La mannaia del Decreto Sicurezza sulle carceri di Federica Olivo huffingtonpost.it, 29 maggio 2025 Il report di Antigone stima i rischi del nuovo reato di rivolta carceraria, che punirà anche atti di resistenza passiva. Sovraffollamento al 133%, servirebbero sei penitenziari in un anno, costo 180 milioni. I minori detenuti aumentati del 54% in due anni. È questione di giorni, di mesi al massimo, e un’altra mannaia potrebbe abbattersi sulle carceri italiane, già piene di problemi. E potrebbe portare a un allungamento delle pene per centinaia di persone che in carcere sono già recluse. Di cosa parliamo? Gli effetti del nuovo reato di rivolta carceraria, introdotto dal decreto sicurezza. Il reato era già stato molto contestato sin dalla prima stesura del provvedimento, innanzitutto perché le proteste e le rivolte in carcere sono nella stragrande maggioranza dei casi prodotte dal sovraffollamento e dalla carenza di personale, attività e spazi per i detenuti. In secondo luogo perché è un reato poco chiaro: prevede, infatti, che a essere puniti con una pena da 1 a 5 anni siano coloro che partecipano ad una rivolta non solo “mediante atti di violenza o minaccia” ma anche attraverso atti di “di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza”. Tradotto: c’è il rischio, molto concreto, che a finire indagato (e condannato) per il reato di rivolta carceraria ci sia anche chi compie atti di resistenza passiva. Che, ad esempio, durante delle proteste, si sdraia lungo un corridoio senza alzarsi quando gli agenti gli intimano di farlo. Ma quanto potrebbe impattare questo nuovo reato sul sistema carcerario? Moltissimo. Le stime vengono date dall’Associazione Antigone che oggi, 29 maggio, presenta il suo rapporto annuale, il ventunesimo, sulle condizioni di detenzione. Come si legge nel report, dal giorno in cui il decreto è entrato in vigore, fino al 30 aprile, ci sono stati 5 episodi di proteste collettive, che hanno coinvolto 80 detenuti. Le più importanti si sono registrate a Cassino e a Piacenza. In base alla stima di Antigone, se per tutti gli 80 detenuti dovesse esserci un processo, ipotizzando il massimo della pena per tutti, ci sarebbero 400 anni di detenzione in più. Una cifra non da poco, che diventa enorme se si pensa che il periodo analizzato è di soli 15 giorni. Estendendo lo sguardo all’anno scorso, al 2024, gli episodi di protesta collettiva sono stati 1500. Certamente non tutti classificabili come rivolta. Ma se il decreto sicurezza fosse stato già in vigore, cosa sarebbe successo? Ammettiamo che anche solo un terzo di questi episodi fosse stato considerato come una rivolta, stimando una pena di 4 anni per ciascun detenuto si sarebbero ottenuti 8mila anni di detenzione in più. Sono cifre così alte da sembrare irrealistiche. Se non fosse che il decreto sicurezza è realtà. Antigone rileva poi la costanza del sovraffollamento: “Al 30 aprile 2025 erano 62.445 le persone detenute nelle carceri italiane - si legge nel rapporto - a fronte di queste presenze la capienza regolamentare è di 51.280 posti, un dato addirittura in lieve calo rispetto alla fine del 2024, e dunque il tasso di affollamento ufficiale sarebbe del 121,8%. Però i posti non disponibili per inagibilità o ristrutturazioni sono almeno 4.500, e dunque il tasso medio effettivo di affollamento è almeno del 133%”. I detenuti, è la rilevazione, crescono di 300 unità ogni due mesi. Il governo ha previsto, entro fine anno, l’installazione di container nei cortili di alcune nuove carceri, che creeranno altri 385 posti. Utili, per l’appunto, a coprire l’incremento di soli due mesi. Siccome la soluzione dell’esecutivo Meloni rimane quella (almeno a parole) di costruire nuove carceri, Antigone fa notare che, con questi incrementi, bisognerebbe costruire sei nuove carceri all’anno. Con un costo totale di 180 milioni. Restano importanti i numeri dei detenuti in attesa di giudizio, anche se c’è un lieve calo. Fino a pochi anni fa, le persone in carcere in attesa di una sentenza definitiva erano circa il 30%. Al 30 aprile 2025 sono il 26,5% del totale dei detenuti: 16548 persone. Ancora eclatante il dato delle persone che non hanno ancora ricevuto neanche una sentenza di condanna e sono in attesa del primo giudizio: 9475, quasi uno su 10. Gli stranieri in carcere sono il 31% della popolazione carceraria. Un dato sostanzialmente stabile da anni e di 6 punti percentuali più basso dall’anno del picco: nel 2007, infatti, quando ancora di immigrazione non si discuteva nei termini di oggi, i detenuti stranieri in carcere erano il 37% del totale. Il report restituisce, infine, una panoramica drammatica degli istituti penali per minori. Come raccontato più volte, da strutture in via di estinzione - perché per i minori che delinquevano si prevedevano altri percorsi - sono diventati istituti sovraffollati quasi quanto le carceri degli adulti. “Sono 611 (di cui 27 ragazze) al 30 aprile 2025 i giovani detenuti nelle carceri minorili italiane”, si legge nel rapporto. “Alla fine del 2022 le presenze erano 381 e alla fine del 2024 raggiungevano le 587 unità, con una crescita del 54% in due anni”. Nelle carceri italiane si vive senza respiro. I nuovi dati di Antigone di Andrea Oleandri* lavialibera.it, 29 maggio 2025 Il nuovo rapporto di Antigone fotografa un sistema penitenziario sempre più in affanno, dove il carcere è trattato come trincea e contenitore di emarginazione sociale: il sovraffollamento tocca il 133 per cento e gli istituti per minorenni non sono mai stati così pieni. Intanto, il governo crea nuovi reati e criminalizza le proteste non violente. Nelle celle delle carceri italiane si vive senza respiro. Lo raccontano i numeri, le immagini e le parole che descrivono un sistema penitenziario sempre più in affanno, in cui manca il respiro della legalità costituzionale, della dignità, del senso della pena come percorso di reinserimento sociale e non come vendetta. Questa è la fotografia che Antigone offre delle carceri italiane in “Senza respiro”, il suo 21esimo rapporto sulle condizioni di detenzione. Fotografia, ma anche allarme. Perché se i detenuti respirano a fatica, anche chi lavora in carcere - agenti, educatori, direttori, medici - è sempre più allo stremo. Una situazione dove cresce il disagio e la tensione. Al 30 aprile 2025 erano 62.445 le persone detenute, a fronte di 51.280 posti regolamentari. Ma se si tolgono quelli non disponibili, oltre 4mila, si arriva a un tasso reale di sovraffollamento del 133 per cento, con 16mila persone che non hanno un posto regolamentare all’interno delle carceri. Ma se il tasso medio di affollamento è quello, in 58 istituti si supera il 150 per cento. Il carcere milanese di San Vittore è al 220 per cento, cioè ci sono 220 detenuti laddove ce ne dovrebbero essere 100. Negli ultimi due anni peraltro, mentre le persone in carcere sono aumentate di 5mila unità, la capienza effettiva è calata. Il numero dei detenuti nell’ultimo periodo cresce di circa 300 unità ogni due mesi. Numeri che rendono fallace ogni discorso che cerca soluzioni all’attuale situazione attraverso l’edilizia penitenziaria. Se si considera che le carceri italiane hanno in media proprio 300 posti, ogni due mesi che passano avremmo bisogno di un nuovo istituto penale. Mentre il sovraffollamento toglie il respiro, dal governo le uniche iniziative sul carcere sono quelle che lo vedono come soluzione a problemi sociali di ogni tipo. Fin dal suo insediamento nell’ottobre del 2022, infatti, sono stati creati numerosi nuovi reati e varati altrettanto numerosi aumenti di pene. Con il decreto sicurezza che, tra le altre norme, introduce anche il nuovo delitto di rivolta penitenziaria, che si applicherà anche alle proteste condotte pacificamente in forma non violenta, sono in arrivo migliaia di anni di carcere, con pene altissime, superiori nel massimo edittale anche ai maltrattamenti in famiglia. Soltanto nel 2024 si sono verificati circa 1.500 episodi di protesta collettiva non violenta nelle carceri, e supponendo che in media quattro detenuti partecipino a ogni episodio, si arriva a seimila detenuti coinvolti. Supponendo che questi vengano condannati a una media di quattro anni di carcere ciascuno, arriveremo a circa 24mila anni aggiuntivi di carcere contro persone, già detenute, alle quali sarà peraltro precluso l’accesso a misure alternative, così come già avviene per i reati di mafia e terrorismo. I numeri del carcere aumentano anche a fronte di una popolazione detenuta che cambia. I reati gravi, in testa gli omicidi, sono sempre meno in Italia. Per cui in carcere ci finiscono soprattutto i più fragili: il 51 per cento dei detenuti con condanna definitiva ha meno di tre anni da scontare, e molti di loro non avrebbero dovuto entrarci affatto. Sono poveri, stranieri, tossicodipendenti, persone senza difesa tecnica o persone con problemi psichiatrici pregressi. Alcuni hanno meno di un anno di pena, eppure stanno in cella. Le donne, pur essendo solo il 4,3 per cento della popolazione detenuta, pagano un prezzo alto: la maggior parte di loro sono recluse in sezioni femminili all’interno di carceri per la maggior parte adibiti alla popolazione maschile e questo comporta sezioni piccole e attività assenti. Alcune di queste donne vivono dietro le sbarre con i propri bambini: 11 al 30 aprile, numero destinato a crescere con le nuove norme che cancellano la possibilità di rinviare la pena per le madri, o che potrebbero rimanere invariati con la disposizione, anche questa contenuta nel decreto sicurezza, che prevede la possibilità di togliere i figli alle donne che in carcere dovessero turbare la vita detentiva, senza che questa turbativa sia ben individuata o senza che sia necessariamente grave. E poi ci sono i ragazzi. Oggi gli istituti penali per minorenni (Ipm) ospitano 611 giovani - mai erano stati così tanti prima d’ora. Quasi metà di loro sono minori stranieri non accompagnati. Il 65 per cento è in custodia cautelare. Numeri cresciuti a dismisura dall’approvazione del decreto Caivano che, Antigone lo sosteneva all’epoca e quanto accaduto gli ha dato ragione, ha cambiato radicalmente e forse in maniera irreversibile un sistema a cui tutta l’Europa guardava con interesse. Un sistema capace di lasciare che il carcere fosse l’extrema ratio e di guardare in primo luogo al costruire percorsi di reinserimento sociale per questi ragazzini. Ma non è solo il sovraffollamento il problema. Cresce infatti l’uso di psicofarmaci, si dorme in pieno giorno, le attività si svuotano. Il governo risponde al sovraffollamento trasferendo i ragazzi nelle carceri per adulti o costruendo nuovi ipm in sezioni degli istituti ordinari, come accaduto di recente nel carcere di Bologna. Misure punitive, non educative. Si perde il respiro costituzionale - Il respiro costituzionale alla base della funzione della pena si sta perdendo. Il linguaggio pubblico si è fatto crudele e il carcere è trattato come una trincea. Quanto sta accadendo al sistema penitenziario non è solo una questione di numeri. Il respiro costituzionale alla base della funzione della pena si sta perdendo. Il linguaggio pubblico si è fatto crudele e il carcere è trattato come una trincea. Si criminalizzano le proteste, si umiliano i detenuti, si esaspera il ruolo degli agenti. In una situazione in cui, peraltro, il personale penitenziario è sotto organico e in sofferenza ovunque. Mancano 96 direttori e ci sono carceri con un educatore ogni 150 detenuti. La polizia penitenziaria è insufficiente, stressata, mal distribuita. Tre proposte per tornare a respirare - Per questo sul carcere c’è bisogno di intervenire con estrema urgenza. Antigone nel suo rapporto presenta tre proposte per invertire la rotta: un atto di clemenza per i detenuti con meno di due anni da scontare, si tratta di 17mila persone; misure collettive straordinarie da parte dei consigli di disciplina, che potrebbero sollecitare provvedimenti di grazia e misure alternative per tutti coloro che hanno da scontare meno di due anni; l’introduzione di un principio chiaro: nessuno deve entrare in carcere, salvo casi eccezionali, se non c’è un posto regolamentare. Non si possono continuare a stipare persone in posti che non esistono, occupando con letti anche le aree di socialità o le aule scolastiche, o aggiungendo la terza branda nei letti a castello, obbligando le persone a dormire a due metri da terra e a pochi centimetri dal soffitto. Una grande alleanza costituzionale - Di fronte a questa situazione, Antigone lancia un appello, per costruire una grande alleanza che coinvolga tutti coloro che vogliano muoversi nel solco dell’articolo 27 della Costituzione, a partire dalle università, dalle associazioni, dal mondo delle professioni e dai sindacati. Il carcere non va trasformato in una trincea di guerra, scrive il presidente Patrizio Gonnella nel suo editoriale, ma bisogna fare in modo che il sistema penitenziario torni a respirare per non rischiare una pericolosissima implosione. *Responsabile comunicazione di Antigone Emergenza carceri: tre metri quadrati di spazio a testa, record di detenuti minori di Lorenzo Attianese ansa.it, 29 maggio 2025 Negli istituti quasi una persona su 2 fa uso di sedativi o ipnotici. Il report di Antigone, in 58 istituti tasso di affollamento oltre 150%. Esplodono le carceri minorili mentre, in generale, almeno in trenta istituti gli spazi per i detenuti si riducono a celle da meno di tre metri quadri per ogni persona. È “Senza Respiro” il titolo del dossier diffuso da Antigone: una sintesi che punta a descrivere così l’attuale situazione nei penitenziari italiani. Secondo i numeri raccolti nel rapporto, il sovraffollamento con la carenza di strutture adeguate resta uno dei problemi principali, connesso alla mancanza di un adeguato supporto psicologico e dell’effettivo reinserimento nel mondo del lavoro fuori dagli istituti. Con oltre 62mila detenuti - in lieve calo rispetto all’anno precedente - anche tenendo conto dei posti non disponibili per inagibilità o ristrutturazioni, il tasso medio effettivo di affollamento è almeno del 133%: in due anni la capienza effettiva è diminuita di 900 posti mentre i detenuti sono cresciuti di 5mila unità. Solo 36 carceri su 189 non sono sovraffollate: 58 hanno invece un tasso superiore al 150%. Su questo dato la maglia nera va all’istituto di San Vittore, seguito da quelli di Foggia e Lucca. E in trenta istituti sui 95 visitati dai rappresentanti di Antigone “c’erano celle in cui non erano garantiti tre metri quadri calpestabili per ogni persona, in 12 c’erano celle senza riscaldamento e in 43 carceri celle senza acqua calda”. Non va meglio, secondo l’associazione, per i nuovi padiglioni prefabbricati in arrivo: “Sono sovraffollati già da progetto, ossia poco più di 5 metri quadri a persona”. Nel 2024 - rileva ancora il report - si sono verificati circa 1.500 episodi di protesta collettiva non violenta nelle carceri. Invece dallo scorso 12 aprile, ovvero da quando il decreto sicurezza è stato pubblicato, fino alla fine dello stesso mese ci sono stati cinque episodi di proteste collettive, che hanno coinvolto circa 80 detenuti. Il numero dei reati per ogni detenuto è pari a 2,4: i più commessi sono quelli contro il patrimonio. Continuano a calare i detenuti in custodia cautelare: quelli con sentenza passata in giudicato, che erano il 71,7% alla fine del 2023, sono saliti al 73,5% alla fine del 2024. Dunque le persone in attesa di giudizio e presunte innocenti sono il 26,5%. Sono 9.475 quelli in attesa di primo giudizio, con la custodia cautelare che pesa maggiormente sugli stranieri. Il carcere è comunque la misura cautelare più usata (28,9%) e nel 12% dei casi - stando agli attuali esiti sui provvedimenti - il soggetto non viene condannato. Negli istituti gli infra venticinquenni alla fine del 2024 rappresentavano il 6,4% delle presenze. Sono invece quasi 10mila le persone condannate in sentenza per scontare una pena inferiore ai tre anni. Dal focus sul sistema minorile emergono “rischi di implosione tra sovraffollamento e tensioni” e un record negativo: sono 611, di cui 27 ragazze (al 30 aprile scorso) i giovani detenuti in questi istituti, con una crescita del 54% in due anni (metà sono minori stranieri non accompagnati) mentre 189 ultra-diciottenni sono stati trasferiti nei penitenziari per gli adulti. Inoltre 9 Ipm su 17 sono sovraffollati: al Beccaria di Milano e a Cagliari il tasso è del 150%. Riguardo alle circa 2.700 donne detenute, l’80% è