Anziani e in cella, girone ultimissimi di Federica Delogu e Marica Fantauzzi L’Espresso, 23 maggio 2025 Mille detenuti su 62mila hanno più di settant’anni. E l’Italia è il Paese europeo con più reclusi over 65. Una sfilza di eccezioni riduce al minimo la possibilità dei domiciliari. Viva Leroy Nash, conosciuto anche come Jail Houdini, morì nel 2010 dopo aver trascorso quasi ottant’anni della sua esistenza in carcere. Nonostante i legali considerassero lo stato di salute del proprio assistito incompatibile sia con l’esecuzione capitale sia con la detenzione, Nash sarà ricordato nella storia degli Stati Uniti come la persona più anziana a morire per cause naturali mentre, ancora detenuto, era in attesa di essere giustiziato. Aveva 94 anni. Esiste un’età oltre la quale la detenzione diventa un’inutile, oltre che crudele, punizione? La questione diventa sempre più attuale anche in Italia, se si considera che secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria oltre mille detenuti sui 62mila presenti hanno più di settant’anni. Secondo il Consiglio d’Europa, inoltre, l’Italia è il Paese europeo con più detenuti oltre i 65 anni d’età. Antonino, 76 anni compiuti, da 4 anni e mezzo è in semilibertà, ma la sua condanna è “fine pena mai”. Di giorno può uscire per fare volontariato, ma ogni notte torna in cella. “In carcere ho visto persone di tutte le età, una marea sofferente. Ci sono l’infermiere e il medico dell’Istituto - racconta - ma per fare delle visite specialistiche bisogna aspettare tanto tempo”. E alcune patologie, combinate con l’età avanzata, finiscono per essere debilitanti e senza la figura del piantone (termine carcerario per indicare i detenuti che affiancano chi non è autosufficiente), molti detenuti anziani - dice Antonino - non riuscirebbero né a mangiare né a lavarsi. Franco Della Casa, professore emerito di Diritto processuale penale all’Università di Genova, già docente di Diritto penitenziario nella stessa Università, parla di una “crescente moltitudine di invisibili”, riferendosi alla popolazione anziana detenuta. “Si può ragionevolmente dire, facendo riferimento alla legislazione italiana e alla giurisprudenza in materia, che si entra nella categoria degli anziani al compimento dei 70 anni. E nonostante sia prevista una forma di detenzione domiciliare per i condannati ultrasettantenni, la norma è di fatto oggetto di sbarramento”. Infatti, prosegue Della Casa, la misura non include un numero molto elevato di persone condannate per reati considerati gravi dal legislatore. Ovvero omicidio, reati sessuali, reati di riduzione in schiavitù e reati associativi. Stessa riflessione condivisa da Valentina Calderone, Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Roma, che parla di un numero così elevato di eccezioni alla legge sulla detenzione domiciliare che l’uscita dal carcere non è mai automatica. “Se guardiamo la serie storica, dal 2005 il numero degli over 70 reclusi è costantemente cresciuto: dato che può essere collegato anche all’aumento degli ergastoli e che fa ipotizzare che una parte di queste persone siano diventate anziane in carcere”. È un tema, sottolinea Calderone, che nel Lazio come altrove è largamente sottovalutato e che riguarda tanto le condizioni di salute delle persone detenute quanto la loro età, senza contare che molte delle patologie riscontrate sono una diretta conseguenza della detenzione prolungata. E se l’architettura penitenziaria, anche in condizioni non sovraffollate, risulta ostile di per sé, è con l’avanzare dell’età che quelle barriere carcerarie finiscono per essere insostenibili. Elisabetta, oggi libera, ha trascorso quasi otto anni della sua vita in carcere. “Una decina di anni fa - racconta - ho incontrato una donna di 72 anni, disabile, nel carcere di Verona”. La signora, che alternava la sedia a rotelle al bastone, non faceva l’ora d’aria perché le celle erano al secondo piano e lo spazio esterno al piano inferiore. “Le hanno concesso di usare l’ascensore per scendere e risalire, altrimenti sarebbe rimasta dentro la cella tutto il giorno - spiega - Io all’epoca avevo una cella singola ma lei non aveva aiuti di alcun tipo per cui ho chiesto che fosse trasferita nella mia. Lei passava le giornate sul letto per i suoi problemi di mobilità, mentre io cucinavo, pulivo la stanza, la accompagnavo in bagno e nel cortile. Ci facevamo compagnia e lei mi ricordava di prendere le mie medicine”. E in un contesto, come quello attuale, in cui il sovraffollamento degli istituti penitenziari raggiunge picchi del 150 per cento, la tutela della salute in generale e la tutela della salute di chi è anziano in particolare, rischia di essere costantemente violata. Gli stessi agenti, in queste condizioni, sono costretti a svolgere un lavoro più intenso e - sottolinea Della Casa - sono sottoposti a sollecitazioni maggiori rispetto a un carico di lavoro normale e questo stato di tensione influisce certamente sulle persone più fragili. “Per cui mentre un detenuto adulto sa, di norma, difendersi e attuare delle contromisure per contrastare questa situazione di ansia che c’è in un carcere sovraffollato, un detenuto anziano ne subisce le conseguenze in maniera totale”. Nel concludere la telefonata Antonino, che tra qualche ora tornerà a dormire in carcere, chiede: “Ma, secondo voi, parlarne serve a qualcosa? Voi, del resto, neanche ve lo immaginate quante persone ho visto morire in carcere”. “Call center nelle carceri per dare lavoro ai detenuti” di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2025 Il presidente del Cnel Renato Brunetta rilancia il progetto “Recidiva zero”. Scuola, formazione e mestieri per ridare speranza e futuro. Da “luogo delle ombre”, dove la società si illude di confinare le sue devianze e le sue “proiezioni distopiche”, il carcere può diventare “spazio che produce speranza”. Con la scuola, la formazione e il lavoro come strumenti per combattere lo stigma e spalancare alternative al crimine, dando piena attuazione all’articolo 27 della Costituzione nella parte in cui stabilisce che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. “Conviene a tutti”, assicura il presidente del Cnel, Renato Brunetta, intervenendo al Festival dell’Economia di Trento per raccontare il progetto “Recidiva zero”, partito a giugno 2023 dalla collaborazione tra il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e il ministero della Giustizia guidato da Carlo Nordio. Che le condizioni del sistema penitenziario rappresentino anche un fallimento economico è scritto nei numeri. “In Italia - spiega Brunetta - abbiamo quasi 60 milioni di abitanti e una popolazione carceraria di oltre 6imila persone. Il sovraffollamento nei 189 istituti di pena rende spesso indecente la qualità della vita. Come se non bastasse, spendiamo più di tre miliardi l’anno per tenere in piedi un sistema che non funziona, “perché circa sette detenuti su dieci tornano in carcere”. Da qui è nato “Recidiva zero”, forte “degli studi che dimostrano come “se si fa scuola, formazione e lavoro dentro il carcere e fuori dal carcere la recidiva precipiti dal 70% mediamente al 2%”. I dati attuali non confortano: solo un detenuto su tre risulta coinvolto in corsi di istruzione; altrettanti in attività lavorative, che però spesso sono quelle svolte alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, di scarsa utilità una volta varcata in uscita la soglia degli istituti di pena. Di molti stranieri, il 31% della popolazione carceraria, non si sa il titolo di studio. “Un capitale umano che non conosciamo, ma che potrebbe essere formato e impiegato utilmente”. Brunetta cita gli informatici, “che le aziende e la Pa si contendono” e rilancia l’idea di trasferire nelle carceri call center e contact center. Con l’effetto positivo aggiuntivo di centrare anche un altro obiettivo: “Connettere e cablare tutti i penitenziari”. Un punto è chiaro: per vincere la sfida servono azioni di sistema, oltre all’applicazione dei contratti collettivi nazionali e al riconoscimento di giuste retribuzioni. Interventi che guardino innanzitutto “ai 6-7mila detenuti che hanno una pena residua di un anno e che quindi stanno per uscire”. Insegnare loro un mestiere spendibile fuori significa regalare loro “qualcosa da perdere”, un disincentivo a tornare a delinquere. Punta non a caso a disegnare una politica pubblica nazionale sul lavoro in carcere il disegno di legge presentato in Parlamento e messo a punto dal Cnel dopo il confronto con tutti gli attori coinvolti, dai protagonisti del sistema penitenziario a datori di lavoro, sindacati e associazioni. Se ne riparlerà il 17 giugno alla seconda giornata nazionale dedicata al progetto, in programma stavolta al Dap. “La rieducazione - ha concluso Brunetta - è l’unico strumento che può disarmare la vendetta e la devianza”. Il solo che può evitare di materializzare le ombre e le angosce che albergano in ciascuno di noi, come accade nel film Solaris di Tarkovskij. E fare largo alla luce. Irene Testa: “In carcere vivi il dolore, mille all’anno ci finiscono ingiustamente” youtg.net, 23 maggio 2025 La Garante dei detenuti in Sardegna “Ho ancora impresso il momento in cui Beniamino Zuncheddu è uscito dal carcere, con le sue buste di abiti e oggetti personali e da quel momento non c’è stato nient’altro, né scuse né sostegno di nessun tipo. I dati ci dicono che sono circa mille ogni anno le persone che finiscono in carcere ingiustamente e i risarcimenti arrivano dopo tanti anni”. È Irene Testa, garante dei detenuti in Sardegna, a raccontare nella nostra nuova puntata di YouTalk (sopra l’intervista integrale) da dove nasce la proposta di legge che porta il nome di Zuncheddu, l’ex pastore scarcerato dopo aver passato 33 anni in cella da innocente. “Solo il 45% delle richieste fatte vengono accolte. Lo stesso Zuncheddu mi dice: ‘Cosa dovrei fare andare a rubare adesso dopo che ho passato 33 anni in carcere da innocente?’”, racconta Testa, che spiega anche come il legislatore non abbia previsto nulla nel passaggio dall’assoluzione fino alla sentenza di risarcimento danni. Da qui l’idea di un assegno che possa permettere alle vittime di giustizia di vivere decentemente dopo il carcere. La raccolta firme è aperta anche online, tramite Spid. Nella puntata Testa ha parlato anche della situazione delle carceri e delle recenti critiche ricevute per aver denunciato le difficili condizioni dei detenuti sardi: “Io non dico mai liberate tutti, io cerco di spiegare che anche chi perde la libertà mantiene i suoi diritti, lo prevede la Costituzione. E il diritto va rispettato anche se sono persone che hanno sbagliato. Molti sono convinti che in carcere vivano con ostriche e champagne. No, io non me li porto a casa (frase che spesso mi scrivono sui social) ma devono vivere secondo costituzioni. Se teniamo un detenuto per 22 ore a guardare il soffitto, come ci aspettiamo che esca?” Tante le storie difficili che la garante ha ascoltato in carcere: “Lì dentro vivi il dolore, vivi una parte di vita di persone che hanno sbagliato, ma che a volte sono state anche sfortunate. Ci sono persone che sono inciampate, altre che arrivano da contesti difficili: io non li giudico”. Uno degli incontri che però Testa ricorda, durante la puntata, con più sofferenza è stato quello con una persona detenuta per un terribile omicidio: “Ho incontrato questa persona e dopo che è stata curata per mesi ha riacquistato un po’ di lucidità e ha capito cosa aveva fatto. Credo che il dolore di questa vicenda era talmente forte, che continuava a ripetermi ‘perché l’ho fatto?’. Ecco, questa storia me la sono portata a casa. Ho sentito tutto il dolore di questa persona. E ho capito che è come se si fosse svegliata improvvisamente e avesse realizzato”. “Spesso neanche prove schiaccianti fanno riaprire i processi, la magistratura ne uscirebbe male” di Roberta Marchetti today.it, 23 maggio 2025 In carcere da innocenti. In Italia fino a 50 milioni di euro l’anno per i risarcimenti, ma molti restano dentro. Ne parliamo con l’avvocato Gabriele Magno, fondatore dell’associazione Articolo 643, che tutela le vittime di errori giudiziari. E se fosse innocente? È la domanda ricorrente davanti ai più oscuri casi di cronaca nera - negli ultimi anni trasformati spesso dai media in fiction noir -, quando il presunto colpevole finisce in carcere. ‘Presunto’ mai come questi tempi, in cui abbiamo imparato a dubitare anche dopo il terzo grado di giudizio. Garlasco docet, con la condanna di Alberto Stasi a 16 anni per l’omicidio di Chiara Poggi, in queste settimane davanti a una nuova indagine che potrebbe spazzare via la verità processuale e trovare un altro colpevole. Prendendo spunto da questo, ma tenendoci alla larga dal becero sensazionalismo, affrontiamo la seria questione degli errori giudiziari che portano all’ingiusta detenzione. Tema spinoso che solleva da tempo molti dubbi sul modus operandi della magistratura e sulle sue responsabilità. Ingiusta detenzione, centinaia di casi all’anno - Dal 2000 l’avvocato Gabriele Magno dà supporto alle vittime di malagiustizia con la sua associazione culturale “Articolo 643”. Sono stati i primi in Italia a farlo e oggi la loro struttura conta circa 15 avvocati, oltre a consulenti di parte su tutte le materie. Un lavoro di squadra per offrire supporto professionale e tutela giuridica nelle opportune sedi. Prezzi calmierati, “perché queste persone sono state vittime anche di esborsi elevati”, e nuove indagini, spiega a Today.it: “Seguiamo centinaia di casi all’anno. Ci contattano quando un grado di giudizio è andato male, oppure dopo la Cassazione. Per poter riaprire un processo, però, sono necessarie nuove prove, allora abbiamo un criminologo e una squadra di investigatori che per nostro conto svolgono investigazioni