Carcere, quando il volontariato è una vocazione. Incontri con i protagonisti di Antonella Barone gnewsonline.it, 25 maggio 2025 Da questa settimana, ogni sabato, incontriamo persone rilevanti del terzo settore, donne e uomini che hanno creato lavoro e formazione per i detenuti, promosso la cultura come esercizio di libertà, sfidato ostacoli burocratici, combattuto pregiudizi e stereotipi. Tra passato e presente, attraverso queste figure, è possibile riscrivere la storia del mondo penitenziario dalla Riforma Gozzini a oggi. Nicola Boscoletto, il “burbero benefico” dell’imprenditoria sociale Originario di Chioggia, classe 1963, Boscoletto è il socio fondatore della cooperativa Giotto, creata nel 1986 come Agriforest, insieme ad altri laureati e laureandi in scienze agrarie e forestali, per offrire servizi di manutenzione e cura di parchi e giardini. Ispirati dal pensiero di don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, Nicola e i suoi compagni orientano la vocazione sociale verso marginalità e carcere. Iniziano proponendo un corso di giardinaggio per i detenuti della casa di reclusione Due Palazzi di Pavova; in seguito la cooperativa organizza corsi anche in altri settori e, dal 2001, porta il lavoro in carcere, coinvolgendo anche altre imprese. La fama ‘extra moenia’ arriva però con la pasticceria e il mitico panettone apprezzato dai reali inglesi e premiato dal New York Times. Oggi Giotto ha 600 dipendenti di cui 90 detenuti, un centinaio di persone con disabilità e un altro centinaio di lavoratori con problemi di marginalità. Secondo il Corriere della Sera, vanta un ricavo di 17 milioni di euro nel 2024. Nicola Boscoletto però sostiene con forza che per il carcere e per i detenuti si potrebbe fare molto di più. All’origine fu un corso di giardinaggio nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Siamo nel 1991: cosa ricorda di quella prima esperienza? Ricordo l’entusiasmo, tipico di noi giovani non ancora trentenni, che ci animava e ci sosteneva. C’era una grande idealità, una grande ricerca di senso che aveva contraddistinto gli anni dell’università. Avevamo avuto un grande maestro, don Luigi Giussani (un moderno don Bosco), che ci ha trasmesso un’ossessione, “quella di non vivere inutilmente la nostra vita”, di amare la nostra libertà e quella di ogni uomo in qualsiasi situazione dovesse trovarsi. Non si costruisce niente di buono e di duraturo senza un grande ideale. Ne è una dimostrazione l’opera di San Giovanni Bosco che, a distanza di poco meno di due secoli è diffusa e conosciuta in tutto il mondo e che ha salvato e continua a salvare un numero notevole di giovani. Pochi ricordano che tra i primi a riconoscerlo è stato l’allora ministro Urbano Rattazzi, che colpito dai risultati (il clima del tempo non lo avrebbe accettato) ha aiutato, difeso e sostenuto l’opera di don Bosco, tanto da inviare anche un suo giovane parente nelle strutture del sacerdote salesiano, ritenendo che se fosse finito in carcere difficilmente si sarebbe recuperato. Grazie a questa modalità di stare di fronte alla realtà, le difficoltà non ci hanno scoraggiato, i continui “no”, “non si può fare”, “non l’ha fatto nessuno prima di me”, non ci hanno fermato. Questa è stata una condizione necessaria ma non sufficiente, perché se non avessimo incontrato nel nostro cammino alcuni direttori, alcuni magistrati, alcuni educatori e alcuni agenti che credevano in quel che facevano e che hanno avuto la forza di assumersi delle responsabilità, noi oggi non ci saremmo. Tutto questo personalmente per me ha un nome: Provvidenza. Poco più di 10 anni dopo nel 2003 alla coop Giotto viene assegnata l’erogazione dei pasti e poi la pasticceria, realizzata coinvolgendo come start up la cooperativa Work crossing. Da allora il carcere di Padova è conosciuto anche a livello internazionale per il panettone Giotto realizzato dai detenuti. Come ci siete riusciti? Il decennio 2000-2010 è stato il più ricco, il più creativo, il più innovativo. L’introduzione della legge Smuraglia ha immesso un’energia, una voglia di fare in tutti, amministrazione penitenziaria e terzo settore in primis, che poi non si è più vista. Per gli addetti ai lavori il progetto PEA 14 (l’iniziale sperimentazione, a partire dalla gestione delle cucine/vitto, cioè trasformare i cosiddetti lavori domestici in lavori veri e propri e seriamente professionalizzanti) é stata la prima e forse l’ultima vera innovazione che avrebbe potuto far cambiare volto al sistema penitenziario italiano. Permettetemi di citare Maria Pia Giuffrida, la vera artefice di questa visione. Dieci cooperative in dieci istituti, distribuiti in tutta Italia: abbiamo lavorato sodo e bene per una decade, poi a fine 2014 chi governava e dirigeva le carceri in quel momento ha fatto morire tutto senza un valido motivo. Tali e tanti erano i risvolti positivi (qualità del servizio, grande risparmio economico, vera formazione delle persone detenute con una reale prospettiva esterna, ricaduta positiva su tutta la popolazione detenuta nei dieci istituti coinvolti in termini di qualità della vita e in termini sanitari) che i direttori dei dieci istituti presero carta e penna e scrissero una lettera al capo e al vice capo del Dap, ai sette provveditori coinvolti, più altri direttori generali, invitandoli a non commettere questo grave errore: “L’esperienza, ad avviso degli scriventi, è stata oltremodo positiva come dimostrano i risultati che, di seguito, si prova a sintetizzare…”. A nulla valse quella lettera. Chissà se oggi, di fronte a scelte palesemente sbagliate, dieci direttori firmerebbero una lettera di quel tipo? Sembra quasi impossibile. Ci vorrebbe una grande libertà e quando le persone non si sentono libere di dare il proprio contributo, perché troppo rischioso per la loro carriera, è proprio una grande tristezza! Ma sono state molte le sfide che abbiamo affrontato con tante collaborazioni. Alcune le abbiamo vinte, altre no. L’aver creato e portato ai livelli che oggi tutti conoscono la pasticceria del Due Palazzi, che ora è condotta dalla cooperativa Work Crossing, è solo una delle tante iniziative avviate in Italia e all’estero. Nei primi anni duemila abbiamo aiutato due cooperative romane per il carcere di Rebibbia, come pure abbiamo aiutato la nascita di una cooperativa sociale nel carcere le Capanne di Perugia, purtroppo forzatamente chiusa durante il covid. Come pure un bellissimo progetto per il carcere di Porto Azzurro è fallito nonostante l’enorme impegno del direttore, mentre in Sicilia le cose stanno procedendo piano piano ma bene e questo grazie a tante brave persone che amano il loro lavoro. Il modello Giotto si è fatto comunque strada anche negli Stati Uniti, a Chicago, nella Cook County Jail, un carcere di novemila persone detenute guida dato uno Sceriffo illuminato (cioè professionalmente ed umanamente ricco) e da un imprenditore italo americano, Bruno Abate. E poi abbiamo altri cantieri in Portogallo e in Brasile. Quali i riconoscimenti più gratificanti? Preferirei dire che cosa ci ha aiutato a crescere come persone e come comunità lavorativa. A farci crescere sono stati i problemi e le difficoltà, soprattutto quelle inutili, generate spesso dall’invidia, dall’interesse e dalla ricerca di una visibilità propria invece che del bene comune. Ecco queste sono le circostanze che, quando capitano, possono farti crescere, maturare, perché ti costringono a chiederti: “ma chi me lo fa fare?” O te lo chiedono gli altri: “ma chi te lo fa fare?”. Sono queste le circostanze in cui hai la possibilità di chiederti il senso di quello che fai, perché lo fai, per chi lo fai. Se accetti questa sfida hai la possibilità di crescere sia umanamente che professionalmente: due elementi che quando sono presenti contemporaneamente fanno grande un uomo, un lavoratore. La cooperativa Giotto ha dato lavoro a circa 1200 persone di cui 600 detenuti e oltre 150 svantaggiati. C’è una persona, una storia che ricorda con particolare emozione? In 35 anni di attività con e nel mondo del carcere, ma non solo, sono qualche migliaio le persone a cui abbiamo dato una opportunità lavorativa: più di 1500 le sole persone detenute, come pure le persone con disabilità fisica, psichica e psicofisica. Molte le persone che ricordo e con le quali tutt’oggi esiste un positivo e solido rapporto. Penso a una persona albanese che dopo aver lavorato per dieci anni in pasticceria ha aperto in una città italiana importante una qualificata pasticceria o un ragazzo cinese entrato in carcere poco più che maggiorenne, che oggi gestisce una bella attività in proprio. Sono tantissimi ad avercela veramente fatta, a essersi ricostruiti una vita con modalità regolari e con un sano senso di gratitudine. Di recente è uscito il volume a cura di Vera Zamagni “La Cooperativa Giotto, una normalità eccezionale”. Perché la vostra normalità è eccezionale? Tutto nasce da una frase che tutte le persone (imprenditori, amministratori pubblici, professori, scuole, organizzazioni varie del mondo del lavoro, altre realtà che operano nelle carceri italiane o estere) che venivano in carcere per conoscere le nostre attività, durante la visita oppure alla fine ci dicevano: “che cosa eccezionale che avete fatto”. Ecco non cedere alla lusinga di questa frase montandoci la testa è stata la nostra fortuna perché avevamo capito che in tutto quello che facevamo non c’era niente di eccezionale, stavamo semplicemente applicando il dettato costituzionale (e non solo l’articolo 27) e le normative di settore. Il tutto sembrava eccezionale perché non essendoci più nulla o pochissimo di normale, quando incontri un po’ di normalità ti sembra eccezionale. All’ultima presentazione del libro che è stata fatta a Chioggia ha portato la sua testimonianza anche Claudia Francardi, vedova di Antonio Santarelli, il carabiniere ucciso in servizio, raccontando anche del rapporto che è nato tra lei e Irene Sisi, la madre del giovanissimo autore del reato. Ritiene che i percorsi di riconciliazione rappresentino un’opportunità importante nell’attività rieducativa? Claudia Francardi, Irene Sisi, Margherita Coletta, Agnese Moro, Silvia Giralucci, Gemma Calabresi, Benedetta Tobagi, Fiammetta Borsellino, Gino Cecchettin e una schiera di tantissime altre persone meno note ma altrettanto significative e preziose rappresentano una vera e propria speranza per tutti. A certa politica piace parlare delle vittime salvo poi non aiutarle come si dovrebbe e senza neanche ascoltarle. La cosa che viene più facile è usarle. La differenza è sempre quella che Papa Francesco non smetteva mai di ripetere: “le persone vanno servite, non bisogna servirsene”. Se, sempre a Padova, non fosse nata una realtà come Ristretti Orizzonti, guidata con amore, passione e tanta professionalità, tutte queste esperienze di sofferenza e di significato oggi non ci sarebbero. Riporto una frase che un nostro “vecchio delinquente”, che oggi non c’è più, assieme ad altri nove compagni di sventura scrisse all’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e a Papa Benedetto XVI: “Occorre che pur pagando quello che ognuno di noi deve pagare, ciascuno sia aiutato a guardare a una prospettiva e ricordatevi che, quando ci si rende conto del male fatto, non si vorrebbe più finire di scontare la pena e anche quando la si è finita di scontare, il dolore che rimane nel cuore è grande”. Il bisogno di trovare un senso a quello che è successo è necessario sia per chi ha subito la perdita di una persona cara, sia per chi la persona l’ha uccisa. È un dramma tanto doloroso quanto misterioso a cui occorre stare di fronte con rispetto, senza giudizi sommari o ancor peggio pregiudizi. Dal suo punto di vista di imprenditore nel sociale, quali sono gli ostacoli e le criticità che impediscono un significativo incremento del lavoro in carcere? La prima cosa è la difficoltà di avere interlocutori, tanto nell’amministrazione quanto nella politica, che siano veramente interessati a dialogare e lavorare assieme, per poter costruire. La politica stenta a concepirsi come rappresentante della società civile, delle comunità intermedie, al massimo il cosiddetto Terzo Settore è usato quando serve, per essere poi addirittura ostacolato quando fa troppo “bene il bene”. Parlare di lavoro rischia di diventare uno slogan vuoto: “tutti dovrebbero lavorare”, “se tutti lavorano la recidiva scende a zero” e così via. Si parla di lavoro senza tenere conto del contesto, della realtà, di quale sia la tipologia della popolazione detenuta oggi. Sono persone prevalentemente plurisvantaggiate: con problemi di dipendenza da sostanze, da alcool, da farmaci, da gioco; che vivono un profondo disagio culturale, educativo e sociale; che se non sono invalidi lo diventano, oppure hanno problemi di equilibrio psicologico fino a patologie psichiatriche importanti, o sono stranieri. Dimenticavo - hanno anche infranto la legge, vero. Ma di che cosa stiamo parlando? Una persona che abbia solamente un problema di dipendenza da sostanze stupefacenti dovrebbe fare un lungo percorso in comunità prima di poter iniziare ad affrontare un percorso formativo e lavorativo. In due parole non c’è attenzione e ascolto reale, la realtà non è al centro. Chi sa e ha esperienza non è mai coinvolto sul serio, il confronto e il fare assieme, nei fatti, sono visti come un pericolo e non come la soluzione di molti problemi. Qui, ormai, si manda in sala operatoria a operare il tecnico delle macchinette del caffè. Questo porta inevitabilmente a un non rispetto reciproco