La pena e le misure di reinserimento: a difesa del “sistema Bollate” sotto attacco di Lucio Motta filodiritto.com, 28 maggio 2025 La critica strumentale e populista che risponde di pancia e non guarda al sistema. Eppure da questo carcere, grazie allo sforzo applicativo di direzione, educatori ed agenti penitenziari, si esce a lavorare e ci si reinserisce. La vicenda del detenuto della II CR di Milano-Bollate che si è suicidato gettandosi dalle guglie del Duomo di Milano domenica 11 maggio scorso ha aperto un dibattito per certi aspetti surreale e mistificatorio. Lasciando alla autorità giudiziaria l’accertamento dei fatti collegati alla vicenda (morte della collega ritrovata al parco Nord, aggressione al collega avvenuta sabato mattina 10 maggio all’alba nei pressi del luogo di lavoro), qui ci si vuole interrogare sulle divagazioni che l’evento ha sollecitato circa l’opportunità che persone detenute escano dal carcere per lavorare, compromettendo la sicurezza sociale. Abbiamo sentito esternazioni di ogni sorta unanimemente orientate ad una censura senza appello ad un sistema giudicato inopportuno e financo sbagliato. Abbiamo sentito accostare il fatto a presupposti strampalati per descrivere la condizione del detenuto E.D.: fruitore di un permesso lavorativo, libero in permesso premio per lavorare… espressioni errate e volutamente fuorvianti, capaci di allarmare l’opinione pubblica e brandire un populismo giustizialista che non ammette seconde opportunità. Va chiarito in via preliminare che il detenuto, protagonista della vicenda, era in carcere dall’aprile 2018 per scontare una condanna alla pena di 14 anni e 3 mesi inflitta dalla Corte d’Appello di Napoli per il reato di omicidio volontario. Nel maggio 2023 ossia dopo 5 anni di carcerazione intramuraria, durante i quali il condannato ha dato prova di corretta condotta e adesione all’opera trattamentale a norma dell’art. 21 Ordinamento penitenziario è stato ammesso al lavoro all’esterno del carcere (lavoro reperito sulla base della affidabilità del datore di lavoro, le caratteristiche formative del soggetto, le predisposizioni attitudinali (il detenuto parlava correttamente quattro lingue straniere). L’art. 21 Ordinamento prevede: “1. I detenuti e gli internati possono essere assegnati al lavoro all’esterno in condizioni idonee a garantire l’attuazione positiva degli scopi previsti dall’articolo 15. Tuttavia, se si tratta di persona condannata alla pena della reclusione per uno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1quater dell’articolo 4 bis, l’assegnazione al lavoro all’esterno può essere disposta dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena e, comunque, di non oltre cinque anni. Nei confronti dei condannati all’ergastolo l’assegnazione può avvenire dopo l’espiazione di almeno dieci anni”. Il detenuto in questione aveva superato il terzo di pena ed aveva scontato i 5 anni previsti dalla norma quale termine massimo. Va inoltre precisato che l’ammissione al lavoro all’esterno non è affatto un beneficio, né tantomeno un premio, si tratta di una modalità di trattamento, ossia una modalità individuata in ragione della finalità della pena detentiva (art. 27 Costituzione) quale strumento appropriato per portare il condannato al progressivo reinserimento sociale… ossia al suo recupero quale persona e quale cittadino, dopo l’espiazione della pena inflitta dalla sentenza di condanna che ne ha accertato la responsabilità penale dei fatti contestati. Quindi non ci si trovava difronte ad alcun permesso, né tantomeno permesso premio. La descrizione enfatizzata e apocrifa delle cronache ha volto invece descrivere un “privilegio” per dimostrare che i detenuti non vanno premiati perché pericolosi e capaci di atroci comportamenti. Una narrazione volutamente orientata a determinare paura nell’opinione pubblica e deplorazione rispetto soggetti che vanno avviati ad una corretta accettazione delle regole ed al recupero sociale (art. 27 Cost.). La narrazione della cronaca si è accompagnata ad una enfatizzazione dell’allarme sociale rispetto ai detenuti ed alle pene mediante una spettacolarizzazione mediatica dell’accaduto seguito in maniera ossessiva e martellante, nelle ore tra sabato 10 maggio pomeriggio e domenica 11 maggio in mattinata l’immagine della foro segnaletica del detenuto e la ricostruzione del tutto fantasiosa e romanzata della vicenda e delle ore che si susseguivano alla ricerca del “fuggitivo omicida” hanno rappresentato un angosciante pathos degno di taluni Thriller cult americani (tanto da ricordare “Omicidio in diretta” - film del 1998 - o “Quinto potere” del 1976 - in alcuni tratti “Il fuggitivo” film del 1993). Tutto per arrivare a mettere sotto accusa il sistema del carcere ritenuto sul piano trattamentale un vero e proprio modello in Italia ed in Europa dove la recidiva, grazie al piano trattamentale incentrato proprio sul lavoro interno ed esterno, è scesa sino toccare il minimo dell’8%. Ripetiamo la vicenda la si lascia alla competenza dell’autorità giudiziaria, ci si limita in questa sede ad una domanda: il detenuto in circolazione dopo non essere rientrato in carcere ed essere stato coinvolto nella vicenda interpersonale con i colleghi di lavoro protagonisti della vicenda, si sarebbe gettato dalle guglie del duomo se non avesse assistito alla martellante rincorsa di notizie ed immagini passate compulsivamente su tutte le emittenti televisive e sui canali social che lo ritraevano come un “Killer in fuga dopo aver ucciso e accoltellato”… forse quella pressione mediatica ha prodotto in lui una tale angoscia da spingerlo giù da quelle guglie … non lo sapremo mai… ma certo quel rincorrersi di notizie urlate con un linguaggio violento che parlava di fuggiasco, killer, galera non ha fatto bene a nessuno. Ma tornando al tema della riflessione la vicenda ha messo sotto accusa il “sistema bollate” tanto da ipotizzarsi ispezioni ministeriali sull’operato degli educatori e financo su quello del Magistrato di Sorveglianza che avrebbe firmato il “permesso premio per lavorare”. L’on. Maurizio Gasparri e il deputato di Fratelli d’Italia, Riccardo De Corato, hanno annunciato due interrogazioni al Ministro della Giustizia Carlo Nordio, in cui si chiede di chiarire eventuali responsabilità ed errori di valutazione da parte dei giudici che hanno concesso i permessi al detenuto. Le parole di Gasparri: “È incredibile che una persona responsabile di un femminicidio abbia potuto fruire di permessi. Chiedo un’ispezione sulle strutture giudiziarie che sono responsabili dei permessi concessi a E.D. Le valutazioni della magistratura sono state evidentemente sbagliate ed è necessario individuare le colpe e sanzionare chi ha commesso un errore così grave. Chiedo quindi al ministro Nordio di procedere con immediatezza a un’ispezione nella speranza che questa volta chi ha sbagliato nella Magistratura paghi e non accada quello che accade sempre: le toghe sbagliano ed i cittadini pagano”. L’on. Riccardo De Corato, di Fratelli d’Italia, criticando ‘una certa magistratura buonista e di sinistra’ accusata di essere ‘troppo morbida’ chiede “Sin dalle prime ore successive all’accoltellamento, proprio due giorni fa, avevo annunciato una mia interrogazione parlamentare alla Camera, all’attenzione dei ministri Nordio e Piantedosi sul fatto che certa magistratura ‘buonista’ e di sinistra fosse troppo morbida nei confronti di alcuni carcerati che, viceversa, devono scontare le loro pene all’interno delle galere”. Il Ministro Nordio ha chiesto i documenti del fascicolo del detenuto annunciando ispezioni sulle relazioni del carcere mettendo in discussione all’operato di educatori e dell’equipe trattamentale. Eppure il detenuto era stato osservato per oltre cinque anni e non solo dal carcere di Bollate, aveva dato segni di pentimento, prendendo in mano la sua vita iscrivendosi all’università e dando valore alle sue competenze, in particolare la conoscenza di ben cinque lingue che parlava correttamente tanto che il suo datore di lavoro che lo ha valutato e conosciuto per ben due anni lo stimava e lo riteneva un “dipendente modello” da meritarsi un contratto a tempo indeterminato. L’accaduto non ha nulla a che vedere con l’opera trattamentale, la dedita competenza dell’equipe, al piano trattamentale proprio dell’impianto educativo del carcere di Bollate che negli anni (più di venti) ha dato prova di sconfiggere la recidiva proprio con il lavoro e significativamente con il lavoro all’esterno dentro a quella società che deve prepararsi a riaccogliere il detenuto. L’intervento più sbagliato e controproducente, dopo la tragedia di Milano e del detenuto, sarebbe quello del ministero. Sarebbe un errore qualunque sanzione nei confronti dei giudici o della direzione e dell’equipe trattamentale del carcere di Bollate, l’istituto di pena che vanta il più basso tasso di recidiva di reati d’Italia. Il percorso carcerario del detenuto era stato perfetto e impeccabile sino a quel momento, tanto da meritare relazioni positive di ogni operatore penitenziario, dallo psicologo all’educatore, fino alla direzione del carcere e ai giudici del tribunale di sorveglianza. Un percorso tipico dei migliori risultati del carcere di Bollate, l’istituto di pena nato venticinque anni fa su iniziativa di un gruppo di riformatori, tra cui il direttore del carcere di San Vittore, Luigi Pagano, sulla base di un principio fondamentale, quello della dignità della persona. Lo studio, il teatro e soprattutto il lavoro sono stati, e tuttora sono, l’apriscatole per combattere la recidiva. Un modello riuscito, se si pensa che, mentre i detenuti usciti da altri istituti di pena hanno il 60-70% di probabilità di commettere di nuovo qualche reato, la recidiva media di Bollate si attesta al 7%. Impegnare i detenuti nel lavoro è l’intuizione più fortunata. Ora non si può pensare di buttare a mare un esperimento, che è diventato una realtà stabile, che funziona e che sarebbe invece opportuno estendere il più possibile a tutta Italia. Il sottosegretario on. Sisto ha sottolineato come il caso sia particolarmente delicato e abbia messo in evidenza le problematiche psicologiche del detenuto. Sisto ha ribadito, in una recente intervista, che la concessione di permessi premio a detenuti con precedenti penali gravi richiede un’accurata valutazione da parte del giudice di sorveglianza. Secondo il viceministro, il giudice deve agire con prudenza, ha anche suggerito che sarebbe utile che il giudice di merito possa decidere direttamente sulla possibilità di concedere permessi premio, garantendo una maggiore sicurezza per i cittadini. Tali considerazioni dimostrano una scarsa conoscenza approfondita della realtà: il Giudice di merito non ha facoltà di entrare in valutazioni che riguardano la esecuzione della pena, la cui valutazione non può che essere fatta in itinere e non già anticipata ex ante, il suggerimento quindi incontra una oggettiva improcedibilità. Lascia aperto tuttavia lo spunto ad una ulteriore riflessione: quanto investe lo stato sulla effettiva applicazione del principio costituzionale dell’art. 27 Cost, ossia quante risorse impiega per rendere effettiva quella valutazione di idoneità, che lo stesso sottosegretario invoca come necessaria, e che non dipendente da valutazione preventive o precostituite sul passato ma richiede un programma di valutazione e di accompagnamento necessariamente fatto di competenze. Allora perché chiediamo al sottosegretario Sisto ed al Ministro Nordio, tagliare i fondi per gli psicologi che sono applicati alle carceri proprio per le valutazioni criminologiche ex art. 80 Ordinamento Penitenziario. Sino a due anni fa gli Psicologi applicati in regime di convenzione venivano retribuiti 15 euro l’ora per un monte ore di 70 ore mese, nel 2023 a causa della carenza di fondi e per rispondere alla protesta dei professionisti non più disposti a lavorare sottopagati il Ministero e di Provveditorati hanno raddoppiato la paga oraria passata a 35 euro ora (lordi) ma dimezzando le ore assegnate. Risultato: il servizio di valutazione criminologica si è ridotto drasticamente non riuscendo a garantire ai percorsi carcerari quel servizio indispensabile per le valutazioni appropriate richieste dall’ordinamento (art. 80 O.P) nella ammissione alle modalità trattamentali ed ai benefici penitenziari, facendo venire meno così alle equipe trattamentali e ai magistrati di sorveglianza proprio quei supporti tecnici di valutazione psicologica e criminologica che oggi, dopo il caso del detenuto di Bollate che si è suicidato gettandosi dalle guglie del Duomo, si invocano. Forse all’origine di tutti i mali c’è ancora una volta la atavica incapacità dello stato di programmare e di investire sulla persona per il suo sostegno nei casi di fragilità e questo vale per il carcere, per la scuola, per la sanità. Uno stato incapace di investire e programmare e che si affida ad un populismo di pancia che gli garantisce consenso elettorale. “Non svuotare, ma umanizzare”. La Russa lancia il segnale sul fronte carceri di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 28 maggio 2025 Al centro, la proposta di Giachetti per potenziare la liberazione anticipata dei detenuti con buona condotta. La questione del sovraffollamento nelle carceri italiane torna al centro del dibattito politico, alimentata da numeri allarmanti: oltre 16mila detenuti in più rispetto alla capienza tabellare. A preoccupare non è solo la densità dei reclusi, ma anche l’incremento dei suicidi e le condizioni di grave malessere che affliggono il sistema penitenziario. Mentre il commissario straordinario Marco Doglio lavora su interventi di edilizia carceraria, comincia a emergere anche l’ipotesi di un’azione normativa che possa alleggerire la pressione sul sistema, seppur timidamente e senza ancora un vero confronto interno alla maggioranza. Allo stato attuale, anche le opposizioni, pur teoricamente favorevoli a provvedimenti che riducano le presenze negli istituti penitenziari, mantengono un profilo basso. Il motivo potrebbe risiedere nello spiazzante “bengala bipartisan” lanciato mercoledì al Senato, durante un incontro tra il presidente del Senato Ignazio La Russa, l’esponente di Italia Viva Roberto Giachetti e la presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini. Secondo fonti del centrodestra, “il tema è delicato” e sarebbe “prematuro e inopportuno prendere posizione senza un confronto all’interno della coalizione”. I prossimi sviluppi chiariranno se l’esito positivo dell’incontro abbia realmente aperto uno spiraglio per una trattativa politica su misure mirate, non generalizzate, per ridurre il sovraffollamento. La proposta avanzata da Giachetti, con il sostegno di Italia Viva, ruota attorno al potenziamento temporaneo dell’istituto della liberazione anticipata per i detenuti con buona condotta, escludendo automaticamente coloro che si siano resi protagonisti di aggressioni al personale penitenziario. Attualmente, chi mantiene una condotta esemplare può beneficiare di 45 giorni di sconto ogni sei mesi di pena. La proposta prevede di aumentare il beneficio a 75 giorni per un periodo limitato di due anni. La Russa, pur favorevole a un intervento di emergenza, ritiene che basterebbe fissare la soglia a 60 giorni. “Sono estremamente favorevole a un provvedimento che non svuoti il carcere, ma consenta di scontare la pena in modo civile”, ha affermato La Russa, che ha discusso la questione anche con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Secondo il presidente del Senato, è poco utile costruire sale cinema o musica se poi “devono stare in otto in una cella”. Un’altra voce significativa è quella di Renato Brunetta, presidente del Cnel ed ex ministro, che sollecita interventi sul fronte dell’istruzione, del lavoro e del reinserimento dei detenuti, strumenti ritenuti fondamentali per ridurre la recidiva. Brunetta suggerisce anche di intervenire rapidamente sui 6-7mila detenuti con una pena residua inferiore a un anno. Nel frattempo, il magistrato Stefano Carmine De Michele si prepara a guidare il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), dopo il via libera del Consiglio Superiore della Magistratura alla sua conferma fuori ruolo, su richiesta del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Insegnare in carcere. “Siamo qui per condividere, non per giudicare” di Giorgio Paolucci Avvenire, 28 maggio 2025 L’esperienza di Claudia, Rossana e Licia, che portano la scuola dietro le sbarre. Anche nelle carceri si avvicina la fine dell’anno scolastico. Tempo di pagelle e di bilanci: nel 2022-2023 (ultimi dati disponibili) 19.372 detenuti, di cui 9.002 stranieri, erano iscritti a 1.760 corsi scolastici, e la percentuale delle promozioni è stata del 47,8%. Per alcuni è stato un passo avanti nel percorso di riabilitazione, altri hanno abbandonato gli studi, a volte anche a motivo delle condizioni precarie in cui si fa scuola in questi luoghi. Guardando le cose “dall’altra parte” - quella dei docenti - insegnare in carcere è un’esperienza che costringe a misurarsi con molte carenze di sistema ma che regala molte gratificazioni e spesso lascia un segno indelebile, come è accaduto a tre donne che raccontano il guadagno umano che hanno ricevuto. “Bisnonni, nonni, genitori: vengo da tre generazioni di insegnanti, ma io non volevo seguire le loro orme. Avevo deciso che sarei stata la generazione sabbatica. E poi il carcere non era certo nei miei pensieri, anzi, l’avevo proprio rimosso. È stato l’incontro con le persone detenute che mi ha fatto cambiare idea: prima una supplenza annuale ed ora eccomi qua, al tredicesimo anno di docenza in carcere”. Claudia Cianca insegna italiano e storia nella sezione distaccata dell’Istituto professionale Pertini presso la Casa circondariale di Terni, l’impatto con i ristretti è stato per lei qualcosa di scioccante e insieme affascinante: “Il primo giorno ho chiesto a tutti di dire che mestiere facevano prima di entrare in galera, e Vincenzo ha risposto: ladro di professione. Giuseppe invece mi ha fatto capire che basta poco per andare fuori di testa: il suo migliore amico era stato investito da un camion e lui era impazzito per il non senso di quel fatto, si era convinto che non vale la pena credere nella giustizia, prima di tutto quella divina. Perché a volte sei messo di fronte a situazioni incomprensibili, e allora tanto vale prendersi delle soddisfazioni, e così aveva iniziato a delinquere: un dolore non digerito ti può togliere il senno. Ma nel cuore di molti c’è un desiderio di ripartenza, che un insegnante deve essere capace di valorizzare. Come accade anche fuori, ma io l’ho compreso qui. Nel rapporto con i detenuti capisco cosa significa voler bene al destino di una persona, far emergere i talenti anche quando sono sotterrati dalle ferite della vita. In carcere ho scoperto la mia vocazione professionale, e ho capito che Dio ama in maniera incondizionata, anche quando non vengono a lezione, anche quando dicono che non ce la fanno”. Claudia non minimizza le carenze strutturali e organizzative: difficile programmare e mantenere la continuità didattica quando i detenuti vengono spostati in altri istituti, senza tenere conto del progetto formativo iniziato a monte; bisogna fare i conti col sovraffollamento, con problemi di sicurezza e con la carenza del personale di sorveglianza e dell’area trattamentale. “A volte hai proprio la sensazione che il carcere sia concepito come un contenitore di male che deve rimanere ai margini della società. Ma in mezzo a tutto questo fango riescono a spuntare fiori. Vedo fiorire l’umano e questo mi dà l’ossigeno per continuare, e sta cambiando la mia vita”. Rossana Gobbi insegna italiano agli stranieri nel Cpia (Centro provinciale per l’istruzione degli adulti) presso il carcere bolognese della Dozza. Tanti detenuti sono scarsamente alfabetizzati o analfabeti anche in lingua madre, altri si stanno laureando. “In carcere ho verificato la verità delle parole di Papa Francesco quando diceva “qui ci potrei essere io”. Incontrando storie di miseria e di dolore, scopri ogni giorno il valore infinito della persona, tocchi con mano che l’uomo non è il suo errore e apprezzi la ricchezza che viene dall’incontro con culture, lingue e esperienze diverse. Ed è interessante vedere i cambiamenti che accadono, di cui a volte sono loro i primi a stupirsi. Ma anche io sono cambiata, meno pregiudizi e più apertura all’altro: perché c’è, non perché corrisponde alle tue aspettative”. Rossana racconta di un laboratorio teatrale con le studentesse della sezione femminile, dove si è cimentata con la scommessa di allestire in carcere “Il pranzo di Babette” con l’aiuto dell’attore Andrea Soffiantini. La rappresentazione si è conclusa con il pranzo preparato nelle celle e offerto a tutti i partecipanti: il pubblico, gli educatori e gli agenti di servizio. “Un’atmosfera di festa, con la sorpresa di molti tra i presenti e la gran soddisfazione delle mie donne che si sono sentite valorizzate”. Un’altra scommessa risale all’estate scorsa: sotto il caldo afoso del mese di luglio 60 studenti dei corsi scolastici si sono messi all’opera con 4 docenti per imbiancare tutta l’area pedagogica: le aule, i bagni e il lungo corridoio, arricchito da due murales ispirati alla tecnica del pittore olandese Mondrian. I detenuti si sono organizzati in gruppi prendendosi cura di uno spazio, ogni ambiente ora riflette la creatività di chi ci ha lavorato. L’ultimo giorno gli insegnanti hanno offerto una torta che recava la scritta “insieme si può fare”. A un anno di distanza l’area pedagogica è ancora bella e curata, un seme di bellezza è stato piantato. Licia Baldi è entrata quarant’anni fa nel carcere di Porto Azzurro in occasione di un convegno, e da allora è diventato la sua seconda casa. “Quando domandai ai detenuti cosa potevamo fare per loro, ci risposero: non vogliamo morire di carcere, vogliamo studiare. C’era già la scuola media, chiesero di aprire una sezione di liceo scientifico. Si iscrissero in 30, a fine anno