Suicidi in carcere, secondi solo alla Francia: i numeri smentiscono Nordio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 maggio 2025 Con l’ennesima morte, tra container prefabbricati, leggi “forti” e nuovi reati, il sovraffollamento continua ad aumentare, mentre Nessuno Tocchi Caino chiede subito la liberazione anticipata speciale. Il giovane tunisino ha scelto la notte per farla finita. Era stato trasferito poche ore prima nella cella d’isolamento numero 4 del terzo reparto del carcere di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), come misura punitiva dopo atti di autolesionismo e danneggiamenti insieme a due compagni. Intorno all’una di venerdì notte, il personale di servizio lo ha trovato senza vita: un lenzuolo annodato all’inferriata della finestra gli ha tolto ogni respiro. Aveva poco più di vent’anni, né le cure mediche ricevute in infermeria né la compagnia di altri detenuti nella stessa cella avevano evitato il gesto estremo. Dietro a questa tragedia, però, non c’è un caso isolato. Nel 2024 sono stati 90 i suicidi nelle carceri italiane, il dato più alto da trent’anni a questa parte e superiore a quello record del 2022, quando se ne contarono 84. Ristretti Orizzonti, il giornale del carcere di Padova e di Venezia che dal 1992 monitora il fenomeno, segnala un tasso di 14,7 suicidi ogni 10.000 detenuti: venti volte superiore rispetto alla popolazione libera. Qui dentro la vita vale meno, la solitudine e l’ansia delle celle piene spingono al limite, e già nei primi cinque mesi del 2025 si contano 33 suicidi, quasi uno alla settimana. “Il problema è estremamente complesso e non si risolve con gli slogan”, ha detto il 15 aprile il ministro della Giustizia, CarloNordio, sostenendo che l’Italia “non è certo al primo posto tra i suicidi in carcere in Europa, anzi è verso gli ultimi”. Ma i numeri raccontano un’altra storia. Secondo i dati del Consiglio d’Europa relativi al 2022, i suicidi assoluti in Italia erano il secondo numero più alto tra i 46 Paesi del Consiglio, superati solo dalla Francia, e il tasso - 15 ogni 10.000 detenuti - posiziona il nostro Paese stabilmente tra i primi cinque della Ue. Venticinque Stati comunitari hanno cifre più basse. Anche il confronto su periodi più lunghi smonta la narrazione ministeriale. La rivista The Lancet Psychiatry, in uno studio pubblicato nel 2024, conferma che l’Italia non rientra affatto tra i Paesi con meno suicidi in carcere, calcolando rapporti costantemente superiori a quelli di molte democrazie occidentali. Di fronte a questi numeri, Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino non nasconde l’indignazione: “Con questo giovane tunisino siamo già a 33 suicidi nei primi cinque mesi dell’anno, 75 morti “per altre cause”, per un totale di 108 decessi “per pena” - ricorda -. Il ragazzo era stato spostato dalla Puglia alla Sicilia per sovraffollamento. Ecco perché è urgente approvare la proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale, presentata nel 2022 da Roberto Giachetti e ora appoggiata dal presidente del Senato Ignazio La Russa”. Eppure questo governo, come già notiziato ai tempi, ha puntato soprattutto sull’edilizia. Il piano da 32 milioni di euro del ministero - affidato a Invitalia - prevede l’installazione di 16 moduli prefabbricati, le cosiddette “celle container”, nei cortili di nove istituti, per aggiungere appena 384 posti letto: una goccia nel mare del sovraffollamento. Il costo? 83.333 euro a posto, quanto un piccolo appartamento di provincia. Spazi ridotti (6×5 metri per 24 detenuti), servizi minimi, una palestra e biblioteca improvvisate: una soluzione tampone che ignora salute mentale, personale e percorsi di reinserimento. Sul fronte della pena, il governo non ha lesinato nuove norme repressive. Dal decreto Sicurezza al decreto Caivano, fino al disegno di legge n. 1660, sono stati introdotti decine di nuovi reati e aumenti di pena: dal “reato di rivolta penitenziaria”, punito con fino a 8 anni di carcere per ogni forma di resistenza (anche passiva), al divieto di manifestazione in strada con rischio per la sicurezza pubblica, passando per norme contro i rave party e norme che aumenta i giorni di contenzione nei Cpt dei migranti senza permesso di soggiorno. Risultato? Più persone in cella, in condizioni sempre più critiche, senza un piano serio di assistenza psicologica o alternative alla detenzione. Mentre le cifre continuano a crescere, rimane la sensazione di un’emergenza gestita a colpi di container e reati, senza mai affrontare davvero le cause profonde: il sovraffollamento, la mancanza di operatori, l’assenza di percorsi di recupero. In questo contesto, ogni vita persa è un fallimento collettivo. La riforma delle carceri non può risolversi con moduli prefabbricati o nuovi articoli di legge: servono visione, riforme radicali, risorse umane e volontà politica, prima che il prossimo giovane trovato impiccato diventi solo un altro numero. Umanizzare il carcere promuove anche il benessere della Polizia penitenziaria di Valentina Arcovio sanitainformazione.it, 27 maggio 2025 Uno studio dell’Università di Milano-Bicocca rivela come un clima carcerario orientato al supporto e alla rieducazione dei detenuti migliora anche l’equilibrio psico-fisico del personale penitenziario, riducendo il burnout. Trasformare la cultura delle carceri è una questione di diritti dei detenuti, ma anche di benessere psicologico e professionale degli agenti penitenziari. È quanto emerge da una ricerca, pubblicata sulla rivista Journal of Criminal Psychology, condotta da un team di ricercatori del dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca, in collaborazione con la Direzione generale della Formazione del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. Lo studio ha coinvolto 1.080 agenti della Polizia penitenziaria italiana. Supporto e rieducazione riducono il rischio burnout del personale - I risultati hanno messo in luce che promuovere norme sociali finalizzate al supporto e alla rieducazione delle persone ristrette aumenta la soddisfazione lavorativa e riduce il rischio di burnout del personale impiegato negli istituti penitenziari. “Gli agenti che lavorano in carceri orientati alla dignità e alla rieducazione dei detenuti riportano livelli più bassi di esaurimento emotivo”, spiega Marco Marinucci, primo autore e assegnista di ricerca a Milano-Bicocca. “Questo indica che promuovere una cultura penitenziaria improntata al supporto e al reinserimento sociale non solo tutela i diritti dei detenuti, ma rappresenta - continua - anche una leva fondamentale per proteggere la salute psicologica degli agenti e prevenire fenomeni di abuso”. La ricerca, che combina un’indagine correlazionale e una manipolazione sperimentale, ha evidenziato che il clima organizzativo ha un impatto significativo sulla qualità del lavoro nelle carceri oltre che sull’equilibrio psicologico degli agenti. Necessari percorsi formativi per aiutare gli agenti a gestire l’empatia - Una cultura penitenziaria che mira al recupero dei carcerati, attraverso la promozione di un clima relazionale disteso ed empatico, favorisce atteggiamenti e intenzioni comportamentali più supportivi e meno punitivi, contribuendo a ridurre l’ostilità tra agenti e detenuti e, favorendo per gli agenti un coinvolgimento positivo nel lavoro. Tuttavia, lo studio segnala anche una possibile ambivalenza: un’eccessiva vicinanza emotiva con i detenuti può, in assenza di un’adeguata preparazione, aumentare lo stress emotivo degli agenti di polizia penitenziaria. Per questo motivo, i ricercatori suggeriscono di affiancare al cambiamento culturale percorsi formativi capaci di aiutare gli agenti a gestire l’empatia in modo professionale e contenere i rischi di burnout. Indicazioni per promuovere un cambiamento culturale - “Oggi più che mai occorre ripensare la formazione e la gestione del personale penitenziario”, dichiara Marinucci. “Costruire un ambiente orientato al supporto e alla rieducazione non è solo un obbligo etico, ma una strategia concreta per migliorare le condizioni di lavoro, ridurre i rischi psicologici e costruire carceri più sicure e giuste”, aggiunge. Lo studio, realizzato con il sostegno del ministero della Giustizia, fornisce anche indicazioni operative per promuovere un cambiamento culturale negli istituti penitenziari, a beneficio tanto del personale quanto delle persone detenute. Una voce accanto ai detenuti. Stefano Anastasìa, Garante del Lazio garantedetenutilazio.it, 27 maggio 2025 Una corposa intervista a Stefano Anastasìa pubblicata sul terzo numero di “Voci di ballatoio”, il giornale realizzato interamente da una redazione composta da detenuti della sezione D della Casa Circondariale di Velletri. Un momento di confronto costruttivo per ragionare sulle criticità del sistema e sulle soluzioni possibili per provare a superarle. Sovraffollamento, territorialità, misure alternative e diritto alla salute sono i temi al centro delle richieste che arrivano dalla popolazione carceraria. Quali sono i compiti del Garante dei diritti dei detenuti? I compiti del Garante sono determinati dal nome stesso, che talvolta può sembrare eccessivo rispetto ai poteri effettivi. Il Garante, infatti, non ha un potere dispositivo nei confronti dell’amministrazione penitenziaria. Non può ordinare alla direzione di cambiare l’allocazione di un detenuto: questa competenza spetta al magistrato di sorveglianza, attraverso una procedura più complessa. Tuttavia, il Garante ha il compito di contribuire alla tutela dei diritti delle persone private della libertà, pur senza poteri diretti. Esistono soluzioni che si possono trovare senza l’intervento del giudice. In alcune culture orientali si dice che chi va dal giudice perde la faccia: si dovrebbe prima tentare una soluzione alternativa, ed è proprio questo il ruolo del Garante. L’ordinamento penitenziario gli attribuisce alcune facoltà, come l’accesso alle strutture senza richiesta di autorizzazione e il colloquio diretto, personale e riservato con i detenuti. Inoltre, il Garante riceve i reclami ordinari dei detenuti (articolo 35), sebbene non quelli giurisdizionali (35-bis e 35-ter). Attraverso questi strumenti, può segnalare problemi individuali o collettivi all’amministrazione penitenziaria o, se necessario, al magistrato di sorveglianza. Essendo nominato dalla Regione, il Garante può intervenire anche sulle attività e politiche regionali, che hanno un impatto significativo sul sistema penitenziario. Un aspetto particolarmente rilevante è l’assistenza sanitaria, di competenza regionale, ma anche le politiche sociali, la formazione e il reinserimento lavorativo. Nell’ultima revisione della legge sul Garante del Lazio (2022), è stato stabilito che tutti gli atti generali della Regione nelle materie di competenza del Garante devono acquisire il suo parere prima dell’adozione. Ad esempio, il programma di assistenza sanitaria 2024-2026 è stato discusso anche con il Garante. Il suo parere può essere critico o negativo, ma la decisione finale spetta alla giunta regionale. Il compito del Garante è cercare di essere persuasivo e farsi ascoltare. Il carcere non è un tema che appassiona l’opinione pubblica e, di conseguenza, nemmeno la politica. Tuttavia, nella mia esperienza, ho riscontrato un’attenzione trasversale in Regione Lazio, sia nelle amministrazioni di sinistra che in quelle di destra. La Regione ha investito risorse importanti, come la ristrutturazione del centro clinico di Regina Coeli e la riattivazione delle sale operatorie. Inoltre, si sta progettando una Casa della Salute a Rebibbia, per concentrare i servizi specialistici dei quattro istituti in un unico poliambulatorio, migliorando l’efficienza dell’assistenza sanitaria per i detenuti. Queste iniziative non risolvono tutti i problemi, ma rappresentano un passo avanti concreto. Quali sono le motivazioni che l’hanno portata a ricoprire un ruolo così importante? Queste sono passioni che si sviluppano presto, come diceva il mio amico e collega Luigi Manconi, Senatore che forse qualcuno di voi conosce. Manconi sosteneva che chi si occupa di carcere senza un interesse diretto spesso ha qualcosa nella propria storia personale o familiare che lo spinge a farlo. Nel suo caso, la connessione derivava dal padre, medico della colonia penale militare dell’Asinara durante la guerra. Io, scavando nella mia storia familiare, ho scoperto che mio padre, quando perse il proprio genitore, si trovava in Eritrea. Il fratello maggiore era internato in un campo di concentramento e mio padre, per mantenersi, lavorò come guardia carceraria ad Asmara nel 1943, in un contesto certamente più complesso di quello attuale. Poi ha cambiato percorso, ma quell’esperienza ha segnato la nostra storia familiare. Per quanto riguarda me, ho iniziato a occuparmi di carcere poco più che ventenne, per passione e curiosità. Sono stato tra i fondatori dell’Associazione Antigone nel 1991, e insieme abbiamo sviluppato l’idea di un difensore civico per i detenuti. Questo progetto ha portato alla figura del Garante, il cui primo esempio è stato quello comunale di Roma, con Luigi Manconi come Garante e io come dirigente del suo ufficio. Successivamente, ho ricoperto diversi ruoli: presidente dell’Associazione Antigone, presidente della Conferenza del Volontariato per la Giustizia e quando Manconi è diventato sottosegretario alla Giustizia nel 2006, sono stato il suo capo di segreteria. Da sempre mi occupo di questi temi, anche se parallelamente insegno filosofia e sociologia del diritto all’università, discipline che, inevitabilmente, toccano il mondo del carcere. L’idea iniziale era quella di creare un difensore civico nazionale per i detenuti. Alla fine degli anni ‘90 fu presentata una proposta di legge, ma la politica nazionale non era ancora pronta. Così, si decise di sperimentare a livello locale: nel 2003 nacque il Garante del Comune di Roma e la legge regionale del Lazio, che portò alla nomina del primo Garante regionale nel 2004, l’avvocato Angelo Marroni. Da allora il progetto è cresciuto. Oggi quasi tutte le regioni hanno un Garante regionale e molti comuni hanno istituito garanti locali. Nel 2013 è stata approvata la legge per il Garante nazionale, e nel 2016 è stato nominato il primo Garante nazionale. Il percorso è stato lungo, ma l’obiettivo è stato raggiunto. Quali criticità riscontra in questo periodo storico rispetto al sistema carcerario e quali sono secondo lei le priorità sulle quali intervenire e con quali criteri? La questione più urgente è sicuramente il sovraffollamento, un problema che dura da trent’anni e che, nel tempo, è stato contenuto solo grazie a interventi straordinari. Abbiamo avuto misure come l’indulto del 2006, la legge Simeone-Saraceni alla fine degli anni 90, che ha introdotto la sospensione della pena per condanne inferiori ai tre anni (poi estesa a quattro anni), l’”indultino” del 2003, la detenzione domiciliare speciale di Alfano e, dopo la condanna dell’Italia nel caso Torreggiani da parte della Corte Europea dei Diritti Umani, ulteriori provvedimenti. Anche la pandemia ha ridotto temporaneamente il numero di detenuti per motivi di salute pubblica. Oggi, però, assistiamo a una nuova crescita della popolazione carceraria senza che vi siano soluzioni concrete all’orizzonte. Non si tratta solo di un problema di spazio e di sovraffollamento nelle celle, ma anche di una questione legata alle risorse del personale, che fatica a gestire sia gli aspetti trattamentali e riabilitativi, sia quelli sanitari. Se una struttura è progettata per un certo numero di persone ma ne ospita molte di più, la qualità dell’assistenza inevitabilmente cala: meno colloqui, meno opportunità di reinserimento e una gestione complessivamente più difficile. Il carcere dovrebbe offrire un’opportunità di ricostruzione e non essere solo una parentesi di esclusione. È una responsabilità pubblica fornire ai detenuti strumenti concreti per il rientro in società, attraverso istruzione, formazione professionale e inserimento lavorativo. Attualmente, però, sono pochi i detenuti che riescono a ottenere un impiego stabile una volta fuori. I lavori all’interno degli istituti sono utili per mantenersi, ma non garantiscono una reale prospettiva di reinserimento. Anche il tema della salute mentale in carcere è particolarmente critico. La chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) è stata una riforma giusta e necessaria, ma non sono stati potenziati i servizi alternativi sul territorio. Di conseguenza, oggi ci troviamo con persone che sviluppano gravi problemi psichiatrici in carcere senza un’adeguata presa in carico. Le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS), che hanno sostituito gli OPG, sono insufficienti e non possono accogliere tutti. Inoltre, chi termina il percorso in REMS fatica a trovare soluzioni di continuità sul territorio, creando lunghe liste d’attesa e bloccando il sistema. La soluzione non può essere solo “costruire più REMS”. Questo significherebbe tornare alla vecchia logica dei manicomi, dove i malati di mente venivano semplicemente chiusi e dimenticati. Il vero investimento deve essere sul potenziamento dei servizi di salute mentale territoriali, affinché chi ha bisogno di assistenza possa riceverla senza essere costretto a rimanere in carcere o in REMS oltre il necessario. Il carcere non può essere un contenitore in cui far confluire indiscriminatamente tutti i problemi sociali, dalla marginalità economica alla malattia mentale. Serve un cambio di approccio che punti alla riduzione del sovraffollamento attraverso misure alternative alla detenzione, programmi efficaci di reinserimento e un rafforzamento della rete di servizi sociali e sanitari. Senza questi interventi, rischiamo di riprodurre gli errori del passato, con un sistema penitenziario che non solo non riabilita, ma anzi aggrava le condizioni delle persone che vi entrano. Negli ultimi dieci anni ritiene che ci siano stati cambiamenti significativi nell’ordine penitenziario? Se sì, quali? Negli ultimi dieci anni ci sono stati alcuni cambiamenti importanti. Ad esempio, è stato istituito il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, che ha rappresentato una presenza significativa nel monitoraggio e nell’orientamento del funzionamento dell’amministrazione penitenziaria. Tuttavia, la riforma del 2018, nata dagli Stati Generali dell’esecuzione penale voluti dal Ministro Orlando, si è rivelata piuttosto limitata rispetto alle potenzialità che avrebbe potuto avere. Di conseguenza, i cambiamenti effettivi che potrebbero fare la differenza li dobbiamo ancora vedere. Ad esempio, si era parlato di una riforma del regime dei colloqui, annunciata nel decreto dell’estate scorsa, ma finora l’unico cambiamento concreto è la possibilità, per il Direttore dell’istituto, di concedere telefonate straordinarie. Il decreto legge prevedeva una modifica normativa da parte del governo, che però non è ancora stata attuata. A mio avviso, questo cambiamento non è sufficiente rispetto alle reali necessità. Mi chiedo perché, se i detenuti non sono soggetti a censura sulla corrispondenza, non possano telefonare liberamente. Il problema è meramente organizzativo e tecnico: si tratta di dotare gli istituti di linee telefoniche adeguate e strumenti idonei. Un sistema più accessibile alle comunicazioni ridurrebbe molte problematiche, comprese quelle legate all’introduzione illegale di telefoni cellulari in carcere. Del resto, chi è in grado di scrivere lettere tutti i giorni dovrebbe avere la stessa possibilità di comunicare per telefono. In fondo, la telefonata è solo un’evoluzione della corrispondenza