tra tutti i soggetti che partecipano al “raggiungimento dello stesso scopo”. Si fa fatica a comprendere che tutti i soggetti in campo, pur avendo ruoli e compiti diversi, hanno pari dignità, che non ce n’è uno più importante dell’altro. Purtroppo il Terzo settore spesso è guardato dall’alto verso il basso (chiaramente non a parole, nei discorsi e negli scritti), è concepito come ospite, come ultima ruota del carro. Quando è il momento di prendere semplici decisioni operative, sparisce e diventa invisibile come se quello che fa e costruisce tutti i giorni non avesse alcun valore. In una parola, lo scopo per cui si fanno le cose, per cui si lavora è ridotto a un lumicino, con l’inevitabile conseguenza che si continua con estrema facilità e disinvoltura a buttare via assieme all’acqua sporca anche il bambino. Alcuni giorni fa un magistrato di sorveglianza affermava che, in qualsiasi lavoro ma in particolare per chi ha la responsabilità del percorso di recupero delle persone, detenuti compresi, se alla professionalità non si unisce una grande umanità è meglio cambiare lavoro. Aggiungo che una giustizia che non sia umana non potrà mai essere una giustizia giusta, anzi, genererà solo altra ingiustizia. Permettetemi di chiudere con una considerazione in merito all’ultimo “Report ufficiale della Corte dei conti 2025”, dove si sottolinea la drammaticità delle condizioni delle carceri. Niente di nuovo sotto il sole. Ricordo, come fosse oggi, la relazione sempre della Corte dei conti del 2014, su “Assistenza e rieducazione dei detenuti”, con un focus sul capitolo 1761 del Ministero della Giustizia. Che cosa è stato messo in pratica? Chi ha verificato che venisse messo in pratica? Ma dirò di più, chi oggi ne è a conoscenza? È veramente una cosa strana, da un lato se non fai una gara tra tre ditte per acquistare una risma di carta per il fotocopiatore rischi il carcere, salvo poi far finta di niente e girarsi dall’altra parte per una parte importante di welfare che riguarda tutta l’Italia. Il nostro è un Paese proprio strano. La Russa e le carceri: “Bisogna intervenire” di David Allegranti La Nazione, 25 maggio 2025 Il sovraffollamento delle carceri va sempre peggio ha detto Ignazio La Russa, che nei giorni scorsi ha pronunciato parole sorprendenti sul tema. Il presidente del Senato, uno dei leader di Fratelli d’Italia, partito non esattamente garantista, sembra aver fatto quasi una scelta di campo: “Ho parlato con il presidente Meloni, che mi ha dato contezza che vi è un progetto preciso da parte di questo governo, che però ha dei tempi, non è che da un giorno all’altro puoi risolvere un problema”. Allora, “il mio convincimento personale - parlo da presidente del Senato e a titolo personale - è che occorra comunque intervenire nell’attesa che il governo possa svolgere il proprio ruolo con un provvedimento di emergenza, se vogliamo chiamarlo così”, ha detto ancora La Russa, che ha incontrato Rita Bernardini, presidente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, e Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva, che ha presentato una proposta di legge sulle carceri. La sortita di La Russa è piaciuta anche agli avvocati, per i quali le parole del presidente del Senato vanno ritenute, “nella loro singolare novità, meritevoli di positivo accoglimento”, ha detto la giunta delle Camere Penali. D’altronde siamo dinanzi a una situazione carceraria disastrosa, che ci riporta indietro agli anni della sentenza “Torreggiani c/Italia” della Cedu, con 62.456 detenuti presenti (al 30 aprile 2025), ben 103 morti in carcere e di carcere dall’inizio dell’anno (30 suicidi e 73 decessi per cause diverse o comunque da accertare) e un tasso di sovraffollamento pari al 133,5 per cento. “Numeri, purtroppo, in aumento che rendono inaccettabile l’inerzia e l’indifferenza attuale”, dice ancora la giunta delle Camere Penali: “Il Parlamento riapra, finalmente, un dibattito, franco e senza pregiudiziali, sulle drammatiche condizioni detentive nelle carceri”. La legalità costituzionale manca da molte parti, anche a Sollicciano, come qualsiasi visitatore - istituzionale e no - può constatare. “Dopo aver percorso i corridoi e le sezioni del penitenziario e averne constatato le condizioni, la chiusura del carcere è l’unica prospettiva che mi pare possibile” ha detto la sindaca di Scandicci Claudia Sereni al termine della sua visita a Sollicciano giovedì scorso. Una proposta non nuova - e di cui ci siamo occupati su queste colonne - che però non terrebbe conto di un fatto: dove finirebbero nel frattempo i detenuti? Il governo ha fatto diversi annunci su Sollicciano, anche di recente dopo la visita del sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove. Ma, ha fatto notare a Novaradio Stefano Cecconi dell’associazione Pantagruel, “i lavori annunciati sono gli stessi già appaltati nel 2023 e poi interrotti. Al di là delle cose roboanti annunciate, siamo sempre al solito punto. A Sollicciano manca l’aria, non funzionano le docce, può mancare perfino lo shampoo e il bagnoschiuma perché il carcere non dà niente”. Per non parlare delle infestazioni di cimici, topi e insetti: “Di disinfestazioni non ne abbiamo viste e essendo terreno paludoso, potete immaginare le zanzare d’estate: l’ambiente è malsano”. Ma le parole di La Russa serviranno a qualcosa o saranno l’ennesima voce di uno che grida nel deserto? Il crimine reale oltre Garlasco di Giancarlo De Cataldo La Repubblica, 25 maggio 2025 Viviamo in un Paese dove si ammazza ogni minuto, il terrore serpeggia nelle strade, e i criminali non solo la fanno franca, ma irridono la giustizia scaricando le colpe su innocenti capri espiatori. È la sensazione che si ricava dal profluvio informativo che ci investe da qualche settimana a proposito del caso di Garlasco. Eppure, ci dice l’Istat che omicidi e delitti gravi sono in costante calo. Nel 2023 (ultimo dato rilevato) ne sono stati commessi 334: trent’anni prima erano quasi duemila. Da molti anni la media degli omicidi commessi colloca l’Italia sul podio dei paesi europei più sicuri. Ci dice altro, l’Istat. Ci dice che la percentuale dei casi risolti sempre nel 2023 - è del 90% (299 su 334), con picchi del 95,7% quando vittima è una donna, e dell’86% quando ci si muove in ambito di criminalità organizzata. La statistica ci spiega dunque che l’Italia è un paese dove si ammazza sempre di meno, e nella stragrande maggioranza dei casi i colpevoli finiscono in galera. Il dibattito intorno a Garlasco fornisce, invece, indicazioni opposte, elevando quel caso a emblema dello stato catastrofico della nostra giustizia. Qui le possibilità sono due: o le statistiche mentono, e non è vero che nove casi su dieci di omicidio si risolvono, quindi siamo al cospetto di una vicenda di numeri ingannevoli, o le statistiche sono veritiere, e falso è l’assunto che le cose vadano così male. Ci sono molte cose che non funzionano, nel nostro sistema, ma non è un certo un omicidio irrisolto su dieci la cartina di tornasole. Piuttosto, nell’osservare il morboso interesse su questa nuova indagine, si è autorizzati a concludere che la questione sostanziale - qual è la verità? - sia molto rilevante per i diretti interessati - il condannato, l’attuale indagato, gli inquirenti, i difensori, la famiglia della vittima - ma fondamentalmente marginale per molti, troppi altri. I temi alla ribalta sono evidentemente diversi. Un aspetto riguarda la sovrabbondanza. Ore di trasmissione dedicate a questo (e anche a tanti altri casi di cronaca nera) costituiscono un eccellente diversivo rispetto a questioni complesse e contraddittorie di altra natura, per non parlare della tumultuosa fase storica che stiamo vivendo. Il macabro della scena del delitto può giocare un duplice ruolo: distrarre da altre tematiche, come suol dirsi, “divisive”, e offrire un paradigma narrativo persino rassicurante, intessuto di inquietudini più concrete e riconoscibili rispetto a una guerra o una crisi economica sulla quale nessuno di noi è in grado di intervenire. Un altro tema riguarda la costante delegittimazione della magistratura. Qualcuno ha sintetizzato brillantemente la situazione nei seguenti termini: se Stasi è innocente, è stato commesso un tremendo errore giudiziario, e dunque siamo di fronte a una débâcle della giustizia. Ma anche se dovesse essere confermata la responsabilità di Stasi si sarebbe commesso un tremendo errore giudiziario, trascinando nel fango cittadini incolpevoli, e dunque saremmo di fronte a una débâcle della giustizia. Da qui. la conclusione, tratta da altri commentatori, che, comunque vadano le cose, alcuni colpevoli sono certi: i magistrati. Sia che abbiano condannato sbagliando, sia che si sbaglino riaprendo oggi l’inchiesta. Questa ultima tendenza interpretativa, del resto, cade stranamente in coincidenza quasi perfetta con i lavori parlamentari in tema di decreti sicurezza e separazione delle carriere, leggi che vedono la magistratura contrapposta alla politica. Il mantra che, espressamente o tacitamente, si leva datanti talk di approfondimento, è di palese leggibilità: non solo questi (i magistrati) non sanno fare il loro mestiere, ma si mettono sempre per traverso quando si cerca di difendere (da loro) i cittadini. Quindi, qualunque cosa facciano, non fidatevi. Per quanto sia arduo, in questo clima, occorrerebbe mantenere lucidità, e continuare a sperare nella giustizia. Il sillogismo della sfiducia potrà essere ribaltato solo se e quando l’inchiesta sarà conclusa. Potremo allora dire: se Stasi risulterà innocente, bene si è fatto a scagionarlo. Se si confermerà colpevole, bene si fece a condannarlo a suo tempo. Il “decreto paura”, giornate decisive per l’opposizione di Giuseppe Allegri Il Manifesto, 25 maggio 2025 Alla Camera approda il disegno di legge di conversione del decreto sicurezza: si dovrebbe utilizzare il poco tempo ancora a nostra disposizione per tentare l’intentato. Il decreto legge “sicurezza” potrebbe essere convertito proprio a ridosso dei referendum dell’8 e 9 giugno, ma naturalmente è già in vigore in quanto “provvisorio” provvedimento governativo con forza di legge che può essere adottato solo “in casi straordinari di necessità e urgenza”. Il contenuto è rimasto quello del disegno di legge che da oltre un anno era oggetto di dibattito parlamentare, criticato e contestato dall’opposizione parlamentare e da quella sociale, radunata nella rete “A pieno regime”: dall’Arci ai movimenti studenteschi, dagli scout all’associazionismo diffuso, agli spazi sociali, ai sindacati. Erano i primi di aprile, a ridosso del congresso della Lega, quando il governo ha deciso di esautorare il parlamento e adottare il decreto per accontentare il partito di Salvini che da tempo rivendicava maggiori interventi penali e contro l’immigrazione. Qualche acuto osservatore manifestò il dubbio che il requisito costituzionale per adottare il decreto - quei “casi straordinari di necessità e urgenza” - fosse da rintracciare proprio nell’urgente necessità di legittimare il congresso leghista. Domani il disegno di legge di conversione del decreto approderà alla Camera, dove si presume ancora un deciso, quanto inutile, ostruzionismo delle minoranze parlamentari, sostenute dalla piazza. Anche facendo leva sull’appello di oltre 250 docenti universitari di diritto pubblico riguardo i “gravissimi motivi di incostituzionalità”, formali e sostanziali, presenti nel testo. Il punto critico sta proprio nell’intervento sull’allarme sociale riguardante la condizione di insicurezza percepita e vissuta dalle persone impaurite e impoverite, con un abuso di giustizialismo penale verso tutte le forme di dissenso e contro la parte più marginale delle nostre affaticate e rancorose società. Il decreto “sicurezza” sacrifica infatti qualsiasi dialogo e mediazione per introdurre una dozzina di nuovi reati, con l’aggravamento di fattispecie già previste verso soggetti che rischiano di delinquere in (seguito al trovarsi in) condizioni di vulnerabilità o fragilità sociale, colpendo l’accattonaggio dei mendicanti, la condizione di migranti e senza fissa dimora, quindi aumentando misure cautelari e detentive per “donne incinte o madri di prole di età inferiore a un anno o a tre anni” che delinquono. Con l’obiettivo di intervenire contro reati certamente odiosi come scippi e rapine, utilizzando però una sorta di diritto penale dei marginali, alla ricerca mediatica e immediata di una pena detentiva dal sapore di vendetta nei confronti di quella microcriminalità diffusa, da dare in pasto all’avvelenata comunicazione social. Il decreto prosegue inasprendo le pene anche contro chi manifesta pubblicamente e pacificamente il proprio dissenso e contro forme di protesta non violente e soggettivamente faticose come la resistenza passiva in un eventuale sciopero della fame negli istituti penitenziari, o nei centri di trattenimento per migranti. Così, “in nome della (tanto sbandierata) sicurezza si finisce per creare maggiore marginalità e, di conseguenza, più insicurezza per la collettività. Un esempio paradigmatico di populismo penale e di ricorso allo strumento penale ispirato alla logica amico/nemico ed al diritto penale del nemico”, per citare le parole utilizzate da Ivan Salvadori, docente di diritto penale presso a Verona, ospitate in un articolo pubblicato nella storica rivista Polizia e Democrazia (n. 1/2025). Da sempre su quelle pagine si nota come la previsione di autorizzare i circa 300mila agenti di pubblica sicurezza, quando non sono in servizio, a portare senza