in sezioni femminili all’interno di carceri maschili. Sono undici i bambini che vivono in carcere con le loro madri, di cui nove straniere. Ad ottobre 2023 erano 66 gli uomini detenuti che avevano formalmente dichiarato la propria omosessualità. Di questi, la metà in “sezioni protette promiscue”, ossia nelle sezioni destinate ad autori di reati che provocano disapprovazione sociale (ad esempio, i reati sessuali), o in sezioni comuni. Le donne trans erano invece 70, tutte detenute in carceri maschili. Secondo Antigone lo 0,4% degli stranieri in Italia è in carcere, questi rappresentano il 31,6% della popolazione detenuta: Lombardia (20,8%) e Lazio (9,8%) le regioni dove sono più presenti. È minimo il numero dei mediatori culturali: 1,7 ogni cento detenuti stranieri. In generale sono 963 gli educatori, in media meno di uno ogni 64 detenuti, mentre mancano 96 direttori di carceri. Lavora meno di un detenuto su tre, quasi tutti per il Dap e solo lo 0,4% (249) è impiegato per aziende private. Altri dati drammatici riguardano la salute mentale in carcere: nel 2024 l’autolesionismo è aumentato del 4,1% rispetto al 2023. Il 2024, con 91 suicidi, è l’anno con più morti in carcere di sempre. Carcere, vie d’uscita senza ritorno di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 29 maggio 2025 In dieci anni quasi 700 suicidi in cella: Alessandro Trocino con “Morire di pena” denuncia un orrore italiano. “Se una mosca vi si posa - non per avidità ma per conformismo, perché ve ne sono già attaccate tante altre - resta presa dapprima per l’estrema falange ricurva di tutte le sue zampette”, scrive Robert Musil in una delle “Pagine postume pubblicate in vita”, narrando gli spasmi degli insetti inchiodati sulla carta moschicida. Il destino è già segnato. Ogni tentativo di “districarsi frullando le ali” che ricorda quasi “Laocoonte nell’espressione sportiva dello sforzo estremo” è vano finché “le mosche non hanno più la forza di sollevarsi dal vischio, ricadono un poco e in quell’attimo sono interamente umane”. Non poteva trovare parole più dense, Alessandro Trocino, per spiegare in “Morire di pena. 12 storie di suicidio in carcere”, il libro in uscita domani da Laterza, la tragedia di tante vite perdute nelle galere italiane. Quelle che fecero dire a Papa Francesco: “Ogni volta che varco la porta di un carcere, mi viene sempre questo pensiero: perché loro e non io? Io dovrei essere qui, meriterei di essere qui. Le loro cadute avrebbero potuto essere le mie”. Ecco il nodo: “Quei criminali non è detto che siano tutti criminali. Molti, circa un terzo, sono in custodia cautelare, cioè non sono mai stati condannati, talvolta neanche in primo grado”. Come Giovanni Manish Polin che, abbandonato il giorno stesso della nascita in India, adottato da una famiglia veronese, segnato da problemi adolescenziali di droga e di alcol, sbattuto incensurato nel penitenziario di Montorio con l’accusa (da lui respinta) d’aver malmenato la compagna, descritto dalla sorella come “un semino venuto da mondi lontani e circondato di altri climi, altri terreni, altre atmosfere”, non resse la carcerazione e si impiccò 21 giorni dopo l’arresto senza avere mai potuto incontrare la famiglia (“fanno una domanda di colloquio ma la carta viene smarrita”) né ricevere “un cambio della biancheria”. Un caso limite? Mica tanto: due terzi, tra gli 89 detenuti che si sono tolti la vita nel 2024, erano in attesa di giudizio. E così tra i 15 che si sono uccisi nei primi due mesi del 2025. Numeri inaccettabili: “Negli ultimi dieci anni i suicidi in carcere sono stati quasi 700”. Sette volte di più di quanti furono registrati in tutti gli anni Sessanta. Ecco, spiega Trocino, perché ha scritto: “Questo libro vuole essere un piccolo obelisco di carta, un memoriale dedicato ai militi ignoti delle carceri”. Destinati altrimenti, come sostengono nella prefazione Luigi Manconi e Marica Fantauzzi, a “esser immersi irreparabilmente nel fiume Lete, in quel profondissimo canale della dimenticanza in cui le biografie di donne e uomini reclusi perdono la propria singolarità e unicità sino a fondersi e ad annullarsi”. Ed ecco da quell’oblio riemergere, tra diagnosi in burocratese che parlano di “infuturazione scarsamente propositiva ed altamente velleitaria” e smentite di “pregressi tentativi anticonservativi”, derive umane come quella di Damiano Cosimo Lombardo, travolto da una gioventù marcata dall’alcolismo e da hashish, cocaina, crack, anfetamine, ketamina, che cerca via via di uccidersi con sostanze caustiche “perché si ricorda di una preghiera che diceva: “Gesù, lavaci con il fuoco”“ e viene pianto dalla madre così: “Se lo sono mangiato i sensi di colpa”. E Rodolfo Illich che a 64 anni, obbligato a stare lontano dall’ex moglie perché incapace di tenere a freno gli sfoghi d’ira e di violenza, è costretto prima a dormire per strada in auto e poi è rinchiuso a Udine tra 136 carcerati ammucchiati l’uno sull’altro e assistiti da una sola psicologa un solo giorno a settimana finché, oppresso dalla solitudine e angosciato dallo spettro di una finestrella dove un detenuto tunisino infilò la testa tra le sbarre senza più riuscire a tirarla fuori fino a morire strozzato, non ne può più e si impicca coi calzini intrecciati e annodati alla spalliera del letto a castello. Scrive Trocino d’essersi posto un problema: “I morti non devono subire un altro oltraggio, oltre a quello dell’oblio: non devono diventare materia per un esercizio di stile o per un racconto morboso, patetico. La scrittura dovrebbe avere la stessa forza lineare e geometrica delle celle, dei penitenziari. La stessa brutalità essenziale di un lenzuolo annodato in un cappio, di un letto spoglio e popolato da cimici, di un referto medico, di un certificato di morte”. Risultato: storie che fermano il fiato. Come quella di Ben Sassi Fedi, un giovane tunisino che, prima di abbandonare ogni speranza e impiccarsi, denunciò il degrado della Casa circondariale di Sollicciano, Firenze, catturando a mani nude, con tutti i rischi d’infezione, un ratto grigio spinto a forza dentro la bottiglia come “allegato” d’un esposto alla magistratura in cui chiedeva se le condizioni di detenzione, tra cimici, topi e piccioni, non fossero “in contrasto con l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e se non si configuri il reato di tortura”. Macché... Per dirla con l’ex ministro Roberto Castelli: “Il carcere non è un hotel”. Sarà... Colpisce, però, che un Paese duro con i suoi carcerati come gli Stati Uniti si sia posto fin dal 1988 il problema istituendo un ufficio per la prevenzione dei suicidi in carcere “con uno staff di 500 persone” per formare il personale penitenziario riducendo le morti in 25 anni del 70%. O che nei momenti più angosciosi della pandemia del Covid “l’Iran rilascia 70 mila detenuti, la Turchia 90 mila. Il governo italiano non libera nessuno. Chiude le porte ai familiari, blinda i reclusi in un isolamento totale”. Finché l’8 marzo 2020, giorno del primo e indimenticabile lockdown, scoppiano le prime rivolte in 79 dei 190 istituti penitenziari nostrani. Che porteranno, in un’Italia distratta dall’incubo dei contagi, a un totale di 13 morti. Come al Sant’Anna di Modena, dove sono ammassati 571 detenuti su 361 posti e nel caos della sommossa “un gruppo di reclusi entra nell’infermeria e la devasta. I sacchi neri dell’immondizia vengono riempiti di farmaci. Scoppiano risse. Molti prendono il metadone e lo bevono a canna, dai flaconi da un litro e mezzo”. Uno di questi, Hafedh Chouchane, muore la sera stessa. Un altro, Sasà Piscitelli, trasferito ad Ascoli e bollato da una sbrigativa visita medica come in “apparente buona salute”, il giorno successivo. Mesi dopo arriverà un esposto di cinque detenuti: “Sasà è stato picchiato prima, durante e dopo il viaggio. Stava malissimo ed era debole, non riusciva a reggersi in piedi”. Risultati dell’inchiesta? Boh... Del resto, spiega Morire di pena, i defunti in galera non sembrano interessare più di tanto. Dice tutto il caso di Stefano Dal Corso, un giovane misteriosamente morto per “impiccamento” nel carcere di Oristano e al centro di un giallo intricatissimo finito anche nel mirino delle Iene. Per sette volte la fidanzata, la sorella, gli avvocati chiesero l’autopsia. Per sette volte fu negata. Finché, quando il magistrato si convinse che si poteva trattare davvero di un omicidio volontario perché l’uomo aveva visto qualcosa che non doveva vedere, era ormai troppo tardi. Suicidi in cella, 25 volte di più che nel mondo esterno di Alessandro Trocino* Corriere della Sera, 29 maggio 2025 “Ci si uccide soltanto per esistere”, ha scritto André Malraux e la definizione si adatta perfettamente ai detenuti, che sono fantasmi, corpi nascosti alla vista della società, presenze rimosse che reclamano di essere vive e ottengono solo silenzio, porte chiuse, attesa, umiliazione. Persone che vivono ancora, ma non esistono. Ci si uccide per disperazione, che è mancanza di speranza. E che speranza possono avere un uomo o una donna che devono trascorrere anni in uno spazio di due o tre metri, spesso senza fare nulla, condannati a tagliare i rapporti con il mondo esterno, carnefici di qualcuno e vittime di un sistema che si limita ad accatastare corpi, materiale di scarto di una società che, una volta usciti, li tratterà da criminali? Marchiati con uno stigma che renderà difficile trovare lavoro e ricominciare una vita fuori. ??La storia di Hamid - ?Hamid Badoui aveva 42 anni. Era di nazionalità marocchina e viveva da dieci anni in Italia. Irregolare, il 9 aprile viene portato in un Cpr, i centri di permanenza per il rimpatrio. Prima a Bari, poi in Albania, dopo la modifica che ha reso possibile trasferire i migranti in territorio extra Ue. Lo trasferiscono, racconta, con i polsi legati con fascette di plastica, anche se non è detenuto per nessun reato. Detenzione amministrativa, la chiamano. Il 13 maggio viene liberato, su richiesta di un magistrato, e torna a Torino. Qui litiga con alcuni connazionali, in una tabaccheria, accusandoli di averlo truffato con una scheda sim. Gli agenti arrivati sul posto non gli credono, lui dà un calcio alla volante e viene arrestato per resistenza, oltraggio e lesioni, nonostante una piccola folla, come testimonia un video, chieda ai poliziotti di lasciarlo libero. Hamid aveva paura di dover tornare in Albania. Il 19 maggio ci sarebbe stata l’udienza e sarebbe stato probabilmente liberato, vista l’entità lieve del reato contestato. Al suo avvocato racconta: “Non voglio tornare in Albania, è meglio il carcere del Cpr di Gajder”. Quello stesso giorno, Hamid si toglie i lacci delle scarpe e si impicca. Togliersi la vita in carcere - ?Ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio che quello dei suicidi in carcere “è un fenomeno che esiste, come la malattia, ed è ineliminabile”. Affermazione teoricamente corretta, perché i suicidi sono un fenomeno ineliminabile anche nel mondo esterno, ma profondamente sbagliata perché dentro le carceri si muore molto di più ed è proprio la detenzione - in luoghi malsani e sovraffollati e in condizioni di degrado e di abbandono - a creare le condizioni perché sempre più persone decidano di togliersi la vita. Ad aggravare il fenomeno, la circostanza che siano vite affidate allo Stato, che le ha in custodia e che dovrebbe preservarle. Il rapporto di Antigone - ?Diamo qualche dato estratto dal nuovissimo rapporto di Antigone (presentato oggi, 29 maggio 2025), benemerita associazione che si occupa di detenuti. Se fermiamo i conti al 25 maggio, il 2025 ha visto 33 suicidi negli istituti penitenziari, con 106 morti complessivi di cui 73 per “altre cause”. Il 2024 era stato l’anno record (91 suicidi) e il 2025 rischia di essere peggiore. I dati di Antigone fanno riferimento a quelli di un’altra associazione, Ristretti Orizzonti. Quelli ufficiali sono sottodimensionati. Spesso il ministero non calcola chi muore in ospedale qualche giorno dopo aver tentato il suicidio in cella o chi inala gas dalle bombolette per cucinare. Molti suicidi vengono attribuiti a “cause da accertare”. In carcere ci si toglie la vita 25 volte in più rispetto alla società esterna. Il tasso di suicidi in Italia è il doppio della media europea. L’età media dei suicidi è di 41 anni. Il 45,2 delle vittime sono stranieri (anche se in percentuale i non italiani nelle galere sono solo il 31,6). Il 40 per cento dei suicidi è composto da persone che erano in custodia cautelare, in attesa del primo giudizio, e quindi tecnicamente innocenti. Dai dati di Antigone, che comprendono il 2024 e il 2025 fino a maggio, 17 delle 124 persone morte soffrivano di patologie psichiatriche e 6 avevano un passato di tossicodipendenza. Almeno 27 di loro avevano già tentato di togliersi la vita. Nessuno, evidentemente, è riuscito a dissuaderli dal riprovarci. ??Dove avvengono i suicidi? - Il sovraffollamento non è una causa diretta, ma crea le condizioni perché peggiorino tutti i parametri di vita all’interno dei penitenziari. I dati dicono che c’è una correlazione tra il tasso dei suicidi e gli istituti più sovraffollati, come Verona, Poggioreale (Napoli) e Regina Coeli (Roma). Impressiona il fatto che il 75 per cento dei suicidi sia avvenuto in sezioni a custodia chiusa (dove, cioè, si sta in cella quasi tutto il giorno, oltre che la notte) e che almeno 20 di questi siano avvenuti in condizioni di isolamento. ?Chi si uccide in cella?? - ?Si tolgono la vita soprattutto detenuti senza grande esperienza criminale, persone fragili, che vivono il carcere per la prima volta e che non dispongono di una rete familiare e sociale che riesca a proteggerli. Difficile che a uccidersi sia un criminale incallito, un mafioso, un terrorista, persone che la galera l’hanno messa in conto. Muoiono ventenni - come il tunisino il cui nome non è stato reso noto e che si è tolto la vita a Barcellona Pozzo di Gotto il 24 maggio - o anziani di 82 anni, come Vincenzo Urbisaglia, a Potenza. Persone con gravi malattie mentali, come Damiano Cosimo Lombardo, di Caltanissetta, dichiarato da un perito “totalmente incompatibile con la detenzione”. Donne madri alle quali era stato sottratto il figlio, come Donatela Hodo, a Verona. Agenti penitenziari, come Umberto Paolillo, che aveva denunciato il mobbing dei colleghi. ??Quando avvengono più di frequente? - Molti avvengono all’arrivo in carcere. I “nuovi giunti” sono i più a rischio. Secondo il rapporto di Antigone, la metà avviene nei primi sei mesi di detenzione. Molti, durante la prima settimana. Ma ci sono altri due momenti molto pericolosi. I giorni che precedono un’udienza decisiva in tribunale e quelli che precedono la liberazione. Sembra paradossale, ma la mancanza di prospettiva, l’idea di tornare in libertà senza lavoro, senza soldi, con lo stigma del criminale e l’ipotesi di dover ricominciare a commettere crimini per sopravvivere, è intollerabile per molti. Come ci si uccide - Il primo metodo usato è l’impiccamento. Si ritagliano le lenzuola, le si annodano a qualcosa di solido - le sbarre, letti a castello, persino i caloriferi - e si stringe il cappio intorno al collo. A volte si usano i lacci delle scarpe, che pure i detenuti non dovrebbero avere. Sono frequenti i casi di autolesionismo con i vetri o ingoiando le pile. Ma la seconda causa di morte è rappresentata dall’inalazione di gas dalle bombolette da campeggio usate per cucinare. Inutilmente da anni si chiede di sostituirle con piastre elettriche (servirebbero le prese, praticamente assenti in tutte le carceri). Spesso queste morti non vengono conteggiate ufficialmente dal ministero, perché sono considerate un effetto letale del tentativo di usare il gas come una droga. Come riuscire ad evitarli - Chi entra in carcere viene sottoposto a una visita. Nel caso in cui il sanitario riscontri un rischio suicidario (perché c’è già stato un tentativo o ci sono altri fattori), viene disposta la cosiddetta grande sorveglianza. In questo caso, un agente passa davanti alla cella ogni mezz’ora. Un metodo totalmente inefficace, come dimostrano anche le statistiche: su 124 suicidi monitorati da Antigone, 16 persone erano state sottoposte in passato alla grande sorveglianza e 7 erano sottoposte alla misura quando si sono tolte la vita. Per capire come ridurre il fenomeno, bisogna studiare i dati. Se la maggioranza dei suicidi è avvenuta in sezioni a custodia chiusa, vuol dire che bisogna invertire questa tendenza in atto da tempo e ripristinare il più