scritta. Si potrebbe pensare a delle limitazioni, come permettere le chiamate solo a contatti verificati, ma il principio di base resta: se un detenuto può scrivere liberamente, perché non dovrebbe poter telefonare? Questo potrebbe anche contribuire a prevenire situazioni di disagio psicologico e, in alcuni casi, salvare vite. Lo diceva anche una pubblicità di qualche anno fa: una telefonata allunga la vita. Un’altra questione riguarda le telefonate ai figli: oggi, superato il decimo anno di età, un bambino non ha più diritto a sentire il padre con una chiamata supplementare. Si passa da sette telefonate settimanali a una sola. Questa è una regola che andrebbe rivista per tutelare il legame familiare. Chiaramente, per alcuni detenuti in custodia cautelare, per cui sussiste il rischio di interferenze con l’esterno, devono rimanere misure restrittive. Ma per gli altri non si giustifica un divieto così rigido. In altri Paesi, la comunicazione tra detenuti e familiari è molto più diffusa. In Francia, ad esempio, in alcuni istituti è stato introdotto il telefono in cella, con la possibilità di chiamare fino a quattro numeri registrati. In Argentina, già vent’anni fa, nelle carceri federali - strutturate come veri e propri campus - i detenuti avevano telefoni disponibili nei loro spazi comuni e potevano ricevere chiamate senza particolari restrizioni. Esistono quindi modelli alternativi che potrebbero essere presi in considerazione per migliorare il sistema penitenziario italiano. Il portavoce dei Garanti territoriali, Ciambriello: “Tuteliamo il diritto di voto per i detenuti” garantedetenutilazio.it, 27 maggio 2025 In vista del referendum dell’8 e 9 giugno, il Garante campano ricorda che votare è un diritto anche in carcere. “I cittadini italiani si recheranno alle urne l’8 e il 9 giugno, chiamati a votare su cinque quesiti referendari abrogativi. I temi riguardano lavoro, diritti e cittadinanza. È necessario tutelare il diritto al voto anche per chi si trova in carcere”. Così Samuele Ciambriello, Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà e Garante campano. “Hanno diritto al voto -spiega Ciambriello - i detenuti che non ne abbiano perso il godimento, lo stesso vale per coloro che sono beneficiari di misure alternative. In particolare, può votare chi è cittadino italiano o di un altro paese membro dell’Unione Europea; chi è condannato a meno di 3 anni di reclusione o è condannato ad una pena tra i 3 e i 5 anni, ma non ha più la pena accessoria dell’interdizione. Per poter votare in carcere è necessario recuperare la propria tessera elettorale, tramite i familiari. Se non si possiede o si è smarrita, è possibile ottenere un duplicato chiedendo aiuto ad un operatore penitenziario. Successivamente, il detenuto dovrà presentare un’istanza in cui manifesta la volontà di votare e dovrà ricevere un modulo da firmare che l’Istituto penitenziario provvederà ad inviare al Comune di residenza. Il giorno delle votazioni sarà allestito un seggio speciale presso l’Istituto di pena”. “Il diritto di voto non è sempre garantito alle persone che si trovano in carcere, pur non avendo pene accessorie interdittive, a causa della mancanza di informazione sulle procedure e di meri problemi di disorganizzazione, oltre che per la mancata previsione del voto postale che impedisce il voto amministrativo a chi è detenuto in un carcere fuori dal Comune di residenza. C’è scarsa informazione nelle carceri sul diritto al voto. È importante la loro responsabilità di elettore, facciamo sì che il coordinamento tra le amministrazioni funzioni e non sia un diritto al voto solo sulla carta. Io mi auguro che le direzioni degli istituti penitenziari, i funzionari giuridico-pedagogici, i cappellani, i volontari e tutti coloro che entrano negli istituti penitenziari facciano da comunicatori e da ponte, affinché consentano ai cittadini reclusi di non perdere questo strumento di espressione democratica. E che quindi - conclude Ciambriello - diano informazione e promozione per consentire l’accesso al voto”. Prevenzione oncologica in carcere: “Così portiamo salute alle donne detenute e madri” di Silvia Pogliaghi trendsanita.it, 27 maggio 2025 Negli Istituti a Custodia Attenuata per Madri (Icam), le donne detenute convivono con i loro figli, spesso in età prescolare, in un contesto che cerca di bilanciare la funzione detentiva con quella di cura. Nonostante gli sforzi per rendere questi luoghi più accoglienti e “a misura di bambino”, restano ambienti in cui le donne sono private della libertà. Anche in questa realtà complessa, il diritto alla salute e alla prevenzione non può essere trascurato. Ne abbiamo parlato con Lorenzo Grimaldi, Coordinatore dei progetti di prevenzione primaria per fragilità sociali ed economiche di Lilt Milano che, in occasione della seconda edizione del Festival della Prevenzione, ha posto l’attenzione su un tema ancora poco esplorato: la prevenzione oncologica per le donne detenute, e in prospettiva, per l’intera popolazione carceraria. Quali sono le azioni di prevenzione che la Lilt sta realizzando nelle carceri milanesi? “La nostra esperienza nelle carceri è iniziata nel 2022 con l’Istituto a Custodia Attenuata per Madri, attraverso attività inizialmente sporadiche. È un nuovo target per le nostre attività di prevenzione primaria. Abbiamo potuto agire grazie a un’educatrice che lavora dentro ICAM. Nel 2023 abbiamo realizzato il primo progetto strutturato nel carcere di Bollate, dove siamo riusciti a portare il “pacchetto completo” di prevenzione: sensibilizzazione per le detenute, formazione per gli operatori penitenziari e visite gratuite con il nostro ambulatorio mobile, effettuando visite senologiche con mammografie e visite ginecologiche con Pap test. Recentemente abbiamo coinvolto anche la Casa Circondariale di San Vittore, che presenta complessità differenti, sia logistiche, sia per tipologia di popolazione detenuta”. In dettaglio, come si svolgono gli screening nell’ICAM? “Nell’ICAM abbiamo realizzato una mezza giornata di visite, effettuando nell’ambulatorio interno visite ginecologiche e senologiche con ecografie mammarie. Quest’ultima scelta è stata dettata dall’impossibilità di portare il nostro ambulatorio mobile all’interno della struttura e dal fatto che molte detenute sono giovani, sotto i 40 anni, per le quali l’ecografia è più indicata della mammografia. La stessa metodologia è stata adottata anche a San Vittore. La differenza principale tra le strutture sta nella fase di sensibilizzazione. L’ICAM è una struttura più aperta, con molte educatrici sia per i bambini che per supportare il ruolo di madri. In questo contesto, abbiamo potuto approfondire meglio la parte di prevenzione dei tumori femminili. Per molte detenute, che hanno cittadinanza straniera, era la prima volta che affrontavano il tema o che facevano una visita senologica al di fuori delle visite ginecologiche legate al parto”. Avete affrontato problemi di comunicazione legati alla multiculturalità? “Questo è il nostro “pane quotidiano”. Il mio settore, all’interno della LILT, è dedicato proprio alle comunità straniere; quindi, siamo abituati a superare barriere culturali che vanno oltre il semplice invito a fare una visita. L’équipe che ha operato in carcere è la stessa che normalmente lavora con le comunità straniere sul territorio. Tuttavia, dal punto di vista linguistico, abbiamo avuto qualche difficoltà. Fortunatamente, per le detenute latinoamericane ho potuto fare io stesso da traduttore, parlando spagnolo. In altri casi, la nostra psicologa di origine peruviana ha condotto direttamente le sessioni di sensibilizzazione in lingua. Cerchiamo sempre di avere un’équipe essa stessa multiculturale, perché nella nostra visione le operatrici con background migratorio rappresentano esempi di empowerment per le detenute stesse”. Quali sono i numeri degli screening realizzati? “I numeri variano molto tra le diverse strutture. A San Vittore, attualmente, ci sono circa 80-100 donne detenute, un dato comunque variabile. L’ICAM invece può ospitare al massimo dieci donne con almeno un bambino ciascuna. Noi quest’anno abbiamo visitato circa 160 donne a San Vittore e nell’ICAM e, fortunatamente, non abbiamo rilevato nessuna positività in nessuna delle strutture. I momenti di sensibilizzazione sono stati realizzati a dicembre a ICAM e a febbraio a San Vittore. Gli interventi hanno una durata di due ore. Le visite invece sono state realizzate tutte a marzo in concomitanza con il Festival della Prevenzione in occasione della Settimana della Prevenzione Oncologica (SNPO), con interventi di circa sei ore a giornata. Abbiamo realizzato 12 momenti di sensibilizzazione sui temi della prevenzione, salute, alimentazione e malattie sessualmente trasmissibili (in collaborazione con LILA) e 370 prestazioni di diagnosi precoce (visite ginecologiche, pap-test, visita senologica ed ecografie ginecologiche). Screening e sensibilizzazione hanno coinvolto oltre 160 donne detenute tra ICAM e San Vittore, con 370 prestazioni erogate. A Bollate, il progetto ha incluso anche il personale penitenziario.. Di 67 donne detenute visitate (di cui 29 italiane) 13 erano di età tra 16 e 25 anni; 28 di età tra 26 e 39 anni; 24 di età tra 40 e 59 anni e due di età tra 60 e 74 anni. Gli screening sono stati svolti nell’ultima settimana di marzo, durante la Settimana Nazionale della Prevenzione Oncologica. A Bollate, l’anno precedente, siamo riusciti a effettuare screening sia alle donne detenute che ad una percentuale di donne della polizia penitenziaria, con numeri molto più ampi: in quattro momenti di sensibilizzazione sui temi della prevenzione, salute e malattie sessualmente trasmissibili, le prestazioni sono state 904 (mammografie, ecografie mammarie, visite senologiche, visite ginecologiche, pap-test ed ecografie ginecologiche) e 180 donne visitate tra detenute e personale penitenziario”. Come siete riusciti a realizzare il progetto e quali sono le prospettive future? “Negli ultimi mesi con il progetto di prevenzione nelle carceri abbiamo lavorato anche grazie alla collaborazione con LILA Milano, Associazione specializzata nella lotta all’AIDS. Loro hanno portato il loro know-how per quanto riguarda le malattie sessualmente trasmissibili, un tema molto rilevante in ambito carcerario. Il progetto è stato possibile grazie al sostegno di due fondazioni: la Fondazione Nazionale delle Comunicazioni e la Reale Foundation. Il loro finanziamento è stato fondamentale perché queste iniziative sono molto impegnative dal punto di vista organizzativo e richiedono notevoli risorse umane specializzate. L’obiettivo è rendere la prevenzione in carcere un’attività continuativa, a supporto delle ASST nelle strutture più complesse… Per il futuro, vogliamo rendere il progetto “Prevenzione nelle carceri” sistematico e non sporadico. Ci arrivano sempre più richieste, soprattutto per supportare le ASST in strutture così complesse. La grande sfida sarà estendere gli screening anche agli uomini detenuti, che ci è stato richiesto sia dalle Direzioni carcerarie sia dagli operatori sanitari. In questo caso, i numeri sono almeno dieci volte maggiori rispetto agli screening per le donne, e la popolazione carceraria maschile ha un’età media sempre più alta, rientrando quindi maggiormente nel target della prevenzione oncologica. Ciò significa che il lavoro richiederà più tempo, più investimenti e una pianificazione a lungo termine. Il nostro obiettivo è anche espandere il progetto ad altre carceri lombarde. Finora abbiamo coperto tutte le carceri del territorio che hanno sezioni femminili”. Quali sono le particolari sfide della prevenzione oncologica maschile in carcere? “La prevenzione maschile rappresenta un grandissimo ostacolo, perché già al di fuori del contesto carcerario non è tra le più praticate. Il contesto detentivo rende tutto ancora più difficile per molteplici ragioni. Sarebbe una sfida enorme, ma estremamente importante, soprattutto considerando l’innalzamento dell’età media della popolazione carceraria maschile”. Il decreto Sicurezza corre veloce nel vuoto del Parlamento di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 maggio 2025 Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, impone il voto blindato oggi alla Camera. Via libera entro la settimana, poi la palla passa al Senato. Le associazioni della Rete a Pieno Regime rilanciano il digiuno a staffetta con 550 aderenti. Se il ruolo del Parlamento viene cancellato, il Parlamento si svuota. E così al pomeriggio, mentre fuori dal palazzo centinaia di cittadini manifestano contro il decreto Sicurezza approdato in Aula alla Camera per la conversione in legge, il push governativo che ha esautorato il potere legislativo si mostra plasticamente nei banchi vuoti della maggioranza (occupati solo da sei deputati di Fd’I) ma anche purtroppo nella desolazione degli spalti riservati alle opposizioni (sette dem siedono ai loro posti, più folto il gruppo dei pentastellati con ben 12 deputati intenti in una piccola maratona di interventi, sebbene dai tempi contingentati). Qualche parlamentare in più era presente in mattinata. Ad ogni modo, è in questo panorama che è arrivata ieri senza grandi scossoni la questione di fiducia, posta dall’esecutivo per bocca del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, sul “testo delle commissioni riunite identico a quello presentato dal Governo”. Ossia, ha precisato, “senza emendamenti e subemendamenti e articoli aggiuntivi”, periti sotto la tagliola imposta nelle commissioni. La fiducia verrà votata oggi a partire dalle 18 con appello nominale, poi la Camera proseguirà nell’esame del provvedimento anche in seduta notturna per arrivare al primo via libera giovedì o al massimo venerdì. Dopodiché, con altrettanta rapidità e spregio delle istituzioni, il dl passerà al Senato. Quella sul “fascistissimo decreto”, come qualcuno lo ha bollato, “è la fiducia numero 89 posta dal governo Meloni”, conteggia il relatore di minoranza Riccardo Magi, segretario di +Europa, ospitando a Montecitorio in conferenza stampa le associazioni della “Rete a Pieno Regime” impegnate in un digiuno a staffetta al quale hanno già aderito più di cinquecento persone e in altre iniziative di resistenza passiva e disobbedienza civile al provvedimento. Nella sua relazione di minoranza, Magi demolisce punto per punto il decreto e invita “l’assemblea a respingere in toto” il testo che, con i suoi 14 nuovi reati penali e nove aggravanti, risulta un maxi contenitore di norme “scritte male - sostiene il deputato di +Europa - ingannevoli, indeterminate, in parte incostituzionali e improntate al peggior populismo penale”. Nel metodo, poi, con quel ricorso ingiustificato alla decretazione d’urgenza da parte del governo al solo fine di aprire uno scivolo immediato al ddl che era giunto ormai, dopo un anno e mezzo, alle ultime battute in Parlamento, il provvedimento governativo costituisce “un salto di qualità” (si fa per dire) e mostra l’”uso spregiudicato delle prerogative delle camere, delle commissioni e dei presidenti della Camera e del Senato, il cui silenzio - conclude Magi - è grave e spaventa”. Antigone, Arci, Cnca, Cgil, Forum droghe e Società della Ragione, da parte loro, spiegano in conferenza stampa in che modo il “decreto liberticida” cambierà nel concreto “la vita delle persone, soprattutto dei più fragili” e perché quel testo costituisce una svolta preoccupante che ci fa passare “dallo Stato di diritto alla Stato di prevenzione”. “Questo decreto non è in linea con i pacchetti sicurezza che da decenni infestano il nostro Paese - rimarca l’ex sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone - ma rappresenta un balzo verso la costruzione di uno Stato etico e di polizia, con norme che addirittura peggiorano il codice Rocco”, ereditato del regime fascista. Naturalmente la cosa non scalfisce minimamente la premier Giorgia Meloni che, anzi, su X esulta per “i primi sgomberi immediati di immobili occupati abusivamente” già eseguiti secondo le nuove norme del decreto che, afferma, “consentono finalmente un intervento veloce e il ripristino rapido della legalità” per “tutelare i più deboli e difendere la proprietà privata”. “Dalle parole ai fatti!”, le fa eco il suo vice Matteo Salvini. D’altronde, è questo uno dei cavalli di battaglia più emblematici delle destre di governo che picchiano forte per demolire quello che il quotidiano romano Il Tempo ha definito lo “Ius Salis”, titolo rilanciato sui social dal sottosegretario Andrea Delmastro con tanto di foto dell’eurodeputata di Avs Ilaria Salis. Al netto della propaganda, conviene invece ascoltare Corleone quando sostiene che il colpo di mano con il quale il governo ha inglobato il ddl nel decreto legge è una sorta di prova di forza: “Se passa questo, possono far passare qualsiasi cosa, senza limiti”. E quando cita Grazia Zuffa, la compianta fondatrice di Forum Droghe, che diceva di provare “sgomento di fronte alla grande spregiudicatezza nell’inventare norme, un’inventiva che sconfina nell’illegalità”. Dl sicurezza, oggi la fiducia alla Camera: tensioni in piazza e liti in Aula di Valentina Stella Il Dubbio, 27 maggio 2025 Si svolgerà oggi a partire dalle ore 18 alla Camera la votazione per appello nominale sulla fiducia posta dal governo sulla legge di conversione del decreto sicurezza. L’esame del provvedimento andrà avanti con prosecuzione notturna fino alle 24 e nelle giornate successive, fino a venerdì. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha dichiarato che “il governo ha apprezzato la discussione generale, anche lunga, che si è svolta sul testo. Per noi questo è un provvedimento strategico per valorizzare il lavoro quotidiano delle forze dell’ordine e contiene misure decisive per la sicurezza”. Peccato che i banchi della maggioranza fossero quasi tutti vuoti ieri durante il dibattito, che è stato caratterizzato da una lunga lista di interventi, invece, delle opposizioni che compatte hanno criticato la procedura seguita in commissione Affari costituzionali, dove giovedì scorso è stata imposta una doppia tagliola, sia sugli emendamenti che sulle dichiarazioni di voto. Secondo Federico Gianassi, capogruppo Pd in Commissione Giustizia, “sul dl sicurezza ci troviamo di fronte alla classica strategia perdente delle destre: violentano il codice penale con decretazione d’urgenza, pensando che con un tratto di penna si possa miracolosamente risolvere i problemi del Paese sulla sicurezza. Il risultato è che non c’è sicurezza e i diritti delle persone vengono compressi. Il governo è una farsa, una presa in giro per gli italiani”. Mentre si dibatteva alla Camera ci sono stati anche momenti di tensione a piazza Barberini a Roma durante un sit-in organizzato dalle associazioni contro il dl: un gruppo di manifestanti ha tentato di sfondare per due volte il cordone di polizia, per raggiungere i palazzi istituzionali. Sono stati poi contenuti con gli scudi. Durante gli scontri è rimasto leggermente ferito Luca Blasi, assessore al III Municipio di Roma. Slitta invece al 10 ottobre la decisione del Tribunale di Milano se sollevare o meno la prima questione di legittimità costituzionale sul nuovo decreto per verificare se esista il requisito della straordinaria necessità e d’urgenza, in attesa di capire come sarà configurato il nuovo testo nella legge di conversione al vaglio del Parlamento. Missione impossibile: manifestare a Montecitorio di Giuliano Santoro Il Manifesto, 27 maggio 2025 “Mission impossible” recita la locandina del blockbuster con Tom Cruise che affaccia su piazza Barberini. La missione impossibile questa volta è arrivare davanti alle finestre di Montecitorio, spazio inibito al conflitto da anni, ben prima dello sbarco della destra estrema di Giorgia Meloni al governo del paese. Nella piazza che si apre alla fine di via Veneto si ritrova qualche centinaio di attivisti: è l’antipasto del corteo nazionale di sabato prossimo, quando da tutta Italia a decine di migliaia arriveranno a Roma per protestare contro il decreto sicurezza. Ci sono gli esponenti dei centri sociali e dei collettivi di Bologna, di Milano e del nordest, ci sono le molte facce dei movimenti romani, quelli di lotta per la casa e gli studenti. “L’autodifesa è il bene più grande che abbiamo” urlano dal camion quelli della Rete A Pieno Regime che da mesi si batte in tutto il paese contro la stretta repressiva nei confronti di poveri e dissidenti. La testa del corteo si dota di caschetti e scudi, “abbiamo solo strumenti per difenderci”, con l’obiettivo dichiarato di arrivare fino alla camera. Vuole farlo proprio nel momento in cui il testo spinto dalle destre fino a forzare ogni prassi parlamentare arriva in aula e mentre il governo pone la questione di fiducia. Sullo striscione rafforzato che fa da apripista, barricata semovente e antifascista, c’è scritto: “La democrazia non si piega”. “Siamo arrivati a questo punto - dicono mentre avanzano lungo via del Tritone - E non è un punto qualsiasi. Adesso si tratta di superare il confine che divide la resa dalla resistenza, il silenzio dalla denuncia”. Quando i manganelli della polizia in assetto antisommossa attaccano i manifestanti, il primo a farne le spese è Luca Blasi, ai più conosciuto come Lucone: una vita nei movimenti romani, attuale assessore alla cultura e alla casa del municipio III di Roma in quota Sinistra italiana e tra gli animatori della Rete No Dl. Blasi è ben piazzato e ha qualche esperienza di conflitti, grazie alla quale resta in piedi dopo le manganellate bene assestate che lo colpiscono in testa e sulla schiena. Era lì proprio per il motivo opposto a frapporsi tra gli scudi e gli uomini. Nella grammatica implicita delle dinamiche di piazza a una figura del genere viene riconosciuto il tentativo di tenere un filo di dialogo. Di questi tempi questo ruolo diventa un’aggravante. Osservano la scena del pestaggio di Blasi diversi parlamentari: Arturo Scotto e Matteo Orfini del Partito democratico insieme a Peppe De Cristofaro e Filiberto Zaratti di Alleanza Verdi Sinistra. Questi ultimi dettano alle agenzie: “Blasi è una persona conosciutissima, e a volto scoperto stava cercando di impedire il contatto tra i manifestanti e la polizia. Come Avs presenteremo una interrogazione perché non è accettabile che chi si batte contro il dl sicurezza in modo pacifico sia trattato in questo modo”. “Con strumenti di difesa e autotutela abbiamo tentato di superare il blocco subendo due cariche - rivendicano dalla Rete No Dl - Abbiamo opposto una resistenza determinata dimostrando che in questo paese c’è una rete larga che non china la testa di fronte alla svolta autoritaria”. La notizia arriva a Montecitorio e risuona nel dibattito mentre l’esecutivo sta per porre la fiducia sul testo contestato: “Sono stati manganellati dei ragazzi solo perché stanno manifestando contro questo decreto” denuncia in aula Angela Raffa. Il vicecapogruppo Avs alla camera Marco Grimaldi ricorda che Blasi era stato audito in commissione: “Un amministratore della città di Roma è stato puntato, circondato e massacrato dalle forze dell’ordine - denuncia Grimaldi - Il portavoce della Rete contro il dl sicurezza che alla camera viene convocato in audizione, in piazza viene pestato perché si oppone a quel decreto. Decreto che rende ancora più impunibile chi in divisa si macchia di questi comportamenti gravissimi”. Il corteo respinto a piazza Barberini disegna un percorso inverso a quello previsto: gira le spalle ai palazzi, risale verso la stazione Termini e arriva fino alla Sapienza per un’assemblea che denuncia l’attacco al dissenso e rilancia la mobilitazione del prossimo 31 maggio. Sarà una giornata che, a maggior ragione, si presenta come aperta e inclusiva, perché nessuno è intenzionato a farsi intrappolare nel meccanismo della repressione. Ma al tempo stesso, tutti sono determinati a riprendersi gli spazi pubblici e a rispondere alle intimidazioni. A partire da quest’oggi: Giorgia Meloni è attesa a Bologna per l’assemblea di Confinfdustria e per una visita al Tecnopolo. Si annunciano contestazioni. Scontri in piazza contro il Decreto Sicurezza. Oggi la fiducia. Meloni: “Torna la legalità” di Irene Famà La Stampa, 27 maggio 2025 A Roma manganellato un assessore. L’iter di conversione in legge del Decreto sicurezza, su cui il governo, con il ministro Matteo Piantedosi, ha posto la fiducia, scatena l’indignazione delle opposizioni. E la reazione di piazza con scontri tra manifestanti e polizia. Ieri, alla Camera, il via all’esame del testo contestatissimo nel metodo e nel merito. Quattordici i reati inseriti, nove le aggravanti. E c’è un po’ di tutto: dal blocco stradale (la cosiddetta norma anti-Ghandi), alle misure contro l’accattonaggio fino alla stretta sui delitti compiuti nelle vicinanze delle stazioni o quella contro chi manifesta con l’intenzione di bloccare un’opera pubblica. E ancora. La stretta sulla cannabis, il daspo urbano esteso e la resistenza passiva che potrà essere punita nelle rivolte in carcere. “Così si criminalizza il dissenso”, dicono in tantissimi. In Parlamento, le opposizioni salgono sulle barricate: “Vergogna, vergogna”. Protestano contro la misura riguardante le detenute madri che, anche con bimbi sotto i tre anni, andranno negli Icam, gli istituti a custodia attenuata, e per quella che amplia ai reati associativi per finalità di terrorismo la non punibilità degli operatori dell’intelligence in caso di autorizzazione da parte della presidenza del Consiglio. Il testo prevede anche una stretta sulle occupazioni abusive delle case che la premier Giorgia Meloni rivendica con orgoglio: “Dicevano che era inutile, sbagliato, persino disumano. E invece, grazie alle nuove norme introdotte dal decreto sicurezza in Italia sono già stati eseguiti i primi sgomberi immediati di immobili occupati abusivamente”. Pronta la replica. E arriva dal deputato pentastellato Gaetano Amato: “Vi voglio dare un indirizzo per andare a sgomberare qualcuno che occupa illegalmente: via Napoleone III a Roma, c’è Casapound”. Marco Grimaldi, da Avs, aggiunge: “Così Meloni getta benzina sul fuoco”. Il clima tra maggioranza e opposizione è teso. A difendere il provvedimento, fortemente voluto dalla Lega, il ministro dell’Interno Piantedosi che commenta: “Per noi questo è un provvedimento strategico per valorizzare il lavoro quotidiano delle forze dell’ordine e contiene misure decisive per la sicurezza”. È scontro dentro e fuori dall’Aula. E mentre a Montecitorio va in scena una maratona oratoria contro il provvedimento, in piazza Barberini si registrano tensioni. La rete No Dl Sicurezza ha organizzato un presidio. Prima interventi e slogan, poi un gruppo di manifestanti cerca di raggiungere la Camera. Caschi, volti coperti, per due volte tentano di sfondare il cordone delle forze dell’ordine con bastoni e scudi, ma vengono respinti dalla polizia. In prima linea Luca Blasi, assessore del terzo municipio, tra i promotori dell’iniziativa. “Avanti, andiamo avanti”, incita. Poi, per un attimo, cerca il dietrofront: “Non lanciate nulla. Basta con i bastoni”. Finisce contuso: “Sono stato colpito con una manganellata”. Una decina di minuti di tafferugli. Infine la chiamata per il corteo del 31 maggio: “Saremo tantissimi. Questo è solo l’inizio”. In aula prosegue il dibattito. Qui “si mettono in discussione diritti fondamentali come quello al dissenso”, accusa il Dem Paolo Ciani ed è l’opinione di tutti gli esponenti di minoranza. Critiche, anche, per le modalità con cui si è arrivati all’esame del testo. Per oltre un anno, infatti, dal 22 gennaio 2024, il Parlamento ha discusso un disegno di legge, che poi è stato accantonato e il Consiglio dei ministri ha scritto un decreto per accelerare i tempi. Oggi alle 18 si voterà la fiducia e poi le opposizioni si preparano a una battaglia con gli ordini del giorno che potranno far allungare i tempi di approvazione finale del decreto (che poi dovrà andare al Senato). Intanto, oltre alla protesta nelle università e di un gruppo di costituzionalisti che hanno firmato una lettera contro il provvedimento, proseguirà il digiuno a staffetta di protesta indetto da alcune associazioni e sindacati. Quattordici nuovi reati e nove aggravanti: cosa prevede il decreto Sicurezza di Irene Famà La Stampa, 27 maggio 2025 Dalle norme per punire i blocchi stradali a quelle contro l’accattonaggio o l’occupazione abusiva di case. Oggi alla Camera il voto di fiducia. Quattordici nuovi reati e nove aggravanti. È questo il contenuto del decreto Sicurezza che ieri ha scatenato le proteste in piazza e oggi andrà al voto di fiducia alla Camera. All’interno c’è un po’ di tutto: dal blocco stradale (la cosiddetta norma anti-Ghandi), alle misure contro l’accattonaggio fino alla stretta sui delitti compiuti nelle vicinanze delle stazioni o quella contro chi manifesta con l’intenzione di bloccare un’opera pubblica. E ancora. La stretta sulla cannabis, il daspo urbano esteso e la resistenza passiva che potrà essere punita nelle rivolte in carcere. Ecco i punti principali del provvedimento. Lotta a terrorismo e criminalità organizzata - Il decreto introduce nuove fattispecie di reato, come la detenzione di materiale con finalità di terrorismo che viene punita con la reclusione da 2 a 6 anni, e la diffusione online di istruzioni per compiere atti violenti o sabotaggi (art. 270-quinquies.3 c.p.). Sul fronte della lotta alla criminalità organizzata, si estendono le verifiche antimafia anche alle imprese che aderiscono al “contratto di rete”. Si esclude che il prefetto possa procedere d’ufficio a limitare alcuni effetti dell’informazione interdittiva antimafia per garantire adeguati mezzi di sussistenza ai familiari del destinatario della stessa. Lotta all’usura - L’art. 33 del provvedimento prevede che gli operatori economici vittime del reato di usura, beneficiari dei mutui erogati ai sensi dell’art. 14 della legge 108/1996, siano affiancati da un esperto incaricato di assisterli nel percorso di rilancio economico e reinserimento nel circuito legale. Occupazioni di case - Nasce il reato di occupazione arbitraria di immobile e si prevede la possibilità per la polizia giudiziaria di disporre il rilascio immediato dell’immobile occupato, anche senza mandato del giudice, in caso di occupazioni illegittime. Tutele per le forze dell’ordine - Viene rafforzata la tutela penale per le forze di polizia e aumentano le pene per lesioni, resistenza e violenza a pubblico ufficiale. Si introduce una circostanza aggravante se il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza con l’aumento di pena fino alla metà e un’ulteriore circostanza aggravante in caso di atti violenti commessi al fine di impedire la realizzazione di un’infrastruttura (cosiddettà norma anti ‘no-Tav’ e ‘no-Ponte’). Si prevede la possibilità di dotare le Forze di polizia di dispositivi di videosorveglianza indossabili (bodycam), idonei a registrare l’attività operativa nei servizi di mantenimento dell’ordine pubblico, di controllo del territorio, di vigilanza di siti sensibili e in ambito ferroviario e a bordo treno e quella di utilizzare dispositivi di videosorveglianza, anche indossabili, nei luoghi e negli ambienti in cui vengono trattenute persone sottoposte a restrizione della libertà personale. Viene inoltre introdotto un sostegno economico destinato alle spese legali fino a 10.000 euro per agenti coinvolti in procedimenti penali relativi al servizio. Carceri e centri migranti - Nasce il nuovo reato di ‘rivolta all’interno di un istituto penitenziario’, che punisce le condotte di promozione, organizzazione o direzione e partecipazione a una rivolta consumata all’interno di un istituto “da tre o più persone riunite, mediante atti di violenza o minaccia, tentativi di evasione o atti di resistenza anche passiva che impediscono il compimento degli atti d’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”. Si prevede la reclusione da 1 a 5 anni (carcere) o 1 a 4 anni (Cpr) per chi partecipa con violenza, minaccia o resistenza all’autorità e fino a 18 anni di reclusione quando la rivolta provochi morte o lesioni gravi. Proteste in piazza e blocchi ferroviari - Viene prevista una nuova circostanza aggravante per i delitti non colposi contro la vita e l’incolumità pubblica e individuale, contro la libertà personale e contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, qualora commessi all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie e delle metropolitane o all’interno dei convogli adibiti al trasporto passeggeri. Si aggrava anche la pena per il reato di danneggiamento in occasione di manifestazioni pubbliche. Si estende il cosiddetto Daspo urbano a coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti, per delitti contro la persona o contro il patrimonio commessi nelle aree interne e nelle pertinenze di infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano. Si estende l’arresto in flagranza differita al reato di lesioni personali gravi o gravissime a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico, commesso in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico. L’art. 14 del decreto trasforma in reato (prima era solo un illecito amministrativo) l’impedimento alla libera circolazione su strada o ferrovia, come nel caso degli attivisti per il clima. Accattonaggio e truffa. Pene più severe per chi impiega minori nell’accattonaggio e per chi commette le truffe. Si rafforzano gli strumenti di repressione delle truffe agli anziani, con l’introduzione di una specifica ipotesi di truffa aggravata con pene da due a sei anni e multa da euro 700 a euro 3.000. Stop alla cannabis light - Il decreto-legge vieta “la lavorazione, la distribuzione, il commercio, il trasporto, l’invio, la spedizione e la consegna delle infiorescenze della canapa coltivata anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, nonché di prodotti contenenti o costituiti da tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli oli da esse derivati”. Di fatto tutte le infiorescenze di canapa sono diventate illegali, indipendentemente dal loro contenuto di THC. Carcere e tutela dei minori. In materia di esecuzione della pena, si cancella l’obbligo di rinvio della stessa per le donne incinte e con prole e se ne preclude il rinvio facoltativo “se da ciò derivi una situazione di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti”. Si prevede la differenziazione nelle modalità di esecuzione della pena tra la madre di figli di età fino a 1 anno e delle madri di figli di età da 1 a 3 anni. Gian Luigi Gatta: “Il populismo penale è una tendenza globale” di Mario Di Vito Il Manifesto, 27 maggio 2025 Intervista all’ordinario di diritto penale dell’Università di Milano: “Per garantire la sicurezza non serve aggiungere reati e aumentare le pene, ma intervenire con le leggi sulle condizioni che determinano la criminalità”. Dieci incontri in dieci atenei italiani, da nord a sud, per spiegare come si coniugano - e quando si scontrano - i principi costituzionali e la politica criminale. Nei giorni in cui il decreto sicurezza viene convertito in legge dal parlamento, intervengono così nel dibattito gli iscritti all’Associazione italiana dei professori di diritto penale (Aipdp). “È una manifestazione di impegno civico, vogliamo cercare di stimolare qualche riflessione tra gli studenti, nell’opinione pubblica e, possibilmente, anche tra i parlamentari”, dice al manifesto Gian Luigi Gatta, ordinario di diritto penale all’Università di Milano e presidente dell’Aipdp. Professore Gatta, l’intenzione è ammirevole, però, almeno per quanto riguarda il legislatore, non sembra ci sia tutta questa intenzione di ascoltare… Purtroppo è vero, abbiamo visto che c’è stata una chiusura a ogni proposta di modifica. Devo dire che mi sembra un po’ preoccupante questo voler andare avanti sempre e comunque a colpi di maggioranza. Chi pensa e scrive le leggi dovrebbe sapere benissimo che possono essere necessarie delle correzioni alle idee originarie. Il dibattito in fondo serve anche e proprio a questo. Il titolo dell’incontro che avete organizzato per domani a Napoli (ore 14, nell’aula Pessina dell’Università Federico II) è “Populismo globale vs garantismo penale”. Lascia intendere che non parliamo di un problema soltanto italiano... No, infatti interverranno anche associazioni e docenti dalla Spagna, dall’Argentina, dal Brasile e dal Cile. Il populismo del resto è un fenomeno globale: è molto diffusa l’idea che si possa attrarre consenso elettorale attraverso la medicina penale, per così dire, come se fosse la cura a tutti i mali. Noi in Italia abbiamo il decreto sicurezza, ma stiamo vedendo cosa accade nell’Argentina di Milei, negli Stati Uniti di Trump, nell’Ungheria di Orbàn e altrove. È una tendenza che riguarda tutto il mondo. Come rispondere? Il punto è che per garantire la sicurezza non serve aggiungere reati e aumentare le pene, ma intervenire con le leggi sulle condizioni che determinano la criminalità. Già Cesare Beccaria legava la tranquillità pubblica alle politiche attive e all’organizzazione: diceva che servivano più agenti di polizia, maggiore illuminazione nelle strade… Bisognerebbe intervenire sull’educazione, sulle situazioni di disagio sociale e fare investimenti. Chi è al governo direbbe che su questo fronte è stato già fatto il decreto Caivano… Che ha soltanto aumentato il ricorso alla carcerazione, soprattutto per i minorenni, per i quali al contrario bisognerebbe il più possibile evitare di utilizzare questo strumento. Infatti, da quel decreto, gli ingressi negli istituti penali minorili sono raddoppiati. È stata anche aumentata la pena per lo spaccio di lieve entità, che oggi consente la custodia cautelare in carcere. Mi pare che da un lato ci si lamenti dell’elevato ricorso alla custodia cautelare mentre dall’altro, innalzando le pene, la si aumenta in continuazione. Ma è un’illusione puntare sulla pena per risolvere i problemi sociali. Eppure siamo sempre allo stesso punto... Nel 2014 Papa Francesco incontrò i docenti di diritto penale e parlò proprio della falsa convinzione di convinzione che attraverso la pena si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina. Disse che in realtà servirebbero politiche sociali ed economiche. Ma tutte le riforme di cui parliamo sono a costo zero o quasi. L’unico capitolo di spesa previsto dal decreto sicurezza riguarda le bodycam per gli agenti. Mi pare un po’ poco… Costa (FI): “Dall’Anm chiusura corporativa sulle ingiuste detenzioni” di Ermes Antonucci Il Foglio, 27 maggio 2025 Il deputato commenta l’intervista al Foglio del presidente dell’Anm Parodi: “In buona sostanza dice che le persone alle quali è stata ingiustamente privata la libertà se la sono andata a cercare. I magistrati non ammettono che dietro i casi di ingiusta detenzione ci possano essere stati errori e superficialità da parte loro”. “Credo che i magistrati non abbiano consapevolezza che le persone che vengono arrestate ingiustamente subiscono sofferenze e danni personali e famigliari immensi. Sono persone innocenti che vengono prese e sequestrate dallo stato. Invece queste vicende vengono liquidate con giustificazioni e pretesti. L’elemento più evidente che emerge dall’intervista del presidente dell’Anm Parodi è il senso di autoprotezione e di