licenza alcune tipologie di armi, anche diverse da quelle in dotazione, “possa incrementare l’insicurezza pubblica”, visto che queste armi potrebbero finire in mani sbagliate (per furti, incidenti domestici…), o alimentare il rischio di una giustizia fai da te, con un uso illecito o pericoloso da parte degli stessi agenti. Siamo quindi dinanzi a un decreto che sembra coniugare una mentalità da giustizieri law and order con una sorta di “diritto penale della paura”, in un quadro di populismo securitario più orientato a una fuorviante campagna comunicativa permanente che alla promozione di una reale incolumità e sicurezza pubblica in favore dell’intera cittadinanza. Una problematica in parte segnalata da una persona di grande esperienza nella gestione dell’ordine pubblico, come Franco Gabrielli, ex capo della polizia di stato, quando affermò di non condividere molte delle scelte del ministro dell’interno Piantedosi “che hanno un’impronta eccessivamente securitaria, come questa proliferazione dei reati e di inasprimento delle pene, peraltro in un sistema nel quale ormai siamo al collasso”. Si tratta di critiche provenienti da mondi e soggetti con grande esperienza e impegno nella promozione di un autentico ordine pubblico repubblicano e democratico, capace di bilanciare libertà e sicurezza, eppure non riescono a trovare cittadinanza nel dibattito intorno alla conversione in legge di questo decreto, soffocato dalla maggioranza di governo. Per questo si dovrebbe utilizzare il poco tempo ancora a nostra disposizione per tentare l’intentato: tornare a far dialogare la garantistica visione di una democrazia costituzionale per la sicurezza sociale, con il protagonismo di quella porzione di società attiva per l’estensione di diritti, libertà e doveri di solidarietà politica, economica e sociale, che la nostra Costituzione repubblicana promuove tra i principi fondamentali. Prima che sia troppo tardi e che il “decreto paura” divenga legge dello stato, rendendoci tutti ancora più insicuri e incattiviti. Giustizia, l’Anm alza la voce: “No alla riforma, mina il ruolo della magistratura” di Antonio Marvasi La Discussione, 25 maggio 2025 Il Presidente nazionale dell’Anm Cesare Parodi interviene con fermezza contro la riforma della giustizia promossa dal governo, denunciando un attacco ai principi fondanti dell’ordinamento giudiziario. Lo fa dal Palazzo di Giustizia di Palermo, dove si è tenuto il comitato direttivo dell’Associazione Nazionale Magistrati. “Abbiamo incontrato il Presidente Meloni, il Ministro Nordio e i rappresentanti dei gruppi parlamentari: in questi incontri abbiamo ribadito il nostro assoluto dissenso nei confronti di questa riforma”, ha dichiarato Parodi. Non giova all’efficienza della giustizia, ma vuole semplicemente inserire etichette ideologiche che non condividiamo su ciò che la magistratura rappresenta nel sistema italiano”. Il Presidente dell’Associazione nazionale magistrati ha parlato di un dialogo istituzionale difficile, segnato da posizioni diametralmente opposte: “Il governo vuole andare fino in fondo, senza aprirsi né all’Anm né al dibattito parlamentare”, ha sottolineato Parodi, evidenziando come l’impostazione attuale rischi di alimentare una visione distorta del ruolo del magistrato. Errori giudiziari - Tra i temi più sensibili affrontati, anche quello degli errori giudiziari, spesso al centro del dibattito pubblico: “È un concetto semplice da comunicare, ma molto più complesso da analizzare. Un errore può essere del tutto incolpevole, frutto di dinamiche investigative e processuali complesse”, ha precisato Parodi. “Parlarne senza cognizione crea solo confusione e danni nella percezione dell’opinione pubblica”. Il Presidente dell’Associazione ha accusato una parte della comunicazione politica e mediatica di alimentare narrazioni semplicistiche: “Si fa torto alla ricerca della verità. Spesso si definisce errore ciò che non è ancora risposta definitiva, oppure si travisano i tempi della giustizia per finalità comunicative precise. È una strategia che va contrastata”. Parodi ha poi fatto il punto sulle condizioni operative della giustizia italiana, denunciando un’emergenza strutturale che attraversa l’intero Paese: “Non è un problema solo siciliano, ma che investe Piemonte, Veneto, Calabria. I problemi sono ovunque e sono il frutto di scelte politiche sbagliate che si trascinano da anni”. Scontro sui limiti alla libertà di espressione - In particolare, ha puntato il dito contro la cronica mancanza di personale amministrativo: “Abbiamo armadi pieni di fascicoli che non riusciamo a far arrivare ai cittadini e agli avvocati. Questo rallenta il lavoro e mina la fiducia nel sistema. E non possiamo supplire noi a queste mancanze, per legge”. Infine, un passaggio carico di significato simbolico e politico: Parodi ha contestato con forza l’ipotesi di una modifica dell’ordinamento disciplinare che potrebbe limitare la libertà di espressione dei magistrati: “Se verrà introdotto il divieto di esprimersi su questioni legate alla giustizia, sarò il primo a violarlo pubblicamente e ad autodenunciarmi al Csm. La magistratura associata non fa opposizione politica: difende dei principi fondamentali. Se anche questo diventerà illecito, me ne assumerò la responsabilità”. Giustizia, la grande scommessa del Pnrr tra risorse e obiettivi di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2025 Fari puntati su standard e uniformità del servizio e sul buon uso dei fondi. Il Pnrr della giustizia è una grande scommessa che ha raggiunto - e riuscirà a completare entro il giugno del 2026 - un buon numero di target, ma i problemi di fondo restano gli standard e l’uniformità del servizio erogato, il buon utilizzo dei (cospicui) investimenti e, soprattutto, il cambiamento delle “abitudini” giudiziarie in gioco. Il panel sul pianeta giustizia, versante riforme, al Festival dell’economia mette in trasparenza un mondo complesso - non solo per ragioni geografiche - e una correlata difficoltà nella lettura dei dati a un anno dalla scadenza dei maxi prestiti/finanziamenti Ue. Secondo Claudio Castelli, già presidente della Corte d’Appello di Brescia, “il civile sta velocemente cambiando pelle. Aumentano le cause di lavoro, quelle previdenziali, la protezione internazionale (dal 30 al 40% delle pendenze), e la cittadinanza: 100mila cause, cioè 1/15 del totale. La contrattualistica oggi vale solo il 15% del contenzioso”. Ricette post Pnrr? “Mantenere i giudici ausiliari in appello dopo ottobre, stabilizzare l’ufficio del processo e rinegoziare con l’Ue partendo dal decreto ingiuntivo che non è compreso nei parametri Pnrr: per noi è attività giurisdizionale, ma non per l’Ue, e solo questo metterebbe già a posto i target”. Il panprocessualismo resta il problema per Fabio Pinelli, vicepresidente del Csm: “L’idea che la sede di risoluzione del conflitto sia solo la giurisdizione è superata, vedi l’evoluzione della crisi di impresa. I tribunali sono come le lavatrici, oltre il carico previsto non si può andare: non lavano più. E poi: quanti saremo nel 2050? Quale sarà il fabbisogno di giustizia? Urge ragionare in prospettiva, anche fuori dall’urgenza”. Per Cristiano Caumont Caimi, avvocato tributarista, “le Corti di giustizia tributaria sono veloci nel decidere, il problema è la qualità delle sentenze che si vede drammaticamente dal numero di ricorsi in Cassazione. Gli effetti della riforma saranno positivi, ma si vedranno solo a regime dopo il 2030, con la trasformazione dell’organico togato in professionale”. Via d’uscita obbligata per la crisi del penale, dice Vittorio Manes, “è il taglio delle 34mila fattispecie incriminatrici, che oltretutto riducono gli spazi di libertà individuale”. Mentre per Francesco Greco, presidente nazionale degli avvocati, “l’efficienza non è solo abbreviare i termini, ma tutelare le vittime. E il problema in Italia non è l’ammontare dei finanziamenti, ben sopra la media Ue, ma il loro utilizzo”. Dalla strage di Capaci è cambiato tutto, tranne la retorica: una bella cerimonia e tutto torna come prima di Sergio Lima* Il Fatto Quotidiano, 25 maggio 2025 Oggi non ci servono martiri per svegliarci, ma più semplicemente il coraggio di vivere con dignità. Di denunciare. Di schierarsi. 33 anni. 12.053 giorni. È il tempo che ci separa da quel sabato 23 maggio 1992. Da quel sabato pomeriggio in cui tutto è cambiato. Anzi, da cui nulla è cambiato. E non serve scomodare - di nuovo - la citazione più abusata della letteratura sulla Sicilia. Certo, è cambiata la moneta. Sono cambiati i nomi degli aeroporti, delle piazze, delle strade. È cambiata persino la tonalità delle sirene, che quel pomeriggio tagliavano l’aria insieme agli elicotteri. E che avrebbero fatto lo stesso appena due mesi dopo. Sono cambiate le facce, i partiti, le sigle. Abbiamo visto scomparire la Prima Repubblica, nascere la Seconda, sprofondare nella Terza. O forse nella quarta. O magari perdere pure il conto. Sono cambiati i cellulari, le auto, i modi di parlare, forse anche la lingua che usiamo. Ma una cosa non è mai cambiata: la voglia di seppellire. In pompa magna e con tutti gli onori, sia chiaro. Seppellire Giovanni Falcone. E con lui Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Seppellirli sotto corone d’alloro e bande musicali che suonano le note del silenzio. Come se non ve ne fosse stato già abbastanza. Seppellire con tutta la retorica dello Stato - e delle fasce tricolori e le alte uniformi - che onora i suoi servitori. Meglio quando sono morti. Perché la memoria, se svuotata del conflitto, diventa cerimonia. E la cerimonia è rassicurante. Addomestica il dolore. Sterilizza la rabbia. La rabbia autentica di quelle giornate. La rabbia di una città che non voleva morire tra miseria, disoccupazione, emarginazione e pallottole e autobombe. Così, ogni 23 maggio, si recita una liturgia salvifica. E chiariamolo, non recitano i ragazzi e le ragazze, la cosa forse più bella e viva, che scendono dalle navi e attraversano le vie di Palermo come stazioni di una via crucis. La liturgia è celebrata da uno stato che onora il sacrificio, piange il martirio, recita il copione. E poi tutto torna al suo posto. Un sistema stato che non protesse in vita Falcone e Borsellino - e prima di loro Costa e Terranova e Giuliano e Cassarà e Basile e Montana e Chinnici e tanti, troppi, uomini colpevoli di fare bene il proprio lavoro - oggi si presenta con il vestito impeccabile alle commemorazioni. Ma lascia sepolte le domande. Quelle vere. Quelle scomode. Come se la morte di Falcone bastasse a mondare i peccati di ieri, di oggi, di domani. Nel racconto ufficiale, la mafia è diventata un’ombra. Non fa più paura. Non uccide più. Non spara più. Non è più un problema. Sono rimasti solo “i residui”. I vecchi. I superstiti. Quelli che, arrestati, hanno facce contrite e avvizzite e non il ghigno spavaldo e sfidante delle immagini del blitz di San Michele negli anni 80. Ma questa è una bugia comoda. Una favola per bambini cresciuti. La mafia non è finita. Si è solo adattata. Il suono di sirene e pistole è, oggi, sostituito da quello delle banconote o dei server che gestiscono le monete elettroniche e le criptovalute. A Trapani, le inchieste scoperchiano ancora intrecci tra mafia, politica e affari. L’operazione “Scrigno” ha portato alla condanna dell’ex deputato Ruggirello. A Custonaci, Castellammare, Valderice, Alcamo emergono nuove mappe di potere. E nelle altre province non va certo meglio. Sotto il tappeto non c’è la polvere: c’è il sistema. Negli ultimi cinque anni, 19 comuni siciliani sono stati sciolti per mafia. Altri lo saranno. E ancora oggi, si va dal boss a chiedere un favore. Un lavoro. Un prestito. Un locale da affittare. Il recupero di un credito o l’autorizzazione per aprire una rosticceria. Si chiede al capomafia ciò che non si chiede allo Stato. Intanto la Sicilia ha un tasso di abbandono scolastico doppio rispetto alla media europea. A Catania, a Palermo, e c’è da giurarlo anche a Messina e ovunque, è più facile trovare una pistola che un contratto di lavoro. Gli stessi ragazzini che abbandonano la scuola si esibiscono in video virali con pistole e coltelli alle corse clandestine dei cavalli sulle tangenziali delle città. Le estorsioni aumentano. Le denunce calano. Le imprese rischiano: oltre 13.000 sono a rischio infiltrazione, ci dice la CGA di Mestre. I beni confiscati, in molti casi, sono ancora nelle mani delle cosche. E allora, la domanda non è “Chi ha ucciso Falcone?” ma “Chi sta tradendo Falcone ogni giorno?”