Gino Cecchettin tra gli ergastolani: “Prima di incontrarli provavo odio” di Silvia Quaranta Il Gazzettino, 24 maggio 2025 “Ora Filippo Turetta mi fa più pena che rabbia”. Il padre di Giulia il 23 maggio è stato tra gli ospiti di una giornata di studi al Due Palazzi di Padova e ha parlato del femminicidio della figlia dopo la recente notizia del processo d’Appello. Mentre il processo per l’omicidio Cecchettin prosegue anche in Appello - con il doppio ricorso presentato dalla Procura, che chiede il riconoscimento delle aggravanti di crudeltà e stalking, e dalla difesa di Filippo Turetta che contesta la premeditazione e invoca le attenuanti generiche - il padre di Giulia sceglie ancora una volta la strada del dialogo e dell’elaborazione del dolore. Gino Cecchettin è intervenuto ieri (23 maggio) al carcere Due Palazzi di Padova, nell’ambito del seminario “Disinnescare... Attrezziamoci per disinnescare i conflitti, non per fomentarli”, incontro molto partecipato che ha richiamato oltre seicento persone. Non si è espresso sul ricorso, Gino Cecchettin: “Sono aspetti che io posso conoscere limitatamente. Non ho studiato giurisprudenza, non posso giudicare. Se c’è una cosa che abbiamo imparato, è che dovremmo tenere il pregiudizio fuori e lasciar fare agli esperti”, ha detto con pacatezza. L’intervento - Ma ha parlato, a lungo, della rabbia. Della sua, affrontata dopo la perdita della figlia. “All’inizio sentivo l’odio crescere dentro di me. Poi ho trovato un modo per annullarlo”. A guidarlo, una scelta precisa: cercare la felicità, soprattutto quella dei suoi figli Elena e Davide. “Ho perso una figlia - dice - non voglio perdere gli altri due”. Ed è da qui che parte la domanda che, ieri, ha spiazzato il pubblico del Due Palazzi: “E voi, ce l’avete un sogno?”. Una domanda semplice e dirompente, rivolta ad una platea composta da detenuti, molti dei quali con “fine pena mai”. Cecchettin è tornato al Due Palazzi per la seconda volta. La prima fu il 31 ottobre scorso, poche settimane prima dell’udienza del 3 dicembre in cui venne pronunciata la condanna all’ergastolo per Turetta. “A quel primo incontro - ha raccontato - eravamo impreparati. Io non sapevo con chi avrei parlato e non immaginavo di trovarmi davanti molti ergastolani. Ma ascoltandoli ho sentito persone autentiche, sincere nella loro sofferenza”. Un’esperienza che ha trasformato anche il modo di vivere l’imminente confronto processuale: “Dopo l’incontro con i carcerati - ha detto Cecchettin - ho vissuto quel momento in modo diverso. La rabbia mi aveva del tutto abbandonato e per Turetta, umanamente, ho provato qualcosa di molto più vicino alla pena”. L’iniziativa - L’incontro ha visto la partecipazione di tanti testimoni del dolore e della speranza. Tra loro, Benedetta Tobagi, che ha parlato della lotta contro la violenza di genere, e Anilda Ibrahimi, che ha affrontato il tema del pregiudizio e dell’integrazione. Toccanti anche le parole di Sonia Fusco e Yehia Elgaml, genitori che hanno perso figli a causa della violenza. Insieme ai mediatori penali Federica Brunelli e Carlo Riccardi, hanno raccontato percorsi possibili di giustizia riparativa. Un racconto che ha trovato eco anche nella testimonianza di Marino Occhipinti, ex componente della “Banda della Uno Bianca”, che dopo una nuova carcerazione per violenza nel 2022 ha finalmente compreso quanto non basti il tempo a disinnescare la rabbia se non si affrontano i propri fantasmi interiori: “Questa seconda esperienza mi è servita più della prima, per liberarmi delle mie macerie. Quelle personali e quelle prodotte, che ho causato ad altri”. Un seme di speranza, in un luogo dove le colpe pesano. Marino Occhipinti: “Dopo vent’anni in carcere ero ancora pieno di rabbia” “E voi, ce l’avete un sogno?”. A Gino Cecchettin bastano sei parole per scatenare un’onda dirompente su una platea di oltre seicento persone. Tra loro anche uno dei componenti della banda della Uno Bianca, che ha poi raccontato la sua redenzione. Tornando a Cecchettin: nessuno, prima di quel momento, era mai venuto in mente di chiedere a dei carcerati, molti dei quali con fine pena mai, se avessero ancora dei sogni nel cassetto. La sua domanda, semplice e spontanea, arriva nel corso di un affollato incontro al carcere Due Palazzi di Padova, un seminario dedicato alla rabbia e a come disinnescarla (“Disinnescare… Attrezziamoci per disinnescare i conflitti, non per fomentarli” il titolo completo dell’evento, promosso da Ristretti Orizzonti). Tra i relatori uno dei primi a parlare è proprio Gino Cecchettin, che nella vita ha già affrontato una delle prove più dure che un uomo e un padre possa sopportare. Di questi giorni, poi, è la notizia che, sul processo per la morte di Giulia, sia la Procura (prima) che la difesa di Turetta (poi) hanno impugnato la sentenza di primo grado e presentato ricorso in Appello. Fatti su cui Cecchettin non si esprime: “Non ho studiato giurisprudenza, non posso giudicare”. Cecchettin si sofferma a lungo, invece, sull’elaborazione della rabbia. Ne ha provata molta, dopo la scomparsa di Giulia, ma ha imparato ad addomesticarla, a spegnerla per concentrarsi su quanto di buono è rimasto nella sua vita. “All’inizio - racconta - sentivo l’odio crescere dentro di me. Poi ho trovato un modo per annullarlo. Per me questo è il secondo incontro al Due Palazzi di Padova: la prima volta ero impreparato, non nascondo di aver provato un po’ di smarrimento, anche timore all’idea di parlare con ergastolani. Ma ascoltandoli ho sentito persone autentiche, sincere. Anche a loro ho raccontato di come la rabbia, ad un certo punto del mio percorso, l’ho messa da parte perché non mi avrebbe portato a nulla”. Quel primo incontro si era svolto il 31 ottobre dello scorso anno. Circa un mese prima dell’udienza del 3 dicembre, che ha visto la condanna di Turetta all’ergastolo. “L’incontro con i carcerati - ha detto Cecchettin - mi ha permesso, quel giorno, di guardare Turetta con occhi diversi. La rabbia mi aveva abbandonato e per lui ho provato qualcosa di più vicino alla pena”. Adesso, per il padre di Giulia, il destino di Turetta è in mano alla giustizia e l’unico augurio è che l’iter faccia il suo corso. Cecchettin si concentra su quanto gli è rimasto di più caro: i suoi figli Elena e Davide. Il suo sogno è vederli felici. E quello dei carcerati? Cecchettin chiede con naturalezza disarmante, poche parole che scuotono le coscienze. “Perché nessuno - sottolinea la direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente nazionale della Conferenza Volontariato Giustizia, Ornella Favero - si aspettava che un uomo come lui, che ha vissuto quello che ha vissuto, venisse qui a riconoscere ai detenuti il diritto di sognare. Gino Cecchettin è una persona che, come suggerisce il titolo di questo convegno, ha disinnescato la rabbia davvero, in modo autentico e totale. Per questo il suo insegnamento è così prezioso”. Anche la direttrice del carcere, Maria Gabriella Lusi, ha sottolineato il grande impatto dell’iniziativa: “Il nostro obiettivo, in carcere - ha detto - è fare in modo che questa esperienza possa davvero essere all’altezza del suo fine primario, che è quello di restituire alla società persone che sono riuscite a guardarsi dentro, affrontare i propri mostri e disinnescare la rabbia”. L’incontro di ieri ha visto la partecipazione di numerosi volti noti: da quello di Benedetta Tobagi, scrittrice e storica, che ha offerto una lettura appassionata delle battaglie del femminismo e della necessità di unire le forze contro la violenza di genere, a quello di Carlo Stasolla, paladino dei diritti delle comunità rom. La scrittrice Anilda Ibrahimi ha descritto un toccante spaccato sul tema dell’integrazione e del pregiudizio, mentre Sonia Fusco e Yehia Elgaml, genitori che hanno subito la perdita dei figli a causa della violenza, hanno parlato degli strumenti per disinnescare l’odio e costruire percorsi di giustizia riparativa. Gli interventi sono stati intervallati da storie di detenuti, che hanno parlato di sé in prima persona, raccontando il difficile percorso attraverso la pena. Tra questi Marino Occhipinti, che alla fine degli anni Ottanta fece parte della banda della Uno Bianca, macchiandosi dell’omicidio di una guardia giurata, durante una rapina. Arrestato nel 1994, dopo vent’anni di reclusione inizia il suo percorso verso la libertà, ma nel 2022 torna in carcere per violenza. “Mi resi conto solo dopo - racconta ora - che vent’anni di prigione non mi avevano cambiato davvero: dentro ero ancora pieno di rabbia. Una rabbia con radici lontane, che affondava nella mia infanzia e che non avevo mai affrontato. E quella rabbia l’avevo usata contro la mia ex compagna. Dopo la delusione del rientro in carcere, oggi posso dire che questa seconda esperienza mi è servita più della prima, per liberarmi delle mie macerie. Quelle personali e quelle prodotte, che ho causato ad altri”. C’è una proposta per affrontare il sovraffollamento in cella. Ecco qual è di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 24 maggio 2025 È la leva della “buona condotta”. La situazione nei penitenziari (oltre 16mila detenuti in più della capienza) è insostenibile. Il progetto di Giachetti (Iv) convince La Russa e riapre il confronto. Le condizioni di sovraffollamento dei penitenziari italiani, con oltre 16mila detenuti in più rispetto alla capienza tabellare, continuano a destare preoccupazione, insieme al numero dei suicidi e alle altre forme di grave malessere che affliggono il mondo carcerario. E, accanto agli interventi di edilizia carceraria su cui lavora il commissario straordinario di governo Marco Doglio, inizia a farsi strada l’ipotesi di un intervento normativo per sfoltire le presenze, anche se su questo, in seno alla maggioranza, un vero e proprio ragionamento ancora non è partito. Pure le opposizioni, pur favorevoli in linea di principio a provvedimenti del genere, per ora ne parlano sottovoce, forse perché in parte spiazzate dal bengala “bipartisan” lanciato mercoledì al Senato. “Il tema è delicato”, considerano a sera fonti di centrodestra, “e per chiunque di noi sarebbe prematuro e inopportuno prendere posizione, senza un confronto all’interno della coalizione”. Bisognerà dunque attendere le prossime settimane per capire se l’esito positivo dell’incontro dell’altro ieri fra il presidente del Senato Ignazio La Russa, l’esponente di Italia Viva Roberto Giachetti e la presidente di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini abbia effettivamente aperto qualche spiraglio di trattativa politica. Non rispetto a generalizzati provvedimenti di clemenza, quanto piuttosto a un intervento di tipo “chirurgico” verso quei reclusi che abbiano dimostrato la propria buona condotta, che offrirebbe il vantaggio di alleggerire in modo sostanzioso il numero totale dei detenuti, senza contravvenire al sostrato ideologico del centrodestra rispetto al sistema carcerario e all’espiazione della pena. La proposta Giachetti e il placet di La Russa - L’incontro con la seconda carica dello Stato, a detta dello stesso La Russa, “è andato molto bene”. Lo storico esponente della destra, ora presidente del Senato, pare aver apprezzato la proposta di Giachetti. “Sono estremamente favorevole a un provvedimento non che svuoti il carcere, ma che costituisca la possibilità per chi deve scontare la pena, di farlo in maniera civile”, dice La Russa, facendo sapere di aver discusso della questione anche con la premier: “Ho parlato con la presidente del Consiglio Meloni che mi ha dato contezza dei progetti del governo, che però hanno dei tempi di realizzazione”. E al momento, “è inutile che fai la sala cinema o la sala musica, se poi devono stare in otto in una cella”. Perciò, “il mio convincimento personale, e da presidente del Senato, è che occorra intervenire con un provvedimento di emergenza”. Il punto di partenza potrebbe essere la proposta di legge avanzata da Giachetti con Italia Viva. “Interverrebbe non sulla Costituzione, ma su una norma che già esiste, quella che prevede l’istituto della liberazione anticipata”, argomenta La Russa, “che era stata già modificata in passato”. Il cardine della “buona condotta” - Rita Bernardini, presente all’incontro, tratteggia una possibile misura “potenziata per il solo momento emergenziale, fino a che non sarà risolto il problema del sovraffollamento, che di per sé genera trattamenti inumani e degradanti”. Lei e Giachetti la definiscono “la norma della buona condotta”, dalla quale sarebbero “automaticamente esclusi gli autori di aggressioni nei confronti del personale, in particolare della polizia penitenziaria”. Come funzionerebbe? Al momento, chi mantiene una buona condotta può chiedere la sottrazione, sul monte della pena, di 45 giorni (in passato erano 30) ogni ulteriori sei mesi da scontare. La proposta Giachetti prevede che si salga a 75 giorni, ma solo per due anni. La Russa non è convinto (“Basterebbe la soglia di 60 giorni”), ma i tre cocordano sull’esigenza di una norma “a tempo” che consenta di alleggerire il totale di oltre 60mila presenze nelle carceri. Chiaramente, da presidente di un ramo del Parlamento, La Russa si tira fuori dall’agone delle trattative politiche. Ma una cosa la dice: “Credo che il partito a cui sono iscritto, Fratelli d’Italia, come gli altri partiti del centrodestra e quelli dell’opposizione, avranno la libertà di valutare se quella proposta possa essere accolta”. Una valutazione pragmatica, che la politica non può ignorare. Anche Bernardini e Giachetti, pur considerando “importante e di rilievo la scelta del Presidente del Senato”, si dicono ben consapevoli “che qualunque decisione non potrà che essere nelle mani del Parlamento”, invitando le forze politiche a deporre le armi. Sul tema interviene anche un altro veterano del centrodestra, l’ex ministro Renato Brunetta, ora presidente del Cnel, chiedendo maggiori strumenti sul fronte della scuola, del lavoro e del reinserimento per chi esce dal carcere, “perché ciò può abbattere la recidiva” e segnalando che sui “6-7mila detenuti che hanno una pena residua di un anno bisognerebbe intervenire subito”. De Michele pronto a guidare il Dap - Intanto, il magistrato Stefano Carmine De Michele si appresta a insediarsi come nuovo capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, dopo il via libera del plenum del Csm alla conferma del suo collocamento fuori ruolo, chiesto dal Guardasigilli Carlo Nordio. Una nomina che ha colmato un vuoto durato 5 mesi, dopo le dimissioni di Giovanni Russo, sbloccando un’impasse che aveva visto il Quirinale non in sintonia con l’indicazione - giunta da via Arenula - di promuovere la vice di Russo, Lina Di Domenico, finora capo facente funzioni e ora destinata a guidare un altro Dipartimento, quello dell’Organizzazione giudiziaria. Da dove nasce la richiesta di un gesto di clemenza: quel convegno al Senato di Chiara Di Benedetto Avvenire, 24 maggio 2025 Organizzato dalla cooperativa “La Valle di Ezechiele”, che dà lavoro agli ex detenuti, l’evento il 15 maggio ha messo insieme i cappellani delle carceri, il mondo della politica e la società civile. Una inaspettata convergenza di intenti si è realizzata ieri sul problema del sovraffollamento delle carceri italiane, anche e soprattutto per mano di Ignazio La Russa, che è intervenuto durante il convegno organizzato in Sala Zuccari, a Palazzo Giustiniani, dalla cooperativa “La Valle di Ezechiele”, che dal 2019 si occupa di dare lavoro agli ex detenuti. Il presidente del Senato - nonché noto avvocato penalista - ha infatti annunciato che presto incontrerà Roberto Giachetti, deputato di Italia viva e membro del Partito Radicale transnazionale, per discutere la sua proposta di liberazione anticipata: “Farò moral suasion perché se ne discuta”. Al centro di tutto la piaga del sovraffollamento, che secondo il presidente del Senato deve essere affrontata con un progetto strutturale: “La soluzione non può essere, come nei decenni che ci hanno preceduto, episodica: cioè svuotiamo il carcere, in attesa che si riempia di nuovo, come è sempre accaduto”. Eppure un progetto del genere richiede anni per essere attuato, e l’allarme è più che mai pressante: in Italia sono più di 62mila le persone detenute, a fronte di una capienza regolamentare di circa 50mila posti, con un tasso di affollamento del 133,52%. È qui che, secondo La Russa, potrebbe entrare in gioco la proposta di Giachetti: la liberazione anticipata (passare dall’attuale “sconto” di 45 giorni a 60 ogni sei mesi di detenzione) di alcune categorie di detenuti permetterebbe al sistema carcerario di tirare un sospiro di sollievo, mentre si continua a lavorare su una soluzione che operi a lungo termine. Da 22 giorni Rita Bernardini, presidente della Ong Nessuno tocchi Caino, era in sciopero della fame in segno di sostegno al provvedimento di Giachetti, ma dopo aver ascoltato l’inattesa dichiarazione d’intenti di La Russa, ha