su tutto il territorio nazionale. Da queste attività esce fuori spesso qualcosa di determinante, così riusciamo a portare a casa grandi risultati”. Quanto costano i risarcimenti - Riaprire un processo, però, è tutt’altro che semplice, e ancora più difficile è che la magistratura ammetta l’errore. Sono circa un migliaio le persone che ogni anno in Italia vengono risarcite per errori giudiziari, la maggior parte per ingiusta detenzione. Lo Stato spende mediamente dai 35 ai 50 milioni di euro per gli indennizzi. Circa 250 euro per ogni giorno di carcere, 125 per i domiciliari, arrivando a un massimo - a prescindere dal tempo che si è trascorso in galera - di 516 mila euro. “Un dato allarmante, visto il capitolo delle spese di giustizia”, continua l’avvocato Magno, che afferma: “Per ovvi motivi la magistratura ha il chiaro interesse di limitare al minimo questi numeri. Più ingiuste detenzioni ed errori giudiziari ci sono, più in qualche modo non ne esce bene. La tendenza, quindi, è di non concedere l’opportunità di riaprire il processo”. Trovare un colpevole a tutti i costi - Chiaramente in casi plateali non è possibile fare altrimenti, e se uno di questi fosse proprio quello di Garlasco, Gabriele Magno evidenzia una cosa importante: “Per un omicidio normalmente si prendono 30 anni, Stasi ne ha presi 16. Nel nostro ambito si dice ‘poca prova, poca pena’. Evidentemente sono sempre state poche le prove contro di lui, e addirittura che dopo tutti questi anni esca fuori una verità alternativa è inquietante”. “I magistrati vivono nell’impunità assoluta” - Questo, oltre ai risarcimenti, è l’altro motivo per cui la magistratura sarebbe restia ad ammettere i propri errori: “Quando l’opinione pubblica vuole un colpevole, il magistrato si sente messo alle strette e cerca a tutti i costi di trovarlo. Ma va cercato il colpevole, non un colpevole. È fondamentale esercitare l’azione penale solo dove ci sono prove schiaccianti. Non ci si può convincere della colpevolezza di un soggetto, per cui anche di fronte a prove che lo scagionano si preferisce non prenderle in considerazione pur di perorare l’idea iniziale. Gli errori giudiziari dipendono quasi sempre da questo”. E da un altro aspetto, che spiega bene: “Se l’avvocato non è in grado di bilanciare il potere del pm, si crea una sproporzione che limita l’imputato. La difesa deve essere all’altezza dell’accusa e spesso, purtroppo, non è così”. “Conosco decine persone all’ergastolo ingiustamente” - L’esperienza dell’avvocato Magno sul campo è importante e non contempla - purtroppo - solo casi di successo: “Conosco decine di persone all’ergastolo ingiustamente, e non parlo del sentito dire, ma ho le carte. Ho portato alla Corte d’Appello un caso noto a Genova - racconta -. Un bambino di pochi mesi ucciso brutalmente qualche anno fa. Abbiamo dimostrato che lo ha ucciso la madre, portando prove schiaccianti, ma ci hanno detto che non erano sufficienti. In carcere c’è l’ex amante della donna, che la conosceva da un mese. Mancava anche il movente, ma hanno condannato lui. In Italia una persona che viene assolta non potrà più essere condannata, per cui il magistrato che avrebbe dovuto riaprire il processo si è trovato davanti a questo dubbio. Vero è che c’è un innocente dentro, ma se scagiono lui chi l’ha ucciso il bambino? La madre l’ho già assolta e non è processabile, allora faccio finta di nulla. Questo è il ragionamento”. Un atteggiamento sempre prudente riguardo alla riapertura dei processi, dunque: “Mai esporre la magistratura al pubblico ludibrio”. Il risultato sono tante, troppe, vittime che non solo si vedono private della libertà, ma assistono inermi a una disfatta economica, alla distruzione della loro reputazione, dignità, subiscono il pregiudizio sociale e spesso perdono anche legami familiari e affettivi. Per cambiare passo, secondo Gabriele Magno, è necessario caricare sulle spalle dei magistrati la giusta responsabilità: “Dal 1989, anno di applicazione della normativa sulla responsabilità civile dei magistrati - prosegue - le statistiche sono inquietanti. Vengono aperti pochissimi procedimenti, in pochi finiscono per incappare in sanzioni disciplinari. C’è un sistema che non vuole ammettere i propri errori, c’è una categoria impunita e questo è un pessimo messaggio per la collettività”. La necessità di una riforma - C’è una bassissima fiducia, ormai, nel corpo giudicante. Questo è un dato di fatto. Che sia necessaria, o meglio urgente, una riforma, lo rivendica a Today.it anche Massimiliano Notarangelo, presidente dell’Unione Nazionale per la Difesa delle Vittime della Malagiustizia e della Burocrazia (UNDiViM), associazione di cittadini nata nel 2018 che oggi conta circa 4 mila iscritti. Tutte vittime di errori giudiziari, come lui: “Ho patito il sospetto, da innocente - racconta -, accusato di reati da ‘colletti bianchi’ per la mia attività in associazioni e nella politica locale di La Spezia. Ho subìto una serie di indagini, poi finite nel nulla, che però mi hanno procurato danni importanti alla reputazione”. Quello che sottolinea Notarangelo è l’esigenza di togliere ai magistrati la possibilità di interpretare la legge: “Andrebbe introdotta la ratio legis in tutte le leggi di nuova edizione. Il magistrato deve applicare la volontà del legislatore, non dare la sua interpretazione”. E soprattutto: “Un’altra proposta che facciamo è la creazione di un’autorità esterna che giudichi l’operato dei magistrati. È l’unica categoria che quando sbaglia o paga poco, o non paga proprio perché si autogiudica”. La maggioranza accelera sul Decreto Sicurezza, la doppia tagliola fa infuriare le opposizioni di Niccolò Carratelli La Stampa, 23 maggio 2025 La scelta della maggioranza per velocizzare l’iter del provvedimento, che deve essere convertito in legge entro il 10 giugno. I gruppi di Pd, M5s, Avs, Più Europa, Azione e Italia Viva scrivono una lettera al presidente della Camera, Lorenzo Fontana, denunciando “uno strappo inaccettabile”. Opposizioni in rivolta alla Camera dopo la decisione di applicare una doppia “tagliola” al decreto Sicurezza, su cui le commissioni Affari Costituzionali e Giustizia della Camera hanno approvato il mandato per l’Aula ai relatori. Una scelta della maggioranza per velocizzare l’iter del provvedimento, che deve essere convertito in legge entro il 10 giugno. Alla fine di una seduta concitata, i gruppi di Pd, M5s, Avs, Più Europa, Azione e Italia Viva hanno deciso di scrivere una lettera al presidente della Camera, Lorenzo Fontana, denunciando “uno strappo inaccettabile e inaudito alle regole del confronto democratico” e chiedendo di “riaffermare il rispetto dei diritti delle minoranze”. Perché non è la prima volta che “la maggioranza ricorre a strumenti procedurali volti a impedire il confronto parlamentare, alterando l’equilibrio tra poteri e comprimendo il ruolo delle opposizioni”. Nello specifico, sottolinea la capogruppo Pd in commissione Affari costituzionali, Simona Bonafè, “non ci è stata data la possibilità non solo di concludere l’esame degli emendamenti mancanti, ma nemmeno di intervenire in dichiarazione di voto”. Ecco la doppia sforbiciata da cui nasce la polemica, anche perché non giustificata da una strategia di ostruzionismo da parte delle opposizioni. La risposta di Fontana non si è fatta attendere, calibrata per non urtare i colleghi del centrodestra, ma comunque accogliere le rimostranze arrivate da sinistra. “Pur nel rispetto delle prerogative degli uffici di presidenza delle commissioni nella organizzazione dei propri lavori - premette il presidente della Camera - soprattutto dinanzi all’esame di provvedimenti connaturati da una forte dialettica sul piano politico è necessario che le commissioni stesse utilizzino tutti gli spazi e le giornate che il calendario mette a disposizione affinché l’esame in sede referente possa essere il più possibile completo”. Come non sarebbe avvenuto per il decreto Sicurezza, almeno a sentire il deputato del Movimento 5 stelle Alfonso Colucci, convinto che siamo di fronte a “una svolta nel nostro Stato, che diventa sempre meno uno Stato di diritto e sempre più uno Stato di Polizia - avverte -. Da democrazia si sta scivolando verso una democratura”. Anche secondo la capogruppo di Italia Viva alla Camera Maria Elena Boschi “la tagliola imposta sul decreto sicurezza è una ferita al ruolo del Parlamento e alla nostra democrazia. Era l’ultima occasione per intervenire su un testo su cui verrà posta la fiducia - ricorda -. Scegliere di chiudere il confronto parlamentare in questo modo è immorale”. E Filiberto Zaratti, capogruppo di Avs in Affari Costituzionali, conferma che si tratta di “un’intollerabile forzatura da parte della maggioranza, un salto di qualità da parte della destra”. L’obiettivo di Meloni e soci, del resto, è chiudere la partita il prima possibile su un provvedimento diventato ormai simbolico. Ora atteso in Aula a Montecitorio lunedì, con il governo pronto a mettere la fiducia per blindarlo definitivamente. “Così fermiamo l’ostruzionismo che fanno le opposizioni. La riforma entro fine anno” di Gaetano Mineo Il Tempo, 23 maggio 2025 Il viceministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto: “Non è una guerra contro qualcuno ma un sistema di garanzie per assicurare equità e trasparenza”. Viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto (Fi), perché avete deciso di utilizzare il “canguro” sulla separazione delle carriere? “La scelta di adottare il canguro è di competenza del Presidente della Commissione, il senatore Balboni. È stata fissata la data dell’11 giugno per l’approdo in aula della riforma costituzionale sulla separazione delle carriere. Per rispettare questa scadenza, stabilita dalla conferenza dei capigruppo, il Presidente ritengo abbia voluto accelerare i tempi di trattazione degli emendamenti, in modo da poter votare il mandato al relatore entro quella data”. Si parla di circa 1.300 emendamenti presentati dalle opposizioni… “Gli emendamenti presentati dalle opposizioni sono ostruzionistici, come ammesso dalle opposizioni stesse, che non hanno celato l’intento dilatorio. Ogni emendamento richiede circa 15-20 minuti di discussione, considerando che ogni gruppo interviene per 5 minuti. Con 1.300 emendamenti, ci vorrebbero mesi per esaminarli tutti, compromettendo il percorso della riforma. Il canguro, ove ritenuto praticabile in commissione, servirebbe a garantire che il legittimo ostruzionismo dell’opposizione non diventi una prevaricazione dei diritti della maggioranza, che in una democrazia rappresentativa deve prevalere”. Ci sono dubbi sull’applicabilità del canguro in commissione… “Il canguro è applicabile in aula, dove è stato utilizzato più volte. Esistono anche precedenti per la sua applicazione in commissione. In particolare, cito una decisione del presidente Grasso del 18 ottobre 2017, in cui si stabilisce che il canguro è applicabile in commissione quando è stata fissata una data per l’aula, come nel nostro caso con l’11 giugno. È singolare che a lamentarsi siano esponenti dello stesso partito di Grasso, che ha stabilito questo principio. Comunque martedì la Giunta per il Regolamento dirà la sua”. Entro quando potrebbe essere varata la riforma della giustizia? “Se riuscissimo a votare entro giugno il primo passaggio al Senato, il secondo passaggio alla Camera potrebbe avvenire entro luglio. 11 secondo passaggio al Senato potrebbe svolgersi a settembre. Quindi, entro l’autunno o al massimo la fine dell’anno, dovrebbero completarsi i quattro passaggi per arrivare al referendum nei primi mesi del 2026. Sarà il popolo sovrano a decidere il destino della riforma. Questa è una riforma che, come sosteniamo da sempre noi di Fi, guarda al futuro, al cittadino e al suo diritto a un giusto processo. Non è una guerra contro qualcuno, ma un sistema di garanzie per assicurare equità e trasparenza nell’amministrazione della giustizia”. Ricorre l’anniversario della strage di Capaci… “È una giornata che non consente di dimenticare. Qualche giorno fa ho partecipato alla proiezione di un film sulla strage di Capaci per gli studenti di Roma. L’attenzione e la sensibilità dimostrate dai ragazzi mi hanno colpito. È un segnale di speranza: le nuove generazioni sono consapevoli dell’importanza del rispetto delle regole, pilastro fondamentale di ogni Stato democratico”. Passione nera, da Garlasco in giù di Massimo Lugli Il Foglio, 23 maggio 2025 Indagine sull’inspiegabile amore per la cronaca nera e per il mondo pirotecnico che la circonda. Gli show in tv, i pennivendoli (come noi), gli “esperti”. Un terribile amore per il delitto diventato show. “Ogni uomo è un criminale senza saperlo”. Albert Camus ci aveva visto giusto? È per questo che il delitto ci intriga così tanto? Una sorta di dipendenza nazionale: il delitto di Garlasco a colazione, il giallo di Trieste a pranzo e l’omicidio di Rimini a cena, ma non ci basta mai. Una sorta di bulimia trasversale, di fissazione collettiva: tutti a indagare, parteggiare, sospettare, condannare, fino a quando, come succede più o meno nel novanta per cento dei casi, il rubinetto delle “novità” non si prosciuga definitivamente e si passa ad altro. Nuova vittima, nuovi indagati, nuove interminabili diatribe televisive che ormai neanche le sentenze passate in giudicato da anni possono arginare. Un furbastro come Fabrizio Corona, che ha colto al volo una splendida occasione per tornare alla ribalta nel mancato interrogatorio in simultanea Stasi-Sempio, (un colpo di genio che neanche sir Arthur Conan Doyle), lo ha capito benissimo e lo dice papale: dopo Vallettopoli il gossip è morto, pontifica dal suo “Falsissimo” spazio YouTube, ho capito che quello che piace alla gente è la cronaca nera. Ed eccolo sponsor dell’imbambolato Azouz