possibile la sorveglianza dinamica, che prevede porte aperte durante il giorno. Serve moltiplicare le attività all’interno delle galere. Attività sportive, culturali, di studio. Corsi di lingua, di teatro, artigianali. E poi il lavoro, all’interno e soprattutto all’esterno: sono molte migliaia i detenuti che avrebbero diritto a lavorare fuori, per far ritorno di notte in istituto, ma non lo fanno perché non c’è un raccordo con le aziende sul territorio. È provato che chi è attivo, chi è impegnato in attività, ha un tasso di recidiva che si abbassa drasticamente dalla media generale del 70 per cento. Un elemento fondamentale per ridurre i suicidi sarebbe l’aumento della possibilità di contatti con i familiari. Finora i detenuti avevano la possibilità di fare una telefonata alla settimana di dieci minuti ai familiari. Un decreto legge del 4 luglio 2024 prevedeva un aumento di questa possibilità, ma il regolamento attuativo che doveva arrivare entro sei mesi non c’è ancora. Risultato, ogni direttore di carcere può arbitrariamente decidere se aumentare o meno questi tempi. Se una persona che si trova in condizioni psicologiche disastrose, e sta pensando di uccidersi, potesse chiamare una madre, un figlio, una sorella, anche solo per pochi minuti, lo farebbe davvero? Quante vite potrebbero essere salvate? *Autore del libro edito da Laterza “Morire di pena” L’Isola dei divieti” (senza senso): pentole sì coperchi no di Gianni Alemanno* Il Dubbio, 29 maggio 2025 Esiste “L’Isola dei Famosi”, stucchevole programma di reality, ed esiste “L’Isola dei Divieti”, ovvero gli istituti penitenziari. Qui il gioco è quello di imporre divieti a caso e trovare il modo di aggirarli. Premetto che non sto accusando nessuno, anche perché non so se questi divieti provengono dall’Ordinamento, dal Dipartimento della Amministrazione penitenziaria o dalle singole direzioni delle carceri. Chiamiamola genericamente l’Amministrazione. Posso però dire che, se la prendi bene, è quasi divertente. Ma non aiuta la rieducazione. Cominciamo dal cibo. Ho già spiegato che quasi tutti i detenuti sono costretti ad improvvisarsi chef e che i risultati culinari sono anche apprezzabili. Ma il nostro povero chef-detenuto non deve misurarsi solo con la difficoltà di cucinare tutto su tre o quattro fornelli di camping gas. No, sarebbe troppo semplice. L’Amministrazione è come il Diavolo: fa le pentole, ma non i coperchi. Infatti i detenuti possono comprare le pentole, ma non i coperchi. Motivo? Probabilmente perché i coperchi, opportunamente affilati, possono essere trasformate in armi da taglio. Ma, a parte il fatto che non è certo facile affilare dell’alluminio morbido, non viene il dubbio che un camping gas, opportunamente surriscaldato, è leggermente più pericoloso di un’alabarda fatta con coperchi di alluminio? Questa fobia per le lame, attraversa tutto il carcere, per cui le forbici sono quelle della Chicco, i coltelli sono di una plastichetta tanto fragile che fa fatica a tagliare pure lo stracchino. Così, anche solo per avere uno spicchio un limone, nella cultura del riuso che pervade le celle lo sport preferito è quello di inventarsi un qualche modo per tagliare. Poi c’è la fobia dei fili e delle corde. Capisco che il detenuto non possa avere una cinta se non elastica, ma quando questa fobia giunge a vietare l’acquisto del filo interdentale la situazione si fa inquietante. Nella spesa interna è possibile comprare un discreto numero di creme per la pelle, ma non la crema solare Per cui quando arriva l’estate il detenuto con la pelle sensibile, o non va più all’aria, o si ustiona. Ma io, che sono un “boia chi molla” con la pelle molto sensibile, ho vinto la mia battaglia: ho fatto una richiesta scritta l’ho fatta vidimare dal medico del carcere, l’ho inviata ai piani alti e, dopo profonde riflessioni durate più di una settimana, ho ottenuto che la struttura amministrativa possa comprare in farmacia questi prodotti. Si attende adesso che ciò avvenga, speriamo prima della fine dell’estate. Passiamo alla cultura, che è vista con una certa aria di sospetto. Per carità, ci sono due Università autorizzate ad insegnare dentro le mura del carcere (io mi sono iscritto a Scienze della Comunicazione di Tor Vergata), ma sempre nella logica pentole si, coperchi no. Nel carcere non possono entrare libri con la copertina rigida, se li vuoi avere, devi devastarli stracciando questa pericolosissima copertina. Gli studenti universitari, solo loro, possono avere il collegamento web nel computer dell’aula universitaria, ma fortemente limitato, nel senso che non solo non puoi scrivere (cosa ovviamente giusta) ma non puoi neppure guardare molti siti. La cosa divertente è che tra questi siti esclusi c’è quello della Camera, del Senato e del Governo. Cultura del sospetto verso La Russa? Credo che sia più facile navigare fino ai siti pornografici, ma giuro che non lo so perché non ci ho provato. Sempre se sei studente universitario puoi comprare un computer portatile, ma è assolutamente vietato comprare o farsi portare pennette Usb o Cd riscrivibili. Io sto scrivendo un libro sulla mia visione politica (ebbene sì, ne ho ancora una), ma non ho ancora capito come farò a far uscire dal carcere i file di questo libro. Poi c’è un mio dramma personale: la mediaticità. Ho scoperto di essere classificato come un “detenuto mediatico” e quindi - come tutti quelli così classificati - non posso andare agli incontri culturali e artistici (ci hanno provato anche con quelli religiosi) che avvengono fuori dal Braccio. Qualche testata ha provato a farmi delle interviste, ma non è riuscita ad avere le autorizzazioni. Come se, per lettera o attraverso il servizio mail che abbiamo a disposizione, uno non potesse comunicare con l’esterno e commettere il grave peccato di far sapere come la pensa. Non parliamo ovviamente di cose molto più serie. Mentre ero già in carcere è morta Suor Paola, la mia Santa protettrice (non è un modo di dire) a cui sono legato da vent’anni, Ho provato a chiedere al giudice di sorveglianza il permesso di partecipare al funerale (ovviamente sotto scorta), ma niente da fare: si può sperare di andare solo ai funerali dei parenti più stretti. A qualcuno è successo che non lo hanno autorizzato ad andare a trovare la madre che stava morendo e poi, quando è morta, non è arrivato in tempo neppure il permesso per andare al funerale. In un’altra puntata torneremo a parlare delle lunghe attese e delle risposte negative dei giudici di Sorveglianza. Diritti negati, principalmente, credo, perché i cumuli di pratiche sulle scrivanie sono troppo alti e i cancellieri sono troppo pochi: per fortuna ci sono gli agenti della Polizia penitenziaria (ho scritto bene Dottoressa?) che, nella stragrande maggioranza dei casi, fanno i salti mortali per aiutarti a fronteggiare tutti questi divieti casuali. Ma sono, anche loro, pochi, troppo pochi. Qui torniamo al solito punto: non credo che nell’Amministrazione o nei Tribunali di sorveglianza ci siano i “cattivi”, credo che siano troppo pochi e troppo stressati di fronte all’enorme massa di detenuti che dovrebbero non solo sorvegliare ma anche avviare verso la strada della rieducazione e del reinserimento. II sistema penitenziario è collassato, ha bisogno di un’immediata riduzione di sovraffollamento che permetta una riorganizzazione complessiva. Vogliamo smettere di far finta di nulla? Perché questa “Isola dei Divieti” sarà anche divertente, ma non aiuta le persone detenute a imparare a credere nelle Istituzioni. *Ex sindaco di Roma, attualmente detenuto a Rebibbia Dl sicurezza, se 8 anni vi sembrano pochi dai detenuti della redazione di Radio Rebibbia - Jail House Rock Il Dubbio, 29 maggio 2025 Chi ascolta questa radio, ormai sa bene cosa significhi vivere in carcere, vivere a Rebibbia. E non servono molte altre parole per spiegar loro cosa possono significare otto anni, altri otto anni da passare dentro queste mura. Perché parliamo di otto anni in più di carcere? Perché questa è la pena massima prevista dal nuovo decreto sicurezza per chi, già privato della libertà, si oppone ad un sopruso. Pene pesantissime per i detenuti anche per tranquille forme di protesta pacifica, che ora, inventandosi una nuova espressione, il governo definisce “resistenza passiva”. Basterebbe insomma contestare un ordine sbagliato di un agente per essere puniti. Stiamo parlando del decreto che è appena passato alla Camera con un voto di fiducia e sta per essere approvato al Senato. E che sarà approvato così com’è se nessuno lo fermerà, se nessuno proverà a fermarlo. Aggraverà le pene per tutti, diventerà impossibile manifestare dissenso ovunque in questo paese. Qui in carcere, significherà dover accettare tutto. Sempre. E a quei “benpensanti” pronti a sostenere che chi è recluso deve solo obbedire, ricordiamo che se alcuni di noi, alcuni detenuti oggi sono ancora qui, vivi, è solo perché, pochi anni fa, quando esplose il Covid, tanti carcerati scelsero di alzare la voce. Scelsero di protestare, e di protestare fino a che le autorità non si occuparono del virus nelle carceri. A volte, insomma, il dissenso salva le vite. Noi, ovviamente, non saremo in piazza il 31 maggio a Roma, quando tutti coloro che si oppongono alle norme, faranno sentire in modo democratico e pacifico la loro voce, proveranno a farla sentire. Non ci saremo, non potremo esserci, sperando che tanti però ci vadano al nostro posto. E sperando soprattutto che quelle voci siano ascoltate. Nel Decreto “sicurezza” la svolta autoritaria del Governo Meloni di Leonardo Fiorentini L’Unità, 29 maggio 2025 Oltre 500 adesioni in tutta Italia alla catena di digiuno contro il decreto sicurezza, quasi due anni complessivi di astensione dal cibo. Un piccolo ma tenace movimento di resistenza civile nonviolenta contro la svolta autoritaria del Governo Meloni. Tanto è stato scritto e detto su questo provvedimento: un insieme disorganico di norme repressive e illiberali, che puniscono comportamenti inoffensivi o di relativo allarme sociale, ma che nel loro complesso non fanno altro che finire di colpire in modo sproporzionato le persone più fragili. Un insieme di norme razziste e illiberali per cavalcare le paure esistenti e crearne di nuove, colpire i deboli per difendere i forti. Oltre 500 adesioni in tutta Italia alla catena di digiuno contro il decreto sicurezza, quasi due anni complessivi di astensione dal cibo. Un piccolo ma tenace movimento di resistenza civile nonviolenta contro la svolta autoritaria del Governo Meloni. Una mobilitazione che ha saputo portare la riflessione e la contestazione del decreto sicurezza al di fuori dei palazzi, ma anche delle forme tradizionali di contestazione (che siano piazze reali o virtuali). Una campagna capace di diffondersi sul territorio: all’interno delle famiglie e delle case come negli spazi della città, con momenti di condivisione pubblica delle staffette fra i partecipanti all’iniziativa di digiuno. Tanto è stato scritto e detto su questo provvedimento: risulta evidente che ci troviamo di fronte a un insieme disorganico di norme repressive e illiberali, che puniscono comportamenti inoffensivi o di relativo allarme sociale, ma che nel loro complesso non fanno altro che finire di colpire in modo sproporzionato le persone più fragili. Dove la paura già esiste, la destra cerca ovviamente di cavalcarla. Così introduce norme razziste, come quella sulle detenute madri, esplicitamente riferita alle (nella realtà pochissime) donne di etnia rom che eviterebbero il carcere rimanendo incinte. Grazia Zuffa, nella sua ultima conferenza stampa, riferendosi al decreto sicurezza e alla norma che permette incarcerare le madri con i loro bambini provava “sgomento di fronte alla grande spregiudicatezza nell’inventare norme, un’inventiva che sconfina nell’illegalità”. Una illegalità costituzionale, che vorrebbe addirittura far nascere bambine e bambini in carcere. Una drammatica e vergognosa violazione dei principi del diritto e delle convenzioni internazionali sull’infanzia. Checché ne dica la Presidente Meloni, che rivendica due recenti casi occasionali, la norma sugli “sgomberi lampo” non difende certamente i più deboli. Così i senzatetto sfollati da sistemazioni di fortuna sono le vere vittime di norme costruite non certo per proprietari del singolo appartamento, ma piuttosto per le grandi proprietà private. L’intero provvedimento, del resto, affonda le radici in una visione populista e ideologica del diritto penale. Una visione improntata alla difesa del potere, che questo governo ha deciso di abbracciare e rendere l’unica reale cifra della propria azione di governo. Un processo che certamente si trascina da anni ma al quale questa maggioranza ha deciso di affiancare una svolta autoritaria. Una svolta concreta, come abbiamo visto già nel primo fine settimana di applicazione del decreto. I manganelli nelle piazze per la Palestina o l’odore acre dei lacrimogeni durante gli sgomberi violenti dei rave - ovvero di pacifiche, pur non autorizzate, feste musicali non commerciali - a Torino e Trento. Quando poi la paura non esiste, viene costruita ad arte. È il caso della cannabis light, un vero e proprio cortocircuito normativo, che pretende di classificare come stupefacenti prodotti che non lo sono. L’art. 18 rende illegali piante escluse espressamente dai trattati internazionali e dallo stesso Testo Unico sulle droghe italiano. Per farlo è stata presa a pretesto la sentenza del 2019 delle Sezioni Unite della Cassazione, travisandola e omettendone chirurgicamente il passaggio cruciale, quello in cui la Corte precisa che il divieto di vendita delle infiorescenze di canapa industriale vale “salvo che le infiorescenze siano prive di efficacia drogante”. Saremmo anche curiosi di andare a vedere come va a finire, fra violazioni del diritto comunitario sul libero commercio dei prodotti e paradossi di una norma che, per vietare un fiore non psicoattivo, rimanda a leggi e giurisprudenza che ne escludono la punibilità. Non fosse che, ignorando le evidenze scientifiche, il decreto finisce per mettere sul lastrico un intero comparto legale, con oltre 22.000 posti di lavoro e un indotto di circa 2 miliardi di euro. Cominciano le chiusure dei negozi e i licenziamenti degli operai nei campi: così si spazzano via realtà imprenditoriali nate grazie all’iniziativa di tanti giovani, proprio in un settore - quello agricolo - che avrebbe tanto bisogno di nuova linfa. La destra adora la paura: quella che fa uscire poco la sera, quella che fa mettere i “sacchi di sabbia vicino alla finestra”, come Lucio Dalla cantava l’anno che sta passando. La insegue, la coltiva: cerca quel facile ed immediato consenso che distrae dalle reali cause del disagio sociale e dell’insicurezza. Ma la fine del mese è sempre più lontana, il lavoro sempre più precario, l’affitto sempre più caro. Le piogge e le alluvioni invece ci ricordano sempre più frequentemente che il problema non sono certo gli attivisti climatici che bloccano le strade, come vorrebbe farci credere il Governo con le norme penali contro i blocchi stradali. Se non basta infilare la parola “sicurezza” in un decreto per garantirla ai cittadini, la sfida è costruire un’alternativa credibile fatta di salvaguardia dei diritti, di giustizia sociale e climatica. Per questo, oltre al digiuno che continuerà sino a giugno al giorno della conversione definitiva del decreto (si può aderire su Fuoriluogo.it), è importante scendere tutte e tutti in piazza a Roma sabato 31 maggio (ore 14, Piazza Vittorio). E poi c’è un gesto ancora più semplice e alla portata di tutti: il voto, il prossimo 8 e 9 giugno, ai referendum sui diritti sul lavoro e per la cittadinanza. Il voto per i diritti è anche un voto per la democrazia, per costruire un’alterativa basata sui diritti e contro questa deriva repressiva. L’appello di 80 giuriste contro il Dl che introduce il reato di femminicidio di Matteo Pignagnoli Corriere della Sera, 29 maggio 2025 “Si rischia un’operazione di propaganda”. Il documento redatto anche da due docenti bolognesi illustra i diversi punti critici del disegno di legge. Tordini: “Mancano riferimenti alla prevenzione”. Quasi ottanta docenti universitarie di diritto penale, da sempre impegnate nella lotta contro la violenza di genere, hanno firmato un appello contro il disegno di legge sul reato di femminicidio, presentato lo scorso marzo. Sembra quasi un controsenso, ma le ragioni, come spiegato in seguito, sono diverse. Un