deciso di sospenderlo. Ha però chiesto alle oltre 150 persone che hanno aderito all’iniziativa di proseguire lo sciopero, “per accompagnare insieme questo processo che oggi ha visto un’apertura politica significativa”. L’intervento di La Russa arriva in un momento critico: il 2024 è stato “un annus horribilis” per il mondo delle carceri, come ha ricordato Alessia Villa, presidente della Commissione Carceri Regione Lombardia. L’anno passato ha infatti stabilito un record per il numero di suicidi, non solo tra i detenuti ma anche tra gli operatori degli istituti penitenziari. Per questo, secondo Villa, non ha più senso parlare di “emergenza carceri”, perché ormai si è raggiunto uno stato di “cronicità” tale che “presto o tardi le porte di quei carceri si riapriranno, ma per le troppe persone”. In istituti come la Casa Circondariale di Busto Arsizio o quella di Brescia - Canton Mombello il tasso di sovraffollamento è del 200% con celle da 13 o anche 15 detenuti. In un contesto del genere, ha rimarcato Villa, la riabilitazione è praticamente impossibile. Ne è una spia il recente caso di Emanuele De Maria che, in permesso di lavoro fuori dal carcere, ha ucciso una donna e si è tolto la vita. Secondo Fabio Pinelli, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, i magistrati di sorveglianza sono così intasati di lavoro da non riuscire a instaurare un rapporto efficace con il detenuto e a guidarlo nella strada della rieducazione. Per Pinelli, l’alto tasso di recidiva è da ricondursi anche e soprattutto a questo. L’unica soluzione, secondo il vicepresidente del Csm, è lavorare direttamente sull’ordinamento penitenziario, rivedere il concetto di pena alla luce della realtà attuale delle prigioni italiane. Anche don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, ha lanciato un appello, per “un gesto di clemenza”. La stessa invocata da Papa Francesco nella Bolla di indizione del Giubileo, in cui ha chiesto ai governi di assumere iniziative “che restituiscano speranza. Forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società”. Ed “è nella direzione della speranza che bisogna agire”, ha rimarcato don David Maria Riboldi, cappellano della Casa Circondariale di Busto Arsizio e fondatore de La Valle di Ezechiele. Perché “per ogni tragedia come quella di De Maria ci sono invece decine di uomini e donne che ce la fanno”. No chiediamo un atto di clemenza, ma un atto di giustizia di Chiara Squarcione* e Laura Di Napoli** L’Unità, 24 maggio 2025 Dal 10 maggio abbiamo intrapreso uno sciopero della fame a oltranza per sostenere, rafforzare, dare corpo all’azione radicale nonviolenta di Rita Bernardini a favore della proposta di Nessuno tocchi Caino di un anno di riduzione di pena per tutti i detenuti. Rita ha sospeso il suo sciopero al 22° giorno in seguito all’apertura manifestata dal Presidente del Senato, Ignazio La Russa, che ha riconosciuto il sovraffollamento carcerario come problema prioritario e ha indicato come possibile soluzione la proposta di legge di Nessuno tocchi Caino sulla liberazione anticipata presentata alla Camera da Roberto Giachetti di Italia Viva. Anche il Vice Presidente del CSM, Fabio Pinelli, ha espresso sostegno alla proposta, sottolineando la necessità di affrontare con urgenza il problema del sovraffollamento. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha più volte richiamato l’attenzione sulle condizioni inumane e degradanti nelle carceri italiane. La Presidente di Nessuno tocchi Caino ha chiesto di continuare la mobilitazione nonviolenta come noi stiamo facendo insieme ad altre persone che portano avanti il digiuno a staffetta, per mantenere alta l’attenzione sull’emergenza carceraria e sostenere l’adozione della proposta Giachetti. Rita non è sola, e non lo è nemmeno la battaglia di Nessuno tocchi Caino. I nostri corpi, insieme a quelli di altri militanti radicali, sono un tutt’uno per chiedere un atto concreto di giustizia, legalità, umanità: una riduzione di un anno della pena per tutti i detenuti e il ritiro delle parti incostituzionali del Decreto Sicurezza. Il ritorno a uno Stato di Diritto pieno. Non si tratta di un atto di clemenza. È un atto di giustizia. Una risposta necessaria a un sistema carcerario che ha smesso da tempo di rispettare la Costituzione, ed è al collasso. Sovraffollamento, trattamenti inumani, suicidi: questa è la quotidianità delle carceri italiane. Non un’emergenza, ma una condizione cronica di illegalità. Una crisi democratica. E ad aggravarla, arriva un decreto che invece di riparare, punisce; invece di ascoltare, reprime. Colpisce chi protesta senza violenza, chi dà voce alla sofferenza. La nuova fattispecie di “resistenza passiva” introduce pene da uno a cinque anni per chi, in carcere o nei CPR, si oppone in modo nonviolento alle condizioni di detenzione. È incostituzionale. E rappresenta il segno di una mentalità repressiva, securitaria, punitiva che attraversa tutto l’approccio del Governo su carcere, sicurezza e diritti. Ecco perché siamo in sciopero della fame. Anche nel nome di chi ci ha insegnato che i corpi sono strumenti di lotta e di verità. Marco Pannella ci ha lasciato l’eredità della nonviolenza ed è da lui che abbiamo imparato che il silenzio delle istituzioni si può rompere solo con la radicalità della azione nonviolenta. E oggi, con Rita Bernardini, raccogliamo quella eredità e chiediamo, appoggiando l’appello di Nessuno tocchi Caino, ciò che è giusto, non ciò che è comodo: in memoria anche di Papa Francesco, che fino all’ultimo ha avuto parole e gesti di compassione verso chi è recluso, un anno di riduzione della pena per tutti i detenuti, in occasione dell’anno giubilare. Un gesto di civiltà e di maturità democratica. L’appello ha già ricevuto il sostegno di parlamentari di diversi schieramenti, dal PD a Forza Italia, da Azione ad AVS, da Fratelli d’Italia a +Europa e alla Lega. È la dimostrazione che certi valori possono - e devono - essere trasversali. L’umanità non ha colore politico. E la giustizia non può ridursi a una vendetta codificata. Noi non chiediamo indulgenza. Chiediamo rispetto per la dignità delle persone. Chiediamo che si guardi alla realtà: chi sconta tutta la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 70%, mentre per chi accede a misure alternative il rapporto si inverte. È lì che vive la vera sicurezza: nella rieducazione, non nell’annientamento. Le misure alternative, oggi adottate da circa 100.000 persone, tengono in piedi un sistema penitenziario altrimenti al collasso. Il loro tasso di revoca è basso: 12,6% nel 2024, e appena 8,2% per chi lavora all’esterno. Eppure, invece di valorizzarle, si promuove una visione repressiva che fa dell’eccezione la regola. Per questo digiuniamo. Non solo perché non si può tacere sul carcere, ma perché i corpi sono lo strumento che abbiamo per dare voce a una comunità reclusa che non trova ascolto. Il Parlamento ha oggi l’occasione di compiere un atto di responsabilità. Di dire che in Italia la pena non è tortura, e la giustizia non è vendetta. Che il carcere non è uno spazio di legalizzata disumanità. Che chi chiede giustizia, chiede legge, sicurezza, dignità, civiltà. *Europa Radicale, Associazione Radicale Adelaide Aglietta **Sardegna Radicale - Associazione Tonino Pascali Gatta (Forza Italia): “Servono più figure di supporto per garantire il diritto alla riabilitazione” immediato.net, 24 maggio 2025 Il deputato chiede di rafforzare l’organico dei funzionari giuridico-pedagogici: “Un solo educatore ogni 65 detenuti, così la Costituzione resta inapplicata”. Rafforzare il ruolo della funzione rieducativa della pena prevista dall’articolo 27 della Costituzione, potenziando l’organico degli educatori penitenziari. È questo il contenuto dell’interrogazione a risposta scritta presentata dall’onorevole Giandiego Gatta (Forza Italia), che ha riportato l’attenzione sulla carente presenza dei funzionari giuridico-pedagogici (Fgp) all’interno delle carceri italiane. Il deputato pugliese ha sottolineato, in un post accompagnato dal testo dell’interrogazione, come questi professionisti siano essenziali nel guidare e sostenere i detenuti in un percorso di recupero personale e reinserimento sociale: “Gli educatori svolgono un ruolo cruciale nella riabilitazione e nella reintegrazione dei condannati, offrendo supporto e strumenti per affrontare il ritorno alla società”. Un organico sottodimensionato: un FGP ogni 65 detenuti - Nel testo dell’interrogazione, Gatta evidenzia che ad oggi la proporzione è di un solo FGP ogni 65 detenuti, numeri che non permettono un’adeguata presa in carico del percorso rieducativo di ogni singola persona. “Le conseguenze della carenza sono molteplici e gravi - ha detto - dalla difficoltà di accedere ai programmi formativi al maggiore rischio di recidiva”. Concorso ancora in corso: “Proseguire con gli scorrimenti” - Il deputato forzista richiama anche il concorso bandito nel 2022, che ha visto l’inserimento già di alcune centinaia di unità, ma la cui graduatoria non è stata ancora esaurita. Gatta chiede quindi al ministro della Giustizia se intenda procedere con nuovi scorrimenti e con l’aumento stabile della dotazione organica, per assicurare la piena effettività della funzione costituzionale della pena come strumento di risocializzazioni. “Il principio della rieducazione della pena non può essere un’utopia - ha concluso Gatta - ma un impegno concreto da parte dello Stato. È indispensabile un investimento serio in risorse umane qualificate, perché senza educatori la riabilitazione rischia di diventare solo un enunciato”. Un messaggio chiaro, rivolto a Governo e Parlamento, per riportare al centro del dibattito il valore civile della giustizia penitenziaria. In carcere col dubbio di colpevolezza. Bellomo (Forza Italia): “Colmare il vuoto legislativo” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 24 maggio 2025 Il deputato azzurro presenta un’interpellanza parlamentare al ministro della Giustizia Carlo Nordio partendo dal caso di Garlasco: “Prevedere una sospensione cautelare del carcere quando, dopo una condanna definitiva, sorgono dei dubbi. A volte si cerca un colpevole, non il colpevole”. Quando un giudice decide di condannare lo fa, o dovrebbe, perché ritiene l’imputato colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. Ci sono casi in cui, però, il dubbio sorge dopo la condanna definitiva. E non c’è modo di scarcerare il condannato. A meno che non si faccia la revisione del processo, che però è un percorso lungo e non sempre possibile. l caso di Garlasco è uno di questi. Alberto Stasi è stato condannato (dopo due assoluzioni) a 16 anni di carcere perché il giudice ha ritenuto avesse ucciso la sua fidanzata, Chiara Poggi, nella sua casa del paese in provincia di Pavia, nel 2007. Non c’è mai stato un movente. Non hanno trovato l’arma del delitto. Ora c’è una nuova indagine, un nuovo indagato, Andrea Sempio, amico del fratello di Chiara. Indagato, lo precisiamo oltre il dovuto, non vuole dire colpevole. Ma da questa nuova inchiesta deriva un fatto: Stasi per la legge è colpevole oltre ogni ragionevole dubbio solo formalmente. Perché, lo dicono gli inquirenti stessi, i dubbi in realtà ci sono. L’uomo, però, si trova in carcere, in semilibertà e, mentre la sua colpevolezza vacilla seriamente, non può uscirne. Sicuramente non nell’immediato. “C’è un vuoto legislativo”, nota con HuffPost Davide Bellomo, deputato di Forza Italia che ha presentato un’interpellanza al ministro della Giustizia, Carlo Nordio. “C’è un condannato, ma è la stessa procura che aveva condotto l’inchiesta a dubitare della condanna. Quella persona ogni giorno ascolta in tv i dubbi sulla sua condanna, eppure deve restare in carcere”. Per questo motivo Bellomo chiede al ministro di valutare una riforma. Ma quale sarebbe l’idea? “Prevedere - ci spiega ancora Bellomo - una sospensione cautelare dell’esecuzione della pena in carcere nei casi come quello di Garlasco. In cui, cioè, abbiamo formalmente un responsabile ma, allo stesso tempo, è sorto il fondato dubbio che il responsabile non sia lui. Se quell’impronta di cui si parla fosse emersa mentre il processo era in corso, probabilmente sarebbe stato assolto definitivamente”. L’impronta in questione è quella rinvenuta in casa Poggi, che - dicono gli inquirenti - potrebbe appartenere all’assassino. E non è l’impronta di Stasi. Ai tempi del delitto era stata già valutata e ritenuta inutile. Potrebbe partire da questo una eventuale revisione del processo? “In linea generale - evidenzia il deputato - le prove già analizzate non possono essere più toccate. A meno che non intervenga una nuova tecnologia che consente di fare analisi nuove e ottenere risultati diversi”. Potrebbe essere questo il caso, ma non è detto. Al di là del merito, il problema, chiosa Bellomo, è che ci sono casi “in cui non si vuole trovare il colpevole, ma un colpevole. Ma se c’è anche un solo dubbio, una persona non dovrebbe essere condannata”. Violenza di genere, va garantito il diritto alle cure psicologiche per gli autori di reato di Alberto Liguori* Il Dubbio, 24 maggio 2025 In linea con il 2024, il “bollettino di guerra” del primo trimestre 2025 sulla violenza contro le donne ha fatto registrare una vera e propria mattanza (17 donne uccise), assumendo dimensioni drammatiche ed emergenziali come ha avuto modo di affermare nel novembre dello scorso anno il ministro dell’Interno Piantedosi. Il Legislatore ha reagito rafforzando gli strumenti di contrasto alla violenza contro le donne con l’adozione di misure di tutela della vittima per sterilizzare al massimo le occasioni di contatto tra la vittima e l’indagato. La strategia ha un comune denominatore: la tempestività dell’intervento attraverso l’esame della vittima nei tre giorni successivi all’iscrizione della notizia di reato e con la successiva valutazione del quadro cautelare nei 30 giorni dalla medesima iscrizione con opzione, nei casi più gravi, di misure cautelari personali o coercitive sulla base delle informazioni richieste all’organo di polizia giudiziaria procedente. Eppure, nonostante la potenza di fuoco normativa e investigativa messa in campo, i numeri ci dicono che qualcosa non ha funzionato. Anche quando vengono applicate misure cautelari più stringenti, quali l’allontanamento dalla casa familiare o e il divieto di avvicinamento in luoghi frequentati dalla persona offesa dell’autore del reato con l’aggiunta del c.d. braccialetto elettronico, la finalità di prevenzione pare frustata. E, allora, serve anche altro tipo di intervento mirato, questa volta, sull’autore del reato per ricostruire il contesto di appartenenza e agire in termini preventivi perché la violenza è il risultato di un’interazione complessa di fattori biologici, psicologici, familiari e sociali. È, tempo, che scenda in campo anche l’esperto psicologo sin dalle prime battute delle indagini per la raccolta delle dichiarazioni rese dalla vittima: in ausilio alla p. g., nella fase dedicata all’ascolto della vittima di reato, deve essere presente l’esperto psicologo la cui professionalità sarò utile anche per la compilazione della scheda sul rischio di escalation criminale (protocollo SARA) che deve essere consegnata al Pm per agevolare la sua prognosi sulla necessità di cautelare o meno il reo. La previsione consentirebbe, altresì, all’esperto di pronunciarsi sulla necessità di un percorso trattamentale con la previsione di programmi di prevenzione della violenza. Per la verità, il nostro Legislatore, anche perché sollecitato da organismi europei, ha previsto percorsi di trattamento per gli autori di reato ma, a sommesso avviso di chi scrive, in una fase avanzata delle indagini preliminari e in un’ottica premiante e non di prevenzione vera e propria. Infatti, la sottoposizione a un programma di prevenzione della violenza dell’autore è facoltativa, essendo a questi rimessa la scelta di beneficiare di regimi cautelari meno afflittivi se non per ottenere la sospensione condizionale della pena. Quel che invece servirebbe, tenendo conto che è in gioco il bene della vita, è una scelta di campo innanzitutto culturale che precede quella normativa. Gli interventi premianti e convenienti per il reo - sottoponiti ad un programma di prevenzione della violenza presso i Centri per uomini autori di violenza (C.U.A.V.) e ti scarcero o non ti faccio entrare in carcere - devono essere affiancati da strumenti di autentica prevenzione convenienti per tutti, reo, vittima e intera collettività, con la presa in carico dell’autore di violenza da parte dei C.U.A.V. entro il perimetro temporale assegnato al pubblico ministero dei 30 giorni dall’iscrizione della notizia di reato per decidere sulla libertà del reo. Lo sforzo culturale è quello di coniugare sicurezza, libertà e salute con il ricorso a prescrizioni a corredo delle misure cautelari adottate convenienti sia per il reo sia per la vittima del reato, quali l’obbligo