben disegnata, i capelli chiari sciolti. Come se la storia ci stesse incoraggiando a fissare qualcosa attraverso di loro. Il libro di Amelina è un omaggio alle donne ucraine che si stavano impegnando in guerra. Se ne avesse avuto il tempo avrebbe dedicato un capitolo all’altra Vika, che nel frattempo si muoveva come una scia luminosa nel buio dei territori occupati, o almeno è così che l’ho immaginata io, come una scia troppo luminosa, anche se non doveva essere buio, era estate, poi era la fine dell’estate. Martedì, leggendo l’articolo di Marta Serafini sulla salma di Roshchyna riportata in Ucraina “con segni di tortura e senza organi”, riconoscibile solo dall’analisi del dna, mi sono dovuto fermare più di una volta. Sono riuscito ad arrivare al fondo solo la sera. Un’altra giornata intera mi ci è voluta per leggere il report di Forbidden Stories sulla sua prigionia. Non era solo la nausea di raffigurarmi in continuazione il corpo scempiato. Era quell’immagine accompagnata alla lucidità con cui lo scempio era stato prodotto. Verosimilmente l’espianto degli organi è avvenuto per non lasciare prove ancora più inconfutabili delle torture. La salma era stata chiusa in due sacche e quella più esterna identificava Roshchyna come uomo, forse nella speranza che nessuno in Ucraina si prendesse il disturbo di guardare dentro. Una lucidità criminale del genere, una lucidità che si preoccupa del giudizio internazionale, è difficile da tenere insieme al livello delle atrocità commesse su Victoria da viva. O la brutalità sadica o il calcolo strategico: insieme sono intollerabili. La combinazione rende ancora più sinistre le spinte alla normalizzazione della Federazione Russa e del suo operato, solo perché così desidera Donald Trump e perché sì, insomma, sono passati più di tre anni, adesso basta. L’assassinio di giornalisti e scrittori ferisce in modo particolare l’immaginario di noi giornalisti e scrittori. L’identificazione è inevitabile, se poi si tratta di una professionista di ventisette anni non ne parliamo. Ma l’assassinio di giornalisti e scrittori dovrebbe incidere in modo diverso sull’immaginario di chiunque. Non solo perché il corpo di chi documenta le situazioni di conflitto è sacro - al pari di quello dei bambini, del personale medico, dei civili tutti -, ma perché il corpo di chi racconta la guerra è il rappresentante, nonostante tutto, della civiltà in mezzo alla violenza. È il nostro deputato, la prova che la civiltà esiste ancora, da qualche parte, e prima o poi tornerà a chiedere conto di come ogni azione bellica è stata compiuta. Dove il corpo di chi racconta viene violato, dove questo viene fatto sistematicamente, è l’ordine sociale stesso a essere oltraggiato. La guerra diventa puro crimine. Le storie dei giornalisti nelle zone occupate sono quindi spie di come va il mondo. E il mondo non sta andando bene. Il CPJ, il Committee to Protect Journalists, ha designato il 2024 come l’anno in cui sono morti più giornalisti da quando il comitato esiste, cioè più di quarant’anni. Il contributo maggiore arriva ovviamente dalle centinaia di giornalisti uccisi a Gaza. Alquanto ironico: il periodo d’oro dell’informazione coincide con il periodo nero dell’informazione. Le condizioni di prigionia di Victoria Roshchyna, le scosse elettriche, l’osso del collo spezzato forse in un mezzo strangolamento, i “garage” di Melitopol da cui si sentono uscire le urla dei prigionieri torturati, lo stato del cadavere: tutto ciò è misura del carattere delle guerre in corso. Non di tutte le guerre, non di ciò che accade sempre e ovunque: di queste guerre oggi. Di come troppi Paesi hanno derogato alle regole umanitarie fondamentali su come si combatte. Quarantacinque giornalisti internazionali hanno partecipato al progetto di Forbidden Stories che ha permesso di ricostruire gli spostamenti di Roshchyna e i luoghi della sua incarcerazione, da agosto 2023 fino alla morte, più di un anno dopo. Quarantacinque suoi colleghi, quarantacinque nostri colleghi: questo mi commuove. E solo questo mi rassicura. È il senso di cosa significa mantenersi saldi ai principi della civiltà nonostante tutto, in un’Europa, in un mondo che lungo troppi versanti stanno franando verso il crimine.