qualcuno era stato trasferito, altri avevano abbandonato. Rimasero in 5, ma per quei 5 ne era valsa la pena”. Per dodici anni Baldi ha insegnato come volontaria, poi una convenzione tra i ministeri dell’Istruzione e della Giustizia ha portato all’apertura di una sezione distaccata del liceo di Portoferraio nella Casa di reclusione di Porto Azzurro, dove lei ha continuato fino a oggi a promuovere attività culturali. “La scuola è un mattone fondamentale per dare concretezza all’articolo 27 della Costituzione in base al quale le pene devono mirare alla rieducazione del condannato. Aveva ragione Socrate: l’ignoranza è la peggiore delle schiavitù. Insegnare è comunicare il senso della vita, e questo diventa decisivo in un carcere, dove spesso lo si smarrisce. La mia bussola è sempre stata la frase di Terenzio: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, sono un essere umano, niente di ciò che è umano mi è estraneo. Non giudico nessuno, sono qui per condividere”. La Baldi è da tempo in pensione ma i detenuti restano nel cuore: è tra le fondatrici dell’associazione Dialogo che promuove numerose iniziative intramurarie (scuola, biblioteca, teatro, musica) e che grazie all’aiuto della diocesi di Massa Marittima-Piombino nel 2003 ha aperto una casa d’accoglienza per ospitare i detenuti in permesso e i familiari che li vanno a trovare. Con il progetto Universo Azzurro vengono affiancati i detenuti che frequentano l’università, aiutando anche a pagare le tasse e a procurare i testi per gli esami. L’anno scorso, a 88 anni, la prof ha ricevuto una telefonata inattesa: dal Quirinale le hanno comunicato che il presidente Mattarella l’avrebbe insignita del titolo di commendatore dell’ordine al merito della Repubblica “per il suo costante impegno in attività educative e di assistenza ai detenuti nella Casa di reclusione di Porto Azzurro”. “È stata un’emozione indicibile, e alla mia età certe emozioni possono essere pericolose - sorride -. Ma la soddisfazione principale è per un riconoscimento che premia il meraviglioso mondo del volontariato penitenziario”. La vita in un cognome. Il boss che non può redimersi (colpa di Ilaria Salis) di Chiara Cacciani huffingtonpost.it, 28 maggio 2025 Detenuto a Pama, dove lavora, studia per la seconda laurea, sogna di rinascere. Ma siccome in carcere va alla presentazione del libro dell’eurodeputata, Fratelli d’Italia arma la sua indignazione: “Che cosa ci facevano…”. Piccola storia di grande antipolitica. Ci sarebbero stati tutti gli elementi per mostrarla come una storia silenziosa e esemplare in un tempo di dibattiti su carceri, sovraffollamento, pena, recidiva, trasferimenti, buttar via la chiave, farli marcire in cella e via dicendo. Ma non è andata così. È finita con la politica che è arrivata a trasformarla nel suo opposto, senza alcuna cura e con un solo scopo: colpire i “rivali”. Di certo c’è un uomo in questa storia. Nato e svezzato in terra di ‘ndrangheta, porta un cognome che è un eterno macigno e ha segnato la sua prima vita: Dragone. Sta scontando a Parma la condanna a 26 anni e sei mesi di carcere per associazione di stampo mafioso e estorsione. Al Polo universitario penitenziario si è laureato in Giurisprudenza, oggi è iscritto a un secondo corso e grazie al suo percorso di cambiamento - costantemente monitorato - ha avuto accesso a una misura alternativa: può lavorare all’esterno, in una cooperativa che opera anche in ambito educativo. A contatto con qualcuno di “quelli fuori”, soprattutto con i più giovani, spesso racconta che il carcere gli ha salvato la vita e lo studio lo ha aiutato a affrancarsi dalla mentalità in cui è cresciuto. C’è anche una donna in questa storia e la sua presenza è, al contrario, difficilmente silenziosa. Anzi: fa spesso rumore. È l’eurodeputata Ilaria Salis, che proprio nel Polo universitario penitenziario ha voluto presentare il suo libro dedicato al sistema carcerario italiano, con foto ricordo finale insieme alle persone presenti ad ascoltarla. Una piccola rappresentanza di chi si può trovare in un Pup: docenti, tirocinanti, studenti detenuti, appunto. Banale, persino. C’è chi è al centro e chi di lato, chi è in prima fila e chi in seconda. Chi sorride in seconda di profilo e neanche guarda l’obiettivo: eccolo, l’uomo di cui parliamo. E dunque, in questa storia che non ha saputo essere raccontata come esemplare: “Cosa ci fanno Marco Boschini consigliere comunale di Sinistra Coraggiosa a Parma e l’Europarlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Salis con Antonio Dragone, condannato per reati di ‘ndrangheta ed esponente della omonima ‘ndrina?”, ha chiesto (ovviamente sommessamente: via social network) Priamo Bocchi, consigliere comunale e regionale di Fratelli d’Italia, con polemica ripresa da alcuni quotidiani e media di destra, successive repliche dei chiamati in causa e controreplica dell’indomito consigliere Bocchi. Che sia accaduto a Parma è solo un dettaglio. Ciò che conta è che in una sola domanda, e soltanto per attaccare avversari politici, si riesce a ribaltare una storia che mostra tutta la potenza dell’articolo 27 della Costituzione quando viene applicata. E nel farlo si ricondanna una persona al suo cognome, si sminuisce la possibilità per chi è ristretto di costruire una seconda vita e si coinvolge anche chi nelle storie di riscatto dimostra di credere davvero: gli agenti della polizia penitenziaria impegnati a accompagnare la misura alternativa, ad esempio, o una cooperativa o qualsiasi azienda accolga un lavoratore detenuto. Troppo poche, e lo sappiamo: colpa del pregiudizio che si rinnova, senza considerare quel dato che, quando si vuol davvero parlare di sicurezza, dovrebbe far spalancare gli occhi non solo alle “anime belle”. Ossia che tra chi a fine pena può contare su un contratto di lavoro, la recidiva è al 1-2%. Non solo: già da prima, dal lavoro in detenzione, questa forma di dignità e responsabilità significa pagare le tasse, i contributi, l’alloggio in carcere e poter mantenere la propria famiglia. A Padova, da anni, questo è un circolo virtuoso. Che l’articolo 27 della Costituzione (rieducare in vista del ritorno nella società) possa valere anche per chi ha compiuto reati di mafia lo pensano associazioni dalla missione inequivocabile come Libera, ne sono convinte persone come Fiammetta Borsellino (un’altra storia in un cognome): quando in diverse occasioni ha incontrato in carcere i detenuti per mafia ha parlato della possibilità di riparare al loro passato e di essere uomini diversi. Viene alla mente lo strazio della vedova di Vito Schifani, Rosaria, quando al funerale per le vittime della strage di Capaci dall’altare implorò gli assassini di cambiare. “Loro non cambiano”, cedette più volte allo sconforto e di fronte a quella che sembrava una inscalfibile mentalità. Ma poi tornò a ripeterlo, su quell’altare, e a volerci credere. “Ma se l’unica possibilità che abbiamo è morire in carcere, perché dovremmo cambiare?”, si è chiesto qualche tempo fa ad alta voce C., coinvolto in un delitto di mafia quando ancora era minorenne, oggi ergastolano ultracinquantenne con laurea in Giurisprudenza e specializzazione in Diritto costituzionale. Se lo è chiesto lui che è già cambiato e che lo ha fatto solo grazie all’incontro con chi gli ha dato la fiducia e la speranza: quella di essere nel presente e nel futuro un uomo nuovo, indipendentemente dal (privatissimo) perdono e senza alcuna autoassoluzione rispetto al passato. Vale la pena di riflettere sulla filosofia che guida don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria e fondatore della comunità per minori Kayros: “Su cento tentativi di rieducazione, non so se ce ne possa essere uno che riesce. Ma nessuno mi autorizza a rinunciare a provarci”. Ma don Burgio appartiene a quella esigua schiera di uomini e donne di buona volontà che - sulle carceri e non solo - fanno quello che dovrebbero fare i politici, che invece non intervengono e, quando intervengono, purtroppo lo fanno spesso come nel post di Bocchi. Tortora, Gulotta, Zuncheddu e gli altri: ecco chi ha ottenuto l’indennizzo per l’errore giudiziario di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2025 Fra i casi più eclatanti anche quelli di Domenico Morrone, Massaro e Bova. La spesa in risarcimenti dal 1991 al 2022 è salita a 86,2 milioni euro, circa 2,6 milioni l’anno. Uno dei più gravi errori giudiziari della storia della giustizia italiana è stato quello del celebre conduttore televisivo Enzo Tortora, considerato uno dei padri fondatori della televisione italiana. Tortora fu arrestato il 17 giugno 1983, su richiesta dei procuratori Francesco Cedrangolo e Diego Marmo, dal giudice istruttore, il magistrato Giorgio Fontana, accusato di gravi reati, ai quali risultò totalmente estraneo, sulla base di accuse formulate da soggetti provenienti da contesti criminali. In questo elenco di vittime di errori giudiziari potrebbe finire anche Alberto Stasi, accusato dell’omicidio di Chiara Poggi a Garlasco. Le indagini riaperte stanno rivelando dettagli agghiaccianti sugli elementi non presi in considerazione nella condanna dell’ex fidanzato della ragazza. Secondo i dati di errorigiudiziari.com, il sito dei giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, gli errori giudiziari in Italia dal 1991 al 31 dicembre 2022 sono stati 222, con una media di quasi sette l’anno. La spesa in risarcimenti è salita a 86.206.214 euro (pari a una media di circa 2,6 milioni di euro l’anno). Il caso Tortora, emblema della malagiustizia - Il caso Tortora rappresenta l’emblema della malagiustizia in Italia. Enzo Tortora, al culmine della celebrità in televisione - protagonista di trasmissioni come la Domenica Sportiva e Portobello - fu arrestato con l’accusa di essere uno dei membri della Nuova Camorra Organizzata e di essere coinvolto nel traffico di droga. Un arresto basato su dichiarazioni di pentiti, che poi si rivelarono inattendibili. Il conduttore trascorse in carcere sette mesi - due a Roma e cinque a Bergamo - e nel 1984 per altri cinque mesi fu agli arresti domiciliari. Ogni giorno proclamò la sua innocenza senza essere ascoltato. Il 17 settembre 1985 fu condannato in primo grado a dieci anni di carcere e fu assolto con formula piena il 15 settembre 1986 dalla Corte d’Appello di Napoli, con sentenza confermata dalla Cassazione nel 1987. I Radicali sostennero le battaglie giudiziarie del conduttore televisivo che fu eletto europarlamentare il 14 giugno 1984 per il Partito Radicale, con Marco Pannella ed Emma Bonino, raccogliendo oltre mezzo milione di preferenze. Divenne anche presidente del Partito Radicale. Enzo Tortora morì il 18 maggio 1988 per un tumore al polmone, un anno dopo la sua definitiva assoluzione. Nessun risarcimento agli eredi del presentatore - Il “caso Tortora” dette la spinta al referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati: l’80,2 % dei votanti si espresse per l’abrogazione “degli articoli 55, 56 e 74 del codice di procedura civile”, che escludevano la responsabilità. Il mese prima della scomparsa di Tortora il Parlamento approvò - votata da Pci, Psi e Dc - la legge Vassallo, la legge 13 aprile 1988 n. 117, sul “Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati”: la responsabilità di eventuali errori dell’operato ricadevano non sul magistrato, ma sullo Stato, che successivamente poteva rivalersi sul magistrato (su un terzo di annualità dello stipendio). La legge Vassalli conteneva anche il divieto di applicazione retroattiva. Nessuna azione nei confronti dei magistrati che indagarono e giudicarono in primo grado sul caso Enzo Tortora. Nessun risarcimento agli eredi. Una famiglia spezzata dal dolore, un padre in lotta per dimostrare la sua estraneità ai fatti. “C’è alla fine un giudice che ti restituisce alla vita - ha dichiarato Gaia Tortora, figlia del conduttore televisivo e vicedirettrice del Tg di La7, presentando il libro “Testa alta, e avanti. In cerca di giustizia, storia della mia famiglia” (Mondadori, 2023) - sono i tempi che non vanno bene. Tutto deve essere più veloce. calcolando che comunque dopo non sarai più la persona che eri prima”. Giuseppe Gulotta, il muratore in carcere per una confessione estorta sotto tortura - Giuseppe Gulotta è un’altra vittima di un clamoroso errore giudiziario. A soli 18 anni - all’epoca era un giovane muratore - venne arrestato e condannato per l’omicidio di due carabinieri avvenuto nel 1976, all’interno della caserma di Alcamo Marina. Ha trascorso 22 anni in carcere e solo dopo 36 anni di battaglie legali è stato completamente scagionato. Assolto dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria dopo nove processi. La Corte certificò come la confessione fosse avvenuta sotto tortura. Come emerse in seguito, infatti, Gulotta confessò un crimine che non aveva commesso dopo essere stato sottoposto a violenze e torture fisiche per estorcergli una confessione. Condannato all’ergastolo nel 1990, trascorse 22 anni in carcere. La svolta arrivò nel 2007, quando un ex carabiniere rivelò la verità: la confessione era stata estorta con violenza, i veri responsabili del delitto erano altri. Nel 2012 la Corte d’Appello di Reggio Calabria assolse definitivamente Gulotta “per non aver commesso il fatto”. Dopo aver trascorso 22 anni in carcere e 36 anni a lottare per dimostrare la propria innocenza, Giuseppe Gulotta fu riabilitato. Ha ottenuto un risarcimento dallo Stato da 6,5 milioni di euro, la cifra più alta che lo Stato italiano abbia sborsato per riparare a un errore giudiziario. Gulotta ne aveva chiesti molti di più: 56 milioni di euro. Baldassare Lauria, uno dei legali di Gulotta disse che “la Corte si limita a liquidare gli oltre settemila giorni di reclusione, senza valutare i danni morali ed esistenziali”. La distruzione della vita delle persone che una sentenza errata può causare. Domenico Morrone, il pescatore incensurato condannato per omicidio - Domenico Morrone è un altro caso eclatante di errore giudiziario. Il 30 gennaio 1991, davanti alla scuola media “Maria Grazia Deledda” di Taranto, due fratelli di 15 e 17 anni vengono uccisi a colpi di pistola calibro 22. Gli investigatori arrestano il pescatore incensurato, che all’epoca ha 27 anni. Viene fermato per duplice omicidio, detenzione e porto illegale di arma da fuoco e munizioni, spari in luogo pubblico. Morrone si dichiara subito innocente. Al momento del duplice delitto stava riparando l’acquaio dell’appartamento dei coniugi che vivono sullo stesso pianerottolo dell’abitazione di famiglia, dice con forza. Non viene creduto. E i coniugi e la mamma vengono condannati per falsa testimonianza. Perde il lavoro, la fidanzata e la mamma anziana resta a vivere da sola, in povertà assoluta. Viene condannato a 21 anni di reclusione nonostante un alibi supportato da più testimoni. Rimane 15 anni in carcere da innocente. Esce di prigione solo grazie a un processo di revisione quando due collaboratori di giustizia rivelano che i due giovani fratelli avevano compiuto uno scippo a una donna e per questo erano stati uccisi. L’autore dei delitti era un pregiudicato detenuto per altri reati. Il 22 aprile 2006 Morrone viene assolto “per non aver commesso il fatto”. Gli avvocati di Morrone sono riusciti a ottenere per lui un indennizzo per errore giudiziario di 4,5 milioni di euro. I legali ne avevano chiesti dodici. Niente rispetto al dramma di vivere più di cinquemila giorni in carcere. Angelo Massaro, 21 anni dietro le sbarre per colpa di una consonante - Angelo Massaro è stato in carcere 21 anni per colpa di una consonante. Una parola dialettale mal interpretata gli costa una condanna a 30 anni. Arrestato il 15 maggio 1996 per un reato mai commesso, e uscito dal carcere, dopo la revisione del processo, dichiarato innocente, solo nel 2017, 21 anni dopo. Al momento dell’arresto è in casa con la moglie e i figli, uno di due anni e mezzo e l’altro di 45 giorni di vita. L’accusa è di aver ucciso e fatto sparire un suo amico, scomparso qualche giorno prima. La chiave dell’accusa è una telefonata alla moglie una mattina in cui, trainando un bobcat per un lavoro in edilizia, dice alla moglie che sta trasportando un “muers”, un peso morto, intendendo quello strumento. Massaro finisce quindi in carcere a causa di un’intercettazione trascritta in modo errato, perché gli inquirenti capiscono dall’intercettazione: “muert”, morto. Condannato nel 1997 a 30 anni di reclusione per l’omicidio, viene assolto venti anni dopo. L’odissea umana di Massaro è raccontata in un docu-film, “Peso Morto”, realizzato dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, fondatori di errorigiudiziari.com e dal regista Francesco Del Grosso. Maurizio Bova, quasi 20 anni in carcere per l’omicidio di un boss - Maurizio Bova è stato riconosciuto innocente dopo essere stato condannato all’ergastolo e aver scontato quasi 20 anni di carcere: esattamente 19 anni, sette mesi e 20 giorni dietro le sbarre. A portarlo in carcere, accuse gravissime: omicidio e tentato omicidio. Maurizio Bova, di Somma Vesuviana, fu condannato ingiustamente nel 1997 per l’omicidio del boss Antonio Ferrara e per il tentato omicidio Domenico Ferrara, episodio avvenuto nel 1994. Ha ottenuto un indennizzo di 2 milioni e 149 mila euro, a riparazione dell’errore giudiziario, deciso dalla Corte di Appello di Perugia. Alla fine un collaboratore di giustizia, inizialmente accusato in concorso con Bova, in seguito si autoaccusò dei reati. Un iter giudiziario lunghissimo, passato dalla condanna all’ergastolo della Corte di Assise di Appello di Napoli nel 1997, all’inammissibilità della revisione del processo da parte della Corte di Appello di Roma nel 2011, all’annullamento della decisione della Corte di Appello di Roma da parte della Corte di Cassazione nel 2012. Poi l’assoluzione della Corte di Appello di Perugia nel 2014, l’istanza di indennizzo presentata sempre a Perugia alla fine del 2014 fino alla camera di consiglio dei giudici avvenuta nel maggio 2015 al deposito della decisione. Daniele Barillà e la Tipo color amaranto - L’unica colpa di Daniele Barillà era quella di guidare una Fiat Tipo amaranto simile a quella di un trafficante di cocaina che i carabinieri stavano pedinando. Le forze dell’ordine, durante un’operazione antidroga, lo scambiano per il vero colpevole. Nonostante le evidenti incongruenze, Barillà, che aveva aperto una ditta che assemblava cavi elettrici per scooter, arrivando ad avere 15 dipendenti, viene condannato a 15 anni di reclusione. La vicenda di Daniele, racchiusa nel libro “L’uomo sbagliato. Il caso Barillà” e nell’omonima fiction della Rai, parte dalla sera del 13 febbraio 1992. Il giovane imprenditore lombardo sale sulla Tipo amaranto per recarsi all’appuntamento con la fidanzata, a Nova Milanese. Questo avviene mentre i carabinieri del Ros di Genova stanno inseguendo un carico di cocaina, nascosto su una Fiat Uno azzurra scortata da una Tipo amaranto. Alle porte di Nova Milanese la Tipo dei trafficanti si allontana. I militari fermano la Uno con 50 chili di cocaina e bloccano a pochi metri di distanza la Tipo di Barillà. Daniele venne condannato a 15 anni di reclusione, accusato di essere un personaggio di spicco della mala milanese. L’imprenditore perde la sua azienda, la fidanzata. Il padre muore di crepacuore. Nel 2000, dopo 7 anni e mezzo di carcere, è stato assolto. Il caso viene riaperto nel 1997, in seguito all’arresto di un tenente colonnello del Ros in Liguria e capo della Dia genovese, dato che la sua squadra aveva eseguito l’arresto di Barillà. Il militare fu accusato di aver utilizzato metodi illegali per avere la fiducia dei “confidenti”, tra cui l’uso di partite di droga scomparse come mezzo di scambio. Barillà viene scarcerato il 12 luglio 1999 e assolto il 17 luglio 2000 per non aver commesso il fatto. Nel 2001 fa presenta una richiesta di indennizzo di 12 miliardi di vecchie lire. Indennizzo che gli fu inizialmente negato, ma nel 2007 fu stabilito un maxi-risarcimento di circa tre milioni di euro. In totale 2.759.743,72 euro, cifra che con interessi e spese legali supera i tre milioni. Giuseppe Lastella, 11 anni di carcere, salvato da nuove testimonianze - Giuseppe Lastella, barese, ha passato undici anni dietro le sbarre accusato di omicidio. È il 2 aprile 1990 quando dall’ospedale un pregiudicato, prima di morire, accusa il gruppo che lo ha ridotto in fin di vita, in un agguato sulla Salerno-Reggio Calabria, svincolo per Tarsia. Tra questi, rantola, c’era il contitolare di un autosalone che, secondo gli inquirenti, è Giuseppe Lastella. La Corte d’assise di Cosenza decise per l’assoluzione. Poi però la Corte d’assise d’appello di Catanzaro lo condannò a 30 anni di carcere. Il 20 dicembre 2001 i suoi avvocati, grazie a nuovi elementi di prova costituiti da inedite testimonianze, chiesero la revisione del processo alla Corte d’assise d’appello di Catanzaro, che venne respinta. Ennesimo ricorso in Cassazione, dove la richiesta venne accolta con l’istruzione di un nuovo processo a Salerno. E il 16 novembre 2004 la sentenza di assoluzione. Non basta. La Procura generale impugna la sentenza in Cassazione, ma la Suprema Corte rigetta il ricorso e stabilisce una volta per tutte che Lastella è innocente. Soltanto nel 2012, dopo aver ottenuto una prima somma di circa 600mila euro, ha avuto un’integrazione che ha portato l’importo definitivo dell’indennizzo a 1,5 milioni di euro. Giuseppe Giuliana, il bracciante agricolo innocente - Accusato di un omicidio mai commesso, Giuseppe Giuliana ha trascorso in carcere 5 anni e 29 giorni. A questo vanno aggiunti 2 anni, 5 mesi e 4 giorni trascorsi con l’obbligo di dimora e di divieto di espatrio. Il bracciante agricolo, originario di Canicattì (Agrigento), che si era sempre dichiarato innocente, era stato accusato di aver ucciso un imprenditore a Serradifalco (Caltanissetta). Fu giudicato colpevole in primo grado dalla Corte di Assise di Caltanissetta, il 4 luglio 1997. Poi la sentenza venne confermata anche dalla Corte di Assise di appello di Caltanissetta che