Dal debutto di nuovi reati all’impatto delle riforme: i fronti aperti per i penalisti di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2025 I legali contestano le politiche securitarie, che non incidono sull’ordine pubblico e invece rischiano di peggiorare l’emergenza carceri. Da un lato l’introduzione, da parte del Governo, di nuovi reati e la previsione di pene più elevate per quelli esistenti. Dall’altro le complessità quotidiane, relative all’utilizzo della telematica nel processo penale e agli effetti dell’applicazione della riforma Cartabia. Sullo sfondo l’emergenza delle carceri sovraffollate, testimoniata dal drammatico aumento dei suicidi. Sono tanti i fronti su cui si stanno confrontando gli avvocati penalisti e che investono i confini e il significato del sistema penale e del ruolo dei legali. Le politiche - Da ultimo è stato il decreto legge sicurezza (48 del 2025) a scatenare la reazione dei penalisti. Il provvedimento - in vigore dal 12 aprile e all’esame del Parlamento per la conversione in legge - contiene circa 20 interventi, tra nuovi reati e aumenti di pene. Nel testo è stato trasfuso, quasi per intero, il contenuto del disegno di legge sicurezza che in passato aveva già raccolto le proteste dei penalisti. Gli stessi legali, nelle scorse settimane, sono tornati a esprimere il loro dissenso verso il decreto legge, con tre giorni di astensione dalle udienze, culminati in una manifestazione nazionale. Il “no” dei penalisti è dovuto - si legge nella delibera che ha proclamato l’astensione - “alla inutile introduzione di nuove ipotesi di reato, ai molteplici sproporzionati e ingiustificati aumenti di pena, alla introduzione di aggravanti prive di alcun fondamento razionale, alla sostanziale criminalizzazione della marginalità e del dissenso e alla introduzione di nuove ostatività per l’applicazione di misure alternative alla detenzione”, a cui si affianca “l’abuso della decretazione d’urgenza”. “Da tempo - osserva il presidente dell’Unione delle Camere penali Francesco Petrelli - lo strumento penale viene utilizzato per rassicurare la pubblica opinione e ricercare consenso. Alla base c’è l’illusione che ricorrendo alla minaccia del carcere si possa incidere sul livello di sicurezza. Ma non è così: l’aumento delle pene non fa diminuire il numero dei reati; anzi, il rischio di recidiva si abbatte solo se le pene vengono scontate fuori dal carcere. Per questo abbiamo contrastato le iniziative governative di stampo securitario, che hanno solo un valore simbolico e non aumentano la sicurezza, con l’unico risultato di far implodere il nostro già devastato sistema penale. In un sistema liberale la repressione penale dovrebbe essere utilizzata solo come extrema ratio, soprattutto per i reati meno gravi”. L’espansione dell’area penale si riflette anche sulla popolazione carceraria, che continua ad aumentare: a fine aprile i detenuti sono arrivati a 62.445, contro una capienza regolamentare di 51.292 posti. “Il sovraffollamento - ragiona Petrelli - è la causa diretta e indiretta di altri fenomeni degenerativi: rende difficile mantenere la sicurezza negli istituti, impedisce ogni seria forma di trattamento e un’adeguata tutela della salute fisica e psichica dei detenuti e non consente di intercettare le fragilità, con il risultato di aumentare i suicidi”. Negli uffici giudiziari - Ci sono poi i dati dei procedimenti, fotografati dal ministero della Giustizia nell’ultimo monitoraggio statistico degli indicatori Pnrr. A differenza di quel che accade per il settore civile, nel penale le performance hanno già superato gli obiettivi concordati con l’Unione europea. Il nostro Paese si era infatti impegnato a ridurre entro il 30 giugno 2026 i tempi dei procedimenti penali nei tre gradi di giudizio del 25% rispetto al 2019 (utilizzando l’indicatore del disposition time, che misura la durata prevedibile). Ebbene, già alla fine dello scorso anno i tempi erano stati ridotti del 28%, per un totale di 1.003 giorni, rispetto ai 1.392 del 2019. Un risultato a cui hanno dato contributi diversi Cassazione (-51,5%), corti d’appello (-27,3%) e tribunali (-19,4%). La giustizia penale è diventata più efficiente? “Bisogna tenere conto - precisa Petrelli - che i dati variano da un distretto di corte d’appello all’altro. Se poi è vero che negli anni scorsi sono cresciuti i procedimenti definiti, occorre soppesare i costi di questa accelerazione. La riforma Cartabia ha ad esempio sacrificato l’oralità nelle impugnazioni: andrebbe valutato quanto ciò ha inciso sulla qualità della giurisdizione. Sono anche aumentate le alternative al processo (dalla messa alla prova alle pene sostitutive), con l’effetto di limitare l’accesso al dibattimento, che dovrebbe essere il cuore del processo accusatorio”. La riforma Cartabia ha anche spinto il passaggio al processo penale telematico. Nei mesi scorsi è infatti scattato l’obbligo del deposito telematico degli atti. L’utilizzo del nuovo sistema è stato però sospeso in molti fori perché sono sorte difficoltà operative. Ma secondo Petrelli “bisogna studiare soluzioni condivise ai problemi ed evitare che ogni tribunale improvvisi in autotutela rimedi estemporanei a scapito delle garanzie difensive”. Decreto sicurezza, io costituzionalista inascoltata sono allarmata per i contenuti del provvedimento di Roberta Calvano* Il Fatto Quotidiano, 26 maggio 2025 L’appello sul decreto sicurezza promosso da più di 250 giuspubblicisti ed aperto all’adesione di tutti i cittadini ha raccolto in pochi giorni quasi diecimila firme. Come costituzionalisti ci siamo sentiti di dover sottoporre all’opinione pubblica l’allarme per i contenuti del provvedimento e per il modo in cui è stato sottratto all’esame parlamentare, nel corso del quale, proprio a causa delle sue molteplici criticità, si era dimostrato bisognoso di modifiche. Un testo che prevede un notevole numero di nuovi illeciti penali e l’aggravamento delle sanzioni per altri reati che già erano previsti. Quando sono stata chiamata a dare un parere da studiosa alle commissioni affari costituzionali e giustizia della Camera che stavano esaminando questo discusso provvedimento, censurato persino dagli special rapporterus dell’ONU, le mie parole sono risuonate inutilmente in aule parlamentari semideserte, nelle quali non è mai intervenuta, così come nel corso dell’iter della legge Calderoli, poi censurata dalla Corte costituzionale, la voce di alcun parlamentare di maggioranza. Per questo, non avendo avuto l’opportunità di comprendere le ragioni alla base del provvedimento, vi sottopongo queste domande. 1) Perché nell’art. 31 del decreto si scriminano le condotte degli agenti dei servizi che promuovono e dirigono organizzazioni terroristiche, rendendole non punibili? Quale finalità intende perseguire tale norma? ?2) Perché all’art. 28 si prevede che gli agenti di pubblica sicurezza, cui va tutto il nostro rispetto e la nostra fiducia di cittadini, ben consci del loro delicato compito e delle condizioni spesso molto difficili in cui sono chiamati ad operare, possano portare una pistola ulteriore oltre a quella d’ordinanza, senza licenza, fuori dell’orario di servizio? 3) Perché in molte altre disposizioni si prevede la criminalizzazione di condotte, o l’inasprimento di sanzioni, senza tener conto dei prevedibili effetti sul sovraffollamento carcerario, rispetto al quale non si pone rimedio, oltre che sui carichi di lavoro e la lentezza degli uffici giudiziari? 4) Cosa ha determinato il Governo, mentre scriminava le condotte già ricordate, a decidere la criminalizzazione di condotte di poca o nulla pericolosità, che si possono sintetizzare come espressione di dissenso, di marginalità, quando non di disperazione, come nel caso della protesta passiva in carcere rispetto ad ordini impartiti? 5) Perché si è sottratta al Parlamento la funzione legislativa, la possibilità di terminare l’esame dell’originario disegno di legge ed emendarlo, migliorandolo grazie all’approfondito esame che era in corso? 6) Perché il Governo, che gode di un’ampia e coesa maggioranza parlamentare, si accinge anche stavolta ad apporre la questione di fiducia per irreggimentare ed ulteriormente velocizzare l’iter di conversione di un decreto già in vigore, che quindi non necessita di alcuna particolare accelerazione? Come costituzionalista, vedendo l’approvazione di provvedimenti in sempre più radicale contrasto con norme e principi costituzionali fondamentali, sento la responsabilità di dare un segnale. Calpestare il Parlamento e modificare gli equilibri che regolano il rapporto tra autorità e libertà, come fatto con questo decreto, significa alterare la stessa forma di stato. Significa portare la nostra, al di fuori delle democrazie liberali. E significa anche, inevitabilmente, suscitare una reazione diffusa nella società, rischiando di radicalizzare il dissenso rispetto all’indirizzo politico in atto. Un’ultima domanda allora, cui prodest? *Professoressa ordinaria di Diritto costituzionale all’università Unitelma Sapienza Stretta per le borseggiatrici e reato di rivolta in carcere. Cosa prevede il Dl Sicurezza di Pasquale Napolitano Il Giornale, 26 maggio 2025 Un testo di 19 articoli con una stretta per l'immigrazione irregolare, mafia, occupazione abusiva di casa e microcriminalità. Arriva in Aula oggi, per il primo voto, il decreto sicurezza, approvato dal governo nel mese di aprile. La deputata di Fratelli d'Italia Augusta Montaruli (nella foto) sarà la relatrice del provvedimento, licenziato inizialmente come disegno di legge e poi trasformato dall'esecutivo in decreto. Oggi, dopo la discussione generale, sarà posta la fiducia per accelerare l'iter. Ecco cosa prevede il nuovo pacchetto di norme per migliorare la sicurezza urbana. Il testo introduce una fattispecie di reato per le rivolte in carcere dei detenuti e la norma viene estesa anche ai centri per gli immigrati irregolari. Arriva poi una stretta per le borseggiatrici rom: il differimento della pena per le mamme diventa facoltativo e non più obbligatorio. Il decreto sancisce inoltre il divieto esplicito relativo alla cannabis light, proibendo l'importazione, la lavorazione, il possesso, la cessione, la distribuzione, la vendita e il trasporto di infiorescenze con THC basso per uso ricreativo. Un'importante novità riguarda le forze dell'ordine e le norme anti-proteste. Viene introdotta un'aggravante specifica per violenza o resistenza contro agenti di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza. In questo senso, si prevede la reclusione da due a cinque anni per lesioni personali agli ufficiali in servizio, estesa anche alle lesioni lievi. Il decreto prevede lo stanziamento di fondi per coprire fino a 10 mila euro di spese legali degli agenti coinvolti in procedimenti penali legati al loro servizio. Inoltre, è consentito agli stessi di portare armi private fuori servizio senza licenza specifica. Reati specifici vengono previsti anche per blocchi stradali. Finora era prevista una multa che andava da mille a 4mila euro: ora è stata introdotta la reclusione fino a un mese, oltre a una multa fino a 300 euro. Giro di vite per le occupazioni abusive di immobili, pene aggravate per chi ostacola infrastrutture strategiche (“norma anti-No TAV”), e sanzioni più severe per chi commette truffe agli anziani, con pene da due a sei anni di carcere e multe significative. È prevista inoltre la reclusione fino a 4 anni di carcere per chi anche online, diffonde materiale con istruzioni su armi o tecniche per compiere atti di violenza o sabotaggio. Separazione delle carriere. La riforma crea i super-pm: i giudici temono l’irrilevanza di Giulia Merlo Il Domani, 26 maggio 2025 La riforma crea un Csm per i procuratori e il sorteggio rischia di favorire gli uffici maggiori (e i loro capi). I primi sintomi di cambiamento già si sono visti con l’Antimafia e li ha previsti anche Delmastro. Tira un’aria strana dentro la magistratura associata. O meglio