Marzouk (strage di Erba) e poi aspirante Pigmalione delle famose gemelle Cappa, sì proprio quelle che hanno cercato con ogni mezzo di ritagliarsi il quarto d’ora di celebrità dopo l’assassinio di Chiara Poggi e adesso si ritrovano, forse loro malgrado, tra un test del Dna e un superteste ritardatario, col dito puntato. A proposito di sorelle Cappa: i famosi 280 messaggini che Paola si scambia con l’ex sodale di Corona Francesco Chiesa Soprani sono quanto di più indicativo possa esserci di come molti stiano vivendo questa sorta di febbre giustizialista. Indizi degni di questo nome neanche l’ombra, né si capisce come tutta quella roba potrebbe mai interessare la procura, ma c’è una costante e ossessiva preoccupazione per il look: cosa? Il tacco no? Ma certo che lo metto, il tacco 12, ci vuole. Mi faccio la coda? Mi lascio i capelli sciolti? Ho quel cappotto nero lungo fichissimo che dici? Butta giù la prima pagina. Il problema è che il chissenefrega, con la nera, non funziona. Gli stessi personaggi screditati da una parte te li ritrovi freschi e pimpanti da un’altra, pronti a scodellare teorie, indiscrezioni, ricostruzioni, illazioni e quant’altro, meglio se a pagamento. La stessa, ineffabile Paola Cappa (quella magrissima con stampella ai tempi del delitto, per intenderci, non l’altra finita nel mirino delle “Iene” e del loro improbabile supertestimone) lo dice candidamente in uno dei vocali coscienziosamente archiviati e catalogati: “Se parlo dico tutto ma voglio farmi ricca, voglio un sacco di milioni”. Evviva la sincerità. Ma il problema non è una giustizia ormai diventata avanspettacolo, più che spettacolo. Il problema è quanto piace, quanto tira, quanto aumenta le vendite, quanto incrementa l’audience. Chi scrive è reduce, nel ruolo di invitato speciale (sic) da una conferenza di serissimi, compassatissimi rotariani che si sono sgargarozzati un’ora e passa di riepilogo dei più grandi casi di nera dagli anni Sessanta a ieri pomeriggio con l’entusiasmo di un quattordicenne in un pornoshop. E mica solo loro. Austeri professori, vezzosi intellettuali, scrittrici malinconiche, artisti impegnati coltivano in silenzio la passione per sangue e manette come una sorta di vizio segreto. Chi tira tardi davanti a Bruno Vespa non vede l’ora che la finiscano con le cavolate su Trump e l’Ucraina per godersi l’avvocatone dai capelli cotonati che punta il dito sull’indagato stile Marco Tullio Cicerone con le Catilinarie. Una star. Sì, vabbè, ma la domanda resta. Perché il crime ci seduce e ci intriga? Forse per lo stesso, perverso meccanismo che fa rallentare le auto della fila opposta quando c’è un incidente con morti e feriti in autostrada? Forse una sorta di catarsi (per carità non chiedete alla Bruzzone che ce lo spiega in tre o quattro ore)? O magari il vecchio assioma meglio a lui (lei) che a me? Perché quando osservi le disgrazie altrui dalla finestra o dalla televisione, in qualche modo, ti senti invulnerabile. I drammi accadono, certo, ma agli altri, quindi mettiamoci comodi e godiamoci gli sviluppi dell’ultima ora. La passione per la nera, ovviamente, non è nuova, e per fortuna visto che altrimenti avrei dovuto fare un altro mestiere. Quello che è cambiato è la virulenza delle opinioni che poi, a ben pensarci, è la stessa dei social. “Ma stai zitto, imbecille”, è una delle frasi più gentili che mi scrivono su Facebook praticamente dopo ogni ospitata seguita da. “Ma ‘sto cretino lo paghiamo coi nostri soldi?”. Colgo l’occasione per ribadire alla gentile signora che dalle tivù non prendo un centesimo e, del resto, nessuno me lo offre. Dirò cavolate ma le dico gratis, chiusa parentesi. La domanda da un milione di dollari, quella seria, quella che dovrebbe far riflettere, è un’altra: ma tutta ‘sta roba finisce per influire anche sulle indagini o peggio, molto peggio, sulle sentenze? Ricordate le querelle sull’assoluzione “diplomatica” di Amanda e Raffaele, i fidanzatini di Perugia? O le insinuazioni sulle pressioni di non meglio definite “Eccellenze” nel giallo di via Poma? Beh, in questo caso il clamore è stato tale che la gip romana, nel respingere l’ennesima richiesta di archiviazione dei pm, ha suggerito di indagare sui “poteri forti”, manco fosse un’emula di Virginia Raggi. Beh, ahimè, temo che la risposta sia sì. Certi tentativi di enfatizzazione e spettacolarizzazione che una volta venivano stoppati sul nascere, oggi purtroppo riescono a cambiare le cose. Un esempio del passato e uno recente: anno domini 2007, arresto del domestico assassino Manuel Winston Reyes per l’omicidio della contessa Alberica Filo della Torre, nel 1991, un feuilletton durato quasi diciotto anni come quello di Garlasco, tra piste deliranti, indagini improbabili, veleni a gogò. Una nuova pm, bella e tosta, “scopre” una traccia di sangue dimenticata (achtung: non già analizzata e scartata come quella che dovrebbe inchiodare Andrea Sempio, proprio snobbata dai Ris nonostante fosse evidentissima e di colore diverso dalle altre), la fa controllare, inchioda l’omicida e l’ex domestico (che ha chiamato la figlia col nome della sua vittima) confessa già sulla volante che lo sta portando in procura, poi racconta tutto per filo e per segno. Pianto e stridor di denti. Nessun dubbio. Caso chiuso? Neanche per sogno, troppo semplice: due avvocati specializzati nelle comparsate televisive si precipitano dalla moglie e cercano di convincerla a far ritrattare il filippino in modo da beccarsi più visibilità possibile e cominciare con la solita faccenda è lui, non è lui… Quella volta va male, la signora risponde picche, il saggio avvocato difensore sceglie la strada della riduzione del danno e il rito abbreviato (allora possibile per omicidio) e Manuel Winston si becca sedici anni. Pochi? Forse, sta di fatto che oggi è libero. Ma a tanti anni di distanza le cose sono cambiate. Gli avvocati fiutano il sangue e ci si lanciano come piranha tanto che ci si domanda come facciano a elaborare una strategia processuale se passano più tempo sulle poltrone degli studi televisivi che su quelle dei loro uffici. E molto spesso, a chi mastica un po’ di giudiziaria, la linea più favorevole all’indagato o all’imputato sembra abbandonata in favore di quella più spettacolare. Controinchieste. Testimoni farlocchi. Lettere anonime. Confidenze carpite coi mezzucci. Soffiate ai cronisti servizievoli e disponibili. E tutto questo, purtroppo, ha un effetto nefasto perché inquina, confonde, intorbidisce. Un caso particolare è quello dei bambini scomparsi, autentica manna per i contenitori televisivi perché suscita un duplice effetto contrastante: compassione per i piccoli ed esecrazione o sospetti per i genitori o i parenti. Prendiamo la vicenda eterna di Denise Pipitone, Mazzara del Vallo, settembre 2004, anche quella aperta e riaperta di continuo a furor di tivù per poi arrivare a un prevedibilissimo nulla di fatto. La pista rom. La pista tunisina. La pista russa. Ogni tanto una ragazza squinternata o ambiziosa e spregiudicata dichiara pubblicamente di essere lei Denise e anziché farle il test del Dna e magari imbavagliarla in attesa degli ovvi risultati negativi, eccola, truccatissima e scintillante, in televisione con tutti che le stanno appresso che nemmeno Lady Gaga. Perché parlarne tanto se tutti sanno già come andrà a finire? Ma soprattutto perché tanta gente ci crede ancora? Effetto “Chi l’ha visto?”. Ricordate Kata? Sì, proprio lei, la deliziosa bimba di 5 anni svanita nel nulla il 10 giugno 2022 da un vecchio albergo fatiscente di Firenze diventato il rifugio di diseredati, drop out e clochard. Rapita? Uccisa? Sulla mamma, che sviene in diretta e compie gesti di autolesionismo per la disperazione si abbatte un tornado di malignità: è andata dal parrucchiere, quella non la conta giusta, guarda che cappellino la signora, ma vi sembra disperata? Oggi nessuno ne parla più e le indagini proseguono, anche se con uno stanco girare a vuoto. La terribile realtà è che se un bimbo scompare e non viene ritrovato nel giro di 24/36 ore al massimo le possibilità di rivederlo sono scarsissime se non inesistenti. Tra i casi più clamorosi (Denise, le sorelle Schepp, Angela Celentano, Mauro Romano, Kata e tanti altri) nessuno si è risolto tra abbracci e lacrime di felicità. In Italia spariscono di media sessanta bambini al giorno e solo il quaranta per cento viene ritrovato. Se ne parla raramente ma è così. E a questo punto bisogna tirare in ballo la nostra categoria, sì, proprio noi, i pennivendoli, quelli che montano la fuffa, che s’inventano detective, che pronunciano sentenze sommarie… Ma è davvero così? È un po’ la storia dell’uroboro, il serpente che si mangia la coda: le fonti (in toga? in divisa? in borghese?) sfornano scoop farlocchi o simil-notizie e i cronisti, gli inviati sul campo, hanno il dovere di pubblicarli, è semplicemente il loro mestiere. Chi è senza peccato eccetera eccetera, ma magari un minimo di sano scetticismo o magari qualche controllo in più ci starebbe tutto. Prima non funzionava così. E per dimostrarlo, chiudo lo sproloquio con un aneddoto personale. Siamo nel 1975 e uno spaurito volontario diciannovenne di Paese Sera viene spedito sul suo primo omicidio con un incarico speciale: guarda bene il cadavere e al ritorno descrivilo nei dettagli, mi raccomando, i dettagli. Un classico test per mettere alla prova un futuro nerista e vedere se era abbastanza dotato di pelo sullo stomaco visto che, allora, i corpi non venivano coperti come oggi, almeno per i giornalisti. Beh, il morto era un portavalori ucciso con un colpo di pistola in testa durante una rapina a piazza Albania, il cronista ero io, il capocronista un’autentica belva che chiamavano “Il Guercino” per via di un occhio offeso. Corro, osservo, guardo bene, prendo appunti, torno trepidante. Dopo mezz’ora l’esame, il Guercino con le foto del corpo in mano, io, terrorizzato, alle prese con gli scarabocchi sul taccuino. C’era sangue? Pochissimo. La ferita? Tempia sinistra. Supino o bocconi? Di fianco (menomale ci ho messo anni a capire la differenza). Berretto? A terra. Com’era vestito? Giacca blu, pantaloni in tinta. E la cinta dei calzoni? Angoscia: e chi ci ha fatto caso, alla cinta dei pantaloni? Nel dubbio, visto che le alternative sono due e che, come diceva papà, di blu e di marrone si veste il gran cafone squittisco… nera? Gran cazzotto sul tavolo seguito da un ruggito: la cinta non si vede, ragazzino, è coperta dalla camicia. Non inventare dettagli, il giornalismo è esattezza. Chiaro? Notizie, non illazioni. Altri tempi. Passai l’esame, comunque, magari in mancanza di candidati più svegli. Chissà se è stato un bene. A quanto vedo e leggo oggi, probabilmente no. Ma, per tanti anni, quel modo di lavorare ha funzionato… Anche se, allora come oggi, ci chiamavano sciacalli. Falcone e Borsellino, i conti ancora aperti a 33 anni dalle stragi e il rischio di nuovi veleni di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 23 maggio 2025 Inchieste e cortocircuiti, i duelli dentro l’Antimafia. Trentatré anni sono trascorsi dalle stragi che uccisero Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, gli stessi che aveva Gesù di Nazareth quando fu crocifisso. Chiunque sbarchi a Palermo con l’aereo viene accolto, nella sala arrivi, dalla mostra fotografica che racconta vite, opere e morte di questi due martiri civili, ai quali è intitolato lo scalo di Punta Raisi, dalla nascita nello stesso quartiere fino alle due bombe esplose il 23 maggio 1992 a Capaci e il 19 luglio in via D’Amelio, che eliminarono anche la moglie di Falcone, Francesca Morvillo, e otto poliziotti delle due scorte. Le immagini ripercorrono il lavoro e i successi dei due magistrati e del loro pool, il pentimento di Tommaso Buscetta e il maxiprocesso a Cosa nostra, ma anche le polemiche sui “professionisti dell’antimafia” e nel “palazzo dei veleni” da cui Falcone fu costretto ad andarsene e che Borsellino definì un “nido di vipere”; un luogo di divisioni e contraddizioni emerse quando erano ancora in vita e riesplose dopo la loro morte. Con effetti e conseguenze che ancora oggi rischiano di condizionare l’antimafia politica e giudiziaria. Basta rileggere le cronache delle ultime settimane. Il procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Michele Prestipino ha lasciato anzitempo incarico e toga dopo aver saputo di essere indagato per una presunta rivelazione di segreto d’ufficio (le indagini sulle mire della ‘ndrangheta nei progetti per il ponte di Messina) con l’aggravante “di aver agito al fine di assicurare l’impunità di importanti figure imprenditoriali contigue ad associazioni criminose di tipo mafioso”. È una vicenda che non c’entra con le stragi del ‘92, ma l’ipotetico reato è affiorato da un’intercettazione ordinata dalla Procura di Caltanissetta durante un incontro tra Prestipino (che a tacer d’altro coordinò la cattura di Bernardo Provenzano nel 2006), l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, che da investigatore fu tra i più stretti collaboratori di Falcone con cui gestì le rivelazioni di Buscetta, e il suo ex braccio destro Francesco Gratteri, che arrestò gli autori della strage di Capaci (sotto la guida di De Gennaro) fino a boss del calibro di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca. Un cortocircuito dovuto all’inchiesta ancora aperta sulla scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino attribuita - come la costruzione del falso pentito Scarantino - all’allora capo della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, morto nel 2002, che pure collaborò con De Gennaro; i pm nisseni ascoltavano l’ex capo della polizia in cerca di indizi su quello e altri depistaggi, a trentatré anni di distanza dai fatti. Stesso obiettivo della Commissione parlamentare antimafia