conservatore della categoria”. Così Enrico Costa, deputato di Forza Italia, commenta la lunga intervista pubblicata ieri sul Foglio al presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Cesare Parodi. Nel mirino del deputato forzista soprattutto le parole di Parodi sulle ingiuste detenzioni: “In buona sostanza Parodi dice che le persone alle quali è stata ingiustamente privata la libertà se la sono andata a cercare perché frequentano Tizio o Caio, magari pregiudicati, e così concorrono all’errore del magistrato. I magistrati non ammettono che dietro i casi di ingiusta detenzione ci possano essere stati errori e superficialità da parte loro”. Nell’intervista al Foglio, Parodi ha attribuito le ingiuste detenzioni soprattutto alla carenza di risorse della magistratura: “E’ possibile che ci sia una carenza di risorse, e io sarò sempre favorevole a un loro aumento, però non si può pensare che questa carenza giustifica la superficialità”, replica Costa. “I numeri che emergono sono peraltro molto inferiori rispetto a quelli reali”, prosegue il deputato. “Dal 1992 a oggi sono stati contati 31 mila indennizzi per ingiusta detenzione, ma sono dei numeri che non danno l’idea del fenomeno, perché tante persone arrestate ingiustamente non fanno domanda per l’indennizzo, perché non ne vogliono più sapere delle aule di tribunale. Tanti altri, invece, si vedono rigettata la domanda di indennizzo per ‘colpa grave’. Questa formula viene utilizzate dalle Corti d’appello per soffocare questo fenomeno con delle argomentazioni folle, come se le persone fossero così autolesioniste da volersi fare incarcerare”. “Credo che dal 1992 a oggi il numero reale delle persone ingiustamente detenute ammonti a circa centomila, se si considera che per anni oltre il 70 per cento delle domande è stato rigettato e la percentuale oggi è scesa al 50 per cento. I numeri sono esorbitanti. L’Anm e molti magistrati considerano questi numeri come fisiologici effetti collaterali: se qualcuno finisce nella rete se ne faccia una ragione, oppure se l’è cercata. Io penso invece che finché c’è anche una sola persona detenuta ingiustamente nel nostro paese noi dovremmo lavorare per comprendere perché questo si è determinato”, afferma Costa. “Quando dico che non può essere soltanto il ministero dell’Economia a pagare, cioè lo stato, non voglio accanirmi contro i magistrati. Voglio prima di tutto che si capisca perché si è determinato l’errore. Se l’errore era inevitabile la cosa finisce lì. Quando chiedo che il ministero dell’Economia prenda questi fascicoli e li trasmetta al ministro della Giustizia o al procuratore generale della Cassazione è perché è necessario che ci sia un vaglio su ciò che è accaduto”, dice Costa. Che ricorda altri numeri importanti: “Nel periodo 2017-2024 abbiamo avuto 5.933 ingiuste detenzioni risarcite dallo stato. Sono stati pagati 254,5 milioni di euro. Le azioni disciplinari avviate verso i magistrati responsabili sono state 89, con il seguente esito: 44 non doversi procedere; 28 assoluzioni; 8 censure; 1 trasferimento; 8 ancora in corso. Quindi in totale, su 5.933 errori, solo 9 condanne, sanzionato lo 0,15 per cento degli errori”. “Un altro dato balza agli occhi - prosegue Costa - ed è il ridottissimo numero di azioni disciplinari avviate dal ministro della Giustizia. Sono state addirittura zero nel 2024. E’ evidente che c’è una tendenza a proteggersi. I magistrati fuori ruolo al ministero della Giustizia hanno una visione conservativa di interessi”. “Le mie proposte hanno sempre ricevuto il parere negativo del governo e del ministro Nordio. Poi non ci lamentiamo se chi sbaglia non paga”, conclude Costa. Si può garantire giustizia quando la “verità” è contaminata da opinioni amplificate dai media? di Davide Grassi* Il Fatto Quotidiano, 27 maggio 2025 A molti di noi ormai può sembrare normale svegliarsi la mattina e cercare notizie in rete sugli ulteriori passi in avanti della Procura: nel nostro ordinamento, non sarebbe così scontato. Sono sempre stato del parere che per poter parlare con cognizione di causa di una vicenda giudiziaria sia imprescindibile la lettura degli atti, peraltro da chi la materia la mastica. Al contrario, qualsiasi ipotesi sbandierata sui social, in tv o su articoli di giornale diverrebbe una mera e banale opinione da tuttologi sostenuta dagli archivi della rete, da quelli di “mio cugino” e forse oggi anche dalla più attendibile (ma non infallibile) intelligenza artificiale. Spesso gli articoli di giornale riassumono, non sempre in maniera esatta, casi di cronaca nera con il poco materiale che i bravi giornalisti riescono a raccogliere, magari nei corridori delle Procure e dei Tribunali. Ma fa eccezione il caso Garlasco, come tanti altri casi di grande impatto mediatico. Perché in questa storia, dei molti dettagli contenuti nel fascicolo di indagine veniamo tutti a conoscenza per le fughe di notizie. Conosciamo già così tante circostanze che in una indagine “ordinaria” mai avremmo l’opportunità di conoscere: il nome dell’indagato, l’impronta n. 33, quella presumibilmente attribuita all’indagato e presente sul luogo del delitto, la possibile arma del delitto, presumibilmente gettata in un corso d’acqua nel quale, dopo 18 anni, potremmo trovarci qualsiasi oggetto del quale si è disfatto qualche ignaro e incivile cittadino. A molti di noi ormai può sembrare normale svegliarsi la mattina e cercare notizie in rete sugli ulteriori passi in avanti della Procura e delle armi in possesso della difesa per contrastarli, ma nella realtà, nel nostro ordinamento, non sarebbe così scontato. In una fase delicata come questa, quella d’indagine appunto, questi elementi dovrebbero essere conosciuti solo dai diretti interessati. Dopo 18 anni dall’omicidio di Chiara Poggi, con un condannato in via definitiva che sta scontando una pena detentiva ormai da dieci anni, tanti ma non così tanti se paragonati al “fine pena mai” dei suoi familiari, la Procura riapre un caso che in poco tempo ha diviso l’opinione pubblica e ci pone ancora una volta davanti ai rischi di un processo mediatico. ?La Procura “riscrive” l’indagine, i giornalisti nei talk ne parlano, i diretti interessati si creano aspettative da una parte o dall’altra, rivivono parentesi della loro vita fatte di angoscia e traumi irreversibili. I cittadini parteggiano per l’una o per l’altra conclusione, per l’uno o per l’altro soggetto, con un susseguirsi di colpi di scena che sembrano preparati apposta per tenere costantemente alta l’attenzione del pubblico. Ricordo quando Alberto Stasi fu processato, assolto e poi condannato per l’omicidio di Chiara Poggi. Lui era per tutti l’unico colpevole ancora prima della conclusione del processo di primo grado e dell’arrivo della condanna definitiva. Lo stesso sentimento di giustizia sommaria si sposta oggi sul sospettato Andrea Sempio, indagato in concorso. Molti anni dopo, quella che sembrava essere una certezza granitica, indipendentemente da quello che sarà il futuro esito di questa nuova indagine, ci troviamo ad affrontare l’incertezza di una nuova fase giudiziaria che ripropone un importante interrogativo su un caso che sembrava avere già una sua conclusione: siamo davvero in grado di garantire una giustizia equa quando la verità è contaminata da opinioni esterne e dall’effetto amplificato dai media? *Avvocato, podcaster, scrittore La Cassazione: la presunzione d’innocenza non è un’opinione di Simona Musco Il Dubbio, 27 maggio 2025 Gli ermellini: i giornalisti non possono anticipare giudizi, né sbilanciarsi sull’accusa: serve equilibrio, soprattutto nelle indagini preliminari. La libertà di stampa non può travolgere il principio costituzionale secondo cui ogni imputato è innocente fino a sentenza definitiva. Anche quando la notizia è vera. A stabilirlo la Corte di Cassazione, secondo cui c’è un confine sottile - e spesso ignorato - tra cronaca giudiziaria e il processo mediatico. Un confine che gli ermellini tracciano con fermezza: il giornalista può raccontare fatti anche gravi e lesivi dell’onore altrui, ma non può mai violare la presunzione di innocenza. La decisione è però destinata a far discutere: proprio mentre ribadiscono il principio di non colpevolezza, i giudici “autorizzano” la pubblicazione di notizie lesive della reputazione, purché vere, d’interesse pubblico e continenti nella forma. Per quanto riguarda la presunzione d’innocenza, la Cassazione pone particolare attenzione alle notizie ricavate da un provvedimento giudiziario, rispetto alle quali “il criterio della verità si risolve nella necessaria coerenza della notizia divulgata rispetto al contenuto degli atti e dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria, non solo sotto il profilo della mera correttezza formale dell’esposizione, ma anche sotto quello, sostanziale, della complessiva rappresentazione dell’intero contesto investigativo”. Ma è “necessario”, per i giudici, il rispetto della presunzione di non colpevolezza, “tanto più nella delicata fase delle indagini preliminari, dove - proprio in ragione della fluidità ed dell’ontologica incertezza del contenuto delle investigazioni - è doveroso un racconto asettico, senza enfasi od indebite anticipazioni di colpevolezza, non essendo consentito al giornalista aprioristiche scelte di campo o sbilanciamenti di sorta a favore dell’ipotesi accusatoria, capaci di ingenerare nel lettore facili suggestioni, in spregio del dettato costituzionale di innocenza dell’imputato (ed a fortiori dell’indagato) sino alla sentenza definitiva”, scrivono i giudici. Non spetta certo al giornalista verificare se l’accusa è fondata meno. Ma è certamente suo compito “controllarne rigorosamente i termini di formulazione” e non “indulgere ad alcuna preconcetta opzione di responsabilità, rendendo una ricostruzione in chiave colpevolista”. Se non si può impedire al giornalista “di avere, al riguardo, un’opinione da manifestare, non gli è però consentito rappresentare la vicenda in termini diversi da ciò che è realmente allo stato: null’altro che un mero progetto di accusa attorno ad ipotesi d’illecito e di penale responsabilità, tutte però da verificare”. Ciò nonostante, sebbene l’articolo finito a giudizio integrasse “effettivamente una lesione della reputazione” di un noto professore universitario, accostato ad ambienti di mafia, dunque con “un’oggettiva valenza diffamatoria”, il giornalista e il suo direttore sarebbero giustificati “dal legittimo esercizio del diritto di cronaca, svolto nel rispetto della verità dei contenuti e della continenza della forma e a tutela di un interesse pubblico alla conoscenza della notizia divulgata”. Per la Cassazione, “che la pubblicazione della notizia abbia una valenza oggettivamente diffamatoria non può revocarsi in dubbio (né tanto è contestato dalla difesa), essendo stata evocata, pur con le doverose precisazioni, una certa cointeressenza con ambienti mafiosi”. Ma una condotta “oggettivamente diffamatoria” può essere “giustificata” se espressione di altro parallelo diritto, di pari rango costituzionale, ovvero “il diritto di cronaca giornalistica”, diritto pubblico soggettivo “che si sostanzia nel potere - dovere conferito al giornalista di portare a conoscenza dell’opinione pubblica fatti, notizie e vicende interessanti la vita associata”. L’oggettiva “lesione della personale reputazione di un individuo”, dunque, può essere tollerata “solo se la rappresentazione offerta risponda ad un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti narrati (tale da legittimare la compressione dei simmetrici diritti della persona incisi dalla divulgazione dei fatti) ed offra una descrizione della realtà coerente con la verità oggettiva (o anche soltanto putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) e rappresentata in forma “civile” (tanto nell’esposizione dei fatti, quanto nella loro valutazione)”. In altre parole, “essendo il giornalista un semplice intermediario tra il fatto e l’opinione pubblica, la divulgazione della notizia lesiva deve essere giustificata da un oggettivo interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riferiti e resa con l’adozione di modalità espressive adeguate allo scopo informativo”. Solo entro questi limiti “il bilanciamento tra l’interesse individuale alla tutela di diritti della personalità quali l’onore, la reputazione e la riservatezza, e quello, costituzionalmente protetto, alla libera manifestazione del pensiero deve risolversi in favore di quest’ultimo, avuto riguardo al prevalente diritto dell’opinione pubblica ad essere informata ed a formarsi un convincimento in ordine a vicende di rilevante interesse collettivo”. Varese. Dramma nel carcere, detenuto muore in cella e scoppia la protesta laprovinciadivarese.it, 27 maggio 2025 Il suicidio di un detenuto 57enne nel carcere di Varese riaccende l’allarme sulle condizioni critiche delle strutture penitenziarie italiane: sovraffollamento al 95%, carenza di personale e un numero crescente di suicidi tra detenuti e agenti evidenziano l’urgenza di riforme strutturali per garantire dignità e sicurezza all’interno delle carceri. Tragedia al carcere dei Miogni di Varese: un giovane detenuto è stato trovato morto nella sua cella nella mattinata di lunedì 26 maggio. Le cause del decesso saranno accertate dall’autopsia, ma secondo quanto trapela da fonti interne, non si esclude l’ipotesi del suicidio, sulla base delle condizioni in cui è stato rinvenuto il corpo. La notizia ha scatenato una dura reazione da parte degli altri detenuti, che nella serata di ieri hanno inscenato una protesta rumorosa, si sono uditi cori di accusa - “assassini” - e la consueta “battitura” delle sbarre, gesto simbolico di forte dissenso. L’episodio riporta alla luce il dibattito sulle condizioni di detenzione nel carcere varesino, già oggetto di critiche per sovraffollamento e carenze strutturali. In parallelo, torna d’attualità anche il tema - da anni discusso - della realizzazione di un nuovo istituto penitenziario a Varese, più moderno e adeguato alle esigenze di sicurezza e dignità dei detenuti. Roma. Un giovane detenuto: “Ho un tumore, sono a Rebibbia ma nessuno mi cura” di Antonio Alizzi Il Dubbio, 27 maggio 2025 Durante una delle ultime udienze del processo “Reset”, l’imputato Denny Romano, coinvolto nell’inchiesta della Dda di Catanzaro contro i clan della ‘ndrangheta, ha rilasciato dichiarazioni spontanee che hanno suscitato preoccupazione riguardo alle sue condizioni di salute. Il giovane detenuto di Cosenza, in attesa di processo e attualmente ristretto presso il carcere di Rebibbia, ha denunciato la grave situazione che sta vivendo, evidenziando come da tre anni non riceva le necessarie cure mediche nonostante le ripetute sollecitazioni del tribunale di Cosenza. “Mi preme far presente a questa Corte che la situazione è ormai al collasso da troppo tempo”, ha esordito Romano, lamentando l’insensatezza delle risposte ricevute sia dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che dal dirigente sanitario dell’istituto penitenziario, che avrebbero dichiarato che “Romano è compatibile con il carcere”. Ma, secondo l’imputato, “se sto aspettando da tre anni innumerevoli visite, come posso essere costantemente seguito?”. Romano ha esposto con dettagli precisi il lungo calvario a cui è sottoposto, ricordando che nel luglio del 2023 era stata richiesta una Tac urgente, ma che l’esame non è mai stato eseguito. “Sono tre anni che aspetto, nonostante il sollecito”, ha aggiunto, citando anche la prescrizione di esami delle marche tumorali e altre visite che non sono mai avvenute. Ha anche evidenziato come a seguito di un colpo ricevuto al capo, non sia stata effettuata nessuna visita neurologica né Tac. Inoltre, l’imputato ha denunciato il suo progressivo stato di indebolimento fisico, parlando di una perdita di peso preoccupante, che lo ha portato a scendere da 70 kg a 55 kg. Romano ha affermato che nonostante la diagnosi di un tumore nella zona pubica, non sono stati fatti né i test necessari né le visite specialistiche richieste. La sua unica richiesta è quella di essere curato, “come una persona umana”, ha concluso, chiedendo esplicitamente alla Corte di adoperarsi per il suo trasferimento in un altro carcere dove possa ricevere le necessarie cure mediche. Il difensore di Romano, l’avvocato Antonio Quintieri, ha inviato il 7 maggio scorso una nota ufficiale al tribunale di Cosenza in cui ribadisce la gravità della situazione sanitaria del suo assistito. L’avvocato ha sottolineato che, nonostante le ordinanze e le segnalazioni fatte dallo stesso tribunale, Romano non ha ricevuto le cure necessarie. “Nonostante gli sia stato diagnosticato un tumore nella zona pubica, non è stato sottoposto ad alcun esame necessario, né a una biopsia”, ha scritto il legale, sottolineando anche il fatto che le problematiche neurologiche e dermatologiche non siano mai state adeguatamente trattate. L’avvocato ha inoltre richiesto che vengano sollecitati il Dap e l’area sanitaria di Rebibbia per una valutazione della compatibilità medica del detenuto con la struttura carceraria. “Tale lamento non è strumentale”, ha concluso il difensore, “ma chiede il rispetto dell’irrinunciabile diritto alla salute del detenuto”. L’ultimo provvedimento del tribunale di Cosenza non ha sortito ancora alcun effetto. I giudici Ciarcia, Granata e Vigna, anche in udienza hanno sollecitato la casa circondariale romana ma ad oggi nulla è stato fatto. La difesa, intanto, ha nominato un medico privato per consentire a Denny Romano di essere visitato al fine di avere a disposizione un quadro clinico completo. Nel frattempo, l’imputato, come forma di protesta, ha deciso di non partecipare alle sedute processuali di “Reset” che si svolgono nell’aula bunker di Castrovillari. Grosseto. Interrogazione al ministro Nordio: “Presente il doppio dei detenuti” di Cristina Rufini La Nazione, 27 maggio 2025 Il documento firmato dagli onorevoli del Partito democratico Laura Boldrini e Marco Simiani. La deputata: “Durante la visita di venerdì scorso ho riscontrato anche carenza di personale”. “A seguito della visita dello scorso venerdì presso la casa circondariale di Grosseto e delle criticità constatate, ho presentato oggi (ieri, ndr), insieme al collega Marco Simiani, una interrogazione al ministro della Giustizia Nordio”. L’annuncio è della deputata del Pd Laura Boldrini. “Come evidenziato durante la visita stessa, pur essendo una struttura piccola il carcere di Grosseto soffre degli stessi problemi che affliggono l’intero sistema carcerario, primi tra tutti il sovraffollamento e la carenza di personale sottolinea Boldrini - Carenti sono anche gli spazi e questo limita fortemente la possibilità di attività trattamentali, necessarie per il reinserimento e per scongiurare la possibilità di recidive, come previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Per affrontare almeno la necessità di personale abbiamo chiesto al ministro per quale ragione Grosseto non risulta tra le sedi disponibili nelle attuali procedure di mobilità che permetterebbero di coprire il posto di funzionario contabile vacante e se intenda provvedere includendola tra le destinazioni accessibili ai vincitori del recentissimo concorso per tale profilo professionale, le cui prove sono state concluse e del quale si attendono le assegnazioni di sede”. Boldrini è anche presidente del Comitato permanente della Camera sui diritti umani nel mondo. Proprio al termine della visita nella casa circondariale di Via Saffi, la deputata del Pd, appena uscita dal carcere aveva incontrato la stampa per fare il punto della situazione e già in quell’occasione aveva sottolineato