un’aria pesante che nasce dalla convinzione che il futuro delle toghe stia per essere ridisegnato e la nuova alba rischi di produrre non certo una scomparsa, ma un riassetto dei poteri. Nessuno, per ora, è disposto a dirlo apertamente, ma il ragionamento corre tra gli uffici giudiziari e muove da due convinzioni. La prima è che la separazione delle carriere verrà approvata - la maggioranza è decisa a portarla in aula l’11 giugno e a correre per approvarla entro la fine dell’anno - e difficilmente il referendum sarà un ostacolo, a meno che su di esso non si riversi un malcontento nei confronti del governo che però ora non si avverte. La seconda è che il sorteggio dei consiglieri togati per i due Csm che si costituiranno inevitabilmente indebolirà fino quasi a rendere ininfluenti i gruppi associativi. Con un effetto: la separazione delle carriere isolerà in modo netto i pm dalla giurisdizione, creando un corpo a se stante e molto più forte di quanto non sia oggi. Paradossalmente, chi lo ha intuito è stato proprio uno dei fautori della riforma come il sottosegretario Andrea Delmastro, che in un colloquio con il Foglio di qualche mese fa ha detto: “Dare ai pm un proprio Csm è un errore strategico che ci si rivolterà contro. I pm, prima di divorare i politici, andranno a divorare i giudici. L’unica cosa figa della riforma è il sorteggio dei togati al Csm”. Parole in libertà ma non troppo, secondo fonti bene informate della magistratura. I più preoccupati della separazione, infatti, sono proprio i giudicanti, che da settimane annusano l’aria e hanno già percepito quello che considerano il primo segnale del futuro che verrà: lo scontro tra Csm e i 26 procuratori distrettuali antimafia, capitanati da Giovanni Melillo. I membri della Dda hanno contestato in una lettera al Consiglio la circolare sull’organizzazione delle procure del luglio scorso, sostenendo che “rallenta gravemente le attività organizzative” e introduce “formali e burocratici adempimenti fini a se stessi”. Non una posizione nuova ma inedita nei toni e resa nota dalla stampa, tanto da far saltare una riunione calendarizzata tra Settima commissione e Dda, che poi si è svolta il 19 maggio. I super-procuratori - Secondo più fonti della magistratura giudicante, una delle quali è stata anche sull’altro versante della giurisdizione, è un’avvisaglia da interpretare. “Le Dda stanno dicendo una cosa molto chiara: che sono un’istituzione che dialoga alla pari con l’attuale Csm, che ormai è vecchio orpello, in attesa che si crei il Csm della magistratura inquirente. E gli stanno spiegando che le procure sono altro rispetto ai tribunali, e che non intendono gestirle nello stesso modo”, è il ragionamento. Un’alzata di capo che anticipa ciò che accadrà. Ovvero: due Csm, uno dei quali composto da venti pm e l’altro da venti giudici, che siederanno come consiglieri togati e verranno sorteggiati. Con la differenza che - secondo i dati del Csm - il sorteggio per i giudici avverrà tra circa 6.700 toghe, quello per i pm tra 2.200. Con un esito preciso. Per un calcolo delle probabilità, uno dei sorteggiati sarà estratto tra i 147 pm di Palermo, i 164 di Torino, i 216 di Milano, i 230 di Roma e i 274 di Napoli. Si tratterà di procuratori non legittimati da un voto, dunque in Consiglio per mera casualità e non rappresentativi se non di loro stessi. Questo spegnerà la forza delle correnti, ma la darà a qualcun altro. “A chi chiederanno un parere o peggio il permesso su chi trasferire dove, o su chi promuovere in quale ufficio? Al loro procuratore capo, sotto cui torneranno a lavorare una volta finiti i quattro anni di Csm”, è il timore che si avverte tra i giudicanti. Anche perché il passaggio da un ruolo all’altro non sarà più possibile e dunque chi nasce pm risponderà solo a quella “filiera”, e viceversa. Per renderlo più esplicito, una corrente di pensiero tra le toghe sostiene che, nel declino dei gruppi associativi, il potere finirà in mano ai capi delle grandi procure. E all’Antimafia, che già ha cominciato a muoversi in autonomia come dimostra lo sgarbo al Csm. In questo Csm di procuratori, la distanza tra l’organizzazione degli uffici di tribunale e quelli di procura sarà sempre maggiore, con i secondi sempre più gerarchizzati e verticistici sulla figura dei capi. Esattamente ciò che si vuole evitare con la circolare sull’organizzazione delle procure, contestata dai 26 procuratori antimafia. Per una peculiare eterogenesi dei fini, dunque, la riforma Nordio rischia di dare ancora più protagonismo proprio a quelli a cui il governo vorrebbe toglierlo. Per dirla con l’ex primo presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, che ha scritto proprio di questo rischio in tempi non sospetti su Giustizia Insieme, “con il distacco del pubblico ministero dal perimetro della cultura della giurisdizione si viene prospettando la costituzione di un secondo e autonomo potere giudiziario, indipendente da ogni altro potere dello Stato”, “con l’effetto collaterale, certamente non auspicato dai promotori dell’iniziativa riformatrice, di legittimare, con l’ulteriore frammentazione dei poteri dello Stato, l’obiettivo rafforzamento, oltre ogni ragionevole limite, della sfera di influenza nel sistema di giustizia dell’organo di accusa”. A questo avrebbe alluso Delmastro, quando ha detto che i pm, prima di mangiare la politica, mangeranno i giudici. Dentro al governo ma anche in una parte del Csm e in particolare tra i laici, questa visione così apocalittica non è condivisa. L’idea di fondo che filtra dal ministero della Giustizia è che il sorteggio sia l’unico modo per fermare le correnti e la separazione delle carriere il modo per ridurre lo strapotere della magistratura. Quanto allo spauracchio di nuovi super-pm, viene considerato fumo negli occhi: concretamente, il sorteggio disperderà i centri di potere e non ne creerà di nuovi, è l’assicurazione che arriva da via Arenula. Sarà, ma la sensazione sempre più avvertibile, in questa fase di attesa, è che un vecchio mondo stia morendo e quello nuovo non è ancora comparso. E in questo chiaroscuro, si sa, nascono i mostri. La guerra delle toghe. Intervista, con sportellate, al presidente dell'Anm Cesare Parodi di Ermes Antonucci Il Foglio, 26 maggio 2025 Dalla separazione delle carriere allo strapotere dei pm, dall’abuso delle intercettazioni alle ingiuste detenzioni. Quando anche la magistratura è, o vuole essere, politica. Parla il capo dell’Associazione nazionale magistrati. Sono destinate a riesplodere tra pochi giorni le tensioni tra governo e magistratura. La maggioranza ha infatti deciso di tagliare i tempi di approvazione della riforma costituzionale sulla separazione delle carriere: il testo approderà all’Aula del Senato l’11 giugno, anche facendo a meno del relatore. L’obiettivo è dare il via libera alla riforma anche in Senato prima della pausa estiva, per poi ripassare da entrambi i rami del Parlamento e approvare definitivamente il testo a fine anno. E’ da qui che inizia la nostra lunga conversazione con Cesare Parodi, presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati e pubblico ministero di lungo corso della magistratura torinese, al quale va certamente riconosciuta apertura al confronto e al contraddittorio. E’ proprio nel contraddittorio però che - come noterà il lettore - emergono molte delle contraddizioni (si perdoni il gioco di parole) che attraversano la magistratura non solo sulla riforma costituzionale, ma anche su altre questioni centrali che animano da anni il dibattito sulla giustizia italiana: lo strapotere dei pubblici ministeri (soprattutto nella fase delle indagini), l’uso e l’abuso delle intercettazioni, l’elevato numero di ingiuste detenzioni e l’irresponsabilità delle toghe, la tendenza dell’Anm e della magistratura a esondare dai propri ambiti di competenza, a discapito dell’equilibrio dei poteri. Contraddizioni che, in alcuni casi, si trasformano in scivoloni di una certa rilevanza, come quando Parodi rivendica la legittimità dell’Anm, cioè dell’associazione che rappresenta i magistrati, di contestare decisioni di carattere squisitamente politico adottate dalla maggioranza in Parlamento. Oppure quando sostiene che il fenomeno delle ingiuste detenzioni è principalmente da attribuire alla carenza di risorse dei magistrati e alla condotta delle stesse persone che sono state arrestate ingiustamente, in quanto sono stati incauti ad avere rapporti con soggetti poi riconosciuti come colpevoli di reati. Oppure quando Parodi, parlando delle inchieste contro i politici, sembra dirsi favorevole all’uso delle intercettazioni a strascico. Oppure, ancora, quando ammette che i giudici durante le indagini, una volta accolta la prima richiesta del pm di autorizzazione a svolgere intercettazioni, tendono ad abbassare il livello di attenzione sulle richieste di proroga, e quindi in altre parole ad appiattirsi alle posizioni delle procure. Presidente Parodi, l’Anm ha espresso “profonda preoccupazione” per la decisione della maggioranza di portare in Aula al Senato la riforma della separazione delle carriere l’11 giugno. Perché? “Stiamo parlando non di una legge ordinaria ma di una riforma costituzionale e sono abbastanza certo che una velocizzazione della procedura per una legge costituzionale non si sia mai verificata. Già questo è un fatto singolare. Capisco benissimo che fin dall’inizio il governo ha definito il testo più o meno blindato. C’è stata una prima fase di dibattito ma è apparsa molto chiara la volontà di non modificare nulla, non dico nel confronto con la magistratura associata, ma neanche in un dialogo con le opposizioni. All’obiezione che lei mi farà di certo e cioè che le opposizioni hanno presentato moltissimi emendamenti, le dico che questa è una prassi parlamentare piuttosto diffusa da entrambe le parti però questo accorciamento dei tempi in questo modo e su una proposta di legge di questa rilevanza, che va a modificare la Costituzione, è indicativo della volontà di arrivare a tutti i costi e in fretta al risultato”. Che la maggioranza voglia accelerare l’iter di approvazione della riforma sembra evidente. Ma perché l’Anm, cioè il sindacato dei magistrati, sente di dover criticare una decisione legittimamente presa dalla maggioranza parlamentare? Non dovrebbero essere i partiti di opposizione in Parlamento a occuparsi di queste cose? “Le opposizioni fanno il loro mestiere, fanno un’opposizione politica. Noi, come associazione, ci poniamo con una chiave non politica ma di difesa di princìpi costituzionali. Di solito in una democrazia il dibattito parlamentare viene visto come un momento di crescita della possibilità di arrivare a un risultato ottimale dal punto di vista legislativo. In questo caso fin dall’inizio questa volontà di confronto con le opposizioni su una riforma che va a toccare l’impianto costituzionale mi sembra non ci sia mai stata”. Però, mi perdoni, l’Anm non è il guardiano delle procedure parlamentari... “Lo siamo nella misura in cui tutti i cittadini hanno il diritto di interloquire in vario modo con le procedure parlamentari. Qualunque gruppo associato può manifestare la propria opinione. Noi in questo caso, poiché siamo un gruppo associato portatore di interessi, manifestiamo la nostra opinione. Poi che questo non abbia una grande efficace me ne rendo conto, ma lo facciamo perché crediamo nelle nostre idee”. Entrando nel merito della riforma, la critica principale che muovete è che essa porrebbe il rischio di una sottoposizione del pubblico ministero all’esecutivo. La riforma però ribadisce esplicitamente i princìpi di autonomia e indipendenza della magistratura nel suo insieme. Il nuovo articolo 104 della Costituzione dopo la riforma reciterebbe: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”. Dov’è il rischio di lesione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura? “Noi sappiamo perfettamente che nella riforma non c’è una previsione espressa su questo e non