della frequentazione del corso di recupero per affrontare funditus le ragioni di amori malati e/ o tossici portati avanti di solito da persone tossicodipendenti o etilisti che, purtroppo, con elevata frequenza sfociano in femminicidi. L’autore di maltrattamenti, stalking, lesioni e di femminicidi è, prima ancora che un delinquente, un paziente affetto da disturbi della personalità. Prevenire significa soprattutto indagare sulle ragioni del malessere per evitare o ridurre escalation criminali. La letteratura criminale insegna che non bastano 500 metri di distanza per impedire e prevenire il femminicidio. Serve, invece, che allorquando il giudice si determina per l’applicazione di una misura cautelare personale o coercitiva per il reo, nella parte dedicata alle prescrizioni, accanto all’implementazione del braccialetto elettronico, preveda anche la frequentazione di un programma di prevenzione della violenza presso uno dei Centri regionali di ascolto uomini maltrattanti e, come accade per il braccialetto elettronico, in caso di rifiuto di sottoposizione far scattare automaticamente l’applicazione di una misura più grave. Basterebbe intervenire sull’attuale assetto normativo delle misure coercitive più diffuse dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282 bis c.p.p.) e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282 ter c.p.p.). Insomma, portando a regime l’attuale sistema processuale potremmo incidere in maniera efficace mettendo in sicurezza la vittima e il reo, al quale comunque deve essere garantito anche il diritto alle cure, alzando l’asticella e anticipando alla fase che precede l’adozione della misura cautelare il momento della diagnosi e della terapia. *Procuratore di Civitavecchia ed ex componente Csm Legittima l’espulsione del detenuto straniero senza titolo di soggiorno di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2025 La pena ancora da scontare non può però essere superiore a due anni e l’identità deve essere certa. Non ci può essere equiparazione con le misure alternative alla detenzione. Legittima l’espulsione dello straniero, privo di permesso di soggiorno, detenuto con meno di due anni di pena da scontare. Lo chiarisce la Corte costituzionale con la sentenza n. 73 depositata il 23 maggio 2025 e scritta da Giovanni Amoroso. Infondati quindi i dubbi di incostituzionalità sollevati dal tribunale di sorveglianza di Palermo. Cinque presupposti - La Consulta ricorda che i presupposti per l’espulsione sono cinque: lo stato detentivo, la durata della pena residua non superiore a due anni, l’identificazione certa del soggetto, il fatto che la pena in corso non sia stata inflitta per una precisa categoria di gravi reati e l’irregolarità del soggiorno. A fondare le ragioni del provvedimento di espulsione, poi, la necessità di attenuare il sovraffollamento delle carceri che già in passato la Corte aveva giudicato nè arbitrario nè irragionevole, con una temporanea astensione dello Stato dalla potestà punitiva in corrispondenza dell’allontanamento dello straniero dal territorio nazionale. Provvedimento di natura amministrativa - Ora la sentenza depositata ieri sottolinea come il provvedimento di espulsione disposto dal magistrato di sorveglianza ha natura amministrativa, anticipando l’espulsione amministrativa dovuta all’irregolarità del soggiorno, che in ogni caso colpirebbe l’interessato al termine dell’esecuzione della pena, e non può essere per questo equiparata alle misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario. Non si tratta però di un provvedimento automatico perché il magistrato di sorveglianza è comunque chiamato a una valutazione dell’effetto dell’espulsione sulle condizioni personali e familiari della persona interessata (in questa prospettiva già la giurisprudenza ha dimostrato una particolare attenzione per la tutela del diritto alla salute e per la conservazione dei legami familiari). Diritto di opposizione - Quanto alle garanzie processuali, poi, ricorda ancora la Consulta, è riconosciuto il diritto di proporre opposizione al tribunale di sorveglianza, che ha la funzione di assicurare l’esercizio del diritto di difesa e il contraddittorio tra le parti, anche se differito. Inoltre, l’esecuzione del decreto di espulsione è sospesa fino alla decorrenza dei termini di impugnazione o alla decisione del tribunale di sorveglianza. Lo stato di detenzione persiste e l’espulsione non è eseguita fino a quando non sono stati acquisiti i necessari documenti di viaggio. Pene sostitutive, non opera il divieto se la pena sospesa riguarda fatti ante Cartabia di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2025 La Cassazione con due pronunce affronta sia l’operatività del divieto in caso di sospensione condizionale sia le regole di presentazione dell’istanza e prestazione del consenso post regime transitorio della Riforma. La Cassazione ha chiarito con due sentenze coeve la legittimità dell’istanza di sostituzione della detenzione breve sotto il diverso profilo: dell’operatività o meno del divieto in caso di concessione della sospensione condizionale della pena per fatti ante Riforma e della tempestività della richiesta fatta per la prima volta in appello post regime transitorio della novella già modificata con il decreto correttivo Dlgs 164/2024. Con la prima sentenza - la n. 19307/2025 - la Cassazione penale ha accolto il motivo di ricorso che lamentava la mancata presa in considerazione della richiesta ai giudici di appello di sostituzione della pena detentiva breve di sei mesi in quanto oggetto di sospensione condizionale. Infatti, tale divieto, previsto dal nuovo articolo 61 bis della legge 689/1981, introdotto dalla Riforma Cartabia (Dlgs 150/2022) non opera per i fatti commessi prima della sua entrata in vigore. Ha perciò errato il giudice di appello nel ritenere inammissibile l’istanza di applicazione di pena sostitutiva per incompatibilità tra le sanzioni sostitutive previste dall’articolo 20-bis del Codice penale e l’applicazione della sospensione condizionale della pena. Si tratta di incompatibilità espressamente stabilita dal suddetto articolo 61-bis, che è però inapplicabile in base al principio del favor rei che in caso di successione di norme penali impone l’applicazione di quella “sostanzialmente” più favorevole. Non opera quindi retroattivamente il divieto di applicazione delle pene sostitutive di pene detentive brevi nei casi in cui sia disposta la sospensione condizionale della pena. E il giudice del rinvio è ora chiamato a valutare con i normali canoni di giudizio, applicabili in materia, la richiesta di sostituzione della pena detentiva breve del ricorrente. Con l’altra sentenza - la n. 19324/2025 - la Cassazione penale ha invece giudicato la tempestività o meno della richiesta di applicazione della pena sostitutiva avanzata per la prima volta in appello al momento dell’udienza partecipata. E ha concluso in aderenza a quanto stabilito dai giudici di secondo grado che in tale fase processuale l’istanza di applicazione sia tardiva. Infatti la richiesta fatta in grado di appello al momento dell’udienza si riferiva a una sentenza di primo grado pronunciata a gennaio 2024: momento in cui non era più operativo il regime transitorio della Riforma Cartabia ed era già in vigore il correttivo della novella. La Cassazione fornendo la corretta interpretazione delle cadenze procedurali per avanzare la richiesta di sostituzione e per la prestazione del consenso da parte dell’imputato sulla pena sostitutiva individuata dal giudice ha di fatto chiarito la differenza tra istanza e consenso in materia di sostituzione della pena detentiva breve. Ha cioè affermato che il consenso alla sostituzione può essere dato fino all’udienza mentre l’istanza al più tardi può essere avanzata davanti al giudice di appello con i motivi aggiunti o le memorie difensive. Triveneto. Cappellani delle carceri: “Urgente l’estensione della liberazione anticipata” vitatrentina.it, 24 maggio 2025 Nuovo incontro dei cappellani delle carceri del Triveneto che si sono ritrovati presso il Centro pastorale di Zelarino (Venezia) il 21 maggio scorso alla presenza dell’Arcivescovo di Gorizia mons. Carlo Roberto Maria Redaelli, delegato dei Vescovi del Triveneto per tale settore. I cappellani si sono interrogati in particolare sulle accoglienze fuori dal carcere che le comunità parrocchiali, le Caritas o altre realtà ecclesiali sono in grado di mettere in atto per offrire - a chi può goderne, secondo la legge - la possibilità di concludere la pena in un contesto di reinserimento. Ribadiscono la necessità che tale opera di rieducazione trovi maggiore spazio e disponibilità all’esterno del carcere; non si tratta solamente di un’importante azione pastorale ma di un contributo reale per un’auspicabile soluzione ai problemi di sovraffollamento che continuano ad affliggere anche molti istituti carcerari del Triveneto. A tal proposito, in linea con lo spirito del Giubileo, i cappellani delle carceri del Triveneto hanno manifestato apprezzamento per quanto espresso nei giorni scorsi dal Presidente del Senato Ignazio La Russa che è intervenuto il 15 maggio u.s. al convegno “Per un gesto di clemenza nelle carceri” promosso a Palazzo Giustiniani dalla comunità “La Valle di Ezechiele”. La sua apertura ad un dialogo sulla proposta di legge “Giachetti” - relativa alla liberazione speciale anticipata - incoraggia a sperare su un impegno fattivo delle istituzioni su questo urgente tema. L’impegno del Presidente del Senato a portare avanti una ‘moral suasion’ in Parlamento su questo punto corrisponde all’auspicio dei cappellani che, inoltre, ribadiscono l’urgenza del provvedimento. L’estensione dei giorni di liberazione anticipata da 45 a 60 - seppur da sola non potrà risolvere la complessità delle situazioni di sovraffollamento (che in Italia supera il 133%) - potrebbe però essere un segno di concreta speranza di fronte ad un’emergenza persistente e così aprire la strada a quanto già auspicato da Papa Francesco, a favore dei detenuti, per l’Anno Santo: “Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi” (Spes non confundit, n. 10). Umbria. Svuota carceri per buona condotta? Il Garante: “C’è rischio caos che blocca tutto” di Sara Calini umbria24.it, 24 maggio 2025 “Così la proposta alimenterebbe aspettative nei detenuti con il rischio che la macchina burocratica che verrebbe attivata non riesce a gestirle perché già ingolfata”. La proposta alternativa dall’Umbria. Mentre a Roma si discute l’ipotesi di una nuova norma che premi la buona condotta per sfoltire le carceri, dall’Umbria c’è speranza, ma anche perplessità: “Una legge può dare speranza - avverte il garante dei detenuti Giuseppe Caforio - ma senza risorse e strutture adeguate, rischia solo di inceppare ulteriormente il sistema giudiziario umbro già al collasso”. Il problema del sovraffollamento delle carceri in Italia - e l’Umbria non fa eccezione con il suo 30% di eccesso di presenze - desta sempre più preoccupazione. Solo lunedì scorso, è finita nel mirino di Fabio Tardani, segretario dell’organizzazione sindacale della polizia penitenziaria (Osapp), la casa di reclusione di Orvieto. In una nota, il segretario, lanciava un appello alle amministrazioni, chiedendo misure straordinarie per far fronte alla carenza di personale e al sovraffollamento in atto. Non si tratta di un caso isolato per la regione, o a livello nazionale, e le istituzioni sembrano voler rispondere, a loro modo, alla chiamata. Insieme agli interventi di ristrutturazione degli istituti penitenziari - seguiti dal commissario straordinario di governo, Marco Doglio - si inizia infatti anche a parlare di un ulteriore intervento, stavolta di tipo normativo, per tentare di alleggerire le celle. La proposta di legge - Al momento siamo alle chiacchiere, ma l’incontro che si è tenuto mercoledì 21, ha destato non poco stupore e ha acceso la speranza. Il presidente del Senato Ignazio La Russa (Fratelli d’Italia) si è infatti incontrato con Roberto Giachetti (Iv) e Rita Bernardini, di ‘Nessuno tocchi Caino’, proprio per parlare di una risposta al problema, e sono subito iniziate le speculazioni su un’eventuale soluzione anti-sovraffollamento per chi si comporta bene. La Russa ha ascoltato la proposta di legge di Giachetti sull’indulto per buona condotta, che già esiste, e verrebbe ampliato come successo già in passato. Anziché diminuire di 45 giorni per ogni semestre di pena, si arriverebbe a 75 (prima erano 30), e solo per chi non è stato autore di alcuna aggressione o infrazione. La Russa Dall’incontro, è emerso che ancora la maggioranza di governo non ha trovato alcun accordo interno. Ad anticipare le buone intenzioni di La Russa, nei giorni scorsi, è stato un suo ex compagno di partito. Che oggi scrive sui giornali dal carcere, l’ex sindaco di Roma, Alemanno. Per ulteriori sviluppi, ci sarà dunque da attendere che continuino le trattative, o sperare che quantomeno rimangano aperte. Il fatto che il ‘libera carceri’ riguarderà soltanto i portatori di buona condotta potrebbe facilitare la diplomazia nell’ostile campo di centrodestra. Il presidente del Senato, ha precisato che si tratta infatti di “un provvedimento che non svuota il carcere, ma dà la possibilità a chi deve scontare la pena, di farlo in maniera civile”. Sulla questione, a Umbria24, Giuseppe Caforio, garante dei diritti dei detenuti in Umbria, più volte in passato si è detto preoccupato per la situazione delle nostre carceri. “La nuova proposta normativa - ha sottolineato - sulla buona condotta, nasce con uno spirito di deflazione del carcere, che è apprezzabile - spiega - e mira a rimettere in libertà solo coloro che non creano problemi all’interno degli istituti di pena e sono meritevoli”. Tuttavia, Caforio esprime perplessità sull’applicabilità. “Ogni volta che c’è un cambiamento normativo di questo tipo, aumenta il carico sulla magistratura di sorveglianza. E io ho dubbi sulla capacità attuale di farvi fronte nella nostra regione: già mancano magistrati, funzionari e personale nei tribunali”. In Umbria, racconta, si è già al collasso: “Abbiamo circa il 30% in più di detenuti rispetto alla capienza - solo a Terni i detenuti sono oltre 600 a fronte di 420 posti”. Il rischio, quindi, è che questa legge scateni aspettative enormi da parte dei detenuti, senza che il sistema sia in grado di valutarle e gestirle in tempo utile. “Saremo sommersi di richieste - avverte - e la burocrazia si potrebbe bloccare del tutto”. Una soluzione alternativa, spiega Caforio, potrebbe riguardare la gestione di detenuti con problemi psichiatrici e di tossicodipendenza, che rappresentano - dice - sia le categorie più fragili, sia quelle che finiscono per pesare di più all’interno degli istituti umbri. “Solo a Terni ci sono 150 detenuti con problemi psichici. 