documento di cui si parlerà anche giovedì 29 maggio, durante la discussione sul disegno di legge davanti alla Commissione giustizia al Senato. Un’iniziativa partita anche da due docenti bolognesi, Maria Virgilio (presente domani a Roma) e Silvia Tordini Cagli, che sono anche tra le sette autrici del testo. L’idea parte (anche) da Bologna - A loro si sono unite una settantina di colleghe, per lanciare l’appello con la speranza di aprire un dialogo con le istituzioni a tutti i livelli. Quello che emerge subito leggendo il testo è infatti l’importanza: “Delle iniziative di contrasto alla violenza contro le donne, che dovrebbero essere stabilmente iscritte nell’agenda politica ed intraprese con decisione”. Allo stesso tempo però la norma in questione appare quasi come: “un’operazione di propaganda per scalvare il problema”. A definirla così è la stessa Silvia Tordini una delle relatrici del documento. “Non si parla di prevenzione” - Tra i punti critici individuati secondo Tordini c’è: “L’assenza di un qualsiasi riferimento alla prevenzione. Se non si va a estirpare la causa di questi fenomeni non arriviamo da nessuna parte. C’è il rischio di fare propaganda sull’introduzione di una riforma che sembra risolutiva, ma che in realtà dimentica che il problema è molto più complesso e vada affrontato con diversi strumenti e punti di vista, partendo dall’educazione di base e dalla formazione”. Le problematiche dal punto di vista penale - Anche dal punto di vista penalistico, il disegno di legge presenta però delle criticità: “Innanzitutto l’ergastolo come pena fissa crea questioni per quanto riguarda il principio di rieducazione, che è al centro della nostra Carta costituzionale. Inoltre, ciò toglie al giudice la possibilità di individualizzare la gravità del fatto. Il femminicidio, così come l’omicidio, non ha un unico livello di gravità o forma di manifestazione”. “La norma rischia di essere solo simbolica” - Nel complesso secondo Tordini il rischio è l’efficacia del disegno di legge sia tutta da verificare: “La norma rischia di essere prettamente simbolica. La minaccia dell’ergastolo, infatti, non ha alcun tipo di deterrenza su coloro che commettono questi crimini. I dati ci indicano che nei paesi in cui è stato introdotto il reato di femminicidio non ci sono state riduzioni dei casi”. Inoltre, come viene indicato nell’appello, già con le normative attuali è possibile sanzionare il colpevole con la pena dell’ergastolo. Ne sono esempio casi di cronaca recenti come quello di Giulia Cecchettin e Giulia Tramontano, in cui i due assassini sono stati condannati al carcere a vita. “Bisogna partire dal tema della discriminazione di genere” - L’obiettivo primario dell’appello è quindi quello di dare vita una discussione più ampia sul tema, partendo dalla lotta alle discriminazioni di genere, che, come indica Tordini, avvengono a più livelli: ““Succede ad esempio in maniera pregnante in ambito lavorativo. C’è poi un problema culturale, a causa di alcuni stereotipi ancora molto forti nel nostro Paese, che danno luogo a questi rapporti di potere e che poi creano le basi da cui nascono questi casi”. Per questo come si legge nell’appello: “L’obiettivo prioritario deve essere il contrasto alle molteplici forme di discriminazione e violazione dei diritti umani che sono considerate “fisiologiche” della differenza di genere e che impediscono la piena affermazione dei diritti delle donne e la corretta percezione delle condotte di prevaricazione e abuso”. Il ddl femminicidio “inutile e populista”: no da 80 giuriste di Eleonora Martini Il Manifesto, 29 maggio 2025 Parla la docente di Diritto penale Valeria Torre, tra le autrici dell’appello. Il ddl che introduce la fattispecie di reato autonoma di femminicidio punita con l’ergastolo è una delle “strumentalizzazioni populistiche” utili “più per accreditare l’impegno del legislatore che per offrire risposte effettive ed efficaci” ad un problema serio. A scriverlo sono 77 giuriste di tutte le università italiane in un coraggioso appello contro il disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 7 marzo scorso. Valeria Torre, docente di Diritto penale all’Università di Foggia, è tra le autrici del testo. Nell’appello spiegate che già oggi la legge italiana “coglie lo specifico disvalore della condotta, consentendo di applicare la pena dell’ergastolo all’uccisione di una donna per motivi di genere”... Anche senza il femminicidio come fattispecie autonoma, ma con il reato di omicidio e le altre disposizioni previste dal Codice rosso e interventi normativi degli ultimi anni, si può già cogliere sul piano sanzionatorio la gravità dell’uccisione di una donna in quanto tale. E si può applicare la pena dell’ergastolo, anche se mi auguro che l’intento del legislatore non sia solo questo. Qual è l’intento del legislatore, secondo lei? Nella relazione di accompagnamento si parla di un’urgenza criminologica che non c’è. Non voglio valutare il problema della violenza sulle donne dal dato quantitativo ma in Italia le vittime donne di omicidio sono diminuite come sono diminuite anche le vittime uomini. Poi c’è anche un problema di cosa qualifichiamo come femminicidio, perché non tutte le uccisioni di una donna possono essere considerati tali. Si ribadisce da più parti che questa legge dovrebbe avere una funzione culturale promozionale ma mi consenta di dire che col diritto penale non si promuove cultura, tanto meno con la minaccia della sanzione dell’ergastolo come pena fissa. Perché in questo si svela una strumentalizzazione del reo per fini politico criminali. È un appello coraggioso, il vostro. Non avete paura di essere criticate da alcuni movimenti femministi? È un femminismo punitivo: il diritto penale è uno strumento che serve a pochissimo e però ha effetti devastanti. Funziona solo quando riflette valori, rapporti e relazioni che sono effettivamente esistenti nella struttura sociale. Noi pensiamo che se questo è l’unico strumento per intervenire su un delitto di potere basato su un’asimmetria tra generi, per combattere le discriminazioni e le disuguaglianze di genere che culminano nel femminicidio ma di cui abbiamo manifestazione in tutti i campi, beh allora non andiamo da nessuna parte. Non si può pensare che il diritto penale contrasti una cultura che è invece sistematicamente legittimata in quasi tutte le relazioni uomo-donna, dalla famiglia al luogo di lavoro, in una società basata sulla disuguaglianza di genere. Scrivete che la tipizzazione del reato è carente sotto il profilo della determinatezza e dell’afferrabilità processuale. Cosa manca? Introdurre un reato autonomo di femminicidio può anche essere plausibile ma la norma penale deve rispettare i canoni della tassatività e della determinatezza. Legare la fattispecie all’odio e alla discriminazione significa lasciare al giudice decidere su aspetti che sono soggettivi e che in sede di processo possono non venire poi effettivamente provati. L’estrema soggettivizzazione è incompatibile col principio di materialità proprio del diritto penale che tutela beni giuridici e non colpisce le intenzioni. Il diritto penale non può contrastare una cultura che è sistematicamente legittimata invece in quasi tutte le relazioni uomo-donna, dalla famiglia al luogo di lavoro. Il ddl parla di “odio verso la persona offesa in quanto donna”. Ma si può odiare in quanto donna anche una persona in transizione, per esempio... Certo, e infatti questa legge creerebbe disuguaglianze rispetto ad altre vittime che possono essere altrettanto discriminate sulla base del genere. Anche se la millenaria asimmetria di potere tra uomini e donne potrebbe giustificare una disciplina se vogliamo antidiscriminatoria, differente rispetto agli altri contesti. Se una donna uccide un’altra donna, magari all’interno di una relazione? Anche questo è un problema. Ecco perché una norma scritta in maniera non precisa potrebbe portare a problemi applicativi maggiori di quelli che adesso abbiamo nell’applicare l’omicidio con le aggravanti. Inoltre, l’asimmetria di potere dell’uomo dovrebbe, per giustificare una fattispecie autonoma, poter riflettersi sulla costruzione del reato. E non è certo l’odio o la discriminazione che descrive o fotografa questa differenza di potere. Scrivete che in quasi tutto il Sud America il femminicidio è un reato autonomo severamente punito, eppure la deterrenza non funziona... Sì, e peraltro in molti Stati sudamericani e centroamericani la fattispecie è costruita molto meglio di quella del ddl, perché costruita sul divario di potere e su elementi oggettivi. Eppure lì veramente c’è un’urgenza criminologica, parliamo di massacri di donne. La promozione culturale si fa con altri strumenti, quelli preventivi su cui il governo non ha messo e non ha intenzione di mettere un euro. Si fa con politiche di redistribuzione e antidiscriminatorie che non mi pare vengano praticate o promosse in Italia. Sono passate poche ore da quando un ragazzino di 19 anni ha ammesso, ad Afragola, di aver ucciso la sua fidanzatina di 14 anni perché lei voleva lasciarlo. Cosa pensa di questo caso? Terrificante. Ma un ragazzino non avverte la minaccia di pena. L’effetto deterrente o inibitorio lo fa molto di più il contesto di riferimento: la famiglia, il gruppo sociale, la scuola. Bisogna anche smettere di identificare la donna sempre come vittima, consolidando il suo ruolo come soggetto vulnerabile. Dovremmo andare oltre. E si deve partire dall’inizio, non dalla fine: non dalla pena ma dall’educazione affettiva, e non solo. Affettiva, non sessuale, che è cosa diversa. I ragazzi sono espertissimi di sesso. Ma non conoscono l’affetto e l’amore. Non conoscono il rispetto. La lezione di Mattarella: “La magistratura non è un potere assoluto” di Simona Musco Il Dubbio, 29 maggio 2025 L’incontro del capo dello Stato con le toghe in tirocinio. “Nessun potere dello Stato - nessuno - è immune da vincoli e controlli”. Non lo è la politica, ma nemmeno la magistratura. A ricordarlo è stato il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, incontrando i magistrati ordinari in tirocinio. Mattarella ha sottolineato che “il raggio di azione dell’intervento giudiziario” trova il proprio confine nella “disposizione normativa”. E la magistratura deve, con “indipendenza e autonomia”, decidere “in modo imparziale, senza influenze o condizionamenti, anche derivanti da eventuali pregiudizi personali”. Per garantire “credibilità” alla funzione giudiziaria sono necessari “qualificazione professionale, rispetto puntuale della deontologia, irreprensibilità dei comportamenti individuali”. C’è, quindi, “il dovere di essere e di apparire - apparire ed essere - irreprensibili e imparziali, in ogni contesto (anche nell’uso dei social media); con la consapevolezza che, nei casi in cui viene - fondatamente - posto in discussione il comportamento di un magistrato, ne può risultare compromessa la credibilità della magistratura”. Servono, insomma, “rigore morale e professionalità elevata”, che rappresentano la risposta “più efficace ad attacchi strumentali intentati per cercare di indebolire il ruolo e la funzione della giurisdizione e di rendere inopportunamente alta la tensione tra le istituzioni”. Un accenno, dunque, alle tensioni attualmente in corso tra magistratura e politica. La legittimazione della magistratura risiede nella fiducia dei cittadini, fiducia, ha evidenziato Mattarella, che “non va confusa con consenso popolare sulle sue decisioni”. Ed è per questo motivo che l’accertamento dei fatti e l’affermazione del diritto non devono “subire alcuna influenza o ricercare approvazioni esterne”. Le decisioni vanno dunque correttamente motivate, non solo per consentirne la valutazione alle parti, ma all’intera collettività. Così come dev’essere un obiettivo la coerenza giurisprudenziale nell’interpretazione delle norme, la prevedibilità delle decisioni. La stessa decisione giudiziale, ha sottolineato, “non è espressione di un potere assoluto: è sottoposta a verifiche, a controlli, a riesami, per garantirne la conformità all’ordinamento e alle sue leggi”. E “rientra nel dovere di garantire attuazione al principio di uguaglianza, dettato dall’articolo 3 della Costituzione, assicurando la parità di trattamento tra casi simili - ha dunque aggiunto -. Centrale è, in tal senso, il ruolo nomofilattico della Corte di Cassazione, e il compito di orientamento delle Corti europee”. Un richiamo alle fonti internazionali che, ha detto il Capo dello Stato, consentono di delineare un orizzonte più ampio “entro il quale realizzare la tutela interna dei diritti, oltre a consentire il progressivo avvicinamento delle legislazioni nazionali nella sempre più necessaria comune dimensione europea”. A intervenire anche il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Fabio Pinelli, che nel suo intervento ha sottolineato come autonomia, indipendenza e imparzialità “devono essere costruiti giorno dopo giorno, mai dati per scontati o per definitivamente acquisiti, bensì guadagnati sul campo”. Per farlo è necessario “adottare metodologicamente uno status psicologico che sia pregno della cultura del dubbio”, la capacità “di mettere in discussione i propri convincimenti, le proprie tesi, essere capaci di fare un passo indietro”. Ma serve soprattutto competenza, presupposto di autonomia, indipendenza e imparzialità del magistrato: “La competenza consente al magistrato di resistere ai condizionamenti e alla tentazione di individuare il colpevole prima del giudizio, alla suggestione della giustizia senza processo. Battetevi con postura ferma con i provocatori di processi paralleli fuori dalle aule dei tribunali”, ha affermato Pinelli. Che ha poi ricordato i “limiti” da rispettare: “Il magistrato - ha evidenziato - non è un’autorità morale del Paese e non deve mai confondere etica e diritto, accerta responsabilità individuali o dirime controversie tra parti private tutelandone i diritti fondamentali; non è invece portatore di generali valutazioni sui fenomeni sociali onde correggerli o indirizzarli, non ha potere di rappresentanza (è questo il fondamento costituzionale della sua “inamovibilità”), ma semmai “una competenza” da mettere al servizio degli attori istituzionali anche nell’ottica di contribuire a costruire, nell’interesse del Paese, un miglior “sistema giustizia”, cioè una giustizia per tutti”. Un chiaro invito ad evitare la politicizzazione della toga. L’affondo di Mattarella su Delmastro: “Attacchi strumentali per indebolire la giurisdizione” di Mario Di Vito Il Manifesto, 29 maggio 2025 Il discorso ai giovani magistrati del presidente. Il sottosegretario in un retroscena aveva accusato i giudici di parlare “come dei mafiosi”. “I giudici hanno il dovere di apparire ed essere irreprensibili ed imparziali. Rigore morale e professionalità elevata sono la risposta più efficace ad attacchi strumentali intentati per cercare di indebolire il ruolo e la funzione della giurisdizione e di rendere inopportunamente alta la tensione fra le istituzioni”. L’identikit tracciato da Sergio Mattarella ieri pomeriggio nel suo discorso ai magistrati in tirocinio ha una corrispondenza molto precisa: il sottosegretario alla Giustizia Andrea Del Mastro. È lui, almeno in ordine di tempo, l’ultimo autore di “attacchi strumentali” ai magistrati. Il riferimento è a un retroscena uscito martedì sulla Stampa, in cui Delmastro accusava i giudici di “parlare come i mafiosi” e promettendo di spezzare le reni alle toghe rosse. Non è stata la prima volta che il sottosegretario lascia che vengano virgolettate delle sue dichiarazioni oltre il confine dell’imbarazzo, dalle nuove auto della polizia che “non fanno respirare” i detenuti all confessioni rese al Foglio in cui diceva peste e corna sulla riforma della giustizia, fino a quest’ultima uscita che ha attirato addirittura l’attenzione del capo dello stato. L’esercizio della giustizia, ha detto ancora Mattarella, è “affidato dalla Costituzione alla magistratura. La nostra Costituzione, lungimirante, persegue l’obiettivo di mantenere l’equilibrio tra i vari organi dallo Stato: nessun potere è immune da vincoli e controlli”. Vale per l’esecutivo, vale per il legislativo e vale pure per il giudiziario. “L’appartenenza all’ordine giudiziario impone un alto senso di responsabilità, dalla cui osservanza dipende in ampia misura la credibilità della stessa funzione giudiziaria - ha detto ancora il presidente della repubblica -. L’esercizio rigoroso del senso di