lo condannò a 19 anni di reclusione per omicidio, detenzione e porto d’armi da fuoco, rapina aggravata. Stesso verdetto, nel 2000, anche dalla Cassazione. Il 6 dicembre 2014 il processo di revisione si è concluso con una sentenza di assoluzione da parte della Corte d’Assise d’Appello di Catania. Giuseppe Giuliana ha presentato una richiesta di indennizzo per il danno morale ed esistenziale che ha subito nei suoi anni in carcere. E il 15 giugno 2015 la Corte d’Appello di Catania l’accoglie. L’indennizzo ottenuto dallo Stato è stato di 500mila euro. Saverio De Sario, l’autotrasportatore per 1.068 giorni in carcere - Saverio De Sario è un autotrasportatore sardo, che si era trasferito a Brescia con la moglie e i suoi due bambini. Venne accusato di aver abusato dei suoi figli, in seguito alla denuncia della moglie. La donna lo aveva accusato portando in tribunale le testimonianze dei bambini. A settembre 2015 i figli ribaltano le accuse, ammettendo che non era vero l’accaduto, ma che la mamma li aveva convinti a fare quelle dichiarazioni. Al termine del processo di revisione, la Corte d’appello di Perugia ha cancellato la condanna dell’uomo a undici anni di reclusione per abusi sessuali sui due figli: l’uomo è stato assolto perché il fatto non sussiste e i giudici ne hanno disposto l’immediata scarcerazione. Il legale di De Sario aveva chiesto 1,5 milioni di euro come indennizzo per il danno sofferto. Ma i giudici della Corte d’Appello di Perugia hanno fissato l’indennizzo in 400mila euro: oltre 250mila euro per la privazione della libertà personale durante i 1.068 giorni trascorsi in carcere da innocente, più un 40% di “extra” per le infamanti accuse subite. Beniamino Zuncheddu, quasi 33 anni dietro le sbarre, in attesa di indennizzo - Beniamino Zuncheddu è un ex pastore sardo: quasi 33 anni in carcere da innocente, condannato all’ergastolo per la strage di Sinnai, in Sardegna, dove nel 1991 furono uccisi tre pastori sardi. L’unico superstite indicò come colpevole Zuncheddu, dopo che il poliziotto Mario Uda gli aveva mostrato in anticipo una foto di Zuncheddu, indicandolo già come colpevole. Fatto dimostrato nel processo di revisione che ha accertato che per quella strage era stato condannato un innocente. Condannato all’ergastolo, ha trascorso poco meno di 33 anni in carcere prima che la Corte d’Appello di Roma, nel gennaio 2024, lo assolvesse. La revisione è stata possibile grazie all’impegno di un giovane avvocato sardo, Mauro Trogu e dell’allora procuratrice Francesca Nanni che con l’avvocato firmò la richiesta di revisione. Le intercettazioni disposte dimostrarono l’innocenza di Beniamino e provarono l’inconsistenza del castello accusatorio. Una vicenda portata alla ribalta mediatica da Irene Testa, garante dei detenuti della Sardegna e tesoriera del Partito radicale. Il caso Zuncheddu è, ad oggi il più grave errore giudiziario mai riconosciuto in Italia per durata della detenzione. L’avvocato Mauro Trogu, insieme a un pool di esperti, sta predisponendo la richiesta di indennizzo da parte dello Stato che sarà presentata alla Corte d’appello di Roma. Per la cifra dell’indennizzo, spiega Trogu, “non si può fare un calcolo meramente aritmetico. Bisogna considerare il condannato che ha subito l’errore giudiziario nella sua globalità, come persona che ha dei rapporti umani, familiari, affettivi che vengono stroncati o comunque limitati dal periodo di detenzione. Bisogna considerare l’individuo come lavoratore che perde la sua capacità reddituale. Lo si deve considerare anche sotto il profilo puramente morale e individuale, quindi sotto il profilo della sofferenza fisica e psichica che la detenzione gli cagiona. Perché sappiamo che la detenzione causa delle condizioni di deprivazione sensoriale che sono fisicamente e psicologicamente dolorose. Tutti questi fattori entrano nel computo dell’indennizzo”. Beniamino intanto attende che sia fatta giustizia. Dl Sicurezza, alla Camera passa la fiducia e la paura delle divisioni tra le destre di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 maggio 2025 La competizione tra Lega e Fd’I sul pacchetto penale continua a colpi di Ordini del giorno. Veloce e sicuro. Pochi minuti a disposizione di ciascun gruppo per le dichiarazioni, il voto nominale a prova di franchi tiratori e il dente è tolto: con 201 sì, 117 voti contrari e 5 astenuti, il governo ha incassato ieri alla Camera la fiducia sul decreto Sicurezza. Quella fiducia che, come ha rimarcato l’ex vice ministro degli Interni Matteo Mauri intervenendo per annunciare il no di tutti i deputati del Pd, “si mette - come le tagliole, i blocchi e tutti gli impedimenti che avete posto alla discussione democratica - quando non ci si fida della propria maggioranza”. Le competizioni tra le destre del governo hanno in effetti accompagnato tutto il percorso del provvedimento bandiera, prima con continui stop and go del ddl, e poi con un’improvvisa accelerazione sul carro della decretazione d’urgenza. L’iter blindato del pacchetto che modifica 30 norme penali - con 14 nuovi reati, 9 aggravanti e 7 aumenti di pena - e “commina in totale 486 anni di prigione in più”, secondo il conto del capogruppo M5S in commissione Affari Costituzionali Alfonso Colucci, è proseguito poi con l’esame degli oltre 150 ordini del giorno, presentati perlopiù dalle opposizioni (66 dal Pd, 48 dal M5S, 10 da Avs, 7 da Iv, 7 da Az e uno dal gruppo Misto) ma non solo, in sostituzione degli emendamenti che gioco forza sono finiti nella pattumiera. Presumibilmente la seduta si è protratta fino a notte fonda, come previsto in vista delle potenziali 20 ore di discussione totali, ripartite in 8 minuti di tempo a disposizione per illustrare ciascun Odg. Il via libera finale della Camera, prima di passare la parola al Senato in seconda lettura, è previsto entro la fine della settimana. Non paghi della nuova fattispecie introdotta nell’articolo 10 del decreto legge - quello che ha “equiparato l’occupazione abusiva di abitazioni all’omicidio colposo sul lavoro”, come fa notare Roberto Giachetti (Iv) che sceglie il sarcasmo quando chiede “non vi pare un tantino eccessivo?” - un Odg di Fratelli d’Italia impegna il governo ad ampliare la stretta “in modo da assicurare un’applicazione generalizzata dell’istituto e rafforzare maggiormente la tutela del patrimonio immobiliare”. Un altro estende l’aggravante prevista per chi usa violenza contro un pubblico ufficiale anche ai conducenti di taxi e bus, e un altro ancora si occupa di sedare a colpi di galera gli atti di violenza contro gli arbitri. La Lega invece torna con un classicone del suo repertorio: la castrazione chimica. Mentre Forza Italia insiste per rimodulare le norme sulla custodia cautelare in nome di quel garantismo tradito con un pacchetto che, per usare le parole del pentastellato Colucci, “applica un diritto penale dell’autore” che “individua categorie di cittadini”, ed è espressione di un “panpenalismo selettivo e propagandistico che punisce la persona in base alla propria condizione e non in base alla propria condotta”, come dimostra l’accanimento “contro il migrante, il detenuto, il rom, il manifestante, il disobbediente…”. Una posizione che, non senza qualche ragione, provoca la reazione del forzista Bellomo per il passaggio epocale dei 5S “dai più grandi giustizialisti ai più grandi garantisti”. Non è mai troppo tardi, però. La fiducia “potranno darvela i vostri deputati silenti - non li abbiamo mai sentiti aprir bocca - ma non ve la daremo certo noi e, soprattutto, ve la toglieranno i cittadini e le cittadine italiane”, scommette Filiberto Zaratti, della commissione Affari costituzionali, dichiarando il no di Avs . “Niente sarà più come prima”, prevede la capogruppo dem Chiara Braga preparandosi alla seduta notturna. Contro la nuova “legge truffa”, “frutto delle forzature di una destra arrogante e pericolosa”, “ci opporremo - promette - con tutti gli strumenti a disposizione delle opposizioni”. Pure la castrazione chimica nell’album del Dl “sicurezza” di Errico Novi Il Dubbio, 28 maggio 2025 Della Lega l’ultima “figurina”: un odg che impegna (di nuovo) il Governo a studiare i rimedi androgenici. Si può usare un decreto come se fosse un “6x3” del primo Berlusconi? Certo che si può, e il testo che converte in legge il Dl sicurezza ne è la prova. Un provvedimento che più viziato dalla distorsione propagandistica non si potrebbe. Colpisce che a fronte di obiettivi così irrinunciabili, almeno per Fratelli d’Italia e Lega, la maggioranza di Giorgia Meloni abbia comunque dovuto far ricorso alla questione di fiducia. L’aula di Montecitorio l’ha votata ieri pomeriggio, con il sì di 201 deputati e 117 no. Nella maratona finale, si è provveduto fino a mezzanotte a formalizzare i pareri del governo su qualcosa come 151 ordini del giorno collegati al provvedimento e in gran parte concepiti dalle opposizioni - il che dimostra come nessuno, fra i partiti, sia incolpevole - quali surrogati della propaganda più “diretta”, quella affidata dalla maggioranza alle norme vere e proprie. Stamattina, se tutto va bene, dovrebbe arrivare l’alzata di mano sugli stessi odg e poi domani il voto finale sull’intero testo. Dopodiché toccherà a Palazzo Madama, obbligato a pronunciarsi entro il 10 giugno (con un margine dunque ridottissimo, come sempre, per l’esame effettivo delle misure), pena la decadenza del decreto legge. Si tratta di uno dei prodotti tecnicamente peggiori dell’intera legislatura. Perché contraddice i principi cardine del diritto penale, dalla tassatività all’astrattezza delle norme. C’è un’impressionante tendenza al pleonasmo giuridico: gran parte delle nuove fattispecie di reato e delle nuove aggravanti, si pensi a quella prevista per la minaccia a pubblico ufficiale “commessa al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di una infrastruttura strategica”, è assolutamente superflua alla luce di quanto già sancito dal codice. Ma un conto è leggere sui quotidiani che qualcuno è stato condannato per la tradizionale resistenza a pubblico ufficiale, ben altra soddisfazione (chi s’accontenta gode) è, per un parlamentare, vedere applicata una nuova norma battezzata “No anti- Tav” o “No anti- Ponte”. Certo, già gli slogan affidati alle doppie negazioni dimostrano quanto sia scalcagnato il marketing politico di questo ennesimo (ne hanno sfornati governi di ogni epoca e colore politico) decreto sicurezza. Ma naturalmente non si tratta dell’aspetto peggiore. Il peggio è che il testo partorito in queste ore dalla Camera dei deputati poteva essere anche più offensivo per lo Stato di diritto e il buonsenso, se Sergio Mattarella non avesse segnalato alla maggioranza l’irragionevolezza davvero insopportabile di alcune misure previste all’inizio, nel disegno di legge governativo che era stato pure già approvato a Montecitorio e che lo scorso 4 aprile il Consiglio dei ministri ha inglobato appunto nel decreto in via conversione. I passaggi- horror rimodulati su pressione del Colle riguardano le detenute madri, il diritto degli stranieri ad acquistare sim telefoniche e il reato di resistenza passiva. Il Capo dello Stato ha evitato il peggio. Ma la maggioranza ha comunque fatto tutto il possibile per infiocchettare una sequenza pazzesca di nuovi reati, 14, di nuove aggravanti, una decina, e di inasprimenti di pena. Un testo di 39 articoli in cui i contenuti davvero meritevoli di nuovo inquadramento normativo sembrano davvero pochi. E poiché l’occasione per illudersi di incassare consenso a buon mercato era troppo ghiotta, anche il gran finale dedicato agli ordini del giorno ha avuto le sue chicche. La più clamorosa riguarda la castrazione chimica, auspicata dalla Lega. Il capogruppo del Carroccio in commissione Affari costituzionali Igor Iezzi ha ottenuto il parere favorevole del governo (rappresentato in Aula, d’altronde, sempre da un esponente salviniano, il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni) sul testo che impegna lo stesso Esecutivo a “istituire quanto prima una commissione o un tavolo tecnico” in merito a “ipotesi di castrazione chimica su base volontaria destinata a chi commette reati sessuali”. Tale organismo avrebbe, “nel rispetto dei princìpi costituzionali e sovranazionali, lo scopo di valutare, in caso di reati di violenza sessuale o altri gravi reati determinati da motivazioni sessuali, la possibilità per il condannato di aderire, con il suo consenso, a percorsi di assistenza sanitaria, di natura sia psichiatrica sia farmacologica, anche con eventuale trattamento di blocco androgenico mediante terapie con effetto temporaneo e reversibile, diretti a escludere il rischio di recidiva”. Al di là di ogni altra considerazione (non ultimo l’interesse piuttosto traversale che l’ipotesi riscuote), è il caso di notare come un ordine del giorno praticamente identico fosse stato già presentato, con contestuale “accoglimento”, sempre da Iezzi, nel novembre scorso, quando Montecitorio aveva approvato il disegno di legge poi trasformato in decreto un mese e mezzo fa. Non a caso, la “controparte”, cioè Molteni, ha dato parere favorevole a patto che l’odg fosse riformulato con l’integrazione “conformemente agli impegni già assunti”. Ma tutto, davvero, fa brodo. Inclusa l’aggravante che scatterà quando il reato è commesso “all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie o delle metropolitane o all’interno dei convogli adibiti al trasporto passeggeri”: difficile dire se il difetto è più nella scarsa tassatività, nella mancanza di astrattezza o nella inesistente genericità. Tra gli inasprimenti di pena, spicca invece quello connesso al “danneggiamento in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico qualora il fatto sia commesso con violenza alla persona o minaccia”: reato che, in base al testo, diventerà punibile con pena compresa fra un anno e mezzo e 5 anni di carcere. Ma i picchi riguardano i nuovi reati: dalla “occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui” al “blocco stradale o ferroviario attuato mediante ostruzione fatta col proprio corpo” (qualcuno ha avuto l’improntitudine, o forse la perfidia, di semplificare il concetto in “norma anti- Gandhi”). Poi c’è l’incredibile (alla luce del fiume di suicidi dietro le sbarre) delitto di “rivolta all’interno di un istituto penitenziario”. Fino alla neo-introdotta punibilità delle condotte che “impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”. Sarebbe il reato di “resistenza passiva”. Fondo raschiato che più raschiato non si poteva. Nel Paese più sicuro d’Europa, il disagio sociale è risucchiato dal panpenalismo di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 28 maggio 2025 Da decenni ormai la politica di destra, di centro e di sinistra agita lo spettro dell’insicurezza percepita per cercare consenso elettorale. Se chiedete a dieci cittadini milanesi incontrati per strada se conoscono il Decreto sicurezza del governo, la gran parte rispenderà in modo negativo. Ma se chiedete agli stessi passanti se a Milano esiste un problema sicurezza, si apriranno rubinetti infiniti di lamentale, proteste e racconti di episodi subìti o conosciuti. Di furti in appartamento e scippi per strada, vi parleranno, soprattutto, perché la sofferenza è tanta in questa città, e ormai molto diffuso il timore di subire violenza. Le persone meno giovani sono restie a uscire la sera e i genitori si pongono il problema se andare a recuperare i recalcitranti figli per non farli tornare soli la notte. Se poi chiedete perché la percezione di insicurezza e paura sia più sentita a Milano che altrove, vi risponderanno che è perché qui ci sono più soldi, o per lo meno che molti, soprattutto immigrati, ritengono che sia così e quindi vengono a delinquere qui. Lo dicono, benché la gran parte dei milanesi non sia razzista. Ma è capitato già due volte, e per combinazione sempre nello stesso quartiere di piazzale Corvetto, che un ragazzo di seconda generazione sia finito ammazzato con il motorino per sfuggire al controllo delle forze dell’ordine. Ragazzo che scappa, uguale pericolo per la comunità, pensano i cittadini. E Milano è capitale d’Italia nell’avere sei linee di métro, le ultime due sono persino senza guidatore, un bel motivo di orgoglio per il progresso. Ma su quei vagoni vediamo persone che stringono al petto borse e zainetti perché ci sono mani lunghe di borseggiatori sempre in attività. Così di nuovo gli anziani, che nel capoluogo lombardo sono il 30% della popolazione, sui mezzi pubblici non vanno, a piedi neanche e il taxi costa caro, quando c’è. Eppure le statistiche Istat ci dicono continuamente che i reati sono in diminuzione, persino gli omicidi, e che l’Italia è il Paese più sicuro d’ Europa. Chissà se il provvedimento del governo li renderà più sicuri, questi cittadini impauriti. E se servirà, almeno sul piano della percezione. Ma sappiamo tutti benissimo, ma l’argomento rimane confinato nelle premesse delle proposte di legge, che il vero antidoto ai “reati di strada”, estendendo il concetto a tutto quel che si vede, è lo sviluppo delle politiche sociali. Che i governi di qualunque colore politico e il parlamento, prima di dedicarsi a moltiplicare il numero delle leggi e addirittura il numero dei reati, dovrebbero sostenere con un’ampia delega e ancor più robusto finanziamento, agli enti locali. E’ al sindaco, prima ancora che al questore o al prefetto, che la gran parte dei cittadini attribuisce, sbagliando, la responsabilità per la propria insicurezza dal punto di vista delle violenze e dei reati che vengono subiti. Ma avrebbe invece ragione a rivendicare dal sindaco un maggior intervento amicale, culturale ed economico, prima ancora che assistenziale, come premessa indispensabile per la sicurezza e l’armonia dell’intera comunità. È questo che, per tornare a Milano, è crollato da troppo tempo. E per la stessa ragione sembra sempre di essere in attesa dell’intervento salvifico che arrivi “dall’alto”, magari mandando più poliziotti. Ma i governi - a partire dagli ultimi, il Conte uno e poi il Conte due fino ad arrivare a questi giorni - agguantano sempre il problema a partire dalla coda. E lo fanno maldestramente. Prima di tutto rispolverando quella che è una pessima abitudine della nostra giurisprudenza, cioè in pratica ispirandosi alla filosofia di una certa magistratura nella politica del “tipo d’autore”. Che significa: prima individuo la tipologia, la fisionomia dei soggetti che potrebbero commettere determinati reati e poi glieli attribuisco. Scimmiottando un po’ quel che fanno certi pm con il mondo della politica e degli amministratori locali, il pacchetto sicurezza del governo lo sta facendo oggi con la borseggiatrice, l’immigrato irregolare, il manifestante, il detenuto. Aumenti delle pene, che in nessuna parte del mondo hanno mai contribuito alla diminuzione dei reati, si affiancano alla creazione di nuove fattispecie di reato. Il pericolo vero di questa frenetica attività legislativa (14 nuovi reati e inasprimento delle pene per 9 fattispecie già esistenti) è quello di ampliare in modo abnorme l’area di operatività del diritto penale. Il concetto stesso di reato, che è una convenzione, dettata da motivi storici e anche geografici, oltre che sociali e culturali, si dilata fino a comprendere un numero così esteso di comportamenti da far diventare totalizzante il diritto penale. Si passa così dalla percezione dell’insicurezza, che è qualcosa di molto serio e umano e ha a che fare con il sociale, alla percezione del reato. E alla fine, alla richiesta di più pena, di più carcere. Cioè di una colossale iniezione di sedativo per stare più tranquilli ma un po’ addormentati. Mentre i problemi sociali rimangono tali e quali. O forse peggiorano. E un numero sterminato di soggetti, nei confronti dei quali si dovrebbe intervenire con una politica di maggiore inserimento, viene risucchiato dal mondo del diritto penale e di conseguenza della marginalità e della coazione a ripetere all’infinito gli stessi comportamenti. Fino al prossimo Decreto sicurezza. I “No Dl” allargano il campo: in piazza contro Meloni di Giuliano Santoro Il Manifesto, 28 maggio 2025 La rete A Pieno Regime sul corteo di sabato: “Il più grande di opposizione al governo”. 