. Falcone ci aveva indicato una via: seguire i soldi. Perché dove ci sono soldi, c’è potere. E dove c’è potere, c’è la mafia. La mafia che non ha più bisogno del tritolo e ancor meno bisogno del sangue. La mafia che oggi indossa giacca, cravatta e parla di appalti, di energia, di logistica. Le bombe hanno fatto rumore. Ma oggi mi pare più forte il rumore del silenzio. Che uccide più lentamente. Oggi non ci servono martiri per svegliarci, come ci svegliammo tra cortei furenti che chiedevano risposte e verità e lenzuoli intrisi di vernice e sangue appesi ai balconi. Ci serve, più semplicemente, il coraggio di vivere con dignità. Di denunciare. Di schierarsi. Di non dimenticare. Di non relegare la memoria alla commemorazione. Affinché dopo 12.053 giorni si smetta di onorare i morti solo da morti, e si cominci ancora di più ad onorarne la vita. La vita che scelsero e che vissero. E magari così onorare anche la nostra. *Direzione nazionale Pd Barcellona Pozzo di Gotto (Ms). Detenuto 20enne si uccide in cella di isolamento di Leonardo Orlando Gazzetta del Sud, 25 maggio 2025 In precedenza avrebbe compiuto atti di autolesionismo e, con due compagni, danneggiamenti e intemperanze. Suicidio nella notte di ieri, intorno all’una, il secondo in poco più di due mesi all’interno del carcere. Un giovane detenuto si è impiccato, in una cella di isolamento, la numero quattro del terzo reparto nella quale era stato trasferito alcune ore prima, intorno alle 16,30 di venerdì. Per togliersi la vita ha utilizzato un lenzuolo che nel corso della nottata avrebbe legato all’inferriata della finestra. È morto così il giovane poco più che ventenne di nazionalità tunisina che fino al precedente pomeriggio aveva condiviso la cella con altri due detenuti stranieri. A dare l’allarme il personale in servizio notturno del reparto che, intorno all’una, tra venerdì e ieri, hanno rinvenuto il corpo senza vita. Il giovane, prima di finire verso le 16,30 di venerdì in una cella in isolamento del terzo reparto destinato ai detenuti della casa lavoro, avrebbe compiuto un atto di autolesionismo ferendosi alle braccia, tanto che è stato necessario ricorrere al suo trasferimento nella infermeria del terzo reparto dov’è stato medicato. In mattinata, lo stesso detenuto aveva manifestato segni di agitazione, dando luogo a comportamenti violenti insieme ad altri due compagni di cella. I tre avrebbero danneggiato arredi nella cella numero 15, rendendo necessario un primo trasferimento all’interno dello stesso reparto. Durante l’ora d’aria nel cortile, i tre detenuti avrebbero poi avuto una reazione aggressiva nei confronti di altri carcerati, situazione che ha rischiato di sfociare in una rissa. A quel punto, il giovane tunisino è stato collocato in isolamento, dove poi, nel corso della notte, ha compiuto il gesto estremo. Il ragazzo era stato trasferito solo da pochi giorni al carcere di Barcellona, nell’ambito dello “sfollamento” di detenuti dal carcere di Borgo San Nicola di Lecce, uno dei più affollati della Puglia, che di recente aveva vissuto forti tensioni e proteste da parte del personale per le difficili condizioni di lavoro. La salma è stata posta sotto sequestro in attesa dell’autopsia, disposta dalla Procura di Barcellona, guidata dal procuratore Giuseppe Verzera. Bologna. “Pratello choc? C’è chi pensa che meritino di vivere così” di Micaela Romagnoli Corriere di Bologna, 25 maggio 2025 Domenico Cambareri è il parroco dell’istituto minorile. “Mi sono accorto che il mio sguardo si era abituato alla bruttura”. La denuncia dell’associazione An ti g on esull ostato di abbandono dell’Istituto penale minorile di Bologna ha scosso anche il “prete di galera”, don Domenico Cambareri, parroco a San Giovanni Battista di Trebbo di Reno e da cinque anni cappellano al Pratello. “Ragazzini che vivono in mezzo alla spazzatura”, si legge nella descrizione di Susanna Marietti, presidente di Antigone. “Mi sono accorto che il mio sguardo si era abituato alla bruttura”. La denuncia dei giorni scorsi dell’associazione Antigone sullo stato di abbandono dell’Istituto penale minorile di Bologna ha scosso anche il “prete di galera”, don Domenico Cambareri, parroco a San Giovanni Battista di Trebbo di Reno e da cinque anni cappellano al Pratello. “Ragazzini che vivono in mezzo alla spazzatura”, si legge nella descrizione di Susanna Marietti, presidente di Antigone. È proprio così? “Sì. Lei ha il polso di tanti istituti minorili in Italia. Il nostro ha raggiunto una trasandatezza ormai strutturale. Per impulso del Dipartimento l’altro giorno è venuta un’agenzia di pulizie a fare una bonifica straordinaria di tutti gli ambienti”. Come è possibile ridursi così? “Mi spiace molto perché io lavoro lì dentro, quindi mi sento anche responsabile, non mi tiro fuori. Ma vorrei si evitasse la ricerca del capro espiatorio immediato negli operatori che si barcamenano senza risorse, con tanto detenuti in più e casi clinici, psichiatrici difficili da gestire”. Le cause? “Quella più diretta è l’aumento dei ragazzi senza avere previsto il potenziamento del personale e delle proposte educative, inclusa l’educazione alla cura degli spazi. Gli operatori hanno tantissimo tempo occupato in burocrazia e poco ne resta per la dimensione educativa. Oggi al Pratello ci sono 45 ragazzi, qualche settimana fa erano addirittura 60. Cinque anni fa erano 20. La situazione è molto cambiata. La radice è in uno Stato che ha deciso: li arrestiamo e li chiudiamo. Poi c’è anche una causa ideologica”. Ci spieghi… “Le sento alcune persone commentare: “E’ una galera, che stiano nella loro merda”. Invito a immaginare i nostri figli in quelle situazioni disumane. Siamo di fronte a un cinismo sociale adulto che se la prende con questi ragazzi. Molti al Pratello sono minori stranieri non accompagnati, la comunità più abbandonata dall’Occidente”. Passano gran parte del tempo in cella? “Sì, nell’attesa di fare qualche attività. Credo che si debba investire tantissimo nell’ingresso dei volontari, fare in modo che la città abbia voglia di mettersi accanto a questi ragazzi. Inoltre, si dovrebbero favorire attività professionali serie, che occupino tutti i ragazzi e non soltanto una piccola parte. Perché il tema lì è il non fare nulla”. E la scuola è presente? “Sì, ma meno della metà la frequenta”. Perché? “Intanto dipende dalla volontà del ragazzo. E se gli educatori sono alle prese con troppe incombenze burocratiche, non riescono a prendere da parte ciascun ragazzo, ascoltarlo, mediare, convincerlo a studiare. Ricordiamoci che sono adolescenti e non è che la scuola sia in cima ai loro pensieri; per di più sono adolescenti con enormi problematiche affettive, segnati da storie di abbandono”. In un contesto così recuperarli è ancora più difficile… “Esatto. Noi come società di adulti (perché il carcere ci riguarda tutti) abbiamo contribuito a costruire un luogo orrendo, che sta dicendo ai ragazzi “voi meritate questo, voi siete questo e quando uscirete sarete sempre quello squallore”. Si deve ritrovare lo slancio, la fatica di educare i ragazzi”. Ogni giorno quando entra al Pratello qual è la sua missione? “Mi dedico al dialogo, perché hanno un’enorme voglia e bisogno di essere ascoltati e di parlare. Quando esco da lì, se mi hanno raccontato di loro, se si sono sfogati, anche tranquillizzati, sento di aver svolto parte della mia missione. E di aver creato un canale che può avere possibilità future; cerco sempre di sognarli fuori”. Non perde la speranza? “Per me la speranza è nei ragazzi stessi; devo ancora incontrare i mostri che ci vogliono far credere esistano”. Chiedono perdono? “È un processo lungo e complesso. La prima fase è ancora un sentimento egoistico. Poi percepiscono di aver fatto del male alla loro famiglia, alle madri in particolare, perché i padri nelle loro storie non ci sono, pochi, assenti, scappano. Alla fine, arriva il pensiero alla vittima”. Cosa pensa della sezione minorile trasferita alla Dozza? “L’auspicio è che chiuda presto. Un carcere pensato per gli adulti non può essere il posto adatto ai minori. Mi auguro che gli investimenti sull’edilizia carceraria possano essere usati invece per comunità aperte, serie, e molto esigenti. Questo non significa giustificare i ragazzi, la prima vera punizione è l’educazione”. Palermo. Delmastro in visita all’Ucciardone: “Interventi rapidi entro questo mese” palermotoday.it, 25 maggio 2025 Con lui anche il capogruppo di Fratelli d’Italia in Commissione Giustizia alla Camera, Carolina Varchi: “Grazie a un mio ordine del giorno le strutture penitenziarie situate all’interno dei centri urbani, come il carcere palermitano, verranno progressivamente dismesse per fare spazio a nuovi istituti, più moderni e sicuri, realizzati in aree periferiche”. “Per il sistema delle carceri abbiamo messo a disposizione una cifra ciclopica mai vista prima, per recuperare le carenze di organico spaventose ereditate da chi prima di me ha fallito la sua missione”. Lo ha detto il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove che oggi, a Palermo, ha effettuato una visita ispettiva al carcere Ucciardone, insieme al parlamentare e responsabile nazionale per le Politiche del Mezzogiorno di Fratelli d’Italia Carolina Varchi e al senatore Raoul Russo, componente della commissione nazionale antimafia. “Abbiamo condiviso - ha aggiunto Andrea Delmastro - le dotazioni di forze di polizia che abbiamo messo in campo e gli interventi per oltre 255 milioni sull’edilizia penitenziaria, con grande condivisione delle sigle sindacali e degli uomini e donne della polizia penitenziaria. Poi - ha aggiunto - abbiamo parlato anche di problemi relativi all’Ucciardone rispetto al quale avremo interventi rapidi entro questo mese”. Il capogruppo di Fratelli d’Italia in Commissione Giustizia alla Camera, Carolina Varchi, a margine della visita ispettiva svolta questa mattina insieme al sottosegretario alla Giustizia, ha dichiarato: “Contro l’ipocrisia delle sinistre che sanno parlare solo di provvedimenti svuota-carceri, noi osserviamo, ascoltiamo e pensiamo soluzioni strutturali per risultati a lungo termine. Abbiamo ascoltato chi in carcere lavora occupandosi della sicurezza e del trattamento dei detenuti. Conosciamo la vetustà di alcune strutture come l’Ucciardone e stiamo lavorando. Grazie a un mio ordine del giorno, approvato dal Governo e in corso di attuazione ad opera del commissario straordinario edilizia penitenziaria, le strutture penitenziarie situate all’interno dei centri urbani, come il carcere Ucciardone, verranno progressivamente dismesse per fare spazio a nuovi istituti, più moderni e sicuri, realizzati in aree periferiche. Si tratta di un passo fondamentale per affrontare in modo concreto il problema del sovraffollamento carcerario e migliorare le condizioni di sicurezza. Con la destra al governo l’esecuzione della pena rimane una certezza e le poderose assunzioni degli ultimi due anni sono il segno di aver intrapreso la strada giusta anche con un proficuo confronto con tutti i sindacati della penitenziaria”. Queste invece le parole di Raoul Russo, deputato di Fratelli d’Italia e componente della commissione antimafia, al termine della visita: “Una struttura storica che ha diverse criticità che sono state affrontate dal sottosegretario Delmastro verificando lo stato dei luoghi, questo sia interloquendo con i principali operatori delle forze di polizia penitenziaria, che sono i primi garanti della sicurezza e dei diritti dei detenuti, quando possono lavorare in condizione adatte. Il sottosegretario - ha aggiunto Russo - ha promesso il suo impegno sia in termini infrastrutturali che generali. Un carcere che necessità di interventi importanti. La sezione nona sarà particolarmente oggetto di interventi corposi nei prossimi mesi - ha spiegato il senatore -. Ci troviamo in un carcere in centro città e si dovrà fare attenzione in modo speciale dal dipartimento di giustizia”. Palermo. Apprendi: “Da Delmastro nessuna parola sulla sofferenza dei detenuti” livesicilia.it, 25 maggio 2025 L’intervento del Garante dei detenuti. “Apprendiamo del grande impegno del governo per le carceri siciliane, da parte del sottosegretario Delmastro, quello che gioiva nel pensare alla sofferenza dei detenuti nel nuovo mezzo di trasporto della polizia penitenziaria. Sì proprio lui che all’uscita dall’Ucciardone promette nuovi carceri e fuori dal centro abitato. Per noi il carcere è un pezzo di città, dove vivono persone che dovrebbero ricevere un trattamento rieducativo. Sarebbe stato interessante che oltre a rassicurare il personale della polizia penitenziaria, sotto organico e sotto dimensionato, di nuovi provvedimenti da scoprire nel prossimo futuro avesse riferito qualcosa sulle condizioni di vita che svolgono i detenuti della nona sezione. Dove non c’è mai stata ristrutturazione e dove si vive in condizioni disumane, una sezione che qualsiasi ufficiale sanitario chiuderebbe”. Lo dice il garante dei detenuti di Palermo Pino Apprendi. “Purtroppo gli agenti sono l’ultimo anello della giustizia. E spesso affrontano da soli le criticità che si creano con i detenuti. Avremmo gradito anche sapere cosa pensa della sanità che viene offerta ai ristretti dai pochi medici e infermieri, al vitto quotidiano alle opportunità di lavoro - aggiunge Apprendi -. Nulla di tutto questo, ma non potevamo aspettarci altro”. Parma. I Radicali in sciopero della fame per i diritti dei detenuti e contro il Decreto Sicurezza parmatoday.it, 25 maggio 2025 Luca Marola, storico militante radicale: “Io digiunerò il 28 maggio alla vigilia dell’udienza conclusiva il processo contro la cannabis light in cui sono il principale imputato”. Da lunedì 26 maggio a rotazione ogni ventiquattro ore, i militanti di Radicali Parma digiuneranno per sollecitare una risposta urgente al dramma del sovraffollamento carcerario e per sostenere la proposta di legge Giachetti, che rappresenta una riforma strutturale e necessaria del sistema penitenziario. La loro azione nonviolenta si inserisce nell’ambito dell’iniziativa nazionale promossa dall’associazione Nessuno tocchi Caino. La proposta prevede l’ampliamento delle misure alternative alla detenzione, il riconoscimento pieno del diritto alla salute delle persone detenute, e il rilancio della funzione rieducativa e costituzionale della pena. Oltre alla questione carceraria, l’iniziativa denuncia anche gli effetti devastanti del Decreto Legge Sicurezza, che compromette diritti fondamentali, aggrava le condizioni nelle carceri, colpisce il dissenso e