responsabilità è quindi un risvolto necessario dell’indipendenza e autonomia, che esige qualificazione professionale, rispetto puntuale della deontologia, irreprensibilità dei comportamenti individuali. Anche nell’uso dei social media, con la consapevolezza che, nei casi in cui viene fondatamente posto in discussione il comportamento di un magistrato, ne può risultare compromessa la credibilità della magistratura”. La polemica sulle esternazioni non è nuova, del resto il meccanismo è noto e infernale: basta un post per mettersi nei guai e il dibattito pubblico vive di frasi uscite male e battute infelici. Essere e apparire imparziali è un orizzonte importante per tutti i magistrati, ma il vero problema risiede principalmente in chi infila certe considerazioni negli atti che redige, non tanto in chi si perde negli abissi social. Un fatto che, al di là delle ovvie questioni di opportunità, ha anche del generazionale. “La condizione di legittimazione dell’ordine giudiziario risiede anzitutto nella fiducia che i cittadini nutrono nei confronti della giustizia - ha poi proseguito Mattarella -. Questa fiducia non va confusa con il consenso popolare sulle sue decisioni. Nel giudizio l’accertamento dei fatti e l’affermazione del diritto devono avvenire, ripeto, senza subire alcuna influenza o ricercare approvazioni esterne. Anche per questo è necessario che i provvedimenti giudiziari siano correttamente motivati”. La Repubblica dei cialtroni e la poco credibile piena fiducia in “quella” magistratura di Andrea Laudadio Il Riformista, 29 maggio 2025 Platone fu tra i primi a individuarlo dandogli il nome di sofista, colui che parla bene ma non sa nulla, manipola, simula e conquista consenso con strumenti vuoti. Quando un indagato proclama di avere “piena fiducia nella magistratura” scatta in me un riflesso pavloviano di incredulità mista a sorpresa. Crederci è difficile. Non so se sia un consiglio degli avvocati (magari tratto da qualche manuale) o una frase spontanea, ma il mio scetticismo non nasce da pregiudizio verso i togati. Nasce da una sfiducia radicale, netta e assoluta nell’umanità (tutta), che conosco benissimo e di cui la magistratura fa parte (o almeno credo). Da quando abito questa terra, frequento umanità. E ho scoperto che la cialtronaggine si distribuisce democraticamente, trasversalmente, pervasivamente in ogni categoria. Giornalisti, politici, medici, imprenditori, operai, insegnanti: non esiste professione immune. Con il supporto dell’Istat potremmo misurare le percentuali di cialtroneria per categoria, ma sono certo che non ne troveremo mai una a percentuale zero. La parola cialtrone ha un etimo e una storia incerta, ma col tempo ha assunto una connotazione morale: il cialtrone è l’impostore disinvolto, colui che si prende gioco della buona fede altrui, un furbo mediocre, incompetente ma pieno di sé. Non è il delinquente, ma il pressappochista spavaldo. Non è l’inetto, ma chi compensa l’ignoranza con la faccia tosta. In sintesi, il cialtrone è un tipo umano tipicamente italiano: non sa, ma recita di sapere. Abbiamo espresso, storicamente, campioni di cialtronaggine osannati dalle folle. Il cialtrone non è figura folkloristica o incompetente sopra le righe. È un tipo morale che attraversa la storia della cultura, mimetizzandosi nei contesti più disparati e adattandosi alle mutazioni del potere, della comunicazione, della tecnologia. Non è semplice imbroglione: è il prodotto riuscito di un sistema che premia la performance sopra la sostanza, l’apparenza sopra la competenza. La letteratura psicologica descrive la sindrome dell’impostore: persone competenti che dubitano del proprio valore. Ma esiste anche il contrario, raramente tematizzato: l’impostore senza sindrome, chi è oggettivamente incompetente ma si percepisce e si propone come competente. È l’effetto Dunning-Kruger: gli individui con basse competenze tendono a sovrastimare la propria abilità. L’organizzazione che non possiede strumenti solidi di valutazione non solo non corregge questa distorsione, ma la premia, scambiando l’autoconvinzione per leadership. Il Principio di Peter enuncia che “in una gerarchia, ogni membro tende a salire fino al proprio livello di incompetenza”. Se sei bravo nel tuo lavoro, vieni promosso. Ma non è detto che tu sia altrettanto bravo nel lavoro del livello superiore. A quel punto resti lì: inadeguato ma stabile. Il cialtrone si insinua perfettamente in questo schema, non per meriti oggettivi, ma per capacità di interpretare il ruolo, manipolare segnali e gestire relazioni. È il professionista della sopravvivenza organizzativa, non del valore prodotto. Platone fu tra i primi a denunciare questa figura sotto il nome di sofista. Nel Gorgia e nel Sofista, il sofista è colui che sa “parlare bene” ma non sa nulla: manipola le parole, simula la verità, conquista consenso con strumenti vuoti. Primo caso documentato di cialtroneria epistemica: sapere come sembrare competenti senza esserlo. Baudrillard, in Simulacres et Simulation, parla della società dei segni dove il reale è sostituito dal segno del reale. Il cialtrone è il cittadino perfetto di questo mondo: non è competente, ma simula la competenza. Non ha esperienza, ma mima l’esperienza. Non sa fare, ma sa apparire. E spesso viene premiato. Il Simulacro non è ciò che nasconde la verità, esso è la verità che nasconde il niente. Viviamo nell’era dell’economia dell’attenzione. Chi riesce a comunicare bene, a essere visibile, a stare al centro della scena viene premiato più di chi è competente ma silenzioso. Il cialtrone sa vendersi: padroneggia LinkedIn, gestisce presentazioni, naviga la politica interna. Il bravo-tecnico, il silenzioso-etico, l’umile-competente perdono la partita della narrazione. No, non ho “piena fiducia” nella magistratura, nella politica, nella medicina, negli scienziati, negli insegnanti, nei meccanici, nei giornalisti, nei manager, negli operai, nei calciatori e neppure negli allenatori. Ma nella maggior parte di queste categorie ho conosciuto persone che, nonostante i cialtroni che le abitano, cambiano un po’ il mondo in meglio facendo il proprio mestiere. Con competenza, umiltà, rigore. Senza proclami sulla fiducia nelle istituzioni. L’indagine di Garlasco e lo show che va fermato di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 29 maggio 2025 Va tutelato il diritto dei cittadini coinvolti a non essere stritolati in un meccanismo che tutto travolge. Un colpevole per l’omicidio di Chiara Poggi c’è, si chiama Alberto Stasi. Lo ha deciso la Corte di cassazione con una condanna definitiva a 16 anni di reclusione che lui sta scontando dal 2015. È una sentenza che arriva dopo due precedenti assoluzioni e la stessa procura generale aveva espresso i propri dubbi sul fatto che fosse proprio lui l’assassino. Già questo basterebbe ad affermare che l’imputato non è stato condannato “oltre ogni ragionevole dubbio”, così come impone la legge. Ma anche se così non fosse, è giusto che ogni imputato tenti in ogni modo di dimostrare la propria innocenza, utilizzi qualsiasi appiglio per far riaprire il proprio processo e ottenere una revisione. Altrettanto doveroso, anzi obbligatorio, sarebbe che i magistrati - qualora emergano indizi tali da cambiare quella verità giudiziaria - tornassero a indagare, esplorando tutte le piste tralasciate, rileggendo i documenti, analizzando nuovamente i reperti, ordinando nuovi esami, soprattutto se la scienza consente di arrivare a risultati diversi da quelli ottenuti in passato. Esistono però regole che devono essere rispettate. Esiste soprattutto il diritto dei cittadini coinvolti a non essere stritolati in un meccanismo infernale che tutto travolge e stravolge in nome della ricerca della verità che dovrebbe invece seguire uno schema rigoroso e un riserbo assoluto. Quello che sta accadendo a Pavia fa invece scempio delle vite di persone che sono innocenti fino a prova contraria, di presunti attori e comprimari collocati nuovamente sulla scena del delitto. Da settimane si raccontano - sulla base di indiscrezioni, stralci di documenti, nuove consulenze, dichiarazioni di avvocati, esperti o presunti tali - imminenti novità della nuova indagine avviata dalla Procura cittadina. Sono trascorsi 18 anni - era il 13 agosto 2007 - da quando Chiara Poggi fu uccisa nella villetta di Garlasco dove viveva con la famiglia. Le indagini, questo era chiaro sin dalle prime settimane, sono state segnate da ritardi, sbagli, forse anche depistaggi. Inciampi che possono aver pesato in maniera determinante sull’esito dell’inchiesta. La richiesta di revisione presentata da Alberto Stasi non è stata accolta. Ma questo non impedisce che, sulla base di elementi davvero nuovi, si possa avviare una nuova indagine. Il vero nodo riguarda le modalità e i tempi. Il riserbo è indispensabile quando si affronta un caso di questo genere, la cautela è obbligatoria. Non si può, soprattutto a 18 anni di distanza, esporre all’attenzione dell’opinione pubblica le persone alimentando sospetti sul loro conto, senza avere elementi probatori nei loro confronti. E se invece questi elementi ci sono, sarebbe bene renderli noti assegnando ad ognuno l’esatto ruolo che potrebbe aver avuto nel delitto. La legge consente di effettuare una discovery degli atti in momenti cruciali dell’inchiesta. Se quel momento non è arrivato si devono proteggere i nuovi accertamenti, e con essi i destinatari dei provvedimenti, con una riservatezza che non ammette deroghe. Compresa la richiesta di sottoporsi al test del Dna a persone non indagate oppure a rispondere agli interrogatori su elementi che siano stati acquisiti nel corso dei nuovi accertamenti. Migliaia di inchieste sono state segnate - e anche rovinate - dalle fughe di notizie. Ma altre migliaia si sono svolte nel segreto impenetrabile, senza che mai si sapesse nulla di quanto stava accadendo sino a quando i magistrati non hanno deciso se sollecitare un processo oppure l’archiviazione. In queste settimane abbiamo assistito invece a uno spettacolo indecoroso con avvocati che si fronteggiano a favor di telecamera addirittura davanti al palazzo di giustizia oppure utilizzano i social come un qualsiasi influencer, periti che anticipano l’esito delle consulenze, vecchi e nuovi investigatori che veicolano informazioni con il chiaro intento di condizionare gli accertamenti. E forse regolare conti che nulla sembrano aver a che fare con la ricerca della verità. Un “circo mediatico”, orribile definizione, che evidentemente più d’uno ha interesse a foraggiare. È la procura di Pavia a dover fermare questa sceneggiata. Il capo dell’ufficio possiede gli strumenti giuridici per poterlo fare. Anche per non esporre la sua indagine a possibili strumentalizzazioni politiche sul funzionamento della giustizia. Una presa di posizione indispensabile per non far aleggiare l’atroce sospetto che si spari nel mucchio sperando che alla fine qualcuno cada nella rete. Si tratta di un atto necessario per il rispetto che si deve alla vittima di questo omicidio e ai suoi familiari. E per dimostrare che davvero si vuole fare chiarezza. È tempo di separare le carriere tra magistrati e giornalisti di Claudio Cerasa Il Foglio, 29 maggio 2025 Garlasco non è la mela, è l’albero. Si scrive Garlasco, si legge Italia. Sono passate ormai tre settimane da quando uno dei casi di cronaca nera più appassionanti degli ultimi anni è tornato alla ribalta per le ragioni che ormai sapete a memoria, nei dettagli, e probabilmente anche voi in queste ore, come il maestro Bruno Vespa, avrete tirato fuori dalla scatola dei vostri giocattoli il plastico di Garlasco. La storia è quella che conoscete. L’inchiesta sull’omicidio di Chiara Poggi è stata riaperta dopo il ritorno di fiamma dell’impronta numero 33, attribuita ad Andrea Sempio, amico del fratello della vittima. L’impronta si trovava vicino al cadavere, e potrebbe, con un condizionale grande così, contenere tracce di sangue. La difesa di Alberto Stasi, condannato nel 2015, da anni richiedeva nuove analisi proprio su questa impronta. Sempio è indagato per concorso in omicidio, non si è presentato a un interrogatorio e la sua difesa contesta la validità delle prove e denuncia una campagna mediatica contro di lui. I fatti, nudi e crudi, sono questi. Ma attorno a questi fatti c’è un elemento cruciale: il caso Garlasco ha appassionato l’Italia purtroppo per le ragioni sbagliate. Garlasco, da anni, appassiona l’Italia per questioni di voyeurismo, perché tutti con Garlasco, con quella foto di Chiara Poggi che buca lo schermo, con quegli occhi di Alberto Stasi che alimentano sospetti, si sono sentiti, magicamente, come parte di una fiction, ciascuno con il suo pensiero, il suo punto di vista, il suo retroscena, la sua verità storica. Garlasco, come capita spesso con i grandi casi di cronaca nera, e Garlasco in fondo è stato uno dei primi grandi processi mediatici della storia recente del nostro paese, è da anni il ritrovo perfetto di tutti gli avventori del bar sport Italia, che dopo aver cercato fortuna negli anni con lo sport, con il calcio, con la politica, con i vaccini, hanno con la cronaca nera un rifugio sicuro in cui poter sentenziare, in cui poter sentirsi protagonisti, in cui poter affermare la propria verità senza aver bisogno di controprove. A Garlasco, da sempre, vale tutto, vale tutto e il suo contrario, e dopo anni di silenzio il caso è diventato un fenomeno mediatico non tanto per ciò che rappresenta la vicenda giudiziaria nell’economia della giustizia italiana quanto per il fatto che i processi infiniti sono un business infinito e più ci si specializza su un caso più interesse di tutto il carrozzone mediatico vi è nello sperare che quel caso duri il più a lungo possibile: è il mercato, bellezza. Il caso Garlasco però, si diceva, in questi giorni ha fatto parlare per le ragioni sbagliate. Perché il caso Garlasco non è solo una storia di possibile malagiustizia ma è la fotografia dei vizi ricorrenti, li chiamiamo così perché ci sentiamo generosi, della giustizia italiana. Il primo punto, affrontato bene sul Foglio da Riccardo Ravera, uno dei carabinieri che arrestarono Toto Riina, è che la storia di Garlasco ci ricorda una verità che in pochi hanno voluto vedere in questi giorni. Ovverosia che “gli errori giudiziari stanno aumentando perché gli inquirenti partono da tesi precostituite, si innamorano delle proprie idee anziché vagliare tutte le ipotesi, e perché gli investigatori ormai si affidano soltanto alle tecnologie, tralasciando le indagini tradizionali”. Nel caso specifico: la famosa impronta numero 33 è un’impronta vicino al cadavere mai identificata in fase di indagini preliminari e solo dopo anni si è scoperto che potrebbe essere quella di Andrea Sempio. Il secondo punto, anch’esso a lungo trascurato, è che il caso Garlasco mostra la totale assurdità di un sistema che può condannarti, come è stato il caso di Alberto Stasi, anche dopo due assoluzioni in primo e secondo grado, con uno svuotamento assoluto del principio del condannare oltre ogni ragionevole dubbio: si può essere assolti due volte e poi condannati in via definitiva, dunque, orrore assoluto, e come ha detto ieri il ministro Carlo Nordio comunque vada, finirà male, perché o il detenuto è innocente, e allora ha sofferto una pena atroce ingiustamente, o è colpevole e allora è l’attuale indagato a dover affrontare senza colpe un cimento doloroso, costoso in termini di immagine, di spese e di sofferenze. Il terzo punto riguarda la certezza che, comunque andranno le cose, comunque andrà il processo, se davvero dovesse esserci un’altra pista da seguire, tale da smontare quella seguita negli ultimi anni, non vi diciamo quanti per non farvi paura, nessuno pagherà per gli errori giudiziari, nessun consulente risponderà per gli eventuali errori commessi, nessun agente della polizia giudiziaria verrà richiamato all’ordine per gli eventuali errori commessi, nessuno tra coloro che hanno condotto le indagini pagherà dazio per gli eventuali errori commessi. Tutto normale, solo un incidente di percorso, che vuoi che sia, business as usual, signora mia. Il quarto punto, scandalosamente ignorato da molti dei garantisti all’amatriciana che si sono esercitati in questi anni su Garlasco, bravi a denunciare gli orrori della vicenda meno bravi a capire che Garlasco è il riflesso non di una mela velenosa ma di un albero marcio, quello della giustizia italiana, riguarda l’incapacità del sistema giudiziario di criticare