guidata dalla deputata di Fratelli d’Italia Chiara Colosimo, che la scorsa settimana ha ascoltato (e tornerà a farlo) gli ex alti ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno, assolti due anni fa nel processo sulla trattativa Stato-mafia (e Mori, in precedenza, per la mancata perquisizione nel covo di Totò Riina nel 1993 e il mancato arresto di Provenzano nel 1995; ma è di nuovo sotto inchiesta a Firenze per un ipotetico concorso nelle stragi del 1993). Per rivendicare la correttezza di comportamenti che non hanno smesso di generare dubbi nonostante le sentenze di non colpevolezza, i due ex carabinieri hanno lanciato accuse e sospetti nei confronti dei magistrati della Procura di Palermo al tempo delle stragi e dell’inchiesta su mafia e appalti condotta dagli stessi ex ufficiali del Ros, a loro giudizio boicottata dai pm dell’epoca; non solo il procuratore Piero Giammanco, ormai defunto, ma anche nomi che allora e nei decenni successivi sono stati veri e propri simboli dell’antimafia giudiziaria: Gioacchino Natoli, che faceva parte del pool di Falcone e Borsellino; Giuseppe Pignatone, poi procuratore a Reggio Calabria e Roma; Roberto Scarpinato, pm di punta della Procura guidata da Gian Carlo Caselli e oggi senatore dei Cinque Stelle. L’inedito e sbalorditivo applauso con cui i parlamentari di centrodestra hanno accolto la “requisitoria” di Mori e De Donno è il segno dell’ipoteca politica (nonché della strumentalizzazione) che pesa su una ricostruzione dei fatti che ha il sapore di un regolamento di conti risalenti alla fine del secolo scorso. Fatti negati o raccontati in tutt’altro modo dagli altri protagonisti chiamati in causa. Natoli e Pignatone, indagati da un anno o più a Caltanissetta per il presunto insabbiamento del rapporto mafia-appalti, hanno già fornito agli inquirenti le prove che secondo loro ribaltano e smentiscono la versione degli ex Ros. E il senatore Scarpinato ha vergato un’articolata e puntigliosa memoria per rintuzzare le “falsificazioni e distorsioni” attribuite a Mori e De Donno. Un duello giudiziario e politico che inevitabilmente evoca i veleni ricordati dalle foto esposte a Punta Raisi, che intossicarono la vita e la morte di Falcone e Borsellino. Sulla quale doverosamente si continua a indagare in cerca di possibili mandanti ed esecutori, in aggiunta a quelli mafiosi, di cui non mancano le tracce. Con il rischio però di confondere le acque anziché chiarire contesti e responsabilità. Sulla bomba di Capaci è stata rilanciata di recente la “pista nera” che puntava al neofascista Stefano Delle Chiaie, ma un giudice l’ha già archiviata un anno fa: “Nessun elemento utile” è emerso a sostegno dell’accusa. Inchieste, veleni e nuovi corvi. La guerra nell’antimafia cancella la memoria di Falcone di Nello Trocchia Il Domani, 23 maggio 2025 Indagini che fanno a pugni, ex generali dei carabinieri oracoli giù in Sicilia e presunti carnefici altrove, magistrati che hanno passato la vita a indagare il crimine finiti nel tritacarne, indiziati di reati gravi e “pensionati”. Una riflessione sulla crisi dell’antimafia in occasione degli anniversari delle stragi. “Mai così”. È un sussurro quello che un magistrato di lungo corso affida a Domani per raccontare come l’antimafia arriva agli anniversari delle stragi. Quella di Capaci, il 23 maggio 1992, con il tritolo di Cosa Nostra che uccise Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e tre poliziotti, e quella del 19 luglio, in via Mariano D’Amelio, con l’uccisione di Paolo Borsellino e la sua scorta. Ma non è la crisi dell’antimafia che abbiamo conosciuto e raccontato in questi anni, i soldi sprecati, l’affarismo, le ruberie, ma “il punto più basso di quella giudiziaria”, racconta. La crisi dell’antimafia giudiziaria con indagini che fanno a pugni, ex generali dei carabinieri oracoli giù in Sicilia e presunti carnefici altrove, magistrati che hanno passato la vita a indagare il crimine finiti nel tritacarne, indiziati di reati gravi e “pensionati”. Regolamento di conti - C’è una battuta che ricorre tra i pm che hanno attraversato gli anni delle indagini sulle stragi, assicurato alla giustizia criminali di rango, le belve corleonesi e non solo: “Bisogna arrivare alla pensione senza avvisi di garanzia, sarebbe già un miracolo”. Il riferimento è ai diversi magistrati indagati dalla procura di Caltanissetta e allo scontro che si consuma tra pezzi dello stato. Come se ci fosse in corso un regolamento di conti. Un ex pubblico ministero, oggi parlamentare del M5s, Roberto Scarpinato, è tra i firmatari di una relazione dove c’è scritto: “Mori e De Donno cercano vendetta verso i magistrati che li processarono”. Si tratta di Mario Mori, ex generale del Ros dei carabinieri e ai vertici dei servizi segreti e Giuseppe De Donno, entrambi imputati nel processo Trattativa stato-mafia, e usciti assolti così come in altre indagini nelle quali sono stati coinvolti. Secondo i componenti grillini della commissione antimafia, sono mossi da livore visto che in un’audizione hanno attaccato pm e raccontato la loro “verità” sul famigerato dossier mafia-appalti. Un documento, ritenuto da alcuni familiari di Borsellino, da esponenti della destra italiana, e dai due ex alti ufficiali, la causa principe della strage di via D’Amelio. Eppure proprio Mori è indagato a Firenze nel fascicolo della procura che cerca i mandati occulti delle bombe sul continente, quelle esplose nel 1993. Mori ha sempre respinto con fermezza questa nuova contestazione. Indagato in Toscana e oracolo in Sicilia. I pm di Caltanissetta infatti, danno ancora respiro al vecchio dossier mafia-appalti realizzato da Mori e dai suoi uomini. Nelle scorse ore la procura nissena ha chiesto e ottenuto l’archiviazione della pista nera sulla strage di Capaci, quella pista che sembra sempre più lontana anche nella ricostruzione delle responsabilità dell’omicidio di Piersanti Mattarella, il presidente della regione Sicilia, ucciso dalla mafia il 6 gennaio 1980. Una pista, quella nera, che continua a battere, invece, la procura fiorentina per le stragi del 1993. I magistrati indagati - In Sicilia, invece, la procura nissena, al cui vertice siede Salvatore De Luca, in passato sostituto procuratore a Palermo, ha indagato Michele Prestipino, numero due della Dna, per rivelazione di segreto d’ufficio con l’aggravante di aver favorito la mafia. Fatale il pranzo in un ristorante romano con l’ex capo della polizia di stato, Gianni De Gennaro, oggi presidente del consorzio di imprese Eurolink. I pm nisseni monitoravano proprio De Gennaro che in passato aveva lavorato con Arnaldo La Barbera, il capo della mobile di Palermo, morto nel 2002, che aveva vestito da pentito Vincenzo Scarantino dando il via al depistaggio sulle indagini su via D’Amelio. L’obiettivo degli approfondimenti era la ricerca dell’agenda rossa di Borsellino, dalla quale il magistrato non si separava e sparita dopo la strage. Al tavolo c’era anche Francesco Gratteri, super-poliziotto che ha arrestato il boss Leoluca Bagarella prima di essere coinvolto e condannato successivamente per la gestione del G8 di Genova del 2001. Un pranzo nel quale si è fatto riferimento a “particolari rilevanti” delle indagini in corso sulle infiltrazioni delle mafie negli appalti pubblici, da qui l’iscrizione nel registro degli indagati. Prestipino in pensione - “Ora la questione è semplice. L’indagine è legittima e ci mancherebbe, ma se è così importante perché bruciarla interrogando Prestipino, in questo modo sia De Gennaro, sia lo stesso numero della Dna hanno saputo delle verifiche in corso”, ragiona un magistrato antimafia che conosce i protagonisti della vicenda. “La discovery ha reso noti gli approfondimenti con un unico effetto, quello di rendere nota la posizione da indagato di Prestipino, finito sui giornali negli stessi istanti dell’interrogatorio”, continua. L’altro effetto è quello di aver permesso anche di fare chiarezza all’interno della direzione nazionale antimafia, guidata dal magistrato Giovanni Melillo, che ha ritirato le deleghe a Prestipino di coordinamento investigativo. Così, pochi giorni dopo, l’ex procuratore capo di Roma ha deciso di andare in pensione, con la certezza assoluta di dimostrare la totale estraneità alle accuse. “Quel vertice della Dna raccontava anche la compresenza di due figure di spicco, due protagonisti di questi anni, Prestipino avrebbe dovuto fare altre scelte dopo la delusione per la mancata nomina a capo della procura della repubblica di Roma”, dice un’altra toga. L’antimafia giudiziaria ha un altro problema da affrontare: la fiducia esterna, quella percepita dalle persone e dalla pubblica opinione. “C’è un altro particolare che accomuna destini e reazione dei magistrati indagati dalla procura di Caltanissetta. Quando sono stati ascoltati dai pm nisseni nessuno ha risposto e tutti si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. In questi tempi è un chiaro segno di sfiducia dentro il nostro mondo e un messaggio chiaro all’esterno”, conclude la nostra fonte. Non c’è solo Prestipino, ma prima di lui anche Gioacchino Natoli, già collega di Borsellino e Falcone, indagato per favoreggiamento, non ha risposto alle domande dei colleghi. Così come in silenzio è rimasto, qualche mese fa, l’ex procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, indagato anche lui per favoreggiamento. Silenzio e sfiducia: “Il punto più basso”. Strage di Capaci: il giudice smentisce la bufala della pista nera di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 maggio 2025 Il Gip nisseno fa emergere anche la suggestione creata dai clamori mediatici. Ma la trasmissione tv “Report” fa orecchie da mercante. Si sono sprecati anni e risorse a inseguire un’indagine già velleitaria per chi conosceva almeno le basi del modus operandi della mafia corleonese stragista. La “pista nera” sulla strage di Capaci del 23 maggio 1992- che costò la vita a Falcone, Morvillo e alla scorta - è nata da un’iniziativa della scorsa Procura nazionale, ripescando colloqui privi di valore probatorio dell’ex sostituto Gianfranco Donadio (già consulente nella scorsa commissione Antimafia) e rilanciata dall’allora procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, oggi commissario M5S della Antimafia. Presentata dai media come “indicibile verità”, ipotizza il coinvolgimento della destra eversiva - a cominciare da Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale - nella progettazione ed esecuzione delle stragi del ‘92. La sua presenza a Palermo e i presunti legami con vertici di Cosa Nostra erano già emersi decenni fa in indagini della Procura di Caltanissetta, ma finirono in un fascicolo archiviato per manifesta fragilità. Eppure, come un déjà-vu, la pista nera ritorna ciclicamente, alimentata ogni volta da un documento “decisivo” che, alla prova dei fatti, non dimostra nulla. Per comprendere appieno, è utile l’ordinanza di archiviazione a firma del Gip nisseno Santi Bologna. Il contenuto chiarisce come, purtroppo, si sia commesso l’errore di non vagliare l’attendibilità di alcuni personaggi con un metodo rigoroso, come ha insegnato Falcone; di come sia facile creare suggestioni; e di come, purtroppo e inevitabilmente, i clamori mediatici abbiano influenzato i collaboratori di giustizia, in particolare Francesco Onorato. Non solo. Viene anche bacchettato l’avvocato Fabio Repici che, nel 2023, in commissione Antimafia, presieduta da Chiara Colosimo, ha dato per certo un episodio, in realtà completamente smentito. Ma - e questo va detto - non è l’unico a fare errori di ricostruzione. Questo dovrebbe insegnare che, soprattutto dopo 33 anni, ha più senso studiare con i documenti, anziché affidarsi a ricostruzioni del tutto soggettive o - come ha chiesto il M5S tramite una memoria - portare a sentire in commissione personaggi che, dopo 30 anni, si ricordano dettagli mai detti prima e casualmente compatibili con le piste mediatiche del momento. Oggi, affidarsi alla memoria dei protagonisti dell’epoca è deleterio per tutti. Che valore possono avere, se non contribuire alla strategia della confusione che regna in questo momento? Partiamo dall’ipotesi della pista nera. In sintesi, come è stata anche raccontata mediaticamente da Report, durante la fase esecutiva della strage di Capaci ci sarebbe stata la presenza di Stefano Delle Chiaie. Tutto ciò si basa sostanzialmente sul racconto di Maria Romeo, ex compagna del pentito Alberto Lo Cicero. Quest’ultimo, morto di cancro, non affiliato a Cosa Nostra (da ricordare che mentì dicendo di esserlo), ma autista del boss Tullio Troia. Nel racconto della Romeo, interrogata dall’allora procuratore generale Scarpinato, emerse la “certezza” del coinvolgimento del nero nella strage di Capaci. Non solo. Tutto ciò troverebbe riscontro nella famosa “nota Cavallo”: il documento presentato come prova decisiva di tale tesi. Dopo quell’interrogatorio svolto innanzi alla procura generale di Palermo, il 3 dicembre del 2021, arriva la trasmissione di Rai3 Report, che il 30 maggio del 2022 porta la donna in prima serata, che svela - aggiungendo altri elementi rispetto all’interrogatorio che fece in precedenza - questa presunta verità. La decisione del giudice di archiviare le indagini sulla cosiddetta “pista nera” nella strage di Capaci si regge proprio su questo pilastro centrale: l’inattendibilità strutturale di Maria Romeo, testimone chiave le cui dichiarazioni sono state smontate pezzo per pezzo. Un caso di cronaca giudiziaria che sembra uscito da un romanzo noir, tra contraddizioni, dettagli grotteschi e un’ossessione per lo status di collaboratrice di giustizia. Come detto, tutto inizia nel dicembre 2021, quando lei depone innanzi all’allora procuratore generale di Palermo: racconta di aver incontrato Stefano Delle