i più fragili e rende illegale l’intera filiera della canapa industriale. Valeria Di Cosmo, segretaria di Radicali Parma, sottolinea: “La politica deve avere il coraggio di affrontare con lucidità e responsabilità la questione carceraria. Non si può più rimandare una riforma che riguarda la tenuta democratica del Paese e la credibilità delle istituzioni. Chiediamo l’estensione delle misure alternative alla detenzione, investimenti concreti nella salute e nella funzione rieducativa della pena, e la revoca immediata di normative che aggravano il sovraffollamento e violano principi costituzionali”. “Io digiunerò il 28 maggio - aggiunge Luca Marola, storico militante radicale - alla vigilia dell’udienza conclusiva il processo contro la cannabis light in cui sono il principale imputato. Perché quanto capitato a me, col Decreto Sicurezza, non capiti a tutti i miei colleghi italiani”. Con questo sciopero della fame e con l’adesione alla campagna di Nessuno tocchi Caino, i radicali di Parma chiedono alle istituzioni di smettere di ignorare il grido che proviene dalle carceri italiane, e di assumere con coraggio il compito di riconnettere la giustizia con l’umanità, la sicurezza con i diritti, la legge con la Costituzione. Lecce. La ricchezza del volontariato carcerario, anche a Borgo San Nicola di Rossella Barletta portalecce.it, 25 maggio 2025 Non passa giorno che i volontari, in ogni parte del Paese e in qualsiasi settore impegnati, specialmente in occasione di eventi di estrema necessità, non dimostrino quanto la loro presenza sia diventata importante e indispensabile. Ormai sono paragonati agli angeli custodi, in grado di compiere miracoli ovvero di colmare le profonde criticità che spesso presentano le istituzioni pubbliche. Figurarsi quando il “fronte bellico” si trova all’interno di strutture che, per definizione, sono luoghi dove non è proprio semplice o agevole la gestione interna, l’organizzazione, l’applicazione del regolamento, com’è in una casa circondariale, quella di Borgo San Nicola a Lecce, al giorno d’oggi. Qui, ogni contributo apportato dai volontari, è veramente salvifico e, visto dall’esterno, pare contenere i contorni di un intervento prodigioso. Chi ne è l’artefice principale, si può intuire, non raggiunge dal nulla e facilmente il traguardo prefissatosi perché, da una parte si richiede abnegazione e determinazione nel proporre una sia pure ovvia regola di serena convivenza (seppure episodica), dall’altra è indispensabile sfoderare la capacità di sapere percepire lo stato d’animo del/la detenuto/a, pervaso a volte dal sentimento del pentimento, a volte da una sottile angoscia o dal desiderio del riscatto e altri umori. Non è facile, insomma, attenuare il turbinio dei sentimenti che pervade chi vive dietro le sbarre, escogitando strategie che riescano a infondere un pizzico di speranza! Tutto questo preambolo per annunciare l’evento, dal significativo titolo Germogli, che il prossimo 3 giugno concluderà gli incontri avvenuti tra un gruppo di detenute e Ornella Cucci, ideatrice del progetto omonimo, volontaria impegnata a Borgo San Nicola ormai da tempo - d’intesa con la direttrice della stessa -, che ha saputo infondere lo scopo di raggiungere un obiettivo per niente facile: riannodare il filo della vita di ognuna, spezzatosi un giorno per un motivo spiacevole, intraprendendo un percorso di rinascita, riacquistando la dignità personale svanita, infondendo fiducia nelle proprie capacità cancellate. Che poi è un modo per proteggere chi, probabilmente, non ha ricevuto la dovuta attenzione quando ne ha avuto più bisogno dalla famiglia, dalla società, dagli amici eccetera. Il tramite di cui si è avvalsa Ornella Cucci, vestendo l’abito della rabdomante in grado di fare emergere inclinazioni mai prima di oggi rivelate, è stata l’arte rappresentata dalla musica e dalla pittura: due tra le principali espressioni in grado di elevare lo spirito e di liberarlo dal caos degli impulsi (negativi), dal vortice delle degenerazioni, dalle impurità dei pensieri nocivi, dalle angosce quotidiane che soffocano ogni stato d’animo. Attraverso un lavoro costante e certosino, la citata volontaria, nonostante le regole ferree del sistema carcerario, ha stimolato la creatività delle detenute, ne ha incoraggiato la reciproca cooperazione, riuscendo a distillare in loro una sorta di carburante che ha alimentato il loro cuore. Pertanto, l’evento concluderà l’impegno annuale dei due protagonisti di questa originale esperienza. Saranno esposti gli acquerelli eseguiti dalle detenute e si potrà ammirare un ricamo costituito da decine e decine di fiori coloratissimi - spuntati in un prato del proprio immaginario - che idealmente illuminerà lo spazio ristretto e disadorno in cui vivono. Una sorta di incoraggiamento a ben sperare. L’incontro sarà allietato da interventi musicali eseguiti da Giorgia Santoro al flauto e Vanessa Sotgiu al pianoforte. San Gimignano (Si). Scuola-carcere: percorso educativo. Progetto con i detenuti e i loro figli di Lodovico Andreucci La Nazione, 25 maggio 2025 La scuola e il carcere hanno unito le forze per un percorso altamente educativo. Scuola e carcere insieme per un percorso educativo. Un progetto che ha messo a confronto anche i detenuti con i loro figli. Recentemente nel carcere di San Gimignano, che ospita detenuti in regime di alta sicurezza, in collaborazione con l’I.I.S. B. Ricasoli, si è celebrata la settimana della legalità. Nelle giornate del 20 e 21 maggio si è realizzato il progetto “Legalità è libertà… galeotto fu l’incontro” in cui gli studenti dell’Istituto Enogastronomico della sede di Colle hanno incontrato i corsisti della sede carceraria di Ranza per confrontarsi sui concetti di legalità, di regola e di rispetto dei valori del vivere civile. L’evento è stato organizzato e coordinato dal funzionario giuridico pedagogico Rita Favente e dalla prof.ssa Gilda Penna in collaborazione con i docenti della sede carceraria e con la polizia penitenziaria. Un progetto realizzato anche grazie alla direttrice del carcere Mariagrazia Giampiccolo ed alla dirigente della scuola Nadia Riguccini. All’iniziativa hanno partecipato sei classi della sede di Colle e cinque classi della sede carceraria di Ranza. “Tale esperienza - viene affermato in una nota della scuola -, ha così creato i presupposti per l’ideazione e la realizzazione dell’evento “In aula con i papà”, che ha visto i detenuti protagonisti di un’esperienza unica insieme ai propri figli”. Il progetto ha coinvolto gli studenti di Ranza, iscritti all’Istituto Enogastronomico Ricasoli ed i loro figli. “La giornata - continua la nota - ha visto per la prima volta padri e figli seduti l’uno accanto l’altro tra i banchi di scuola. In aula si sono svolte le attività scolastiche secondo i normali ritmi di un giorno di scuola. Si sono effettuate lezioni di italiano, di educazione civica e di scienze dell’alimentazione con una visita guidata dei laboratori di cucina e di sala bar dove i papà hanno dato prova anche delle loro abilità professionali”. Obiettivo del progetto è stato quello di condividere momenti di ascolto, di studio e di apprendimento attraverso il confronto su argomenti quali giustizia, legalità e rispetto. I padri sono stati significativi punti di riferimento per i figli perché hanno mostrato loro, con l’esempio, l’importanza della volontà e il valore del coraggio di mettersi in gioco per ricominciare. “L’evento - concludono dalla scuola - è riuscito grazie alla sinergia tra le due istituzioni, la Casa di Reclusione di San Gimignano e l’I.I.S. Ricasoli, e all’impegno costante degli studenti della sede detentiva”. Verona. Tredici detenute si diplomano gelataie grazie a un progetto di formazione veronasera.it, 25 maggio 2025 L’iniziativa nazionale è promossa da Soroptimist: “Trovare un’occupazione non è semplice, - spiega la direttrice della casa circondariale di Montorio - a maggior ragione per chi vive l’esperienza del carcere, ma la formazione qualificata può fare la differenza, anche per superare il pregiudizio”. Riscoprire sé stesse attraverso l’arte del gelato. È questo il cuore pulsante del progetto nazionale “Si sostiene in carcere”, promosso da Soroptimist International, che dal 2017 accompagna le donne detenute in un percorso di formazione professionale volto al reinserimento sociale e lavorativo. Grazie a un protocollo d’intesa con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della giustizia, oltre mille donne hanno potuto apprendere competenze in vari settori professionali, compresa l’arte della gelateria artigianale. La scorsa settimana, tredici detenute della casa circondariale di Montorio a Verona hanno ricevuto il diploma di “gelataie” al termine di un corso intensivo tenuto da Fabbri 1905, azienda storica e leader del settore. Il progetto ha visto la collaborazione attiva del Soroptimist Club di Verona e ha offerto alle partecipanti una formazione teorico-pratica condotta dalla maestra gelatiera Rosa Pinasco, titolare di una gelateria a Genova e formatrice per la scuola Fabbri Masterclass. Il successo dell’iniziativa ha portato al rinnovo dell’accordo tra Soroptimist e Fabbri 1905, con l’obiettivo di estendere il progetto ad altre otto case circondariali italiane e formare ottanta nuove destinatarie. Fondamentale il supporto dei quindici club territoriali Soroptimist che, oltre al coordinamento logistico, hanno donato una macchina gelatiera a ciascun istituto coinvolto. “I corsi in questi anni hanno coinvolto un centinaio di donne ristrette, anche madri con minori, danno loro l’opportunità di imparare un mestiere e poter già produrre il gelato anche per i pasti dell’istituto e nelle occasioni di socialità, negli incontri con le famiglie e con i figli. - dichiara Paola Pizzaferri, referente nazionale del progetto di empowerment femminile “Si sostiene in carcere” - Inoltre questo percorso amplia le possibilità di avere un lavoro esterno una volta terminata la pena, grazie a un attestato rilasciato da Fabbri 1905, altamente qualificato e spendibile nel mondo della ristorazione e della gelateria, settore in crescita e aperto anche ad assunzioni stagionali”. Il progetto nazionale, iniziato lo scorso febbraio alla Casa circondariale Verziano di Brescia, a marzo è stato proposto alle detenute del carcere di Vercelli, seguito ad aprile dalla Casa circondariale di Modena. Dopo la tappa veronese, tenutasi dal 12 al 14 maggio in modalità intensiva, il percorso formativo proseguirà quindi a giugno e luglio nelle strutture carcerarie di Pisa e Torino, per riprendere poi a settembre a Firenze e concludere, a ottobre, a Forlì. “La collaborazione con la casa circondariale di Montorio è un’occasione importante per portare avanti le iniziative di supporto alle donne che fanno un’esperienza detentiva e che hanno bisogno di trovare opportunità per costruire un nuovo percorso positivo una volta uscite dal carcere. - afferma Roberta Girelli, presidente di Soroptimist International club Verona - L’interesse delle partecipanti incoraggia a proseguire lungo la strada della formazione qualificata, una chiave in cui Soroptimist International crede fermamente perché può realmente dare strumenti di riscatto”. Importante anche aver donato una gelatiera professionale oltre al programma formativo altamente qualificato, poiché si genera una “opportunità concreta a far nascere un sogno e tradurlo in realtà”, sottolinea Girelli. L’attestato Fabbri Master Class ha infatti entusiasmato le tredici donne che hanno aderito alla tre giorni formativa scaligera. “La possibilità di spendere il titolo nel mondo del lavoro le ha molto interessate. Personalmente auspico che abbiano la possibilità di utilizzare immediatamente le competenze acquisite anche durante la detenzione. - ha dichiara Maria Grazia Bregoli, direttrice reggente della casa circondariale di Montorio - Stiamo valutando di ampliare alcune progettualità già attive grazie a questo corso professionalizzante. Trovare un’occupazione non è semplice, - ha concluso Bregoli - a maggior ragione per chi vive l’esperienza del carcere, ma la formazione qualificata può fare la differenza, anche per superare il pregiudizio da parte del mondo del lavoro”. Genova. Il progetto “La biblioteca vivente” sbarca al carcere di Pontedecimo genova24.it, 25 maggio 2025 Gli incontri con i “libri umani” costituiscono uno scambio tra uomini e donne che descrivono la loro esperienza: l’obiettivo è stimolare la comprensione e combattere i pregiudizi verso gli altri. La Biblioteca Vivente venerdì 30 maggio 2025 dalle 13.30 alle 16.30 si sposta nella Casa Circondariale di Genova-Pontedecimo, dove i libri umani sono anche le detenute. Per ascoltare le loro storie i posti sono limitati e la prenotazione obbligatoria. Occorre compilare un modulo e fornire un documento d’identità. L’appuntamento sarà ripetuto sabato 28 giugno dalle 9.30 alle 12.30, con le stesse modalità, e prenotazione entro il 12 giugno. La Biblioteca Vivente è un progetto di Sergio Maifredi per la Città di Genova, sostenuto dal Comune di Genova - Assessorato Pari Opportunità e da Teatro Pubblico Ligure, in collaborazione con ABCittà. Gli incontri con i libri umani si svolgono in modo molto semplice e costituiscono uno scambio intimo in cui ci si ferma di fronte a uomini e donne che descrivono la loro esperienza: l’obiettivo è stimolare la comprensione e combattere i pregiudizi verso gli altri. Ogni lettore ritira una tessera gratuita, prende visione del catalogo diviso per titoli, procede alla scelta e prenota