se stesso: l’Anm, negli anni, lo avrete notato, ha scelto di commentare ogni errore della politica, errore dal suo punto di vista, arrivando a esondare dal suo ruolo, dalle sue competenze, e ci si chiede quando qualche esponente dell’Anm troverà il tempo di occuparsi non di quello che il potere legislativo vuole fare con il potere giudiziario ma quello che il potere giudiziario potrebbe fare per se stesso per non diventare lo specchio di un sistema irresponsabile e fuori controllo. Il quinto punto riguarda il modo in cui la polizia giudiziaria è diventata, nell’indifferenza assoluta, il dominus delle indagini al punto da aver allontanato sempre di più il pubblico ministero da un dovere scritto nero su bianco all’articolo 358 c.p.p.: il pubblico ministero compie, direttamente o delega la polizia giudiziaria a compiere, ogni attività necessaria ai fini delle indagini, assicurando anche le investigazioni a favore della persona sottoposta alle indagini. Più la polizia giudiziaria conta in un’indagine, meno il magistrato è abituato a fare indagini tradizionali, e più la sua capacità di confutare anche le prove che vanno contro la sua tesi sarà ridotta. L’elemento più importante, però, riguarda un dramma italiano che ha a che fare con il modo perverso con cui nel nostro paese il processo mediatico ha ormai fagocitato il processo tradizionale. La spettacolarizzazione della giustizia e la mostrificazione di un indagato, rendono spesso difficile agli organi giudiziari tornare indietro, a meno di non voler sfidare il mostro del circo mediatico spesso creato da loro stessi, e dall’altra parte il rapporto stretto che esiste, a Garlasco ma non solo, tra organi inquirenti e giornalisti porta spesso ad alimentare un meccanismo di questo tipo: prima i giornali diffondono notizie riservate, poi la procura fa comunicati su quelle notizie, quindi i giornali riprendono il comunicato che riprende le notizie anticipate dai giornali, magari valorizzando bene il volto del magistrato in questione. Risultato: la presunzione di innocenza distrutta, il nuovo indagato diventa un pezzo della coreografia dei talk-show, il principio del ragionevole dubbio viene ancora una volta calpestato e gli innocentisti che hanno passato gli ultimi anni a denunciare la mostrificazione di Stasi si ritrovano a mostrificare a loro volta il nuovo arrivato per difendere colui che considerano essere stato ingiustamente condannato. Il caso Garlasco ha fatto notizia per molte ragioni. Ma forse non per quella principale: l’urgenza assoluta che ha l’Italia di separare, ancor prima delle carriere tra giudice e pm, quelle tra pubblico ministero e giornalista. “Lo condanniamo perché è colpevole, fidatevi”: la sentenza dei record di Errico Novi Il Dubbio, 29 maggio 2025 Appena quindici parole in una pronuncia del Tribunale di Napoli, ora annullata con rinvio della Cassazione. È l’efficienza giudiziaria estrema. Altro che Pnrr, altro che disposition time. Inutile contare i giorni: c’è chi ha trovato il modo di azzerarli. Parliamo del Tribunale di Napoli, che ha emesso una sentenza fulminante, o più semplicemente fulminea. Condanna dell’imputato sulla base della seguente motivazione: “Allo stato degli atti acquisiti emergono elementi probatori tali da consentire una previsione di condanna”. Non c’è scritto pure “fidatevi, è così”, ma il senso è quello. A scovare questo capolavoro di espressionismo giuridico è stato il sempre prezioso Riccardo Radi, avvocato che cura da anni, insieme con Vincenzo Giglio, uno dei blog più seguiti da avvocati, giudici e pm: terzultima fermata.blog. Va riconosciuto, agli inventori del sito, un talento da rabdomanti della rete. Perché di decisioni, fra i vari gradi di giudizio e le diverse procedure, ce ne sono milioni, e non è facile rintracciare, in quel mare, perle simili. Adesso, il caso specifico della pronuncia annullata con rinvio dalla prima sezione penale della Cassazione (con sentenza numero 17902 del 2025, presidente Monica Boni, relatore Raffaello Magi) è davvero impegnativo. Vale la pena di partire dalla sentenza altrettanto concisa - ma non poteva essere altrimenti, c’era poco da aggiungere - emessa lo scorso 11 febbraio dalla Suprema corte. “Sul ricorso proposto da D. D. avverso la sentenza del 04/07/2024 del Tribunale di Napoli, vista la requisitoria del Sost. Procuratore Generale Giuseppina Casella, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso”, il che non sorprende, “ritenuto in fatto” che, con la sentenza impugnata, il Tribunale aveva “affermato la penale responsabilità di D. D. in riferimento al reato di cui all’art. 75 d.lgs. n.159 del 2011”, cioè la violazione dell’obblighi relativi alla sorveglianza speciale, con “condanna alla pena di mesi sei di arresto...” e che “con il ricorso si deduce l’assenza grafica (sic!) di motivazione della sentenza”... Visto tutto questo, appunto, “il ricorso è fondato”. Spiega la Cassazione: “Nel testo della decisione si afferma testualmente che ‘allo stato degli atti acquisiti emergono elementi probatori tali da consentire una previsione di condanna’. Non vi è altro sviluppo argomentativo sul tema della responsabilità e della ricostruzione del fatto. Manca, pertanto, graficamente, la motivazione della sentenza, intesa - ai sensi dell’art. 546 cod. proc. pen. - come concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione dei risultati acquisiti e dei criteri di valutazione della prova adottati e con l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie. L’espressione utilizzata in sentenza non consente, infatti, in alcun modo di apprezzare l’avvenuto vaglio delle risultanze dimostrative poste a carico dell’imputato ed è al di sotto di qualsiasi standard minimo di chiarezza e precisione delle forme di rappresentazione del convincimento giudiziale”. Secondo la prima sezione di piazza Cavour, sussiste dunque “il denunciato vizio ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. c cod.proc. pen., dato che l’assenza grafica di motivazione determina la nullità della sentenza”. E per questi motivi il collegio “annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Napoli in diversa persona fisica”. “Non è un unicum”, osserva Radi, “non dico che casi del genere siano frequenti, ma neanche posso dire che non se siano mai visti. Certo, la storia della sentenza in quindici parole è molto particolare, perché la frase chiave utilizzata dal giudice del primo grado sembra evocare piuttosto il dispositivo del rinvio a giudizio”. E sì: com’è noto, con la riforma Cartabia è stato previsto che il gup disponga il processo solo qualora possa formulare una prognosi di “ragionevole previsione di condanna”. Norma che da una parte rafforza il peso dell’udienza preliminare, la sottrae al desolante rango di mero passaggio di carte, ma che pure può incidere sul libero convincimento del giudice dibattimentale. Il quale, in effetti, a fronte della ragionevole previsione individuata dal collega, potrebbe sentirsi vincolato a condannare a prescindere. Ed è un po’ quello che potrebbe essere avvenuto a Napoli. Anche se sottrarsi all’elaborazione di una pur minima ricostruzione degli elementi emersi nel dibattimento è scelta che va ben oltre il condizionamento prognostico. Resta l’ombra di una giustizia così efficiente da liofilizzarsi, da stilizzarsi. Una sublimazione del processo penale. Lo condanno perché è colpevole, ve lo dico io. In fondo potrebbe trattarsi anche di una tecnica per riportare fiducia nel sistema: la personalità del giudice come garanzia unica e assoluta di una decisione corretta. È il “fidatevi” di cui sopra. O anche quel “e ho detto tutto” di decurtisiana memoria evocato, su terzultimafermata.blog dall’insostituibile avvocato Radi. D’altronde, del grande Totò, Napoli è la patria. Ed è difficile trovare un luogo in cui le lezioni di vita siano più disarmanti. Lecce. Detenuto trovato morto in cella, aperta un’inchiesta: disposta autopsia corrieresalentino.it, 29 maggio 2025 Un fascicolo d’inchiesta sulla morte in carcere di Gianluca Cazzato, un 51enne di Taviano, avvenuta venerdì 23 maggio nel penitenziario di borgo “San Nicola”. La procura di Lecce, pm Maria Vallefuoco, ha disposto l’autopsia sul corpo del detenuto ritrovato privo di vita all’interno della sua cella dopo aver cenato. L’uomo era malato psichiatrico e assumeva delle medicine. Affidato ai servizi sociali si trovava in regime di detenzione domiciliare dove stava scontando una condanna divenuta definitiva ma non avrebbe rispettato le prescrizioni accumulando un numero record di evasioni: ben 35. Viveva un po’ ovunque anche sui treni. E per queste continue violazioni il tribunale di sorveglianza di Lecce gli aveva revocato l’affidamento il 12 aprile. Cazzato era così rientrato in carcere dove è deceduto nei giorni scorsi. Su disposizione della stessa direzione del penitenziario di Lecce, un’informativa sul decesso è stata inviata in procura dove, come atto dovuto, è stato aperto un fascicolo d’inchiesta con l’accusa di omicidio colposo per accertare le cause e fugare ogni dubbio su eventuali responsabilità. Il detenuto, da quel che si sa, non soffriva di patologie particolari e, nei giorni precedenti alla sua morte, non aveva manifestato malesseri particolari che lasciassero presagire un epilogo del genere. Ora l’inchiesta dovrà chiarire i contorni della vicenda e appurare se i soccorsi si siano rivelati tempestivi e rapidi. Bologna. “Il Pratello va chiuso e risanato” di Marcello Benassi incronaca.unibo.it, 29 maggio 2025 Il cappellano del carcere minorile don Cambareri: “Scabbia endemica, il rischio di malattie è alto”. “La settimana scorsa è stata fatta una pulizia generalizzata, che ha aiutato a migliorare le condizioni igieniche e sanitarie della struttura. Ma, allo stato attuale delle cose, è impossibile operare una bonifica completa: bisognerebbe chiudere l’istituto, effettuando dei lavori molto più incisivi”. È netta la posizione del parroco del carcere minorile del Pratello, don Domenico Cambareri, che commenta la situazione denunciata dall’Associazione Antigone e portata all’attenzione della Regione. Nel corso di una visita all’istituto penale, l’ente a tutela dei detenuti aveva infatti rilevato gravissime carenze igienico-sanitarie: dall’immondizia nei corridoi e nelle stanze, ai materassi consunti, passando per le pareti scrostate e l’assenza di arredi idonei. “La scabbia è endemica -conferma il sacerdote - la possibilità di contrarre malattie infettive è altissima”. Un contesto definito di “emergenza umanitaria” anche dall’assessora regionale al Welfare Isabella Conti, come si legge sul “Il Resto del Carlino” di Bologna, in edicola oggi. “L’Associazione Antigone ha fatto riferimento alla situazione di un ragazzo con gravi problemi psichici, rinchiuso in una cella indecente - racconta don Cambareri - devo dire che, finalmente, gli è stato fornito il necessario alla pulizia personale e dell’ambiente in cui vive. In più, si sta lavorando per trovare un’alternativa al carcere, magari in una struttura di riabilitazione psichiatrica”. Per i quarantanove detenuti, il contesto resta però esplosivo e il cappellano ribadisce la necessità di risorse utili alla rieducazione. “Come ho già affermato più volte, i minori stranieri non accompagnati sono la comunità più abbandonata dell’Occidente - dice - e la collettività deve assumersi la responsabilità di queste fragilità. Tante volte, si tratta di giovanissimi con problemi di salute mentale, gli istituti penitenziari non sono i luoghi adatti a gestirli”. Valutazioni, quelle espresse da don Cambareri, condivise da Ilaria Gamberini, consigliera di quartiere Porto-Saragozza. “Le condizioni in cui versa il carcere riguardano anche il quartiere - sostiene - al di fuori della struttura, c’è una socialità incredibile mentre l’istituto penitenziario versa in uno stato di degrado disumano. Per questo, ci siamo impegnati nella costituzione di un osservatorio dedicato alla questione”. Il tavolo permanente ha la funzione di raccogliere fondi per il reperimento di arredi idonei, nonché l’organizzazione di attività e progetti indirizzati ai giovani detenuti. “Ciò che accade dento il carcere riguarda tutti - afferma Gamberini - esattamente come la costruzione della linea del tram: quest’ultima, però, è sentita dalla cittadinanza come una questione primaria, mentre i problemi del penitenziario minorile sono perlopiù percepiti nei termini di un affare circoscritto. Non è così, perché verosimilmente i giovanissimi detenuti prima o poi usciranno”. E a proposito della condizione igienico-sanitaria precaria, la consigliera non nasconde il proprio sconcerto: “Ci aspettavamo che esistessero delle criticità gravi, ma non fino a questo punto. Sapevamo di un solo caso di scabbia, non immaginavamo che fosse endemica. È fondamentale che l’attenzione dei cittadini resti alta”. Forlì. Garante detenuti negato, Centrosinistra: “Prevale la linea dura di FdI contro i diritti umani” sestopotere.com, 29 maggio 2025 Ieri la mozione del centrosinistra che proponeva l’istituzione del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale a Forlì è stata trattata a dibattito ed è stata bocciata dal centrodestra. Sul tema intervengono con una nota congiunta tutte le forze politiche d’opposizione. “La mozione chiedeva alla giunta di avviare un percorso che portasse all’istituzione del Garante, fatto di confronti con istituzioni, associazioni e tutte le parti interessate. Il Garante è una figura terza, prevista dalla legge, che opererebbe non solo a tutela dei detenuti nella casa circondariale di Forlì, ma di tutti coloro che sono privati della libertà, ad esempio persone sottoposte a Tso, i migranti nei Cpr e i minori in comunità e, non ultimo, della casa circondariale e del suo personale. I consiglieri di maggioranza hanno cercato di giustificare la propria opposizione alla mozione nascondendosi dietro a non meglio specificati approfondimenti, che potevano essere svolti anche in queste settimane dal momento che la mozione è stata presentata il 25 marzo scorso”: affermano i gruppi consiliari del Partito Democratico, di Rinnoviamo Forlì, del Movimento 5 Stelle e di Alleanza Verdi Sinistra. “Il dibattito di ieri ha chiaramente messo in luce la netta contrarietà di Fratelli d’Italia all’esistenza stessa di una figura di tutela dei diritti dei detenuti, i cui consiglieri si sono spinti addirittura a sostenere che il garante potrebbe essere persino dannoso. Siamo i primi a sostenere che all’interno della casa circondariale di Forlì ci siano validi progetti che valorizzano la funzione socio rieducativa della pena, coinvolgendo il Comune, enti di formazione e realtà associative e imprenditoriali, ma siamo altrettanto fermamente convinti che l’istituzione del Garante sia una tutela aggiuntiva che nulla toglie a quanto di buono già si fa”: aggiungono i consiglieri comunali di opposizione. “Come opposizione siamo estremamente rammaricati, non solo dalla posizione di Fratelli d’Italia, che per giustificarsi ha provato ad accusarci di non avere fiducia nell’istituzione carceraria e neppure nei processi rieducativi per i detenuti. Al contrario, crediamo proprio sia un vantaggio per l’intera collettività, visto che, statistiche alla mano, la formazione e l’inclusione di queste persone contribuiscono ad azzerare i casi di recidiva tra coloro che hanno scontato la pena. Politicamente, ci sorprende e rattrista l’allineamento a queste posizioni di tutto il resto della maggioranza - ad eccezione della Lega non presente in aula -, che ha votato contro la mozione senza nemmeno avere il coraggio di assumersi le proprie responsabilità alla luce del sole ma nascondendosi dietro la necessità di approfondire, prima, in commissione”: è l’accusa di Partito Democratico, Rinnoviamo Forlì, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi Sinistra. “Un vero ribaltamento della realtà: la mozione non imponeva l’immediata istituzione del garante, ma dava avvio al percorso istituzionale che avrebbe portato la giunta a formulare una proposta, passaggio fondamentale per portare la discussione nelle commissioni e poi alla vera e propria istituzione del Garante. Quanto accaduto solleva molti interrogativi sulla coerenza dello stesso Sindaco Zattini, silente ieri in Consiglio ma sostenitore del valore rieducativo delle pene carcerarie in occasione della bella iniziativa organizzata pochi giorni fa dall’associazione Amici di Don Dario. Presente in aula, ieri, durante il dibattito, non