le carenze che ora ha ripotato nell’interrogazione presentata al ministro Nordio. “Su una capienza regolamentare di 15 persone, al momento sono ne sono detenute 26 che in alcune circostanze diventano 30”. Aveva iniziato così Laura Boldrini. “Prossimamente potrebbero arrivare a 33 - aveva aggiunto -. Stiamo parlando del doppio: un numero che incide pesantemente sulla possibilità di svolgere attività trattamentali adeguate che permettano percorsi di recupero indispensabili a reinserire i detenuti nella società e scongiurare il rischio di recidiva. Nonostante gli ammirevoli sforzi della direttrice Maria Teresa Iuliano e del personale, la carenza degli spazi rimane determinante”. Modena. Assistenza sanitaria in carcere, previsto un piano per l’incremento del personale di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 27 maggio 2025 Preoccupa la grave carenza di personale infermieristico nel carcere modenese di Sant’Anna, che già si trova a far fronte da anni alla cronica mancanza di un numero adeguato di agenti di polizia penitenziaria ed educatori. Da qui lo stato di agitazione proclamato dai sindacati a fronte del numero insufficiente di personale infermieristico nel penitenziario, al quale l’Ausl ‘risponde’ sottolineando come la situazione sia nota e presidiata. “Tramite concorsi, avvisi e contratti interinali sono state possibili sei assunzioni tra lo scorso dicembre e marzo - fanno sapere dall’Ausl - mentre sulla mobilità interna intradistrettuale nessuna domanda è pervenuta per la Medicina Penitenziaria. Rispetto ai dati 2022, sono stati aggiunti 5 infermieri e ad oggi sono 21 quelli assegnati complessivamente al carcere. Di essi, per motivi di lunghe malattie e gravidanze, 16 sono effettivamente in servizio oltre al coordinatore, con una nuova attivazione avvenuta proprio nella giornata di oggi (ieri, ndr). Insieme al Direttore del Distretto di Modena Andrea Spanò che presidia la situazione, si sta lavorando per avere a disposizione le professionalità cliniche necessarie all’assistenza, aprendo anche collaborazioni con la vicina provincia di Reggio. Va in questa direzione l’elaborazione di un progetto di valorizzazione del personale infermieristico della Medicina Penitenziaria di Modena e Castelfranco Emilia. Al centro c’è l’incentivazione dei lavoratori dal punto di vista professionale, organizzativo ed economico”. Alla base della carenza, il crollo di iscrizioni ai corsi di laurea a fronte di una domanda crescente da parte del sistema sanitario. A ciò si aggiungono alti tassi di abbandono della professione. “Il lavoro dell’Ausl per il reperimento di personale infermieristico per il carcere è stato costante, preceduto, all’arrivo della nuova Direzione generale, da due sopralluoghi e frequenti scambi con l’istituto detentivo con l’obiettivo di adottare soluzioni efficaci e in tempi rapidi. Inoltre, per fornire un supporto medico, è stato emanato un bando straordinario purtroppo andato deserto. Per quanto riguarda il progetto di valorizzazione del personale sarà discusso con i sindacati”. Lucera (Fg). 14 detenuti hanno terminato la I classe dell’Istituto professionale alberghiero di Riccardo Zingaro luceraweb.eu, 27 maggio 2025 Nel carcere di Lucera si è concluso l’anno scolastico della prima classe dell’istituto professionale alberghiero, avviato a settembre scorso. E i 14 detenuti che frequentano le lezioni di tutti gli indirizzi didattici hanno voluto mostrare quanto appreso, allestendo un vero e proprio banchetto nel cortile del penitenziario, offrendo un menù partito dagli antipasti e finito ai dolci, curando anche tutto l’apparato di accoglienza e preparazione logistica. La partnership con il locale Convitto Bonghi che ha messo a disposizione otto docenti e tutto il know how necessario sta quindi dando frutti evidenti e pure gustosi, e gli ospiti della giornata sono stati gli insegnanti, il personale civile della struttura e quello della polizia penitenziaria, tutte persone che ogni giorno danno il proprio contributo umano e professionale per la loro assistenza ai reclusi, praticamente tutti legati a reati di violenza di genere o a sfondo sessuale. “Questa iniziativa ha un alto valore educativo e una funzione professionalizzante - ha riferito la direttrice del carcere, Immacolata Mannarella - perché abbiamo colto l’attitudine e il desiderio di alcuni di loro a coltivare una propensione alla cucina che avevano già espresso, poi messa in pratica grazie alla collaborazione del ministero dell’Istruzione e in particolare della scuola locale. Questa è la base per la costruzione di un futuro migliore, perché al termine del percorso potranno conseguire una qualifica professionale da spendere comunque fuori da questo contesto. Devo dire che c’è stato grande interesse e partecipazione degli alunni, fortemente coinvolti dalla capacità degli insegnanti, elevando nello stesso tempo il livello di istruzione e accompagnarlo verso un suo recupero personale. Non a caso, stiamo cercando di offrire comunque a tutti occasioni di consapevolezza della loro condizione umana e psicologica, con corsi specifici legati al controllo delle proprie pulsioni, specie quelle legate alla pedofilia”. “Questo progetto si è innestato perfettamente in quello che già facciamo quotidianamente - ha aggiunto Simona Salatto, responsabile del settore educativo interno, formato da un team di tre professionisti - perché si tratta di un percorso strutturato e finalizzato a qualcosa di concreto. Tutti quelli che lo stanno frequentando sono motivati e ci tengono a fare sempre bella figura, praticamente tutti hanno anche rivalutato il valore della scuola come elemento di elevazione personale. Non succede ovviamente per tutti, ma devo dire che molto spesso chi passa da qua poi esce migliore di prima, sebbene la trattazione della particolare tipologia dei reati commessi poi merita una gestione molto particolare. Ma anche su questo stiamo lavorando con progetti specifici, in particolare uno triennale denominato proprio ‘Uomini oltre la violenza’, condotto assieme all’Associazione ‘Impegno donna’ di Foggia, con l’intervento di psicologi, educatori e assistenti sociali”. Alla mattinata sono stati presenti anche l’assessore comunale all’Istruzione Maria Barbaro e il consigliere regionale Antonio Tutolo: “Sono veramente contento di come stiano andando le cose - ha dichiarato quest’ultimo - perché l’anno scorso sono stato il personale promotore presso la Regione Puglia affinché questo progetto avesse opportuno riconoscimento istituzionale. Oggi i risultati si vedono, perché ho constatato di persona che questi ragazzi sono seguiti adeguatamente. Ho visto gente impegnata seriamente nel cercare di riscattare la loro vita, provando a dare a sé stessi una seconda chance una volta tornati in libertà, spendendo concretamente nel mondo del lavoro il diploma che poi conseguiranno. Mi complimento con tutti quelli che stanno portando avanti le attività, sono sicuro che ci saranno risvolti positivi anche nella società civile”. Il corpo docenti era rappresentato nell’occasione da Jada Di Mella che ha manifestato soddisfazione per le “risposte” ricevute dalla classe in termini di impegno e rendimento in questo percorso che ora continuerà sicuramente con il secondo anno da settembre prossimo. Verbania. Una seconda vita per gli abiti usati grazie alla creatività dei detenuti di Vincenzo Amato La Stampa, 27 maggio 2025 Comune di Omegna, Mastronauta e carcere di Pallanza hanno siglato un accordo sperimentale. Nel laboratorio “L’Ago della libertà” saranno recuperati vestiti che poi verranno messi in vendita. Solidarietà, creatività e speranza. È il progetto Ri-Vesti, il laboratorio di riuso di abbigliamento usato che con fantasia viene reimmesso sul mercato. Protagonista la casa circondariale di Verbania attraverso il laboratorio sartoriale “L’ago della libertà”. È un’iniziativa che si deve al Comune con l’associazione Mastronauta e i detenuti verbanesi. L’idea è nata dopo le felici esperienze che il carcere di Pallanza ha avuto con i corsi di arte bianca (cucina e biscottificio), e adesso con i capi di abbigliamento dismessi che possono avere una seconda vita. Non una semplice riparazione. I capi saranno infatti rinnovati. “È una proposta che stava maturando da tempo e in sintonia con i valori che sono la base della Costituzione e vuole dare a tutti una nuova opportunità - dice l’assessora Mimma Moscatiello che ha firmato l’accordo -. In questi giorni in cui Mastronauta sta effettuando il Baratto, c’è chi porta i propri vestiti e ne prende altri. Noi abbiamo pensato di coinvolgere i detenuti di Verbania che hanno il laboratorio di sartoria. Abbiamo trovato nella direzione del carcere, e in particolare nella direttrice Claudia Piscione Kivel Mazury e nei giovani di Mastronauta Andrea Ruschetti, Alessandra Alessi e Elena Bini, disponibilità ed entusiasmo. Così abbiamo dato vita al progetto Ri-Vesti con la firma di un protocollo”. Il meccanismo è semplice. Mastronauta si impegna a raccogliere e consegnare i vestiti dismessi, come nel caso del “Baratto” di questi giorni, al carcere che a sua volta li seleziona. Poi nella loro sartoria saranno trasformati in abbigliamenti totalmente nuovi. “Abbiamo sposato in pieno la proposta di Moscatiello e del Comune perché alla base c’è appunto la solidarietà - racconta Ruschetti -. Due nostre socie, Elena e Alessandra, hanno da tempo pensato a come rimettere in circolo abiti che diversamente sarebbero stati buttati via. Invece, con i detenuti, torneranno a essere indossati”. L’impegno dei negozianti - Adesso il testimone passa alle attività commerciali, a partire dai negozianti di Omegna che dovranno non solo metterli in vetrina, ma in vendita. La stessa operazione la farà Mastronauta attraverso il proprio “Botteghino”. L’accordo è sperimentale, fino al 31 dicembre 2026, ma è prorogabile se i vestiti made in “L’ago della libertà” daranno risultati positivi. L’amministrazione comunale promuoverà l’iniziativa, mentre Alessi e Bini daranno insieme a Ruschetti e agli altri artisti di Mastronauta il loro contributo nel disegnare abiti. Torino. Al Salone del Libro premiati gli autori sul carcere di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 27 maggio 2025 Grande folla al Salone del Libro per l’assegnazione del Premio letterario “Meco” sui temi del carcere. Oltre 800 gli elaborati giunti alla giuria del concorso promosso dal Forum Terzo Settore e dai Salesiani, in collaborazione con “La Voce e il Tempo”. Decine di persone sono rimaste in piedi al Salone del Libro, venerdì scorso presso lo stand del Comune di Torino, dove si è tenuta la premiazione della 1ª edizione del Premio letterario “Meco”, dedicato alla memoria di Domenico Ricca, salesiano, per 40 anni cappellano all’Istituto penale minorile torinese “Ferrante Aporti, scomparso lo scorso anno. Un pubblico inatteso come la partecipazione al concorso di cui il nostro giornale era media partner: nel giro di due mesi sono pervenuti alla giuria da tutt’Italia 850 contributi di autori nati dal 2007 al 1947. Saggi, poesie, racconti anche di detenuti (nel carcere di Biella al termine di un laboratorio di scrittura si è deciso di partecipare al premio) e da 13 giovani ristretti al “Ferrante Aporti” a cui era dedicata una sezione. “Un numero che ci ha colpiti” è stato sottolineato dai promotori, il Forum del Terzo Settore Piemonte, di cui don Ricca fu tra i fondatori, e i Salesiani del Piemonte e della Valle d’Aosta “perché il tema del Premio ‘Dietro le sbarre’, le sbarre fisiche di chi è in carcere e le sbarre ‘psicologiche e mentali’ di cui ognuno è prigioniero, non era semplice. Ma è stato sviscerato da molti punti di vista a seconda della propria sensibilità e condizione di vita: le sbarre della detenzione, malattia fisica e mentale, pregiudizio, conformismo, bullismo e molto altro”. Alla premiazione, oltre ai 12 giurati tra cui gli scrittori Margherita Oggero e Younis Tawfik e i rappresentati dei numerosi enti ed associazioni che operano nel sociale di cui don Ricca era punto di riferimento, sono intervenuti Michela Favaro, vicesindaco di Torino, Bruno Mellano, garante dei detenuti della Regione, Ennio Tomaselli, già capo della Procura minorile torinese, don Leonardo Mancini ispettore dei Salesiani del Piemonte e della Valle d’Aosta e don Silvano Oni, salesiano, successore di don Meco al “Ferrante”. Tra il pubblico, i vincitori e molti collaboratori di don Meco tra cui il procuratore dei minori del Piemonte e della Valle D’Aosta Emma Avezzù e gli amici del mondo associativo e del Terzo settore come le Acli e l’Associazione Aporti Aperte che, con la Scuola Holden che ha donato alcune borse di studio, hanno contribuito ai premi in denaro. Ed ecco i vincitori: categoria adulti, 1° premio a Laura Nair Diena con il racconto “Storia piccola di un lavoro”; per gli adolescenti ha vinto con il saggio breve “L’abbattimento del muro” Edoardo Degiovanni. Premi speciali a due persone con disabilità e per i 13 ragazzi del “Ferrante Aporti” la giuria ha deciso di premiare ex aequo 4 opere (tra cui la poesia che pubblichiamo in fondo) con un contributo di 250 euro e un riconoscimento di 100 euro a tutti i partecipanti. I primi tre contributi delle categorie “adulti” e “adolescenti”, 25 scritti che hanno ottenuto dalla giuria la menzione di pubblicazione e le quattro opere dei ragazzi del “Ferrante” verranno incluse nel libro della 1ª edizione del Premio i cui proventi della vendita verranno interamente devoluti alla comunità per minori Harambée di Alessandria dove don Meco era di casa. Dato l’inatteso successo e la ricchezza dei contenuti, l’appuntamento è per la seconda edizione: il seminato di don Ricca continua a “dare di più ai giovani che hanno avuto di meno”. Milano. Vecchi problemi, nuove soluzioni: alla Statale giornata dedicata all’emergenza carceri di Martino Fiumi lasestina.unimi.it, 27 maggio 2025 Professori di diritto, operatori di San Vittore e Bollate e anche il garante dei detenuti di Milano. Una giornata per chiedersi come rispondere all’emergenza carceri. ““Tu sei una pazza” è la prima cosa che mi hanno detto quando ho deciso di aprire un ristorante per far lavorare i detenuti di Bollate”. dice Silvia Polleri. Alle sue spalle passano i ragazzi e le ragazze del catering, vassoio-muniti e trafelati. In mezzo alla calca che si infrange addosso al tavolo del buffet Polleri si blocca. Strizza gli occhi. Fissa un ragazzo che serve tramezzini. “Ma come, solo tre? E riempi quel vassoio!”. Poi gli sorride. Intorno a lei orbitano professori universitari, giornalisti, ex e attuali operatori del carcere di San Vittore, direttrice compresa. Tutti nell’atrio della Sala Napoleonica dell’Università Statale per l’evento Emergenza carcere tra realtà locale e prospettive europee. “Ci tenevamo tanto che il catering di oggi fosse affidato ad ABC La Sapienza in tavola”, spiega la professoressa di diritto penale Angela Della Bella mentre dà il via alla pausa pranzo dell’evento di lunedì 19 maggio. Una giornata intera per parlare di carceri, dei problemi (che son sempre quelli) e delle iniziative (che conoscono in pochi). Si parte dagli sportelli di informazione giuridica di San Vittore. Della Bella e l’avvocato Paolo Oddi ne hanno fondato uno due anni fa, ma lo presentano per la prima volta qui. Con questa iniziativa si occupano di crimmigration, “quell’interferenza - spiega Oddi - tra diritto penale e diritto dell’immigrazione”. Davanti alla platea Della Bella spiega che per i detenuti migranti l’esperienza carceraria rappresenta un ostacolo più difficile da superare che per gli italiani. Per esempio, per loro è molto complesso poter accedere agli arresti domiciliari perché non hanno i documenti che attestino un alloggio. E allora, oltre allo sportello “Diritti in carcere” della Bocconi, era necessario che ce ne fossero altri con gli studenti di giurisprudenza e con quelli di mediazione linguistica e culturale. Anche perché San Vittore è a corto di mediatori, ma non di detenuti stranieri (due su tre), e a dirlo è anche Elisabetta Palù, direttrice del carcere. Alcuni ospiti che sono intervenuti durante l’evento - Palù parla al tavolo con la comandante della polizia penitenziaria di San Vittore, Michela Morello e l’agente di rete Agnese Elli. Della Bella aveva raccontato poco prima che il reparto sanitario del carcere le aveva chiesto in prestito i mediatori del loro sportello, che però sono studenti tirocinanti. Ma il problema principale è il sovraffollamento. Duecento per cento. “In alcuni casi ci sono tre detenuti in celle da 9 metri quadrati”, aggiunge Palù. Il garante dei diritti dei detenuti per il comune di Milano Francesco Maisto ricorda che le leggi ci sono, che ci sarebbe anche la possibilità di fare un indulto, “ma la maggioranza di governo non lo vuole fare”. “Dicono che sarebbe antieducativo. Però non è più antieducativo far vivere delle persone in una situazione di brutalità? Le persone che escono appena espiate, senza una misura alternativa, escono più inferocite di prima”. Prendiamo il carcere di Bollate. Oggi ne parliamo per il suicidio di Emanuele De Maria, il detenuto che lavorava all’hotel Berna, ma Bollate è un istituto da record proprio per queste iniziative. Mentre in Italia il 70% dei detenuti viene arrestato di nuovo dopo la scarcerazione, “i detenuti di Bollate hanno una recidività bassissima (7%, ndr), ma questo per il fatto che si procede progressivamente con degli assaggi di libertà”. Che sia scrivere per il giornale Carte Bollate o lavorare nel catering fondato da Silvia Polleri, che hanno chiamato “pazza”, ma da cui arriva anche un signore giacca e cravatta. Si presenta, ex detenuto che aveva lavorato nel ristorante dentro a Bollate, “mentre ero lì non ci siamo mai incontrati ma mi faceva piacere conoscerla”. Bologna. Volontari alla Dozza, premiati i tutor della Fid-Fabbrica in carcere gnewsonline.it, 27 maggio 2025 “Solo con il lavoro possono riscattarsi”. Questo il messaggio che Aldo Gori cerca di trasmettere ai detenuti che lavorano nella fabbrica aperta all’interno nel carcere di Bologna. È un tutor volontari di ‘Fare impresa in Dozza- Fid’ che oggi - assieme agli altri suoi colleghi - ha ricevuto dal Comune di Bologna la Turrita d’argento per “lo straordinario esempio di partecipazione e solidarietà all’interno del carcere” ha commentato il sindaco Lepore. Il cuore pulsante dell’iniziativa è proprio nei volontari, un gruppo di tutor, collaboratori delle aziende fondatrici di Fid in pensione, che si dedicano alla formazione dei detenuti e li seguono nel lavoro quotidiano in fabbrica, trasferendo contenuti tecnici per il montaggio e l’assemblaggio di pezzi meccanici e la costruzione di componenti. “I tutor sono nostri pensionati che invece di dedicarsi al meritato riposo vanno oltre e offrono le loro competenze, la loro professionalità, soprattutto la loro umanità in questo generoso tentativo di recuperare alla vita normale persone che hanno sbagliato, ma non per questo hanno perso la speranza. - ha commentato Maurizio Marchesini, presidente della Fid - L’esperienza sta andando bene - prosegue - e l’indice di recidiva è crollato a meno del 10%, a fronte di una media nazionale che supera il 70%”. In questi anni Fid, una vera e propria azienda meccanica con veri e propri trattamenti normativi e salariali, che opera da 13 anni alla Dozza, ha coinvolto 75 detenuti, aiutandoli poi - una volta usciti dal carcere - a trovare lavoro nel settore del packaging. Treviso. Dal carcere minorile al progetto promosso dell’associazione Treviso Sotterranea di Sara Paris lavitadelpopolo.it, 27 maggio 2025 Il racconto dell’archeologa Sara Paris, accanto