la consultazione. Il lettore ascolterà la storia di cui è portatrice una persona reale, il libro umano, e potrà porre domande. La durata di ogni consultazione è di circa mezz’ora, al termine della quale verrà chiesto di scrivere una breve recensione, un messaggio da lasciare al libro umano che ha incontrato. La narrazione ancora oggi è uno straordinario strumento di conoscenza che percorre la cultura di diversi popoli e generazioni. Sono moltissime le testimonianze narrative che mettono in evidenza l’importanza psicologica, sociale e culturale di aprirsi al mondo, con tutte le difficoltà i rischi, ma anche il giovamento che ne possono derivare per la promozione del dialogo, la riduzione dei pregiudizi e l’incoraggiamento della comprensione reciproca. Un circolo virtuoso che si attiva con questo strumento innovativo per Genova, attraverso il quale aumentare la soglia di rispetto verso chi per sue esperienze, fede religiosa, identità, ma anche per il suo aspetto fisico, per i suoi orientamenti o per il suo stile di vita viene considerato lontano o addirittura nemico. L’obiettivo è smettere di giudicare e iniziare a capire chi è l’altro. La Biblioteca Vivente è stata portata a Genova da Sergio Maifredi, organizzata dal Comune di Genova - assessorato Pari Opportunità e da Teatro Pubblico Ligure, affidata ad ABCittà. Maggiori informazioni saranno pubblicate sui siti del Comune, delle Biblioteche, di ABCittà e Teatro Pubblico Ligure e su Facebook, Instagram, Youtube di Teatro Pubblico Ligure. Monza. I detenuti-attori in trasferta a Roma accolti da Maria De Filippi di Andrea Loddo monzatoday.it, 25 maggio 2025 Una trasferta decisamente speciale. Protagonisti di un sogno che è allo stesso tempo una rivincita. I detenuti della casa circondariale di via Sanquirico a Monza sono volati a Roma con un permesso speciale per festeggiare la messa in scena nella giornata di martedì 20 maggio nel noto Teatro Parioli della pièce teatrale Senza Parole, vincitrice del Premio Maurizio Costanzo nelle carceri. La sceneggiatura, scritta e interpretata appunto dai detenuti monzesi con la compagnia teatrale Geniattori di Monza diretta dall’attore e regista Mauro Sironi, è stata infatti scelta (e premiata) tra le 26 candidature inviate. Una scelta dettata da un racconto (quello scritto dai detenuti) potente, muto ma profondamente umano e fatta dalla giuria presieduta dal conduttore e regista teatrale Pino Strabioli e composta dalla presidente dell’Associazione Voglia di Teatro Brunilde Di Giovanni e dal giornalista del Corriere della Sera Paolo Conti. Lo spettacolo - Sul palco la voce narrante di Mauro Sironi racconta le storie di dieci detenuti che si muovono in scena dietro una cornice. Scorrono così undici quadri senza dialoghi che narrano la vita nel carcere, dall’entrata con le foto segnaletiche fino all’uscita. La narrazione è quella della quotidianità, di una giornata tipo dei detenuti, attraverso le emozioni che ne scandiscono i diversi momenti. Toccando temi come l’isolamento, la colpa ma pure la speranza. “Vorrei che tu non scoprissi mai che il giardino o la casetta dove ci vediamo non sono il giardino e la casetta di papà ma uno spazio messo a disposizione da un carcere per effettuare colloqui con i minori” è la voce (in scena) di uno dei tanti detenuti mentre idealmente si rivolge al figlio scrivendogli una lettera. Dal carcere al palco per rinascere - A dar vita al Premio Maurizio Costanzo nelle carceri è stata l’Associazione Maurizio Costanzo, inaugurata ad ottobre 2024 da Camilla Costanzo, figlia del celebre giornalista scomparso nel 2023, con l’obiettivo di portare l’arte dentro agli istituti penitenziari offrendo così ai detenuti la possibilità di esprimersi e raccontarsi attraverso il teatro. Una chiave di speranza e rinascita per una realtà, quella dei detenuti e delle carceri, che è sempre stata molto a cuore al giornalista e conduttore romano. Un progetto che non parla dunque solo di spettacolo ma anche di voglia di riscatto e forza di ricominciare. Tra gli ospiti in sala tantissimi vip. In primis Maria Maria De Filippi, fra i primi ad accogliere sorridente i detenuti monzesi. E ancora Giobbe Covatta, Massimo Giletti, Myrta Merlino, Rita Dalla Chiesa, Irene Ghergo, Barbara Palombelli, Francesco Rutelli, Aurelio De Laurentiis. “Gli occhi dei ragazzi del Sanquirico dicono tutto” si legge non a caso sulla pagina Facebook di Geniattori, sottolineando il grande entusiasmo scaturito dalla specialissima trasferta romana. Bologna. “A voce libera”, il concerto dei Cori Papageno e Mikrokosmos alla Dozza Corriere di Bologna, 25 maggio 2025 Sabato 7 giugno 2025, alle ore 15:00, al carcere Dozza di Bologna ci sarà l’evento dal titolo “A voce libera” promosso da Mikrokosmos APS (Dir. Artistica M. Napolitano), in collaborazione con Pace Adesso ODV e realizzato con il Patrocinio dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna. Protagonista dell’evento sarà il Coro Papageno, formato da detenute e detenuti della Casa Circondariale “R. D’Amato” di Bologna e da coristi volontari esterni, che torna a cantare in pubblico dopo sei anni. Insieme al Papageno, si esibirà anche Mikrokosmos - Coro Multietnico di Bologna, un ensemble di circa cinquanta voci di tutte le età e origini culturali, linguistiche e religiose. Il concerto rappresenta non solo un momento musicale e culturale, ma anche un’importante occasione di solidarietà, con una raccolta fondi a favore di Pace Adesso ODV, destinata al sostegno delle attività del Coro Papageno. Per ragioni legate alle procedure di accesso all’istituto, la partecipazione è possibile solo su prenotazione, entro domenica 25 maggio compilando il modulo online al seguente link: https://forms.gle/n34VgkNMKKRSqUiB7 I posti sono limitati e le richieste verranno accolte in ordine cronologico fino a esaurimento. L’evento rientra nella programmazione della rassegna Mikrokosm In Festival (III edizione) - Narrazioni Corali: Storie, identità ed echi di culture, organizzata da Mikrokosmos APS (Dir. Artistica M. Napolitano), realizzata con il contributo del Comune di Bologna e di Aerco - Associazione Emiliano-Romagnola Cori. Donne in cella: il carcere femminile al cinema cinecittanews.it, 25 maggio 2025 Il carcere femminile, nella narrazione cinematografica, è più di un luogo: è un laboratorio emotivo, uno specchio deformante. Ecco i migliori racconti che l’hanno esplorato, a partire dal recente ‘Fuori’ di Mario Martone. Con l’uscita di Fuori di Mario Martone, il carcere femminile torna a essere centro vivo di una narrazione che mescola teatro, documento e verità poetica. Ma la prigione, quando abitata da donne, cambia funzione narrativa: non è solo spazio di punizione, ma laboratorio di identità, specchio sociale, corpo collettivo in tensione tra colpa e riscatto. Da questo punto di vista, la rappresentazione del carcere femminile nel cinema - e nelle serie - è un campo affascinante e poco frequentato, dove si riflettono mutamenti culturali, stereotipi resistenti e tentativi di scardinarli. In principio era la colpa - In Il prigioniero della notte (Yield to the Night, 1956) di J. Lee Thompson, una straordinaria Diana Dors interpreta una donna in attesa dell’esecuzione. Il film, ispirato al caso reale di Ruth Ellis, ultima donna giustiziata nel Regno Unito, trasforma la cella in una soglia esistenziale. Non più carcere, ma purgatorio. Qui la questione morale è centrale: può una donna colpevole essere ancora degna di pietà? Il film risponde con un sì doloroso e profondamente umano. Nella città l’inferno (1959) di Renato Castellani è uno dei primi film italiani a portare la realtà del carcere femminile al centro della scena. L’incontro tra la giovane ingenua Lina (Giulietta Masina) e la veterana Egle (una Magnani torrenziale e vibrante) diventa lo scontro tra due visioni del mondo: una che crede ancora nella bontà, l’altra che ha imparato a sopravvivere in un sistema corrotto. Rebibbia diventa così microcosmo sociale, dove la donna può scegliere solo tra la rassegnazione e la recita. Il film, tra neorealismo e teatro morale, è ancora oggi una delle analisi più lucide della trasformazione di un individuo sotto la pressione del carcere. Una decina di anni in anticipo era uscita nelle sale americane una tra le opere più potenti e visionarie riguardo all’argomento: Caged (1950), arrivato in Italia con il titolo Prima colpa, di John Cromwell. Film spesso citato come antesignano del women-in-prison movie. La giovane Marie, incarcerata per complicità in una rapina finita male, affronta una lenta metamorfosi: da vittima a complice del sistema, attraverso soprusi, isolamento, perdita di umanità. Qui il carcere non è tanto struttura di detenzione, quanto di potere: gerarchie tra detenute, rapporti sadici con le guardie, annichilimento della volontà. In pieno codice Hays, il film riesce a toccare temi scomodi con sorprendente durezza. Fu un’opera di rottura anche sul piano dei riconoscimenti: ricevette tre nomination agli Oscar (migliore attrice protagonista a Eleanor Parker, miglior attrice non protagonista a Hope Emerson, miglior sceneggiatura originale) e fu in concorso al Festival di Venezia, dove la Parker vinse la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile. Il suo impatto fu tale da generare un remake nel 1962, Rivolta al braccio di Walter Doniger, solo parzialmente aderente all’originale, ma testimonianza della forza e della risonanza di un’opera pionieristica nel raccontare l’universo carcerario femminile. La prigione come comunità - Questa intuizione viene ripresa, decenni dopo, dalla serie Orange Is the New Black (2013-2019), che si muove con straordinaria intelligenza narrativa tra commedia, denuncia e tragedia. Basata sul memoir di Piper Kerman, la serie di Jenji Kohan utilizza l’ingresso della bianca borghese Piper nella prigione di Litchfield per aprire una galleria di ritratti: donne nere, latine, trans, madri, tossicodipendenti, giovani e anziane, tutte con un passato che riaffiora attraverso episodi monografici. Ma la grande intuizione è questa: mostrare il carcere non solo come spazio di negazione, ma come luogo dove il legame, la solidarietà e l’identità diventano armi di resistenza. La serie, distribuita da Netflix, è stata un fenomeno culturale globale: ha vinto numerosi premi, tra cui quattro Emmy, ed è diventata un simbolo della serialità corale e inclusiva degli anni Dieci. Ha dato visibilità a interpreti sconosciute, lanciato dibattiti su razzismo istituzionale, identità di genere e condizioni delle carceri statunitensi, fino a diventare un cult generazionale. Un carcere che si racconta attraverso le sue storie, e non solo i suoi muri. Carcere femminile all’italiana - Le rose blu (1993) di Emanuela Piovano è una rarità del cinema italiano, ispirato a storie vere, in cui la narrazione si fa quasi diaristica. Le voci delle detenute non vengono ricostruite, ma raccolte e restituite con sensibilità documentaria. Il carcere diventa paesaggio mentale, fatto di piccole liturgie quotidiane, di emozioni sospese e gesti che assumono valore rituale. Piovano utilizza uno sguardo radicalmente femminile e non voyeuristico, sottraendo la rappresentazione delle detenute allo stereotipo della donna reclusa come corpo erotico o deviante. La dimensione collettiva della narrazione permette di attraversare storie diverse, accomunate da un senso di marginalità e di resistenza silenziosa. Un film che non racconta una storia, ma restituisce la condizione. E nel farlo, mette al centro il corpo: negato, spiato, ferito, desiderato, ma anche ricostruito attraverso la parola e la solidarietà. Desiré (2023) di Mario Vezza, presentato nella sezione Panorama Italia di Alice nella Città, affronta con rara delicatezza il tema della reclusione giovanile, intrecciandolo con un percorso di formazione personale. La protagonista, interpretata con straordinaria autenticità da Nassiratou Zanre, è una quindicenne di origini senegalesi cresciuta a Napoli, perfettamente integrata nel contesto urbano ma sprovvista di radici solide. La sua marginalità non è solo sociale ma esistenziale: è una ragazza che si mimetizza, che cerca di sfuggire alla propria condizione passando inosservata nella notte. L’arresto, avvenuto quasi per caso nei vicoli della città, segna una frattura, ma anche un’occasione. L’esperienza nel carcere minorile di Nisida si trasforma progressivamente in un terreno di consapevolezza. Inizialmente chiusa, ostile, Desiré entra in contatto con altre giovani detenute attraverso un laboratorio teatrale, guidato da un ex detenuto (interpretato da Enrico Lo Verso), che le assegna la parte di Amleto. Un ruolo in cui inizialmente non si riconosce, ma che diventa il riflesso di una condizione di incertezza e interrogazione esistenziale. Il carcere qui non è spettacolo ma attesa, non è punizione ma potenziale. E l’attesa, come in un rito di passaggio, diventa rivoluzionaria. Non solo “fiction” ma anche molti documentari italiani sul carcere femminile, da Volere volare (2008) di Carla Garofalo a Senza di voi (2015) di Chiara Cremaschi, restituiscono una complessità affettiva e politica spesso trascurata. L’universo oltre le sbarre - Il carcere femminile, nella narrazione cinematografica, è più di un luogo: è un laboratorio emotivo, uno specchio deformante, una lente d’ingrandimento sul corpo e sulla società. Ogni racconto - da quello epico a quello minimo - aggiunge una voce a un coro sommesso ma urgente. Perché, come diceva una detenuta in un documentario: “qui dentro non si