ha dato cenno di dissenso rispetto alla linea di chiusura imposta da Fratelli d’Italia e seguita dalla maggioranza. Ancora una volta è venuta alla luce la vera natura, estrema e radicale, della della destra al governo della città, contro cui non ci stancheremo mai di batterci a tutela dei diritti umani e civili di tutte le persone”: concludono i gruppi consiliari comunali del centrosinistra, più M5S. Firenze. “Sarò una sentinella sul carcere e un ponte per i detenuti” novaradio.info, 29 maggio 2025 Il neo-Garante dei detenuti Parissi: “Dalla salute al lavoro, il carcere deve aprirsi alla città”. Una “sentinella” sulle condizioni di Sollicciano e delle altre carceri fiorentine, “per segnalare problemi e proporre soluzioni”, e un “ponte” tra i detenuti e l’esterno, per cercare di creare e rafforzare i collegamenti tra dentro e fuori le mura, per potenziare le opportunità per i detenuti in termini di percorsi di uscita, reinserimento e sostegno al momento del ritorno in libertà. È così che intende interpretare il proprio mandato Giancarlo Parissi, nuovo garante dei detenuti di Firenze, che è stato stamani ospite degli studi di Novaradio per una puntata speciale della rubrica “Il cielo e la stanza”. Eletto nei giorni scorsi a maggioranza dal Consiglio Comunale di Firenze, Parissi ha una lunga esperienza nel campo in materia carceraria, ed in particolare della situazione delle carceri fiorentine: nel 1992 è tra i fondatori del Ciao - Centro informazione ascolto orientamento, associazione impegnata promuovere una possibilità di accesso e integrazione sociale e a un ruolo di cittadinanza anche per le persone ai margini della comunità, e ancor prima è stato a lungo responsabile per Arci Toscana dei progetti per il carcere, tra cui il progetto “Scarcerarci”. “A dispetto di quel che si pensa delle istituzioni, il garante ha pochi poteri se non quelli ispettivi, e di segnalazione” dice Parissi, che proprio da questo intende partire: dal ruolo di “sentinella” dei problemi dei detenuti e proporre soluzioni. “Conosco Sollicciano da operatore, vorrei cominciare dal semplice, da una possibilità di approccio con le persone detenute più agile”. La prima? Dare una pulizia sistemata alla sala colloqui delle “ex Barberie” di Sollicciano dove, spiega Parissi, i detenuti fanno incontri anche importanti, ma in cui talvolta mancano tutto “dalla pulizia, alla presenza di un tavolo o due sedie, cosa che non è affatto garantita”. Ci sono poi i noti problemi strutturali del carcere: fatiscenza dei locali, sovraffollamento, infiltrazioni e infestazioni. E il dibattito sull’abbattimento/ricostruzione del carcere, su cui Parissi si dice scettico: “Non ci credo moltissimo” dice. “Per quanto riguarda le cose strutturali, è difficile essere ottimisti”, al massimo “il garante può fare notare alcune macro-criticità”. Anche al minorile, l’IPM Meucci, i problemi non mancano: “Da una capienza di 16-17 posti letto siamo ad una presenza che supera la trentina. Giovani che entrano minorenni, e che quando diventano maggiorenni arriva lo spauracchio del trasferimento” nelle carceri per adulti, come prevedono gli ultimi provvedimenti del governo: “I decreti continuano a ritenere che punire sia l’unica possibilità per chi ha sbagliato - dice - ma la punizione si può fare anche accompagnando ad una opportunità di riscatto”. Altro tema caro a Parissi, sarà quello di impegnarsi per rafforzare i servizi a sostegno dei reclusi. Dentro il carcere e durante la detenzione, ad esempio con i servizi di assistenza sanitaria e psichiatrica. Non meno del 30% dei detenuti ha problemi psichiatrici, da inizio anno sono già due i suicidi, mentre gli atti di autolesionismo sono all’ordine del giorno: “Bisogna lavorare per far dialogare la sanità dentro e fuori dal carcere, e risolvere il problema dei malati che, seguiti con una terapia in carcere, quando escono si trovano in mano qualche pillola e nessuna assistenza, dato che non sono in carico alla sanità territoriale”. All’esterno, l’attenzione sarà ai percorsi di uscita, semilibertà e soprattutto al momento del ritorno in libertà: “Chi esce da Sollicciano si trova davanti ad un deserto, con il rischio di recidiva. Lavorerò con il Comune per provare a riorganizzare una sorta di ‘kit di uscita’, che però funzioni. L’importante è che venga spiegato alle persone dove andare, con chi parlare. Una proposta di accompagnamento, di tutela, di garanzia di diritti. C’è poi il tema dei detenuti stranieri senza permesso di soggiorno, “che è la maggioranza delle presenze a Sollicciano”, che una volta usciti diventano “irregolari alla disperata ricerca di lavoro”. C’è il nodo “enorme” della concessione della residenza perché “chi si occupa dei permessi di soggiorno son le Questure, che “affrontano sempre di più il problema come un problema di sicurezza, e questo chiude le porte. E sul rapporto sulle Questura io, sebbene con poca speranza di arrivare all’ultimo portone, un tentativo lo farò”. Forlì. Open day in carcere: “Il lavoro aiuta i detenuti a non ripetere gli errori” di Paola Mauti Il Resto del Carlino, 29 maggio 2025 La Casa circondariale ha aperto le porte alla città per far conoscere i corsi di formazione professionale realizzati grazie a 15 imprese del territorio. La Casa circondariale di Forlì, ieri, ha aperto le sue porte. In un immaginario percorso dentro-fuori all’insegna dell’inclusione, la città e il territorio sono stati invitati ad entrare nel carcere per visitare, in particolare, i laboratori preposti alla formazione professionale e alle attività lavorative dei detenuti e delle detenute. L’esperienza, che il prossimo anno festeggerà il suo ventennale, nasce da diversi accordi e protocolli d’intesa che, nel tempo, ha raccolto le firme di 15 imprese del territorio, delle maggiori associazioni sindacali e datoriali, oltre alle amministrazioni penitenziaria e della giustizia minorile. Firmatarie sono anche molte amministrazioni comunali, diverse istituzioni ed enti preposti alla formazione professionale e l’Ausl Romagna. Lo scopo dell’iniziativa e dei diversi progetti in cui si è concretizzata negli anni è favorire l’inserimento lavorativo e sociale delle persone recluse, con particolare attenzione a quelle che sono vicine al termine della pena. E fiore all’occhiello dell’esperienza sono considerati i quattro laboratori di assemblaggio, saldatura ed etichettatura, nati grazie alla collaborazione dell’impresa sociale ‘Altremani’, che raccoglie diverse realtà imprenditoriali del territorio e che fornisce alla Casa circondariale le commesse di lavoro. Gestiti dalla società di formazione Techne, che si occupa, tra l’altro, della selezione delle persone da impiegare, presentano diversi problemi logistici, legati agli spostamenti dei detenuti all’interno della struttura, ma hanno una forte valenza formativa. E sono particolarmente apprezzati dai detenuti, che hanno il compito di seguire dei precisi protocolli tecnici forniti dalle aziende committenti. “Dobbiamo imparare a seguire le fasi del lavoro - dice Cristian, un detenuto - . Ci dividiamo il lavoro, in modo che tutti, a rotazione, impariamo tutto quello che c’è da fare. È nostro interesse non litigare e il lavoro ci tiene la testa occupata”. La direttrice Carmela De Lorenzo ha ringraziato i partecipanti e le autorità presenti all’evento: “È una giornata importante perché queste attività non sono scontate, sono il frutto della collaborazione di tanti soggetti. Far acquisire un mestiere ai reclusi costituisce il modo migliore perché il tempo della detenzione non sia inutile. Inoltre - ha concluso De Lorenzo - il lavoro può diventare un percorso di consapevolezza e maturazione, che consente di non rifare gli errori del passato”. Dello stesso parere il prefetto Renato Argentieri: “La recidiva è più bassa se il detenuto lavora - afferma -, e questo costituisce un interesse per tutta la comunità”. Per il vescovo Livio Corazza “è importante aiutare i detenuti, sia in carcere, sia fuori”. E ha fatto riferimento all’impegno in questo senso del cappellano don Enzo. Per l’amministrazione comunale erano presenti il sindaco Gian Luca Zattini e le assessore Paola Casara e Angelica Sansavini. Tra le altre autorità intervenute, il Comandante provinciale dei carabinieri Samuele Sighinolfi, il Provveditore regionale Silvio Di Gregorio, il questore Claudio Mastromattei, il comandante dei Vigili del Fuoco Michelangelo Borino, il comandante provinciale della Guardia di Finanza Vito Pulieri e il comandante Caps (Centro di Addestramento Polizia di Stato di Cesena) Stefano Dodaro. Torino. Tagli a scuole in carcere, i docenti: “Grave, è l’unico modo per i detenuti di cambiar vita” di Chiara Sandrucci Corriere di Torino, 29 maggio 2025 Oggi, venerdì 29, il presidio per fermare il ridimensionamento: “La scuola è un diritto. Ovunque. Per tutti”. In carcere si può prendere il diploma di terza media con il Cpia1, frequentare tre diversi indirizzi di scuola superiore e anche laurearsi grazie al Polo Universitario per studenti detenuti, attivo dal 1998. Non è facile, ma finora alla casa circondariale Lorusso Cutugno di Torino è stato possibile frequentare la sezione dell’istituto professionale Plana, presente fin dal 1953, che rilascia la qualifica regionale di “Operatore del legno”, il Primo liceo artistico o l’istituto di istruzione superiore Giulio, indirizzo socio sanitario. Non sempre si riesce a completare il ciclo di studi, ma chi ce la fa ha accesso all’esame di maturità. Il corso del liceo artistico è aperto in particolare a detenuti “sex offenders”, selezionati tramite un bando nazionale in tutta Italia. Alle Vallette interi corridoi sono tappezzati da opere realizzate da loro. L’istruzione per adulti funziona allo stesso modo ovunque, sia nelle scuole serali che nelle sezioni carcerarie. È suddivisa in tre periodi didattici, il primo che corrisponde al biennio, il secondo al terzo e quarto anno e l’ultimo che si conclude con la maturità. Un’offerta che verrà ridimensionata a causa dei tagli all’organico. “Lo scorso anno il Primo aveva 5 classi, quest’anno ne abbiamo autorizzate 3, ma ci saranno altre ore a disposizione per garantire sia il primo che il secondo anno”, spiega Stefano Suraniti, direttore dell’Ufficio scolastico del Piemonte. “Non è vero che abbiamo azzerato il biennio: da un punto di vista dell’organico è come se ci fosse una classe in meno, ma con le risorse assegnate si può far funzionare il primo periodo didattico che comprende primo e secondo anno”. Il taglio lineare all’organico che penalizza le scuole serali e le sezioni carcerarie torinesi deriva a sua volta dalla legge di bilancio che ha previsto la decurtazione a livello nazionale di 5.660 posti, di cui 300 in Piemonte. I corsi serali, così come le sezioni carcerarie, non sempre possono contare su una frequenza regolare degli alunni. In carcere, ad esempio, capita spesso che i detenuti vengano trasferiti. Ma secondo i docenti che lavorano ciò non giustifica i tagli. “La riduzione delle classi e del numero di insegnanti rappresenta una grave violazione del diritto allo studio per le persone detenute, diritto riconosciuto dalla Costituzione e dalla normativa nazionale e internazionale”, fanno presente i docenti del Primo che si appellano al ministero dell’Istruzione. “Studiare in carcere è spesso l’unico strumento reale per ricostruire un futuro diverso, per non tornare a delinquere, per reintegrarsi nella società. Colpire la scuola penitenziaria significa colpire l’intera collettività. La scuola non può essere una parentesi, né un privilegio. Deve essere un diritto. Ovunque. Per tutti”. Cremona. “Un passo oltre”: l’impegno civico per la riabilitazione dei detenuti di Claudio Gagliardini diocesidicremona.it, 29 maggio 2025 Prospettive ed esperienze nell’incontro promosso dal Masci. Il tema del reinserimento sociale dei detenuti, raccontato attraverso diverse prospettive ed esperienze, è stato al centro della serata promossa dal Masci di Cremona nella serata di martedì 27 maggio all’oratorio di Cristo Re, a Cremona. Il terzo e ultimo incontro di un ciclo di conferenze sul tema “Vivere e pensare il carcere”. Il focus dell’ultima serata - dal titolo “Un passo oltre: l’impegno civico per la riabilitazione e il reinserimento dei detenuti. Le misure alternative alla pena” - è stato il reinserimento dei detenuti, grazie agli spunti di riflessione offerti da Mara Sperati della Cooperativa Nazareth, agente di rete della casa circondariale di Cremona, Enzo Zerbini, della Cooperativa sociale Il Calabrone, e del direttore di Caritas Cremonese don Pierluigi Codazzi. Mara Sperati ha messo in evidenza le difficoltà che i carcerati affrontano durante la loro detenzione, ma ancor più l’incertezza del momento del fine pena: “quel giorno in cui la persona sarà pronta, e qui occorre mettere un punto di domanda, per varcare il cancello del carcere e tornare alla vita normale. Ma quale vita? Spesso il pensiero che si ha da dentro è non più la vita di prima, ma quindi quale vita?”. Sperati ha evidenziato l’importanza cruciale del reinserimento sociale e lavorativo per ridurre la recidiva, ma ha anche sottolineato che il lavoro da solo non basta senza un contesto di relazioni supportive e un cambiamento profondo nella persona, che può avvenire soltanto attraverso un percorso equilibrato, in cui casa e lavoro siano prerequisiti fondamentali, non obiettivi ultimi e unici. I detenuti, infatti, soprattutto quelli di lungo corso, hanno sperimentato anni in cui qualcuno decideva per loro qualsiasi cosa, anche i gesti più semplici, come una visita dal dentista o una telefonata a un familiare. Una vita fatta di richieste di permesso, di lunghe attese, della speranza di poter ottenere in tempi brevi ciò che è più urgente, ma che comunque non dipende dalla propria volontà, ma dalla burocrazia carceraria e dalle proprie regole. Al momento della scarcerazione - ha evidenziato l’operatrice della Cooperativa Nazareth - devono riabituarsi a decidere, a scegliere, a occuparsi di se stessi, oltre che non ricadere negli stili di vita che li avevano portati a delinquere. Ed è per questo - ha detto Mara Sperati - che per fare reinserimento non basta il contributo delle cooperative e degli enti che lavorano in sinergia con le Istituzioni, ma “serve l’impegno di tutti: non solo chi di chi lavora in questo campo, ma anche della comunità”, come a seguire ribadiranno anche Zerbini e Codazzi. Toccante l’intervento di Enzo Zerbini, che con la moglie e i tre figli porta avanti l’esperienza della casa-famiglia “Madre Teresa di Calcutta”, attiva dal 1996 a Fiorenzuola d’Arda. Da allora in quella casa sono passate oltre 90 persone, tra le quali bambini in affido, ex detenuti, tossicodipendenti, prostitute e altri soggetti fragili e bisognosi del calore e della sicurezza di una famiglia. “In casa sperimentiamo la ricchezza della complementarietà, delle differenze e tocchiamo con mano le problematiche, le difficoltà, i problemi del vissuto di queste persone. Li viviamo come una risorsa, come qualcosa da portare avanti in cui ognuno arricchisce l’altro. Attualmente siamo in 12, la più piccola ha 10 anni, la più grande è la nonna, che ne ha 87”. Un’esperienza che certamente non è all’altezza di tutti, ma che dimostra in modo lampante che i limiti e i freni sono dentro ciascuno di noi, non nelle persone che tutti possono aiutare e accogliere, anche solo per un po’ e non necessariamente in casa propria, ad esempio aiutando chi lo fa o mettendosi in gioco con tutta la propria comunità. Zerbini ha raccontato molti episodi. Esperienze che non bisogna temere, perché in quasi 30 anni di attività il bene che la casa famiglia ha fatto supera di gran lunga qualsiasi delusione, fatica e sofferenza patita. “C’è un detto che dice: “Se senti il dolore sei vivo, se senti il dolore degli altri sei umano”. Ecco, io penso che il “confine” sia proprio qui, nel sentire il dolore dell’altro” e nel farlo proprio, adottandolo e facendo il possibile per curarlo. Zerbini è anche presidente della Cooperativa Il Calabrone. Un’officina meccanica di precisione che a Cremona, sulla Castelleonese, ha fatto dell’inclusione il suo punto di forza, puntando sulla tecnologia e sull’innovazione. Un’esperienza di reinserimento lavorativo la cui missione non è quella di dare un’opportunità a chi ne ha bisogno, ma fare di persone con fragilità delle risorse fondamentali, che fanno crescere l’azienda e ne aumentano il valore. Quella che può sembrare una mera