facciamo neanche il processo alle intenzioni. Semplicemente rileviamo che nella maggior parte dei paesi in cui vi è una separazione delle carriere, come la Francia, la Germania e l’Inghilterra, di fatto c’è la sottoposizione del pm all’esecutivo. Al Salone del libro di Torino ho detto che persino in Portogallo, che tutti citano come esempio di una separazione virtuosa delle carriere, il procuratore generale è nominato dal governo. Quindi, poiché vediamo che in molti paesi dove c’è la separazione delle carriere poi c’è una sottoposizione, in varie forme, del pm all’esecutivo allora questo non è un pericolo immaginario. È un dato che nasce dall’osservazione”. Della riforma l’Anm boccia anche la previsione di un doppio Csm (uno per i pm e uno per i giudici) e l’istituzione di un’alta Corte - esterna ai Csm - con il compito di valutare i magistrati sul piano disciplinare… “Un pm che ha una scarsa rappresentatività nel Csm è sicuramente un pm più debole. Così come c’è un indebolimento indiretto anche nel momento in cui la giustizia disciplinare viene svincolata dal corpo gestionale dell’ente. Si tratta di un caso unico: in tutti gli enti, dalla Banca d’Italia alla Consob, e negli ordini professionali la giustizia disciplinare è interna. Nel caso della magistratura, la giustizia disciplinare significa valutare in concreto la vita del magistrato e il contesto in cui opera. E questo può farlo soltanto chi ha una conoscenza, anche se indiretta, del momento gestionale. Infine vorrei porre una terza considerazione”. Prego... “Siamo sicuri che con un Csm del pubblico ministero autonomo e indipendente, che quindi decide in autonomia anche sui progetti organizzativi delle procure, senza alcun contraddittorio con i giudici come accade oggi, non porterà a un’impostazione generale in chiave fortemente accusatoria ed efficientista come si è sviluppata in altri paesi?”. Per realizzare in concreto il rischio di sottoposizione del pm all’esecutivo sarebbe necessaria una nuova riforma della Costituzione che elimini la previsione dei princìpi di autonomia e indipendenza per tutti i magistrati. Perché allora protestate adesso e non tra cinque o dieci anni, o quando avverrà questo tentativo di riforma (se mai ci sarà)? “Protestiamo adesso perché ci caliamo nel contesto internazionale che ci dà queste indicazioni. Poi non bisogna dare per scontato che occorrerà un’ulteriore riforma costituzionale. Qualche dubbio lo abbiamo, specialmente nel caso in cui le leggi attuative si indirizzassero in una certa direzione”. Però le leggi attuative che il governo dovrà adottare dopo l’approvazione della riforma non potrebbero mai andare in contrasto con i princìpi costituzionali che tutelano la magistratura… “Non bisogna fin da oggi sottovalutare le leggi attuative, che saranno complesse, delicate e che poi saranno quelle che inseriranno in concreto nel sistema questi princìpi. E, ripeto, bisognerà stare molto attenti a vedere cosa conterranno. Non sarà una mera fase esecutiva: queste leggi avranno un’altissima significatività dal punto di vista dell’impatto concreto della riforma sul sistema”. La maggioranza punta ad approvare definitivamente la riforma verso la fine dell’anno. Avete in mente di attuare nuove forme di protesta, come lo sciopero tenuto a febbraio? “Non credo che lo sciopero possa rappresentare una forma di protesta replicabile. Poi evidentemente decideranno il Comitato direttivo centrale e la Giunta esecutiva centrale dell’Anm. La nostra contrarietà si è già cristallizzata con lo sciopero. Dopo l’approvazione della riforma si aprirà un dibattito democratico in cui cercheremo di essere presenti. Più che di scioperi parleremo di iniziative di comunicazione in tutte le sedi non per fare un’attività anti governativa, come forse a qualcuno farebbe piacere, ma per parlare delle ricadute di questa riforma. So che non farà facile e che molte persone hanno un’immagine della magistratura negativa, ma provare a spiegare alla gente come stanno le cose dalla nostra visuale penso sia l’unica possibilità di avere un referendum basato su un confronto democratico”. Passiamo al tema delle intercettazioni. Recentemente è stata approvata una legge che fissa a 45 giorni il limite per realizzare le intercettazioni, salvo alcune deroghe (come i reati di mafia, terrorismo e quelli contro la Pa). Il termine può essere superato se dalla prima fase di indagine sono emersi “elementi specifici e concreti” che confermano l’indispensabilità delle intercettazioni. Al di là dei contenuti di questa riforma, condivide l’impressione che in Italia ci sia un ricorso eccessivo alle intercettazioni da parte della magistratura? “Le intercettazioni sono atti del pubblico ministero che in tutti i casi vengono autorizzati da un giudice, quindi l’espressione ‘ce ne sono troppe’ non ha particolare significato. Bisognerebbe chiedersi se sono giustificate o se non sono giustificate. Se sono giustificate non saranno mai troppe. Questo chiama in causa il rapporto tra pm e giudice delle indagini preliminari. Allo stato i giudici hanno sempre ritenuto di accodarsi alle richieste delle procure, ma le posso assicurare che ci sono anche dei casi in cui questo non avviene, solo che questi non fanno notizia. E’ però difficile avere dati su questo punto. Se vogliamo approfondire il tema della capacità critica del giudice rispetto al pm, questo non è un discorso che a noi fa paura. A me, pubblico ministero, fa piacere che il giudice eserciti un’attività critica, che conosca gli atti e in qualche modo mi dia una mano a non commettere errori. Però, visto che ci sono dei casi in cui le attività di intercettazione non vengono prorogate, bisognerebbe andare a vedere in quali casi i giudici sono portati in maniera un po’ ripetitiva ad autorizzare. Diciamo le cose come stanno: il vero punto riguarda i reati contro la Pubblica amministrazione. Al di là dell’ipotesi singola da cui si parte per le intercettazioni nel caso specifico, è chiaro che ascoltando pubblici amministratori, funzionari e imprenditori una possibilità teorica di incappare in altre situazioni di interesse investigativo ci può essere. Questo secondo me è ciò che fa paura alla politica: avere uno spiraglio aperto sul mondo della politica da cui possono nascere ulteriori filoni non necessariamente vincolati all’ipotesi iniziale”. Insomma, secondo lei una parte della politica ha paura delle intercettazioni... “Direi che valuta con estrema delicatezza le captazioni in ambito dell’attività amministrativa. Anche la previsione dell’uso dei trojan per i reati contro la Pa è stato un passaggio molto sofferto, infatti ipotizzo che in un futuro neanche troppo lontano ci possano essere dei momenti di ripensamento anche su questo, che assolutamente non auspico”. Presidente, mi perdoni, ma è noto a tutti gli operatori del settore giustizia, e persino ammesso da numerosi magistrati, che l’accoglimento da parte del gip della richiesta del pm di proroga delle intercettazioni è nei fatti quasi un automatismo. Non è ipocrita ignorare questo dato? “Questa domanda necessita di una risposta sotto due profili. Il primo profilo è strettamente tecnico-normativo: da 4-5 anni, cioè da quando sono stati creati gli archivi informatici delle intercettazioni, non vengono più mandati direttamente i file, ma il giudice come tutte le altre parti deve andare ad ascoltare i file delle intercettazioni nella saletta riservata in caso di richiesta di proroga alle intercettazioni. Dopodiché però, attenzione, nelle richieste è difficile pensare che il pubblico ministero o la polizia giudiziaria scrivano qualcosa di diverso da ciò che è stato intercettato e trascritto. Quindi anche se non c’è un controllo formale del gip, mi creda sarebbe una follia se il pm o la pg riportassero circostanze non vere negli atti. Questo è il vero problema e lo possiamo accantonare. Quello che lei dice e cioè quanto è la valutazione critica specifica che i giudici fanno sulle varie inchieste, anche qui bisogna distinguere due momenti. Sulla prima richiesta di autorizzazione alle intercettazioni ritengo ci sia una valutazione rigorosa e molto articolata da parte del giudice sulla base della gravità del fatto o dell’ipotesi di reato. L’attenzione potrebbe scendere sulle proroghe. Ma procediamo dal punto di vista logico. Si è valutato all’inizio in maniera approfondita un determinato contesto criminale. Dopo la prima valutazione, soprattutto se il giudice ha una quantità di lavoro eccessiva, ci può essere una tendenza a esaminare con meno attenzione le richieste di proroga, ma perché l’attenzione su quella vicenda è stata concentrata all’inizio quando c’era una prospettiva grave di reato. Dico sempre che la qualità dipende dalla quantità. Giustamente i cittadini richiedono una giustizia di qualità, ma questa richiede un tipo di impegno in termini di personale, tempo e risorse che purtroppo noi non abbiamo. Questo lo dico chiaramente. E credo che il problema dei gip sulle proroghe alle intercettazioni non derivi da una cattiva volontà o da una passività del giudice al pm, ma dall’alto numero di casi che si trovano ad affrontare con risorse non sufficienti. Lo stesso vale per il tema delle misure cautelari”. Il problema della carenza di risorse nell’ambito giudiziario è innegabile, ma non è un po’ eccessivo attribuire a questo problema tutte le ragioni dell’adesione quasi automatica del gip alle tesi dei pm nella fase delle indagini? “Mi spiace dire una cosa che lei non condivide, ma se parliamo di atteggiamento dei giudici nella fase delle indagini le devo dire che nella mia personale percezione in larghissima misura la carenza di tempo, mezzi e risorse condiziona il lavoro dei colleghi”. Il tema delle indagini preliminari è strettamente legato a quello delle ingiuste detenzioni. Dal 1992 a oggi si sono registrati oltre 30 mila casi di ingiusta detenzione: una media di mille all’anno, tre ogni giorno. Per un totale di circa un miliardo di euro di indennizzi pagati dallo stato. A questi si aggiungono oltre 200 errori giudiziari (persone condannate in via definitiva e poi assolte dopo un processo di revisione). Qual è la sua reazione di fronte a numeri così imponenti? “La prima reazione è di chiarezza: confondere gli errori giudiziari con le ingiuste detenzioni è un metodo completamente errato. Stiamo parlando di due categorie che hanno punti di contatto ma che sono assolutamente distanti. Detto ciò, ci sono in questo periodo proposte per modificare i criteri per riconoscere il risarcimento per ingiusta detenzione”. Il presidente Parodi sembra riferirsi alla proposta avanzata da alcuni parlamentari di centrodestra di eliminare la “colpa grave” dalle ragioni che impediscono di ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Oggi infatti a molte persone che hanno subìto un’ingiusta detenzione non viene riconosciuto l’indennizzo qualora il giudice ritenga che questi con la loro condotta “ambigua” abbiano in qualche modo contribuito all’ingiustizia subita (per esempio frequentando soggetti coinvolti in attività illecite, magari senza neanche saperlo)... “La prospettiva di cambiamento è quella di dire che non c’è nessun obbligo di collaborazione per escludere il concetto di ingiusta detenzione. Di fatto però in molti casi un atteggiamento diverso avrebbe evitato delle ingiuste detenzioni. È vero che il pm deve dare la prova della responsabilità, ma è anche vero che in una certa prospettiva bisogna avere un atteggiamento collaborativo ed evitare situazioni che poi si riflettono in questi termini. Il dato numerico delle ingiuste detenzioni è sicuramente elevato. Bisognerebbe però disaggregare sul piano statistico questo dato: in quali contesti si è verificato con maggiore frequenza l’ipotesi di ingiusta detenzione? Io non ho un dato statistico ma credo che in moltissimi casi siano riconducibili a ipotesi di criminalità legata al traffico di stupefacenti e alla criminalità organizzata”. Questa cosa però non è