finisce mai di cominciare”. Cannes 78, una Palma politica per il cinema che resiste di Cristina Piccino Il Manifesto, 25 maggio 2025 Il premio più importante al dissidente Jafar Panahi per “Un simple accident”, nato dalla prigionia in Iran. A Joachim Trier il Grand Prix della giuria, miglior regia a Kleber Mendoça Filho. Quando Juliette Binoche si alza per dire che questa Palma viene assegnata non solo per ragioni “politiche” ma per la potenza del film, sappiamo già che la Palma d’oro della 78a edizione del Festival di Cannes è stata vinta da Jafar Panahi. Un simple accident è un “film clandestino” - come lo sono tutti quelli del regista iraniano che rifiuta di sottomettersi alle regole e alla censura del regime di Tehran - che per la prima volta ha potuto accompagnare dopo quattordici anni, il ritiro del passaporto, la condanna a non viaggiare e a non girare più film, la prigione. Panahi, quando le telecamere lo inquadrano insieme alla sua equipe, gli attori, le attrici in lacrime, sprofonda nella sedia, e sembra farsi piccolo fino a sparire, per poi alzarsi di scatto mentre la sala in piedi lo applaude all’infinito. Sul palco, accanto a Cate Blanchett che gli consegna la Palma, gli occhiali scuri sempre sugli occhi, chiede il premesso di ringraziare la famiglia che c’è sempre stata anche “per tutto il tempo che non siamo stati insieme”, e tutta l’equipe: “Mi hanno accompagnato e sostenuto durante l’intera lavorazione, senza un’equipe impegnata come lo sono loro questo film non sarebbe stato possibile”. E con la voce emozionata ma ferma dice: “Credo che questo sia il momento di chiedere a tutti gli iraniani, anche a chi ha opinioni diverse, di mettere da parte le divisioni, le disparità per con concentrarci insieme su quello che è ora l’obiettivo più importante, e cioè il nostro Paese e la sua libertà. Non devono più ordinarci che fare, come vestirci, cosa dire. E questo vale anche per il cinema, che è una parte della società: nessuno deve dirmi che film fare”. “Un simple accident” - in Italia sarà distribuito da Lucky Red - è una riflessione sul regime iraniano oggi e un racconto morale di ciò che causa nei cittadini e cittadine che ne subiscono la violenza. Il film è teso, doloroso, duro: assume i suoi rischi fino in fondo che sono quelli di una presa pubblica di parola, e di una resistenza di cui lo stesso regista è divenuto simbolo dalla sua prima condanna, nel 2010, fino all’arresto, rinchiuso per mesi nel 2022 nel carcere di Evin, dove inizia uno sciopero della fame mandando fuori questo messaggio: “Andrò avanti fino a che il mio corpo anche senza vita uscirà da questa prigione”. È dunque politica questa Palma, e non c’è timore a dirlo, magari pensando di “diminuire” il valore del film, lo è perché mette al centro una lotta di liberazione che vede le donne iraniane protagoniste, e che nella rivoluzione in atto dall’assassinio di Mahsa Amini, la ragazza uccisa dalla polizia morale perché indossava “male” il velo, ha cambiato profondamente la realtà. Ed è un riconoscimento al lavoro simbolico degli artisti e delle artiste che non si tirano indietro, che resistono e chiedono a voce alta un cambiamento collettivo. È stato un festival attraversato dal mondo in fiamme questo Cannes 78, da prima dei suoi inizi con l’uccisione di Fatma Hassona la giovane fotografa e giornalista palestinese, protagonista di Put Your Soul On Your Hand and Walk, che ha messo in movimento una serie di iniziative per rompere il silenzio sul genocidio a Gaza sempre più atroce - pure se durante la premiazione a differenza dell’apertura nessun riferimento è stato fatto. E che Palmarès è stato invece quello della giuria guidata da Juliette Binoche? La prima impressione è che giurate e giurati hanno cercato di tenere dentro molti film, forse per opinioni diverse. Non si spiega altrimenti l’ex-aequo a due titoli agli antipodi per sguardo e idea di cinema quali Sirat di Olivier Laxe, uno dei capolavori di questa edizione molto ricca nella sua qualità, e The Sound of Falling di Mascha Schilinski (anche la sola regista premiata). Chissà perché sono passati accanto a alcuni film importanti, quali Two Prosecutors di Sergei Loznitsa, Nouvelle Vague di Richard Linklater, The Mastermind, lucida analisi americana di Kelly Reichardt, con humor e passione fra presente di Trump e gli anni di Nixon: tutti film molto “politici” nel senso di non dogmatici ma capaci nella loro forma a confrontarsi con la contemporaneità. Però ci sono i Dardenne, già due volte Palma, col premio alla sceneggiatura per Jeunes Mères, uno dei loro film più solidi negli ultimi anni, e soprattutto c’è il magnifico Kleber Mendoça Filho con O agente secreto che ha il doppio premio all’attore, Wagner Moura, e alla regia, mentre Nadia Mellitti, interprete folgorante del film di Hafsia Herzi, Petite dernière riceve quello alla migliore attrice. Il Grand Prix a Sentimental value di Joachim Trier, era anche anch’esso largamente anticipato dalle previsioni. La difficile relazione padre-figlie ha conquistato tanti, forse perché molto rassicurante nella sua narrazione e nei suoi riferimenti. Ma va bene così. Un giorno a Teheran. Battersi in patria oltre le guerre dell’Occidente di Alberto Negri Il Manifesto, 25 maggio 2025 Cannes 78. Questo premio ci ricorda che l’Iran e il Medio oriente non sono solo campi di battaglia. Un giorno arrivai a casa di Jafar Panahi. Mi fece sedere sul divano e, di fronte a me, c’era un grande manifesto: quello di “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica. “Avevo fatto una tesi su di lui alla scuola di cinema di Teheran”, mi disse. E Jafar Panahi mi raccontò una storia: “Vedi quel professore che mi promosse a pieni voti per la mia tesi? Fu lo stesso professore che, anni dopo, censurò uno dei miei film e ne impedì l’uscita nei cinema iraniani. Era diventato il capo della censura”. Panahi non è solo un grande regista, ma un uomo straordinario, che sa comunicare con chiunque. Ha realizzato film nel suo Paese sormontando enormi difficoltà, girando persino un film come Taxi Teheran soltanto con una piccola macchina da presa e un’auto pubblica. È stato presente in ogni momento della storia dell’Iran, senza mai abbandonare il suo Paese e la sua gente, pensando sempre che fare film, che fare arte, fosse il modo migliore per aiutare l’Iran e gli iraniani. Il premio che gli è stato conferito ieri non consacra solo una carriera: è un riconoscimento all’uomo, al regista e a tutti gli intellettuali iraniani che, in questi decenni, hanno levato la loro voce contro la censura e il regime. Tutto questo avviene in un momento di grande tensione internazionale. Da una parte, gli Stati uniti hanno intavolato negoziati sul nucleare con l’Iran; dall’altra, il governo israeliano di Netanyahu minaccia di colpire l’Iran, sostenendo che sia vicino a ottenere una bomba atomica. Ma questo premio ci ricorda che l’Iran e il Medio oriente non sono solo campi di battaglia ma sono anche terra di cultura, di uomini e donne che lottano per la libertà, la loro, ma anche quella di tutti noi. Il 60% degli italiani non paga le tasse: le verità non dette su fisco, pensioni e sanità di Alberto Brambilla* Corriere della Sera, 25 maggio 2025 Più della metà dei connazionali non paga tasse e non contribuisce a sostenere i servizi di un Paese dove gli interessi sul debito superano le spese per la scuola. Ma la politica continua a dare bonus per cercare consensi. La sola possibilità di conservare e migliorare la democrazia e i valori civili e sociali nei Paesi europei e in Italia è quella di dire la verità ai cittadini, a quel popolo nel cui nome spesso la politica ha fatto disastri. Li ha fatti perché soprattutto negli ultimi 25 anni si è modificata la forma e la metodologia di cattura del consenso, sempre più basata su promesse e maggiori benefici: più servizi gratis e meno tasse per tutti. Questo soprattutto nel nostro Paese. Con tre gravi effetti: 1) uno spaventoso aumento dei debiti pubblici che nel 2024 a livello mondiale hanno superato i 100 mila miliardi di dollari pari a circa il 100% dell’intero Pil mondiale. L’Italia si colloca ai vertici di questa poco onorevole classifica con quasi il 135% di rapporto debito/Pil e, a differenza di altri Paesi, con scarse possibilità di miglioramento. 2) Non dire la verità, anzi dire cose a volte errate ma utili per conquistare il consenso politico (i voti), ha annebbiato e confuso una parte dei cittadini che pensano sia loro diritto avere tutto e gratis. O quasi. Siamo diventati la società dei diritti e la parola doveri, che sono le fondamenta dei diritti, sembra essere sparita dal vocabolario. Ma se mancano i doveri, la sanità non funziona, i treni arrivano in ritardo, la scuola non è più maestra di vita e la società peggiora, diventa rabbiosa. E allora, per rabbonirla, ecco i bonus, la decontribuzione (non mi paghi i contributi ma avrai lo stesso la pensione), l’assegno unico per il nucleo familiare (la paghetta di Stato). Le bollette sono care? Interviene lo Stato. E così i cittadini cominciano a pensare: se lo dicono loro, i politici, che siamo massacrati di tasse e che abbiamo così tanti diritti, sarà vero o ci piace pensare che sia vero. 3) Il risultato è tragico e non solo in Italia: instabilità politica, estremismi. Ma anche movimenti nazionalisti ed antieuropei. Ma quali sono le verità che andrebbero dette nel nostro Paese che, a parte l’exploit dopo il Covid, è da oltre vent’anni che cresce con percentuali bassissime? La prima: quanto può durare un Paese in cui il 60% non paga tasse, un 24% versa quelle appena sufficienti per pagarsi i servizi di base. Così tutto il carico fiscale è sulle spalle del 17% della popolazione che dichiara redditi da 35 mila euro lordi l’anno in su. Per pagare la sola sanità (il diritto inalienabile) a questo 60% occorre che qualcun altro metta sul piatto ogni anno quasi 6o miliardi, mentre per finanziare la scuola ce ne vogliono altri 66, sempre a carico dei pochi e del debito. Poi c’è tutto il resto: strade, assistenza (altri 83 miliardi di redistribuzione), funzionamento delle amministrazioni. La seconda verità è che ci strappiamo le vesti perché nascono pochi bambini ma la verità è che su 38 milioni di italiani in età da lavoro, facciamo fatica a trovarne 24 milioni che lavorano e così siamo ultimi in tutte le classifiche Eurostat e Ocse per donne, giovani, over 55 (ne lavora solo il 57%) e totale. E meno male che ci sono gli stranieri se no la metà dei servizi turistici alberghieri, i bar, ristoranti, manutenzioni e giardinaggi, l’agricoltura, le consegne di pacchi e cibi , sarebbero fermi. Gli italiani sono brava gente ma siamo in cima alle classifiche per evasione fiscale e contributiva; primi per malavita organizzata: a proposito ma quanti sono i malavitosi delle 5 mafie? Perché non ci sono stime? Sono un milione o anche di più visto il Pil occulto che generano? Terza verità scomoda: se venissimo invasi quanti giorni resisteremmo? Tra munizioni, soldati e mezzi, forse 2 o 3 giorni? Non farebbe nemmeno in tempo ad intervenire la Nato che saremmo già ko. Perché non dire agli italiani che se nessuno paga la sanità e la scuola non si può pretendere di avere questi servizi, visto che insegnanti, medici, infermieri, vanno pagati. Fosse il 4/6% di popolazione bisognosa lo sforzo si potrebbe fare, ma il 60% è insostenibile. Perché non dire che non ci sono le risorse se quasi 30 milioni di italiani presentano l’Isee per avere servizi gratis o a sconto; perché non dire che è complicato per il povero 15% sopravvivere con una tassazione che a breve paralizzerà il Paese. Perché lavorare se il risultato di queste mancate verità è: meno dichiari (e meno lavori in chiaro) e più soldi e servizi ti dò, mentre più dichiari e più ti tartasso di imposte e a meno servizi avrai diritto. Questo è lo slogan attuale della nostra politica che si riempie la bocca di fragili e poveri. Esistono? Certo che sì, ma andrebbero aiutati con cure e lavoro, non con soldi e prebende. Anche perché nel 2008 spendevamo per i poveri 73 miliardi; oggi ne spendiamo oltre 165 ma gli indigenti assoluti (quelli delle code per un pasto) che erano 2,1 milioni, oggi sono 5,8 milioni mentre i poveri relativi sono passati da 5,6 a 8,7 milioni. Nel 2008 per il gioco d’azzardo gli italiani spendevano poco; oggi 159 miliardi (più della spesa sanitaria). I telefonini, Spotify, le Tv a pagamento, i device non c’erano: oggi gli italiani sono primi in classifica per spese in tecnologia e nel digitale, come pure per i consumi di acqua e cibo. Il partito che vorrà dire la verità agli italiani vincerà le elezioni e durerà molto. Speriamo di non dover aspettare il default del Paese. *Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali Migranti. Il Consiglio d’Europa respinge la lettera di Italia e Danimarca di Andrea Valdambrini Il Manifesto, 25 maggio 2025 La replica “No a pressioni politiche sulla Cedu”, in particolare in materia migratoria. I diritti non possono essere politicizzati, gli organi giudiziari che li tutelano non devono essere soggetti a pressioni da parte dei detentori del potere. Così il Consiglio d’Europa, organo indipendente dall’Ue, con sede a Strasburgo, replica alla lettera inviata su impulso di Italia e Danimarca e sottoscritta da altri 7 paesi europei, per ribadire il proprio ruolo di difesa dei diritti fondamentali delle persone. Valori universali messi sempre più sotto pressione dalle politiche trumpiane negli Usa come anche dalla nuova stretta verso i rimpatri dei migranti in