120 a Spoleto e a Perugia le cifre sono simili”. A Spoleto - dice ancora - “due giorni fa non c’erano posti letto e hanno fatto dormire i detenuti nelle sale sociali, senza bagno. Il settore chiamato di “transito” è diventato una zona promiscua, di emergenza permanente”. Per lui, una soluzione esiste: “Una comunità terapeutica della regione, per esempio, mi ha segnalato 70 posti liberi per detenuti tossicodipendenti, inutilizzati per motivi burocratici. Potrebbero dare ossigeno alle carceri umbre se solo si trovasse il modo di trasferirvi questi soggetti”. L’auspicio dell’avvocato è che una nuova norma arrivi, e venga applicata con rigore e attenzione. “Ma, a fare le leggi - conclude - ci si mette poco. A renderle operative, è tutta un’altra storia”. Piemonte. Il Garante: “Lavoro e sanità sono i principali problemi dei carcerati” torinoggi.it, 24 maggio 2025 Bruno Mellano ospite al Podcast a Domicilio, format di DixTv: “Ogni anno il tasso di suicidi in carcere è molto più alto che fuori, non solo tra i detenuti ma anche tra il personale della polizia penitenziaria”. Non si parla mai abbastanza di carcere. E se lo si fa è per raccontare le numerose tragedie che si consumano all’interno. I casi di violenze, aggressioni, suicidi sono lo specchio delle condizioni odierne dei luoghi di detenzione, ormai al collasso. Qui vige ancora la logica della punizione, mentre la riabilitazione sociale del detenuto rimane complessa. A “Podcast Domicilio” è intervenuto Bruno Mellano, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Regione Piemonte, che ha sottolineato i problemi del sistema e i punti più critici da risolvere. Mellano ha innanzitutto spiegato di cosa si occupa la figura del Garante dei detenuti: il Garante può entrare in qualsiasi momento in carcere, senza comunicazioni o autorizzazioni preventive, come i parlamentari e i consiglieri regionali. In più, a differenza loro, può avere colloqui completamente riservati con i detenuti. Questo permette ai Garanti di avere una visuale completa sul sistema carcere italiano e essere una sorte di consulente per politica e istituzioni. Secondo Mellano, visitando le carceri i problemi principali da risolvere sono innanzitutto due: lavoro e sanità. Nel primo caso, i detenuti chiedono di poter lavorare e fare percorsi di reinserimento, per il proprio futuro o per mantenere la famiglia ma anche per mantenere se stessi in carcere. Al suo interno si possono infatti compare cibo integrativo o prodotti come sigarette e la qualità della vita può migliorare avendo a disposizione un guadagno. Per la questione sanitaria, invece, il problema è la carenza di cure adeguate verso persone che ne avrebbero bisogno. “La maggior parte di queste persone - ha spiegato Mellano - sono quelle che senza avere reddito, famiglia, lavoro o casa rimangono in carcere anche se la condanna non è così grave, ma non hanno alternative. Molte di queste hanno il primo impatto con il servizio sanitario in carcere, potrebbe essere un momento per rimettere in sesto il detenuto ma il servizio penitenziario fatica perché molti professionisti non vogliono andarci”. A fare da cartina tornasole per le condizioni delle carceri sono i suicidi che ci avvengono, in numero sempre crescente. “La questione dei suicidi in carcere - ha commentato - è di lampante evidenza: ogni anno il tasso di suicidi in carcere è molto più alto che fuori, non solo tra i detenuti ma anche tra il personale della polizia penitenziaria, che ha il tasso più alto di tutte le forze di polizia. Nel 2024 abbiamo avuto 89 suicidi di detenuti e 7 agenti a livello italiano, in un luogo di controllo per definizione e di persone in carico allo Stato”. La fragilità sociale è quella che caratterizza di più chi finisce in carcere e non riesce a uscirne, o ci rientra. Moltissimi stranieri, sì, ma non solo, e i numeri sono in diminuzione. Quello che contraddistingue chi è detenuto per reati minori è l’assenza di una rete sociale forte a sostegno. “La maggior parte dei detenuti non hanno una condanna definitiva e potrebbero usufruire delle misure alternative. Negli ultimi anni sono scesi i detenuti stranieri: tre anni fa erano il 34%, adesso 31,4%. In Piemonte oltre che Torino anche Ivrea, Vercelli, Biella sono sopra il 50% e anche il 60 o 70%, ma sono case circondariali quindi carceri dedicate a pene medio brevi, non definitive. A Saluzzo e Asti, che sono case di reclusione ad alta sicurezza, sono tutti nostri: mafia, ndrangheta, camorra, grande traffico internazionale di droga dove gli stranieri sono al 4%”. Oristano. Ergastolano vince la battaglia per il diritto all’amore di Gaetano Mazzuca Gazzetta del Sud, 24 maggio 2025 Il carcere in cui è detenuto dovrà garantire locali adeguati agli incontri intimi come stabilito dalla Corte costituzionale. Potrà avere incontri affettivi e intimi con la propria moglie l’ergastolano A. L.C., 56enne, di Catanzaro detenuto nel carcere di Oristano per omicidio nell’ambito dell’inchiesta della Dda di Milano, nome in codice “Bagliore”. Lo ha deciso il magistrato di sorveglianza di Cagliari Paolo Cossu, che ha accolto il reclamo proposto dagli avvocati Susanna Deiana del foro di Cagliari e Vincenzo Cicino del foro di Catanzaro. Un caso tra i primi in Italia, in cui si è dato seguito a quanto previsto da una sentenza della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la possibilità per i detenuti e gli internati di coltivare la propria vita affettiva e relazionale anche attraverso incontri intimi in luoghi riservati negli Istituti penitenziari. La Corte ha riconosciuto come diritto fondamentale quello alla cura delle relazioni affettive, che deve essere garantito anche nella dimensione dell’intimità, demandando al legislatore e all’Amministrazione penitenziaria l’adozione di misure idonee a renderlo concretamente esercitabile, ponendo limiti precisi. Chi ha diritto ai colloqui intimi - Questo diritto non spetta ai detenuti sottoposti a regime speciale come quello del carcere duro e può essere negato qualora ricorrano divieti imposti dall’autorità giudiziaria o assenza di un legame affettivo stabile, derivante dal vincolo di coniugio, o da un’unione civile o da convivenza effettiva e qualora la condotta carceraria del detenuto non sia stata irreprensibile. La durata e le modalità del colloquio devono garantire una piena espressione dell’affettività, svolgersi non sporadicamente e in ambienti adeguati, preferibilmente in unità abitative arredate, con possibilità di preparare pasti e che garantiscono riservatezza sia visiva che auditiva, senza il controllo diretto del personale penitenziario. La sentenza prevede che la priorità di accesso a questi spazi debba essere riconosciuta ai detenuti che non beneficiano di permessi premio. L’istruttoria sul caso del detenuto calabrese - La domanda del 56enne è stata istruita mediante richiesta dell’istituto penitenziario di informazioni dettagliate per accertare l’esistenza dei presupposti previsti dalla Corte costituzionale: l’eventuale pretesa da parte del detenuto di fruire di incontri intimi, l’identità della persona con cui l’interessato intende effettuare l’incontro e il relativo rapporto di parentela e affettivo, la presenza di eventuali provvedimenti dell’autorità giudiziaria che vietano contatti con detenuti e terzi, la condotta carceraria dello stesso con riferimento ad eventuali elementi ostativi di ordine disciplinare o di sicurezza. Dalla nota informativa trasmessa si è appreso che nel carcere di Oristano non è ancora stato predisposto alcun spazio riservato per l’esercizio del diritto e che quanto alle restanti informazioni non risultano condizioni personali impeditive alla fruizione del colloquio, né comportamenti negativi da parte del detenuto né provvedimenti interdittivi dell’autorità giudiziaria nei suoi confronti. I limiti strutturali del carcere di Oristano - Ad oggi mancano spazi idonei attrezzati e l’ “inerzia amministrativa” dell’Istituto penitenziario risulta in contrasto con quanto previsto nella sentenza della Corte costituzionale. “Appare necessario che l’amministrazione dia seguito entro un termine definito a quanto imposto dal nuovo assetto costituzionale della materia e stabilire l’onere per l’interessato di comunicare tempestivamente le generalità della persona con la quale intende effettuare il colloquio”. Le scadenze imposte dal magistrato - Due le date stabilite: quella del 30 giugno per l’adempimento del detenuto e quella del 31 luglio per i necessari interventi strutturali e organizzativi dell’Amministrazione che dovrà allestire un locale adeguato e riservato per gli incontri affettivi. Nessun risarcimento per il passato - Il magistrato di Sorveglianza ha respinto la richiesta risarcitoria per tutto il periodo in cui il detenuto non ha potuto avere colloqui intimi, perché la sentenza della Corte costituzionale non può avere efficacia retroattiva e non può estendersi al tempo antecedente alla sua pubblicazione, nel quale non era prevista alcuna disciplina sul diritto a questa tipologia di incontri. Benevento. Il Garante Ciambriello: “Si applichi la circolare sulla sessualità in carcere” di Maresa Calzone labtv.net, 24 maggio 2025 Sovraffollamento, carenze di personale, disagio psichico e strutture insufficienti: è questa la fotografia impietosa che emerge dalla Relazione annuale 2024 sull’area penitenziaria e penale esterna del distretto di Benevento. Nel carcere del capoluogo, la situazione è particolarmente critica: 392 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 259, tra cui 34 stranieri e 79 donne. I dati descrivono un contesto ad alta tensione: un suicidio, 21 tentativi, 15 aggressioni tra detenuti e 21 episodi di violenza contro il personale. Allarmante anche il numero di 43 scioperi della fame e della sete registrati nell’arco dell’anno. A fronte di questa realtà, il personale è ridotto rispetto alla necessità: 215 agenti di polizia penitenziaria in servizio su 229 previsti, e 5 funzionari pedagogici, con il supporto di 2 distaccati da altri istituti, a fronte di una pianta organica che ne prevede 6. Chiusa, nel frattempo, l’articolazione psichiatrica. Tra i detenuti, 35 sono tossicodipendenti, mentre 99 svolgono attività lavorative interne. Situazione delicata anche all’Istituto Penale Minorile di Airola, dove al 30 marzo 2025 erano 30 i minori detenuti, contro una capienza di 24 posti. Pur essendo al completo il personale di polizia penitenziaria (53 agenti su 53), mancano 5 funzionari pedagogici sui 8 previsti. Anche qui i segnali di disagio non mancano: nel 2024 si sono verificati 9 episodi di autolesionismo, 80 infrazioni disciplinari e 15 casi di isolamento. Preoccupante anche il quadro dell’esecuzione penale esterna: sono 780 le persone in carico, tra misure alternative e incarichi per indagini e consulenze. Ma a seguire questi percorsi rieducativi sono soltanto 6 assistenti sociali, 1 educatore, 7 amministrativi e 8 agenti di polizia penitenziaria, senza alcun supporto psicologico o mediazione linguistica. A denunciare queste gravi criticità è stato il Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, nel corso di una conferenza stampa tenutasi davanti alla casa circondariale di Benevento. Ciambriello ha evidenziato non solo i limiti strutturali e organizzativi dell’istituto, ma ha anche rilanciato il tema della sessualità per le persone recluse: “Va rispettata la circolare nazionale che garantisce il diritto alla sessualità per le persone detenute. Anche a Benevento vanno assicurati gli spazi per l’affettività tra coniugi”. Un appello chiaro, che si aggiunge alla richiesta generale di un intervento urgente dello Stato per garantire condizioni dignitose di detenzione, nel rispetto dei diritti fondamentali e degli obiettivi rieducativi sanciti dalla Costituzione. Verbania. “Liberate i detenuti”: una riflessione sul mondo carcerario in occasione del Giubileo vconews.it, 24 maggio 2025 L’incontro si è tenuto a Villadossola, alla presenza della direttrice della casa circondariale di Verbania. Si è tenuto ieri sera - giovedì 22 maggio - nella sala consiliare di Villadossola il primo di una serie di incontri nell’ambito del Giubileo promossi dalle parrocchie di Villadossola e della Valle Antrona. La serata, dal titolo “Liberate i prigionieri”, ha avuto come finalità quella di riflettere sul mondo carcerario e di presentare il progetto caritativo Spazi di Speranza promosso dalla diocesi di Novara e dalla Caritas a favore dei detenuti, delle carceri di Novara e di Verbania. Moderati dal parroco don Massimo Bottarel, sono interventi il direttore della Caritas diocesana don Giorgio Borroni e la direttrice del carcere di Verbania Claudia Piscione Kivel Mazuy. In sala era presente anche il sindaco di Villadossola Bruno Toscani. “Lo slogan “Spazi di Speranza Giubileo Carcere” - ha spiegato don Giorgio Borroni - indica un impegno della diocesi specifico del Giubileo 2025 per portare la speranza nelle carceri di Verbania e di Novara, offrendo un senso di rinnovamento e apertura al futuro. In particolare, il progetto per Verbania prevede la ristrutturazione di uno spazio da adibire ad attività educative, hobbistiche e relazionali”. La direttrice ha annunciato di aver individuato per la casa circondariale di Verbania un locale, che veniva utilizzato per il ricovero dei mezzi della polizia penitenziaria, ora inutilizzato, che potrebbe essere convertito e riqualificato per ospitare laboratori artigianali, corsi di formazione e momenti di socialità, con l’obiettivo di promuovere l’autonomia e il benessere psicofisico dei detenuti. La casa circondariale di Verbania ospita 82 detenuti: “Il carcere di Verbania è un carcere vivo, che dà degli strumenti e delle opportunità dove il tasso di recidiva è bassissimo. Verbania - ha spiegato la direttrice - è una realtà modello dove le persone possono fare un percorso e uscire migliorate perchè c’è una comunità di persone che li sostiene”. La direttrice però ha evidenziato la mancanza di spazi adeguati per attività laboratoriali, educative e ricreative. “La chiesa - ha spiegato - diventa dal lunedì al venerdì sartoria. Dobbiamo rinunciare a corsi di formazione perchè abbiamo una sola aula polivalente”. “A volte - ha detto il parroco don Massimo Bottarel - le possibilità che uno ha di cambiare dipendono da chi si trova davanti. Il Giubileo ci interroga sulla nostra possibilità di aiutare queste persone a cambiare”. A quest’incontro farà seguito una cena giovedì 29 maggio alle 20.00 al ristorante sociale Gattabuia di Verbania. Il ristorante è nato da un progetto di economia carceraria per l’inserimento professionale di persone con problemi di giustizia e a rischio di marginalità sociale. Il costo è di 24 euro. La prenotazione deve avvenire entro il 27 maggio ai seguenti contatti: Itana 339-1289344, Claudio 329-1370352. Isernia. Giustizia riparativa, l’esito del progetto Csv Molise e Demetra molisenews24.it, 24 maggio 2025 Il volontariato, quello vero, che coinvolge tutti, anche chi ha compiuto nella propria vita passi sbagliati e che ora sta provando a redimersi, a ripartire, sarà al centro della conferenza stampa in programma lunedì 26 maggio nei locali dell’Emporio solidale di Isernia, corso Risorgimento n° 345, a partire dalle ore 10:30. Il volontariato è ciò a cui si sta dedicando una persona che finora ha profuso un significativo impegno in un mulino artigianale di Matrice, contribuendo a produrre ben due quintali di farina. Bene prezioso che verrà donato, nel corso dell’appuntamento di lunedì 26 maggio, alle due Caritas Diocesane di Isernia e Campobasso. Il tutto è stato reso possibile dall’associazione Demetra, che ha accolto l’iniziativa perorata dal CSV Molise grazie a un accordo con l’UEPE, l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna di Campobasso. Il progetto riguarda la cosiddetta ‘Giustizia riparativa’, che il CSV ha proposto a tutte le associazioni del territorio regionale per consentire a persone che stanno usufruendo del regime della ‘messa alla prova’ e di misure alternative alla detenzione di avvicinarsi al mondo del volontariato. L’associazione Demetra, in collaborazione con l’azienda Molino Cofelice, ha dato l’opportunità a una persona di rendersi protagonista di un’attività che ha uno scopo benefico e ora, quei 200 chilogrammi di farina, suddivisi in altrettanti pacchi da un chilo, saranno destinati alle persone bisognose e indigenti. Il progetto, quindi, ha una doppia valenza: agevolare il reinserimento sociale di chi sta usufruendo della misura alternativa alla detenzione domiciliare e donare un bene di prima necessità a coloro che stentano a far quadrare il bilancio quotidiano. A illustrare come si è svolta l’iniziativa saranno Gian Franco Massaro, presidente del CSV Molise, Daniele Di Cicco, presidente dell’associazione Demetra, Dionisio Cofelice, titolare dell’azienda Molino Cofelice, Paolo Orabona, direttore della Caritas Diocesana di Isernia Venafro, Don Franco D’Onofrio, direttore della Caritas dell’Arcidiocesi di Campobasso Bojano, e Domenico Calleo, già presidente di Confcooperative Molise. Quella di lunedì sarà solo la prima consegna. La persona che è coinvolta nel programma supportato dal CSV Molise, infatti, proseguirà la sua opera di volontariato sempre grazie all’associazione Demetra e alla preziosa collaborazione dell’azienda Molino Cofelice. Tolmezzo (Ud). Speranza oltre le sbarre. L’incontro dell’Arcivescovo con le persone detenute lavitacattolica.it, 24 maggio 2025 Un messaggio di speranza che attraversa le mura del carcere, un dialogo profondo sulle fragilità umane e sulla forza della fede: è questo il cuore del secondo incontro di catechesi che l’arcivescovo di Udine, mons. Riccardo Lamba, ha voluto condividere con una ventina di detenuti della casa circondariale di Tolmezzo giovedì 15 maggio 2025. Accompagnato dal cappellano, padre Claudio Santangelo, e dai volontari Bruno Temil e Cornelio Bellina, l’arcivescovo ha riflettuto sul tema centrale del Giubileo, la speranza, calandolo nella realtà concreta di chi vive la privazione della libertà, spesso accompagnata da profonda sofferenza. Hanno partecipato all’incontro la responsabile dell’area educativa della casa circondariale, Domenica Baldassarre, insieme ad un’educatrice dell’istituto. Un interrogativo decisivo: che cos’è sperare in carcere? L’Arcivescovo ha subito posto ai presenti una domanda centrale: “Cosa significa sperare in carcere?” Un interrogativo tutt’altro che scontato, soprattutto dove il dolore sembra prendere il sopravvento. Mons. Lamba ha paragonato la speranza a quell’ultima forza che resta anche quando tutto sembra crollare, come accade a chi vive una malattia grave o un evento drammatico: proprio in quei momenti, la speranza rischia di spegnersi. Le risposte dei detenuti: fede, attesa, luce nel buio - Eppure, da questa domanda sono emerse testimonianze autentiche e toccanti. Alcuni detenuti hanno parlato della speranza quotidiana di non commettere più errori e di poter un giorno tornare a una vita libera. Altri hanno espresso la fiducia in un Dio che sostiene loro e le loro famiglie o il desiderio di una pace interiore che solo un giudizio divino imparziale potrà portare. Un’altra voce ha definito la speranza come luce nel disorientamento, una guida che la fede riesce ad accendere quando tutto appare oscuro. Il tunnel e il navigatore: una metafora per il cammino della fede - Raccogliendo queste riflessioni, l’Arcivescovo ha utilizzato un’immagine concreta e incisiva: quella del tunnel in cui il navigatore perde il segnale. Anche se non si vede la fine, sapere che altri hanno già percorso quella strada e sono giunti a destinazione permette di non perdere la fiducia. “Non dovete vivere questa esperienza come un fatto isolato - ha detto mons. Lamba - altri l’hanno vissuta prima di voi e sono riusciti ad andare oltre. Non lasciatevi prendere dall’incertezza”. Un’altra potente immagine è stata quella della paternità: generare figli senza conoscerne il futuro, ma confidando che la vita offrirà loro delle possibilità. “Avete desiderato la vita dei vostri figli - ha ricordato l’Arcivescovo - perché credevate che avrebbero trovato la loro strada. Questa è Speranza”. Il dolore dei legami spezzati e la preghiera come ponte - Durante l’incontro, un detenuto ha condiviso la fatica di mantenere vivi i legami familiari dietro le sbarre. Un altro ha ampliato la riflessione, parlando di quelle situazioni in cui la mancanza di autonomia rende difficile anche solo coltivare relazioni. La domanda posta dal Vescovo è tornata con forza: “Come si può vivere la speranza in un luogo di sofferenza?”