110 bus e 3 treni verso Roma, adesione anche di “Stop Rearm Ue” verso il 21 giugno. L’obiettivo è ambizioso: dare vita alla più grande manifestazione contro il governo da quando a Palazzo Chigi siede Giorgia Meloni. L’idea è che attorno alla battaglia contro il dl sicurezza si stia materializzando l’opposizione sociale alla destra. L’appuntamento è per sabato 31 maggio alle 14 a piazza Vittorio per muoversi fino al piazzale Ostiense. Ieri, a presentare il corteo alla stampa, c’era anche Luca Blasi, assessore alla Cultura del municipio III di Roma e portavoce della rete A Pieno Regime colpito al volto dai manganelli della polizia antisommossa due giorni fa, mentre qualche centinaio di attivisti cercava di raggiungere piazza Montecitorio. I NUMERI, in effetti, lasciano intendere che la partecipazione sarà davvero larga. Finora si contano 110 pullman e tre treni di manifestanti. I promotori fanno capire di volere politicizzare il più possibile l’evento: non si tratta solo di portare avanti la, sacrosanta, resistenza al “decreto Ungheria”, ma di dare spazio e far convergere tutte le lotte e tutti i settori sociali che dal provvedimento si sentono minacciati. In questo modo, la manifestazione diventa un contenitore di battaglie e rivendicazioni che si rilanciano a vicenda, un moltiplicatore di istanze. Blasi ripercorre gli eventi di lunedì, quelli che hanno condotto al suo pestaggio. “Avevamo detto chiaramente e pubblicamente quello che sarebbe successo ieri - ha raccontato - Volevamo protestare pacificamente davanti al parlamento. È ciò che succede in tutti i paesi democratici”. Nelle parole di Blasi, il modello della disobbedienza civile si è rivelato impraticabile per via della repressione e del rifiuto di ogni dialettica di piazza. “Avevamo detto che sarebbe stato un corteo autoprotetto con delle figure di riferimento che in maniera pacifica avrebbero cercato di dialogare coi responsabili delle forze dell’ordine - prosegue - Io ero una di quelle. E invece, quando tutto era tranquillo, mi sono trovato di fronte a un’aggressione: alcuni agenti, senza nessun tipo di ordine, mi hanno attaccato e mi hanno causato un trauma alla testa che mi ha compromesso parzialmente la vista. Adesso dovrò fare delle visite oftalmiche per capire se andrà meglio”. Per Blasi, la destra ha creato ad arte un clima che alimenta la discrezionalità gli abusi di polizia: “Il governo da anni dice che chiunque manifesta diventa un terrorista e un criminale, anche se lo fa pacificamente sedendosi per terra, facendo scioperi della fame oppure sperimentando forme creative di lotta. E allora è chiaro che qualcuno poi magari dalle parole passa ai fatti”. Prova ne è che l’ineffabile sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro ieri abbia sostenuto che quelli che “la sinistra” considera “spazi di libertà” sono “spazi di criminalità”. Ci sono anche alcuni parlamentari. Anche loro testimoniano del clima repressivo: “Poter arrivare sotto ai palazzi del potere è un diritto. Il decreto sicurezza limita la libertà delle persone. Il dialogo tra le piazze che manifestano e l’opposizione è fondamentale”, aggiunge il deputato Avs Filiberto Zaratti. “Non vogliamo sentire parlare di emergenza sicurezza - sostiene il capogruppo al senato Peppe De Cristofaro - L’unica emergenza è quella che riguarda i diritti sociali”. Arriva anche l’adesione del cartello Stop Rearm Europe, che sta costruendo l’altra grande manifestazione nazionale delle prossime settimane: quella del 21 giugno. “Saremo anche noi in piazza per chiedere la tutela di diritti civili, libertà d’espressione e d’informazione, contro l’approvazione del dl sicurezza, volto a criminalizzare il dissenso e il conflitto sociale e a considerare problemi di ordine pubblico la povertà e le emergenze sociali - affermano Arci, Sbilanciamoci, Rete Italiana Pace e Disarmo, Fondazione Perugia Assisi, Greenpeace Italia, Attac e Transform Italia - Perché autoritarismo e militarizzazione si alimentano a vicenda in quanto aspetti delle stesse politiche liberticide. Il 31 maggio sarà una tappa fondamentale del percorso di mobilitazione verso la manifestazione nazionale contro guerra, riarmo, genocidio e autoritarismo che ha già raccolto oltre 300 adesioni di reti, gruppi, organizzazioni politiche e sociali italiane, arrivando fino ad oltre 1500 sigle in Europa”. Sequestri smartphone, scontro Forza Italia-Melillo sulla riforma di Valentina Stella Il Dubbio, 28 maggio 2025 Il procuratore nazionale antimafia prefigura danni alle indagini sulla criminalità organizzata. Gli azzurri: dal magistrato allarmismo ingiustificato. Scontro tra Forza Italia e il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo. Pomo della discordia: la sua audizione in Commissione giustizia della Camera in merito alla pdl “modifiche al codice di procedura penale in materia di sequestro di dispositivi, sistemi informatici o telematici o memorie digitali”. Il provvedimento prevede in sintesi l’assimilazione alle intercettazioni dei presupposti del sequestro di contenuti comunicativi, per cui il controllo giurisdizionale deve essere affidato ad un giudice terzo e non più a un pubblico ministero, sia nel momento della apprensione materiale dei dispositivi, sia all’atto dell’accesso fisico ai dati. La norma era stata approvata al Senato nell’aprile 2024. Nasceva su iniziativa del senatore azzurro Pierantonio Zanettin e della senatrice della Lega Giulia Bongiorno. Era stata poi emendata dal governo in un articolato più ampio, che complica la discussione mettendo in gioco più profili a livello normativo. Secondo Melillo, “il disegno di legge costituisce una preoccupazione che riguarda anche la sorte delle indagini in materia di criminalità mafiosa, perché alcune soluzioni prefigurate nel testo approvato al Senato destano davvero allarme”. Secondo il magistrato, per colpa della nuova disciplina in discussione, “la documentazione informatica, faticosamente acquisita, non costituirebbe più prova” per numerosi delitti. In pratica avrebbe “un impatto disastroso”. “Non è in discussione la necessità di un deciso rafforzamento delle garanzie difensive” ha specificato il procuratore, tuttavia, ha denunciato “la pesantezza dell’architettura procedurale prevista” e le conseguenze negative per la “cooperazione internazionale”. Sconcerto da parte di Zanettin: “Resto sinceramente sorpreso dalle severe critiche” espresse da Melillo per cui “si paralizzerebbero le inchieste antimafia”. “Critiche infondate e pretestuose - secondo il capogruppo di Fi in commissione Giustizia a Palazzo Madama - che peraltro contrastano con tutto il percorso politico e di analisi in sede accademica che il disegno di legge ha svolto finora”. La posizione di Melillo, per Zanettin, “dimostra ancora una volta come certa cultura dell’antimafia rimanga refrattaria ai più elementari principi garantisti, su cui peraltro si è espressa con la sua autorevolezza anche la Corte costituzionale”. Il riferimento è alla sentenza 170/2023 sulla vicenda Open: anche i messaggi di chat e di posta elettronica archiviati sono corrispondenza che pertanto merita una tutela rafforzata. Critico anche il deputato di Forza Italia, Enrico Costa: mentre da un lato “il dottor Parodi e gli auditi hanno svolto interventi anche critici, ma sempre costruttivi, sui quali concentreremo la nostra attenzione” e grazie ai quali “il confronto è stato molto utile”, dall’altro lato “è rimasto isolato chi ha provato a usare la Commissione Giustizia come un palcoscenico per creare un allarmismo ingiustificato e colpire le norme garantiste all’esame del Parlamento con sproporzionata virulenza, secondo il solito schema in base al quale ogni proposta liberale si trasforma in un ostacolo per le indagini”. Il riferimento è appunto al Pnaa a cui si rivolge poi direttamente: “Mi piacerebbe che il dottor Melillo andasse a vedere quante ingiuste detenzioni, con relativa riparazione, ci sono state durante indagini per criminalità organizzata. Qui stiamo solo cercando di tutelare il diritto alla privacy e alla presunzione di innocenza”. Come ha appunto ricordato Costa, tra gli auditi c’è stato anche il presidente dell’Anm Cesare Parodi, per il quale la pdl “determina un aggravio operativo di eccezionale impatto”. In particolare l’ipotesi normativa “non prevede in alcun modo un impegno di spesa, pur a fronte di una serie di disposizioni che non soltanto sul piano strettamente organizzativo in relazione all’attività dei magistrati e del personale di segreteria - si pensi a avvisi e notifiche - e della pg deve essere ritenuto di singolare impatto, ma che comporta inevitabilmente anche un aggravio di spesa laddove impone accettabilità di accertamento in contraddittorio in numerosi casi dove in precedenza tale atto poteva non essere necessariamente indispensabile”. Sul piano dell’efficienza, pertanto, “sotto entrambi gli aspetti il progetto non risulta rispondere a un criterio ottimale, anche considerando che creerà una serie di aspettative legittime da parte dei difensori che ben difficilmente gli uffici giudiziari potranno soddisfare in maniera tempestiva e adeguata in base alle attuali condizioni di lavoro” ha concluso Parodi. Tra gli auditi anche l’avvocato Luigi Miceli, membro della giunta dell’Ucpi: “Abbiamo chiesto l’adeguamento della disciplina ai principi sanciti dalla Direttiva Ue 2016/680 del 27 aprile 2016, come interpretata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, con la recente sentenza del 4 ottobre 2024: i presupposti per l’accesso devono essere definiti in modo sufficientemente chiaro e preciso, nel rispetto del criterio di proporzionalità e del conseguente principio di “minimizzazione dei dati” e l’accesso deve essere subordinato ad un controllo preventivo di un giudice o di un organo amministrativo indipendente che, anche secondo la recente sentenza della Sesta Sezione della Corte di Cassazione del 1° aprile 2025, non può essere esercitata dal pubblico ministero, per la sua natura di parte processuale, a prescindere dal suo statuto di autonomia”. Nordio: “Il caso Garlasco una sconfitta, comunque vada. Sull’appello dei pm il codice cambierà” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 28 maggio 2025 Il ministro della Giustizia: “L’Anm si esprime con gli slogan. Se le assoluzioni sono due la condanna è irragionevole”. “Il caso Garlasco? Comunque vada, finirà male”. Ne è convinto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Perché? “O il detenuto è innocente, e allora ha sofferto una pena atroce ingiustamente. O è colpevole e allora è l’attuale indagato a dover affrontare senza colpe un cimento doloroso, costoso in termini di immagine, di spese e di sofferenze”. Secondo lei? “Nel merito non devo, non posso e non voglio entrare”. Ma è stato lei a parlare di condanna “irragionevole”. “No. È un principio generale: dopo un proscioglimento è irragionevole una condanna. Soprattutto se le assoluzioni sono due. Come puoi condannare “al di là di ogni ragionevole dubbio”, se due giudici hanno già dubitato?”. E se invece si trovano nuovi indizi? “In generale se vengono acquisite nuove prove a carico dell’imputato, prima che la sentenza passi in giudicato, si deve rifare il processo ex novo. Non inserirle nel fascicolo già formato, come avviene in appello. Per due ragioni”. Quali? “La prima è che non puoi metter il vino nuovo nella botte vecchia. Se ci sono nuove prove contro, bisogna riesaminarle in contradditorio con la difesa, accanto a quelle a favore. Insomma bisogna ritornare daccapo”. L’altra? “È anche più importante. Con il sistema attuale sottrai all’imputato il diritto a un doppio giudizio di merito. Se il tribunale assolve e la corte condanna, puoi solo ricorrere per Cassazione per motivi di legittimità. E il secondo giudizio di merito, colpevolezza o meno, va a farsi benedire”. Per l’Anm la doppia assoluzione necessita solo di una motivazione rafforzata... “Proprio per niente. E infatti l’Anm non risponde a queste obiezioni. Si esprime per slogan. E mi dispiace”. Emergono errori e prove tralasciate, interverrà? “Ma no, figurarsi: l’errore è sempre in agguato. È la legge che è sbagliata”. La Consulta aveva bocciato la legge Pecorella sull’inappellabilità. Ci sta ripensando? “Ci abbiamo già ripensato con la riforma introdotta due anni fa, per i reati minori. La separazione delle carriere è prodromica”. Che c’entra la separazione delle carriere? “La riforma costituzionale, proprio perché intende attuare il processo accusatorio anglosassone, è prodromica a un codice di procedura penale dove sarà rivisto anche il sistema delle impugnazioni”. Sarà la prossima riforma? “Stiamo già studiando ma naturalmente aspettiamo l’esito del referendum”. State studiando sanzioni disciplinari per non far intervenire i magistrati contro il referendum? “Non so da dove escano queste frottole. La responsabilità disciplinare va certo resa più tipica, nell’interesse degli stessi magistrati, ma non certo in senso più punitivo”. Con post sui social, insulti e manipolazioni gli avvocati non stanno esagerando? “Non seguo e non mi compete”. Sulla riforma aveva promesso un ampio dibattito. Ma l’opposizione protesta perché è stato strozzato... “In commissione al Senato, dopo l’approvazione alla Camera, è stato così lungo da sconfinare nell’ostruzionismo. Centinaia di interventi, audizioni, emendamenti. Per sentir dire sempre le stesse cose. Ora finalmente siamo in vista del traguardo, nel pieno rispetto di un ragionevole dibattito in Aula”. Il ddl sicurezza è passato con il voto di fiducia. L’opposizione denuncia una svolta autoritaria. È così? “Proprio il contrario. Non è un atto autoritario quello di sgomberare un appartamento occupato illegalmente. Spesso poi si tratta di abitazioni acquistate dopo anni di risparmi e sacrifici da pensionati, che devono dormire in albergo perché degli abusivi gli hanno cambiato la serratura e si sono installati stabilmente. E finora nessuno li poteva, o voleva, smuovere. Abbiamo ripristinato la legalità e anche il buon senso”. Si è pentito di aver detto che le vittime di stalking devono rifugiarsi in chiese o farmacie? “Intendevo una cosa ovvia, che dicono anche le forze dell’ordine. Nel caso di emergenza, poiché non possiamo mettere un carabiniere accanto a ogni vittima potenziale, è prudente ricorrere a una sorta di autotutela. Già lo facciamo. Evitando di frequentare di notte certi luoghi, come pure sarebbe nostro diritto. Se il braccialetto avverte che lo stalker si sta avvicinando certo che si deve chiamare la polizia. Ma se questa è lontana, e non arriva, è bene che si protegga in un luogo sicuro. Elementare, o no?”. Il caso del detenuto in permesso di lavoro che ha accoltellato la collega, Emanuela De Maria, è stato oggetto di un approfondimento del suo dicastero. Com’è finito? “Anche qui posso rispondere solo in via astratta, indipendentemente dal caso: sarebbe bene che provvedimenti così importanti, e difficili, venissero adottati da un organo collegiale. Magari in doppia lettura. Bisognerebbe cambiare la legge”. Sul caso Garlasco esternazioni studiate per indebolire il Csm di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 28 maggio 2025 L’informazione, cartacea e televisiva, ci ripropone nel caso Garlasco scenari del “circo mediatico giudiziario”. Dovere di informazione, ma anche un minimo di cautela rispetto al sensazionalismo. La Procura di Pavia forse avrebbe dovuto adottare maggiore attenzione alla protezione della riservatezza di iniziative di indagine. Ora la difesa dell’indagato è molto proiettata sulla scena mediatica. La difesa non deve avere restrizioni nella scelta della strategia per il cliente, ma desta sconcerto una sorta di appello al Tribunale dell’opinione pubblica, che l’esperienza insegna essere pronta a passare dall’innocentismo al crucifige. Per non dire del silenzio di molti campioni della presunzione di innocenza. La novità: l’ingresso sulla pedana circense di due autorevoli protagonisti, un sottosegretario e il Ministro della giustizia. I fatti: Alberto Stasi, dopo una duplice assoluzione in primo grado e in appello, è stato definitivamente condannato in base ad una sentenza della Corte di Appello di Milano, in sede di rinvio per un nuovo giudizio disposto dalla Corte di Cassazione. La facoltà per l’accusa di ricorrere contro una sentenza di assoluzione fu eliminata con la legge Pecorella, poi annullata dalla Corte Costituzionale. In ogni caso all’accusa sarebbe sempre aperto il ricorso per cassazione per motivi di diritto; nel caso Garlasco è stata appunto, all’esito del percorso sopra richiamato, la Cassazione ad ordinare il nuovo giudizio che ha condotto alla condanna definitiva. Il dibattito rimane aperto tra i giuristi. Ma il Ministro Nordio: “Trovo irragionevole che dopo una o due sentenze di assoluzione sia intervenuta una condanna senza nemmeno rifare l’intero processo” è intervenuto non in un convegno di giuristi, ma in una trasmissione televisiva nel bel mezzo delle polemiche sul caso Garlasco. In termini calcistici un intervento “a gamba tesa” e di fatto una interferenza su una delicatissima vicenda in corso. Delle esternazioni dell’on. avv. Andrea Delmastro potremmo disinteressarcene, rimandando alle rubriche sul bon ton, ma è e rimane un sottosegretario alla giustizia, che gode della massima fiducia del Ministro, data la persistente delega su questioni penitenziarie, pur dopo proclamazione “Una gioia non lasciare respiro a chi sta nell’auto penitenziaria”. In un convegno a Torino, dopo aver citato il caso Garlasco, ha criticato i provvedimenti dei magistrati che sui casi di immigrazione vogliono “bloccare il governo”: ci penserà la riforma costituzionale del governo a rimettere in riga le “toghe rosse”, a “non lasciare respiro” ai magistrati. Qualche tempo prima l’on Delmastro, con il suo eloquio colorito, ma indubbiamente efficace, aveva chiarito che la questione della separazione delle carriere tra giudici e Pm è irrilevante perché “L’unica cosa figa è il sorteggio” dei magistrati componenti del Csm. È cosi: il Csm spezzettato in due, privato della competenza disciplinare e con i componenti magistrati scelti dalla sorte, non ha più nulla di quell’organo che la Costituzione del 1948 ha voluto garante della effettività del principio di indipendenza della magistratura. Molto più raffinato il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, il quale intervenendo al Consiglio Nazionale Forense ha chiarito che oggi il problema non sono più le “toghe rosse”. Criticando le interpretazioni dei giudici italiani ed europei in materia di immigrazione ha mostrato che il problema sono le toghe tout court. Recentissime e meno recenti vicende ci hanno mostrato reiterati interventi di attacco nel merito di decisioni di giudici da parte di esponenti di governo a partire dai vertici. Anche chi sostiene la separazione delle carriere dovrebbe prendere atto del grande rischio, già attuale qui e oggi, di indebolire, ridurre a quasi nulla il Consiglio Superiore della Magistratura, quella istituzione, certo imperfetta, ma unica tutela effettiva dell’indipendenza dei magistrati, Pm e giudici. Ma su questioni così delicate per l’equilibrio del sistema democratico si procede in Parlamento a suon di “blindature”. Cesare Parodi: “Grave accostarci ai mafiosi. Ci attaccano perché scomodi” di Irene Famà La Stampa, 28 maggio 2025 Il presidente dell’Anm replica anche alla tesi di Nordio sull’inappellabilità: “Sogno un mondo dove ognuno fa bene il suo lavoro e rispetta gli altri”. “Le frasi del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro sono gravi e trasmettono un’immagine della magistratura completamente errata”. Il decreto sicurezza? “Ci preoccupa il metodo. Crea un precedente, da valutare con attenzione”. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), Cesare Parodi, senza perdere l’aplomb, ribatte punto per punto alle dichiarazioni dell’onorevole di Fratelli d’Italia. E riflette sulle nuove norme sulla sicurezza. Delmastro dichiara: “Alcuni magistrati parlano come mafiosi”. Quale risposta? “È una frase assolutamente generica e gratuita. O si fa un riferimento a qualche affermazione diretta, o altrimenti…”. Si riferiva a una famosa email in cui un magistrato ha definito la premier “più pericolosa di Berlusconi”. Cambia qualcosa? “I singoli rispondono delle loro singole affermazioni. Io sono presidente dell’Anm, analizzo i macrofenomeni, e sinceramente posso dire che i magistrati, né nel loro insieme né specificatamente, non hanno mai assunto un linguaggio nemmeno lontanamente vicino a quello mafioso. Disconosco nella maniera più assoluta la fondatezza di questa affermazione”. Sempre il sottosegretario Delmastro: “I magistrati vogliono tramortire la riforma della giustizia perché avrà effetto devastante sul potere delle toghe rosse”. È vero? “Questa è un’affermazione che si iscrive in una più ampia logica di pensiero, che vorrebbe la magistratura divisa, manichea, con la magistratura di sinistra che controlla e condiziona anche i moderati. Ed è funzionale a dare un’immagine politicizzata del nostro atteggiamento critico rispetto alla riforma sulla Giustizia”. Non siete divisi? “Al contrario. Siamo straordinariamente uniti negli obiettivi e nella condivisione dei valori fondamentali. Questa è la verità ed è scomoda. La prova più tangibile di questa unità sono io”. Cosa significa? “Sono magistrato di un gruppo moderato e sono a capo della magistratura associata”. Difficile darle della toga rossa. Sempre Delmastro dichiara che i giudici vengono promossi per affiliazione alle correnti e non per bravura... “Io chiedo di fare nomi e cognomi. Il sistema non può essere rappresentato in questo modo. Sono accuse vecchie”. Queste parole arrivano dal sottosegretario alla Giustizia. È scontro aperto con l’esecutivo? “Guardi, io credo che ogni persona interessata a questi temi utilizzi il palcoscenico che ha a disposizione”. Il ruolo che ricopre aggrava le esternazioni dell’onorevole? “Non userei il termine aggravante. Da quel ruolo, certo, ha una particolare credibilità e la possibilità di raggiungere molte persone. In questo senso possiamo dire che sono parole pesanti perché arrivano da chi ricopre un ruolo importante”. Disposto a confrontarsi? “Non mi sono mai ritratto. Ma penso che i cittadini debbano formarsi un’idea ascoltando tutte le parti coinvolte e che hanno una competenza specifica sul punto”. L’Anm non ha risparmiato critiche sul Dl sicurezza. È preoccupato? “Al di là del merito, sul quale abbiamo già espresso la nostra opinione, quello che davvero preoccupa è il metodo”. Perché? “Un provvedimento che era in discussione da un anno, improvvisamente è diventato urgente. Non solo. Degli emendamenti proposti dall’opposizione, non ne è stato preso in considerazione nessuno. Il dibattito parlamentare è stato vanificato”. Si è creato un precedente? “Che è sempre qualcosa che cambia le prassi costituzionali, parlamentari e come tale va analizzato con molta attenzione. Va da sé, che applicheremo le nuove norme”. È stato detto che saranno positive per il sistema giustizia. Cosa ne pensa? “Parto da un esempio banale”. Prego... “In Italia continuiamo ad avere circa 12mila detenuti in più dei posti previsti nei penitenziari. E la previsione di nuove ipotesi di reato probabilmente andrà ad aggravare la situazione carceraria. Ricordiamoci che i cittadini mantengono i loro diritti anche quando sono in cella. E l’impatto di queste norme di certo non aiuterà”. Il ministro della Giustizia Nordio ha difeso l’onorevole Delmastro dopo la condanna in primo grado per violazione di segreto. Ed è intervenuto anche nel caso Garlasco. C’è un’ingerenza della politica nelle questioni della giustizia? “Sogno e combatto per un mondo dove ognuno fa bene il suo mestiere, rispetta il ruolo degli altri e le critiche hanno argomenti fondati, non sono solo strumentali. Lei mi dirà che sono