utopia in questa cooperativa diventa un modello. “Credo che noi siamo chiamati a bilanciare e a generare uguaglianza. Questa è la nostra chiamata - ha sottolineato ancora Zerbini -. La cooperativa nasce per dare risposta agli adulti che sono in casa famiglia. Quando arriva un tossicodipendente, un detenuto o anche magari un ragazzo problematico, trovare lavoro è una cosa incredibile e fondamentale. Qualche mese fa ero in Piemonte a un convegno. In Piemonte ci sono 2.500 posti che le aziende dovrebbero destinare a persone svantaggiate e che invece sono vacanti, perché si preferisce pagare le multe. Capite? Questo è un problema culturale. Il primo problema è l’accoglienza, il secondo è quello del lavoro che ridà dignità, che aiuta la persona a trovare una la autonomia”. Per il reinserimento e mettere in campo misure alternative alla pena non basta l’impegno eccellente di alcuni. Lo ha sottolineato il direttore della Caritas diocesana, da sempre in prima linea su questo versante. Don Codazzi ha invitato ad “accogliere chi deve fare dei lavori socialmente utili e rimetterlo in gioco. Accogliere qualcuno per un periodo magari di qualche mese, in un appartamentino, per fare un percorso verso l’autonomia”. “Potrebbe diventare concretamente il segno di una comunità intera che si mette in gioco rispetto al tema, molto più ampio e complesso della giustizia”, se la comunità non si limita a mettere a disposizione una casa, ma accoglie davvero e cerca di fare vera inclusione. Quando questo accade e le persone sono davvero reinserite e riabilitate, la percentuale di recidive crolla da tassi che sfiorano il 60-70% a mere eccezioni, che possono addirittura attestarsi poco oltre il 20%. Ecco perché, oltre alla leva dell’umanità, il senso di un impegno concreto da parte della società e delle sue comunità è anche quello di abbassare i rischi legati alla criminalità di ritorno, che rende l’esperienza carceraria inutile e meramente contenitiva e punitiva. Cremona. “La legge è uguale per tutti?”, le borse di studio nel segno della giustizia di Francesca Morandi laprovinciacr.it, 29 maggio 2025 Premiati trentadue studenti e due detenuti con una menzione d’onore. I candidati, negli elaborati, hanno analizzato pene, carcere e riforme, ma anche disuguaglianze sociali e culturali. C’è chi ha esaminato casi, italiani ed esteri, di “errori giudiziari”, chi ha condannato, senza appello, “i processi mediatici, trappole in cui non cadere”, perché “suggestionano, fanno sensazionalismo”. Chi ha fatto interviste per strada. Riflessioni su giustizia, pene, carcere e riforme, ma anche sguardi attenti su disuguaglianze sociali e culturali “che spesso si riflettono in modo significativo sull’applicazione della pena”. L’articolo 3 della Costituzione per faro: ‘Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali’. ‘La legge è uguale per tutti?’. Per molti no, per altri sì, ma con riserva. È la sentenza emessa dagli studenti che hanno partecipato al tradizionale bando della Camera penale di Cremona e Crema ‘Sandro Bocchi’, presieduta da Micol Parati. Bando esteso ai detenuti nel carcere di Ca’ del Ferro. Trentadue studenti e due detenuti hanno vinto le 17 borse di studio. E c’è una menzione d’onore. Ore 11 di oggi, aula polifunzionale del Tribunale. Qui, come in ogni aula dove si celebrano i processi, campeggia la scritta ‘La legge è uguale per tutti’, frase solenne che ha ispirato il tema del bando di quest’anno con punto di domanda. Qui si è tenuta la cerimonia. Un gran lavoro hanno fatto gli avvocati Marilena Gigliotti e Caterina Pacifici, le esaminatrici dei testi. “Dalla lettura degli elaborati e dai contributi multimediali è emerso che l’opinione comune è quella che la legge non sia uguale per tutti, o meglio, che lo sia da un punto di vista teorico, ma che poi nell’applicazione pratica si perda in pastoie burocratiche - spiega Gigliotti -. I ragazzi hanno citato casi di cronaca giudiziaria molto noti e anche alcuni molto risalenti nel tempo, ma che, evidentemente, sono risultati molto significativi. Molto anche il senso di equilibrio riscontrato negli elaborati: non abbiamo letto alcuna polemica. Anche quando sono state denunciate criticità del sistema giustizia, gli studenti hanno sempre mantenuto un grandissimo equilibrio e così pure hanno fatto i detenuti”. Aula piena di studenti, insegnanti, nonni e genitori. I detenuti erano collegati dal carcere. Con i vincitori si sono complimentati il presidente della sezione penale Guido Taramelli, il procuratore della Repubblica, Silvio Bonfigli, il presidente dell’Ordine degli avvocati, Alessio Romanelli, e Maria Luisa Crotti, presidente della Camera penale della Lombardia orientale. Venezia. Ospite d’eccezione al carcere: Willem Dafoe incontra i detenuti di Adamo Chiesa lapiazzaweb.it, 29 maggio 2025 L’attore assiste a uno spettacolo realizzato dai detenuti, annunciando l’intenzione di avviare laboratori permanenti nella struttura. Il carcere di Venezia è stato protagonista di una giornata davvero singolare, dove l’attore americano Willem Dafoe, noto per i suoi ruoli iconici e attuale presidente della Biennale Teatro, ha incontrato i detenuti dell’istituto penitenziario. Accompagnato da Pierangelo Buttafuoco, presidente della Biennale di Venezia, Dafoe ha partecipato a una visita intensa e significativa, culminata nell’assistenza a una breve rappresentazione teatrale messa in scena dalla compagnia interna, diretta dal regista e pedagogista Michalis Traitsis. La rappresentazione, parte di un progetto trattamentale volto al recupero e alla formazione dei detenuti, ha colpito profondamente l’attore, che ha definito lo spettacolo “vero teatro”, sottolineando come a volte la più autentica espressione artistica si trovi lontano dai circuiti commerciali. Dafoe ha espresso il desiderio di tornare presto per condurre personalmente laboratori teatrali rivolti ai detenuti, confermando l’importanza dell’arte come strumento di riscatto e inclusione. Parallelamente, Pierangelo Buttafuoco ha annunciato l’intenzione di avviare un progetto stabile all’interno del carcere, destinato a diventare uno spazio permanente per la sperimentazione teatrale e gli incontri culturali. L’obiettivo è creare un polo dedicato ad eventi, ospiti e percorsi formativi, grazie alla riconversione di un’area inutilizzata dell’istituto. Il progetto, sostenuto dalla Biennale di Venezia, mira a ospitare personalità di rilievo nazionale e internazionale, ampliando così le opportunità di dialogo e crescita per la comunità carceraria. Durante la visita, a Willem Dafoe è stata consegnata una scultura realizzata da un appartenente alla Polizia penitenziaria. L’opera raffigura il ‘Goblin’, celebre personaggio interpretato dall’attore nel film “Spiderman”, nell’atto di aprirsi il petto per mostrare una maglia con la scritta “Polizia Penitenziaria”. Alla base, la frase “Everyone can change” sintetizza un messaggio universale di trasformazione e speranza, cuore pulsante della missione educativa dell’istituto. Il direttore del carcere, Francesco Farina, ha voluto ringraziare con sincerità la Biennale, le istituzioni e tutte le realtà coinvolte nei progetti di recupero, definendo l’istituto “un luogo dove la bellezza dialoga con la sofferenza” e dove arte e cultura rappresentano veicoli fondamentali di rinascita, umanità e inclusione sociale. Cambio di rotta, Frontex si può giudicare di Agostina Pirrello Il Manifesto, 29 maggio 2025 La retorica del male minore suona particolarmente irritante quando si tratta di diritti fondamentali: morire in mare o essere sottoposti a tortura il Libia non devono essere due opzioni tra cui scegliere. “I nostri colleghi ellenici hanno fatto del loro meglio per salvare vite” dichiarava all’indomani del naufragio di Pylos Hans Leijtens, direttore esecutivo dell’agenzia Frontex. L’affermazione di Leijtens è ora messa in dubbio dagli inquirenti greci, che la settimana scorsa hanno aperto delle indagini sulla condotta di diciassette funzionari della guardia costiera per la morte di oltre 600 persone annegate al largo del Peloponneso nel giugno 2023. Recentemente Leijtens ha anche rotto la longeva reticenza delle autorità coinvolte nei salvataggi nel Mediterraneo centrale, dichiarando ad Euronews: “Io non voglio che le persone vengano riportate in Libia, ma questa è l’unica cosa che possiamo fare”. Che tutto d’un tratto Leijtens abbia voluto renderci partecipi dei suoi dilemmi etici sulla Libia appare quantomeno sospetto. L’improvvisa crisi di coscienza potrebbe essere spiegata dalle ultime vicende giudiziarie che hanno coinvolto l’agenzia. Due settimane prima dell’intervista, infatti, la Corte di Giustizia dell’Ue ha chiesto per la prima volta a Frontex di presentare una propria difesa sul merito in un ricorso presentato da un richiedente asilo sudanese bloccato in Libia a causa di Frontex. Il richiedente asilo, assistito dalle ong Front-Lex e Refugees in Libya, accusa Frontex di non consentirgli di raggiungere un luogo sicuro in cui possa non essere sottoposto a gravi crimini contro l’umanità. Frontex trasmette infatti regolarmente informazioni sulle imbarcazioni di rifugiati nel Mediterraneo centrale alla Guardia Costiera Libica, senza rendere pubblici i dettagli e la frequenza di questi scambi. Recentemente, il direttore esecutivo ha ammesso che negli ultimi tre anni sono state fornite ai libici circa 2.200 localizzazioni di imbarcazioni di rifugiati, ai danni di decine di migliaia di persone. Il richiedente asilo che si è rivolto alla corte in Lussemburgo sostiene infatti che se la sua situazione in Libia è insostenibile, la sorte di chi viene recuperato in mare dai libici con l’assistenza di Frontex è ancora peggiore: come ormai ampiamente documentato, i richiedenti asilo scoperti in fuga dalla Libia vengono arbitrariamente detenuti e diventano vittime delle peggiori atrocità quali sparizione forzata, tortura, schiavitù, violenza sessuale, stupro e altri atti disumani. La decisione presa in Lussemburgo di non dichiarare inammissibile il caso del richiedente sudanese segna un passo decisivo nel tentativo della società civile di rendere imputabile l’agenzia. Finora, tutte le azioni presentate contro le omissioni di Frontex erano state dichiarate inammissibili prima ancora di essere esaminate nel merito. Questo cambio di rotta da parte della Corte potrebbe essere stato influenzato da un altro caso recentemente discusso in Lussemburgo e che verrà deciso alla fine dell’anno, in cui un richiedente siriano ha chiesto un risarcimento danni a Frontex per non essere intervenuti mentre il richiedente veniva messo su una zattera e lasciato alla deriva nel mar Egeo dalle autorità greche. Nel tentativo di giustificare le scelte operative della sua organizzazione, Leijtens dichiara: “Noi dobbiamo informare il Maritime Rescue Coordination Center, e se questo si trova in territorio libico, sono i libici che devono assumersi la responsabilità, e lo fanno”. Interrogato sul perché Frontex non informi esclusivamente le ong, Leijtens risponde che questo significherebbe giocare con la vita delle persone a rischio di annegare. “Non mi piace che le persone vengano riportate in Libia, ma preferisco salvare vite”, continua Leijtens nell’intervista. La retorica del male minore suona particolarmente irritante quando si tratta di diritti fondamentali: morire in mare o essere sottoposti a tortura il Libia non devono essere due opzioni tra cui scegliere. E di fatto non lo sarebbero, dato che - come sottolineato da Iftach Cohen di Front-Lex - Frontex è obbligata, secondo il suo Regolamento, a rispettare i diritti fondamentali delle persone migranti in ogni sua azione. Leijtens sostiene di dialogare con le ong e afferma che queste siano, come Frontex, “parte dell’ecosistema”. Ma restando nella sua metafora naturalistica, Frontex al momento non può presentarsi come un qualsiasi abitante dell’ecosistema, bensì come parte dello stesso branco del predatore. Siria. Dagli occidentali scomparsi ai misteri legati agli Assad: i segreti di Damasco di Guido Olimpio Corriere della Sera, 29 maggio 2025 Adesso il Paese, dopo la caduta del regime, in cambio della fine delle sanzioni e di un supporto economico può offrire molte risposte. Gli ex ribelli siriani hanno in mano un tesoro: i segreti di Damasco. Pile di documenti dei servizi degli Assad, funzionari del regime che possono raccontare ciò che hanno sentito e visto. Un bottino. Poi c’è l’altro filone, più recente: il destino di tanti scomparsi nel conflitto. I nuovi dirigenti hanno offerto alla Casa Bianca piena collaborazione per fare luce sulla sparizione di Austin Tice, il giornalista americano rapito nell’estate del 2012 alle porte della capitale. Forse catturato da una milizia governativa, pista che non esclude del tutto la responsabilità di un gruppo “radicale” A questo caso si aggiungono i drammi di altri protagonisti di vicende crude. Gli Stati Uniti vogliono recuperare le spoglie di Kayla Mueller, un’operatrice umanitaria catturata dai jihadisti nel settore di Aleppo nel 2013: secondo una ricostruzione diventata la “schiava” del Califfo al Baghdadi e in seguito assassinata. Un’altra indagine riguarda Majd Kamalmaz, psicologo statunitense d’origine siriana bloccato dai soldati nel 2017. Uno dei tanti civili inghiottiti dalla guerra. La lista - Sarebbero almeno 11 i nomi inseriti in una lista passata a Washington, file sui quali gli ex guerriglieri si sono messi al lavoro. Non da soli. Il Qatar, Paese in grande sintonia con The Donald, ha messo a disposizione i suoi uomini per una ricerca nelle zone una volta in mano ai tagliagole del Califfato, azione condotta tenendo informato l’Fbi. Ed è così che, dopo una serie di perlustrazioni, sono arrivati ad alcune fosse comuni nel Nord del Paese, tombe dove sarebbero finiti i corpi di numerosi prigionieri, anche occidentali. Erano le pedine in mano ai terroristi, persone eliminate in esecuzioni filmate dai militanti per esercitare pressioni, lanciare ricatti, portare avanti la strategia dell’orrore. Tornano alla mente momenti brutali, gesti feroci costati la vita ai reporter James Foley e Steven Sotloff - entrambi americani - o a Peter Kassig, membro di un’associazione che aiutava la popolazione. Ma anche il britannico John Cantlie, trasformato dai suoi aguzzini in uno strumento di propaganda, costretto a girare filmati con la versione dell’Isis. L’ultimo dato certo sulla sorte risale al 2016, poi un’infinità di indiscrezioni, compresa quella della sua morte sotto le bombe a Mosul. Il teatro regionale - Insieme alle vicende dei “missing” c’è l’archivio della dittatura. La dinastia degli Assad ha dominato per decenni il Paese ma anche avuto un ruolo negli “affari” dei vicini. Libano, Iraq, Palestina, Iran sono teatri dove gli agenti del clan hanno operato, “liquidato” nemici, corrotto e gestito politici, coltivato alleati. In qualche fase sono stati protagonisti principali, in altre si sono “accontentati” di una parte minore. Tra i documenti raccolti da un apparato di sicurezza mostruoso possono esserci risposte a diversi misteri. Omicidi di personalità a Beirut. Attentati in Occidente, dalle bombe in Francia al giallo di Lockerbie. I legami con Carlos lo Sciacallo che ha vissuto per anni a Damasco e i rapporti con fazioni radicali, dai palestinesi ai giapponesi dell’Armata Rossa o gli armeni dell’Asala. Forse ci sono carte che riguardano le Br italiane, dato che i terroristi italiani facevano parte di un’internazionale eversiva che trovava accoglienza a Damasco. Hafez Assad se ne serviva, la sfruttava per avere informazioni, dimostrava la sua solidarietà. Negli armadi delle intelligence avranno conservato report su Gheddafi, Saddam Hussein, Arafat, Khomeini ma anche sulle mosse dei governi europei e d’Israele. Anche a soli fini storici ve ne sono di cose da raccontare. La fase due - Ognuno ha “trattato” con gli Assad, in modo pubblico e, spesso, attraverso canali riservati. In alcune epoche il regime era “radioattivo” - meglio starne alla larga - ma al tempo stesso deteneva le chiavi di certi dossier e allora era opportuno avvicinarlo. Proprio gli sforzi per portare a casa gli ostaggi sono stati un punto di contatto pragmatico. E da qui ora si riparte. La nuova Siria, in cambio della fine delle sanzioni e di supporto economico, può raccontare molto su anni mai quieti. Ha iniziato donando a Tel Aviv la documentazione della spia Eli Cohen, adesso è in grado di passare alla fase due con l’Occidente.