. Alcuni hanno trovato la risposta nella preghiera, riscoperta durante la reclusione come strumento per restare uniti ai propri cari e per nutrire serenità interiore. Una pratica che, hanno detto, sperano di mantenere anche dopo la liberazione, pur consapevoli delle sfide del mondo esterno. La speranza si nutre di relazioni - Mons. Lamba ha insistito sull’importanza degli affetti: proprio in carcere, ha detto, può spezzarsi la speranza, perché è lì che si fa più acuta la mancanza delle relazioni familiari. Ha confidato di essere stato profondamente colpito dal gesto con cui i detenuti si sono abbracciati all’inizio dell’incontro, segno tangibile di un bisogno umano profondo: quello di essere in relazione. Da qui l’invito ad aprire la speranza al “dopo”, a guardare oltre la reclusione, alle opportunità che il Signore può offrire anche nelle situazioni più buie. Per farlo, l’Arcivescovo ha evocato la figura evangelica di Zaccheo, uomo che aveva sbagliato, ma che ha ricevuto la salvezza di Cristo. “Gesù - ha detto - non guarda alla fedina penale, all’età, alla condizione sociale. Egli desidera avere un rapporto personale con ciascuno di voi. Anche se le relazioni familiari vi mancano, per Lui non esiste muro o sbarra che possa impedirgli di dire: ‘Voglio entrare a casa tua”. La salvezza - ha spiegato - non è un benessere materiale, ma una certezza profonda: “Ti voglio bene per il solo fatto che ci sei”. È un amore incondizionato che rincorre l’uomo ovunque si trovi, anche nel silenzio notturno della cella, quando Dio sussurra: “Ti voglio bene”. Un amore che non delude, una speranza che non muore - “Possiamo essere in ospedale, disorientati da una diagnosi tremenda, possiamo aver fatto scelte sbagliate, ma in ogni istante - ha ribadito con forza l’Arcivescovo - Gesù è vicino a noi, e ci dirà sempre: ‘Ti voglio benè, senza condizioni”. È questa certezza, ha detto, il fondamento stesso della speranza, oggi e per l’eternità. Uno dei detenuti ha voluto condividere un ricordo commovente: la visita di un’artista venuta per dipingere un murales, la quale, colpita dal dolore di un carcerato per un bimbo malato, promise di pregare per lui. Tempo dopo, tornò con un’immaginetta mariana da inviare al padre del bambino, portando la notizia della regressione della malattia. Un piccolo segno di come Dio agisca nei cuori anche in contesti inaspettati. Una conclusione di fede e comunione - L’incontro si è concluso con la preghiera del Salmo 40, particolarmente significativo per il vissuto dei presenti, e con il canto mariano “Santa Maria del cammino”, accompagnato dalle note dell’organo. Un momento di intensa spiritualità, di comunione e di fiducia rinnovata: anche oltre le sbarre, la speranza può continuare ad ardere. Torino. Il rugby e i minori detenuti al Ferrante Aporti: collaborazione, rispetto e lavoro di squadra di Caterina Stamin La Stampa, 24 maggio 2025 Il progetto rieducativo del carcere minorile di Torino: allenamenti settimanali con i rugbisti del Cus Torino. Il direttore Carro: “Trasformare il tempo della detenzione in un’opportunità di crescita personale”. Nel carcere minorile Ferrante Aporti il rugby è diventato strumento di riscatto e inclusione per giovani detenuti. Allenamenti con atleti del Cus Torino insegnano rispetto, collaborazione e speranza, offrendo nuove possibilità di reinserimento sociale. Allenamento sul campo da calcio - Alle 16.43, in mezzo a un campo da calcio, rimbomba il sibilio acuto di un fischietto. Dieci ragazzi sono stretti a cerchio, al centro uno di loro alza un braccio: “Così non vale, ricominciamo da capo”. Il gruppo china la testa, si rimette in posizione. E l’azione riparte. Gli sguardi si incrociano, la regola non scritta è chiara: per non sbagliare di nuovo bisogna che ognuno collabori con il compagno che ha accanto. Bisogna fidarsi. Saper fare squadra. E allora via che il primo lancia il pallone a forma di ellisse. Che passa di mano in mano da un ragazzo con la casacca arancione a un altro senza, finché il cerchio non si chiude. “Bravi - grida soddisfatto il giovane con il fischietto al collo -. Adesso possiamo passare al prossimo esercizio”. Rieducazione e memoria della rivolta - Benvenuti al carcere minorile Ferrante Aporti. Dove si insegna “a fare squadra e non banda” dice il direttore Giuseppe Carro, mentre assiste alla partita di rugby dagli spalti in cemento. Da quassù, della rivolta che ha messo a ferro e fuoco il penitenziario lo scorso agosto, la più grande sommossa della storia, non c’è traccia. “È stata una pagina nera - ammette il direttore -. Ma noi non siamo solo rivolta: siamo tutto questo”. Allarga le braccia e non distoglie mai lo sguardo da cosa accade davanti a lui. “Forza ragazzi, avanti così!”. Oggi nell’istituto sono reclusi quaranta detenuti. Giovani tra i 14 e i 25 anni, la maggior parte nordafricani. Nessuno parla come prima lingua l’italiano, tra loro parlano in arabo. E molti di loro non si sono mai seduti su un banco di scuola. “Sembra di stare in un riformatorio? Bè questa è l’idea” spiega Carro, mentre attraversa i lunghi corridoi dai colori pastello. Si ferma davanti alla targa che ricorda l’impegno di Don Bosco. E aggiunge: “Tutto il nostro sudore è per fare in modo che i ragazzi escano da qui meglio di come sono entrati. Cerchiamo di rendere utile il tempo passato qui dentro, l’incontro con la giustizia deve essere una risorsa”. La “piazza” e le attività educative - Il cuore del piano terra è quella che nell’istituto viene chiamata “la piazza”. È un grande stanzone su cui affacciano le aule dedicate alle attività. La biblioteca, la sala didattica con le lavagne Lim e le cartine geografiche, i laboratori di ceramica, grafica e lavanderia. C’è un giovane al lavoro tra le lavatrici. “Come va?” chiede il direttore. Dietro le sbarre il ragazzo saluta: “Quasi finito, per oggi”. Dall’altro lato della stanza c’è la sala dedicata agli scacchi. “Non pensavamo potessero avere questo successo, invece piacciono tanto - commenta Carro -. Per loro è un momento di riflessione”. Dentro la sfida è in corso, c’è silenzio. “Stai vincendo?” chiede il direttore al giovane. Nessuna risposta, è concentrato. Solo un accenno di sorriso. Al di là di una porta blindata c’è la sala teatro, accanto l’aula di cucina. “Qualcuno ha paragonato questo posto alle carceri iraniane” aggiunge Carro. Poi suona un campanello e arriva un agente di polizia penitenziaria ad aprire i cancelli che danno sull’esterno. Eccolo lì, il campo da calcio. Allenamenti con il Cus Torino - I raggi del sole bruciano ma i dieci ragazzi, che corrono da quaranta minuti avanti e indietro, sembrano non farci caso. A partecipare alla partita di rugby sono cinque detenuti, selezionati dagli educatori, e cinque rugbisti professionisti del Cus Torino, grazie a cui il progetto pilota è nato. “Gli allenamenti sono iniziati a novembre, da allora ne facciamo uno a settimana - racconta il coach del Cus, Lorenzo Tucconi -. I primi sono stati impegnativi: io e Davide Ciotoli uscivamo dal carcere in silenzio, riflettendo sui comportamenti dei ragazzi, pensando ai loro tagli sulle braccia e ai tatuaggi fatti chissà come in cella”. Poi, con il tempo, “siamo usciti sempre più soddisfatti: ora il nostro obiettivo è portare qui dentro gente da fuori”. Per alcuni detenuti il rugby è diventata una nuova passione, per altri è la prima lezione. “Come si prende la palla?” chiede uno di loro, con la maglietta bianca, facendo scoppiare una risata. Obiettivo: una squadra vera - Per tutti è la prima volta che si allenano con ragazzi della loro età venuti da fuori, dalla città. “Speriamo di riuscire a costruire una squadra di rugby del Ferrante - dice il direttore Carro - che possa in futuro condividere momenti di agonismo con altre squadre della città”. Il rugby, aggiunge, “è uno sport che insegna il rispetto delle regole, l’impegno, il sacrificio. Fa in modo che i ragazzi si uniscano per un bene comune e non per qualcosa di predatorio”. Ma, sottolinea, “è fuori che si gioca la grande partita. Noi arriviamo fino a un certo punto: diamo loro una pettorina, un pallone gonfio e delle scarpe da calcio che alcuni non hanno mai avuto. Piccoli traguardi che si tengono stretti. Ma una volta fuori si devono attivare tante risorse”. Il terzo tempo e il valore del rugby - Fischio finale. Inizia il terzo tempo. I giocatori si siedono a lato del campo, bevono un po’ d’acqua. “Cosa vi piace del rugby?” chiede un giovane ai detenuti. Uno risponde: “Ci fa lavorare insieme”. Un altro, quello con la maglietta bianca, aggiunge: “A me fa ripartire da capo”. Alza il braccio un terzo: “Per me è speranza”. Tutti lo guardano. Lui spiega: “Impariamo a fare qualcosa e così non pensiamo solo alla cella. Mi fa sentire vivo, ancora vivo”. Bologna. La Via Mater Dei con i detenuti della Dozza: “Un cammino di speranza e dignità” bolognatoday.it, 24 maggio 2025 Padre Marcello Mattè racconta il pellegrinaggio con tre detenuti in semilibertà: “Si sono messi in gioco, hanno partecipato con entusiasmo e gratuità”. “Camminare insieme per ritrovare la speranza e la dignità.” Con queste parole padre Marcello Mattè, cappellano del carcere della Dozza, racconta l’esperienza vissuta sulla via Mater Dei, il sentiero dei santuari dell’Appennino bolognese, con tre detenuti in semilibertà. Quattro giorni di pellegrinaggio tra i colli bolognesi, da Pianoro a Bocca di Rio, in un clima di condivisione, ascolto e spiritualità. Un’esperienza nuova per i detenuti della Dozza, che ogni giorno tra le mura del carcere vivono un’esperienza difficile, fatta di sovraffollamento, disagi e sofferenze. Ma una rinascita, per padre Mattè, è possibile. “I nostri pellegrini avevano dai 30 ai 60 anni, non erano allenati, ma hanno affrontato ogni tappa con entusiasmo,” racconta padre Mattè. “Si sono messi in gioco, hanno partecipato a tutto, anche ai momenti di preghiera. Facevano a gara per dare una mano: apparecchiare, preparare i panini, pulire. Una disponibilità che ci ha colpiti”. I partecipanti erano due italiani e uno straniero, con condanne differenti. “Sono persone che seguo regolarmente, ora in regime di semilibertà. Questo ha facilitato l’autorizzazione da parte del magistrato,” spiega. Non è stata una vacanza: “Hanno rinunciato a passare quei giorni con le loro famiglie. Il loro è stato un investimento umano e spirituale.” Il gruppo era composto da dieci persone: oltre ai tre detenuti, volontari e due guide scelte da don Giulio Gallerani. “Anche il vicario del vescovo, don Stefano Ottani, ci ha accompagnati lungo tutto il percorso. Alla fine ci ha detto: ‘Sono stanchissimo, ma mi sono divertito un sacco”. Il senso del pellegrinaggio non era solo religioso. “Abbiamo pensato che camminare insieme potesse essere un modo per farsi ‘pellegrini di speranza’. Il carcere spesso spegne ogni prospettiva. Questo cammino invece ha una meta, un senso, una direzione. Non è come girare a vuoto nel cortile della prigione.” Padre Marcello sottolinea l’aspetto più profondo dell’iniziativa: “Venerare Maria, madre di Dio e madre nostra, ci ha aiutati a riscoprire il valore della nostra dignità di figli. Il carcere tende a svalorizzare l’essere umano. Noi volevamo fare esattamente il contrario.” Il cammino ha riscosso tanto entusiasmo da spingere la direzione del carcere a chiedere una seconda edizione dopo l’estate, questa volta aperta anche alla sezione femminile. “L’accordo con la direzione è di avere almeno un volontario ogni due detenuti. Vogliamo che ci sia sempre un accompagnamento umano e spirituale.” Non è un’esperienza riservata ai credenti. “Non abbiamo escluso nessuno in base alla fede. I nomi sono stati scelti solo in base alla possibilità concreta di partecipare, ovvero chi poteva ottenere il permesso. Alcuni, anche musulmani o laici, non si sono sentiti di aderire, ma non abbiamo mai posto limiti religiosi”. Padre Mattè non nasconde le difficoltà che il carcere della Dozza sta affrontando. “C’è una situazione preoccupante di sovraffollamento, aggravata dall’arrivo di minori trasferiti in seguito a provvedimenti nazionali come il decreto Caivano. La convivenza forzata tra diverse sezioni sta creando ulteriori disagi.” “Avevano promesso nuove strutture in tre mesi, ma nessuno ci crede. Il problema è nazionale. Tutti si allarmano, ma nessuno risolve.” Il cappellano conclude con un auspicio: “Speriamo che queste piccole esperienze possano diventare semi di umanità e cambiamento. Camminare insieme, nel rispetto e nella dignità, è già un passo verso la libertà vera.” Il carcere ripensato da dentro di Giuseppe Frangi vita.it, 24 maggio 2025 Dall’iniziativa di chi è detenuto può scaturire un modello nuovo, “ibrido” di concepire l’istituzione penitenziaria. Tanti casi nel Sud del mondo lo dimostrano. Francesca Cerbini, antropologa, ne parla ai Dialoghi di Pistoia. “Pensare il carcere partendo dai soggetti che lo vivono e lo abitano, o meglio, a partire dalla loro “visione del mondo”, come direbbero antropologhe e antropologi”. Da anni Francesca Cerbini è al lavoro per documentare sulla carta e nei fatti che un altro carcere è possibile. Nel 2012 ha pubblicato un libro per raccontare l’esperienza di una casa di reclusione boliviana, quella di San Pedro: pur essendo ufficialmente sottoposta e regolamentata dalle leggi dello Stato boliviano, era di fatto gestita dai reclusi stessi, i quali concepiscono e rimodellano secondo le loro possibilità economiche lo spazio carcerario, abitato anche da quelle donne che, con i propri figli, hanno deciso di convivere col marito detenuto. Il titolo del libro pubblicato da Mimesis prendeva spunto dalla definizione di un recluso: “La casa di sapone” in quanto il carcere è un luogo “scivoloso” in cui è difficile rialzarsi dopo essere caduti. Francesca Cerbini ha continuato le sue ricerche e ha pubblicato ora un nuovo libro per la casa editrice Eleutheria, “Prison Lives Matter”. Ne parla domani sabato 24 maggio ai Dialoghi sull’uomo di Pistoia, la manifestazione diretta da Giulia Cogoli. Cerbini è ricercatrice all’Università di Palermo, dove insegna Antropologia culturale, e collabora con il Centro em Rede de Investigação em Antropologia (Cria) di Lisbona. Il nuovo libro è un viaggio etnografico nelle galere contemporanee: partendo dall’assunto che la vita dei reclusi importa, l’autrice propone un nuovo statuto teorico dell’istituzione penitenziaria. In un continuo rimando tra contesti geografici e sociali molto diversi, Cerbini parte dalle esperienze dei soggetti che il carcere lo vivono e dalla loro visione del mondo. Grazie alle numerose ricerche condotte nell’ultimo decennio all’interno degli istituti di pena del Sud e del Nord globale, scaturisce un radicale cambio di prospettiva che scardina l’univocità del penitenziario ideale, sinonimo di ordine e disciplina, e permette di riconsiderare le connessioni e la continuità tra dentro e fuori, tra carcere e società. Un mosaico di narrazioni e contronarrazioni che restituisce la multiforme violenza della governance del carcere contemporaneo. Cerbini ha condotto ricerche etnografiche prevalentemente in Bolivia, Brasile e Portogallo concentrando i suoi interessi in contesti di forte marginalità ed esclusione sociale. “Credo che negli ultimi anni la ricerca antropologica e sociologica abbia messo in discussione molte delle immagini “classiche” del carcere”, spiega la