Chiaie solo due volte, alla fine degli anni ‘80, mai a Palermo. Una ricostruzione minimalista. Ma quando i magistrati le contestano la “nota Cavallo” - un appunto del 1992 dove lei stessa, sempre de relato, colloca Delle Chiaie in Sicilia prima della strage - il suo racconto si trasforma. Improvvisamente, afferma che Delle Chiaie fu a Palermo nell’aprile 1992, durante la campagna elettorale, per “contatti politici”. Aggiunge dettagli: una telefonata concitata con un misterioso “Mario”, un sopralluogo a Capaci per procurarsi esplosivi, persino un incontro tra Delle Chiaie e il boss Mariano Tullio Troia. Ma ogni nuovo passaggio si scontra con le versioni precedenti. Il colpo di scena arriva nel 2022: in un’intervista a Report, allarga ulteriormente il quadro, rivelando che il presunto incontro tra Paolo Borsellino e il suo ex compagno Alberto Lo Cicero - presentato come informatore - sarebbe durato “dalle 19 a mezzanotte”, con rivelazioni operative sulla strage. Peccato che pochi mesi prima, alla Procura generale, avesse parlato di un colloquio di “10 minuti” senza dettagli. A minare ulteriormente la sua credibilità sono i narrati grotteschi, privi di qualunque riscontro. Come l’episodio della festa di cresima di Tommaso Natale, dove un Totò Riina camuffato da “stalliere” avrebbe baciato la mano al boss Troia, sotto gli occhi di decine di invitati. Una scena definita dal gip Bologna “degna di un film di Ciprì e Maresco”. O come le audioregistrazioni mai ritrovate: la Romeo giura di aver nascosto un registratore sotto il divano di casa, catturando conversazioni tra Delle Chiaie, l’avvocato Menicacci e suo fratello. Cassette che avrebbe consegnato a un maresciallo dei Carabinieri, “Ramon”. Ma l’ufficiale nega, e il tecnico citato per i duplicati smentisce: “Non ho mai lavorato per lei”. Non manca il fatto che i tentativi di verificare le sue dichiarazioni si infrangono su bugie documentali. Il numero che attribuisce a “Mario” risulta attivato solo nel 2002, dieci anni dopo i fatti. Le presunte rivelazioni su Delle Chiaie a Borsellino? Non trovano traccia negli atti, né nelle memorie dei colleghi del magistrato. Dietro le incongruenze affiora un profilo personale turbolento. I Carabinieri la descrivono come una donna con problemi di alcolismo, ossessionata dall’ottenere lo status di collaboratrice. Dettagli che gettano luce sulle sue motivazioni strumentali, aggravate dal fatto che molte “rivelazioni” esplodono solo dopo la morte di Lo Cicero, quando non può più smentirla. L’ordinanza non usa mezzi termini: la donna ha costruito una trama da romanzo, fondendo elementi veri (la relazione con Lo Cicero, i contatti del fratello con ambienti neofascisti) con invenzioni funzionali a ottenere visibilità e protezione. Un caso di mitomania giudiziaria, dove il confine tra realtà e fantasia si dissolve in un crescendo di dettagli drammatici, mai verificabili. Tutti i maggiori pentiti che hanno partecipato alla strage di Capaci smentiscono categoricamente la presenza dei neofascisti. Tutti tranne Francesco Onorato, che per la procura nissena è credibile. Invece no. Come sottolinea il gip, è stato escusso in data successiva al clamore mediatico-giudiziario suscitato da due servizi televisivi andati in onda da Report. Inutile dire che la suggestione è evidente. E non sarebbe la prima volta. Infine, il gip ricorda il caso di Alberto Volo, neofascista già interrogato, vagliato e infine bollato come mitomane dallo stesso Falcone, come si può leggere nella requisitoria del 9 febbraio 1991 per gli omicidi Reina, Mattarella, La Torre e Di Salvo. Un ulteriore monito sul rischio di credere a storie che, più che alla verità, servono a nutrire la confusione. A chi giova? Psicosi securitaria: senza fissa dimora di 24 anni scambiato per rapinatore e aggredito dalla folla di Matteo Castagnoli Corriere della Sera, 23 maggio 2025 Un senza fissa dimora svizzero di 24 anni ha subito un pestaggio dopo essere stato scambiato per un “rapinatore incappucciato” che da giorni seminerebbe il terrore aggredendo donne e bambini. Ma non c’entra nulla con la vicenda. Dalle voci dei social all’aggressione in strada. Che prende forma alle 18.30 di mercoledì 21 maggio, in via Tina di Lorenzo, periferia Nord di Milano. Siamo a Quarto Oggiaro. Da giorni tra alcuni utenti iscritti a gruppi di quartiere si rincorre la voce che un “uomo con il volto coperto gira per le strade e aggredisce donne e bambini”. È nel tardo pomeriggio che il presunto incappucciato viene individuato. Nella via si riversano decine e decine di persone. Lo colpiscono. Indossa un jeans e una giacca con alcune fantasie. La faccia e le mani sono imbrattate di sangue. Viene preso dalla polizia e portato in codice giallo all’ospedale Niguarda. In realtà, però, il ferito non c’entra nulla con il “terrore di Quarto” segnalato, avvistato e descritto sui social. Quel ragazzo è un senza fissa dimora di 24 anni nato in Svizzera. È stato dimesso. La vittima dell’aggressione si sarebbe così trovata al momento sbagliato nel posto sbagliato. Nulla ha a che fare con il responsabile di quelle rapine che hanno scatenato una psicosi collettiva nel quartiere. In un video registrato da alcuni testimoni, mentre la polizia carica il 24enne sulla volante, si vede un uomo avvicinarsi di corsa e provare a colpirlo ancora alla testa. La scena continua anche in via Satta, davanti al commissariato, dove un 31enne di origini albanesi vedendo di nuovo il ragazzo urla “aggressore di donne”, prima di essere bloccato dagli agenti. Lui prova a liberarsi e scappare. È stato denunciato per resistenza. La storia del rapinatore incappucciato sarebbe partita da un video pubblicato sui social da una donna che avrebbe raccontato di quest’uomo che tra le strade di Quarto Oggiaro aggredisce soprattutto donne e bambini. La voce si diffonde rapidamente. Ci sono due denunce, una dell’8 maggio alla stazione Musocco dei carabinieri e l’altra del 14 maggio alla polizia, che gli investigatori del commissariato, guidati da Luca Vincenzoni, stanno verificando. Nella seconda, si parla di una rapina a un minorenne in via Renato Simoni, sempre a Quarto Oggiaro. Ma dai primi accertamenti non emergerebbe un “uomo incappucciato”, la cui esistenza è quindi ora in discussione. Inoltre, non è nemmeno chiaro se i due fatti siano collegati. Potrebbero anche essere episodi sconnessi. Gli investigatori hanno acquisito i filmati delle telecamere per ricostruire con esattezza una vicenda in cui, al momento, l’unico punto fermo sembra essere che il 24enne aggredito mercoledì pomeriggio fosse innocente. La richiesta di pena sostitutiva non sospende l’esecuzione di pene concorrenti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2025 Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 18938 depositata ieri. La pendenza del procedimento relativo alla richiesta di una pena sostitutiva, ex articolo 20-bis Cp, non comporta la sospensione dell’ordine di esecuzione di pene concorrenti emesso dalla Procura della Repubblica. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 18938 depositata oggi, respingendo il ricorso dell’imputato contro la decisione della Corte di appello di Palermo, che decidendo quale Giudice dell’esecuzione, aveva rigettato l’istanza (finalizzata appunto ad ottenere la revoca o la sospensione dell’ordine di esecuzione di pene concorrenti per complessivi due anni, quattro mesi e ventotto giorni). La Prima sezione penale ricorda che l’articolo 656, co. 5, Cpp., riformulato dalla Riforma Cartabia, tra l’altro, prevede: “Se la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non è superiore a tre anni […] il pubblico ministero, salvo quanto previsto dai commi 7 e 9, ne sospende l’esecuzione”. Tuttavia, prosegue la decisione, questa disciplina non è esportabile, sic et simpliciter, alle pene sostitutive delle pene detentive brevi previste dall’articolo 20-bis Cp, introdotto sempre dalla Cartabia, che consente l’applicazione di tali strumenti sanzionatori su richiesta del condannato, senza prevedere espressamente che il pubblico ministero sia tenuto a sospendere l’ordine di esecuzione in pendenza del procedimento relativo alla concessione della misura in questione. Né potrebbe essere diversamente, argomenta la Corte, considerato che l’articolo 656, co. 5, Cpp non fa alcun riferimento alle pene sostitutive delle pene detentive brevi introdotte dall’articolo 20-bis Cp (ovvero alle misure previste dalla legge 24 novembre 1981, n. 689, nel cui ambito disciplinatorio si inseriscono gli strumenti sanzionatori introdotti dall’articolo 1, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 150 del 2022). Ne discende, conclude sul punto, che la richiesta di una misura alternativa alla detenzione, presentata ai sensi dell’articolo 656, co. 5, Cpp, è soggetta al termine di decadenza di trenta giorni dalla notifica dell’ordine di esecuzione, che deve essere preventivamente sospeso dal pubblico ministero procedente; viceversa, la presentazione di un’istanza di applicazione di pene sostitutive delle pene detentive brevi (ex articolo 20-bis Cp), non è soggetta alla sospensione prevista per le misure alternative alla detenzione dall’articolo 656, comma 5, Cpp Infondato anche il secondo motivo con cui si lamentava la mancata sospensione del provvedimento di cumulo, sebbene il titolo esecutivo fosse inferiore al limite edittale di quattro anni. Ciò avveniva, spiega la Cassazione, in ragione del fatto che la misura alternativa della detenzione domiciliare concessa per le sentenze irrevocabili, punti 2 e 3 del titolo esecutivo controverso, al momento della presentazione dell’istanza di applicazione di pena sostitutiva (ex articolo 20-bis Cp) era in corso di esecuzione. Si era, pertanto, in presenza di una misura alternativa alla detenzione in corso di esecuzione, (relativa alle sentenze irrevocabili di cui punti 2 e 3 del titolo esecutivo presupposto), sulla quale si innestava un’ulteriore condanna (riguardante la decisione di cui al punto 1), sussumibile nella situazione prefigurata dall’articolo 51-bis Ord. pen., secondo cui, in ipotesi di questo genere, il “magistrato di sorveglianza, tenuto conto del cumulo delle pene, se rileva che permangono le condizioni di applicabilità della misura in esecuzione, ne dispone con ordinanza la prosecuzione; in caso contrario, ne dispone la cessazione e ordina l’accompagnamento del condannato in istituto”. Violenza di genere, no a modifica dei domiciliari se non è informata la vittima di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2025 L’istanza di revisione delle misure cautelari personali all’avvocato nominato dalla parte offesa è adempimento che se non correttamente eseguito comporta la nullità del provvedimento del Gip. In caso di reati contro le donne o violenza domestica o di genere la mancata notificazione alla persona offesa dell’istanza dell’indagato per la modifica delle misure cautelari personali già applicategli rende nullo il provvedimento che accoglie la richiesta. Così la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 18979/2025 - ha respinto il ricorso dell’imputato che lamentava l’annullamento del provvedimento con cui il Gip aveva disposto il passaggio dalla misura dei domiciliari a quelli dell’obbligo di dimora nel Comune e del divieto di avvicinamento della persona offesa. Nel caso concreto si era verificata la sostituzione del difensore di fiducia della vittima del reato di atti persecutori contestato, ma nonostante la corretta comunicazione del nuovo difensore al pubblico ministero l’informazione relativa all’istanza di modifica della misura più privativa della libertà personale del ricorrente era stata adempiuta presso il precedente avvocato nominato. Ciò non ha integrato però il corretto adempimento nei confronti della vittima del reato, nonostante il suo precedente difensore avesse affermato di aver comunque comunicato alla stessa parte offesa la richiesta di modifica. Si tratta, quindi, di inadempimento che comporta la nullità del provvedimento di modifica. Ciò corrisponde alla nuova visione della società e, di conseguenza, del Legislatore nella lotta ai crimini connotati da intenti malevoli e discriminatori verso alcune categorie di persone - e specificatamente nei confronti delle donne - o dall’approfittamento della fiducia che si realizza nelle relazioni familiari. Dove l’atavico stato di debolezza o di sottomissione impone che le vittime siano ampiamente tutelate dalla previsione di misure cautelari personali nei confronti dell’accusato e dalla più ampia partecipazione possibile delle vittime nelle fasi del processo, ma anche prima che questo sia ritualmente instaurato. Viene cioè preservata e garantita l’interlocuzione con la persona offesa soprattutto in merito all’adeguatezza delle forme di cautela anche custodiali realmente idonee a evitare comportamenti recidivanti da parte di indagati o imputati per date categorie di reato. Infine, va sottolineato che la nullità del provvedimento del Gip per la mancata notificazione dell’istanza di modifica al difensore della parte offesa deriva dalle disposizioni di legge che la prescrivono anche nel caso in cui la vittima del reato abbia eletto domicilio non presso il difensore di fiducia nominato. Ciò corrisponde alla considerazione raggiunta dal Legislatore della necessità di garantire “sempre” l’assistenza di una difesa tecnica per una categoria di vittime considerate normalmente “deboli”. Torino. Suicida in carcere per paura del Cpr. “Sono gabbie che mortificano l’essere umano” di Paolo Valenti lavialibera.it, 23 maggio 2025 Hamid Badoui si è tolto la vita in cella dopo l’arresto nel capoluogo piemontese: temeva di tornare nel Centro in Albania. La Garante dei detenuti Monica Gallo: “Un sistema inutile che nega la dignità