confortante. Il dato rimane… “Certo, però stiamo parlando di settori in cui i margini di valutazione sulla responsabilità sono magari differenti rispetto ad altri e in cui pesa il tema della carenza di risorse. Non dico che tutte le ingiuste detenzioni sarebbero evitabili, ma sicuramente la possibilità di andare a fondo dei singoli casi, specialmente se parliamo di contesti associativi molto complessi da ricostruire, fa la differenza. È di nuovo purtroppo un problema di risorse, di capacità di investire sulle singole indagini, specialmente se parliamo di fascicoli con un numero elevato di indagati. Gli omicidi sono una cosa, ma il discorso è diverso se parliamo delle indagini contro la criminalità organizzata: in questi casi è rilevante la possibilità di andare a fondo della ricostruzione di questi contesti criminali e quindi di arrivare al momento in cui io decido se richiedere una misura cautelare sapendo che quel soggetto magari non è soltanto vicino a una determinata cosca ma lo è in termini tali da giustificare una privazione della libertà”. A prescindere dalle statistiche, un magistrato come lei ha percezione di come cambia la vita di una persona accusata ingiustamente per cinque, sei, dieci anni? A livello umano cosa si sente di dire a chi è vittima di un’ingiusta detenzione e a coloro che di fronte a queste vicende perdono la fiducia nella giustizia? “Prima di tutto, io non ho detto che non esistono gli errori giudiziari. Purtroppo ci sono. Io sono molto vicino alle persone che hanno subìto errori giudiziari. Lo sono meno a chi sfrutta questi errori per accusare in maniera generica e strumentale l’intera magistratura. Sono vicinissimo a chi ha subìto un torto magari grave in questo senso, ma non dimentichiamoci che sono però dei casi singoli e se andiamo a vedere i numeri globali dell’attività giudiziaria le percentuali non depongono per un sistema che sia così ricco di casi di errori giudiziari. Questo non toglie che il singolo errore giudiziario è qualcosa di estremamente doloroso. Devo però dire che bisognerebbe andare a vedere perché si è verificato quell’errore. Se è per negligenza, per esempio perché il pm non ha voluto seguire delle indicazioni che avrebbero potuto portare a una risposta diversa, è un conto. Se invece, faccio un altro esempio, il pm non aveva a disposizione strumenti scientifici e investigativi che si sono evoluti nel tempo e che all’epoca magari non c’erano e poi dopo vengono trovati, mi scusi ma la situazione è molto diversa. L’errore giudiziario può anche derivare da una prova del Dna che 20 anni fa non c’era e che solo oggi può essere valutata. La prima parte della sua domanda mi interessa molto perché è legittima ma profondamente ingiusta. Io conosco delle persone che hanno sofferto molto per delle vicende giudiziarie. Le conosco molto bene. Non è vero che noi non abbiamo una percezione di questa situazione. Sappiamo perfettamente cosa vuol dire vivere una vicenda giudiziaria con la convinzione di essere innocenti, subendo magari anche una forma di detenzione. Conosco molto bene delle persone che credo siano in qualche modo vittime di errori giudiziari e quindi so perfettamente che cosa vuol dire e sono vicino a queste persone. Credo che come me anche altri colleghi possano capire esattamente queste situazioni. Anzi, se mi consente una battuta ce l’ho fin troppa questa percezione, ma purtroppo non posso fare nulla perché rispetto il lavoro dei miei colleghi”. A fronte di oltre 30 mila indennizzi per ingiusta detenzione, per una spesa di circa un miliardo di euro, risulta che negli ultimi trent’anni la Corte dei conti ha intrapreso una sola azione di rivalsa per danno erariale nei confronti di un magistrato, recuperando la somma di 10 mila euro. Vista questa paradossale situazione, il deputato di Forza Italia Enrico Costa ha depositato una proposta che dispone che gli atti della riparazione per ingiusta detenzione vengano trasmessi al procuratore generale della Corte dei conti per l’esercizio, da parte dello stato, di un’azione di rivalsa nei confronti di colui che ha causato la carcerazione non dovuta, analogamente a quanto è oggi previsto dalla legge Pinto per le riparazioni riconosciute in seguito alla violazione del termine ragionevole del processo. Condivide questa proposta? “Mi sembra che questo disegno di legge cada in un momento storico in cui mi pare che le iniziative dirette a stringere la morsa sui magistrati siano molto gradite, quindi in una certa ottica non mi stupisce. Però dico anche questo: se è una procedura già prevista dal sistema e che non viene applicata, intanto non è colpa dei magistrati, e poi bisognerebbe chiedere spiegazioni del perché non viene applicata a chi avendo la possibilità di avviare queste azioni non l’ha fatto, come il ministero dell’Economia o la Corte dei conti”. L’emergenza carceraria non accenna ad attenuarsi. Negli ultimi mesi, di fronte all’aumento del sovraffollamento negli istituti di pena e ai numeri record dei suicidi tra i detenuti (90 nel 2024, già 32 nel 2025), c’è chi ha segnalato alla politica l’opportunità di adottare provvedimenti di clemenza come amnistia e indulto. Di recente, il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha aperto alla proposta sulla liberazione anticipata speciale avanzata da Roberto Giachetti. Qual è la posizione dell’Anm su queste proposte? “Tutta la magistratura è estremamente attenta a questo tema che vede una situazione di profondo disagio non soltanto dei detenuti ma di tutti coloro che operano nel mondo carcerario. Noi ci limitiamo a far presente l’assoluta necessità di intervento. La situazione è talmente grave che mi verrebbe da dire che qualsiasi soluzione sarebbe da prendere in considerazione, perché stiamo parlando di 12 mila persone in più rispetto alla capienza regolamentare nelle carceri. Senza pensare poi al problema dell’assistenza sanitaria di questi detenuti, che in molti casi è assolutamente non ai livelli che sarebbero auspicabili, così come al problema delle Rems: abbiamo persone che necessiterebbero di cure psichiatriche ma che per carenza di posti nelle Rems sono costrette a stare in carcere. Questi sono i temi che noi abbiamo avanzato al ministro della Giustizia Nordio, sapendo che a dare le risposte devono essere il governo e il ministro stesso”. Toghe e politica, 30 anni di sospetti e processi paralleli. Il caso Esposito: “Nessuno paga” di Valentina Stella Il Dubbio, 26 maggio 2025 “Toghe e politica - Una guerra lunga 30 anni” è stato il titolo di un dibattito organizzato dal Dubbio al Salone del Libro di Torino. A discuterne, moderati da Simona Musco, l’ex senatore del Pd Stefano Esposito e l’attuale senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto. Come è noto Esposito, indagato dalla procura di Torino per corruzione e traffico illecito di influenze, il 3 dicembre ha finalmente ottenuto l’archiviazione dell’inchiesta dalla procura di Roma, dopo oltre sette anni di calvario mediatico e giudiziario all'interno di una vicenda molto complessa. Già prima la Corte costituzionale aveva sancito l’illegittimità delle intercettazioni effettuate a suo carico dalla procura, che aveva agito senza chiedere alcuna autorizzazione al Senato. L’ex parlamentare dem si è inizialmente concentrato sul processo mediatico che ha caratterizzato la sua vicenda: “La stampa in dieci giorni ha costruito il processo, lo ha svolto e mi ha pure condannato. E sebbene poi tu ne esca bene, rischi di non riprenderti più da quella sentenza mediatica”. Ironicamente, ma non troppo, ha proseguito: “Ditemi se avete trovato mai una persona, un agente della polizia giudiziaria, un cancelliere o un magistrato che sia stato accusato per aver fatto uscire le carte dalle stanze degli investigatori. Le carte escono da sole: ricordatevi che presso i palazzi di giustizia le carte hanno le gambe e viaggiano per conto loro”. Su questo ha aggiunto Scalfarotto: “Nessun giornalista, fatta qualche eccezione, si è preoccupato di dire in quei primi dieci giorni che quella era la tesi dell’accusa”. Inoltre “vicende come questa rafforzano la necessità di introdurre nel nostro sistema il principio della responsabilità civile dei magistrati in caso di errori o di gravi negligenze. In questo caso c’è un pubblico ministero che a Torino ha indagato una montagna di gente e nessuno viene mai condannato. E a questo magistrato non succede nulla. In generale in gioco ci sono dei valori e delle vite. Francesco Carnelutti, grande giurista italiano, diceva che il processo è una pena in sé stesso. Allora, nel momento in cui io ti inquisisco sulla base di qualcosa che non ha nessun fondamento, poi devi assumertene la responsabilità”. Il pensiero è andato all’inchiesta Open che ha coinvolto Matteo Renzi e la sua famiglia: “I suoi genitori furono arrestati poco prima dei tg della sera, furono fatte perquisizioni all’alba da parte dei finanziari a tutti quelli che avevano fatto dei bonifici alla Fondazione manco fossero dei mafiosi. Anche in questo caso è dovuta intervenire la Corte costituzionale e cinque volte la Cassazione ad annullare i sequestri. Poi è stato tutto archiviato ma i magistrati dietro tutto questo non pagheranno mai, eppure il Senato aveva certificato il fumus persecutionis da parte di quel magistrato nei confronti di Renzi”. Esposito poi si è dilungato sul tema intercettazioni: “La Corte costituzionale ha scritto che le intercettazioni nei miei confronti erano preordinate e esclusivamente finalizzate ad accedere alla mia sfera di comunicazione. Voi immaginatevi che cosa significhi preordinare. Che cosa vuol dire preordinare? Vuol dire averlo deciso a tavolino. Siccome non potevano intercettarmi direttamente, hanno utilizzato una persona a me vicina per accedere. Adesso sto pensando di pubblicarle e commentarle tutte, in modo da spiegarle a chi avesse voglia davvero di capire questa vicenda”. Dopo ha raccontato di come sia stato abbandonato dal suo partito: “Vieni abbandonato. Sono rarissimi i casi in cui accade il contrario. Qualcuno dice che è una questione di opportunità, qualcun altro non dice neanche niente e semplicemente si dimenticano di te, cancellano il numero di telefono”. La stessa cosa, ha raccontato Esposito, non è accaduta solo a lui: “Ricordate Filippo Penati? Era stato l'uomo macchina del Partito democratico, era quello che aveva fatto le liste. Era il principale collaboratore di Bersani; dall'oggi al domani, perché coinvolto in alcune vicende giudiziarie, è stato scaricato e non si pronunciava più neanche il suo nome. E così è stato fino a quando, anche credo a causa di questa vicenda, è morto. Io non ho mai smesso non solo di salutarlo ma anche di telefonargli”. Per Esposito “questo atteggiamento culturale coinvolge sia la sinistra che la destra, il garantismo se non è morto è in uno stato comatoso”. Si è chiesto poi al senatore Scalfarotto se la soluzione possa essere la separazione delle carriere: “Temo che non sia così semplice. Questo governo, anche quando prova a fare delle cose giuste, le fa male. Secondo me le riforme costituzionali non si fanno con dei testi blindati che arrivano in Parlamento. Tra l'altro viene presentata come una riforma fatta quasi contro i giudici che emettono le sentenze sui migranti. Io avrei affrontato tutta la discussione in un modo molto più pacato, molto più tranquillo”. Nel merito “la separazione delle carriere è una riforma che ha una sua ragion d'essere, che porta a compimento il processo accusatorio. Penso che sbaglino i magistrati da un lato a sentirsi oltraggiati e penso che sbagli dall'altra parte il governo a utilizzarla con uno strumento politico”. Dopodiché per Scalfarotto “ci sono delle scemenze enormi, tipo quella del sorteggio, in particolare dei non togati nel Csm: la Costituzione vuole che la politica designi qualcuno e la politica è l'espressione del popolo, i non togati che vanno al Csm devono essere espressione del popolo”. Educare o punire, la voce “solitaria” di Manconi nel gran chiasso del populismo di Francesca Spasiano Il Dubbio, 26 maggio 2025 Femminicidi, immigrazione, sicurezza. La risposta della politica ai fenomeni sociali è sempre la stessa: introdurre nuovi reati. Anche quando i numeri ci raccontano un’altra storia, anche quando sappiamo che la curva dei reati violenti è in discesa. L’equazione resta invariata. E chi contribuisce all’allarme, resta sordo a un dato ormai acquisito: la “spada penale” non può essere la ricetta contro ogni male. E di certo non “cancella” i problemi con cui ci confrontiamo come per magia, se alla sanzione non affianchiamo mai gli strumenti dell’educazione. Di tutto questo si è parlato sabato 16 maggio con Luigi Manconi, ospite del Dubbio nella cornice del Salone del libro di Torino. L’incontro era imperniato sui due poli del dibattito - “educare o punire” - che si è ripresentato con forza in seguito agli ultimi provvedimenti licenziati dal governo Meloni. Non soltanto con il decreto Sicurezza approvato “senza” Parlamento, ma anche sui reati di genere, con il ddl sul femminicidio presentato dall’esecutivo in occasione dell’8 marzo. Il provvedimento introduce una fattispecie autonoma e la lega all’ergastolo. Affidandosi ancora una volta, ragiona Manconi, “a un’ipotesi smentita da tutte le ricerche scientifiche sul tema, secondo la quale maggiore è la sanzione, minori sono i reati”. “Ma è dimostrato da cinquant’anni sottolinea - che l’inasprimento delle pene non dissuade dal commettere un dato reato”. Sociologo, scrittore, politico, Manconi analizza il fenomeno con la lente opposta a quella del demagogo. E anche nel rapporto tra patriarcato e femminicidi legge una correlazione “meno rozza di quanto si creda”. “Si dice che più c’è patriarcato, più si uccidono le donne, ma questa è solo una variabile. L’altro fattore, che rimanda all’alto numero di femminicidi in paesi come quelli scandinavi, qualifica questa attività criminale come forma disperata, estrema - e sia chiaro -, folle, di difesa del maschio di fronte ai processi di emancipazione femminile”. Si tratta di “una reazione irrazionale, e massimamente criminale”, puntualizza Manconi, nei confronti della quale le politiche penali rischiano di fallire. “Negli ultimi anni c’è una categoria, che è quella di populismo penale, che come tutte le formule è un po’ abusata e non facile da spiegare - dice Manconi -. Spesso veicola luoghi comuni, ma se c’è una manifestazione limpidissima del populismo penale è proprio la volontà di introdurre il reato autonomo di femminicidio. Perché il populismo penale è una forma demagogica di criminalizzazione della vita sociale. E cosa c’è, nell’Italia contemporanea, di più demagogico del dichiarare di voler cancellare il femminicidio? Qual è l’impegno che può ottenere più consensi di questo? Io non credo che ve ne siano altri - prosegue -. Evocare quindi il femminicidio e spacciare un provvedimento come questo, quale fosse la soluzione al fenomeno, è esattamente un’operazione demagogica che solletica e sollecita gli umori più oscuri dell’animo umano, la volontà di vendetta in ogni caso”. Ecco le parole, populismo e vendetta, che ricorrono nel corso dell’incontro per inquadrare anche le politiche sul carcere e il decreto Sicurezza. Che introduce 14 nuovi reati e 9 aggravanti. “Non tutti i dati sono così inequivocabili e incontestabili - riprende Manconi -, ma sappiamo con chiarezza e coerenza che gli omicidi volontari, fattore di massimo allarme sociale, sono calati dal 1992 ad oggi di quattrocento unità all’anno. Tuttavia, questa riduzione così clamorosa non ha portato l’opinione pubblica italiana ad avvertire una maggiore sicurezza”. Come lo spieghiamo? “Io penso molto semplicemente che la responsabilità sia della politica - risponde Manconi -. La spiegazione sta esattamente in ciò che la politica, o per meglio dire alcuni partiti politici, hanno fatto della sicurezza, del problema dell’immigrazione”. Che viene presentato costantemente, dice il sociologo, sotto l’etichetta dell’invasione. Un paese come il nostro, dove avvengono tragedie e crimini, ma che “sta perfettamente in linea con tutti gli standard di sicurezza dei paesi occidentali, viene presentato come una bolgia dantesca di efferati crimini”. Il tutto attraverso un “processo di manipolazione delle coscienze” al termine del quale l’opinione pubblica finisce per sentirsi inevitabilmente insicura. Manconi ne ha anche sul tema del carcere, in particolare per l’introduzione del reato di rivolta dietro le sbarre anche per le forme di resistenza passiva come lo sciopero della fame. Che per il detenuto - sottolinea - rappresenta un importante processo di emancipazione culturale. “Chi rinuncia alla protesta violenta per fare uno sciopero della fame, è un detenuto che ha fatto il primo, magari piccolo, ma assai significativo passo verso l’integrazione e l’inclusione nel sistema dei diritti”, dice Manconi. “Ecco perché deve indignare quella norma” contenuta del decreto Sicurezza, “perché l’hanno voluta pensando di colpire le rivolte e invece si avrà il solo effetto di incentivarle”. Ma tutto questo ci conduce verso lo Stato di polizia, come crede qualcuno? “No, io sostengo l’esatto contrario - chiosa Manconi -. L’evocazione dello Stato di polizia, o ancor più l’evocazione del fascismo, è un miserabile trucco. Io non penso in alcun modo che in Italia ci sia il fascismo, e non penso che mai ci sarà. Ma attenzione: in presenza di una democrazia, come quella italiana, non sono escluse tendenze autoritarie. Alcune cose che stanno succedendo negli Stati Uniti ci dicono che il pericolo è reale. Concentrazioni di potere che non necessariamente comportano una rottura democratica, ma una crisi della democrazia e dello Stato di diritto per come l’abbiamo voluti, pensati e desiderati. Derive illiberali che non necessariamente sono destinate a vincere, anzi sono convinto che possano essere sconfitte”. Cremona. “Carcere sovraffollato: è una grave minaccia” di Francesca Morandi laprovinciacr.it, 26 maggio 2025 Visita a Cà del Ferro e convegno della Camera penale con Nessuno Tocchi Caino. Un appello corale: “Non basta parlare di reinserimento. Occorre costruire, ogni giorno, le condizioni perché la pena non sia una frattura definitiva, ma un passaggio verso una nuova cittadinanza”. L’appello è stato lanciato il 22 maggio scorso, all’esito della visita, la mattina, nel carcere di Ca’ del Ferro, e il pomeriggio, del convegno nella Sala dei Quadri del Comune. La giornata è stata organizzata dalla Camera penale di Cremona e Crema ‘Sandro Bocchi’ con la presidente Micol Parati, in collaborazione con ‘Nessuno Tocchi Caino - Spes contra Spem’, l’organizzazione che si occupa dei diritti dei detenuti e della lotta contro la pena di morte, rappresentata da Elisabetta Zamparutti, tra i fondatori dell’associazione, e dal tesoriere Sergio D’Elia. “Una giornata di confronto autentico, dentro e fuori il carcere”, è il senso dell’iniziativa. Per la Camera penale della Lombardia orientale, c’era la presidente Luisa Crotti. “Nella visita che abbiamo fatto in carcere - ha spiegato Zamparutti - abbiamo trovato 539 detenuti per una capacità effettiva di 384 posti (le celle dell’isolamento sono in via di ristrutturazione). Pur essendo una casa circondariale, ci sono 451 detenuti effettivi. Molti sono gli stranieri, 322, ma ancor di più sono quelli con problemi psichiatrici e dipendenza da sostanze: 367. Per tutti loro ci sono uno psichiatra e tre psicologi, mentre gli educatori effettivi sono 5 e gli agenti penitenziari, che da pianta organica dovrebbero essere 223, sono invece effettivi solo 177”. Per Zamparutti, “una situazione che, se non governata con una riduzione del sovraffollamento, invece di assicurare ordine e sicurezza ne costituisce una grave minaccia”. Se ne è parlato al convegno moderato dall’avvocato Raffaella Bondonno, la quale ha ricordato che il carcere “non può essere luogo di mera punizione, ma strumento di recupero e dignità”. E ha richiamato “il ruolo dell’avvocatura nel garantire che i diritti non si fermino alle sbarre”. La presidente Parati ha parlato del ruolo dell’avvocato come garante di legalità e rieducazione, Alessio Romanelli, presidente dell’Ordine degli avvocati, dell’impegno dell’Ordine forense nella cultura penitenziaria, la direttrice reggente del carcere, Giulia Antonicelli, dei progetti concreti attivi nella struttura (con lei la comandante reggente Letizia Tognali), D’Elia del carcere oltre la punizione: una giustizia che ripara. L’architetto Cesare Burdese ha parlato della necessità di spazi detentivi pensati per la dignità, mentre il cardiologo, Federico Canziani, dell’impatto medico e psicologico della detenzione, Zamparutti delle buone pratiche europee in tema di detenzione alternativa. “Tutti sguardi unanimemente volti ad uscire da una condizione chiusa del carcere”. L’assessore alle Politiche sociali, Marina Della Giovanna ha evidenziato “l’importanza della collaborazione tra istituzioni locali e sistema penitenziario per promuovere percorsi di reinserimento sociale”, sottolineando “il ruolo del welfare di prossimità nel sostenere i detenuti durante e dopo la detenzione”. Modena. Infermieri del carcere in protesta: “Siamo troppo pochi, l’Ausl assuma” Gazzetta di Modena, 26 maggio 2025 Nel 2024 erano 19 per 400 detenuti, adesso sono 14 per 600: “Insostenibile”. Protestano le lavoratrici e i lavoratori del servizio di Medicina penitenziaria presso il Sant’Anna: da più di un anno soffrono per la carenza del personale infermieristico rispetto ad una popolazione di detenuti che è sostanzialmente raddoppiata. Da qui la proclamazione dello stato di agitazione. “Su 400 detenuti, fino ai primi mesi del 2024 erano presenti 19 infermieri, oggi su più di 600 detenuti abbiamo 14 infermieri, con una richiesta di cure e assistenza crescenti” spiega Giulia Casamassima, responsabile Sanità per Fp Cgil di Modena. Oltre alle problematiche di organico insufficiente, il sindacato rileva forti criticità sul fronte salute e sicurezza: “Un ambiente insalubre, umido, poco accogliente e al limite della decenza” denuncia. Tutti questi aspetti si ripercuotono sul personale, con continui infortuni e con numerose dimissioni volontarie. “Abbiamo cercato di affrontare insieme all’Ausl di Modena queste criticità, ma oltre alle promesse, nulla si è visto in concreto” nota Casamassima. “Abbiamo suggerito anche di creare un sistema incentivante per gli infermieri attualmente in organico che potesse stimolare anche altri professionisti a decidere di prestare la loro attività presso la casa circondariale, ma nulla poi ci è stato presentato. Sono lavoratori che da troppi mesi sono lasciati a loro stessi - incalza - gestiscono pazienti in una realtà complicatissima, connotata da un sovraffollamento estremo e che hanno vissuto in prima persona tutti i fatti di cronaca che in quel carcere si sono verificati. Meritavano di certo più attenzione: è inverosimile avere dei professionisti che rischiano di vivere quotidianamente momenti di tensione, soprattutto se teniamo conto che il carcere di Modena ha una carenza già riscontrata anche sul personale di polizia penitenziaria”. Dopo una lunga attesa senza risposte dall’Ausl sul reclutamento di nuovo personale, gli infermieri in servizio presso il carcere hanno quindi aperto lo stato di agitazione, preannunciando il blocco degli straordinari, di orari supplementari, delle aggiuntive e di ogni forma di flessibilità. “La carenza di personale - rimarca Giulia Casamassima - è una problematica diffusa in maniera purtroppo trasversale nelle aziende pubbliche di Modena, e colpisce tutte le figure del comparto: infermieri, oss, tecnici e amministrativi. Questo fenomeno causa una diminuzione della qualità dell’assistenza, l’aumento del carico di lavoro per il personale rimanente e la difficoltà a garantire servizi essenziali. Bisogna intervenire immediatamente con il reclutamento di nuovo personale