ricercatrice. “Sono le immagini tramandate da opere scientifiche, romanzi e inchieste giornalistiche, che hanno poi alimentato cinema, programmi televisivi e serie truculente. È una narrazione cristallizzata nella versione più sensazionalista e polarizzata della lotta tra buoni e cattivi: i captivi, per l’appunto”. In che modo questo approccio nuovo di ricerca etnografica cambia la narrazione del carcere? “Innanzitutto attraverso la restituzione di un vissuto che è resistente alla multiforme violenza del carcere. Poi esplorando le connessioni, i legami e le continuità con l’esterno. e le sue dinamiche gestionali. Questo ha permesso la documentazione di un ventaglio di pratiche “ibride” di governo del penitenziario difficilmente ascrivibili a formule teoriche univoche e cristallizzate. Possiamo dire di aver lavorato sulla “porosità” del carcere come fattore che guida a cambiare lo sguardo sull’istituzione penitenziaria”. Francesca Cerbini ha intitolato il suo libro “Prison Lives Matter”, Le vite in carcere importano. Nelle prime pagine spiega le ragioni di questa scelta: “La vita e il vissuto di persone tanto marginali come le recluse e i reclusi importa. Importa il carcere in quanto laboratorio di un presente e di un futuro distopico in cui la creazione ad hoc di utili nemici più o meno immaginari, persone deprivate della benché minima umanità in nome della nostra sicurezza e libertà, fomenta la costruzione di una società militarizzata”. L’autrice porta a Pistoia anche la narrazione di modelli di autogoverno delle carceri. “Le etnografie presentate nel contesto dei Dialoghi di Pistoia”, dice, “vogliono metter in risalto il protagonismo che le comunità carcerarie si sono guadagnate in alcuni contesti in cui talvolta hanno assunto il ruolo manageriale dello Stato nelle sue diverse funzioni di controllo, protezione e sostento degli internati. In questi casi sono state in grado o sono state messe nelle condizioni di sviluppare un potenziale negoziale senza precedenti. È importante prestare attenzione alle ricerche di sociologi, antropologi, criminologi che sono stati in grado di raccontarci una storia diversa sul carcere senza abbandonarsi mai alla celebrazione di un modello. Sono ricercatori che non hanno abdicato alla prospettiva critica e neppure hanno abbracciato il linguaggio e la narrazione autolegittimante di un’istituzione in cui la violenza, straordinaria e ordinaria, sono il punto di partenza e non il fine ultimo dell’analisi teorica e della riflessione metodologica”. Rap e teatro, un aiuto ai minorenni in carcere di Simona Rossitto Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2025 Musica rap e teatro sono strumenti per sviscerare le emozioni, esprimere il disagio, offrire una seconda chance ai ragazzi minorenni detenuti in carcere. È il filo rosso dell’evento di ieri intitolato “Portami là fuori. Rap e teatro negli istituti di pena per minori”. Sul palco si sono confrontati Francesco Carlo, in arte Kento, rapper e scrittore, Adriana Follieri, regista e pedagogista teatrale, e Totò, giovane artista che usa il rap per esprimere emozioni. Si è parlato di strumenti educativi per minori detenuti come il “Presidio culturale permanente”, progetto dell’associazione Crisi Come Opportunità, strutturato all’interno degli istituti penali e nato da un’idea del rapper Lucariello. Il progetto prevede la realizzazione di laboratori settimanali di scrittura rap, registrazione musicale, teatro. “Il rap - ha detto Kento - è uno strumento espressivo straordinario” ed è anche “eccezionalmente accessibile e democratico” poiché per realizzarlo, spiega l’artista, basta avere testa funzionante e voce. Lo dimostra il fatto che anche ragazzi analfabeti, che Kento ha intercettato nella sua attività di formatore nelle carceri, creino musica rap, anche in diverse lingue. Durante l’incontro sono state spesso additate le responsabilità degli adulti per la situazione in cui vivono alcuni giovani, per l’analfabetismo, per il linguaggio che usano, per la violenza che li caratterizza. I ragazzi, cioè, quando scrivono testi violenti e offensivi, misogini, spesso sono specchio della società. Gli adulti, quindi, devono interrogarsi, cercare di conoscere e capire il linguaggio giovanile, per cambiare la base culturale da cui nascono sessismo e violenza. Un’altra forma di espressione e opportunità di riscatto è offerta dal teatro. Lo ha raccontato Adriana Follieri, portando ad esempio la storia di un ragazzo che ha avuto un permesso di uscire dal carcere per fare attività teatrale a livello professionale. “Con il teatro - ha sottolineato - proviamo a ragionare sul concetto del libero arbitrio perché non è detto che non ci sia la possibilità di costruire un’altra realtà”. Lavorare sulla rieducazione dei detenuti è peraltro previsto dalla nostra stessa Costituzione, che all’articolo 27 afferma come le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Oggi, secondo il rapporto di Antigone, i minori reclusi nei 17 istituti penali per minorenni italiani sono 532, una cifra in crescita. “Fuori”, l’esperienza in carcere di Goliarda Sapienza riscoperta a Cannes di Bruna Alasia pressenza.com, 24 maggio 2025 Acclamato da sette minuti di applausi a Cannes, al Grand Theatre Lumiere, “Fuori” è un’opera intensa, che racconta l’odissea di Goliarda Sapienza (Valeria Golino) una scrittrice non riconosciuta in vita, la cui esistenza, anche in senso simbolico, è trascorsa tra carcere e libertà. In galera ha trovato amore e amicizia; l’affiatamento con Roberta una giovane eroinomane, (Matilda De Angelis) collusa con la lotta armata, essere umano di grande importanza per la protagonista. Il rapporto che si sviluppa con Roberta diventa il perno della sua vita; il film mostra tra loro frequenza e ispirazione reciproca anche dopo la scarcerazione. “Fuori”, diretto da Mario Martone, rappresenta l’unico film italiano in concorso per la palma d’oro a Cannes. La pellicola si ispira a un episodio del 1980 della vita di Goliarda Sapienza, ex moglie del regista Citto Maselli. In gran parte narra i suoi cinque giorni di detenzione a Rebibbia, le sue giornate con detenute comuni provenienti da ambienti lontani dal suo, con cui instaura una calda relazione umana. A Roma nel 1980 Goliarda Sapienza, grande spirito libero, viene rinchiusa a Rebibbia perché, sempre senza soldi, si era appropriata di qualche gioiello di un’amica ricca. Nel carcere Goliarda scriverà di aver trovato qualcosa di inestimabile: l’umanità trafitta delle donne recluse che per lei diventano maestre di vita. Con loro la scrittrice scopre che il confine tra normalità e devianza è sottilissimo, che può non esistere differenza tra il dentro e il fuori e, a volte, la vera prigione non è quella tra le sbarre perché queste possono circondare tante vite qualsiasi. Il film si rifà soprattutto ai romanzi di Goliarda Sapienza “L’università di Rebibbia” e “Le certezze del dubbio”. Fuori divulga a livello popolare e consacra ai posteri Goliarda grande scrittrice, della quale solo post mortem sono stati pubblicati su larga scala i romanzi. Fuori è uscito il 22 maggio nelle sale italiane. Forze dell’ordine, strumenti e pratiche per riflettere di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 24 maggio 2025 A proposito di “Police abolition. Corso di base sull’abolizione della Polizia”, per Momo edizioni. La recente pubblicazione Police Abolition. Corso di base sull’abolizione della polizia (Momo, pp. 96, euro 13), curata da Italo Di Sabato e Turi Palidda nella sua edizione italiana, con le illustrazioni di Noah Jodice, rappresenta uno strumento utile a riflettere sulla genealogia delle forze dell’ordine, fino a considerare la possibilità di abolirle. L’eterogenesi dei fini costituisce una caratteristica fondante delle interazioni sociali. I conflitti, le trasformazioni, le variabili impreviste, sortiscono a volte l’effetto di deviare verso esiti opposti specifici costrutti sociali, pensati per adempiere ad altre finalità. Il caso della polizia rientra pienamente all’interno di questa dinamica. Istituita per la prima volta a Londra nel 1829, sotto il governo Tory di Robert Peel (da cui il soprannome di bobbies che tuttora contraddistingue i poliziotti inglesi), la polizia metropolitana londinese, il cui modello venne in breve esteso a tutto il paese, rispondeva a scopi specifici. Lo scopo principale era quello di sanare la frattura tra gli strati subalterni della società inglese e lo Stato, che, dopo il massacro di Peterloo del 1829, si era ampliata a dismisura. Inoltre, attraverso un corpo statuale centralizzato, si voleva porre fine alla discrezionalità e all’abuso delle polizie private. Il modello inglese, diffusosi rapidamente in tutta Europa e nel mondo, non tardò ad evolversi nella direzione opposta. Il consolidarsi della polizia come istituzione dotata di un proprio spazio, indipendente da ragioni specifiche, si sovrappone all’acuirsi dei conflitti sociali, all’interno dei quali le forze dell’ordine si collocano all’interno della prospettiva del mantenimento e della riproduzione degli equilibri di potere esistenti. La polizia finisce quindi per allontanarsi dalla funzione per la quale era stata pensata, diventando refrattaria ai cambiamenti radicali. A meno che, come avvenne per esempio in Italia negli anni Settanta, non viene essa stessa attraversata da conflittualità profonde. Gli ultimi anni ci consegnano un’istituzione poliziesca identificata e identificatasi come avversaria diretta di migranti, minoranze etniche, lgbtqia+, no global (si pensi a Genova 2001 e al caso di Carlo Giuliani), nonché allergica all’eccentricità degli stili di vita. Nel caso italiano, le tragedie Aldrovandi e Magherini, ne sono un’esemplificazione. Oltreoceano, sulla scia del tragico caso di George Floyd, nasce il movimento “Defund Police”, che si prefigge di abolire la polizia e di dirottare le risorse destinate a mantenerla in direzione di politiche sociali inclusive. Un progetto ambizioso, provocatorio, che, nel contesto USA, si prefigge di invertire la tendenza già indicata da Loic Wacquant, ovvero del passaggio dallo stato sociale a quello penale. Che fa dell’origine relativamente recente delle forze di polizia il suo punto di forza. Un percorso da incoraggiare, anche nell’Italia del Ddl 1660. Ma che pone un interrogativo: sono mature le condizioni per una società senza polizia? Prima della sua istituzione, avevamo le milizie private dei signori e delle corporazioni. Per esempio, in Sicilia, la mafia è nata in questo contesto. Dopo la polizia, cosa ci sarebbe? Pensiamo a un contesto dove la sorveglianza elettronica prende sempre più piede, e il taglio dei fondi prelude, come nel caso inglese, a una polizia predittiva, che sorveglia e reprime sempre le stesse classi pericolose. Senza tralasciare ronde e vigilanze private. Volendo rispondere alla domanda, perciò, potremmo dire: la polizia si può abolire. Ma se si abolisce l’ordine sociale e politico che la sostiene. Referendum, tre buoni motivi per cui è importante votare di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 24 maggio 2025 Non rinunciare a decidere, aprire una breccia e interrompere il lungo regresso costituzionale. L’8 e il 9 giugno si gioca una partita su cittadinanza e lavoro, ma non solo. È importante andare a votare l’8 e il 9 giugno per i referendum almeno per tre ragioni. Anzitutto perché il voto è un diritto che appartiene a ciascuno di noi, ma è anche un dovere civico. Così dice espressamente la nostra Costituzione. La rinuncia a decidere sui problemi comuni rende possibile a una minoranza di governare senza controllo e responsabilità. In tal caso non avremmo più un governo legittimato dal popolo, ma un governo legittimato dal vuoto, dall’assenza della partecipazione sociale. Se in molti rinunceranno a recarsi ai seggi non onoreranno il loro dovere civico di votare, ben più che un referendum, sarà sconfitta una certa idea di democrazia. La democrazia come partecipazione. È importante andare a votare, inoltre, perché si tratta non solo di decidere su cinque specifici quesiti, ma anche sul futuro del lavoro e delle politiche migratorie. Questioni che certamente vanno ben al di là dei quesiti posti, ma nessuno può ritenere che non verranno interessate nel profondo, nel bene o nel male, dall’esito referendario. Anni di politiche che hanno prodotto una crescente precarizzazione del lavoro e la costante diffidenza nei confronti dei processi di integrazione subiranno una forte legittimazione ovvero una decisiva battuta d’arresto a seguito dell’esito referendario. Si tratta di decidere se vogliamo continuare a lasciare ad altri il campo libero sul futuro del lavoro nelle sue diverse forme e sulle politiche migratorie o se invece crediamo che sia giunto il tempo di dire la nostra: battere almeno un colpo. Siamo consapevoli dei limiti dei referendum, la cui natura abrogativa permette di evitare il peggio e di indicare la strada per ricostruire il meglio, senza però poter essere sufficienti a sé stessi. Il giorno dopo l’auspicata vittoria alle urne dei quesiti proposti si tratterà di cambiare molto più di quanto non si pensi. Il referendum possiede in sé una potenzialità di mutamento - un plusvalore democratico - che non può essere sottovalutata. Può aprire la strada - o almeno una breccia - per passare da una cultura che sino ad ora ha privilegiato le ragioni dell’economia di mercato a quella diversa che privilegia l’idea della dignità del lavoro definita nella nostra Costituzione; può permettere di abbandonare le politiche di rifiuto dell’altro per adottare quelle di integrazione e rispetto dei diritti costituzionali delle persone, secondo i dettami della nostra Carta fondamentale. Un cambiamento di rotta e un inizio di partita, dunque. Ed è qui che si manifesta la terza ragione per la quale è importante andare a votare: per fermare il lungo regresso costituzionale che da tempo sta avanzando, ma che da ultimo ha assunto le forme di un vero assalto alla Costituzione. Se si mettono assieme le ultime politiche istituzionali e costituzionali (dai decreti sicurezza ai fervori autonomisti, dalla separazione delle carriere alla più pericolosa tra le riforme costituzionali, quella dell’elezione diretta del capo dell’esecutivo con un parlamento al suo servizio) è evidente la volontà di costruire un altro Stato costituzionale, meno rispettoso del pluralismo politico e più attento alle ragioni dei poteri su quelle dei diritti. La vittoria nel referendum può rappresentare un forte ostacolo a questo progetto regressivo e francamente un po’ inquietante. Dovrebbe bastare questo per convincere tutti coloro che sono preoccupati dello stato delle cose presenti ad andare a votare. Qualcuno sostiene che c’è la libertà di non votare: è una libera scelta. In fondo non è prevista alcuna sanzione per chi diserta le urne. Ed è vero. È vero che esiste la liberà naturale (così la chiamava Hans Kelsen), la quale comprende la possibilità di farsi mettere in catene. Essa, però, appare incompatibile con la democrazia, che si fonda invece su un altro tipo di libertà, quella sociale. La cui partecipazione è un dovere civico. Isonomia la chiamavano gli antichi. Meglio lottare per le proprie convinzioni - quali che esse siano - e impegnarsi anche con il voto per i nostri diritti e per i diritti di chi non ne ha. In fondo anche se non siamo lavoratori precari, anche se non siamo migranti senza cittadinanza non possiamo rinunciare a questi diritti. Si sente dire dagli scettici che “tanto il quorum non si raggiungerà”. Può anche darsi, ma vorrei ricordare la frase del più grande e appassionato rivoluzionario del Novecento: “Chi lotta può perdere, ma chi non lotta ha già perso”. Andiamo a votare, per favore. Lotta alla droga: ecco i numeri del fallimento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 maggio 2025 Il modello repressivo, in Italia, non ha né fermato il consumo né ridotto l’offerta di sostanze. Al contrario, ha prodotto costi umani e sociali altissimi. Le carceri esplodono di detenuti arrestati per droga; le persone con dipendenze restano senza percorsi di cura; chi finisce nel circuito penale si porta addosso per tutta la vita il marchio di “spacciatore” o “tossicodipendente”; le grandi organizzazioni criminali continuano a prosperare su un mercato che la repressione non riesce a scalfire. E intanto lo Stato spende miliardi tra forze dell’ordine, magistratura e carceri, senza risultati concreti. È un sistema che continua a divorare risorse pubbliche per mantenere in piedi il proprio stesso apparato, mentre investe poco o nulla in prevenzione e supporto a chi avrebbe bisogno di aiuto. Le carceri italiane sono ben oltre la soglia di sicurezza: il tasso di sovraffollamento è al 133,52%, secondo l’ultimo rapporto del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Più di un terzo dei detenuti è in carcere per reati legati alla droga. E l’Italia continua ad