un illuso, ma è per questo che, nonostante tutto, non voglio chiudere la porta al dialogo”. Spera in una tregua? “Credo che se ci fosse la possibilità di capirsi su certi aspetti, tutto sarebbe più facile per tutti. Se questo oggi non è possibile, magari in futuro lo sarà”. Sardegna. Grazia Caligaris (Sdr): “La Regione con il più alto numero di detenuti in 41bis” youtg.net, 28 maggio 2025 “La Sardegna si appresta a diventare la regione italiana con il più alto numero di detenuti in regime di 41bis”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che fa notare come l’apertura del Padiglione a Cagliari-Uta, destinato alla detenzione in regime di massima sicurezza, “farà registrare la presenza di circa 200 persone in tre Istituti dell’Isola, Sassari, Nuoro e Cagliari, un autentico record nazionale”. In Italia i detenuti al 41 bis sono circa 740, un dato quasi costante, e sono suddivisi in 12 Istituti Penitenziari, con numeri molto variabili. Si tratta di persone private della libertà appartenenti alle cosche mafiose, alla camorra e alla ndrangheta. “La questione non sembra destare particolare interesse da parte delle Istituzioni”, denuncia Caligaris, “anche se alcuni segnali, provenienti dal territorio del sassarese e algherese, cominciano a impensierire i residenti”. L’incidenza sarà del 27% e andrà a sommarsi a quella dei detenuti dell’Alta Sicurezza (circa 600), pari al 6,4% rispetto ai 9.400 AS distribuiti nelle diverse carceri italiane. “Le istituzioni locali non possono tralasciare di considerare - ricorda ancora la Presidente di SDR - la realtà di Case di Reclusione, come quelle di Tempio -Nuchis (160 AS) e Oristano-Massama (221 AS), la cui presenza, per la tendenza dei familiari di effettuare i colloqui con i parenti ristretti, modifica la consistenza socio-culturale delle comunità. Si tratta di Istituti che fino al 2012, inseriti nel contesto urban0, erano Case Circondariali, quindi con detenuti sottoposti a un regime di media sicurezza”. “Se a questo quadro si aggiungono le presenze di AS a Cagliari, Sassari e Nuoro è evidente che la Sardegna rischia di essere esposta a rischi molto elevati di infiltrazioni della criminalità organizzata, specie nelle aree territoriali più interessanti sotto il profilo degli investimenti”, attacca Caligaris, “Forse però sarebbe anche opportuno promuovere una riflessione su aspetti economici troppo trascurati. Il Ministero della Giustizia, anche per la presenza delle tre Colonie Penali Agricole, dovrebbe garantire alla Regione Sardegna di utilizzare nelle mense nelle cucine di tutte le carceri, per detenuti, agenti e operatori penitenziari esclusivamente pasta, riso, carni, verdura, frutta e alimenti lattiero caseari prodotti e confezionati dalle aziende isolane. Sarebbe un segnale importante per riconoscere la generosità della Sardegna verso quella che appare sempre di più una servitù penitenziaria”. Varese. Detenuto morto ai Miogni: “Era tossicodipendente e aveva la possibilità di uscire” di Andrea Camurani varesenews.it, 28 maggio 2025 Il 33enne, tossicodipendente, avrebbe potuto accedere a una comunità già pronta ad accoglierlo. La Procura indaga: oggi l’autopsia. Le Camere Penali: “Massima attenzione sul tema dei suicidi in carcere”. C’erano concrete possibilità di uscire dal carcere per il detenuto 33enne trovato morto lunedì mattina da un compagno di cella alla casa circondariale dei Miogni di Varese. “L’avevo visto pochi giorni fa, eravamo persino riusciti a scherzare insieme perché, con un pizzico di fortuna, a luglio avrebbe potuto uscire per accedere a una comunità di Morbegno, che aveva già dato il suo assenso ad accoglierlo”, racconta l’avvocato Elisa Benetazzo, che da anni seguiva il giovane, detenuto per furto aggravato in appartamento e con una lunga fedina penale. La sentenza che stava scontando era definitiva, non poteva beneficiare della sospensione condizionale per reati pregressi. A ciò si aggiungeva una misura cautelare personale per lo stesso reato. Conosciuto in ambiente giudiziario, tossicodipendente, il 33enne viveva un presente segnato dalla dipendenza da cocaina, eroina e alcol. “Proprio perché c’era uno spiraglio, non mi capacito di quanto accaduto”, aggiunge l’avvocato che sottolinea la “difficoltà per detenuti tossicodipendenti ad accedere a strutture idonee per curarsi dalle dipendenze”. La Procura di Varese, con la pm Claudia Maria Contini, ha aperto un’indagine per omicidio colposo contro ignoti e ha disposto l’autopsia, in programma oggi, mercoledì, con esami tossicologici. Non è dunque ancora chiaro se si tratti di morte naturale o suicidio (argomento peraltro di cui si è parlato a Materia nella giornata di martedì in un incontro con l’autore di “Morire di pena”, saggio di Laterza del giornalista del Corsera Alessandro Trocino). L’auspicio che non si tratti di un nuovo caso di suicidio viene espresso dalle Camere penali di Varese e della presidente avvocato Elisabetta Bertani: “Apprendiamo la notizia del decesso di un detenuto e, in attesa di conoscere le circostanze di questo tragico evento, auspichiamo non si tratti di un nuovo caso di suicidio in carcere, tema su cui la Camera Penale e l’UCPI manifestano da tempo la massima sensibilità e denuncia sociale”. Nel frattempo, all’ingresso del Tribunale di Varese, è stato aggiornato il “totem” dei suicidi in carcere: martedì il numero è salito da 30 a 32. “Lo scorso giugno abbiamo organizzato un convegno su questa drammatica realtà - conclude Bertani - e contiamo di riproporlo entro l’estate, a un anno di distanza, per una riflessione aggiornata e condivisa, rinnovando così il nostro impegno in favore di condizioni detentive rispettose della dignità e della salute psicofisica delle persone private della libertà”. Torino. Corteo per il morto suicida in carcere, la sorella: “L’hanno picchiato e maltrattato” di Niccolò Dolce torinocronaca.it, 28 maggio 2025 Duecento persone sfilano per le strade di Barriera Milano per Hamid Badoui. E c’è anche la sorella Zahira. Circa duecento persone si sono ritrovate questa sera, martedì 27 maggio, per il presidio di solidarietà in onore di Hamid Badoui, il 42enne marocchino che lunedì 19 maggio si è tolto la vita nel carcere di Torino (per il suo suicidio la procura ha aperto un’inchiesta) dopo essere stato arrestato in corso Giulio Cesare angolo corso Palermo due giorni prima, dalla polizia. E proprio nel punto dov’è stato arrestato, cioè largo Giulio Cesare, si sono ritrovati i manifestanti, molti dei quali membri del centro sociale Gabrio e dello Spazio popolare Neruda. “Hamid è vivo! Basta razzismo della polizia”, lo striscione in testa al corteo partito da corso Giulio Cesare e che ha sfilato lungo le vie di Barriera in direzione centro città. Prima della sfilata, a parlare è stata la sorella di Hamid, Zahira: “Mio fratello è stato picchiato e maltrattato. Eppure tutti sapevano che Hamid soffriva di ansia - ha detto la ragazza - e prendeva le medicine. Eppure non l’hanno visitato, l’hanno lasciato solo senza ascoltarlo e senza aiutarlo. Non hanno chiamato nessuno, né la sua famiglia, né il suo avvocato”. Prima del corteo, sui muri di corso Giulio Cesare sono comparse delle scritte offensive contro la polizia. “Vendetta per Hamid”, urlano i manifestanti dal megafono. Santa Maria Capua Vetere (Ce). In carcere mancano farmaci salvavita, l’appello di 70 detenuti edizionecaserta.net, 28 maggio 2025 Dopo aver ricevuto una lettera firmata da circa 70 detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, l’associazione Sbarre di Zucchero APS ha rivolto alla Senatrice Ilaria Cucchi, all’Onorevole Debora Serracchiani ed all’Onorevole Roberto Giachetti richiesta di presa in carico della situazione sanitaria del penitenziario casertano, anche nella forma dell’interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ed al Ministro della Salute, Orazio Schillaci. Nella lettera, indirizzata al dott. Giuseppe Nese, dirigente responsabile UOC Coordinamento Sanità Penitenziaria della ASL di Caserta, gli scriventi denunciano una situazione di malasanità diffusa, grave carenza di farmaci salvavita e mancanza totale di comunicazione da parte del dirigente dell’area sanitaria, dott. Pasquale Iannotta, che rifiuta ogni confronto, nonostante svariati tentativi fatti da una delegazione di ristretti, e ne chiedono, quindi, le dimissioni. Non ci sono reparti detentivi ospedalieri nonostante dal 2.000 erano previsti. La sicurezza è ai minimi poiché tutti i piantonamenti vengono fatti in luoghi di fortuna, così come le visite esterne, praticamente prassi ordinaria rispetto a quanto previsto per assicurare visite intramoenia. I soggetti psichici gestiti come ordinari per assenza di posti nelle Rems. Il repartino di Santa Maria Capua Vetere è stato istituito presso un ospedale che non ha pronto soccorso e poche specialistiche con il risultato che si va in altri ospedali da ricoverati per fare anche le radiografie. Torino. Il ministero taglia i fondi: chiude il Liceo artistico per i detenuti di Elisa Sola La Stampa, 28 maggio 2025 Dal prossimo anno soppresse le prime due classi del Liceo artistico per i detenuti del carcere “Lo Russo e Cutugno”. L’allievo più vecchio della sezione carceraria del Liceo artistico il prossimo anno sarà, se tutto va bene, un uomo libero. Ha iniziato a studiare dodici anni fa, quando al Lorusso e Cutugno è nata la prima classe. Ha visto nascere i laboratori. Ha ridipinto, con i compagni di cella, i corridoi, la sala colloqui, le aule dove ogni mattina e ogni pomeriggio oggi studiano un’ottantina di persone. “Un Liceo artistico dentro a un carcere una volta sembrava una follia, eppure è diventato qualcosa di meraviglioso”, racconta Nadia Bertuglia, docente di storia dell’arte. La bellezza come strumento per rinascere. L’arte come mezzo per uscire dalla rabbia. La scuola per diventare persone nuove. Ed è così che nel 2013 il Primo liceo artistico ha colonizzato il carcere. Anno dopo anno gli iscritti si sono moltiplicati. Di mattina sui banchi, di pomeriggio nei laboratori di scultura e pittura. L’idea era considerata folle anche perché rivolta ai detenuti del padiglione C. In gergo i “sex offenders”. Detenuti a rischio di pestaggi da parte di altri. Uomini isolati e a rischio di isolamento. Nessuno studente nuovo - “Dal prossimo anno - spiega la professoressa - a causa dei tagli annunciati dal ministero dell’Istruzione e dal Miur, la sezione carceraria del liceo artistico verrà pesantemente ridotta. Verranno eliminate le classi prime e seconde. Nessuno potrà iniziare il nostro percorso. Così ci tagliano le radici”. Chi frequenta la terza, la quarta e la quinta, seguirà ancora le lezioni. Ma non ci saranno nuovi iscritti. Per la vicepreside Annalisa Gallo, è un taglio del 50 percento. “Toglieranno tutte le materie dei primi due anni. Italiano, matematica, scienze, discipline geometriche. E così gli studenti che conseguiranno la licenza media si troveranno di fronte il nulla. Così perdono tutte le chance”. I risultati raggiunti - E pensare che, spiega la vicepreside, i risultati, in quasi tredici anni di vita della sezione carceraria, erano arrivati. Quali? “Si sono abbassate le recidive. Molti nostri studenti, usciti dal carcere, hanno trovato lavoro. Chi è uscito non ha più commesso reati. Siamo in contatto con molti ex allievi. La scuola è fondamentale. Rieduca, reinserisce. Riduce i suicidi. Evita la depressione”. Come si fa a rieducare con l’arte? “La bellezza apre lo sguardo, permette di osservare cosa ci circonda con una sensibilità diversa. Offre strumenti per comprendere la realtà. Questo cambio di paradigma è anche un cambio di comportamento. Ho avuto studenti pieni di rabbia che l’hanno curata con l’arte. Cancellare la scuola nel carcere è una sconfitta per gli studenti e per tutti”. La protesta - Per salvare l’arte e se stessi gli studenti detenuti hanno indetto una protesta pacifica. Giovedì mattina, finite le prime tre ore di scuola, non risaliranno nelle celle. Resteranno in aula dalle 11 e 30 alle 14 e 30. Per spiegare il senso di questo momento, hanno scritto un comunicato. Il detenuto allievo più anziano del carcere ha fatto il resto: una lettera di due pagine. Dove si racconta. E si descrive oggi: “Dopo il liceo ho fatto l’Università. Ora faccio il bibliotecario. Il prossimo anno finirò di scontare la mia pena. Al mio liceo dico, grazie. Se oggi sono un uomo risolto e più equilibrato è grazie a questo. Quando sono entrato qui ero distrutto moralmente. Avevo perso la strada. Lo studio ha dato un senso al tempo e alla mia vita. Non mi ha fatto pensare a quel lungo tunnel che avevo davanti. Mi ha ridato forza e fiducia. Facendomi scoprire la resilienza, la pazienza, la capacità di sapere attendere e la decisione di volercela fare a ogni costo. Ho un po’ di malinconia a salutare i miei professori. Io qui dentro ci ho lasciato un pezzo di vita. Un pezzo che non si ripeterà più, ma se non ci fosse stato, non sarei consapevole oggi che, comunque vada, la vita va vissuta”. Milano. L’arte abbatte i muri: i detenuti di Opera creano un murales che trasforma la palestra di Laura Pinna milanoevents.it, 28 maggio 2025 Nel cuore del carcere di Opera, alle porte di Milano, qualcosa è cambiato. I muri grigi e spogli della palestra si sono trasformati in una grande tela condivisa, un murales zebrato in bianco e nero che gioca con la percezione visiva, dando l’illusione di profondità, rilievi e incavi. Dove prima c’era solo cemento, ora c’è arte. E soprattutto, ci sono sorrisi. A realizzarlo sono stati una decina di detenuti, in collaborazione con l’artista Carlo Galli, nell’ambito del progetto “Superfici dell’Immaginazione”. L’iniziativa è stata promossa dall’Accademia di Brera, con il sostegno dell’associazione Le Arti, di Viafarini e voluta fortemente da Alessandro Pellarin, presidente di Artàmica. Non è solo un’opera murale. È un processo creativo e umano che ha coinvolto detenuti con storie e reati diversi: omicidio, reati informatici, spaccio. Persone che, in questo percorso artistico, hanno trovato uno spazio per esprimersi e riflettere, lontano dalla rigidità quotidiana della detenzione. “Finché non l’abbiamo terminato, non eravamo sicuri del risultato,” racconta Stefano Barca, 40 anni, camicia ben stirata e occhi lucidi. È uno dei detenuti che ha preso parte al progetto, e mentre parla guarda con orgoglio l’opera che ora decora il luogo dove si allena. L’intervento artistico, oltre ad abbellire un ambiente solitamente grigio, ha portato un momento di leggerezza e collaborazione all’interno del penitenziario. “L’arte non redime, ma umanizza” afferma Pellarin. “In carcere ogni gesto creativo diventa un atto di resistenza, uno spiraglio di libertà interiore”. Il murales è lungo diversi metri e richiama le illusioni ottiche dei maestri dell’arte contemporanea. La sua forza non sta solo nell’estetica, ma nella sua origine: mani che hanno sbagliato, oggi hanno dipinto. Un progetto che dimostra come la cultura, anche dietro le sbarre, possa diventare strumento di rinascita. Perché a volte, anche in carcere, si può ricominciare da un pennello. Bari. “Il teatro che ripara, il teatro che è riparo”, appuntamento nella Casa circondariale baritoday.it, 28 maggio 2025 Il Comune di Bari - Assessorato alla Cultura, Puglia Culture, in collaborazione con Puglia Culture e la Casa Circondariale “F. Rucci” presentano giovedì 29 maggio dalle 14.30 l’appuntamento conclusivo del progetto “Il teatro che ripara, il teatro che è riparo”, un laboratorio teatrale condotto all’interno del carcere barese e curato dall’Associazione Culturale “Senza Piume”, con Damiano Nirchio. Un’esperienza artistica e umana che ha coinvolto un gruppo di detenuti in un percorso di espressione e restituzione attraverso la parola, il racconto e il teatro, in collaborazione con: Omero su Marte - Casa di produzione Cineaudiovisivi Cooperativa C.R.I.S.I. - Centro Sperimentale per la Giustizia Riparativa a Bari e il Liceo Scientifico Statale “Gaetano Salvemini” di Bari. Fulcro del progetto è la realizzazione di un podcast intitolato “Insospettabili Maestri”, che esplora la possibilità di restituire senso e dignità educativa al vissuto di adulti detenuti, valorizzando le loro storie personali - spesso segnate da errori, dolore e marginalità - come occasione di riflessione e apprendimento per le giovani generazioni. Dopo una prima fase di lavoro teatrale e narrativo all’interno della Casa Circondariale e la registrazione delle testimonianze, il progetto entra giovedì 29 nella sua fase conclusiva: una classe quarta del Liceo Salvemini di Bari incontrerà, all’interno dell’istituto penitenziario, i detenuti partecipanti al laboratorio. Un momento di dialogo riparativo di comunità, in cui gli studenti - dopo aver ascoltato alcune delle storie raccolte - potranno confrontarsi direttamente con i loro narratori: porre domande, condividere pensieri, abbattere pregiudizi. L’incontro sarà registrato e costituirà la puntata finale del podcast. Un progetto che non si è limitato a coinvolgere i detenuti, ma si intreccia dunque con il mondo della scuola, creando un ponte tra il carcere e la società esterna. “Il teatro che ripara, il teatro che è riparo” è un progetto volto a far incontrare e dialogare mondi divisi. In un momento di grande difficoltà per le carceri italiane e per il rispetto dei diritti dei detenuti, questa iniziativa, riconoscendo piena umanità alle persone ristrette, offre loro la possibilità di raccontare e riflettere sul proprio vissuto e, soprattutto, di far arrivare la propria voce e le proprie opinioni all’esterno del carcere. L’incontro con il mondo della scuola rappresenta un ulteriore tassello di questo progetto, pensato per innescare nuovi orizzonti di senso e di cittadinanza attiva” - commenta Paola Romano, assessora alle Culture del Comune di Bari. Il progetto si fonda sull’etica della riservatezza e del rispetto: tutte le testimonianze sono rese anonime, con l’uso di nomi di fantasia e l’omissione di riferimenti identificabili a luoghi o persone terze. Il laboratorio ha avuto una duplice finalità: favorire il processo di riflessione e responsabilizzazione dei detenuti attraverso la scrittura, e diffondere un messaggio educativo che possa arrivare anche alle nuove generazioni. “Il teatro che ripara, il teatro che è riparo” è un’occasione concreta di incontro tra mondi distanti, un ponte educativo e narrativo che restituisce alla parola il potere di riconnettere, responsabilizzare, umanizzare. Venezia. Le storie delle detenute e della Disney. Così è nato il libro dedicato ai piccoli pazienti Corriere del Veneto, 28 maggio 2025 Un abbecedario per sognare, un libro che si fa voce amica nel silenzio di una corsia, arrivato ieri tra le mani dei piccoli pazienti degli ospedali dell’Usl 3 Serenissima. L’”Alfabeto Marco Polo” è tutto questo e molto di più: un libro multimediale realizzato dall’associazione Venezia Pesce di Pace con il sostegno di una fitta rete di partner (tra cui Usl 3, Autorità di Sistema Portuale, Fondazione Archivio Vittorio Cini, Rotary Club Venezia, Ail Venezia e altri) pensato per offrire un sollievo emotivo ai bambini durante la degenza ospedaliera. Le sue pagine, firmate dagli autori Nadia De Lazzari e Vittorio Baroni con le illustrazioni dei fumettisti Disney Valerio Held e Maurizio Amendola, sono spazi da colorare, racconti da leggere o ascoltare, alfabeti da imparare. In italiano, ma anche in inglese, perché come Marco Polo vogliono parlare al mondo intero. Il volume contiene in totale 92 racconti, curati dalle detenute del carcere femminile della Giudecca. “Con il nostro progetto - spiegano De Lazzari e Baroni - vogliamo alleggerire, per quanto possibile, l’esperienza ospedaliera dei bambini, trasformandola in un’avventura che stimola l’immaginazione e aiuta a sentirsi meno soli”. Perché a volte basta una storia per sentirsi a casa, anche in un letto d’ospedale. Verbania. Sartoria, riuso creativo e reinserimento: al via il progetto “Ri-Vesti” per i detenuti vconews.it, 28 maggio 2025 Firmato nei giorni scorsi un importante protocollo di intesa che coinvolge il comune di Omegna, la Casa Circondariale di Verbania e l’associazione Mastronauta. Si tratta del progetto denominato “Ri-Vesti Laboratorio di riuso creativo e sartoria sociale”. “Questa idea - le parole dell’assessore alla cultura Mimma Moscatiello - nasce prendendo spunto da due belle esperienze parallele che dopo la firma di questo accordo si incroceranno e integreranno: presso la Casa Circondariale di Verbania è attivo il laboratorio di sartoria “L’Ago della Libertà”, che offre ai detenuti un’opportunità di formazione professionale e reinserimento sociale. Mentre ormai da anni Mastronauta è impegnata nel recupero di abiti dismessi, promuovendo il riuso e la sostenibilità, come sta accadendo proprio in questi giorni con il “Baratto”. Dal canto nostro, vogliamo promuovere iniziative che favoriscano l’economia circolare, il reinserimento sociale e la valorizzazione del territorio”. Il progetto “Ri-Vesti” mira a creare una sinergia tra il laboratorio di sartoria della Casa Circondariale, l’associazione Mastronauta, i cittadini e i commercianti locali, con l’obiettivo, a copertura costi, di raccogliere fondi per autofinanziare il progetto creando un circolo virtuoso. Il comune di Omegna si fa quindi promotore del progetto che consiste nella collaborazione tra il laboratorio di sartoria della Casa Circondariale di Verbania e l’associazione Mastronauta di Omegna, favorendo il reinserimento sociale dei detenuti attraverso la formazione professionale e promuovendo l’economia circolare attraverso il riuso creativo di abiti usati. Mastronauta si impegnerà a raccogliere abiti dismessi in occasione, ad esempio, del “Baratto” e la Casa Circondariale si occuperà della selezione, del restauro e della trasformazione degli abiti in nuovi capi e oggetti di design. I prodotti realizzati saranno presentati in una sfilata all’interno della Casa Circondariale nell’autunno di quest’anno e successivamente venduti presso negozi locali