delle persone straniere”. Si chiamava Hamid Badoui, aveva 42 anni e viveva in Italia da 15. Si è tolto la vita nella sezione “nuovi giunti” dell’istituto Lorusso Cotugno di Torino nella notte di domenica, un giorno dopo l’ingresso: è il 32simo suicidio in un carcere italiano da inizio anno. Ma la sua storia somiglia anche a quelle delle troppe vittime dei centri di permanenza per il rimpatrio (cpr, almeno 15 i decessi negli ultimi sei anni): negli ultimi mesi era stato trattenuto nel cpr di Bari perché sprovvisto di permesso di soggiorno, poi trasferito nel centro di Gjadër, in Albania. Riportato in Italia, era stato arrestato sabato scorso nel capoluogo piemontese, pare per aver dato in escandescenza dopo aver subito un furto. Nel carcere di Torino Hamid era già passato in precedenza per piccoli furti commessi per comprare il crack, ma prima dell’ultima scarcerazione aveva chiesto di contattare il Gruppo Abele per avviare un percorso di uscita dalla dipendenza. Eppure gli operatori, che già lo conoscevano, non l’hanno più visto. Solo dopo la morte hanno saputo dei trattenimenti nei centri per il rimpatrio. “Meglio il carcere del cpr”, ha detto Hamid all’avvocato poco prima di togliersi la vita. “Me lo ripetono in tanti”, dice a lavialibera Monica Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Torino, che abbiamo intervistato. “È un sistema che mortifica la dignità della persona e non porta nessun risultato”. Dottoressa, cosa racconta la morte di Hamid Badoui? Solitamente conosciamo pochissimo delle persone che muoiono in carcere. Sappiamo come e quando succede, il nome e il cognome, ma in casi rarissimi riusciamo a inoltrarci nelle loro storie personali. Quella di Hamid prima che entrasse in carcere ora la conosciamo: come tante altre, era segnata da condizioni di marginalità e fragilità allarmanti, dove chiunque avrebbe potuto capire che un’ulteriore restrizione della libertà avrebbe potuto rappresentare un punto di non ritorno. Allora è giusto insistere sul sovraffollamento e sulla carenza di organico nelle carceri, ma credo sia necessario anche porre l’attenzione sulla storia delle persone, che dovrebbe essere perlomeno registrata all’ingresso nel carcere. Invece si continua a procedere per protocolli e norme, ci si ferma all’illecito senza guardare alla persona. Prima il carcere di Torino, poi il cpr di Bari, Gjader in Albania e di nuovo a Torino: il percorso di Hamid negli ultimi mesi è stato segnato da continui spostamenti forzati da una parte all’altra dell’Italia e non solo. Un caso raro? No, storie simili sono molto frequenti e mostrano la totale mancanza di riconoscimento della dignità della persona straniera. Non importa come e dove vengono spostati, chi viene o non viene avvertito, se i loro effetti personali vengono trasferiti o meno. Chi subisce questo trattamento, poi, spesso non lo capisce. Si chiedono: “Perché dopo aver scontato la mia pena in carcere devo restare ancora in un cpr, magari venire trasferito dall’altra parte dell’Italia o ancor peggio in Albania?”. Poco prima di togliersi la vita, Hamid aveva detto al suo avvocato: “Meglio il carcere che il cpr”. Lei che conosce entrambe le strutture, può comprendere questa frase? Parole simili mi vengono ripetute ogni volta che visito il cpr. In effetti, pur nelle sue complessità, il carcere è un organismo che vive: all’interno c’è la scuola, ci sono attività lavorative, c’è la formazione, ci sono attività, anche se non sempre di valore e per tutti. Le giornate sono scandite da un ritmo, certo sempre uguale, e dal contatto con gli operatori penitenziari, periodicamente anche con i familiari e gli avvocati. Quello dei cpr, invece, è un tempo vuoto, che le persone trascorrono lentamente e passivamente senza poter fare alcuna attività, senza cellulare, senza una penna per scrivere. Restano tutto il giorno a pensare cosa ne sarà del loro futuro da soli, perché spesso neanche gli operatori sanno dar loro delle risposte. La sofferenza e il conflitto sono inevitabili in un ambiente del genere, e infatti ne vediamo i risultati. Nell’ultimo mese, il cpr di Torino ha registrato due rivolte. Ha potuto visitarlo? Sì, sono entrata ieri. Adesso soltanto un’area è funzionante e i migranti sono 27. Teniamo presente che se l’intera struttura fosse agibile potrebbe contenerne 180. Tutto il resto è in parte devastato dalle ultime rivolte, in parte ancora in fase di ristrutturazione, e questo per me è un grande punto interrogativo: il cpr è stato chiuso per due anni, perché non sono stati completati i lavori prima di riaprirlo? Forse sarebbe opportuno interrogarsi sulle procedure e sui costi. Durante la visita ho parlato con alcune persone che da giorni lamentano dolore ai denti, per cui è urgente organizzare al più presto la presenza di un medico dentista almeno una volta a settimana, che al momento non è prevista. Tra pochi giorni ricorre il quarto anniversario della morte di Moussa Balde, che il 23 maggio 2021 si è tolto la vita nel cpr di Corso Brunelleschi. Abbiamo imparato qualcosa da quella tragedia? Non credo che tutti abbiano imparato qualcosa. C’è una parte di società che ha maturato una sensibilità, che continua a commemorare e chiedere la chiusura definitiva del cpr. Ma c’è anche chi continua a credere alla propaganda secondo cui lo straniero è cattivo e va rinchiuso e portato al paese d’origine. Eppure sono i numeri a raccontare l’inutilità di questo modello: nei due mesi trascorsi dalla riapertura del cpr sono stati effettuati solo 8 rimpatri e 14 delle 27 persone che sono ora dentro non possono essere rimpatriate perché vengono dal Marocco, con cui non abbiamo accordi che lo consentono. Eppure il governo insiste su questa strada, tanto sul “modello Albania” quanto sul progetto di costruire un cpr per regione. Perché? Non vedo altro se non un’assoluta mancanza di ragionamento e di volontà di intraprendere un lavoro più ampio rispetto alle politiche di inclusione. Ci si ostina a voler rinchiudere e espellere, anche se i risultati mostrano che non funziona. Crede che stia crescendo nell’opinione pubblica la consapevolezza rispetto ai cpr? Qui a Torino c’è abbastanza attenzione, che è stata favorita dal lavoro di tante associazioni ma anche dal fatto che la struttura si trovi in una posizione relativamente centrale rispetto a quelle di altre città. In generale, però, mi sembra di respirare un clima di assoluta indifferenza. Continua a incalzare il messaggio: “Sono dei delinquenti, teniamoli lontano dalla vista”. Come si abbatte quel muro di indifferenza, nei confronti tanto dei cpr quanto delle carceri? Sono luoghi troppo chiusi, dove spesso i diritti non sono tutelati, ma nessuno se ne accorge. Il primo passo allora è aprirli maggiormente, permettere a più persone di entrarci. Oggi possono farlo solo i garanti e i parlamentari, anche i giornalisti faticano tantissimo. Questo contribuirebbe a diffondere una cultura diversa. Sono convinta che se per la città prendessimo venti persone che hanno un’opinione positiva dei cpr e le portassimo dentro a vedere quali sono le condizioni, molti maturerebbero un pensiero diverso. Basta guardare all’architettura, che mortifica l’essere umano. Sono gabbie, non c’è altro modo per descriverle. Avellino. L’appello di nonna Cira: “Salvate la vita a Paolo” di Alessandra Montalbetti Il Mattino, 23 maggio 2025 “Paolo è a limite della sopravvivenza e ha diritto ad essere salvato”. “Mio nipote si deve riprendere e dobbiamo riportarlo a casa”. Il commovente appello è quello di nonna Cira Russo. Chiede di trovare con urgenza, per suo nipote Paolo Piccolo, un posto in una struttura riabilitativa del Centro-Sud Italia specifica per le cure di cui necessita il 26enne originario di Barra, ridotto in fin di vita nel carcere di Bellizzi Irpino, da dieci detenuti che si sono accaniti brutalmente sul corpo del giovane detenuto ad ottobre scorso. “Mio nipote non fa parte di nessun clan, ha sbagliato e stava pagando per quanto compiuto, ma non si merita di morire. Mio nipote si deve riprendere e deve essere trasferito in un centro di riabilitazione intensivo. Ha due bambini piccoli che chiedono sempre di lui”. Da sette mesi, fanno la spola tra Barra e Avellino per far sentire la loro presenza a Paolo. “Lui avverte tutto, è uscito dal coma, pesa venticinque chili, ora non possiamo mollare, dobbiamo salvarlo. Abbiamo anche dormito in questo ospedale, pregando ininterrottamente affinché Paolo rispondesse alle terapie. Ora che i medici del Moscati hanno fatto di tutto per salvarlo non possiamo mollare” conclude nonna Cira. All’appello dei familiari di Paolo si è unito anche il Garante provinciale dei detenuti e delle persone limitate della libertà personale, Carlo Mele, che è in contatto costante con i familiari di Paolo Piccolo affinchè venga trovata una soluzione, ma velocemente. “Paolo è in uno stato vegetativo. Non basta tenerlo in vita: servono stimolazioni, cure, movimento bisogna fare in fretta” dice Mele. “Ma non solo”, prosegue il garante dei detenuti, “la madre può vederlo una volta a settimana. Una regola carceraria. Ma Paolo non è più in carcere. È in ospedale. Ed è ridotto a un corpo fragile, che respira a fatica. Un figlio, in quelle condizioni, ha diritto alla presenza della madre, serve un permesso in più per consentire a questo figlio di aver accanto la madre”. Presente davanti al presidio ospedaliero avellinese anche il legale della famiglia Piccolo, l’avvocato Costantino Cardiello che, prima di lanciare un appello altrettanto accorato, tiene a sottolineare: “Fate presto, salviamo la vita a Paolo versa in uno stato vegetativo e per rimanere in vita ha bisogno di un centro di riabilitazione intensiva specifica”. Il legale va avanti e lancia l’appello: “Paolo è a limite della sopravvivenza e ha diritto ad essere salvato, anche se detenuto non vuol dire che è un cittadino di serie B e possiamo cedere il suo posto ad un’altra persona. Viviamo in uno Stato di diritto e anche gli ultimi come Paolo vanno curati. La sopravvivenza che gli ha garantito il Moscati di Avellino, non deve essere vanificata”. Per il legale questa vicenda può essere sintetizzata in un’unica parola: “Impotenza, sia quando Paolo è stato picchiato in carcere, non riuscendo a garantirgli il diritto alla salute e ora che l’amministrazione sanitaria non riesce a trovare velocemente una struttura di riabilitazione dove trasferire Paolo”. Il prossimo 27 giugno inizierà il processo per i dieci detenuti ristretti insieme a Paolo Piccolo nell’ottobre 2024 nell’istituto penitenziario di Bellizzi Irpino. Il gip ha disposto l’avvio del processo per i dieci, davanti al collegio presieduto dal giudice Sonia Matarazzo. Sono tutti accusati di tentato omicidio aggravato, sequestro di persona e resistenza. Due gli irpini raggiunti a marzo scorso dall’ordinanza di misura cautelare in carcere, Francesco Sabato Crisci e Giovanni Flammia, mentre gli altri detenuti coinvolti nel brutale pestaggio di Piccolo sono Nelly Osemwege, Valentino Tarallo, Raffaele Zona, Agrippino Paudice, Giovanni Capone, Pasqualino Milo, Luigi Gallo, Luciano Benedetto. I dieci della spedizione punitiva sono riusciti a raggiungere la cella in cui era ristretto Paolo Piccolo, bloccando e picchiando gli agenti per poi sottrargli le chiavi. Piccolo prima è stato colpito nella cella, poi una volta trascinato fuori è stato colpito con calci, pugni e mazze metalliche ricavate dalle spalliere dei letti. Bologna. Don Mengoli: “Ragazzi alla Dozza? Polveriera” di Riccardo Ruggeri incronaca.unibo.it, 23 maggio 2025 L’allarme del presidente Ceis sul nuovo settore per minorenni nel penitenziario. “Sono molto preoccupato per la città perché potenzialmente è una polveriera”. Con queste parole don Giovanni Mengoli, presidente del Consorzio Gruppo Ceis (Centro italiano di solidarietà), in occasione del convegno “Un luogo in cui abitare: le politiche abitative per minori-giovani adulti stranieri” tenuto su iniziativa dell’Istituzione Minguzzi e del Centro Astalli, ha espresso le proprie perplessità sulla sezione per detenuti giovani adulti creata nel carcere della Dozza di Bologna, con l’arrivo dalle carceri per minorenni di qualche decina di ragazzi. Secondo Mengoli, la Dozza sta correndo il rischio di esplodere “per colpa del Governo che ha deciso di fare questa sezione proprio a Bologna. Secondo me c’è anche un dispetto politico dietro. Noi abbiamo dei ragazzi che prima o poi usciranno, saranno stra-incazzati e non avranno nulla da perdere: quindi diventa potenzialmente una bomba esplosiva gigantesca”. “Con il decreto Caivano - ha aggiunto il presidente Ceis - il problema che due anni fa avevamo nel sistema di accoglienza adesso ce l’abbiamo nelle carceri e bisognerebbe riuscire a fare delle azioni preventive per favorire l’inserimento dei ragazzi sul territorio dopo la detenzione”. Un tema che coinvolge anche “le comunità di accoglienza per minori o neo maggiorenni che però sono ancora in affidamento al ministero della Giustizia”, spiega Mengoli. “Però ci sono poche risorse. Se vuoi fare un lavoro fatto bene, devi costruire una situazione di accoglienza quando i ragazzi sono ancora in affidamento fuori - spiega il sacerdote - ma con costi a carico del Centro di giustizia minorile, cioè del ministero, con tariffe importanti perché il lavoro educativo è impegnativo”. “Il sistema della giustizia minorile per fortuna prevede che non si fa tutto il percorso in carcere, perché c’è anche l’affidamento fuori”, ricorda Mengoli, però allestire una comunità “è complicatissimo”. Un dato di partenza da tenere presente, a suo avviso, è il fatto che “adesso la maggioranza dei ragazzi in carcere sono tunisini ed egiziani” e questo rende più complicato il lavoro educativo. “Noi abbiamo delle comunità che lavorano sulle