avere una delle legislazioni più severe d’Europa su detenzione e spaccio, al punto da aver mandato dietro le sbarre, per anni, anche chi veniva trovato con piccole quantità per uso personale. Nel frattempo, i servizi sanitari per le dipendenze restano carenti. I SerD - i servizi pubblici per le dipendenze - operano sotto organico e con dotazioni insufficienti. Dal 2018 al 2023, il personale specializzato si è ridotto di 252 unità. Oggi, il rapporto tra operatori e utenti è di 4,7 ogni 100 persone, contro il 7,2 dei servizi dedicati all’alcologia. L’approccio della riduzione del danno, che prevede interventi come distribuzione di siringhe sterili, counselling a bassa soglia, informazione tra pari, è stato inserito nei Livelli Essenziali di Assistenza, ma resta inapplicato in molte regioni. Mancano strutture per il consumo controllato, programmi di somministrazione del naloxone, centri per il trattamento delle patologie infettive legate all’iniezione. Il peso dello stigma resta enorme. La parola “tossicodipendente” agisce come un timbro indelebile: si perdono lavoro, casa, reti di sostegno. E la paura di essere riconosciuti come consumatori allontana anche chi vorrebbe iniziare un percorso di cura. L’idea della riduzione del danno, nel suo senso più ampio, parte proprio da qui: accogliere senza giudicare. Ma nel contesto italiano manca ancora un’effettiva cultura della non discriminazione. In carcere, intanto, finiscono quasi sempre i “pesci piccoli”: consumatori, microspacciatori. I grandi trafficanti, quelli con logistica, capitali e protezioni, restano fuori. E si arricchiscono. Nel 2023 - secondo i dati della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga - le forze dell’ordine hanno aumentato le operazioni (+ 6%) e sequestrato 89 tonnellate di stupefacenti (+ 17%). Ma il mercato non rallenta. Il narcotraffico, come sottolinea il Dipartimento Antidroga, è ormai una “multinazionale del crimine”, in grado di adattarsi a ogni crisi. Intanto, ogni euro speso per alimentare il sistema penale sottrae risorse a prevenzione, trattamento, reinserimento. I fondi per programmi alternativi si sono ridotti negli ultimi anni, mentre il meccanismo repressivo continua a girare a vuoto, alimentando un circolo vizioso da cui sembra impossibile uscire. Nasce la contro-conferenza - In questo scenario, la società civile italiana prepara una risposta netta. Il 7 e 8 novembre 2025, negli stessi giorni in cui a Roma si terrà la Conferenza Nazionale sulle Droghe organizzata dal governo, andrà in scena una Contro- Conferenza nazionale autoconvocata. L’obiettivo: smontare la retorica securitaria, rivendicare i diritti negati e proporre un nuovo paradigma. “Sulle droghe abbiamo un piano. Fermiamo la guerra alla droga, contro il governo della paura garantiamo diritti civili e sociali” : è lo slogan dell’iniziativa promossa da una coalizione ampia e radicata, che comprende Antigone, ARCI, CGIL, Associazione Luca Coscioni, Forum Droghe, Gruppo Abele e oltre dieci altre realtà impegnate ogni giorno sul campo. La distanza tra governo e società civile sul tema delle sostanze stupefacenti non è mai stata così netta. Da una parte, l’esecutivo Meloni spinge sull’acceleratore dell’approccio securitario: dal decreto anti- rave al decreto Caivano, passando per le modifiche al codice della strada e l’ultimo Decreto Sicurezza, che è riuscito a criminalizzare perfino la canapa industriale, priva di effetti psicoattivi. Dall’altra, un fronte sempre più compatto di esperti, attivisti e operatori denuncia il fallimento strutturale della ‘ guerra alla droga’ e chiede un cambio di passo: meno repressione, più salute pubblica e diritti. L’annuncio pubblicato da Antigone non lascia spazio a dubbi: “A differenza della Conferenza del 2021 - aperta alla partecipazione della società civile e culminata con un innovativo Piano Nazionale poi ignorato dall’attuale esecutivo - il governo Meloni ha escluso le realtà esperte e le persone che usano sostanze. Di fronte a questo, non intendiamo restare in silenzio”. La Contro- Conferenza sarà il momento finale di un percorso fatto di iniziative diffuse sul territorio, incontri con i cittadini, dialogo con amministrazioni locali, comitati di quartiere, studenti, sindacati e tutte le forze politiche disposte al confronto. La scienza contro l’ideologia - Particolarmente contestate sono le dichiarazioni del sottosegretario Alfredo Mantovano, delegato alle politiche sulle droghe, che ha messo in discussione l’efficacia della Riduzione del Danno. Un approccio riconosciuto e sostenuto a livello internazionale, forte di decenni di evidenze scientifiche, che dimostra di ridurre i danni sanitari, contenere le infezioni, prevenire l’overdose e migliorare la convivenza civile, abbattendo stigma e pregiudizi. “Il governo ignora deliberatamente i dati”, denunciano gli organizzatori. “La Riduzione del Danno non è solo una prassi sanitaria, è una scelta culturale e politica, necessaria per affrontare l’evoluzione dei consumi e delle sostanze”. Nonostante sia stata formalmente inserita nei Livelli Essenziali di Assistenza, la sua applicazione resta a macchia di leopardo. In molte regioni, chi ha bisogno resta scoperto. La Contro- Conferenza non si limita a criticare: vuole mettere in campo un’alternativa concreta. Al centro del confronto ci saranno proposte precise: depenalizzazione e decriminalizzazione dell’uso personale, anche sul piano amministrativo; regolazione legale della cannabis; attuazione uniforme dei LEA per la Riduzione del Danno; potenziamento delle misure alternative alla detenzione, con particolare attenzione per le madri detenute. L’obiettivo è costruire un nuovo paradigma basato su salute pubblica, giustizia di comunità e diritti umani. “Il fallimento del modello repressivo è documentato anche nei report ufficiali delle Nazioni Unite”, sottolineano le organizzazioni. “Serve una svolta radicale: non più guerra alla droga, ma governo sociale del fenomeno”. La coalizione promotrice si allarga. Oltre alle quindici sigle già aderenti (tra cui A Buon Diritto, Cnca, Comunità San Benedetto al Porto, Lila, Itanpud, Itardd, L’Altro Diritto, Meglio Legale, Tutela Pazienti Cannabis), il fronte riformista punta a coinvolgere anche le città aderenti alla rete Elide, alcune regioni considerate virtuose e le reti europee attive sul tema. Le adesioni restano aperte sul sito www.conferenzadroghe.it, dove è disponibile anche il programma dell’iniziativa. Migranti. Venti mesi in carcere perché “scafisti”, poi assolti per non aver commesso il fatto di Angela Nocioni L’Unità, 24 maggio 2025 Il Tribunale di Locri assolve altri due migranti, due egiziani di 20 e 49 anni, dopo venti mesi di carcere. La pm aveva chiesto 4 anni e mezzo. Assolti dal Tribunale di Locri per non aver commesso il fatto. Dopo venti mesi di carcere. No, non erano scafisti. Gli inquirenti si erano sbagliati anche questa volta. L’accusa ex art 12 del testo unico sull’immigrazione, (favoreggiamento all’immigrazione clandestina) era infondata. la pm aveva chiesto 4 anni e 6 mesi di reclusione. Aveva appena compiuto 18 anni Walid Mohasen El Sayed El Bagoury, egiziano, il 24 settembre del 2023 quando è sbarcato a Roccella Jonica insieme a un altro centinaio di migranti. Sbarcato e sbattuto in cella. È stato rinchiuso dallo Stato italiano 20 mesi ingiustamente nel carcere di Locri per una accusa campata in aria. Stessa sorte toccata a un suo compagno di viaggio, anche lui egiziano, Ismail Mohamed Ismail Alì, che allora di anni ne aveva 47. Quattro migranti iraniani scesi dalla stessa imbarcazione intercettata dalla Guardia di finanza e arrivata al porto di Roccella hanno firmato allo sbarco accuse contro i due egiziani e subito dopo sono spariti. Messa la firma sotto le cosiddette “dichiarazioni spontanee”, gli accusatori si sono dileguati. Ciò accade tutti i giorni. Chi assiste agli sbarchi racconta di avere chiaro che le forze dell’ordine si comportano come se avessero l’obiettivo di raccattare almeno un sospetto scafista a sbarco. Ai migranti viene chiesto, quasi sempre senza avvocato e spesso senza un interprete che parli davvero la loro lingua, di indicare chi nell’imbarcazione aveva un ruolo nella traversata. O perché stava al timone, o perché distribuiva acqua. Molto spesso - raccontano sia migranti sia testimoni diretti - vengono più o meno sottilmente incoraggiati a indicare qualcuno. Li si lascia pensare (e gli interpreti in ciò hanno spesso un ruolo fondamentale) che se indicano qualcuno che ha avuto un ruolo nel viaggio non passeranno altri guai, metteranno una firma e saranno lasciati andar via subito. E poiché quasi tutti quelli che arrivano vogliono dileguarsi alla svelta - molti hanno già un passaggio concordato per raggiungere alla svelta il Nord Europa, molti hanno parenti o amici in attesa - non è difficile trovare qualcuno che, spesso senza capire bene le conseguenze di quel che sta facendo, accetta di mettere la sua firma in fondo alla dichiarazione spontanea che di spontaneo ha molto poco. Puntualmente i dichiaranti spontanei spontaneamente spariscono. In quello sbarco del 24 settembre di due anni fa a sparire furono in tanti, all’istante. Successe qualcosa di strano. Erano un centinaio a bordo e, appena scesi, subito dopo esser stati fotografati dalla polizia, 59 di loro si sono dissolti nel nulla senza che gli venissero prese generalità né impronte. Walid Mohasen El Sayed El Bagoury e Ismail Mohamed Ismail Alì additati come scafisti, sono finiti invece dritti in galera senz’altro elemento in mano all’accusa che quei due foglietti firmati dai quattro iraniani scappati subito via. Il Tribunale di Locri li ha assolti per non aver commesso il fatto. Dice l’avvocato Giancarlo Liberati, difensore di Walid oggi ventenne: “L’orientamento del collegio giudicante del tribunale di Locri presieduto dal giudice Sobbrio si è ormai stabilizzato sul rispetto delle regole costituzionali, dell’articolo 111 in particolare e dell’articolo 6 della Cedu che impongono di non comminare sentenze di condanna in presenza delle sole dichiarazioni di soggetti che si sottraggono al contraddittorio delle parti. Questo è meritevole da parte loro”. Migranti. Così l’Europa vuole uscire dalla Convenzione di Ginevra di Gianfranco Schiavone L’Unità, 24 maggio 2025 Le proposte presentate dalla Commissione intervengono sulla nozione, già oggi scivolosa, di “paese terzo sicuro”, aprendo la strada a interpretazioni arbitrarie che sollevano l’Ue dai propri obblighi nei confronti di chi chiede protezione. Di fatto, un modo per sbarazzarsi del diritto di asilo. La Commissione Europea ha presentato una proposta (Bruxelles, 20.5.2025 COM (2025) 259) di modifica del Regolamento (UE) 2024 n. 1348 sulle procedure in materia di asilo (che troverà applicazione a giugno 2026) con l’obiettivo di intervenire sulla nozione di paese terzo sicuro. Anche coloro che non seguono da vicino il diritto d’asilo avevano iniziato a prendere confidenza con la controversa nozione di paese di origine sicuro, ma che cos’è la nozione di paese terzo sicuro? Si tratta di un paese che non è il paese di origine del richiedente asilo ma non è neppure il paese UE in cui viene chiesto asilo, bensì appunto un Paese terzo ove non vige il diritto europeo sull’asilo che può essere considerato un luogo sicuro per il richiedente (art. 59 del Reg. procedure) ovvero un paese nel quale la persona non corre rischi di subire persecuzioni o danni gravi e nel quale può chiedere e godere di una protezione definitiva “effettiva” per come definita dall’articolo 59 del Reg. procedure. In base ad esso si ritiene che un paese terzo garantisca una protezione effettiva se ha “ratificato e rispetti la convenzione di Ginevra nei limiti delle deroghe o limitazioni previste da tale paese terzo, autorizzate a norma della convenzione” (quindi anche mantenendo la limitazione geografica). Scompare in tal modo, con un abile trucco, anche il riferimento alla nozione di protezione contro le conseguenze di conflitti armati che pure è un caposaldo del diritto europeo. Perché è stata introdotta la nozione di paese terzo sicuro e qual è la sua rilevanza in relazione agli obblighi in materia di asilo da parte dell’Unione e dei suoi Stati membri? La ragione di tale scelta è legata al fatto che il Reg. procedure prevede che la domanda di asilo presentata ad uno stato membro può essere dichiarata inammissibile (e pertanto neppure esaminata nel merito) se appunto la persona che chiede protezione “ha con il paese terzo in questione un legame in virtù del quale sarebbe ragionevole che vi recasse” (art. 59 par.5 lettera b). Chiunque può subito vedere che siamo di fronte a una nozione molto scivolosa sotto il profilo giuridico perché estremamente vaga ed ambigua, ovvero priva del principio di determinatezza che una norma dovrebbe sempre avere. La nozione di paese terzo sicuro è dunque già a legislazione vigente, quanto mai problematica perché può operare come uno strumento con il quale eludere da parte degli stati europei l’obbligo di esaminare le domande di asilo che vengono loro presentate da uno straniero. Richiamo l’attenzione sul fatto che il diritto d’asilo si sostanzia innanzitutto nel diritto di chiederlo, alla frontiera, nelle acque territoriali, nelle aree di transito, nel territorio. In altri termini consiste primariamente nel diritto accesso alla procedura che porterà (o meno) al riconoscimento della richiesta di protezione. Se non c’è un diritto di accesso, e un conseguente obbligo di esaminare quella domanda, il diritto d’asilo non c’è alla radice. Per il suo non sanabile livello di indeterminatezza ritengo che la nozione di paese terzo sicuro andrebbe abrogata. Qualora si voglia invece salvarla, la nozione di legame tra il richiedente e il paese terzo dovrebbe essere estremamente restrittiva ed escludere ogni arbitrarietà, così da rendere stringente la ragione per cui il paese terzo chiamato in causa ha il dovere di assicurare la protezione proprio a quel richiedente che ha deciso invece di chiederla ad un paese europeo. La Commissione Europea, pressata da un clima politico che si fa ogni giorno più esasperato sulle questioni migratorie e dove sembra sia in atto una gara di estremismi, ha invece proposto una modifica che va nella direzione opposta. La formulazione dall’articolo 59 par.5 del Reg. procedure sopraccitata viene modificata prevedendo che il paese terzo possa essere considerato sicuro se ricorrono una delle seguenti condizioni: 1) esiste un legame tra il richiedente e il Paese terzo in questione, in base al quale sarebbe ragionevole per lui o lei recarsi in quel Paese; 2) il richiedente ha transitato nel Paese terzo in questione; 3) esiste un accordo o un’intesa con il Paese terzo interessato che impone l’esame del merito delle domande di protezione effettiva presentate dai richiedenti soggetti a tale accordo o intesa. La prima condizione è mera ripetizione della normativa esistente e non aiuta dunque a dare alla proposta alcun maggiore rigore giuridico. La seconda condizione presuppone l’esistenza di un legame tra il richiedente e il paese terzo in ragione del solo fatto di essere transitato da tale paese, anche se la persona non ha con esso alcun legame. Nei considerando alla proposta di riforma la Commissione infatti scrive che il legame esiste “in quanto è ragionevole aspettarsi che una persona richiedente protezione internazionale possa aver presentato domanda di protezione in un Paese terzo sicuro attraverso il quale è transitata. Il precedente transito in un Paese terzo sicuro fornisce un legame oggettivo tra il richiedente e il Paese terzo in questione”. Ho letto con sconforto la frase sopra riportata decine di volte in quanto si tratta di un’ardita sfida alla logica. Nulla lega il richiedente ai paesi terzi che ha solo fisicamente attraversato (come altresì individuare tra i diversi paesi attraversati quello prescelto a diventare il paese cui rispedire il richiedente? Con l’oggettivo legame di un sorteggio?), mentre affermare che avrebbe potuto presentare in tali paesi la domanda di asilo equivale a sostenere che l’Unione Europea si occupa solo delle domande di asilo di colui che fugge da paesi confinanti o arriva in Europa via aereo (ma ovviamente nel solo caso in cui il richiedente parta comodamente dal paese in cui subisce persecuzioni salutando affettuosamente i responsabili delle stesse). Al rinvio coatto verso il paese terzo sicuro attraversato sarebbero soggetti anche i minori stranieri non accompagnati, seppure, afferma pietosamente il testo, solo dopo accurata valutazione se ciò è nel loro superiore interesse. Voler introdurre una simile disposizione equivale nella sostanza a liberarsi del diritto d’asilo in Europa pretendendo però nello stesso tempo il suo rigoroso rispetto nel resto del mondo. Poggia sulla stessa radicale distorsione giuridica la terza ipotesi prevista dalla proposta della Commissione, ovvero