aderenti all’iniziativa e al Botteghino di Mastronauta, con il supporto del comune di Omegna per la promozione e la comunicazione. L’accordo ha carattere sperimentale e sarà valido dal momento della sottoscrizione fino al 31 dicembre 2026, ma potrà essere prorogato qualora il progetto dovesse dare i risultati che tutti sperano. Il protocollo d’intesa è stato firmato presso la sede dell’associazione Mastronauta di Omegna dall’assessora Mimma Moscatiello, la direttrice della Casa Circondariale di Verbania Claudia Piscione Kivel Mazury e dai responsabili di Mastronauta. Milano. Il carcere e il “corpo del reato” di Giulia Villa* settimananews.it, 28 maggio 2025 Il “Gruppo della trasgressione” è un’associazione Onlus costituita da detenuti ed ex-detenuti, familiari di vittime, studenti, professionisti e liberi cittadini, il cui obiettivo è contribuire a un percorso di maturazione, riabilitazione e responsabilizzazione personale del detenuto, finalizzato al suo reintegro nella società civile. Fondato da Yuri Aparo, opera a diretto contatto con i detenuti, sia all’interno delle tre carceri milanesi per adulti, sia esternamente nella sede di Via Sant’Abbondio, sempre a Milano. Cerca di contribuire a risolvere un problema estremamente attuale e complesso, ovvero quello della devianza e del ruolo delle carceri nella riabilitazione del reo. A novembre dello scorso anno ho iniziato a frequentare il gruppo e, nel corso di questi mesi, ho avuto modo di coglierne il potenziale curativo e istruttivo. Dialogo e cultura - Una delle caratteristiche peculiari del gruppo è la spontaneità del dialogo. Durante gli incontri, si dà liberamente voce al flusso di pensieri e al vissuto dei membri. Il gruppo asseconda con curiosità, apertura e serietà, le strade che i ragionamenti imboccano. Lo spazio di condivisione creatosi diviene uno strumento di crescita, di scoperta di sé, di indagine e di riscatto. Chi vi accede ha la possibilità di dare voce alla propria profondità emotiva e scoprire le proprie fragilità, attingendo la forza necessaria per sostenere la fatica dell’analisi consapevole. Non ci sono vincoli sulle tematiche da affrontare; il pensiero che sorge ed esige di essere espresso catalizza ragionamenti seri e veri. Ne risultano una concretezza di pensiero e di indagine paragonabili alla saggezza. Affinché ciò che accade nello spazio sia efficacemente interiorizzato da chi lo compone, è necessario che sia presente un ulteriore elemento, la cultura. Essa costituisce lo strumento tramite il quale si attivano il ragionamento e la comprensione; è il mezzo che consente di sviluppare il pensiero critico, salvaguardandolo dai dogmi che generano ottusità. È un linguaggio comune all’interno del quale si declinano i dialetti del vissuto individuale. Il reato - Il gruppo è uno specchio della realtà in quanto esorta a riflettere sulle zone grigie dell’esistenza e indaga su di esse attraverso la lente del reato, che è fragilità in atto. La concretezza del reato instaura una riflessione profonda e libera dalla censura. I detenuti decifrano le insidie della mente e condividono il proprio nucleo di umanità, offrendo ai membri del gruppo la possibilità di intraprendere un percorso di crescita individuale e comune. Mettendosi a nudo, forniscono un esempio di coraggio e rendono estremamente fertile l’humus emotivo collettivo dove seminano il proprio vissuto. Infatti, come spesso accade, il coraggio del singolo attiva il coraggio degli altri inseriti nello stesso tessuto sociale. Il reato diviene uno strumento funzionale a perseguire un obiettivo, asservito allo scopo del gruppo. Tale obiettivo non è quello hegeliano della sintesi, ma quello della comprensione e dell’accettazione degli elementi che costituiscono l’antitesi e delle contraddizioni che spingono i detenuti a sentirsi traditi dalla vita. Antonio ha raggiunto la felicità proprio nel momento in cui ha smesso di sentirsi defraudato dalla vita e ha iniziato ad apprezzarla, anche grazie al gruppo. Cercando il conflitto con Aparo, ha trovato la serenità e ha appreso e interiorizzato il linguaggio comune al gruppo. Ne mostra il potenziale curativo, insito proprio nell’acquisizione di uno specifico linguaggio elaborato nel corso del tempo. Andrea afferma di essersi sentito vittima mentre compiva un reato. I detenuti insegnano che l’oggetto di una rapina non è il denaro che viene rubato, ma il sentimento di vendetta e di frustrazione alle radici dell’atto di devianza. Il corpo del reato - A questo punto, è inevitabile interrogarsi sulla credibilità e sulla veridicità della definizione socialmente condivisa del termine reato, la quale considera come vittima l’oggetto dell’aggressione. La dicotomia che emerge da questa riflessione sembra presupporre un certo grado di incompatibilità tra gli elementi che definiscono il reato per come è concepito a livello della società e quelli che lo caratterizzano in quanto tale. A mio parere, essa costituisce una metafora dell’umanità, le cui declinazioni talvolta paiono inconciliabili e inspiegabili. Il gruppo è luogo di piccole rivelazioni. La metafora dell’inconciliabilità degli elementi del reato insegna che spesso le definizioni impongono schemi rigidi da cui è necessario prescindere per comprendere lo stato reale delle cose. In tali circostanze, il tentativo di acquisire rigore mentale e di definire entro certi schemi la realtà si rivela, nella migliore delle ipotesi, inconcludente e, nella peggiore, fuorviante. Comprendere la realtà - La comprensione profonda della realtà risiede nell’accettazione del dualismo e nel desiderio di conoscere le cause che inducono a delinquere, non nell’imposizione dell’ordine e delle rigidità strutturali della definizione. Tale comprensione sopraggiunge come un balsamo curativo, si radica nella coscienza e neutralizza ogni velleità di spiegare in modo razionale e meccanico le contraddizioni, di additare il detenuto come insensibile e crudele. Quando ciò accade, le uniche verità sono la comprensione del vero e del suo vero contrario e l’accettazione della dicotomia del reato. Sono il fatto che Andrea, mentre commetteva un crimine, si sentiva vittima. In fondo, cosa avvicina noi esseri umani all’umanità se non la comprensione del reale e dei sentimenti che muovono le nostre azioni? *Studentessa del biennio di specialistica presso la Facoltà di scienze politiche dell’Università Cattolica di Milano Varese. Come morire di pena nella “discarica sociale” del carcere italiano varesenews.it, 28 maggio 2025 A Materia Spazio Libero Alessandro Trocino ha presentato “Morire di pena”. Una riflessione su suicidi, nonnismo, sovraffollamento e mancanza di formazione. Emerge il fallimento della legalità dietro le sbarre. “L’unica arma che ha a disposizione un detenuto è il suo corpo”. Ed è così che il carcere miete vittime. Si tratta di una vera e propria discarica sociale: “Quando la società non è più in grado di occuparsi di una certa fascia della popolazione, la abbandona in carcere, nonostante la Costituzione preveda la rieducazione e il reinserimento del condannato”. In un carcere dove c’è più fragilità che criminalità, si raggiunge il record di suicidi. Così il giornalista Alessandro Trocino decide di rompere il silenzio e raccontare un tema nascosto, perché “il carcere è come lo facciamo noi”. Il silenzio nasconde un gigante - “È la prima regola che ti insegnano da giornalista: se non è un personaggio famoso, non se ne parla. I suicidi non fanno notizia. Al massimo si trovano due righe in qualche testata locale. La morte è qualcosa di cui non vogliamo sapere, a meno che non diventi un giallo, come nel caso di Garlasco. Le carceri ci sembrano qualcosa di lontano”. Alessandro Trocino decide di infrangere questa regola e concentra il suo focus sulle carceri italiane. “Mi occupo da anni di giustizia e carcere, mi sono laureato con una tesi sulla pena di morte, ma i numeri e le analisi non bastavano più. Mi annoiavo da solo. Serviva altro. Servivano le storie”. Nasce così “Morire di pena”, dodici cronache “profonde, vere e nascoste, che raccontano un carcere che anche io non conoscevo”. Nonostante qualche iniziale titubanza da parte dell’editore Laterza, il libro prende forma per “raccontare le storie di queste persone, che sono forti - anche troppo, a volte - e ci consentono di entrare nelle carceri. Ecco il ponte tra dentro e fuori”. “Non è un libro sulla disperazione, ma sulla possibilità di cambiare - afferma il giornalista - La narrazione è rispettosa delle famiglie e delle volontà delle persone coinvolte, ma emerge l’importanza del dato di cronaca e di conoscenza, senza indugiare in particolari che dicono poco”. Un libro vero e duro - La narrazione delle storie parte dal cosiddetto faldone e termina con l’autopsia del corpo del detenuto. Paolo Cassani, rappresentante di Oblò Teatro e Associazione 100eventi, osserva che il dettaglio è estremo, sia nel prima che nel dopo. Le fonti sono spesso parenti - in particolare sorelle e madri. C’è chi vuole raccontare per ottenere giustizia; altri preferiscono ricordare il proprio caro in modo edulcorato e solo positivo. Il carcere non è solo di chi è dietro le sbarre - Il carcere fa male. Le storie non riguardano solo i detenuti. Gli agenti di polizia penitenziaria sono tra i soggetti che tessono relazioni sociali dietro le sbarre, ma anche tra loro si contano vittime, perché il carcere, oggi, è l’opposto di ciò che dovrebbe essere. “Da luogo della legalità massima, è diventato un’istituzione totale, chiusa, dove regna l’opacità. Non sappiamo cosa succede realmente, né ai detenuti né agli agenti. Questo clima favorisce l’illegalità e la sopraffazione, in un contesto simile a quello militare: caserme, nonnismo, prevaricazioni”. L’organico è scarso, e “oggigiorno la formazione è stata ridotta a pochi mesi, praticamente dimezzata: mettere persone non formate in quel contesto è la condizione ideale perché le cose non funzionino”. “Il carcere è un inferno: gli agenti potrebbero essere scambiati per detenuti se non fosse per l’uniforme. La situazione è insostenibile”. Eppure il carcere dovrebbe essere “il luogo della legalità massima”. E invece “è un’istituzione totale dove regna l’omertà. Anche chi ci lavora subisce: agenti penitenziari, educatori, volontari”. L’intento dell’autore non è processare agenti o direttori dividendo i ruoli tra buoni e cattivi, ma denunciare “un sistema chiuso e omertoso, di fatto, anche al di là delle intenzioni. Chi denuncia, nel migliore dei casi, viene cacciato”. Il carcere non è il luogo dei cattivi. “Il 20-30% dei detenuti è in custodia cautelare: potrebbero essere innocenti. E comunque non è detto che noi saremo sempre i buoni”. Non criminali, ma poveri: la verità sulla popolazione detenuta - Trocino è netto: “I detenuti non sono criminali incalliti, ma poveracci. Migranti, tossicodipendenti, persone con disturbi mentali. In carcere finisce chi è fragile, non chi è pericoloso”. Ecco che il carcere italiano è diventato una discarica sociale. Il dato è chiaro: il 70% di chi esce dal carcere ci rientra. “La recidiva si combatte con il lavoro, lo sport, la cultura. Gli imprenditori della paura alimentano l’idea che ci sia un crimine devastante, da combattere solo con la repressione. Così si genera un circolo vizioso tra opinione pubblica e politica. Si investe solo sulla repressione. Ma fare la faccia dura non è sicurezza”. Il contesto attuale vede un aumento delle fattispecie di reato e un inasprimento delle pene. “Con il governo Meloni sono stati introdotti oltre 60 nuovi reati: il cosiddetto ddl sicurezza considera persino la resistenza passiva come reato, anche solo per non essersi spostati un po’ più in là se il comando arriva da un agente”. I numeri ufficiali non rendono giustizia al fenomeno - I tentati suicidi non vengono conteggiati, così come i decessi per “cause da accertare” che spesso non vengono mai accertate. E quando non si interviene in tempo, “succede solo che si suicidano davvero”. In carcere il suicidio non è mai una scelta davvero libera: è il risultato di concause. Il libro rende il contrasto tra la “carne viva” delle persone e l’ottusità di certi percorsi burocratici. Il suicidio è più frequente tra chi ha pene minime, spesso appena entra o poco prima di uscire, senza alcuna possibilità di reinserimento sociale, marchiato per sempre dallo stigma. La soluzione? Non l’edilizia carceraria - Trocino fa leva sull’umanità, ma ricorda anche una prospettiva utilitaristica: “Se c’è rieducazione, è meno probabile che ti rapinano o ti uccidano”. La soluzione per lui non è l’edilizia carceraria: “È uno slogan falso: l’edilizia carceraria è lunga, complicata e costosa. Ci vorrebbero almeno dieci anni, e non ci sono i soldi”. Amnistia e indulto furono soluzioni adottate nella Prima Repubblica, ma oggi il vento è cambiato: “Se chiedessi una misura simile non dico a Meloni, ma persino a Schlein, farebbe finta di non conoscermi: significherebbe perdere voti”. “Negli anni Settanta c’era maggiore sensibilità, si può auspicare un ritorno”. Torino. “Gli altri siamo noi”: il carcere non può essere una discarica sociale di Valeria Schroter futura.news, 28 maggio 2025 Uno spettacolo per riflettere insieme sulla conclusione di un progetto. Game over è un percorso di dialogo tra studenti e giovani detenuti, un laboratorio attivato dall’istituto penale minorile Ferrante-Aporti. Quest’anno il tema centrale è stato “Gli altri siamo noi”, presentato il 27 maggio durante una conferenza al campus Einaudi di Torino. Il laboratorio annuale nasce dall’impegno sociale del Fondo Alberto e Angelica Musy, grazie al sostegno di Fondazione Compagnia di San Paolo e la collaborazione dell’Istituto Penale Minorile Ferrante Aporti di Torino. Alla guida del percorso ci sono la compagnia Teatro e società, l’associazione “Sulle regole” e il Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Torino. L’edizione 2024-2025 è iniziata a ottobre. Si articola in una prima fase, rivolta a professori e professoresse e pensata per coinvolgerli nel sensibilizzare studenti e studentesse agli incontri con i loro coetanei del Ferrante-Aporti. Nelle scuole partecipanti, poi, viene presentato un video realizzato al Ferrante-Aporti con i minori detenuti e le studentesse della Clinica Legale. Inoltre, sono stati tenuti 10 incontri di teatro-conferenza all’interno dell’istituto penitenziario minorile insieme ad alcune classi delle scuole che hanno aderito. La conferenza del 27 maggio costituisce la tappa finale del processo. Game over - Gli altri siamo noi si inserisce nei programmi di educazione civica proposti nelle scuole, dando la possibilità a studenti e studentesse di riflettere su parole come dignità, regole, solidarietà e giustizia. “Chi è l’altro per me è un tema centrale in un momento in cui la cultura solidaristica della Costituzione è messa alla prova”, ha commentato Franco Carapelle di Teatro e società. Il concetto è stato ripreso più volte durante la conferenza, un’occasione di spunti e di partecipazione per le scuole di Torino e provincia. “Il contesto attuale spinge molti, non solo i giovani, alla frammentazione e al rifiuto della complessità - ha continuato - per questo servono ponti che riportino a un senso di appartenenza”. Anche Michela Favaro, vicesindaca della città di Torino, ha dichiarato che “progetti come questi aiutano a creare consapevolezze e punti di contatto”. Con gli interventi di due ex detenuti le persone in aula hanno potuto raccogliere degli spunti sulle pene alternative e la necessità della loro applicazione. “Sono l’esempio di come sia importante avere un’alternativa - ha raccontato Anna -. Le istituzioni non sono nemiche, ma è importante che ci sia un dialogo con chi sta in carcere”. Daniele, invece, ha voluto sottolineare che il carcere “non può e non deve essere una discarica sociale. Chi non ha la possibilità di usufruire delle misure alternative passa tempo il carcere, con dei costi per la collettività e un possibile fallimento alla fine del percorso. Il 70 percento di chi esce dal carcere ci rientra entro 5 anni”. Cecilia Blengino, professoressa di sociologia del diritto dell’università di Torino, ha ricordato le difficoltà legate all’ottenere una difesa adeguata e, di conseguenza, a pene che non siano il carcere: “La legge è uguale per tutti non è una constatazione, ma un monito e un richiamo al rispetto del principio di uguaglianza. La legge è uguale per tutti se c’è accesso alla giustizia”. Belluno. “Riguarda anche me?”, incontro sul tema della giustizia riparativa amicodelpopolo.it, 28 maggio 2025 Venerdì 30 maggio, dalle 17.30 alle 19 nella Casa delle Arti (Spazio Ex caserma Piave a Belluno) è in programma un incontro pubblico promosso ed organizzato dall’Azione Cattolica diocesana in sinergia con l’Associazione Libera e gli Uffici diocesani di pastorale sul tema della giustizia riparativa. La giustizia riparativa, quale approccio alla giustizia che pone al centro la persona e il suo benessere nelle dinamiche relazionali, permettendo di riparare non “qualcosa” ma di fare riparare a qualcuno - ovvero l’autore del reato - la vittima, la comunità. Si scommette sulle persone e le loro capacità positive. “Il tema è molto ampio e decisamente poco conosciuto -afferma Sandro Bogo, presidente diocesano di Azione Cattolica- ma è fondamentale avviare una riflessione collettiva al riguardo. Tutti ci possiamo trovare in situazioni conflittuali, stando sia da una parte che dall’altra, alla cui origine possono esserci le più svariate motivazioni, e che spesso prendono direzioni complicate, apparentemente irreversibili, in cui si rompe qualcosa. Queste situazioni richiedono ascolto, dialogo, attenzione all’altro, accoglienza e mediazione capaci di far ricostruire il legame sociale che si è spezzato al momento del contrasto. E non siamo abituati a farlo. Da qui l’idea di coinvolgere altre realtà e mettere insieme le forze, più se ne parla e più si possono costruire ponti, anche seguendo l’invito di Papa Leone XIV”. Gli interventi riguarderanno un primo momento iniziale in cui Sara Dall’Armellina, formatrice e mediatrice dell’Associazione La Voce, faciliterà la conoscenza del tema e ne fornirà un’analisi di tipo tecnico. Ci saranno poi due testimonianze differenti: una di respiro nazionale con i ragazzi del progetto Amunì (Esperienza Rigenerativa e di Comunità di Libera) e una locale, con i racconti di mediazione tratti dall’esperienza dell’Istituto comprensivo Tina Merlin di Belluno. A seguire, la possibilità di un confronto per domande aperte. L’incontro vuole essere momento di sensibilizzazione e informazione riguardo un tema quanto mai attuale, che richiede un cambio di prospettiva rispetto al concetto di giustizia e necessita di un’azione comunitaria, perché appunto riguarda tutti. Cannabis libera, parliamone: la sua portata sociale ce lo impone di Cesare Martinetti La Stampa, 28 maggio 2025 Il pamphlet di Nadia Ferrigo sulle buone ragioni dell’antiproibizionismo. Destra e sinistra sono concetti svuotati da tempo, nessuno messo alle corde saprebbe precisare oggi cos’è l’uno e cos’è l’altro, eppure in Italia le guerre di religione resistono e vengono tuttora combattute da impavidi duellanti. Vale per l’intelligenza artificiale e a maggior ragione per la liberalizzazione della cannabis, sulla quale il dibattito è fermo a un confronto novecentesco. Polizia e Guardia di Finanza tentano di svuotare il mare con un cucchiaio, la giustizia si perde in processi kafkiani, il mercato nero prospera. C’è una storia che racconta meglio di tanti saggi il nocciolo del problema. La notte del 12 maggio 2018 a Monterotondo andò in fiamme il primo e unico canapa shop del Paese, appena inaugurato. Alcuni giorni di indagini hanno permesso di risalire al colpevole, il pusher, che ha subito confessato: non volevo concorrenti nella zona. Un saggio pubblicato dall’editore Einaudi aiuta a mettere a fuoco l’intera faccenda. Si intitola “L’erba e la sue buone ragioni”, l’ha scritto la giornalista Nadia Ferrigo che da anni ne segue l’evoluzione. Il libro ha un sottotitolo: “Perché la liberalizzazione della cannabis conviene alla società”. Non si tratta dunque di un saggio più o meno equidistante, ma di un pamphlet impegnato che prende posizione a favore della legalizzazione, argomentata con documentata completezza. Ed è anche un vivace reportage dove la voce dei soggetti in campo aiuta ad andare oltre la freddezza leguleia e statistica. La coltivazione della canapa ha una sua storia piuttosto affascinante. Mentre inglesi e olandesi si sfidavano sulle rotte dell’oppio per scalfire il monopolio dell’Impero Celeste, (lo racconta Amitav Ghosh in Fumo e ceneri, Einaudi) la canapa dava vele e cordami ai grandi esploratori dei mari. E a Carmagnola, a pochi chilometri da Torino, l’“Ecomuseo della cultura e della lavorazione” di questa nobile pianta testimonia una fiorente economia agricola e commerciale sigillata aneddoticamente dal canto rivoluzionari dei sanculotti: “dansons la Carmagnole, vive le son du canon!”