infermieristico per il servizio di medicina penitenziaria, per garantire condizioni lavorative dignitose e per migliorare l'organizzazione. Il personale è carente ed esasperato ormai ovunque: la lentezza con cui si danno risposte e le ferie ancora non confermate per nessuno, stanno rendendo il clima incandescente”. Milano. Umanizzare il carcere per promuovere anche il benessere della Polizia penitenziaria varesenews.it, 26 maggio 2025 Uno studio dell’Università di Milano-Bicocca rivela come un clima carcerario orientato al supporto e alla rieducazione dei detenuti migliora anche l’equilibrio psico-fisico del personale penitenziario, riducendo il burnout e migliorando la soddisfazione lavorativa. Trasformare la cultura delle carceri è una questione di diritti dei detenuti, ma anche di benessere psicologico e professionale degli agenti penitenziari. È quanto emerge da una ricerca, pubblicata sulla rivista Journal of Criminal Psychology, condotta da un team di ricercatori del dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca, in collaborazione con la Direzione generale della Formazione del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia. Lo studio, firmato da Marco Marinucci, Iolanda Tortù, Teresa Traversa, Luca Pancani e Paolo Riva, ha coinvolto 1.080 agenti della Polizia penitenziaria italiana. I risultati hanno messo in luce che promuovere norme sociali finalizzate al supporto e alla rieducazione delle persone ristrette aumenta la soddisfazione lavorativa e riduce il rischio di burnout del personale impiegato negli istituti penitenziari. “Gli agenti che lavorano in carceri orientati alla dignità e alla rieducazione dei detenuti riportano livelli più bassi di esaurimento emotivo”, spiega Marco Marinucci, primo autore e assegnista di ricerca a Milano-Bicocca. “Questo indica che promuovere una cultura penitenziaria improntata al supporto e al reinserimento sociale non solo tutela i diritti dei detenuti, ma rappresenta anche una leva fondamentale per proteggere la salute psicologica degli agenti e prevenire fenomeni di abuso”. La ricerca, che combina un’indagine correlazionale e una manipolazione sperimentale, ha evidenziato che il clima organizzativo ha un impatto significativo sulla qualità del lavoro nelle carceri oltre che sull’equilibrio psicologico degli agenti. Una cultura penitenziaria che mira al recupero dei carcerati, attraverso la promozione di un clima relazionale disteso ed empatico, favorisce atteggiamenti e intenzioni comportamentali più supportivi e meno punitivi, contribuendo a ridurre l’ostilità tra agenti e detenuti e, favorendo per gli agenti un coinvolgimento positivo nel lavoro. Tuttavia, lo studio segnala anche una possibile ambivalenza: un’eccessiva vicinanza emotiva con i detenuti può, in assenza di un’adeguata preparazione, aumentare lo stress emotivo degli agenti di polizia penitenziaria. Per questo motivo, i ricercatori suggeriscono di affiancare al cambiamento culturale percorsi formativi capaci di aiutare gli agenti a gestire l’empatia in modo professionale e contenere i rischi di burnout. “Oggi più che mai occorre ripensare la formazione e la gestione del personale penitenziario”, conclude Marinucci. “Costruire un ambiente orientato al supporto e alla rieducazione non è solo un obbligo etico, ma una strategia concreta per migliorare le condizioni di lavoro, ridurre i rischi psicologici e costruire carceri più sicure e giuste”. Lo studio, realizzato con il sostegno del Ministero della Giustizia, fornisce anche indicazioni operative per promuovere un cambiamento culturale negli istituti penitenziari, a beneficio tanto del personale quanto delle persone detenute. Roma. Una collaborazione con Microsoft per nuove opportunità di reinserimento di Fabio Falbo* Il Tempo, 26 maggio 2025 Appello per Microsoft da noi persone detenute che viviamo nella Casa Circondariale di Rebibbia a Roma. La vita in carcere presenta sfide quotidiane, e molte persone affrontano anche difficoltà economiche significative riguardante il periodo di detenzione, che rende più complicato gestire la propria condizione con dignità. Con questo appello, desideriamo proporre alla Microsoft di collaborare con noi in un'iniziativa volta a migliorare il benessere di chi vive questa situazione di disagio. In particolare, desideriamo chiedere il vostro sostegno in libri e materiali educativi quali applicativi offline e computer, che permettano di continuare i percorsi di formazione per imparare e crescere nonostante le difficoltà. Questo progetto rieducativo, non è solo un modo per soddisfare bisogni materiali, ma rappresenta una concreta opportunità per costruire una relazione positiva tra il mondo esterno e chi, come noi, sta cercando di ricostruire un futuro migliore. Crediamo che il vostro supporto non solo possa fare la differenza per molte persone detenute, ma rappresenti anche un'occasione per mostrare come la vostra realtà di successo possa contribuire attivamente alla solidarietà e al benessere della comunità. Vi sono persone che in carcere, hanno scritto libri ed altre che hanno conseguito la Laurea o chi invece continua la formazione professionale con il supporto di Cisco, sognando un giorno di collaborare professionalmente magari proprio con voi. Percorsi di formazione che vengono affrontati con difficoltà significative come l'impossibilità dell'accesso a Internet, la mancanza di materiali educativi aggiornati, nonché l'impossibilità di poter utilizzare computer funzionanti. Siamo certi che voi, così come il vostro fondatore Bill Gates che da sempre è attivo nel sociale con la più grande fondazione al mondo la “Bill & Melinda Gates Foundation”, possa sostenerci e ascoltarci. Noi siamo pronti a fornivi ulteriori informazioni e a discutere le modalità che riterrete più opportune. Speriamo di poter contare sul vostro prezioso aiuto e poter scrivere nuove pagine, magari direttamente con il vostro supporto, e un giorno non troppo lontano di poter ricordare il vostro Brand come parte dell'opportunità di reinserimento nella società libera. *Detenuto a Rebibbia Viterbo. Al via il progetto “Gavac”, stanziati 15mila euro dal Comune tusciaweb.eu, 26 maggio 2025 Al via il progetto per reinserire i detenuti, stanziati 15mila euro per il reinserimento lavorativo e nella società dei carcerati del territorio. Il comune di Viterbo, capofila del distretto VT3, ha confermato anche per il 2025 il finanziamento del progetto promosso dal gruppo assistenti volontari carcerari Gavac Odv, con un impegno di spesa pari a 15mila euro. Il progetto, che prevede attività sociali, culturali e formative destinate ai detenuti, mira a favorire il loro reinserimento nella società. È attivo sia all’interno della struttura carceraria che all’esterno, in collaborazione con enti del Terzo settore accreditati. Il distretto VT3, composto da otto comuni tra cui Viterbo, Orte, Soriano nel Cimino e Canepina, ha ribadito la volontà di portare avanti azioni concrete per supportare i soggetti più fragili, anche attraverso tavoli tematici con le realtà associative locali. L’iniziativa prende spunto dai risultati positivi raggiunti nel 2024 dallo stesso gruppo Gavac, che ha già operato nella struttura di Viterbo in via S. Rita offrendo percorsi educativi utili al recupero dei detenuti. Il finanziamento sarà erogato entro il 31 dicembre 2025 e rispetta gli equilibri di bilancio dell’ente. L’atto è stato firmato dal dirigente Mauro Vinciotti il 6 maggio e pubblicato ufficialmente l’8 maggio. Roma. Le calciatrici del carcere di Rebibbia: “Giocare ci dà la vita” di Alberto Gottardo e Francesca Sironi Corriere della Sera, 26 maggio 2025 L'Atletico Diritti è una società sportiva che permette la partecipazione a campionati ufficiali per la squadra di calcio a cinque delle detenute. Dalle grate arriva della musica, odore di mensa, qualcuna che litiga, qualcuna che ride ad alta voce. Rebibbia è il carcere femminile più grande d'Europa. Vivono qui dentro, in una città nella città alla periferia di Roma, 366 detenute. Trecento donne che hanno la speranza di farcela, di superare il percorso di detenzione per uscire più consapevoli. E non più disperate. Quella fra disperazione e speranza, fra inclusione e abbandono, è la partita che gioca Atletico Diritti, società sportiva fondata nel 2014 dalle associazioni Progetto Diritti e Antigone, ente no profit che da decenni si batte per migliorare le condizioni di detenzione e far conoscere all'esterno l'esperienza dei detenuti e delle detenute. Anche attraverso lo sport. ?Atletico Diritti è una società sportiva che permette la partecipazione a campionati ufficiali di categoria, con il calcio a cinque per le detenute, e per i detenuti dell'istituto penale maschile, a fianco, il Tennis Tavolo. Per le associazioni, il campionato significa costante rapporto col “fuori”, la possibilità di scoprire ed esercitare il diritto al movimento e allo sport. Per le detenute, è un momento con un peso diverso, più leggero, è la possibilità di uscire ogni settimana per gli allenamenti e incontrare le compagne di squadra, è la soddisfazione del goal e il supporto del tifo. Per le educatrici, è un modo per lavorare con le detenute sul rispetto delle regole e degli avversari, sulla collaborazione e lo spirito di gruppo. Atletico Diritti ha avuto fin dal principio il patrocinio dell’Università Roma Tre, al quale nel 2016 si è aggiunto quello della Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili (Cild). La squadra di calcio a cinque è la protagonista del nono episodio della docu-serie Rivincite, realizzata da Somewhere Studio. Nel suo ultimo rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, Antigone ricorda gli 88 suicidi avvenuti in carcere nel 2024. Non sono mai stati così tanti. Morti silenziose, non guardate e inaccettabili, perché sono il dolore muto di persone che erano sotto la custodia dello Stato. Sovraffollamento, mancanza di percorsi orientati al reinserimento sociale, strutture inadeguate, carenza di personale e di esperti, assenza di attività sociali. Sono tanti i punti sui quali il rapporto chiede al Dipartimento di amministrazione penale di intervenire, aprendo le porte ad iniziative che favoriscano il rapporto con l'esterno: l'unico modo per far sì che scontare una pena corrisponda alla possibilità di cambiare, riducendo il rischio di isolamento, e di recidiva. Atletico Diritti è un esempio, un progetto che esiste da 10 anni e continua a crescere, facendo rete con altre esperienze. Le divise sono di “Made in Jail”, la sartoria di Rebibbia, che ha recentemente partecipato al progetto “Un passo alla volta”, sostenuto da fondi europei per la Coesione, che ha visto oltre 600 ore di attività per persone tra i 25 e i 54 anni di età sottoposte ad un provvedimento definitivo di condanna, per l'inserimento lavorativo. Nel Lazio sono stati finanziati da Bruxelles oltre due milioni e mezzo di progetti. Ne servono altri, e ancora. Per mantenere viva la fantasia, la possibilità di futuro, durante la pena. Come dice il fondatore di Made in Jail: “Mi chiedevo se in carcere la fantasia, la creatività, l’immaginazione, potessero essere anestetizzati dall’oggettiva avvilenza, dall’impossibilità di autodeterminare un solo giorno della propria esistenza. Mi chiedevo se il carcere potesse produrre altro da sé”. “Rivincite” è una docu-serie realizzata con il sostegno finanziario dell'Unione Europea. Il suo contenuto è esclusiva responsabilità di Somewhere Studio e non riflette necessariamente le opinioni dell'Unione Europea. Somewhere Studio garantisce l'indipendenza, il rigore e la completa autonomia nella scelta e nel trattamento degli argomenti. Quel “Respiro” di cui hanno bisogno carcere e detenuti di Giovanni Conte chiesadimilano.it, 26 maggio 2025 Si intitola così il nuovo volume di Luisa Bove (edito da In dialogo), dedicato alle possibili opportunità che si aprono dopo avere scontato, in tutto o in parte, la propria condanna. Sarà presentato