la sussistenza di un accordo o intesa tra il paese terzo e il paese europeo con il quale il paese terzo si impegna ad esaminare le domande di asilo dei richiedenti asilo mentre il paese europeo si disfa di ogni responsabilità. Se non si tratta di un’uscita dell’Europa dalla Convenzione di Ginevra ci andiamo molto vicino. Un caso che sotto vari profili è assimilabile a quanto la Commissione oggi propone non è il modello Italia-Albania, pessimo sotto molti profili, ma che prevede il mantenimento della giurisdizione italiana sull’esame delle domande, bensì l’indecoroso esperimento che fu rappresentato dal Memorandum tra il Regno Unito e il Ruanda. Con tale memorandum il Regno Unito avrebbe infatti venduto i richiedenti asilo che sarebbero arrivati sulle coste inglesi ad un paese terzo, il Ruanda il quale assumeva la giurisdizione sull’esame delle domande di asilo che sarebbero state di competenza della Gran Bretagna. Su tale Memorandum (che in via definitiva venne ritenuto illegittimo dalla Suprema Corte dell’UK il 15 novembre 2023) si espresse in modo chiaro a suo tempo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati evidenziando come la previsione di una sistematica procedura di trasferimento della responsabilità ad altri Stati “rimane in contrasto con lo spirito e la lettera della Convenzione sui rifugiati” (Unhcr, Analysis of the Legality and Appropriateness of the Transfer of Asylum-Seekers under the UK-Rwanda arrangement: an update, 15 January 2024). Oggi la Commissione riprende nella sostanza il medesimo approccio dal momento che, per come formulata, le ipotesi che legittimerebbero la devoluzione a paesi terzi della competenza ad esaminare le domande di chi richiede asilo in Europa sarebbero talmente estese da assumere le caratteristiche di una situazione generalizzata e sistematica. Saprà il Parlamento Europeo, e in particolare il raggruppamento S&D (Socialisti e Democratici) che sostiene l’attuale Commissione, con compattezza, senza distinguo e tentennamenti nelle delegazioni nazionali, ripudiare l’incredibile proposta della Commissione di vendere i richiedenti asilo ai più disparati paesi del mondo in una sorta di mercato globale di esseri umani? Avremo, tutti noi, la capacità di capire il livello di estremismo che è stato raggiunto e assumere la consapevolezza che bisogna tornare indietro il prima possibile? Palestina, il ritardo del diritto di Chantal Meloni Corriere della Sera, 24 maggio 2025 Le offensive di Israele: quante vite avrebbero potuto essere risparmiate in Cisgiordania e a Gaza se adeguati meccanismi giuridici fossero stati avviati per tempo? Da un paio di settimane, quasi all’unisono, autorevoli voci hanno iniziato a pronunciare parole finora proibite nel dibattito pubblico su Israele. A livello internazionale, sono comparsi editoriali - anche su media mainstream - e hanno trovato più spazio commenti che definiscono genocidio quello in corso a Gaza. Anche molti politici in diversi contesti si sono espressi utilizzando termini di una nettezza sinora inaudita. Lo stesso è avvenuto in Italia, sui giornali, nelle televisioni, alla radio, nelle aule della politica e in eventi culturali vari. A seguito di quanto avvenuto mercoledì a Jenin, quando l’esercito israeliano ha aperto il fuoco in concomitanza con il passaggio di una delegazione di diplomatici europei, le prime pagine erano tutte su questo e le dichiarazioni di condanna sono state unanimi. In ogni caso è chiaro che questi giorni segnano un cambio di passo; alle parole si sono affiancate alcune prime iniziative concrete, non solo politiche ma anche giuridiche. A livello europeo è stato finalmente deciso l’avvio della revisione dell’accordo di associazione con Israele, sebbene con il voto contrario del nostro paese (come pure della Germania e di pochi altri), e iniziative simili sono state annunciate da singoli governi, tra cui quello inglese, per la sospensione dell’analogo accordo di libero scambio con Israele. In Spagna, il Parlamento ha passato una legge che blocca l’export di armi a Israele. Ancora in Gran Bretagna, dove la pressione dell’opinione pubblica si sta facendo sentire forse più forte che altrove, sono state varate sanzioni nei confronti di singoli coloni, tra cui l’ormai nota Daniella Weiss, che compare nel recente documentario della Bbc “The Settlers”, che ha scioccato tanti per la sfacciataggine con cui, davanti alla telecamera, spiega i loro piani illegali per conquistare una terra che loro non appartiene. Ma soprattutto, nelle sedi ufficiali, è stata da più parti evocata l’urgenza del riconoscimento dello Stato palestinese. Dovremmo rallegrarci di questo cambio di passo apparente - e non manchiamo certo di farlo. Al contempo, è grande la frustrazione e l’amarezza, è palpabile la disillusione e l’indignazione di fronte al ritardo con cui si assiste a questi timidi passi; 19 mesi dopo, quando Gaza è completamente distrutta, la popolazione intrappolata e ridotta alla fame e con un bilancio indicibile di morti e feriti, bruciati, mutilati, in massima parte civili, tra cui oltre 20.000 bambini già morti e 14.000 che si stima possano morire di fame in queste ore. Senza dimenticare la situazione in Cisgiordania, dove solo in questi mesi, sono migliaia i Palestinesi uccisi, feriti o cacciati dalle loro case per fare spazio alle colonie, che avanzano a ritmo incessante in un territorio illegalmente occupato, come è stato dichiarato dalla Corte internazionale di giustizia (Cig) il 19 luglio 2024. Non possiamo eludere la domanda: quante vite avrebbero potuto essere risparmiate se adeguati meccanismi giuridici fossero stati avviati per tempo? Non intendo 19 mesi fa; intendo anni, lustri, decenni fa. Già venti anni fa, del resto, la situazione era chiara e ampiamente documentata in decine di rapporti di organizzazioni indipendenti, tra cui varie agenzie dell’Onu, ove si dettagliava la negazione dei diritti umani di un intero popolo - a Gaza come in Cisgiordania - e un regime di apartheid de facto, ossia di oppressione sistematica e istituzionalizzata. È del 2004 il fondamentale parere consultivo della Cig che dichiarava la illegalità del muro di separazione, rimasto lettera morta. Sono del 2009, 2012, 2014, 2018, 2021 alcune delle più nette conclusioni scritte da Commissioni di indagine istituite dall’Onu, che chiedevano il ricorso urgente ai meccanismi di giustizia internazionale, compresa la Corte penale internazionale (Cpi), per i responsabili dei crimini (crimini di guerra e contro l’umanità) commessi nel corso di successive operazioni militari a Gaza. Solo a novembre 2024 si è giunti alla emissione di mandati di arresto da parte della Cpi, rimasti finora ineseguiti, attaccati e sminuiti da troppi leader politici, anche europei, anche italiani. Allora ricordiamoci che il conto delle vittime deve includere non solo quelle degli ultimi 19 mesi, ma anche quelle causate da tutte le offensive precedenti, incluse le vittime civili da parte israeliana, incluse ovviamente le vittime del 7 ottobre: avrebbe forse potuto essere diverso se i principi del diritto fossero stati riaffermati senza ambiguità, se i meccanismi di esecuzione della giustizia, che sono in mano agli Stati, fossero stati attivati prontamente? Le carceri sono al collasso e l’Iraq vara l’amnistia: liberi oltre 19.000 prigionieri di Sergio D’Elia L’Unità, 24 maggio 2025 Non si sono fatti paralizzare dalla ossessione del mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica. Non si sono fatti ingannare dall’illusione autoritaria di uno stato di emergenza perenne. Non hanno agitato e propagandato la certezza e la deterrenza delle pene. Non sono neanche uno stato democratico, illuminato da un elevato stato di coscienza orientato al diritto e ai valori umani universali. Eppure, l’Iraq ha fatto l’amnistia. “Bisogna aver visto” e “Conoscere per deliberare”. Pietro Calamandrei e Giulio Einaudi. Gli iracheni non ne hanno mai sentito parlare, ma hanno seguito i loro motti. Hanno visto che nelle 31 prigioni del Paese erano ammassati circa 65.000 detenuti, il doppio di quelli previsti dalla capienza regolamentare delle celle. Hanno preso coscienza che i loro diritti umani fondamentali, non solo la libertà, anche la salute e la stessa vita, erano minacciati dal sovraffollamento. “Quando abbiamo assunto l’incarico, il sovraffollamento era al 300%”, ha dichiarato il Ministro della Giustizia Khaled Shwani. “Dopo due anni di riforma, l’abbiamo ridotto al 200%. Il nostro obiettivo è di portarlo al 100% entro il prossimo anno, in linea con gli standard internazionali”. Quattro nuove prigioni sono in costruzione, mentre tre sono state chiuse negli ultimi anni. Altre due sono state aperte e sei prigioni esistenti sono state ampliate. Le carceri irachene ospitano centinaia di cittadini stranieri. Alcuni di loro sono stati rimpatriati. Fatto questo, gli iracheni hanno fatto anche l’amnistia. Non hanno fantasticato su futuri immaginari piani-carcere, riaperture di caserme dismesse e deportazioni di massa dei detenuti nei luoghi di origine. Hanno visto, riconosciuto, deliberato. Non hanno emanato decreti sicurezza per il mantenimento della legge e dell’ordine nelle carceri e punire i torturati per la loro “resistenza anche passiva” alle condizioni di tortura. A gennaio hanno promulgato la legge sull’amnistia e alla fine di aprile erano già stati liberati 19.381 prigionieri, inclusi detenuti condannati per accuse di terrorismo. La stragrande maggioranza è uscita dalle prigioni del Ministero della Giustizia, altri sono stati rilasciati dalla custodia delle agenzie di sicurezza dove erano rinchiusi per la mancanza di posti nelle carceri. La legge sull’amnistia ha anche bloccato tutte le esecuzioni, comprese quelle nei confronti dei terribili militanti sunniti che, dopo aver invaso l’Iraq nel 2014, hanno controllato un terzo del suo territorio, conquistato importanti città come Mosul, Tikrit e Falluja, ucciso migliaia di persone, sfollato centinaia di migliaia, decimato la popolazione yazida e lasciato vaste aree in rovina. Sconfitti nel 2017, migliaia di loro sono stati arrestati e rinchiusi nella prigione di Nassiriya, l’unica in Iraq dove c’è il braccio della morte. Gli abitanti del luogo chiamano la prigione “al hout”, la balena, perché inghiotte le persone, ma non le sputa fuori. Con l’amnistia di gennaio, invece, un po’ alla volta, sono usciti da Nassiriya anche i “terroristi”, sputati fuori dalla pancia della balena come Pinocchio. La nuova legge consente anche ad alcuni condannati di chiedere il rilascio, un nuovo processo o l’archiviazione del caso. La legge ha ricevuto un forte sostegno da parte dei deputati sunniti, i quali sostengono che la loro comunità sia stata presa di mira in modo sproporzionato dalle accuse di terrorismo, con confessioni talvolta estorte sotto tortura. Tutto il mondo è paese. Neanche in Iraq sono mancati gli oppositori dell’amnistia perché avrebbe significato il “colpo di spugna” per reati commessi contro la pubblica amministrazione, di corruzione pubblica e appropriazione indebita. Non mancano neanche quelli contrari all’amnistia nei confronti di militanti che hanno commesso crimini di guerra. Tra i contrari vi sono persino quelli che per vocazione dovrebbero avere a cuore, con la sicurezza pubblica, la tutela dei diritti umani fondamentali anche di chi è stato o è sospettato di essere un pericolo pubblico. “L’attuale versione della legge di amnistia generale solleva profonde preoccupazioni sulle sue potenziali conseguenze legali e di sicurezza”, ha dichiarato in una nota l’Osservatorio Iracheno per i Diritti Umani. L’amnistia non è una “resa dello Stato” nei confronti di chi può costituire una minaccia all’ordine e alla sicurezza. È innanzitutto un atto di buon governo ma anche di grazia che lo Stato concede a sé stesso, una piccola tregua alla sua, a volte tremenda, potestà punitiva. L’Iraq rimane sempre un paese tra i primi al mondo per l’uso della pena di morte e per le esecuzioni di massa effettuate spesso senza preavvisare avvocati e familiari dei prigionieri. Ma oggi dobbiamo riconoscere l’avvenimento in Iraq di un fatto di segno diverso, più umano e civile di quelli che si manifestano nei paesi cosiddetti civili. Gran Bretagna. Troppi detenuti? Si studia l’estensione del programma di castrazione chimica di Sabrina Provenzani Il Fatto Quotidiano, 24 maggio 2025 Il ministero della Giustizia prevede che i detenuti arriveranno a essere 89.100 entro settembre 2025 e il sistema rischia il collasso. Ma rendere obbligatorio un simile provvedimento ha riacceso il dibattito su etica, efficacia e sicurezza pubblica. Il governo britannico, guidato dalla ministra per la Giustizia Shabana Mahmood, ha annunciato una serie di interventi per risolvere la crisi di sovraffollamento nelle carceri di Inghilterra e Galles. Una revisione indipendente, condotta dall’ex Segretario David Gauke, punta a ridurre la popolazione carceraria di circa 9.800 unità entro il 2028. L’obiettivo è evitare il collasso del sistema giudiziario. Fra le proposte c’è l’espansione di un programma pilota di castrazione chimica per i trasgressori sessuali e una revisione delle pene detentive. Ma, come era prevedibile, la proposta di castrazione chimica obbligatoria ha riacceso il dibattito su etica, efficacia e sicurezza pubblica di una misura ovunque controversa. Per il momento il programma pilota di castrazione chimica, già attivo in una prigione del sud-ovest dell’Inghilterra, sarà esteso a 20 carceri in due regioni, come annunciato da Mahmood il 22 maggio scorso. Il trattamento usa farmaci come SSRI e antiandrogeni per sopprimere il desiderio sessuale ed è offerto, su base volontaria, a trasgressori con pulsioni compulsive, inclusi alcuni pedofili. Secondo studi citati da CNN, il trattamento riduce la recidiva del 60%. Mahmood ha enfatizzato l’importanza di supportarlo con interventi psicologici: “Serve un approccio che affronti anche cause come il desiderio di potere e controllo.” Ma l’idea di rendere il trattamento obbligatorio suscita critiche. Il professor Don Grubin, professore emerito di Psichiatria forense presso la Newcastle University, Regno Unito, e consulente psichiatra forense onorario presso il Cumbria, Northumberland, Tyne & Wear NHS Trust e consulente anche di questo programma, sostiene che l’obbligatorietà violerebbe l’etica medica: “I medici non devono diventare agenti di controllo sociale.” Anche il Prison Reform Trust esprime preoccupazioni ed evidenzia che interventi forzati potrebbero scoraggiare la partecipazione e sollevare questioni legali. Il rapporto di Gauke, va notato, chiarisce proprio che la castrazione chimica non è efficace per trasgressori motivati da potere o controllo, come alcuni stupratori, e richiede sempre interventi psicologici complementari. ?Ma la crisi da sovraffollamento carcerario, problema cronico degli ultimi decenni, è ora senza precedenti. Il ministero della Giustizia prevede che la popolazione carceraria raggiungerà 89.100 persone entro settembre 2025, con un picco possibile di 90.300. Già a settembre 2024 si era toccato un record record. Senza interventi, si stima un deficit di 9.500 posti entro il 2028. E la ministra avverte: senza riforme, il sistema carcerario potrebbe collassare, bloccando arresti e processi e minacciando l’ordine pubblico. Proprio per questo il suo predecessore aveva studiato soluzioni alternative. Una proposta è consentire ai detenuti con pene standard di essere rilasciati dopo aver scontato un terzo della condanna per buona condotta. Questo vale anche per trasgressori sessuali e condannati per abuso domestico, con il caveat che chi viola le condizioni sconterà almeno metà della pena. L’idea è di eliminare la detenzione per pene inferiori a 12 mesi, salvo casi eccezionali come gli abusi domestici - in Inghilterra si finisce in carcere anche per non aver pagato il canone televisivo, un reato che colpisce in modo sproporzionato le madri di famiglie povere, che spesso vengono trovate in casa dall’ufficiale giudiziario perché si prendono cura dei figli. Al loro posto il servizio di comunità, braccialetti elettronici o divieti di guida e accesso a eventi sportivi. A questo si associa il piano del governo, tutto da implementare e soggetto a obiezioni umanitarie e legali, di deportare all’estero i cittadini stranieri condannati a detenzione fino a tre anni, con un investimento di 700 milioni di sterline annui in servizi di supporto alla riabilitazione. Proposte che hanno suscitato forti critiche. Il segretario ombra alla giustizia, il conservatore Robert Jenrick, sostiene che eliminare le pene brevi rischi di “decriminalizzare” reati come furto con scasso e aggressione, e che i braccialetti elettronici non prevengano la recidiva. Anche per gruppi di rappresentanti delle vittime, come Justice for Victims, i rilasci anticipati potrebbero avere un impatto negativo sui sopravvissuti a reati violenti.