misure alternative al carcere, ma se fai una comunità dove sono tutti tunisini ed egiziani non riesci a lavorare perché si coalizzano tra loro”. In altre parole: “Certi legami e certe relazioni sono davvero difficili da rompere. Se presi singolarmente, questi ragazzi hanno tutti storie che a me fanno pena, ma quando sono in gruppo si spalleggiano l’un l’altro e questo lo si vede in città”. Insomma, si tratta di “un lavoro duro, non è facile trovare chi ci lavora e poi ognuna di queste comunità deve sopravvivere” dal punto di vista economico. “Realtà di questo tipo già attive a Bologna ce ne sono, però ce ne vorrebbero di più perché non sono sufficienti e perché i ragazzi bisognerebbe diluirli”. È un tema molto caro anche all’arcivescovo Matteo Zuppi: “Mi sta chiedendo - riferisce Mengoli - di fare una di queste comunità ma non è facile, perché poi non so che personale metterci”. Insomma, ad aprire questa nuova struttura “noi ci proviamo, ma non è detto che riusciamo. Poi bisogna anche trovare un posto”. Come se non bastasse il problema del sovraffollamento delle carceri, poi, la città vive anche il problema della carenza di appartamenti, con conseguenze nefaste per i minori e i giovani adulti stranieri in uscita dai percorsi di accoglienza che vogliono trovare un alloggio sotto le Due Torri. Firenze. “Carcere di Sollicciano, mancano i livelli minimi di dignità” di Fabrizio Morviducci La Nazione, 23 maggio 2025 La sindaca Sereni a Sollicciano con una delegazione del consiglio. formata da maggioranza e opposizione. “Avvertiamo con forza il senso di responsabilità per questa struttura situata al confine col nostro territorio comunale, è stato importante affrontare insieme questo momento di consapevolezza”. La sindaca Sereni è tornata a Sollicciano con una delegazione del consiglio comunale formata da maggioranza e opposizione: il presidente del Consiglio, Gianni Borgi, i consiglieri Tommaso Francioli (Pd) Giulia Alderighi (M5S), Alessio Vari (Claudia Sereni sindaca), Pier Guido Pratesi (Avs) Giovanni Bellosi (Scandicci Civica), Claudio Gemelli (FdI). “La struttura è imponente - prosegue Sereni - ma in condizioni estremamente critiche sotto ogni punto di vista. La situazione edilizia e gestionale non garantisce nemmeno i livelli minimi di dignità e sicurezza, compromettendo il rispetto dei diritti umani sia per chi vi è detenuto, sia per il personale che vi lavora ogni giorno. Dopo aver percorso i corridoi e le sezioni del penitenziario e averne constatato le condizioni, la chiusura del carcere è l’unica prospettiva che mi pare possibile. Se lo Stato vuole ristrutturare allora deve essere chiaro che i soldi non bastano, serve un progetto di ampio respiro, che adesso manca e di cui si fatica anche a immaginare l’entità. Il governo deve fare una scelta, e deve farla adesso, il tempo è scaduto. Torneremo a Sollicciano fino a che non sarà individuata una soluzione”. L’amministrazione comunale è da tempo impegnata per dare una mano ai detenuti con progetti di reimpiego con la collaborazione delle aziende del territorio. L’Aquila. Minori detenuti: si discute di istruzione, reinserimento e progetti futuri abruzzosera.it, 23 maggio 2025 Trasformare la detenzione minorile in un’opportunità di crescita e cambiamento. È questo il cuore del convegno “Formazione minorile carceraria in Abruzzo - Analisi e prospettive”, che si terrà venerdì 23 maggio presso la sala convegni dell’Ordine degli Avvocati dell’Aquila, al Tribunale in via XX Settembre. La giornata si configura come un importante momento di riflessione e confronto sui temi cruciali dell’istruzione, del reinserimento sociale e dei diritti all’interno del delicato contesto della detenzione minorile. Il principio guida è chiaro: il sapere deve essere accessibile a ogni individuo, anche in situazioni di particolare fragilità. In questa visione, la scuola assume un ruolo fondamentale come spazio di relazione, strumento per la costruzione di legami significativi e leva per la promozione della consapevolezza nei giovani detenuti. L’incontro, promosso congiuntamente dal Cpia L’Aquila e dall’Ordine degli Avvocati, si pone l’obiettivo di analizzare lo stato attuale e le prospettive future del ruolo dell’istruzione nei percorsi rieducativi dedicati ai minori che si trovano a scontare una pena. Un focus particolare sarà dedicato alla prossima apertura del nuovo Istituto Penale per i Minorenni del capoluogo abruzzese, con l’intento di favorire la creazione di progettualità educative integrate e di lungo termine. Tali progetti dovranno essere in grado di rispondere alla complessità di un ambiente che richiede interventi mirati, delicati e caratterizzati da un forte grado di innovazione. Ad aprire i lavori del convegno saranno i saluti istituzionali di figure di spicco del territorio: il presidente dell’Ordine degli Avvocati Maurizio Capri, il sindaco dell’Aquila Pierluigi Biondi, l’assessore regionale Roberto Santangelo, il procuratore generale Alessandro Mancini e il direttore dell’Ufficio scolastico regionale Massimiliano Nardocci. Successivamente, Alessandra De Cecchis, dirigente scolastica del Cpia L’Aquila, introdurrà i lavori con una relazione dal titolo evocativo: “Educare nei luoghi della fragilità”. Il convegno si svilupperà attraverso due sessioni distinte ma complementari. La mattinata sarà dedicata all’esplorazione del ruolo sinergico dell’istruzione e della giustizia nel percorso di riabilitazione dei minori. Il pomeriggio, invece, sarà animato da una tavola rotonda incentrata sulle pratiche concrete, con contributi provenienti da diverse realtà: l’Università, l’Inapp, il Ministero dell’Istruzione, il Ministero della Giustizia, l’associazione Antigone, gli Ordini professionali, i garanti regionali e rappresentanti del terzo settore, tra cui il coordinatore della Comunità per Minori Crescere Insieme Goffredo Juchich. La Comunità per Minori Crescere Insieme rappresenta una realtà consolidata nel tessuto sociale aquilano, con un impegno pluriennale nell’accoglienza di minori in situazioni di vulnerabilità. La loro esperienza si fonda su un approccio multidisciplinare che mira a offrire non solo un ambiente sicuro e protetto, ma anche percorsi personalizzati di crescita e recupero. Attraverso un’équipe di professionisti qualificati, la comunità sviluppa progetti individualizzati che tengono conto delle specifiche esigenze di ogni ragazzo, lavorando sul piano educativo, psicologico e sociale. Alla tavola rotonda interverrà anche Andrea Salomone, Responsabile Unità Operativa Locale della Fondazione Don Calabria. Questo appuntamento rappresenta un’occasione cruciale per avviare una riflessione approfondita e costruttiva su come rendere il carcere minorile un vero e proprio luogo abilitante al cambiamento, dove l’istruzione diventi un pilastro fondamentale per la costruzione di un futuro diverso per i giovani detenuti. Torino. Resiste il teatro in carcere e fa la differenza di Silvia Bacci rainews.it, 23 maggio 2025 Uno strumento di consapevolezza e reinserimento sociale. Il Lorusso e Cotugno rimane una delle carceri più complesse da gestire, tra sovraffollamento e carenza di personale. L’ombra dell’ultimo suicidio e la speranza di nuove possibilità. Proprio per dare risposte ad un isolamento sociale che priva le persone di un’identità, il teatro in carcere diventa uno strumento di consapevolezza di sé e degli altri, di crescita personale, di opportunità. Una storia di dolore e riscatto in “84 pagine”, lo spettacolo che i detenuti mettono in scena in questi giorni. Una lettera di richiesta di perdono scritta in un mese di cella da un giovane detenuto ai figli della donna uccisa. Una missiva del 1919 riemerse dall’archivio del Museo Lombroso dell’Università di Torino, trasposta nell’oggi e occasione di riflessione. 37 i detenuti coinvolti, nell’ambito del progetto “Per Aspera Ad Astra” supportato da ACRI e dalla Fondazione Compagnia di San Paolo, realizzato da Teatro e Società con la collaborazione del Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale e della Direzione e degli operatori della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno”. Quattro serate aperte al pubblico esterno (tutte sold out). Una condivisione emotiva che contribuisce ad una riflessione profonda sul sistema carcere con quel mandato costituzionale che mira alla rieducazione e che in queste serate si respira. Attori e scenografia - In scena, insieme al gruppo di detenuti-attori, gli attori Claudio Montagna e Margherita Data-Blin, con l’accompagnamento musicale di Alberto Occhiena e Paolo Morella e la suggestiva scenografia creata da cinque macchine teatrali per riprodurre gli eventi atmosferici: il tuono, la pioggia, la neve, il vento e il mare. Le macchine sono state realizzate dagli studenti del Padiglione B (IPIA Plana - Casa Circondariale di Torino) per ricreare una scena teatrale d’altri tempi, seguendo le indicazioni dei classici manuali di scenotecnica, sotto la guida del responsabile della parte scenotecnica Claudio Cantele per il Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale e con la collaborazione del Primo Liceo Artistico di Torino e dell’IIS Giulio. Le parole nel contesto carcerario sono diventate anche strumento di formazione e studio per il tirocinio su “teatro e carcere” che ha coinvolto alcuni studenti del Corso di tecniche d’insegnamento dell’italiano per stranieri, sotto la guida di Silvia Sordella, prof.ssa del Dipartimento di Culture, Politica e società dell’Università degli Studi di Torino. Brescia. Carcere: la speranza in musica con Matteo Faustini di Elisa Garatti lavocedelpopolo.it, 23 maggio 2025 Dal carcere si sentono fuoriuscire alcune note di speranza. Sono le canzoni, scritte e intonate dai detenuti, che oggi trovano “casa” in un libretto, curato dai cappellani della Casa Circondariale “Nerio Fischione” e della Casa di Reclusione “Verziano” di Brescia, insieme alla Caritas e al Vol.Ca (Associazione Volontariato Carcere), risultato evidente e realizzazione concreta della scelta della Diocesi di Brescia di dedicare un’opera-segno giubilare al carcere, con il progetto “Via dei Bucaneve, 25”. “Alcune persone detenute hanno iniziato a scrivere e cantare brani dopo aver meditato la Bibbia. Hanno chiesto di poterli suonare per animare la Messa domenicale - scrive il cappellano del “Nerio Fischione”, don Stefano Fontana, nelle prime pagine. Nel triste e pensoso inverno di un carcere è spuntato un bucaneve. Vorremmo solo che si sentisse il suono della Speranza che arriva fin fuori le mura”. Quella speranza che è proprio il cuore pulsante del Giubileo 2025 e che, in queste canzoni prodotte dalla “Kyrie Eleison Band”, emerge con forza. “Kyrie Eleison è una formula che viene dal greco e può essere tradotta come ‘Signore, abbi pietà!’ - è il commento del vescovo di Brescia, mons. Pierantonio Tremolada -. A sua volta, questo significa: Signore, guardaci con bontà, rivolgi a noi il tuo sguardo misericordioso, facci sentire l’affetto che nutri per noi. È bello pensare che, attraverso dei canti, si possa annunciare questa verità e far sentire la bontà di Dio che dà luce a ogni vita”. Mettere in musica la speranza è stato anche l’obiettivo del cantautore bresciano, Matteo Faustini (che ha nel suo curriculum anche la partecipazione, nel 2020, al Festival di Sanremo nella sezione “Nuove Proposte”, ndr). Entrato in carcere come volontario, ha proposto un laboratorio musicale di song writing ma non solo. “Ho sempre sentito il bisogno di dare uno scopo alla musica, che non fosse solo ricreativo. Dopo aver prestato la mia musica a iniziative contro il bullismo, la violenza di genere o le disuguaglianze, desideravo entrare in carcere per suonare per o insieme ai detenuti. Non sapevo cosa dovessi fare per realizzare questa idea, così mi sono messo a cercare informazioni su internet e ho deciso di partecipare ad un incontro con alcuni volontari. Qui, ho incontrato Isabella Belliboni e Caterina Vianella del Vol.Ca. e, con loro, è nata la proposta di un laboratorio musicale”. Matteo Faustini parla di un’esperienza molto profonda, dove “abbiamo scritto, ci siamo abbracciati, abbiamo pianto - racconta -. Ho ascoltato storie molto forti, che a più riprese mi hanno interrogato. Ci siamo ascoltati davvero, nel profondo. C’era un’empatia pazzesca tra di noi”. Quando ripensa ai momenti vissuti in carcere come volontario, Faustini ha in mente due ricordi in particolare. “Ho consigliato ai detenuti di trovare, ogni sera prima di andare a dormire, tre cose da ringraziare per la giornata trascorsa. Una settimana più tardi, uno di loro mi ha confessato di aver ringraziato l’amore di un uccellino che si fermava sempre fuori dalla finestrella della sua cella per mangiare le bricioline che lui stesso gli lasciava. Ma ricordo anche un secondo episodio: un giorno, affacciandomi alla finestra, ho visto un detenuto intento ad abbeverare dei semini di pomodoro piantati da lui in una crepa del cemento. Si è preso cura di questa pianta ogni giorno, per far nascere e crescere qualcosa dentro l’arido carcere”. Dal laboratorio musicale è nata “Il cattivo”, “una piccola briciola in un negozio di pane - si legge nella descrizione della canzone sul libretto di “Via dei Bucaneve, 25” -. Sono 208 secondi di rimpianti, attese, sensi di colpa e voglia di riscatto”. “La canzone - sono le parole del cantante - è ispirata ad alcune storie dei partecipanti al laboratorio. Dopo un inizio più crudo, le parole lasciano spazio alla speranza, come gli stessi carcerati mi hanno chiesto di far emergere. Mi è sempre piaciuto vedere i colori e pensare che ci sia una seconda opportunità per tutti. D’altronde, però, questo stesso sviluppo è la sintesi di quello che ho incontrato: i detenuti, quando entrano in carcere, sono