. Ma tra le numerose virtù della canapa ce n’è una che la rende unica: il Thc responsabile degli effetti psicoattivi, che incidono sul sistema nervoso e inducono euforia e rilassamento. La coltivazione della canapa ad uso industriale (e nella prima parte del Novecento l’Italia era il secondo produttore dopo l’Urss) finisce in una tempesta perfetta nel 1961, quando le Nazioni Unite approvano una Convenzione che la include tra gli stupefacenti. L’effetto è drastico, stop alle coltivazioni e anche a molte pratiche medicali, nelle quali era già stata soppiantata da sostanze sintetiche. La canapa sopravvive sotto forma di spaccio. E i suoi consumatori si beccano l’etichetta di “drogati”, stigmatizzati da destra, guardati ora con sospetto ora con compassione da sinistra. Ma mentre in altri Paesi, vista la diffusione, il tema viene affrontato di petto, “l’Italia resta l’ultima roccaforte di un proibizionismo antico - scrive Nadia Ferrigo - che non fa nemmeno lo sforzo di dare una veste rinnovata ai suoi argomenti”. Con l’abituale eleganza, Matteo Salvini, ha definito l’intera questione “merda”. L’Italia resta uno dei Paesi europei con le leggi più severe sulle droghe, condannata al mercato nero da un conclamato paradosso: l’uso personale non è reato (è però un illecito) ma la coltivazione non è consentita, nemmeno per uso personale. In politica si resta al gesto iconico di Marco Pannella, quando si accese uno spinello nella sede del Partito Radicale, in conferenza stampa a Roma nel 1975, per buttare un mattone nello stagno dell’ipocrisia nazionale. Un liberale liberista come Antonio Martino (tessera numero 2 di Forza Italia, nella fase nascente del partito di Berlusconi) stigmatizzava il proibizionismo come il vero nemico, “garante di microcriminalità e grande spaccio”. L’idea liberale di un “uso responsabile e sicuro della cannabis nel rispetto della libertà individuale” che sta alla base di una legge molto pragmatica che l’ha legalizzata in Germania, è sconosciuto alla destra italiana. Lo spiega bene nella brillante conversazione con Nadia Ferrigo la giornalista Flavia Perina, che fu direttrice del Secolo d’Italia negli anni - anche questi lontani - dello sdoganamento missino: “Abbiamo una politica generalmente presuntuosa, che vuole fare da sé, con un elettorato anziano, spaventato, conquistato da discorsi securitari di altra natura, la cannabis non raccoglie consenso. L’Italia è come se fosse fuori da questo mondo che cerca soluzioni nuove a problemi nuovi”. “Il risultato - scrive Ferrigo - è che nessuno dei governi italiani degli ultimi cinquant’anni ha mai iniziato un dibattito pubblico sulla legalizzazione della cannabis, anche quella senza Thc e quindi non stupefacente”. Non ci sono prove che sia innocua, ma neanche che sia dannosa nell’uso moderato, diversamente dal tabacco e dall’alcol, sicuramente letali, eppure legali. Data la portata sociale della cannabis, sarebbe ora di uscire dall’ipocrita paradosso e discuterne da adulti. Dallo Stato sociale allo Stato di guerra? “No” all’illusione bellica di Diego Motta Avvenire, 28 maggio 2025 È inutile applaudire all’invito alla “pace disarmata e disarmante” di Papa Leone XIV se poi si procede in direzione contraria. La corsa al riarmo dell’Europa sembra essere ineluttabile, ma più che i propositi bellicosi in questa fase preoccupano le parole d’ordine. Non che i fatti delle ultime ore, messi in fila, non appaiano preoccupanti: solo ieri il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, ha spiegato la decisione di Berlino di togliere limitazioni alla gittata delle armi vendute all’Ucraina come un allineamento del suo Paese alle scelte di altri partner europei, proprio mentre il Consiglio Ue dava il via libera al primo grande programma di investimento militare comunitario, il cosiddetto programma Safe, pari a 150 miliardi e destinato agli Stati membri che intendono rafforzare le proprie capacità in settori come la difesa missilistica e i droni. Progetti e risorse destinate a cambiare per sempre l’economia del Vecchio continente. Davvero ci stiamo preparando ad abbandonare l’epoca gloriosa del welfare state per passare al warfare state? Dallo stato sociale a uno stato di guerra? Come ha ribadito ieri il presidente della Cei, cardinale Matteo Zuppi, nella sua Introduzione ai lavori del Consiglio permanente, “non possiamo non ribadire che la produzione industriale che vuole riconvertire in armi alcune delle aziende in crisi non fa bene né alla nostra economia né al mondo”. Ma che ne pensano, in tutto questo, le opinioni pubbliche del vecchio Occidente? Dell’interrogativo si è fatto curiosamente portavoce due giorni fa il segretario generale della Nato, Mark Rutte, parlando a Dayton, negli Stati Uniti. “So che i dibattiti sugli investimenti nella difesa saranno difficili in alcuni parlamenti - ha detto ai rappresentanti dei diversi Stati dell’Alleanza atlantica -. Ho bisogno del vostro aiuto nel costruire il sostegno per l’approvazione dei bilanci”. Parole che rivelano la consapevolezza che l’incremento dei tetti di spesa militare rimane un’operazione altamente impopolare, come confermano diversi sondaggi, e che contemporaneamente tradiscono l’urgenza di invertire la rotta, spinti anche dal pressing dei grandi gruppi del comparto. Non si vede come una moral suasion generalizzata portata avanti da chi si è intestato progetti sin qui velleitari, possa riuscire alla fine a convincere le riluttanti democrazie europee a cambiare idea, a questo punto. L’insensata cavalcata bellica pare essere una strategia decisa a tavolino dalle cancellerie e dai palazzi del potere e il paradosso è che ciò sta avvenendo nel momento di maggior fulgore dell’avanzata populista. Proprio adesso che i leader si fanno vanto di interpretare gli stati d’animo genuini dei loro popoli, si avverte ancor più nettamente lo strappo tra le élite e la base che si voleva ricomporre. L’orrore per quanto sta avvenendo a Gaza e lo stato di assuefazione per la guerra in Ucraina, di cui ancora non si vede la fine, hanno avuto l’effetto di ricompattare tante persone di buona volontà cresciute in tempo di pace, ostili per formazione e per cultura ai nuovi slogan. Ascoltare ancora una volta la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ribadire che “tempi eccezionali richiedono misure eccezionali” e che ormai reagire all’offensiva del nemico è “questione di prontezza” (anche industriale) continua a fare un certo effetto. Pacifisti, pacificatori, non violenti, laici, cattolici, sacerdoti e operatori umanitari, tanta gente comune vorrebbe invece che le parole venissero pesate con più attenzione. È inutile applaudire all’invito alla “pace disarmata e disarmante” di Papa Leone XIV se poi si procede in direzione contraria. Varrebbe forse la pena ascoltare i racconti di chi opera negli scenari di guerra per far tacere le armi. In questi giorni abbiamo visto in Italia lenzuola bianche esposte ai balconi per le vittime della Striscia, abbiamo assistito ai digiuni di solidarietà attuati dai sindaci, abbiamo raccolto proposte su ponti umanitari necessari a salvare i superstiti delle bombe in Medioriente. Ecco: sono questi segnali di ribellione civile, composta ma dignitosa, i pilastri su cui costruire una nuova architettura di pace. Nulla, per fortuna, è ancora perduto. Migranti. Cpr in Albania, il lato oscuro del rimpatrio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 maggio 2025 “Apprendo di un trasferimento di 8 persone dal cpr di Macomer all’Albania dalla mattina alla sera senza preavviso e senza avere notizie di queste persone. Prima incarcerati senza aver commesso reati e poi tradotti in un altro carcere senza che nessuno possa sapere niente delle loro condizioni. Sono esseri umani, non pacchi postali”. Con queste parole la garante delle persone private della libertà della Regione Sardegna, Irene Testa, ha denunciato la sparizione di otto trattenuti dal Centro di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr) di Macomer, trasferiti in segreto al Cpr di Gjadër, in Albania. Testa ha inoltre spiegato a Il Dubbio di aver chiesto alla Prefettura spiegazioni sui motivi del trasferimento e sui criteri con cui sono state individuate le otto persone destinatarie del provvedimento, sulle destinazioni effettive delle traduzioni, sull’eventuale arrivo dei trattenuti e sulle loro condizioni di salute. La garante attende ora risposte formali dal Prefetto, che possano fare luce sul destino di queste persone. Valentina Calderone, garante dei detenuti a Roma, all’inizio del mese ha rilevato un dettaglio inquietante: nell’ultima statistica diffusa dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) sui numeri dei detenuti, al carcere di Rebibbia compaiono 12 posti contrassegnati dalla dicitura “Roma - Gjader Albania”. Vuol dire che, oltre ai detenuti comuni, il braccio di Rebibbia ha riservato un corrispondente numero di spazi ai trasferimenti verso la base albanese, trasformando di fatto la sezione in un’appendice extraterritoriale del sistema italiano. Dietro questa rete di trasferimenti c’è il decreto-legge 28 marzo 2025, n. 37, approvato dal Consiglio dei Ministri per potenziare le strutture realizzate in Albania e rendere possibile il trasferimento non solo di chi viene soccorso in mare, ma anche di migranti già trattenuti nei CPR italiani e destinatari di provvedimenti di espulsione. Il CPR di Gjadër è composto da tre unità: un hotspot per l’identificazione (880 posti), un mini- carceretto (20 posti) e il centro di permanenza per il rimpatrio vero e proprio (144 posti). Eppure la struttura, costata oltre 600 milioni di euro tra costruzione e gestione, è rimasta per mesi un gigantesco cantiere in parte inutilizzabile. Secondo un’inchiesta di Altreconomia, al momento della consegna parziale, nell’ottobre 2024, gran parte degli edifici non era accessibile e mancavano letti e infrastrutture minime; l’avvio è stato definito ‘ in via d’urgenza’, senza spiegare il perché della fretta, lasciando in piedi cantieri aperti e criticità non sanate. La conversione dei centri albanesi in CPR ha sollevato scetticismo anche tra gli alleati europei. Nonostante il governo Meloni continua a riattivarli, i giudici italiani hanno più volte bloccato i trasferimenti, richiamando una sentenza della Corte di Giustizia Europea che impone di considerare sicuro un Paese solo se l’intero suo territorio è privo di pericoli per i diritti fondamentali. Così Gjadër ha visto transitare poche decine di persone, puntualmente riportate in Italia dopo interventi giudiziari. L’ultima tragedia porta un nome: Hamid Badoui, quarantenne di origini marocchine, residente a Torino da quindici anni, con permesso di soggiorno scaduto. Dopo la scarcerazione dal Lorusso Cutugno, Badoui era stato trattenuto prima a Bari e poi, per un mese, nel CPR di Gjadër; il tribunale di Roma ha dichiarato illegittima quella detenzione, ma il destino di Hamid è stato segnato da un nuovo arresto al suo rientro in Piemonte. Meno di 24 ore dopo l’ennesima detenzione, si è tolto la vita per insopprimibile stanchezza di vedersi confinato. L’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) ha duramente criticato il governo: “Hamid Badoui ha posto fine alla sua vita durante l’ultima detenzione e non è difficile immaginare l’insopprimibile stanchezza di vedersi ancora una volta confinato e senza possibilità di via d’uscita. Corpi trattenuti in CPR o nelle carceri, poca è la differenza; corpi deportati fuori dal territorio nazionale come prova di forza anche se concretamente inutile…” ASGI denuncia l’uso propagandistico dei corpi dei migranti, in palese conflitto con la Costituzione e i trattati internazionali. A metà aprile, la delegazione del Tavolo Asilo e Immigrazione ha concluso una prima missione in Albania per un monitoraggio indipendente del nuovo CPR di Gjadër, annunciando l’intenzione di dare continuità all’osservazione. Nella prima settimana di operatività, insieme a parlamentari italiani ed europei, la delegazione ha incontrato le autorità locali, effettuato accessi ai luoghi di detenzione e raccolto testimonianze dirette. I rilievi esposti dall’ASGI declinano due livelli di criticità. Da un lato, il modello stesso - trasferire coattivamente persone già trattenute in Italia in un CPR fuori dai confini nazionali - rappresenta una forzatura delle norme europee e costituzionali, calpestando diritti alla difesa, all’asilo, all’unità familiare e alla libertà personale. Dall’altro, l’applicazione pratica appare profondamente problematica: gli atti di autolesionismo tra i trattenuti, le difficoltà di accesso all’assistenza legale, l’assenza di una comunicazione preventiva e modalità di trasporto degradanti - mani legate con fascette durante il tragitto - sono segnali di un sistema lacerato. A rendere ancora più fragile il quadro, poche ore dopo il primo sbarco, una delle persone trasferite è rientrata in Italia perché l’autorità giudiziaria ne ha revocato il trattenimento per mancanza di legittimità. Resta un nodo drammatico: le 40 persone selezionate per Gjadër sono state scelte apparentemente sulla base della “pericolosità sociale”, un concetto privo di riscontri legali chiari. Se realmente usato come criterio punitivo, significherebbe configurare una pena aggiuntiva, vietata dal nostro ordinamento. Accanto alle azioni legali, il Tavolo Asilo e Immigrazione chiede una mobilitazione trasversale per la dismissione del Protocollo italo- albanese, che aggrava il già fallimentare sistema di detenzione amministrativa e viola i principi fondamentali di democrazia e diritto. In un Paese dove la gestione dell’immigrazione si trasforma in un gigantesco meccanismo di contenimento, Gjadër resta il simbolo di un fallimento politico e umano. Le promesse di efficienza si infrangono sugli scogli della giustizia europea, mentre i diritti fondamentali si prosciugano nei corridoi delle strutture extraterritoriali. Trenta nuovi migranti trasferiti in Albania, il Governo prova il jolly di Giansandro Merli Il Manifesto, 28 maggio 2025 Protocollo Roma-Tirana Terzo trasferimento dall’Italia. Nella legge di conversione del decreto che amplia l’uso dei centri agli “irregolari” il Governo ha inserito un trucchetto per scavalcare le sentenze della Corte d’appello di Roma. La nave militare Spica è partita ieri, martedì 27 maggio, dal porto di Brindisi. È diretta a Shengjin per portare altri trenta cittadini stranieri dai Cpr italiani a quello di Gjader. Diverse le nazionalità a bordo. L’ultimo trasferimento in Albania risaliva a un mese e mezzo fa: l’11 aprile, sempre dal porto pugliese. Nella struttura detentiva ci sono adesso una cinquantina di persone. Secondo le informazioni riferite dalle autorità al Tavolo asilo e immigrazione durante l’ultimo monitoraggio i posti sono aumentati: dai 44 iniziali a 96. Riguardano la nuova fase del protocollo, segnata dal cambio di destinazione d’uso dei centri. All’inizio erano destinati ai richiedenti asilo originari di “paesi sicuri” mai entrati in Italia. Questi avrebbero dovuto svolgere in detenzione, oltre Adriatico, le “procedure di frontiera” per l’esame accelerato della richiesta di protezione internazionale. Visto il blocco dei tribunali italiani e il fatto che la sentenza della Corte di giustizia Ue in materia non è ancora arrivata, a fine marzo l’esecutivo ha varato un decreto per mandare a Gjader anche i migranti “irregolari” deportandoli dal territorio nazionale. La norma è stata convertita in legge la scorsa settimana e pubblicata in gazzetta ufficiale venerdì. In parlamento è stata apposta la fiducia, quindi non ci sono stati emendamenti. Alcune novità, però, sono state introdotte in Commissione. Non sono di poco conto e rappresentano l’ennesimo tentativo del governo di aggirare le pronunce della Corte d’appello di Roma, che ha ravvisato una contraddizione tra il protocollo e la legge di ratifica come modificata dal decreto. Riguarda le procedure che si possono applicare oltre Adriatico: chi chiede asilo dietro le sbarre di Gjader crea un nuovo caso giuridico che non rientra né nelle “procedure di frontiera” né in quelle “di rimpatrio”. Sono le uniche due previste dal testo dell’accordo con Tirana, perciò quei richiedenti asilo sono stati rimandati indietro (e liberati). Così nella fase di conversione del decreto il governo ha tirato fuori un jolly che avvicina la produzione normativa al campo artistico: non potendo cambiare il protocollo senza la controparte albanese, ha esteso la definizione di “procedure di frontiera” prevista dalla legge italiana. Ha incluso in questa categoria l’iter per la richiesta d’asilo avanzata da dentro un Cpr, se questo si trova in una zona di confine o transito come Gjader. Non è detto che questo tentativo sia compatibile con le direttive europee, né che risolva i punti di attrito tra la nuova fase del progetto e la formulazione iniziale verbalizzata nell’accordo Roma-Tirana. In ogni caso il coup de theatre è notevole. Tra le modifiche c’è anche la possibilità per il questore di chiedere una seconda convalida del trattenimento se il giudice boccia la prima. Basta farlo ai sensi di un altro comma dello stesso articolo della medesima legge. Quelli che sono stati definiti “trattenimenti a catena”, realizzati negli scorsi anni attraverso pratiche informali di dubbia legittimità, diventano per la prima volta un’esplicita previsione di legge. E pazienza che qui non si parli di liti condominiali ma di diritti fondamentali, come la libertà personale, aggirati attraverso una bulimia normativa che serve solo a scavalcare le sentenze sgradite. In strada a 18 anni, un mentore per i migranti soli di Erica Manna L’Espresso, 28 maggio 2025 Al compimento della maggiore età i giovani non accompagnati non vengono più tenuti in comunità. Un progetto prova ad affiancarli a un adulto per inserirli e rivendicarne i diritti. Per un ragazzo italiano i diciotto anni sono la festa, la patente, l’ingresso nell’età adulta. Per un coetaneo migrante - minore straniero non accompagnato - quel giorno può segnare l’inizio di una vita in strada. È quello che è successo ad Abdo, un ragazzo egiziano arrivato a Genova e accolto in una comunità per minori in via Galata. Lo abbiamo conosciuto il giorno del suo compleanno. Aveva in mano un foglio della Caritas con le indicazioni per il dormitorio del Seminario: quello per i senza dimora. Sono un migliaio ogni mese i minori in bilico: perché tra i 16.187 minori stranieri soli presenti sul territorio (l’ultimo dato del ministero del Lavoro è di marzo), il 54,7 per cento ha 17 anni, e oltre quella soglia l’accoglienza finisce. Se si guarda ai numeri di coloro che sono “usciti di competenza” - definizione asettica che significa che lo Stato può disinteressarsene - il motivo (in quasi tutti i casi) è proprio la maggiore età. A marzo, i neodiciottenni “usciti di competenza” sono stati 984. A febbraio 1.014. A gennaio 1.997. Potenziali invisibili: soli, fragili, esposti allo sfruttamento. Nasce per questo Mentoring Hub, un progetto coordinato da Defence for children e sostenuto da Never alone, con Refugees welcome, Oxfam, Università Cattolica, Ciac di Parma, Comm.On e altri: l’obiettivo è consolidare e mettere a sistema la pratica del mentoring. Ovvero, formare cittadini disposti a diventare un punto di riferimento per neomaggiorenni in difficoltà. Il punto è che, decreto dopo decreto, “la qualità dell’accoglienza scende - spiega Pippo Costella, direttore di Defence for children Italia - mentre i ragazzi sono sempre meno preparati ad affrontare la maggiore età e rischiano di trovarsi a dormire su una panchina. In parallelo, si inaspriscono le leggi e le carceri minorili si riempiono di diciottenni stranieri”. Non solo: “Nel vademecum operativo per la presa in carico e l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati emanato dallo stesso Viminale si dice che ai neomaggiorenni dovrebbero essere garantiti altri sei mesi nei centri: una sorta di scivolo. Ma questo non succede sempre come dovrebbe - continua Costella - Il sistema Sai, il Servizio centrale, lascia discrezionalità nell’applicazione, e i Comuni effettuano le dimissioni. Ma così si violano i diritti”. La formazione dei mentori ha un significato anche politico: non volontari ma attivisti “che sollecitano le istituzioni - rimarca Costella - perché riconoscano e sostengano questa categoria”. In piazza don Gallo, a Genova, l’incontro con Wilfred Tchokothe: è partito dal Camerun a quindici anni, viaggiando da solo attraverso Nigeria, Niger, Libia, poi in barcone fino a Lampedusa (“era il 13 novembre 2020, ma voglio dimenticare”). In pullman lo hanno portato a Genova: in un centro di accoglienza (Cas) per adulti perché non c’erano altri posti, anche se aveva 17 anni. “Non è stato facile - ricorda - non sapevo come muovermi. Non avevo i documenti e nessuno ti dice quanto devi aspettare, ero ansioso”. Attraverso Defence for chidren, Wilfred conosce la sua mentore, Maura Torzolini. “Grazie al suo aiuto ho preso la terza media e ho iniziato le superiori. Ora ho un permesso di soggiorno con protezione speciale e sono idraulico - spiega - e ho un contratto a tempo indeterminato. Adesso cerco una casa mia. Senza di lei forse mi sarei perso”. “Scusi, Corte Europea, può tutelare meno i diritti?” di Letizia Lo Giudice Il Manifesto, 28 maggio 2025 “Cara Corte Europea, anche un po’ meno”. Questo è più o meno il contenuto del documento nato dalla zelante iniziativa delle Prime Ministre di Italia e Danimarca - paesi noti per l’intolleranza in materia di protezione dei diritti umani - cui si sono accodati altri otto stati, per professare a gran voce che nessuno ama la democrazia più di loro e, per questo, è ora che li si lasci lavorare mentre risolvono con metodi “fai da te” l’annoso problema delle migrazioni irregolari. Se non facesse orrore farebbe persino ridere. Il pretesto - falso - da cui muove questa lettera, è che le democrazie europee, a causa dell’eccessiva tutela che la Corte Edu attribuisce ai migranti, non riescono neppure a espellere i criminali che commettono gravi reati. In realtà, in Italia lo straniero che commette crimini viene trattenuto in carcere fino all’espiazione pena, e poi accompagnato alla frontiera. Sulle condizioni inumane e degradanti degli accompagnamenti alla frontiera - persone legate mani e piedi, tenute al guinzaglio - ha già scritto lo scorso anno il Garante nazionale delle persone private della libertà personale. Nessuno finora aveva mai sentito parlare dell’impossibilità di espellere i criminali dal nostro Paese. Basti pensare ad Almasri, che è stato riaccompagnato in Libia su un volo di stato, sottraendolo persino a un mandato di cattura internazionale. Ma forse, i nove stati-nazione firmatari del documento, si riferivano all’impossibilità di espellere i migranti irregolari che non hanno commesso alcun reato? Cioè, quelli che arrivano dal mare o alloggiati negli interstizi degli autocarri e che, se sopravvivono, una volta toccato terra richiedono la protezione internazionale? Perché se così fosse, ci troveremmo di fronte