a un giovane dell’Ipm in messa alla prova. Arricchiti e trasformati reciprocamente dall’esperienza. Sono Sara, uno dei soci fondatori dell’associazione Treviso Sotterranea, che da più di 10 anni lavora per far conoscere gli ambienti ipogei delle mura e della città e per promuovere il patrimonio culturale di Treviso. Quando ho conosciuto don Otello Bisetto, che mi ha proposto di collaborare con il carcere minorile, ho accettato subito, incuriosita e desiderosa di far avvicinare un ragazzo al mondo dei beni culturali. Pensavo che il prendersi cura di qualcosa lo avrebbe forse aiutato a vedere il mondo in modo diverso. Mi chiedevo come rendere questo percorso positivo e formativo per lui; non mi ero, invece, fatta nessuna domanda su cosa avrebbe dato a me questa esperienza; mai avrei immaginato come questo percorso sarebbe stato ricco di momenti significativi che mi avrebbero coinvolta e arricchita. La prima volta che vidi Stefano fu in carcere. Un pomeriggio sono arrivata di corsa, dopo il lavoro, all’ingresso del carcere minorile, un luogo che mi è familiare, perché lo intravedo andando al lavoro. Appena varcata la porta, però, mi ha assalito un senso di estraneità: entrando ti rendi conto di accedere a una bolla, dove lo spazio e il tempo hanno significati diversi. Ti spogli di quello che ti lega all’esterno, telefono, borsa e altri effetti personali, ed entri in un mondo a parte. Ho incontro Stefano in una delle sale del carcere, con la sua educatrice, e, insieme, ci siamo seduti e abbiamo iniziato a organizzare il progetto di messa alla prova. Capii subito che Stefano era un ragazzo intelligente, vidi nei suoi occhi una grande timidezza mista, però, alla voglia di mettersi in gioco. All’inizio era sorridente, ma di poche parole, stordito dalle troppe persone nuove e forse anche preoccupato del giudizio altrui. Di volta in volta lo vedevo più rilassato, pronto ad aiutarmi con i caschetti o a gestire i visitatori, e autonomo nel compito di aprire gli spazi sotterranei. Il vero cambiamento, però, è avvenuto non nei momenti di lavoro, quando eravamo guida e aiutante, ma quando tornavamo Sara e Stefano, due persone molto diverse per età ed esperienze di vita, che hanno, pian piano, iniziato a conoscersi e scoprirsi. I discorsi sono passati dalle chiacchiere di circostanza al vissuto personale e Stefano ha iniziato ad aprirsi e a parlare di sé, del carcere e di una vita così lontana dalla mia. Ho visto in lui forza e fragilità e mi è venuto spontaneo raccontarmi, mettermi in gioco e riflettere. Col passare dei mesi, delle domeniche e dei sabati trascorsi insieme sulle mura o in sede, ho iniziato ad affezionarmi a Stefano e ho riconosciuto in lui potenzialità che in principio non avevo sospettato. Ho pensato che aveva tutte le capacità per essere lui stesso una guida e ho deciso che, negli ultimi mesi rimasti al progetto, lo avrei preparato a condurre una visita guidata sulle mura. Abbiamo passato molti pomeriggi e mattine a scrivere testi, preparare scalette e ripetere le conoscenze storiche. In principio con tranquillità, poi, con un po’ di preoccupazione, per la data della visita finale che si avvicinava. L’educatrice e io avevamo cercato, insieme a don Otello, di invitare alla visita un gruppo di persone che fossero state vicine a Stefano in questo suo periodo all’Ipm, per rendere l’esperienza ancora più significativa. Le domeniche prima dell’evento la tensione si sentiva, e pure io ero emozionata e preoccupata, con una sensazione simile a quella delle ultime prove prima di un grande spettacolo. Stefano era sempre più ansioso, tanto che mi convinse ad andare in carcere per un ripasso finale prima della guida. Quello fu sicuramente un momento significativo, era preoccupato ed emozionato, sia per la visita che per il suo futuro. A breve, avrebbe cambiato vita, girato pagina, e la libertà di scegliere, a volte, può spaventare più della prigionia. Il 5 febbraio era il grande giorno e tutto era preparato: un bel gruppetto di persone fra volontari del carcere, insegnanti, guardie e soci di Treviso Sotterranea era pronto per assistere alla visita e a festeggiare, poi, con un pranzo insieme. Mi alzai presto e andai a prendere Stefano in Ipm. Era emozionato, terrorizzato di non essere all’altezza della situazione, ma forse felice per la disponibilità di tutte quelle persone che venivano ad ascoltarlo. Cercai di ridere e scherzare, ma mi rendevo conto di essere in ansia anche io, mentre preparavamo i caschetti e l’attrezzatura gli continuavo a ripetere che sarebbe andato tutto bene. È stato molto bello vedere tutte quelle persone, che fanno parte di un mondo duro come quello del carcere, riunite insieme e sorridenti per dimostrare il loro affetto a un ragazzo che ha sbagliato, ma che ha dimostrato di avere la capacità di cambiare. Mentre introducevo la visita, nonostante 10 anni d’esperienza, riuscii a perdere il filo per l’emozione. Passai la parola a Stefano. Iniziò con incertezza, ma più passava il tempo più diventò sicuro e condusse un’ottima visita. In quel momento, ero veramente fiera di lui e vedevo negli occhi di tutti gli intervenuti lo stesso affetto e l’apprezzamento per il suo lavoro. Finita la visita e sciolta la tensione, si è potuto, finalmente, festeggiare. Questa esperienza non mi ha dato solo la possibilità di essere d’aiuto a un ragazzo per fornirgli sicurezza sulle sue capacità e possibilità future, ma ha permesso anche a me di riflettere sulla mia vita e sulle mie scelte e sulle potenzialità che ognuno di noi ha di influire positivamente sulla vita degli altri. Acireale (Ct). Lettere dal carcere, scambi tra studenti e detenuti del penitenziario minorile cataniatoday.it, 27 maggio 2025 Per garantire che la privacy dei minori venga rispettata, le lettere degli studenti vengono vigilate: non possono contenere informazioni con indirizzi e numeri civici, non ci possono essere nomi di battesimo e ogni partecipante sceglie un nickname col quale avviare la corrispondenza. Lettere dal carcere. Missive scambiate tra chi è fuori e chi, invece, nonostante la giovane età, è costretto per un periodo a stare ‘dentro’. Uno scambio che diventa possibilità’ e crescita, ma anche un modo per accorciare le distanze e per abbattere le pareti, non solo fisiche, che separano esperienze di vita diverse. È tutto qui il senso del laboratorio “Corrispondenze”, portato avanti dal Cag (Centro aggregazione giovanile) di piazza Bovio, a Catania, con la collaborazione dell’istituto “Regina Elena” di Acireale, del Cpia (Centro provinciale per l’istruzione degli adulti) 2 di Giarre, e dell’Ipm (Istituto penale per i minorenni) di Acireale. In queste settimane, gli alunni del liceo acese hanno avuto l’opportunità’ di scambiare delle lettere con altrettanti giovanissimi che attualmente stanno trascorrendo una parte della loro vita all’Ipm, seguendo i corsi del Cpia di Giarre. Per garantire che la privacy dei minori venga rispettata, le lettere vengono vigilate: non possono contenere informazioni con luoghi fisici (indirizzi e numeri civici), non ci possono essere nomi di battesimo e ogni partecipante sceglie un nickname col quale avviare la corrispondenza. Il percorso di scambio epistolare prevede prima una presentazione di chi scrive: la risposta a un breve questionario di cinque domande che parla di passato e di futuro. Un ricordo bello, un progetto a lunga scadenza, il superamento di un brutto momento, l’analisi di un dolore provato. Da una parte gli studenti e le studentesse del Regina Elena, dall’altra i coetanei dell’Ipm. Tutte e tutti chiamati anche a scriversi opinioni sulle dinamiche familiari, la suddivisione dei compiti nelle coppie o la genitorialità. Il laboratorio è condotto da Cristiano Licata e Alberto Incarbone, entrambi operatori sociali Sai (Sistema accoglienza integrazione) e animatori, dipendenti della cooperativa Futura 1989 (di cui è responsabile Liliana Di Maria), che gestisce il Centro di aggregazione giovanile di piazza Bovio. Licata e Incarbone si occupano della ricezione, del controllo e della consegna della corrispondenza. Le referenti del progetto sono le professoresse Agata Arcidiacono e Clara Grasso per il Regina Elena; Katerina Maddi per il Cpia 2 di Giarre che opera all’Ipm (dirigente scolastica Rita Vitaliti); le educatrici Rita Scandura e Marinella Patane’ per l’Ipm di Acireale (direttore Girolamo Monaco). Terni. Così i racconti dei detenuti diventano leva educativa di Giorgio Paolucci Avvenire, 27 maggio 2025 Il progetto “Osmosi”: durante l’anno i ragazzi fuori hanno inviato ai reclusi foto e cartoline come segno di amicizia. Più che un suggerimento, è un’invocazione accorata. “Ragazzi, non fate come noi. State lontani dalle strade su cui ci siamo avventurati. E ricordate che il confine tra bene e male è più sottile di quanto comunemente si pensa. Noi l’abbiamo varcato quel confine, a volte senza neppure rendercene conto, e ne stiamo pagando le conseguenze qua dentro”. È proprio un’invocazione quella che arriva dai detenuti della Casa circondariale di Terni, dove si consuma l’ultimo atto del progetto Osmosi che li ha visti protagonisti insieme a un gruppo di studenti dell’Ipsia Pertini della città. In verità, studenti sono pure loro: frequentano in carcere la sezione staccata dell’istituto, hanno sulle spalle il peso di reati che li hanno portati in cella. Nel teatro del carcere si sono ritrovati insieme ai ragazzi e a un gruppo di migranti che frequentano il CPIA (Centro provinciale istruzioni adulti). Tre mondi solo apparentemente lontani, ma che hanno tanta umanità da mettere in comune, tante domande alle quali rispondere partendo dalle reciproche esperienze: che valore hanno lo studio, il tempo, il rapporto con l’altro? Cosa significa libertà? Perché si prendono strade sbagliate? Come ci si rimette in gioco? Nell’incontro conclusivo del progetto, cominciato nel mese di ottobre, a tenere la scena sono i detenuti. Raccontano gli errori commessi, la presa di coscienza del male procurato alle vittime, l’aiuto ricevuto in carcere per avviare un cambiamento, le condizioni in cui si vive la detenzione, la speranza di tornare liberi. Ahmed, tunisino con uno spiccato accento romanesco, non riesce a trattenere le lacrime mentre racconta la sua storia di gran lavoratore, proprietario di un peschereccio, una bella famiglia, tutto a posto…. fino al momento in cui le sostanze diventano padrone della sua esistenza, annichiliscono la volontà, bruciano il cervello, e la vita va a rotoli. La permanenza in una comunità terapeutica sembra l’ancora di salvezza, ma quando esce il demone si impadronisce nuovamente di lui e lo porta a commettere reati. “Ed eccomi qua, a scontare la mia pena e a scongiurarvi di stare alla larga da quello schifo, a non illudervi di poter dire “smetto quando voglio”. Ma anche a testimoniare che si può ripartire”. Tra gli studenti-migranti del CPIA c’è chi racconta il viaggio nel Mediterraneo e la paura di annegare, chi promette di “aiutare come potrò il popolo italiano che mi ha accolto con generosità”, chi sogna di realizzare un’iniziativa “per dare l’acqua ai villaggi del mio Paese”. Il progetto Osmosi ha invitato a riscoprire il valore di un oggetto quasi sconosciuto nell’era di whatsapp e di Instagram, eppure prezioso per chi come i detenuti non può accedere alla Rete: la cartolina. E così gli studenti “fuori” durante l’anno hanno inviato delle foto-cartoline di alcuni luoghi-simbolo di Terni per testimoniare la vicinanza ai reclusi. I quali, ricevendole, si sono sentiti gratificati da un’amicizia che li accompagna nei lunghi giorni della detenzione, quando il mondo esterno rimane un pianeta lontano. Basta poco, una cartolina, per sentirsi importanti. “L’empatia che si è creata tra questi mondi è il frutto più gratificante del progetto - commenta Claudia, una delle insegnanti che lo ha promosso -. I ragazzi hanno scoperto un mondo molto diverso dalle semplificazioni mediatiche e hanno percepito quanta umanità e quanta voglia di riscatto pulsa in questi luoghi. I ristretti hanno imparato a scoprire se stessi, ad esprimere con poesie e componimenti il desiderio di positività che portano nel cuore e si sono messi in gioco. Matteo mi ha confidato: “Prof, scrivendo sto svuotando tutti i cassetti…”. Il racconto del passato criminale e della voglia di cambiare è diventato una leva educativa nei confronti dei giovani. Per prevenire i fenomeni di devianza che nel nostro territorio stanno crescendo, la medicina migliore si è rivelata la testimonianza. Ed è emerso il valore di una parola troppe volte banalizzata e che invece è la chiave di uno sguardo positivo sulla realtà: incontro”. Milano “Abbracci in libertà”. Il parco giochi in carcere per incontri tra madri e figli di Roberta Rampini Il Giorno, 27 maggio 2025 Fondazione Versace, l’iniziativa solidale di Santo e della moglie Francesca. Lo spazio inaugurato nella casa di reclusione: “Un sogno che si realizza”. “Da qui si vede il cielo e non le sbarre. Questo è un luogo bello, colorato e accogliente, sicuramente i nostri figli saranno più contenti di incontrarci qui, anziché nella sala colloqui”. È lo spazio “Abbracci in libertà” inaugurato ieri pomeriggio all’interno della casa di reclusione di Bollate. “Un sogno che si realizza, nato dall’ascolto di queste mamme che, nonostante tutto, restano tali”, dichiara Francesca De Stefano Versace. Il progetto è stato realizzato dalla Fondazione Santo Versace, anche grazie al supporto di Banca del Fucino. È stato riqualificato uno spazio verde che si trova accanto al reparto femminile e trasformato in un luogo di bellezza a “misura di bambino”. Un luogo accogliente per gli incontri tra le madri detenute e i loro figli. Un luogo che prima non c’era e le detenute potevano incontrare i loro figli in un ambiente condiviso con i detenuti del reparto maschile. Un parco giochi con altalene, scivoli, giochi per bambini e arredi. “Ogni madre e ogni bambino meritano un luogo dove sentirsi a casa, anche nelle difficoltà - raccontano Santo Versace e la moglie Francesca - con “Abbracci in libertà” vogliamo dare uno spazio che favorisca l’incontro, il legame affettivo e la serenità anche all’interno di un contesto di reclusione. Questo progetto è il nostro abbraccio simbolico a chi vive nella fragilità, un gesto che auspichiamo possa ispirare una rete di solidarietà che vada oltre le mura. Questo è solo l’inizio ci piacerebbe replicare il progetto in altri istituti penitenziari”. Per realizzare questo spazio è stata lanciata una call to action alla quale hanno partecipato giovani architetti under 35 proponendo le loro idee. È stato scelto il progetto “Sentieri di filastrocca” di Imge Duzgun, 28 anni, architetta dello studio Ideas di Milano. Sulla parete di muro perimetrale che separa questo spazio dal reparto femminile è stata appesa l’opera dal titolo “L’abbraccio” dell’artista Giulia Caruso, realizzata in resina e tecniche miste, rappresenta in modo delicato un gesto altrettanto delicato, simbolo di protezione, cura e dell’incontro tra sé adulti e sé bambini, memoria e futuro. “Donare un abbraccio in un luogo che chiede ascolto e bellezza è stato per me un gesto profondamente umano”, afferma l’artista. Giulia oltre ad aver donato l’opera ha guidato le detenute nella realizzazione pittorica, sullo stesso muro, della filastrocca “L’abbraccio” che ricorda i valori della Fondazione Versace, amore, dignità, solidarietà, trasparenza e concretezza, creando un ambiente che unisce sicurezza, creatività e valori condivisi. “È stata un’opera collettiva e condivisa, si possono notare due grafie diverse perché una delle detenute che stava scrivendo il testo della poesia è stata scarcerata e quindi ha concluso il lavoro un’altra detenuta”, racconta. “Qui lavoriamo ogni giorno per costruire un carcere che sia sempre più a misura di persona, perché crediamo che la dignità del detenuto sia il primo passo verso il reinserimento sociale - ha dichiarato il direttore del carcere, Giorgio Leggieri. In questo percorso le madri detenute rappresentano una priorità assoluta, sostenere la relazione con i loro figli significa offrire un’opportunità concreta di futuro anche in un contesto difficile”. “La Battitura”, strage in carcere. Un podcast del Tg1 rai.it, 27 maggio 2025 Otto marzo 2020, l’Italia si ferma. Poche ore e comincerà il lockdown. Tutti chiusi in casa, come in una prigione. Ma le carceri, quelle vere, ribollono di rabbia. I primi contagi dietro le sbarre, la sospensione dei colloqui e dei permessi sono la miccia che accende le proteste. Quella nel carcere di Modena sarà la rivolta più sanguinosa del dopoguerra in un penitenziario italiano. Finirà con 13 morti, tredici persone che erano nelle mani dello Stato. Uccisi, diranno le indagini, per overdose da farmaci rubati nell’infermeria. L’inchiesta sulle morti viene archiviata, ma c’è un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e ci sono altri fascicoli ancora aperti sulle violenze e sulle devastazioni. Cosa è accaduto davvero in quelle 72 ore durante le quali il carcere era terra di nessuno? “La Battitura”, il podcast in sei episodi del Tg1 per RaiPlay Sound scritto e condotto da Perla Di Poppa e Alessio Zucchini, online da mercoledì 28 maggio, è la storia di una strage dimenticata. Un Podcast che dà voce ai testimoni di quei fatti: detenuti, agenti della penitenziaria, operatori sanitari, familiari. Voci e documenti inediti per raccontare quei morti nel silenzio. Direzione artistica Andrea Borgnino. Montaggio e suono Renato de Angelis. Responsabile produzione Giulia Giannuli. Episodio 1 Gli invisibili - Abramo è uno di loro, uno degli oltre 60mila “dimenticati” nei penitenziari italiani. Episodio 2 La rivolta - 9 marzo 2020, il giorno in cui i detenuti si sono presi il carcere di Modena. Episodio 3 “Mamma s’io non tornassi” - Il metadone, la devastazione, le violenze. Storia di un massacro. Episodio 4 Requiem - Tredici vite spezzate, la strage degli ultimi. Episodio 5 L’uomo col tatuaggio - Un morto che si riveste da solo. I dubbi, i misteri. Episodio 6 Il silenzio - Tre inchieste per una storia dimenticata ancora prima di essere scritta. Il male, ripensato da vicino di Ubaldo Casotto Il Foglio, 27 maggio 2025 “Io volevo ucciderla. Per una criminologia dell’incontro” è il saggio in cui due criminologi - Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali - spiegano perché nessuno è “una perizia o una sentenza che cammina”. Pubblicato da Raffaello Cortina Editore nel 2022, il volume espone il lavoro, di taglio scientifico e sperimentale, svolto con incontri e ascolto di persone che hanno compiuto violenza contro altre persone. La voce narrante è quella di una donna omicida che, in dialogo con i due criminologi, ci guida nel flusso dei ricordi della sua infanzia, dei legami familiari, degli incontri, per dare un possibile senso al suo gesto. Li ho uccisi io. “Vedete, è che sono stato io a uccidere tutta quella gente… non è un modo di dire”. È la sorprendente confessione di Padre Brown, il sacerdote detective creato da Gilbert K. Chesterton, in risposta alla domanda su come riusciva sempre a trovare l’assassino. “Io non cerco di guardare l’uomo dall’esterno, cerco di penetrare all’interno dell’assassino […]. Io vi sono sempre dentro e gli muovo le braccia e le gambe; ma io aspetto di essere dentro un assassino; io attendo finché penso i suoi stessi pensieri e lotto con le sue stesse passioni, finché io non mi sono piegato nell’atteggiamento del suo odio che spia e che colpisce, finché io vedo il mondo con i suoi stessi occhi iniettati di sangue cercando la via più breve per giungere alla sorgente zampillante di