il 29 maggio alla Caritas Ambrosiana. Perché una persona arriva a delinquere? Quanto conta il contesto in cui vive? Come tornare alla vita sociale dopo una detenzione? A questi e a tanti altri interrogativi risponde il libro di Luisa Bove Respiro. Il carcere oggi tra condanna e riscatto (In Dialogo, 174 pagine, 18 euro), che sarà presentato giovedì 29 maggio alle 14.30 presso la Caritas Ambrosiana (via San Bernardino 4, Milano). Oltre all’autrice, interverranno Anna Giroletti (responsabile del Servizio psichiatrico penitenziario di San Vittore, Opera, Bollate, Beccaria) e Teresa Mazzotta (dell’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna); modera il giornalista Fabio Pizzul. A firmare la prefazione è Lucia Castellano, già direttrice del carcere di Bollate e oggi provveditrice regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Campania. “Il nuovo respiro che dovremmo fornire ai nostri ospiti all’interno degli istituti e ai cittadini che scontano una pena sul territorio - scrive la Castellano - è fatto di nuove opportunità, della scoperta che esistono modi diversi per vivere la vita, passioni sconosciute per un lavoro, un’attività creativa, nuove forme di relazioni”. Chi ha pagato il proprio debito con la giustizia ha diritto a una seconda possibilità per non tornare a delinquere, trovando un lavoro dignitoso che gli consenta di pagare un affitto. È in questa fase intermedia della vita che spesso intervengono enti del Terzo settore creando un ponte tra il dentro e il fuori. L’emergenza salute mentale - Il libro si arricchisce di contributi di esperti che approfondiscono alcuni temi di grande attualità. Forse il più grave e meno noto al pubblico è quello della salute mentale a San Vittore, di cui parla Anna Giroletti, intervistata dall’autrice. I numeri parlano chiaro: nel 2024 sono state trattate e diagnosticate quasi 800 persone, con un assiduo lavoro di cura e monitoraggio. Ci sono addirittura detenuti che scoprono solo in carcere di avere una patologia psichiatrica perché non hanno mai avuto accesso a un servizio del territorio. “Nelle case di reclusione, soprattutto quelle di grandi dimensioni - spiega Giroletti - il problema rimanda alla questione del “sommerso”, cioè alle condizioni psicopatologiche che, quando espresse in forma “mite”, non sempre sono intercettate e riconosciute come tali”. E se all’interno del carcere vengono curati e stabilizzati (se gravi non dovrebbero neppure rimanere reclusi, ma essere trasferiti nelle Rems), il problema si pone quando lasciano l’istituto, perché la presa in carico da parte dei Servizi del territorio è molto lenta se non impossibile. Le misure alternative - La legge italiana consente di scontare parte della pena anche fuori dal carcere, alle “misure alternative” (affidamento in prova, detenzione domiciliare…). In tal caso i detenuti sono tenuti a riferirsi agli assistenti sociali dell’Ufficio esecuzione penale esterna, che a Milano è diretto da Teresa Mazzotta. “Gli uomini e le donne presi in carico dall’Uepe - spiega - sono, prevalentemente, persone che hanno vissuto in un contesto di vita da deprivazione sociale, sia in ambito familiare (nuclei genitoriali privi di risorse economiche, lavorative e relazionali), sia a livello territoriale (contesti locali difficili)”. Tali fattori spesso inducono queste persone a vivere di espedienti e di conseguenza a intraprendere percorsi di devianza. L’extrema ratio - Uno sguardo lungimirante viene da Luigi Pagano, che per 40 anni ha lavorato come direttore in diversi istituti, ma anche a livello regionale e nazionale. La sua lunga esperienza lo porta a dire che il carcere deve essere l’extrema ratio e che la polizia penitenziaria dovrebbe partecipare attivamente a percorsi rieducativi. Sogna quindi “un’organizzazione diversa”, a partire dalla “cosiddetta “sorveglianza dinamica” da molti demonizzata (alternativa alle modalità tradizionali di custodia e controllo per prevenire evasioni, risse, aggressioni, danneggiamenti), che consiste nella partecipazione alle attività trattamentali e alla conoscenza personale dei detenuti”. L’autrice di Respiro dà voce anche a tre uomini e una donna che raccontano le loro storie di detenzione e di riscatto, senza sconti e senza filtri. C’è chi, dopo anni di carcere, arriva a intraprendere anche un percorso di giustizia riparativa, descritta - nell’ultimo capitolo del volume - da Bruna Dighera (membro del Tavolo lecchese di giustizia restorativa), cui si aggiungono le interviste a un reo, a una vittima e a un cittadino in rappresentanza della società civile, ferita a sua volta. È un libro “prezioso” dichiara Lucia Castellano, che consente “di capire cosa sia il nuovo respiro” di chi in carcere lavora e di chi ne esce avendo colto tutte le opportunità possibili. I muri e le deportazioni: il potere dell’Occidente è decidere chi si muove di Sergio Labate* Il Domani, 26 maggio 2025 Gaza, il diritto d’asilo in Europa, la storia di un mendicante a Verona. Cos’hanno in comune queste storie? Sono sintomi del fatto che non possiamo capire ciò che sta accadendo se non osserviamo allo stesso tempo i muri e le deportazioni. Le due cose stanno insieme: fermare o costringere a muoversi. Si tratta di uno stesso esercizio del potere che si rivolge a un elemento fondamentale della nuda vita, la necessità di sentirsi a casa del mondo. Tre indizi non provano una storia, specie quando la storia si presenta così oscura e invadente come in questi anni. Però qualcosa segnalano, sono sintomi di dove sta andando il mondo. Il nostro mondo che chiamiamo Occidente, quello di cui facciamo parte sia quando lo difendiamo sia quando ci indigniamo. Gli indizi - Il primo indizio è il più grande ed è ormai la cartina di tornasole della nostra verità. Si chiama Gaza, un esperimento in cui l’Occidente sta pensando sé stesso in termini di pura crudeltà, oltre la propria grande invenzione dei diritti fondamentali e i limiti che essi imporrebbero alla sovranità del più forte. Da Gaza non si può più tornare indietro: la verità su ciò che noi stessi siamo è irreversibilmente cambiata. Tra le tante cose, mi colpisce come ormai ci siamo rassegnati all’idea che si possano spostare centinaia di migliaia di persone dal posto in cui hanno le proprie radici verso luoghi con cui non si hanno legami e, oltretutto, decisi da noi e non da loro. Si progetta una deportazione di massa e noi cerchiamo soltanto le parole giuste per dirlo senza rovinare l’umore di coloro che la stanno prospettando. Il secondo indizio è un po’ più piccolo, almeno per estensione. Riguarda l’Europa e le sue politiche sul diritto d’asilo. Non un diritto qualsiasi, ma l’origine di ogni diritto: l’ospitalità dovuta al prossimo che non ha dove stare. Come spiegato perfettamente (e dolorosamente) su questo giornale da Marika Ikonomu, la Commissione europea ha in progetto di oltrepassare - quanto a razzismo - il modello Albania del governo italiano. In particolare, colpisce che il diritto d’asilo diventi inammissibile se la persona che lo richiede sta in un “paese sicuro”. Ecco, la Commissione europea ha deciso di cancellare la necessità che vi sia un legame - anche tenue - tra il paese sicuro e la persona che viene ospitata. Il che vuol dire semplicemente una cosa: che anche l’Europa, come Israele, può decidere dove debbano vivere le persone che richiedono protezione e non persecuzione. Come nel primo caso, stiamo accettando che i migranti siano oggetto di una deportazione di massa, verso luoghi dove saranno costretti a vivere dall’arbitrio di un potere che definisce le loro vite, i loro bisogni, i loro legami, ecc. Il terzo indizio è ancora più piccolo e, per fortuna, contiene anche un seme di speranza. È la storia di un uomo fermato dalla Polizia municipale di Verona mentre faceva pacificamente l’elemosina, senza alcun comportamento molesto o sospetto. A questa persona è stato notificato un Daspo urbano: un divieto di sostare o di tornare nella città dove la sua povertà destava scandalo. Anche qui, la pena preventiva consiste nel decidere dove un altro debba stare, contro ogni principio elementare di autodeterminazione. In questi giorni il Consiglio di Stato ha annullato questa sentenza, stabilendo che non avendo commesso alcun reato, quella persona non poteva essere punita. Dove non c’è reato, non può esserci pena: un altro principio elementare che l’Occidente ha scelto di dimenticare. Ieri ho dovuto sradicare una piantina per poi sistemarla da un’altra parte del giardino. Il mio vicino di casa, un vero umarell e convinto elettore di destra, mi ha guardato con disprezzo: “Non si può sradicare una pianta in questo modo e in questa stagione dell’anno”. Così mi ha detto. L’Occidente e il suo doppio standard, persino tra piante ed esseri umani. Non ci azzardiamo a sradicare le piante ma non ci scandalizziamo più se i nostri governi sradicano persone e le “re-impiantano” non dove possono crescere meglio, ma dove danno meno fastidio ai nostri interessi. Per allontanare la nostra vergogna, questo esercizio di potere applicato coattivamente a masse inermi di persone lo definiamo remigrazione (si legga su questo il bell’articolo di Giulia Giraudo su Jacobin). Ma il suo nome è uno soltanto: deportazione. La verità è che non possiamo capire ciò che sta accadendo se non osserviamo allo stesso tempo i muri e le deportazioni. Le due cose stanno insieme: fermare o costringere a muoversi. Si tratta di uno stesso esercizio del potere che si rivolge a un elemento fondamentale della nuda vita, la necessità di sentirsi a casa del mondo, di poter stare in un posto dove si vuole stare e non dove si è costretti a stare. Cos’è il potere, in Occidente? Non è più ciò che garantisce a ciascuno il diritto fondamentale di potersi liberamente muovere o star fermo, ma è ciò che decide del muoversi e dello star fermo di tutti coloro che decide letteralmente di perseguitare. Trasformando la vita di persone inermi in un gigantesco e tragico gioco infantile: un, due tre… stella. Masse di persone costrette a fermarsi di fronte a un muro o a muoversi senza poter sapere dove stanno andando. Una voce da fuori urla, decide il loro transitare, il loro stesso passare nel mondo. È la voce del padrone, certo. Ma è anche la fine di una civiltà e la sua resa al silenzio, non ne dubito. *Filosofo I bianchi spaventati e le parole dell’odio di Simona Forti La Stampa, 26 maggio 2025 In un mondo sempre più simile ad un campo di battaglia, su cui si combattono guerre armate e “guerre culturali”, alcune parole diventano munizioni. E così, a fronte di un’opinione pubblica sgomenta per l’azione genocidaria del governo israeliano, il 22 maggio alla Casa Bianca Trump impugna il termine genocidio e lo punta contro un attonito presidente del Sudafrica. L’accusa ha un risvolto perverso: Cyril Ramaphosa, a capo di una nazione che si è retta per 50 anni sulla segregazione dei neri, viene accusato dal bianchissimo Donald di assecondare il “genocidio dei bianchi” - degli Afrikaner -- che il suo paese starebbe perpetrando. È ovvio, come viene presto confermato, che la notizia è costruita ad arte, ma come leggerla? È solo espressione dell’ennesimo rito di umiliazione orchestrato dall’intemperante ed esibizionista presidente statunitense? Torniamo per un istante a Gallarate e a quanto avviene il 17 maggio. Al teatro Comunale si tiene il cosiddetto Remigration Summit, a guida di Martin Sellner: un attivista austriaco di estrema destra, vicino ad Alternative für Deutschland, a cui Svizzera, Germania e Regno Unito hanno negato l’ingresso poiché ritenuto neonazista. La parola d’ordine, che il sindaco di Gallarate ha lasciato circolare, è, appunto, re-migrazione. Nonostante il tono tranquillizzante del principale organizzatore italiano dell’evento, Andrea Ballarati, ex militante dell’ala giovanile di Fratelli d’Italia - il quale si sforza di presentare il progetto come una benefica opera di legalizzazione -- il lemma rimanda al progetto