al tentativo di sovvertire l’intero ordine delle convenzioni internazionali e non solo quello facente capo al Consiglio d’Europa che comprende 46 stati, di cui la Corte di Strasburgo è un organo. La Convenzione Europea è una fonte di natura sovraordinata alla legge ordinaria e l’Italia, avendola firmata e ratificata, è tenuta a conformarvisi. In tema di migrazioni, il Belpaese ha riportato numerose condanne per aver sistematicamente dato luogo a respingimenti collettivi, aver violato il diritto di difesa e di assistenza ai migranti, per averne illegittimamente limitato la libertà personale pur in assenza di ragioni che lo giustificassero ai sensi dell’art. 13 della Costituzione. Ci sono degli incisi di questo documento che riecheggiano come spari - “the protection of the wrong people” (la protezione della gente sbagliata) - e danno la misura dell’abnorme vizio di prospettiva da cui sono state generate: anche i criminali, ammesso si parli di loro, hanno diritto a espiare la propria pena nel rispetto dei loro diritti fondamentali e della dignità umana. Le pene non devono sfociare in trattamenti inumani e degradanti e tutti hanno diritto a un giusto processo e a non essere respinti verso un paese che li sottoporrebbe a persecuzione o alla pena di morte. Ma l’esplicito intento di questi Primi Ministri, alludendo ai migranti delinquenti, è esercitare indebite pressioni sulla Corte Europea affinché quest’ultima smetta di fare la Corte dei diritti e attenui un po’ la tutela di quegli ultimi, perseguitati e poveri che arrivano a frotte alle nostre frontiere, rei di essere fuggiti dall’inferno e di non poter essere espulsi perché - udite udite - richiedenti asilo ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951. Fino a che punto si spingeranno queste iniziative, tutt’altro che sostenibili giuridicamente, di delegittimazione dei giudici che rimangono saldi al timone della tutela dei diritti fondamentali? Il segretario generale del Consiglio d’Europa, Alain Berset ha rimandato al mittente la provocazione italo-danese. E’ ora che anche la società civile faccia sentire la propria voce, o non rimarrà più nessuno da salvare. La detenzione dei migranti per conto terzi in Bosnia ed Erzegovina di Alessio Giordano altreconomia.it, 28 maggio 2025 Il piano del governo del Regno Unito di realizzare nei Balcani degli hub di rimpatrio dei richiedenti asilo che hanno visto respinta la propria domanda di protezione ha sollevato anche le critiche di Human rights watch. “L’esternalizzazione delle responsabilità pone le persone migranti e richiedenti asilo in una situazione di grave rischio”, spiega Michael Garcia Bochenek, consulente della divisione dei diritti dell’infanzia dell’organizzazione. Nel marzo di quest’anno il governo del Regno Unito ha proposto di istituire in Bosnia ed Erzegovina -oltre che in Serbia, Albania e Macedonia del Nord- un centro per il rimpatrio in cui detenere i richiedenti asilo che hanno visto respinta la propria domanda di protezione in territorio britannico. Secondo il piano avanzato dalla ministra dell’Interno Yvette Cooper, le persone verrebbero inviate in queste strutture in attesa di essere rimpatriate nei loro Paesi di origine o in altri Paesi terzi. La proposta del Regno Unito si allinea alla visione della Commissione europea, che vorrebbe introdurre un Sistema europeo comune di rimpatrio con la possibilità, tra le altre cose, “di rimpatriare in un Paese terzo persone il cui soggiorno nell’Ue è irregolare che sono destinatarie di una decisione definitiva di rimpatrio”. Facendo riferimento ai Balcani a prendere posizione contro questo progetto è anche Human rights watch (Hrw), che ad aprile ha trascorso due settimane proprio in Bosnia per indagare la condizione delle persone migranti e richiedenti asilo. Secondo Michael Garcia Bochenek, consulente senior della divisione dei diritti dell’infanzia dell’organizzazione, “è una pessima strategia, anche solo considerando che si tratta di un Paese che già fatica a gestire il fenomeno migratorio già presente sul suo territorio”. Bochenek ha partecipato all’ispezione del centro di detenzione di Lukavica, nei pressi della capitale Sarajevo, rilevando “ritardi nell’esecuzione dei rimpatri dei richiedenti asilo respinti, oltre a coloro detenuti per motivi di sicurezza nazionale o penali, che in alcuni casi portano a reclusioni prolungate, fino a un massimo di 18 mesi”. Inoltre in occasione del monitoraggio i membri di Hrw non hanno potuto parlare in privato con le persone detenute a causa della presenza costante del personale della struttura. Tuttavia, spiega Bochenek ad Altreconomia, “Vaša Prava BiH -organizzazione bosniaca che ha il mandato di fornire consulenza legale gratuita alle persone trattenute- ha registrato diverse denunce da parte dei detenuti circa le condizioni di vita all’interno della struttura detentiva”. L’organizzazione che si occupa di diritti civili in Bosnia ed Erzegovina ha riferito che il servizio per gli Affari stranieri è solito non comunicare i dettagli delle accuse né ai detenuti né ai loro avvocati, soprattutto nei casi che riguardano minacce alla sicurezza nazionale. “Nel centro poi non sono previsti nemmeno servizi di supporto psicologico per le persone che presentano problematiche di salute mentale”, aggiunge Bochenek. Secondo quanto riportato da Hrw, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) in Bosnia avrebbe esplicitato le proprie preoccupazioni circa la trasparenza e la responsabilità nei centri di detenzione presso l’ufficio del Difensore civico del Paese, sollecitandolo a produrre un rapporto ufficiale sulle loro condizioni. Ad oggi però non è stata ancora pubblicata alcuna indagine. Volgendo poi l’attenzione al sistema di asilo della Bosnia ed Erzegovina nel suo complesso, il consulente senior di Human Rights Watch denuncia “l’assenza di un’adeguata protezione dei richiedenti asilo, tempi lunghissimi per lo svolgimento delle procedure, accesso limitato alla consulenza legale e preoccupazioni per le condizioni e l’accesso ai servizi”. Secondo i dati del ministero della Sicurezza del Paese, nel 2023 -ultimo anno per cui sono stati resi disponibili dati completi- la Bosnia ha registrato appena 147 domande di asilo. Di queste, solo quattro persone hanno ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato e 63 la protezione sussidiaria. Nel report del dicembre 2024 dedicato alla Bosnia ed Erzegovina, l’Unhcr ha rilevato poi che i tempi per l’esame della richiesta di protezione sono estremamente lunghi: sebbene la legge preveda la valutazione delle domande entro sei mesi, infatti, spesso ne trascorrono altrettanti solo per la prima audizione e fino a 344 giorni per la notifica della decisione. Bochenek precisa che “in questo lasso di tempo, i richiedenti asilo sono essenzialmente privi di diritti e possono legalmente cercare lavoro solo dopo nove mesi dalla registrazione”. Va detto poi che per le persone in cerca di protezione la Bosnia resta principalmente un Paese di transito verso l’Unione europea. Nel 2023 oltre quattromila cittadini di Paesi terzi sono stati riammessi in Bosnia dagli Stati membri dell’Ue in base ad accordi di riammissione. A loro volta, sulla base di questi accordi, le autorità bosniache hanno trasferito 298 persone, principalmente verso la Serbia. Sono stati invece 683 i provvedimenti di detenzione e 79 quelli di espulsione. A questo proposito però Bochenek puntualizza che “a causa della formulazione vaga del rapporto annuale sulle migrazioni del ministero della Sicurezza, non è chiaro quante di queste decisioni siano state effettivamente eseguite”. È bene ricordare, come fa il rappresentante di Hrw, che “la mancanza di accesso alla protezione e i rischi di una detenzione prolungata senza adeguate garanzie di tutela portano molti cittadini di Paesi terzi riammessi in Bosnia a tentare di varcare nuovamente i confini dell’Unione europea, principalmente attraverso la Croazia”. Di fronte a questa realtà fatta di ritardi nelle procedure, accesso limitato all’assistenza legale e gravi carenze circa le condizioni e l’accesso ai servizi delle persone migranti, Human rights watch non ha dubbi sui percorsi che Ue e Regno Unito dovrebbero intraprendere in collaborazione con la Bosnia ed Erzegovina e gli altri Paesi della regione. “Bisognerebbe smettere di puntare sull’esternalizzazione delle frontiere e ora anche dei rimpatri -conclude Michael Garcia Bochenek-. I partner internazionali dovrebbero dare il loro contributo per rafforzare i sistemi di protezione per richiedenti asilo e migranti in Bosnia e non solo. Cambiare strada è ancora possibile, si tratta ?solo’ di una questione di volontà politica”. Nelle prigioni russe i detenuti ucraini vengono torturati sistematicamente di Riccardo Piccolo linkiesta.it, 28 maggio 2025 Le testimonianze al Parlamento europeo dei cittadini ucraini liberati rivelano un protocollo istituzionalizzato di trattamento disumano, in totale violazione delle convenzioni internazionali. “Ogni giorno venivano picchiati da infermieri speciali, da lavoratori del carcere, ci è capitato perfino di essere aggrediti da cani”. Così Vladislav Hatsun, marinaio ucraino di ventitré anni, ha descritto al Parlamento europeo i ventinove mesi trascorsi in una prigione russa. La sua testimonianza si inserisce in un quadro più ampio di abusi documentati, che riguardano migliaia di civili e militari ucraini ancora detenuti in strutture dove le convenzioni internazionali risultano sistematicamente violate. Proprio mentre Hatsun riferiva la sua esperienza a Bruxelles, la scorsa settimana a Istanbul, Russia e Ucraina hanno concluso il più ampio scambio di prigionieri dall’inizio del conflitto: mille detenuti per parte, liberati in tre giorni. È stato l’unico risultato tangibile dei primi colloqui diretti tra i due Paesi, dopo oltre tre anni. L’operazione, ribattezzata “mille per mille”, ha rappresentato un gesto simbolico di apertura, ma i margini per un vero negoziato restano ristretti. I colloqui si arenano non appena si affronta il tema del cessate il fuoco, e mostrano un evidente squilibrio: da un lato, la volontà di dialogo dell’Ucraina, dall’altro, le ambiguità - o la chiusura - della Russia. A dimostrarlo è il paradosso di domenica: mentre i prigionieri venivano rilasciati, Mosca lanciava uno dei più massicci attacchi aerei del conflitto, colpendo le città ucraine con trecento sessantasette droni e missili, e causando almeno dodici morti. La questione dei prigionieri è diventata uno dei capitoli più delicati del conflitto. Dal marzo 2022, secondo il Centro di coordinamento ucraino per il trattamento dei prigionieri di guerra, quasi cinquemila cittadini ucraini sono stati rilasciati, ma oltre duemila civili ucraini si trovano ancora detenuti dalle autorità russe, insieme a un numero imprecisato di militari. Le immagini di domenica, con gli autobus carichi di soldati ucraini appena rientrati - volti emaciati, capelli rasati - suggeriscono condizioni di prigionia estremamente dure. Una realtà che resta in gran parte nascosta, dal momento che ai media e alle organizzazioni indipendenti è impedito l’accesso diretto, e che può essere ricostruita solo grazie alle testimonianze di chi è riuscito a tornare. La gestione dei prigionieri ucraini, infatti, segue un iter complesso e poco trasparente: molti vengono trattenuti inizialmente in strutture nei territori occupati, ma spesso sono soggetti a trasferimenti multipli all’interno della Federazione Russa, dove le condizioni di detenzione variano significativamente, e includono centri con standard molto inferiori a quelli riconosciuti dal diritto internazionale. Questo sistema decentrato e volutamente poco tracciabile rende estremamente difficile monitorare lo stato dei detenuti, limitando fortemente l’accesso di organizzazioni umanitarie indipendenti. Le testimonianze dirette, però, restituiscono un quadro preciso. Vladislav Hatsun ha raccontato di un regime carcerario che mira a privare i prigionieri della dignità più elementare: “Dovevamo comportarci come animali, non potevamo andare in bagno quando volevamo. Dovevamo aspettare il permesso dei lavoratori del carcere”. Le violenze erano quotidiane, inflitte con tubi, bastoni di plastica o di gomma, e strumenti elettrici. Più che singoli abusi, i prigionieri descrivono una brutalità sistematica, segno di pratiche istituzionalizzate. Secondo Yevgeny Malik - anche lui detenuto per oltre due anni, e oggi responsabile operativo dell’Ong Borderlands - il sistema penitenziario russo ha sviluppato regole specifiche per i prigionieri ucraini. In alcune strutture è stato introdotto quello che lui ha definito “regime da strada”: un protocollo che impone ai detenuti di restare in piedi ogni giorno, dalle sei del mattino alle dieci di sera, indipendentemente dall’età o dalle condizioni di salute. Sedici ore consecutive in posizione eretta costituiscono, di fatto, una forma di tortura posizionale, che compromette in modo permanente le articolazioni e la circolazione. Le limitazioni imposte all’interno delle carceri creano un ambiente di controllo totale. Non è consentito camminare, parlare, sorridere, appoggiarsi a un muro o a un letto. “Ogni stanza ha una videocamera, e ogni prigione russa ha un ufficiale di servizio giornaliero che controlla tutta la situazione”, ha continuato Malik. Persino azioni elementari, come andare in bagno o bere acqua, sono concesse solo su ordine esplicito. Guardare fuori dalla finestra può scatenare punizioni collettive. La procedura punitiva segue protocolli precisi. “Le guardie fanno uscire tutti i prigionieri dalla stanza nel corridoio”, dove vengono picchiati e torturati, spesso utilizzando cani addestrati all’aggressione. Le conseguenze sono durature: “molti prigionieri ucraini tornano a casa dalla Russia senza pelle sui piedi”, a causa delle infezioni contratte dalle ferite non curate. Gli interrogatori rappresentano un ulteriore livello di violenza organizzata. Malik ha testimoniato che “utilizzano metodi tradizionali per loro. Sottopongono i prigionieri al waterboarding, rompono le loro ossa con tubi di plastica. Li elettrizzano regolarmente, e persino inseriscono aghi sotto le unghie”. Un trattamento che nemmeno fa distinzione tra militari e civili: “Nella mia stanza c’era un uomo civile che non era mai stato in nessun esercito, nemmeno in Ucraina”, che è stato picchiato fino a perdere “una quantità enormemente grande del suo peso naturale”. Anche le precarie condizioni sanitarie si sono trasformate in uno strumento strategico di tortura, nelle mani delle autorità russe. Vladyslav Jayvoronok, ex combattente del reggimento Azov, ha raccontato che “l’assistenza medica durante la prigionia russa… è stata terribile”. Ferito gravemente in combattimento, e catturato poche ore dopo - le lesioni gli sono costate una gamba - ha ricevuto antibiotici soltanto al settimo giorno, con il rischio concreto di setticemia e cancrena. “A dire il vero, i russi non volevano ucciderci. Non ne avevano motivo… forse stavano semplicemente aspettando che morissi, non lo so. Ma sono stato fortunato, sono ancora vivo. Molti altri non lo sono stati”. In alcuni casi, la negazione di cure mediche essenziali si è tradotta in una condanna a morte. Jayvoronok ha ricordato la vicenda di un civile ucraino affetto da epatite, che avrebbe avuto bisogno di farmaci salvavita. “Un medico russo - se così si può chiamare - ha detto: “Posso solo pregare che venga scambiato, perché questo medicinale è troppo costoso”“. L’uomo è morto sei mesi dopo, in carcere, senza che la sua cattura fosse mai notificata alla parte ucraina. “Per tutto quel tempo - ha aggiunto Jayvoronok - i russi non hanno mai informato l’Ucraina che era stato preso”. La mancata registrazione presso il Comitato Internazionale della Croce Rossa lascia infatti i detenuti ucraini senza alcuna tutela legale, esposti a condizioni di prigionia senza controlli e garanzie. Le pratiche descritte dai testimoni costituiscono chiare violazioni degli articoli tredici-quattordici e diciassette-trentadue della Terza Convenzione di Ginevra, che garantiscono ai prigionieri di guerra protezione contro violenza, intimidazione e umiliazioni, stabilendo al contempo standard minimi internazionali per alloggio, nutrizione e cure mediche. Di fronte a queste testimonianze, la presidente del gruppo Renew Europe, Valérie Hayer, ha qualificato senza esitazioni questi atti come “crimini contro l’umanità”, sottolineando con fermezza che “l’Europa non chiuderà un occhio su queste violazioni. Non ci può essere compromesso sulla dignità umana”. Durante l’audizione organizzata dal gruppo Renew Europe, è intervenuto anche Petras Auštrevi?ius, parlamentare lituano e relatore ombra per l’Ucraina, che ha ribadito che “qualsiasi pace con lo stato aggressore, la Russia, deve includere disposizioni molto chiare sul ritorno” di tutti i prigionieri, dei civili detenuti e dei circa “ventimila bambini ucraini” trasferiti in Russia. Per quest’ultima violazione del diritto internazionale, la Corte penale internazionale ha già emesso un mandato d’arresto contro Vladimir Putin. Accanto alle violazioni materiali dei diritti, va posta particolare attenzione anche ai danni psicologici, che rappresentano una ferita profonda e duratura per i prigionieri di guerra. I soldati, consapevoli di questa realtà, hanno affrontato anche questo tema durante la conferenza stampa al Parlamento europeo. Hanno infatti sottolineato come le torture subite lascino conseguenze mentali destinate a protrarsi nel tempo, con disturbi post-traumatici da stress (Ptsd), che possono manifestarsi anche “venti o trent’anni dopo” l’esperienza della prigionia. Malik, in particolare, ha illustrato però come l’Ucraina abbia già sviluppato “un sistema di assistenza medica efficace, in collaborazione con i paesi europei e gli Stati Uniti”, mentre la sua organizzazione, Borderlands, ha avviato un centro specializzato per il trattamento del Ptsd, che accoglie e cura civili e militari. Stati Uniti. Cinque anni fa moriva George Floyd. Ma la polizia uccide ancora (di più) di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 28 maggio 2025 Nulla è cambiato dalla morte dell’afroamericano che accese il movimento “Black lives matter”: gli omicidi commessi da agenti negli Stati Uniti sono aumentati del 20 per cento. “I can’t breathe”. Solo tre parole, sussurrate per nove minuti con la gola schiacciata dal ginocchio dell’agente di polizia Derek Chauvin, le ultime della sua vita. Cinque anni fa l’afroamericano George Floyd moriva in una strada di Minneapolis durante un controllo di polizia. Era disarmato. Le immagini del volto premuto sull’asfalto, gli occhi terrorizzati, il fiato che si spegne lentamente mentre implora pietà erano state riprese da un passante e hanno fatto il giro del mondo. E quell’espressione “non riesco a respirare” non era solo un grido di disperazione individuale ma il simbolo di un’intera comunità che fatica a respirare sotto il peso dell’ingiustizia e della discriminazione. Nei mesi seguenti nasce il movimento Black lives matter, milioni di persone scendono in piazza negli Stati Uniti e altri Paesi, una mobilitazione senza precedenti che ha riportato al centro del dibattito pubblico la brutalità della polizia e il razzismo sistemico negli Stati Uniti. Eppure, a cinque anni da quel giorno maledetto, nulla sembra davvero cambiato. Al contrario. Secondo un’inchiesta del New York Times, basata su dati raccolti dal progetto Mapping Police Violence, negli ultimi cinque anni le uccisioni da parte delle forze dell’ordine sono aumentate anziché diminuire. Nel 2024, la polizia americana ha ucciso 1.226 persone, con un incremento del 18% rispetto all’anno precedente alla morte di Floyd. Neri e ispanici continuano a essere i più colpiti, in buona parte uccisi nel corso di scontri a fuoco con le forze dell’ordine, ma sempre più spesso in circostanze assurde a causa dell’uso sproporzionato della forza nei confronti di individui inermi. Durante la campagna presidenziale del 2020, Joe Biden aveva promesso una riforma radicale della polizia americana. Il nome della legge doveva essere emblematico: George Floyd Justice in Policing Act e prevedeva l’abolizione delle tecniche di strangolamento, l’uso obbligatorio delle bodycam per gli agenti e l’istituzione un registro nazionale dei poliziotti coinvolti in casi di abuso. E infine la limitazione della cosiddetta immunità qualificata, un principio che protegge gli agenti da molte forme di responsabilità legale. Il disegno di legge venne approvato alla Camera, ma si arenò al Senato, allora controllato dai repubblicani. Nel maggio 2022, Biden fu costretto a ripiegare su un ordine esecutivo, dal valore simbolico e dall’efficacia limitata, soprattutto in un Paese dove la polizia è frammentata in migliaia di corpi autonomi, ciascuno con regole proprie. Paradossalmente, sono stati gli Stati federati, e non il governo centrale, a muoversi con più decisione contro gli abusi di polizia. Secondo il Howard Center for Investigative Journalism, tra il 2020 e il 2022 sono state approvate circa 300 nuove leggi a livello locale, con interventi su formazione degli agenti, uso della forza e obblighi di trasparenza. La California, ad esempio, ha messo al bando le prese al collo, mentre Utah, Oregon e Arizona hanno imposto agli agenti l’obbligo di segnalare l’uso eccessivo della forza da parte dei colleghi. Tuttavia, l’efficacia di queste misure è rimasta circoscritta. Negli Stati più progressisti, le morti causate dalla polizia si sono stabilizzate; in quelli più conservatori, invece, sono aumentate drasticamente. Sempre secondo il New York Times, una possibile spiegazione è la reazione ostile al movimento per la riforma della polizia: in molti Stati repubblicani, le autorità avrebbero rafforzato il potere delle forze dell’ordine proprio in risposta alle manifestazioni del Black lives matter. L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca ha fatto il resto, rendendo impensabile la riforma della polizia.