sangue. Finché anch’io divento veramente un assassino”. Allora “realmente mi sono visto, ho visto me stesso commettere gli omicidi […]. E quando fui perfettamente sicuro di essere io stesso nelle condizioni dell’assassino”. E’ questo “l’esercizio spirituale” che mi si è riformato in mente fintanto che procedevo, pagina dopo pagina, nella lettura di “Io volevo ucciderla - Per una criminologia dell’incontro”, saggio di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali (Raffaello Cortina editore). In tanti parlano di giustizia e carceri, a proposito e a sproposito. Tra costoro c’è chi - con una ignoranza pari solo alla sua presunzione - sentenzia che per certe persone bisogna “buttare via la chiave”, manifestando una sommarietà di giudizio che, quando si tratti di esseri umani privati della libertà, è un delitto non penalmente ma moralmente grave quanto quello di ridurre al niente un proprio simile. C’è poi chi, di fronte a una criminalità percepita come montante (anche se i numeri dicono altro), pensa solo all’inasprimento delle pene. Ma c’è pure chi al contrario, a discapito della dignità del reo che crede di difendere, pensa che le cause dei delitti siano esclusivamente sociali o patologiche, tanto da escludere un’ultima responsabilità individuale. Ecco, tutti costoro dovrebbero leggere questo libro e sopportarne la fatica, soprattutto psichica, che comporta. La modalità di procedere dei due autori - rispettivamente ordinario e associato di Criminologia presso il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca; Ceretti è anche coordinatore scientifico dell’Ufficio di mediazione penale di Milano - è scientifica: interviste a persone che si sono macchiate di attacchi contro il corpo di altri, dalla violenza allo stupro all’omicidio. Il risultato va ben oltre l’intento accademico, perché una di queste interviste (undici incontri in carcere trascritti come un lungo pianosequenza di ventuno ore di registrazione) fa sì che l’intervistata scandagli la propria coscienza (quel luogo in cui si ascolta la voce di altri, che significativamente i due criminologi definiscono “parlamento interiore”) sino al punto originante del suo agire e del suo delitto. Ciò che permette a Stefania Albertani (questo il suo nome) di arrivare a dire: “Io non sono una perizia o una sentenza che cammina”. Ciò che permette a Stefania di rispondere all’imperativo iscritto sul tempio di Apollo a Delfi: conosci te stesso. Sino in fondo, senza censure, senza vere o false smemoratezze. Ho incontrato Adolfo Ceretti a un convegno, abbiamo cenato insieme e, parlando di carceri, gli ho raccontato di quando più di trent’anni fa intervistai per Raidue un ergastolano pluriomicida, noto come “il killer delle carceri”. Il quale in galera, con un collettivo, aveva iniziato un esperimento di “autogestione” di un settore del penitenziario in cui era recluso, e una revisione della sua vita dovuta alla nascita della figlia. Quando mi disse che lui ormai era “un altro uomo” io gli chiesi: “Come può pretendere che le persone che la ascoltano in diretta tv le credano?”. Mi rispose: “Non mi interessa che mi credano. Nessuno sa che cosa può succedere nel cuore di un uomo”. Ceretti mi ascoltava senza battere ciglio. Ho chiesto allora a lui: “Tu pensi che esistano attenuanti tali per cui una persona non sia responsabile dell’atto che ha compiuto?” “No, una persona è sempre ultimamente responsabile di ciò che fa”. “Ribatto: “Altrimenti è impensabile la funzione rieducativa della pena?” “Esatto”. Stefania Albertani ha ucciso la sorella e dato fuoco al cadavere, ha tentato di uccidere padre e madre una prima volta incendiando la macchina, e quindi di strangolare e bruciare la madre. Arrestata in flagranza di questo secondo tentativo, ha sempre negato l’omicidio. L’ha cancellato dalla sua memoria. E’ stata giudicata capace di intendere e volere, ma poi una perizia neuroscientifica le ha diagnosticato una disfunzione al lobo frontale e quindi una seminfermità di mente. E’ stata condannata a vent’anni di detenzione più tre di ospedale psichiatrico. I due criminologi la incontrano la prima volta a dodici anni dall’omicidio. Non hanno intenzioni redentive, ma scientifiche. Ed è questo “distacco” - che non esclude, anzi permette, l’interesse umano per la persona che hai di fronte - e la pazienza che lo accompagna, la condizione che permette il percorso per cui Stefania, passando dalla negazione iniziale alla memoria consapevole del gesto che ha compiuto, ritrova sé stessa. Forte è nel lettore la tentazione dell’irresponsabilità di fronte al racconto dell’infanzia, del rifiuto della madre (“tu non dovevi nascere”), dell’adolescenza in una famiglia che non la considera, che non la vede (mentre lei chiede solo di essere vista), dell’idolatria per il fratello maggiore (l’unico che gioca con lei) che però sarà poi la causa scatenante della sua rabbia omicida, del padre che mai la costringe a parole ma di fronte al quale lei si sente “liberamente obbligata” nelle sue (non) scelte, della violenza che vede agita in famiglia tra padre e madre, tra il fratello e la sorella maggiore, ma mai su di lei, che si adegua a come vogliono che sia al solo pensiero che quella violenza potrebbe prima o poi riguardarla. Insomma, più leggi più pensi: con una vita così aveva le sue ragioni. I due intervistatori le fanno raccontare con meticolosità il fatto. Non deducono, non affrettano conclusioni, non anticipano spiegazioni, continuano a domandare, si astengono da giudizi tanto apparentemente plausibili quanto affrettati, evitando quella sommarietà che di fronte a questioni gravi è un vero e proprio delitto. Citano anche il Talmud là dove insegna che se noi abbiamo una bocca e due orecchie è in ragione del fatto che dobbiamo ascoltare il doppio di quanto parliamo. Ascoltano e non fanno mai coincidere Stefania né con la perizia che in parte la giustifica né con l’idea che loro possono essersene fatta. E’ lei che, all’inizio di un colloquio, esordisce con la frase che dà il titolo al libro: “Io volevo ucciderla”, “ho dovuto ammettere a me stessa che, in realtà, io volevo farlo”. Questa è, paradossalmente, l’affermazione in piena autocoscienza della dignità della persona, della sua irriducibilità all’ambiente o alla sua psiche (per capire bene il contenuto drammatico di questa convinzione si legga “Uno psicologo nei lager” di Viktor Frankl). L’ammissione morale della colpa (quella penale era già stata accertata e accettata) è la fine della menzogna, l’uscita dal castello di bugie in cui ci si è rintanati per camuffarsi agli occhi degli altri, fantasie ingannevoli alle quali si finisce di credere, o quantomeno di diventare indifferenti (“era tutto confuso” ripete spesso Stefania), abituandosi al misconoscimento della realtà. E’ indicativo il parallelo di questa trama con quella di un altro libro, anch’esso cronaca di una storia vera di omicidi e roghi familiari, “L’avversario” di Emmanuel Carrère: noi prepariamo il male che facciamo con la menzogna con cui viviamo. Il riconoscimento dell’intenzionalità del proprio gesto, della sua progettazione, della sua pianificazione, è la riconquista della propria libertà. In tutt’altra situazione, ma in un luogo di segregazione molto simile al carcere, Alda Merini rinchiusa in manicomio affrontò un prete, a cui chiese “in che concetto Dio tenesse i poveri pazzi”. La risposta del prelato, la più banale e legalista che si possa immaginare - “Che volete figliola. I pazzi non sono responsabili” - scatenò la sua razionalissima controreplica: “Se Dio ha dato il libero arbitrio perché scegliessimo il bene ed il male, perché ce l’ha tolto con la pazzia?”. Il prete, confuso, se ne andò borbottando. “Io volevo ucciderla” è il culmine ma non la fine del dialogo con i due criminologi; è il punto di riscatto, l’inizio della fatica della riscoperta di sé. Pagina dopo pagina si vede una persona che riprende letteralmente corpo. Che non dimentica, né mai potrà dimenticare, ciò che ha fatto ma che, questo gli dicono con cognizione di causa i due criminologi, non coincide con il suo gesto assassino, non è quello che ha fatto, è “anche” quello che ha fatto ma non è “solo” quello che ha fatto. Non c’è pietismo, buonismo o perdonismo in queste crude pagine di emersione del male come di una realtà che ci riguarda molto da vicino, c’è molto realismo. Quel realismo che negli anni Settanta del secolo scorso faceva dire a un grande educatore, guardando negli occhi il terrorista rosso seduto di fianco a me in un’assemblea: “Perché la mano di un uomo può essere assassina, senza che il cuore sia assassino”. È su questa constatazione che si fonda la scommessa - di cui Ceretti è un antesignano - della giustizia riparativa. La scommessa, almeno quella sul cambiamento della persona, non è mai un puro azzardo, ha sempre delle ragioni. E la giustizia, a dispetto della sua raffigurazione, non può essere cieca, deve vederci bene, deve avere sempre davanti agli occhi l’assassino e la vittima. In un altro libro Ceretti scrive del suo sguardo che, nell’aula di un tribunale, si posò sulle “mani di un condannato”, un ex terrorista. Mani che avevano ucciso. “A fianco di quelle mani vidi personificarsi la vittima, la sua vittima”. Il tentativo della giustizia riparativa - che, è bene precisarlo, non si sostituisce al processo e all’espiazione della pena, arriva sempre dopo - è ben cosciente che c’è qualcosa di irreparabile, qualcosa che il carnefice non potrà mai restituire alla vittima. E contemporaneamente è consapevole che la giustizia retributiva, per quanto giusta, non copre tutto l’arco possibile della giustizia, non ricuce lo strappo generato nella comunità, non restituisce a ciascuno il suo. Allora si può accettare che una persona passi la vita reclusa, senza mai arrivare a riflettere su che cosa l’ha portata in galera. Oppure si può tentare di ricostruire le relazioni che ci costituiscono, quella con noi stessi e quella con gli altri. Una “criminologia dell’incontro” che non fa sconti, ma offre un cammino in cui il dolore, la memoria, “le briciole dentro una vita persa dentro una bugia”, “la possibilità di progettare un agire responsabile per il futuro”, la capacità di mettersi nei panni dell’altro e anche di guardarsi di nuovo allo specchio (non è un modo di dire, in carcere, per timore di gesti di autolesionismo non ci sono specchi), un cammino in cui tutto questo possa riacquistare un senso, una decenza. E “decente - dice il filosofo israeliano Avishai Margalit - è una società in cui le istituzioni non umiliano le persone”. La “risposta” all’11 settembre alle radici del caos globale di Enrico Paventi Il Manifesto, 27 maggio 2025 “Il suicidio della pace” di Alessandro Colombo indaga l’esito della “war on terror” sulle relazioni internazionali, per Raffaello Cortina Editore. Come è possibile che, a circa quarant’anni dalla conclusione della Guerra fredda, il sistema delle relazioni internazionali sia scosso da tensioni sempre più forti e nel continente europeo sia deflagrato un conflitto armato? E come è accaduto che il mondo sia costretto a fronteggiare persino il rischio di uno scontro diretto tra grandi potenze mentre, nel corso degli ultimi anni, è aumentato a dismisura il numero delle guerre che si stanno combattendo nelle varie regioni del globo? Secondo Alessandro Colombo, ci troviamo davanti al collasso dell’ordine planetario: si tratta, in altre parole, di una gravissima crisi che ha investito i rapporti diplomatici, le istituzioni internazionali, la globalizzazione economico-finanziaria e le norme fondamentali che regolano la convivenza tra Stati - a cominciare da quelle finalizzate a disciplinare e limitare l’uso della forza, che egli considera “il tessuto istituzionale e multilaterale della convivenza internazionale ereditato e aggiornato dal Great Design roosveltiano di sessant’anni prima”. In questo saggio, che brilla per lucidità e acume, significativamente intitolato Il suicidio della pace. Perché l’ordine internazionale liberale ha fallito (1989-2024), uscito di recente per i tipi di Raffaello Cortina (pp. 333, euro 25), lo studioso si domanda - anche alla luce delle illusioni e dell’euforia che hanno caratterizzato il periodo successivo alla caduta del Muro di Berlino e alla dissoluzione dell’Unione Sovietica - come sia venuto a crearsi un contesto globale tanto caotico. A questo riguardo occorre osservare, in primo luogo, che Colombo rinuncia a contrapporre una presunta età dell’oro - pervasa di ottimismo e fiducia reciproca - a un’epoca segnata da sovranismi, nazionalismi e protezionismi, insomma dalla sostanziale regressione nell’animosità e nel risentimento. Egli individua poi le cause principali della situazione attuale in alcune forzature, in qualche amnesia e in un ragguardevole numero di veri e propri errori che l’ordine internazionale liberale avrebbe accumulato fin da tempi ormai quasi remoti, giacché ci si riferisce al periodo compreso tra la fine degli anni Ottanta e gli interi Novanta del secolo scorso. Fu allora, a suo avviso, che ebbe luogo la formazione dell’ordine internazionale liberale: sostenitore della transizione universale al mercato e alla democrazia, improntato a un cosmopolitismo volto a trasformare la politica estera in interna, incline a discriminare i sistemi autoritari, pacifico ma sostenuto dal ricorso preventivo e pressoché costante all’uso della forza, animato dalla volontà di riabilitare la guerra tanto sotto il profilo giuridico che sotto quello etico, fondato sull’unipolarismo a guida statunitense, tale ordine sarebbe andato ben presto incontro a un inarrestabile processo di disgregazione. Dall’11 settembre del 2001 all’intervento angloamericano in Iraq, dalla crisi economico-finanziaria del 2007-2008 alle conseguenze della micidiale successione costituita dalla pandemia da Covid-19, dall’invasione russa dell’Ucraina e dalla nuova guerra in Medio Oriente, questi sembrano essere gli snodi che ci hanno portato al mondo fuori controllo nel quale ci troviamo oggi. Un contesto davvero babelico che, a parere dello studioso, ha avuto origine soprattutto dalla cosiddetta “guerra globale al terrore”, a proposito della quale Colombo scrive tra l’altro che “fece letteralmente a pezzi il tessuto giuridico e istituzionale della convivenza internazionale - approntando un sistema di eccezioni, giustificazioni e scusanti destinato a scardinare una volta per tutte la natura della pace e le regole della guerra”. Le fondamenta dell’ordine planetario vennero così erose in misura irreparabile. Un processo a cui, in seguito, avrebbe contribuito sia il deterioramento delle relazioni statunitensi con la Russia e la Cina che l’effetto destabilizzante provocato sugli equilibri interni e internazionali dal già menzionato shock degli anni 2007-2008; intanto, nell’ambito di un quadro globale che va facendosi sempre più complesso, spicca ancora più nettamente il declino dell’Europa. L’autoritarismo competitivo e la metamorfosi della vera democrazia di Nadia Urbinati* Il Domani, 27 maggio 2025 Come riconoscere quando una democrazia non è più tale? L’autoritarismo che sta avanzando in occidente assomiglia alle metamorfosi, quelle trasformazioni che avvengono senza che chi perde nella gara se ne accorga. Narra Ovidio, che per conquistare Europa, la figlia del re Agènore, Giove assunse l’aspetto di un toro bianco e si mescolò agli armenti che pascolavano sulla spiaggia dove la fanciulla giocava con le amiche. Poiché “maestà e amore non vanno d’accordo” e “non possono convivere”, il re degli dei nascose le proprie sembianze e nelle vesti di un bianco toro rapì Europa - “niente di minaccioso nella fronte, lo sguardo non mette paura. Un muso tutto pace”. La metamorfosi consiste di mutamenti accettati senza sforzo. Si potrà poi dire poi che tutto è avvenuto per libera scelta, che il rapimento della democrazia non è che l’esito di un processo fisiologico. È non solo possibile, ma innocuo e coerente al sistema, perfino condiviso. La democrazia, insomma, può sostenere una gamma di trasformazioni senza che il regime cambi. Il rompicapo che ci si impone è quindi questo: sono le nostre democrazie ancora democrazie? Come riconoscere i mutamenti che avvengono al loro interno? È difficile riconoscere l’autoritarismo. Le menti più raffinate lo avvertono ma non sanno né anticiparlo né suggerire che fare. Max Weber scrisse nel 1919: “Non abbiamo davanti a noi la fioritura dell’estate, bensì una notte polare di fredde tenebre e di stenti”. Commentava Norberto Bobbio che chi è cresciuto nella tradizione dell’illuminismo, è “condannato a credere nella sola ragione” e forse per questo non sa vedere che cosa di attraente si celi nei “movimenti autoritari di destra” che conquistano le opinioni e dai quali le democrazie vengono “ammazzate”. Qui, il potere invisibile che aiuta, forse senza volerlo, la metamorfosi si annida nella fabbrica delle opinioni, quel lavoro quotidiano che invece di rendere i cittadini attenti e diffidenti, dispensa “favole belle” sulla bontà di riforme e trasformazioni che vengono cucinate dai governi che ambiscono al dominio. Questo sta avvenendo alle nostre democrazie. Il loro mutamento autoritario non segue le orme del secolo passato. Si serve di strategie decisionali che “trasformano le istituzioni pubbliche in armi politiche, utilizzando le forze dell’ordine, le agenzie fiscali e di regolamentazione per punire gli oppositori e intimidire i media e la società civile, relegandoli ai margini”, scrivono Steven Levitsky, Lucan Way and Daniel Ziblatt sul New York Times. Questo si chiama autoritarismo competitivo, un sistema nel quale i partiti competono nelle elezioni, ma “l’abuso sistematico del potere da parte di chi è al governo altera le regole del gioco a sfavore dell’opposizione”. Tra gli interventi più preoccupanti vi è quello che mette a repentaglio l’autonomia del potere giudiziario da quello esecutivo. In Italia, un tassello centrale di questa metamorfosi è la riforma nota come “separazione delle carriere” (tra magistrati inquirenti e giudicanti) completata con una separazione interna al CSM. La riforma ha un impianto chiaro: la subordinazione dell’azione e della carriera dei magistrati inquirenti al governo. Gli inquirenti si avvicinano più alla polizia (e quindi al potere esecutivo) che alla giustizia. Gli opinionisti che si sforzano di stare sopra le parti ci dicono che i pro e i contro hanno entrambi buone ragioni, e suggeriscono di attendere che la riforma mostri nei fatti i suoi effetti. Non anticipare il peggio. Si legge su il Post che “se in futuro le cose cambieranno, bisogna comunque tenere conto dei vincoli imposti dall’articolo 104 della Costituzione” secondo il quale “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Ma perché sperimentare con i sistemi di giustizia, quando se ne conoscono le implicazioni con abbondanza di dati passati e presenti? Una riforma che rispetti quell’articolo della Costituzione deve riconoscere i limiti del potere politico rispetto al quello giudicante nelle sue due fasi. Se è una buona riforma deve presupporre il peggio, non attendersi un probabile meglio: presupporre che chi ha potere e chi non ce l’ha si trovino su due piani sbilanciati, per cui è saggia quella legge che dissocia il potere inquirente dalla vocazione naturalmente repressiva dei corpi di polizia, e quindi del dominio dell’esecutivo. Ma vi è di più: questa riforma renderà eventualmente il progetto meloniano di premierato un fatto che sta, se così si può dire, nelle cose. La metamorfosi autoritaria la si cucina con studiata determinazione, affinché appaia come l’esito di un processo fisiologico. *Politologa Con il