di un rimpatrio forzato non soltanto degli immigrati irregolari, ma anche di quelli regolari e addirittura delle seconde generazioni con cittadinanza europea. Sarebbe un grave errore sottovalutare il peso di queste parole e la loro forza di propagazione. “Genocidio dei bianchi” e “Remigrazione” sono indicatori che ci portano dritti alla teoria della Grande Sostituzione: il vero collante della composita galassia della destra globale, sia della destra che vuole governare, sia dell’ultradestra in bilico tra cospirazionismo ed eversione. Tale teoria viene dal passato, ovviamente, dall’antisemitismo francese e tedesco, ma nella sua versione odierna può servire a individuare i nuovi nemici. Ancora troppo poco analizzata in Italia, sminuita spesso quale espressione di frange estreme e minoritarie, essa è in realtà in grado di fornire un terreno comune ad un universo percorso da correnti diverse e contrastanti, di mettere in dialogo la tecno-destra apocalittica della Silicon Valley con l’estremismo evangelico e il tradizionalismo cattolico, il nazionalismo identitario dei paesi europei con i gruppi neonazisti e i sostenitori del suprematismo bianco. Il testo che le ha dato nuova vita è di un autore francese: Renaud Camus. Nel 2012, egli mette insieme alcune sue conferenze dando loro un unico titolo: Le Grand Remplacement. L’autore è colto e raffinato, si muove a proprio agio tra Racine e Proust, Kant e Fanon. Soprattutto miscela con intelligenza i diversi toni. Ci sarebbe molto da dire su questo libro che parla della Francia, ma si rivolge all’intero Occidente bianco. Esso combina con astuzia molti elementi: dalla battaglia contro il ‘dogmatismo uscito dalla condanna della Shoah’, che impedisce di parlare di razze diverse, all’odio nei confronti di un capitalismo rapace che sta distruggendo il pianeta e la sua bellezza. Con occhio da scienziato sociale, individua nel tasso di fertilità delle donne arabe il mezzo più sicuro per la riuscita della sostituzione, ma la sua supposta neutralità sociologica scema quando accusa le élites mondialiste di favorire il nuovo “totalitarismo imperialista” islamico. Sono queste, per lui, a incentivare il tramonto dell’uomo bianco, carico di specificità, di tradizioni nazionali, di cultura, per sostituirlo con un nuovo tipo umano meticcio, “svuotato”, e pertanto sempre sostituibile. Il vero obbiettivo, allora, è svegliare le coscienze di fronte al pericolo incombente della “contro-colonizzazione” da parte di coloro che mirano a prendere il posto “della razza bianca francese ed europea”, dei suoi valori, dei suoi costumi, delle sue forme estetiche, del suo cibo. Perché è indubbio che sia in atto una sorta di “pulizia etnica” dei bianchi da parte di arabi e islamici, la quale costringe “gli indigeni”, francesi ed europei, a sottomettersi o a fuggire. È dunque un appello a combattere “l’ebetudine organizzata” dei francesi e degli europei, che abdicano alla loro storia e dicono sì alla Grande Sostituzione. È vero che Renaud Camus, nel testo, non spinge mai il suo linguaggio oltre certi limiti. Ma il messaggio de Le Grand Remplacement è davvero soltanto una sfida, come sembra sostenere anche Michel Houellebecq, per provocare i conformisti del multiculturalismo? Penso, invece, che ci sia assai di più in gioco. E sono convinta che l’ideologia che sta riuscendo a tenere insieme i vari pezzi della destra si presti anche ad una messa in atto di tutt’altra natura. Ricorro solo ad un esempio tra i molti: il 15 marzo 2019, a Christchurch in Nuova Zelanda, Brenton Terrant, un suprematista bianco, massacra 51 persone di religione islamica e lascia come testimonianza del suo gesto un manifesto dal titolo The Great Replacement, un esplicito riferimento a quella teoria che esorta i poveri bianchi a riprendersi ciò che è loro! Le parole sono munizioni. La mutazione antropologica intorno all’antisemitismo di Mario Giro* Il Domani, 26 maggio 2025 C’è un cambiamento antropologico in atto in Europa e Usa. Le nuove generazioni e i discendenti arabo-musulmani non hanno la stessa sensibilità registrata in passato. Occorre trasmettere la storia e la memoria e va separato il giudizio storico di fondo da quello sulla politica del governo Netanyahu, certamente criticabile. Forte polemica tra Israele ed europei attorno ai fatti di antisemitismo. Ma la novità è che l’assassinio dei due diplomatici israeliani a Washington rappresenta un segnale preoccupante: ora nemmeno gli Stati Uniti sono al riparo dall’antisemitismo. Finora era stata l’Europa a produrre il maggior numero di attacchi contro gli ebrei; adesso entra nel novero anche il paese con la più importante diaspora ebraica mondiale. Come dicono molti commentatori, una delle cause è l’inasprirsi della guerra a Gaza, giunta quasi al suo seicentesimo giorno e di cui non si vede la fine ma solo si percepisce un immane massacro dalle immagini (anche quando non si vuol credere alle cifre). Non è una spiegazione sufficiente: antisemitismo e antigiudaismo sono radicati e sotterranei e rispuntano endemicamente senza dipendere solo da ciò che accade sul terreno. Preoccupa dal punto di vista politico che Europa e Israele siano al livello più basso delle loro relazioni. È possibile che a giugno prossimo Francia e Gran Bretagna riconoscano ufficialmente lo stato palestinese, come fatto di recente dalla Spagna e dalla Norvegia. Ciò non muterebbe quasi nulla dal punto di vista concreto ma rappresenterebbe una rottura significativa tra Gerusalemme e importanti capitali europee, le cui conseguenze si vedrebbero più in là. Tuttavia, ancora prima di questo, a spiegare l’attuale situazione è in primis il cambiamento sociologico in atto: ci sono sempre più discendenti arabo-musulmani sia negli States che in Europa e ciò cambia le percezioni e le emozioni popolari. Tale constatazione parte dai cittadini a pieno titolo (senza considerare per ora la questione immigrati che apre altri interrogativi) ai quali tuttavia sembra mancare (del tutto o in parte) la radice culturale storica nei confronti degli ebrei. In altre parole si tratta di cittadini influenzati piuttosto dalla geopolitica e dalle emozioni dei loro paesi di provenienza che non dalla storia europea (ereditata anche in America). Qui si pone una questione grave: nel processo integrativo sembra che la parte storica riguardante gli ebrei (pogrom, antisemitismo storico, guerra e Shoà) non abbia trovato spazio, non sia stata trasmessa. Ciò vale anche per i giovani in genere. Si tratta quindi di cittadini privi dell’elaborazione culturale (e religiosa) fatta dal secondo dopoguerra in avanti a riguardo della convivenza con gli ebrei e dell’antisemitismo storico. C’è meno consapevolezza dei crimini commessi (incluso l’abisso della Shoà) o addirittura ci si rifiuta di assumersi tale eredità. Da segnalare che tale carenza di trasmissione è favorita anche dal decadimento della cultura storica nelle nostre scuole. Non si fa mai abbastanza clamore contro i tentativi di eliminare la storia dai programmi scolastici. C’è anche il tema del passaggio da una cultura umanistica ad una a prevalenza tecnologico-scientifica, eludendo i passaggi storico-culturali necessari a fare un buon cittadino. Il fatto che nelle nostre università si punti all’insegnamento solo in inglese ne è un segnale d’allarme, non per l’inglese stesso ma per il declino della cultura umanistica e classica. Gravi i danni sui giovani; esiziali sui discendenti da altri continenti. Poca storia, poco umanesimo culturale e poca letteratura costruiscono una generazione più arida facilmente manipolabile da posizioni ideologiche, in questo caso anti-ebraiche. Ne sono la prova il fatto ad esempio che si torni a dire che Israele sia uno stato “coloniale” mentre è stato approvato da una vasta maggioranza alle Nazioni Unite. Va separato il giudizio storico di fondo da quello sulla politica del governo Netanyahu, certamente criticabile. Tale separazione sembra quasi impossibile in tempi di politica emozionale, eppure va fatta: il sionismo è un nazionalismo in tutto simile a quello di ogni altro paese. Si può ammalare di estremismo, come accade ora, ma ciò non pregiudica la sua legittimità. Rappresenta anzi un segno premonitore per le nostre democrazie. L'inferno in terra a Gaza, il silenzio insopportabile delle nazioni di Vittorio Pelligra Avvenire, 26 maggio 2025 Nel cuore della Striscia di Gaza, una tragedia umanitaria si consuma con la lentezza crudele della fame. Da troppo tempo in quel luogo diventato l’inferno in terra i bambini muoiono a occhi aperti, le madri stringono corpi ormai senza vita, e i padri scavano tombe a mani nude. Eppure, il mondo guarda altrove. L’orrore è reale, ma la risposta internazionale è un sussurro, un vago fastidio nella routine dell’attività diplomatica. Com’è possibile? La risposta non sta solo nelle ragioni della geopolitica o nella diplomazia, ma anche nella nostra psicologia, nel modo in cui il nostro cervello reagisce a simili tragedie e produce una verità sconcertante: più aumenta il numero delle vittime, meno ci curiamo di loro. Lo psicologo americano Paul Slovic chiama questo fenomeno “pshychic numbing”, una vera e propria anestesia psichica che desensibilizza il nostro senso morale. Il termine descrive quel meccanismo per cui la nostra empatia si spegne davanti alla massa del dolore. “Uno è una tragedia, un milione è una statistica”, diceva Stalin - e la psicologia sperimentale dà conferma della sua intuizione. A Gaza, ogni fotografia di un bambino denutrito dovrebbe spezzare il cuore dell’umanità. Eppure, le immagini si accavallano, si moltiplicano, diventano “troppo”. Siamo entrati a pieno titolo in quella che Robert Lifton e Greg Mitchell definiscono l’età della desensibilizzazione: una nuova era dove la sofferenza delle moltitudini è diventata rumore di fondo e l’anestesia collettiva ci fornisce un rifugio e un alibi. Alla desensibilizzazione psichica si aggiunge un secondo fenomeno che ne amplifica l’effetto. Si tratta della cosiddetta “pseudoinefficacia”. Vedere un solo bambino affamato ci commuove; vederne mille ci fa sentire impotenti. È la tragica “aritmetica della compassione”, come scrive Daniel Västfjäll: più cresce la tragedia, più ci sentiamo piccoli e inutili, e invece di reagire con coraggio e impegno, scegliamo di girarci dall’altra parte per scappare dal senso di impotenza. Ma la nostra psicologia non può essere una giustificazione o ancor peggio una scusa. Perché c’è anche la scelta politica. Sempre Slovic parla al riguardo di un “effetto prominenza” che si verifica quando le scelte degli Stati sullo scacchiere internazionale sono dominate da ciò che è più “visibile” e conveniente per i leader che quegli Stati li governano e che, per questo, sono pronti e ben disposti a lasciare da parte ciò che sarebbe moralmente più urgente. Ecco, Gaza e la sua tragedia non è prominente. Non genera voti, né profitti, a meno di raderla totalmente al suolo, di deportare i suoi due milioni di abitanti e di costruirci resort di lusso, sia ben inteso. È grazie all’”effetto prominenza” che l’indifferenza diventa una strategia calcolata prontamente mascherata da prudenza diplomatica. Il risultato? Un assedio che affama deliberatamente un popolo, trasformando il pane in arma. Secondo il diritto internazionale, la fame come strumento bellico è un crimine. Ma dove sono le sanzioni? Dove sono le risoluzioni Onu capaci di agire, non solo di “condannare”? L’Occidente ha fatto del “mai più” un mantra, ma ora tace, pavido, mentre si consuma una delle più gravi crisi morali del nostro tempo. Gaza non ha bisogno di lacrime. Ha bisogno di voce. Di indignazione. Di una rottura netta con l’indifferenza. Perché ogni bambino lasciato morire di fame per calcolo politico rappresenta il fallimento più atroce di ogni valore su cui la nostra civiltà si fonda. E nessuna scusa psicologica potrà mai giustificare il silenzio di chi avrebbe potuto parlare e ha scelto di non farlo.