Europa appena proposta dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen. La risposta arriva per bocca del segretario generale del Consiglio d’Europa Alain Berset, che oltre a respingere i tentativi di ingerenza politica, sottolinea anche l’importanza degli alti organi di garanzie, ricordando: “A fronte delle sfide complesse della nostra epoca, il nostro ruolo non è quello di indebolire la Convenzione ma al contrario di mantenerla solida e pertinente”. Il tentativo di indebolimento è però evidente. Giovedì Italia e Danimarca hanno presentato una loro iniziativa sui temi migratori, appoggiata e condivisa da Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Polonia e i tre paesi Baltici. Nove stati Ue, in totale, con Copenaghen avviata a prendere la presidenza di turno dell’Ue nel secondo semestre di quest’anno. L’iniziativa congiunta è stata annunciata nel corso dell’incontro a Roma tra la presidente del Consiglio Meloni e la premier danese, la socialista Mette Frederiksen. Nel testo della missiva si legge che la Cedu ha “esteso eccessivamente” l’interpretazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1950) che ne è alla base. In questo modo avrebbe “limitato la capacità dei governi democratici di adottare misure necessarie a garantire la sicurezza dei propri cittadini”, dato che “la sicurezza delle vittime e della stragrande maggioranza dei cittadini rispettosi della legge dovrebbe avere la precedenza su altre considerazioni”. In conferenza stampa a Chigi, la leader FdI quasi era sembrata giustificarsi, sostenendo che l’obiettivo dell’iniziativa congiunta “non è indebolire” i trattati internazionali, quanto piuttosto “renderli maggiormente capaci di dare risposte al tempo in cui viviamo”. Frederiksen, da parte sua, ha invece rincarato la dose specificando con naturalezza come per i governi “è semplicemente troppo difficile espellere stranieri che commettono reati dalle nostre società”. Quindi bisogna cambiare e porre un freno a chi promuove e protegge i diritti delle persone migranti. I toni securitari usati dai nove esecutivi sono tuttavia poco rispettosi non solo delle basilari garanzie giuridiche per la tutela e la dignità di ogni persona, ma anche dai patti stipulati tra paesi a livello internazionale. A proposito della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, citata nella lettera, il segretario del Consiglio d’Europa Berset nota come il tribunale (la Cedu) non sia un organismo esterno, ma il braccio giuridico del Consiglio. Una sua articolazione, istituita ormai 75 anni fa “dai nostri Stati membri, per loro scelta sovrana e vincolata da una Convenzione che tutti i 46 membri hanno liberamente firmato e ratificato”. Il tribunale basato a Strasburgo, ragiona Berset, “ha guidato gli Stati europei attraverso minacce all’indipendenza giudiziaria, turbolenze politiche e persino guerre”, giudicando ad esempio le violazioni dei diritti umani anche nel contesto della guerra di aggressione russa contro l’Ucraina. Insomma, è stata “una bussola costante” per lo Stato di diritto. E proprio per questo, potrà anche essere discussa, ma non certo piegata al potere politico. “Ben venga il dibattito, che è salutare. Politicizzare la corte, al contrario non lo è”, conclude il segretario generale. L’iniziativa italo-danese rappresenta soltanto un nuovo capitolo degli attacchi alla legittimità e all’azione di un organismo sovranazionale di garanzia. Dieci giuristi diffidano il Governo: “Non rinnovi l’accordo militare con Israele” di Ludovica Jona Il Fatto Quotidiano, 25 maggio 2025 I firmatari evidenziano due profili di possibile incostituzionalità del patto: le violazioni dei diritti umani compiute da Tel Aviv e il mancato rispetto del diritto all’informazione dei cittadini. Una diffida formale al governo per bloccare il rinnovo automatico del memorandum d’intesa per la collaborazione militare tra Italia e Israele, previsto per l’8 giugno 2025. A presentarla il 21 maggio sono stati dieci giuristi - Michele Carducci, Veronica Dini, Domenico Gallo, Ugo Giannangeli, Fausto Giannelli, Fabio Marcelli, Ugo Mattei, Luigi Paccione, Luca Saltalamacchia e Gianluca Vitale - rappresentati dallo studio legale Paccione di Bari. I firmatari evidenziano due profili di possibile incostituzionalità dell’accordo: le violazioni dei diritti umani compiute da Israele nel conflitto a Gaza e il mancato rispetto del diritto all’informazione dei cittadini italiani, anche relativamente agli oneri finanziari che il memorandum comporta, in parte coperti da segreto militare. I contenuti del memorandum - L’accordo, siglato a Parigi il 16 giugno 2005 e rinnovato a ogni quinquennio, prevede cooperazione in diversi settori, tra i quali “importazione, esportazione e transito di materiali d’armamento; operazioni umanitarie; addestramento del personale militare; informatica; ricerca e sviluppo in campo militare”. Tra le forme della collaborazione sono previsti “scambi di visite ufficiali tra i rappresentanti delle due Parti (ministri della difesa, comandanti in capo, vice-comandanti in capo, ufficiali autorizzati dalle Parti); attività di addestramento ed esercitazioni; partecipazione di osservatori alle esercitazioni militari; contatti fra le istituzioni militari e di difesa; partecipazione a corsi, conferenze, consultazioni e riunioni; visite a unità navali, aeree e impianti militari; scambio di dati tecnici, informazioni e hardware; ricerca, sviluppo e produzione in campo militare; ricerca industriale, sviluppo e produzione di progetti e di materiali”. “Le Parti”, si legge in un dossier sul sito della Camera, “si adopereranno per contribuire a negoziare licenze, royalties e informazioni tecniche scambiate con le rispettive industrie; faciliteranno la concessione delle licenze di esportazione connesse all’esecuzione del memorandum in esame”. Sono previste “riunioni fra i rappresentanti degli enti governativi o privati, delle forze armate, delle unità e dei reparti di entrambi i Paesi”. Le ragioni della diffida - Il memorandum, sottolineano i giuristi, è rimasto in vigore in tutti questi anni senza consentire ai cittadini italiani di conoscere la sua effettiva applicazione negli scenari reali di impiego, “per esempio se riferiti al territorio italiano, a quello israeliano o addirittura nel territorio palestinese occupato, su cui pende una pluridecennale strutturale violazione, da parte dello Stato di Israele, del diritto internazionale e umanitario”. Inoltre, affermano, i cittadini non sono stati informati “sul suo utilizzo (e sui costi del suo utilizzo)” in conformità con l’articolo 1 della legge 85/1990, con conseguente “violazione del diritto all’informazione” previsto dall’articolo 21 della Costituzione. La seconda incostituzionalità denunciata è che il quarto rinnovo del memorandum “rischierebbe di coincidere con una palese, deliberata, sistematica violazione del diritto internazionale generale, del diritto internazionale pattizio e del diritto umanitario”. A supporto di tale affermazione si citano numerose risoluzioni della Nazioni unite e sentenze degli organi di giustizia internazionale, oltre al mandato di arresto verso il premier Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della difesa Yoav Gallant, emesso dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità. Si fa riferimento, inoltre, all’ipotesi di genocidio nei confronti della popolazione di Gaza, su cui indaga la Corte internazionale di Giustizia dell’Aja: “La prosecuzione della cooperazione con lo Stato di Israele, in costanza di un possibile genocidio sotto accertamento e in pendenza di specifici mandati di arresto, potrebbe configurare ipotesi di concorso o comunque appoggio ai crimini internazionali di uno Stato straniero, appoggio difficilmente giustificabile in nome dei cittadini italiani, cui appartiene per Costituzione la sovranità popolare”. Io, ebreo, non mi stanco di parlare dei civili di Gaza di Bernard-Henri Lévy* La Stampa, 25 maggio 2025 Gerusalemme è l’unica Israele non negoziabile, lo ricordava Amos Oz coi Giusti del Talmud. Israeliani e palestinesi non devono avere la stessa lingua, così guardo allo strazio dei morti. Il Vaticano, quante divisioni? È la domanda, impossibile da non porsi, dopo la messa inaugurale del nuovo pontefice - domenica 18 maggio - di fronte alle immagini del presidente Zelensky che parla con il vicepresidente americano JD Vance. Quello stesso JD Vance che, soltanto due mesi prima, l’aveva trattato con grande insolenza nello Studio Ovale. Quello stesso rozzo individuo che aveva tentato di umiliare, e quasi cacciare dalla Casa Bianca, il Churchill ucraino. E lì, all’improvviso, quella stretta di mano all’apparenza calorosa... Quel sorriso mellifluo… Quello sguardo rilassato e quasi estasiato, in qualche altro scatto, alla presenza di Leone XIV… Forse, se si deve credere a fughe di notizie che non sembrano provenire da Kiev, si tratta dell’inizio di un’inversione di rotta o, in ogni caso, di un ribilanciamento della posizione americana… Alcuni parleranno di miracolo. O di potere dello Spirito Santo. Oppure, come alcune settimane fa, in occasione del funerale di Papa Francesco e dell’incontro estemporaneo tra lo stesso Trump e Zelensky, di una spiritualità misteriosa che opera negli affari del mondo. Più di ogni altra cosa, qui si può osservare che Giambattista Vico non ebbe torto, nella Scienza nuova, a vedere nel Vaticano una delle capitali dove si mantengono ancora il senso e il gusto dei tempi lunghi. E neanche Machiavelli si sbagliò quando, ai tempi della lotta tra Guelfi e Ghibellini, rifletté che quella era la città dove, in larga misura, si inventa quella “nobil arte” che è la diplomazia. Resta da capire se fra Trump e Putin c’è o meno un accordo in grado di resistere a tutto - ivi comprese la saggezza, la bontà e l’ambizione di un sommo pontefice americano. Vedremo. Non dimentichiamo che lo stesso JD Vance era venuto alla Conferenza di Monaco a redarguire gli europei, a impartire loro una lezione di libertà d’espressione, ad argomentare, in verità, a favore dei partiti populisti, sovranisti o fascistizzanti che da alcuni anni sono impegnati a demolire il lascito di Jean Monnet, di Robert Schuman e di Alcide De Gasperi. Prima di ogni altro, il partito tedesco AfD. Senza dubbio, il francese Rassemblement National. Vance, tuttavia, in quella occasione aveva insistito in particolare sul caso della Romania dove, alcuni giorni prima, erano state invalidate le elezioni per la presidenza nelle quali il candidato di estrema destra, aiutato da un’ingerenza russa a 360 gradi, aveva appena vinto il primo turno. Uno scandalo, l’aveva definito Vance. L’ingerenza vera è quella delle “agenzie d’intelligence”, aveva insistito, dei “vicini continentali” della Romania… Ed Elon Musk, allora al culmine della sua influenza, su X aveva rincarato: “La Romania ha diritto alla sua sovranità!”. E Pavel Durov, sulfureo fondatore di Telegram, aveva insinuato, alla vigilia delle elezioni, che era la Francia di Emmanuel Macron a intromettersi. Ebbene, le elezioni si sono svolte. L’altra bella notizia è la seguente: sostenuto da una mobilitazione senza precedenti e caratterizzata da un’affluenza record, alla fine il candidato centrista e filoeuropeo ha vinto. Il popolo contro i social. Il partito di Zelensky contro quello di Putin e Trump. E, di fronte al disfattismo europeo, lo spirito dell”89, il nostro, quello di ben trentacinque anni fa, quello della caduta del Muro di Berlino e, come diceva Milan Kundera, della liberazione dell’Europa prigioniera. È meglio di una bella notizia: è una vittoria. Sono stato a Gerusalemme, per inaugurare il Festival Internazionale degli Scrittori. Avevo disdetto, due mesi fa, la mia partecipazione a una conferenza contro l’antisemitismo, dove avevo capito che sarebbero stati onorati i rappresentanti di questa estrema destra che sostiene Vance e Putin e contro cui io cerco di combattere sempre e ovunque. Ragione di più, dunque, per onorare questo appuntamento e tornare a ribadire, come faccio ogni volta che me ne è offerta l’occasione, il mio attaccamento a Israele e a questa pietra bianca di Gerusalemme che, come diceva Benny Lévy, mi rasserena e mi rende felice. Il respiro di Gerusalemme… Queste colline che, un mattino di oltre cinquant’anni fa, si sono palesate ai miei occhi per la prima volta… Questo cielo che, come diceva Joseph Kessel, non è mai per davvero sopra le teste, ma a destra, o a sinistra, o più in basso, o più in alto… Questo muro di tutte le lacrime che, in quello stesso periodo e per la prima volta, ho visto con gli occhi febbrili del generale Moshe Dayan che l’aveva appena liberato… I miei ricordi di Benny Lévy che fonda, con Alain Finkielkraut e il sottoscritto, un Istituto di studi Levinassiani… Il grande intellettuale Yeshayahou Leibowitz che mi spiega che Gerusalemme è una città di preghiera per le Settanta Nazioni e al contempo l’unica di Israele ontologicamente non negoziabile… Amos Oz, membro fondatore della “La règle du jeu” (“La regola del gioco”), che medita sul senso della parola del Talmud secondo cui due Giusti - per esempio un israeliano e un palestinese - “non necessariamente parlano la stessa lingua”… E Gaza? E i due ministri di estrema destra del governo Netanyahu? E le strazianti immagini dei morti civili palestinesi? Non ho mai smesso di parlarne dal primo giorno di questa guerra, voluta e portata avanti dai pogromisti di Hamas sequestratori di ostaggi. E men che mai intendo sottrarmi adesso. *Traduzione di Anna Bissanti