sì al referendum più diritti a 1 milione di studenti senza cittadinanza: il 65,4% nato in Italia di Federica Pennelli Il Domani, 27 maggio 2025 La legge attuale non tiene conto dell’esperienza personale di bambine e bambini, di adolescenti con background migratorio che vivono in Italia. Daniela Fatarella, direttrice generale di Save the Children: “È difficile per chi non ha provato questa situazione capire il vissuto di migliaia di bambini nati o arrivati da piccoli in Italia, che non sono riconosciuti formalmente dalla comunità in cui vivono”. Secondo Save the Children oltre un milione di minori stranieri vivono nel paese senza cittadinanza. Il 65,4 per cento dei 914 mila studenti e studentesse cresciuti in Italia senza cittadinanza è anche nato nel nostro paese. Un numero altissimo di bambine e bambini italiani di fatto, ma non di diritto. I dati, ancora una volta, raccontano il diritto negato di tanti minori di progettare il futuro in Italia senza attendere tempi lunghissimi e senza scontrarsi con le barriere formali e psicologiche che la mancanza di passaporto italiano comporta. La vittoria del sì al quinto quesito referendario sulla cittadinanza avrebbe un impatto diretto sulla vita di molti minori e adolescenti. Nel referendum, infatti, si chiederà a chi vota se è d’accordo a dimezzare, portando da 10 a 5, gli anni di residenza regolare nel Paese necessari ai maggiorenni con cittadinanza non europea per richiedere la cittadinanza italiana. La normativa sulla cittadinanza, ad oggi, rispecchia una realtà demografica e sociale ormai superata e imperniata sullo ius sanguinis, ovvero l’acquisizione per discendenza da cittadino o cittadina italiana e sulla naturalizzazione a seguito, appunto, di almeno 10 anni di residenza. La legge attuale, però, non tiene conto dell’esperienza personale di bambine e bambini, di adolescenti con background migratorio che vivono in Italia. Che siano nati qui o arrivati al seguito della propria famiglia, i minori non hanno modo di acquisire autonomamente la cittadinanza italiana, e sono perciò legati al destino e allo status dei loro genitori. Per gli adulti, i tempi per diventare cittadini vanno ben oltre i 10 anni previsti come presupposto della domanda, perché a questi si sommano le lungaggini della fase di esame, della procedura di registrazione e di giuramento. La stessa attesa riguarda i figli più piccoli o adolescenti che, nel frattempo, per anni frequentano le scuole con i coetanei italiani, ma senza avere diritti di cittadini e cittadine. “È difficile per chi non ha provato questa situazione poter capire il vissuto di migliaia di bambini nati o arrivati da piccoli in Italia, che non sono riconosciuti formalmente dalla comunità in cui vivono” dice a Domani la direttrice generale di Save the Children, Daniela Fatarella. Con i tanti progetti dell’organizzazione sul territorio nazionale, sanno bene quanto ottenere la cittadinanza avrebbe un impatto “sia su aspetti concreti della vita di tutti i giorni che sulla loro capacità di aspirare a un futuro migliore”. A oggi, gli ostacoli che bambini e adolescenti si trovano davanti, sono molteplici: “Dover richiedere il visto per partecipare alle gite scolastiche all’estero o a competizioni sportive e soggiorni di studio fuori dai confini nazionali”. Senza cittadinanza, inoltre, non possono accedere a borse di studio o partecipare a concorsi pubblici. Spesso sono costretti a perdere giorni di scuola nelle trafile burocratiche per il rinnovo del permesso di soggiorno. “Si sentono diversi - racconta Fatarella - non accettati dal Paese che sentono proprio”. Con la vittoria del sì al referendum sulla cittadinanza dell’8 e 9 giugno, secondo le stime del Centro Studi e Ricerche Idos, i primi beneficiari saranno almeno 284mila bambini e adolescenti, che seguirebbero la condizione giuridica dei genitori naturalizzati. Povertà e diritti - La questione della cittadinanza, inoltre, si intreccia al tema della povertà. In Italia c’è una vera e propria emergenza: vi sono 1 milione 295 mila i minori in povertà assoluta. Sono proprio i giovani i più colpiti tra le generazioni, a fronte del 6,2 per cento degli anziani over 65. Per Fatarella si tratta di “una grave ingiustizia sulla quale è fondamentale intervenire perché lede i loro diritti, pregiudicando le possibilità di crescita, i percorsi educativi e il loro benessere”. L’Italia è tra i paesi con la più alta percentuale di minori a rischio povertà ed esclusione sociale, e nel 2024 questa condizione ha colpito quasi 3 minori su 10. Valori più elevati si registrano solo in Grecia, Romania, Spagna e Bulgaria. C’è poi un divario enorme “tra le famiglie con minori composte da soli italiani o da soli stranieri”. Tra le prime, la povertà assoluta colpisce l’8,2 per cento del totale ma raggiunge il 41,4 per cento tra le seconde. Per far fronte a questa emergenza, secondo la direttrice di Save the Children, è urgente prevedere interventi “concreti e strategici, che comprendano un sostegno adeguato alle famiglie e il potenziamento strutturale dell’offerta educativa, scolastica ed extrascolastica”. C’è dunque bisogno di un vero e proprio ripensamento del sistema della cittadinanza, una riforma organica “per dare piena cittadinanza ai bambini e alle bambine che nascono o arrivano da piccoli in Italia”. Il referendum rappresenta un’occasione importante per fare un enorme passo avanti che fa bene non solo al futuro di tantissimi ragazze e ragazzi, ma a quello di tutto il Paese. Per Fatarella la campagna referendaria ha insegnato il valore del protagonismo delle reti e dei giovani “che vogliono sostenere i loro coetanei senza cittadinanza e che hanno portato al raggiungimento delle firme necessarie per il referendum”. La presidente conclude con un monito: “Speriamo che anche per il voto, il paese si lasci trasportare da questo slancio”. La Corte europea dei diritti umani e la tutela dei migranti contro l’ira dei Governi di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 27 maggio 2025 Pochi giorni orsono, dandone notizia, preliminarmente commentavo una iniziativa allora in gestazione dei governi danese e italiano: una iniziativa diretta a contrastare gli orientamenti della Corte europea dei diritti umani, specificamente in tema di migranti. Ora essa si è definita e, pubblicata anche sul sito di Palazzo Chigi, ha assunto la forma di una lettera aperta: come tale è indirizzata a tutti e nessuno. Più che una iniziativa politica sembra un manifesto politico, per capire il quale importa vedere i governi che l’hanno sottoscritto (oltre ai governi di Danimarca e Italia, anche quelli di Austria, Belgio, Repubblica ceca, Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia), ma anche quelli che non lo hanno fatto, pur promuovendo politiche dure e restrittive contro i migranti irregolari (come la Francia, il Regno Unito, la Germania, ecc.). Considerare entrambi gli elenchi aiuta a comprendere il senso profondo della iniziativa, che non è tanto rivolta contro i migranti irregolari, quanto contro i giudici. La immediata reazione del Segretario generale del Consiglio d’Europa ne è la ovvia conseguenza, essendo la Corte l’indipendente braccio giudiziario del Consiglio. I governi autori di questa lettera aperta sanno che difficilmente avranno successo. Ma essa non serve tanto a raddrizzare la Corte, quanto anche a farsi dire di no, e così ottenere conferma che i governi eletti vorrebbero risolvere i problemi, ma ne sono impediti dai giudici “non eletti”. Naturalmente, per decenza in Europa, il testo della nota contiene la rassicurante dichiarazione di appoggio alle regole dello Stato di diritto e di rispetto per l’inviolabilità della dignità degli individui. Tuttavia il cuore del testo sta nella rivendicazione della legittimazione democratica di governi eletti nella attuazione di iniziative politiche. Iniziative che la interpretazione della Convenzione europea dei diritti umani, adottata dalla Corte europea a protezione dei diritti dei migranti, impedirebbe di attuare. Conosciamo in Italia le polemiche, le offese, le azioni contro i giudici che non interpretano le leggi in sintonia con l’orientamento del governo, specialmente quando si tratta di migranti. La polemica diventa virulenta quando i giudici tengono conto dei vincoli derivanti dai trattati in internazionali, dal diritto dell’Unione Europea e dalla Convenzione europea dei diritti umani. Recentemente, in una importante assemblea del Consiglio Nazionale Forense, il sottosegretario Alfredo Mantovano ha spiegato e lamentato le ragioni della contrapposizione governo/giudici, indicandone la radice nella preminenza della Costituzione e dei vincoli internazionali. Essa indebolisce il vincolo della legge ordinaria e quindi limita la possibilità di governo e parlamento di governare. Con qualche legame con la attualità, si tratta di una posizione (incostituzionale) connessa ai tentativi, tutti falliti ma sempre riemergenti, di vietare ai giudici di interpretare le norme nel loro sistema, prima di applicarle. È una vecchia ambizione dei governanti, dall’imperatore Giustiniano, al re Luigi XIV, agli Illuministi, a Robespierre ed altri nella Rivoluzione. Una ambizione impossibile da realizzare, frutto della ignoranza di come operano i sistemi normativi, anche prima delle moderne costituzioni e del diritto europeo dei diritti umani. Cosicché sarebbe persino inutile quanto la Convenzione europea dei diritti umani stabilisce, assegnando espressamente alla sua Corte la competenza a risolvere tutte le questioni di interpretazione e applicazione della Convenzione. Ma è invece utile, per garantire l’omogenea applicazione della Convenzione in tutti i Paesi del Consiglio d’Europa. La Convenzione si applica (elenco dei diritti e ruolo della Corte) a tutti coloro che si trovano nei territori ove si esercita la giurisdizione degli Stati membri del Consiglio d’Europa: cittadini o stranieri. È questo un principio fondamentale, anche nel diritto interno italiano. La Corte costituzionale ha affermato: “Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia dell’immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi problemi di sicurezza e ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultare minimamente scalfito il carattere universale della liberta? personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”. Se questo o quell’aspetto della protezione degli stranieri non viene più condiviso, i governi propongano modifiche alla Convenzione. Intanto, nella discussione dei ricorsi presentati alla Corte europea i governi possono intervenire accanto e in appoggio al governo oggetto del ricorso, facendo valere le loro ragioni. È possibile che non ottengano quel che vogliono, poiché la Convenzione difende gli individui contro le pretese governative; i giudici la applicano e i governi la hanno approvata nel 1950 e successivamente più volte rafforzata. Presentando nel 1949 il progetto di Convenzione, il relatore Pierre-Henri Teitgen lo aveva ben detto: ciò che porterà la garanzia collettiva assicurata dalla Convenzione è una protezione contro ogni ritorno offensivo sempre possibile della ragion di stato. Questo appunto è in gioco, nel nuovo attuale contesto politico. Putin, Netanyahu e la Corte Penale Internazionale: la giustizia non è uguale per tutti di Gaetano Pecorella* Il Riformista, 27 maggio 2025 Chi potrebbe negare che sia stato un passo decisivo verso un mondo più umano la costituzione di un Tribunale per contrastare i crimini di genocidio, di aggressione, di guerra, o, in generale, contro l’umanità? Ma la questione va vista in un’altra prospettiva, perché sognare è bello, ma talvolta crea delle illusioni che si scontrano con la realtà, con i limiti delle cose di questo mondo. Il diritto privo di “effettività” ha effetti peggiori dell’inesistenza di quello stesso diritto, porta inevitabilmente alla convinzione che quei valori siano irrealizzabili, o, addirittura, che l’istituzione serva a coprire le malefatte dei potenti. La (inesistente) forza coercitiva del Tribunale penale internazionale è stata dimostrata da quanto sta accadendo in Palestina e in Ucraina, è di tutta evidenza che Putin si è reso responsabile di più di uno dei crimini di competenza del Tribunale: il crimine di aggressione, i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità. I casi Putin e Netanyahu - Tant’è che il Tribunale ha emesso un mandato di arresto, più che giustificato. Ciononostante, Putin resta al suo posto, continua la guerra di invasione, partecipa a incontri con altri Capi di Stato, che lo consultano e lo rispettano. Lo stesso può dirsi di Netanyahu, che si è reso responsabile di crimini contro l’umanità, e persino di genocidio, facendo uccidere persone del tutto estranee al conflitto, bambini, donne, cittadini inermi, e bloccando la possibilità di distribuire gli aiuti internazionali. Eppure Netanyahu, che è stato raggiunto da un mandato di arresto per crimini di guerra, continua a dettare legge in Israele, incontra Capi di Stato, è considerato un uomo affidabile nei rapporti internazionali. Almasri ‘graziato’ dall’Italia - Anzi, c’è stato un politico italiano che ha dichiarato che il primo ministro del governo di Israele poteva venire nel nostro Paese, che sarebbe stato accolto con tutti gli onori, e che poteva stare tranquillo perché nessuno lo avrebbe arrestato. Infine, tutti ricordiamo il caso del generale Osama Elmasry Njeem (Almasri), conosciuto per i trattamenti disumani praticati in Libia, che è stato “graziato” dal nostro ministro della Giustizia, sottratto all’arresto e trasportato fuori dai nostri confini con un aereo di Stato. Eppure, anche lui era oggetto di un mandato di arresto per crimini contro l’umanità. CPI, il rifiuto delle grandi potenze - Sono, questi, tutti episodi che non possono non aver fatto perdere ogni credibilità al Tribunale penale per i crimini contro l’umanità, e convincere il mondo che i grandi criminali la fanno sempre franca, e che il diritto colpisce gli ultimi, ma non tocca i potenti. Far perdere la fiducia nella forza del diritto, è anche questo un “crimine”. Ma le cose non potevano che andare come sono andate, e questo fallimento era più che prevedibile, per molti motivi. Anzitutto non si poteva pensare che le grandi potenze, e i loro dirigenti politici, si sarebbero sottoposti al controllo, e alle sanzioni penali, per le loro scelte di governo, e per le aggressioni a Paesi da invadere o da sottomettere. Tant’è che né la Russia, né l’America, né la Cina hanno sottoscritto lo Statuto del Tribunale per i crimini di guerra. La giustizia non è uguale per tutti - Ci sono poi disposizioni dello Statuto di Roma che definiscono dei crimini che sono stati praticati in questi anni da Stati che governano il mondo e che, ovviamente, non avrebbero accettato di vedere giudicati i propri leader da un Tribunale, per di più privo di un’investitura universale. Si può fare un esempio: i crimini contro l’umanità includono ogni “attacco diretto contro una popolazione civile”, e cioè - tra gli altri - “la deportazione o il trasferimento forzato della popolazione”. Viene alla mente l’immagine di messicani in catene che vengono trasferiti in un altro Paese per volontà del presidente degli Stati Uniti, o la proposta di Netanyahu, condivisa da Trump, di trasferire in Egitto la popolazione della Striscia di Gaza. Certo, si potrebbe obiettare che è sempre meglio un Tribunale internazionale che censura la violazione dei diritti umani, pur senza poter sanzionare i colpevoli, piuttosto che niente, piuttosto che far passare sotto silenzio certi gravissimi crimini che violano le regole più elementari della convivenza civile. Non credo che sia così. Ogni istituzione giudiziaria che si rivela incapace di colpire i potenti, che risulta priva di effettività, è un fallimento per i valori che vorrebbe tutelare, è la prova che la giustizia non è eguale per tutti. La soluzione? Sanzioni economiche - Che fare? Certo non si può tornare indietro, dichiarare il fallimento del Tribunale penale internazionale, mandare a casa i suoi giudici. Neanche si può, però, tenere in vita un simulacro di giurisdizione di cui gli Stati si fanno beffe. L’errore sta nell’aver scelto delle sanzioni che trovano applicazione all’interno di singole nazioni, ma che sono inapplicabili se i giudici non hanno strumenti per far rispettare le loro decisioni. Com’è nel caso di specie. Si dovrebbe ricorrere, perciò, alle sanzioni economiche, o di esclusione da contesti internazionali, che sono applicabili da chi ha sottoscritto il Trattato di Roma. Forse, così, le decisioni del Tribunale avrebbero l’impronta dell’effettività, senza la quale non può parlarsi di diritto, e ancor meno di sanzioni. *Past President Unione Camere Penali Italiane Stati Uniti. Disumanità all’opera: il Centro di detenzione per migranti di El Paso di Riccardo Noury* Corriere della Sera, 27 maggio 2025 Ad aprile una delegazione di Amnesty International ha visitato l’El Paso Service Processing Center, un vero e proprio centro di detenzione per persone migranti che pare progettato appositamente a scopo di disumanizzazione di coloro che vi vengono trasferiti in attesa dell’espulsione. Dall’inizio del secondo mandato del presidente Trump, a El Paso sono state portate persone che erano negli Usa da anni, rastrellate in tutto il paese e separate a forza da coniugi e figli per il mero fatto di vivere in condizione di irregolarità o di non aver visto ancora esaminata la richiesta di asilo. In non pochi casi, sono state inghiottite nel terribile sistema carcerario di El Salvador al termine di procedure inique e a volte senza ricevere neanche assistenza legale. Poco importa se dalla violenza delle bande armate in quel paese e in quelli confinanti erano scappate. La fine del Programma di orientamento legale del ministero della Giustizia ha compromesso la capacità delle persone di districarsi nel sistema di leggi, regolamenti e procedure in materia d’immigrazione. Ne ha fatto le spese, tra le altre, Estrela del Paso, un’organizzazione senza scopo di lucro che si occupava di minori non accompagnati e che non riceve più finanziamenti. Mentre toglie fondi per la difesa dei diritti, la Casa bianca sta chiedendo al Congresso di stanziare oltre 200 miliardi di dollari per rafforzare il sistema di contrasto all’immigrazione, di cui 45 miliardi per triplicare la capienza dei centri di detenzione fino a 150.000 persone al giorno. “Se protesti con una guardia, ti mandano a El Salvador o a Guantanamo”, ha detto uno dei detenuti di El Paso incontrati da Amnesty International. All’interno del centro la violenza del personale di sicurezza e il ricorso alle celle d’isolamento sono la norma. Gli spazi sono sovraffollati, i servizi igienici inadeguati o proprio non funzionanti, le cure mediche scarse, il cibo insufficiente, avariato o scaduto. “Non ci danno medicine. Ci dicono che l’acqua è potabile ma è calda, sporca e puzzolente”, ha testimoniato un altro detenuto. Contestualmente alla pubblicazione della sua ricerca su El Paso, Amnesty International ha chiesto al governo statunitense di porre fine alla detenzione di massa delle persone migranti, garantire una valutazione individuale delle singole posizioni, porre fine all’uso dell’Atto sui nemici stranieri nel contesto dell’immigrazione, istituire meccanismi e procedure di consulenza legale e rispettare gli obblighi previsti dal diritto internazionale, soprattutto il principio di non respingimento, che vieta di trasferire persone verso paesi - com’è evidente nel caso del Venezuela - dove rischieranno di subire violazioni dei diritti umani. *Portavoce Amnesty International Italia