pieni di rabbia, ma questa, con il tempo, lascia poi spazio alla speranza. Ti dicono grazie, hanno sempre il sorriso, sono davvero interessati a te. Come avrei potuto non riprodurre tutto questo? Ogni volta, uscito dal carcere, avevo un macigno sul cuore, ma anche un senso vero di gratitudine”. Nel frattempo, Matteo Faustini ha iniziato un nuovo progetto in carcere dedicato alla poesia, ma “proporrò sicuramente altre nuove idee per il futuro. Comunque, la canzone è disponibile per l’ascolto su Spotify e io la porterò in giro per tutta l’Italia, insieme alle storie e alle testimonianze che racchiude, durante il mio tour estivo”. Torino. “Ricucire la vita”, la pena che non annienta di Daria Capitani vita.it, 23 maggio 2025 A fine 2024, in Italia erano 77mila le persone in detenzione domiciliare o in affidamento in prova al servizio sociale. In Piemonte, l’organizzazione di volontariato La goccia di Lube promuove il reinserimento socio lavorativo di chi sta scontando la pena tramite misure alternative alla detenzione. Storie di ripartenza come quella di Sharon, che a Chieri sta cucendo una nuova trama per il suo futuro. “Questo posto per me è l’aria”. Sharon (il nome è di fantasia) sta confezionando una borsa. È di quelle con i manici regolabili: in caso di necessità, può diventare zaino. Ne mostra i dettagli: ogni cucitura è ben rifinita, anche il bottone che, spiega, “è la parte più complicata”. I suoi occhi scuri si illuminano quando racconta di quello che in poco più di un mese è riuscita a realizzare. La cosa più bella? “Le camicine per i battesimi”. Siamo a Chieri, uno dei centri del tessile in Piemonte. Una filiera di lunga tradizione, testimoniata da un museo che, poco distante, conserva le espressioni artistiche e manifatturiere della zona. Nella sartoria Vicini di vita Sharon sta imparando un mestiere. È arrivata qui con La goccia di Lube, organizzazione di volontariato che nell’area metropolitana di Torino promuove il reinserimento socio-lavorativo di persone che stanno scontando la propria pena fuori dal carcere tramite le cosiddette misure alternative alla detenzione. Eva Simoni, una delle due volontarie di riferimento, aveva notato in lei una propensione per l’artigianato e le creazioni hand made. È bastato lanciare l’input a Bianca Eula, la responsabile di progetto, per creare un ponte con la cooperativa sociale La Contrada. Ed eccoci qui, in uno spazio di inclusione e co-working in cui nascono abiti, accessori, ricami e storie di ripartenza. Anche se fuori piove, la giornata è speciale. La goccia di Lube sta per consegnare il riconoscimento (è l’undicesimo) di “Impresa accogliente” alla cooperativa La Contrada per aver aderito al progetto omonimo promosso dall’associazione con il contributo della Regione Piemonte. “Grazie a un protocollo d’intesa con l’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna di Torino (Uiepe) e l’Ufficio servizio sociale per i minorenni del Piemonte (Ussm), attiviamo percorsi di reinserimento lavorativo per persone che stanno scontando la propria pena attraverso misure alternative alla detenzione”, spiega il presidente dell’associazione Adriano Moraglio. “A fine 2024, in Italia erano 77mila le persone in detenzione domiciliare o in affidamento in prova al servizio sociale (nella sola provincia di Torino erano quasi 3mila), un numero più alto dei detenuti presenti in carcere. Eppure, in Italia siamo una delle poche se non l’unica realtà che si preoccupa di accompagnarle al mondo del lavoro. Persone che vivono attorno a noi, nei nostri condomini, che percorrono, quando gli è permesso, le nostre stesse strade. Investire sui percorsi alternativi alla detenzione significa contribuire alla prevenzione della recidiva e al recupero sociale”. Come funziona il progetto? “Per ogni persona presa in carico individuiamo almeno due volontari che si occupino di attivare percorsi di orientamento e occasioni di lavoro”. Partita nel giugno 2024, l’iniziativa ha intercettato in un anno 86 adulti e giovani adulti, ha contattato 150 imprese e cooperative, di cui 41 hanno dato disponibilità concreta a offrire opportunità lavorative. Ha attivato 45 percorsi di orientamento e 21 persone hanno trovato un’occupazione in modo autonomo dopo o durante l’accompagnamento. Non solo. La goccia di Lube ha aderito alla piattaforma Torino Social Impact ed è entrata tra i soggetti interlocutori del Cnel per l’iniziativa “Recidiva Zero”, un progetto nazionale che punta a un sistema penale più umano, efficace e reintegrativo. Una rete che cresce in termini di supporto istituzionale e per numero di volontari coinvolti. Offrire una possibilità lavorativa a chi vuole uscire da un percorso difficile per reinserirsi nella società, dare dignità alla persona attraverso il lavoro, il rispetto delle regole e il riappropriarsi delle relazioni con gli altri. “Per chi si trova in detenzione domiciliare, c’è anche un tema economico”, aggiunge Silvia Lessona, coordinatrice del Gruppo di ricerca lavoro del progetto “Impresa accogliente”: “la persona non esce di casa, ma l’affitto, la bolletta, la spesa continuano ad avere un impatto”. Per ogni beneficiario occorre individuare, tra le varie aziende che hanno dato la propria disponibilità, la più attinente alle sue inclinazioni. “A volte basta un’intuizione”, dice Eula, “altre volte serve un grosso lavoro di ascolto da parte dei volontari”. Nel caso di Sharon, l’intuizione è stata quella giusta: “È molto motivata e portata”, conferma Valeria Gai, vicepresidente ed educatrice della cooperativa sociale La Contrada. “La nostra sartoria è un luogo di formazione e occupabilità, ma anche uno spazio di socializzazione. Non a caso le operatrici sono tutte sia sarte sia educatrici, e non a caso abbiamo scelto questo nome: Vicini di vita. Lo siamo a 360 gradi: il laboratorio è il territorio in cui camminare insieme per un pezzo di vita, e poi proseguire verso l’autonomia”. Milano. Storie sbagliate, ma in carcere può nascere la scoperta dei propri talenti comune.rho.mi.it, 23 maggio 2025 Un successo al Teatro de Silva la serata con Trasgressione Band e il racconto di detenuti e volontari. Terza serata, venerdì 16 maggio, per la rassegna “Riflessioni” al Teatro Civico di Rho. Ospite la Trasgressione Band guidata dallo psicoterapeuta Juri Aparo, con le testimonianze di detenuti, ex detenuti e volontari che operano nelle carceri milanesi. Sono stati proposti numerosi brani di Fabrizio De André, magistralmente arrangiati da Alessandro Radice. Aparo è partito dal brano “Una storia sbagliata”, sulla scia delle reazioni collettive alla vicenda di Emanuele De Maria, che ha ferito un uomo, ucciso una donna e si è suicidato dalle guglie del Duomo di Milano mentre era in permesso per lavoro durante la sua detenzione al carcere di Bollate: “Sono storie sbagliate quelle di chi spaccia, rapina, uccide. La prima reazione di tutti è quella dello smarrimento, dell’indignazione, della voglia di escludere dalla vista persone che raggiungono tanta nefandezza, tanto delirio, tanto disconoscimento della realtà dell’altro. Io lavoro in carcere da 45 anni e, dopo la prima reazione emotiva che ha la sua ragion d’essere, diventa mio compito, persino mio dovere, interrogarmi su come sia possibile, quali siano gli elementi, le circostanze che fanno in modo che una persona possa giungere a tanto delirio. Queste domande me le pongo con il Gruppo della Trasgressione, un gruppo di persone in parte detenute, in parte ex detenute, studenti universitari, familiari di vittime della criminalità organizzata. Ci si riunisce attorno a un tavolo tutte le settimane e insieme si cerca di capire quali siano state le componenti che avevano obnubilato vista e coscienza. Insieme con queste persone non ci si limita a ragionare ma si cerca di individuare percorsi utili per fare in modo che questa coscienza polverizzata, emarginata, oscurata, torni a dire la sua per contribuire alla costruzione del bene collettivo. Coi detenuti che partecipano andiamo nelle scuole per la prevenzione contro devianza, bullismo e dipendenze; ci occupiamo di storie sbagliate per tentare insieme di costruire storie che abbiano una meta che non siano il carcere e il dolore”. La Trasgressione Band ha scelto i brani di De André perché Faber “ha cercato le qualità dell’uomo nella imperfezione”. Via, dunque, con “La città vecchia”, “Andrea”, “Princesa”, “La canzone di Marinella”. Poi le prime testimonianze di chi ora è libero ma sa di avere toccato il fondo ed è passato “da sogni e abusi, a una officina di sentimenti”. Le storie sono tante: Antonio, Mohamed, Raffaele e altri ancora. Miste a quelle dei volontari. C’è chi si è riscattato per non far soffrire ulteriormente i propri figli, chi ha riacquistato fiducia scoprendo a poco a poco i propri talenti, chi scrive poesie per esprimere “il meglio di sé”. C’è chi ha tolto la vita a una persona, ha scontato sedici anni in cella e si sente “una storia sbagliata di periferia”: “Cercavo un ruolo che non mi è stato dato. Il dialogo e il confronto con il Gruppo della Trasgressione mi hanno aiutato e ora parlo con i ragazzi delle scuole”. Tanti i passaggi dalla marginalità a una consapevolezza delle proprie qualità. Forti anche i messaggi dei volontari, come quello di Nuccia: “Ho imparato che quelle che a volte si credono libere scelte, a volte sono condizionate. A quel tavolo ho capito che, in caso di scelte estreme, emozioni e frequentazioni diventano determinanti. Accettare la ricognizione di stati d’animo, sensazioni, emozioni che hanno portato a commettere soprattutto le prime scelte sbagliate significa mettersi in gioco e cominciare a riflettere su sé stessi. E avviare un percorso di cambiamento. Molti scoprono parti di sé che credevano perdute o non conoscevano. Questo può avvenire solo se si ha l’opportunità di avere contatti e confronti con il mondo esterno. Se rimane in una dimensione di chiusura e abitudini inveterate non potrà nascere qualcosa di diverso. Conoscendo gli abitanti delle prigioni, uno si rende conto che ci sono due momenti importanti nel cammino di riabilitazione: uno è la restrizione dietro le sbarre, che è necessaria (qualcuno dice “meno male che mi hanno fermato”), poi dovrebbe seguirne un altro in cui assieme a professionisti si possa iniziare un percorso di ricostruzione della coscienza”. Nuccia ha citato un verso di Ungaretti: “Cerco un paese innocente”. E ha commentato: “Nessuno qui è innocente. È una categoria attribuibile all’infanzia. Ma facendo scelte che ci portino lontano dalla mediocrità ci avviciniamo all’innocenza, la direzione è quella giusta”. L’assessora alla Cultura Valentina Giro ha inquadrato l’iniziativa nel ciclo di appuntamenti di “Riflessioni”, pensati come momenti in Teatro in cui dialogare su diversi temi: si è parlato di spiritualità, di popoli che cercano la pace, di mondo dentro e fuori dal carcere. Ha ricordato che il Gruppo della Trasgressione aveva già attirato un folto pubblico lo scorso anno trasmettendo grandi emozioni, spiegando che parlare di carcere non è semplice ma è essenziale e fondamentale in un Paese civile. Infine, ha espresso un particolare ringraziamento a Luigi Negrini, per avere supportato l’organizzazione della serata. Il Sindaco Andrea Orlandi ha chiuso la serata complimentandosi con i musicisti e con chi ha raccontato il proprio vissuto. Ha evidenziato come, proprio in teatro, tutti abbiano tolto la propria maschera: a volte la società è in contrasto con le vite vere, spesso si mascherano le sofferenze, che invece vanno affrontate. Il Sindaco ha dichiarato che una parte della condanna subita dai detenuti in parte la meritano tutti, perché se qualcuno è arrivato a commettere errori forse un po’ è colpa della società e delle comunità che costruiamo. L’invito è a ripartire da questo per dare vita a un futuro migliore. Catania. Lettere dal carcere, scambi tra studenti e detenuti dell’Ipm radiounavocevicina.it, 23 maggio 2025 Un laboratorio per abbattere i muri che separano vite diverse. Lettere dal carcere. Missive scambiate tra chi è fuori e chi, invece, nonostante la giovane età, è costretto per un periodo a stare “dentro”. Uno scambio che diventa possibilità e crescita, ma anche un modo per accorciare le distanze e per abbattere le pareti, non solo fisiche, che separano esperienze di vita diverse. È tutto qui il senso del laboratorio “Corrispondenze”, portato avanti dal Cag (Centro aggregazione giovanile) di piazza Bovio, a Catania, con la collaborazione dell’istituto “Regina Elena” di Acireale, del Cpia (Centro provinciale per l’istruzione degli adulti) 2 di Giarre, e dell’Ipm (Istituto penale per i minorenni) di Acireale. In queste settimane, le alunne e gli alunni del liceo acese hanno avuto l’opportunità di scambiare delle lettere con altrettanti giovanissimi che attualmente stanno trascorrendo una parte della loro vita all’Ipm, seguendo i corsi del Cpia di Giarre. Per garantire che la privacy dei minori venga rispettata, le lettere vengono vigilate: non possono contenere informazioni con luoghi fisici (indirizzi e numeri civici), non ci possono essere nomi di battesimo e ogni partecipante sceglie un nickname col quale avviare la corrispondenza. Il percorso di scambio epistolare prevede prima una presentazione di sé: la risposta a un breve questionario di cinque domande che parla di passato e di futuro. Un ricordo bello, un progetto a lunga scadenza, il superamento di un brutto momento, l’analisi di un dolore provato. Da una parte gli studenti e le studentesse del Regina Elena, dall’altra i coetanei dell’Ipm. Tutte e tutti chiamati anche a scriversi opinioni sulle dinamiche familiari, la suddivisione dei compiti nelle coppie o la genitorialità. Il laboratorio è condotto da Cristiano Licata e Alberto Incarbone, entrambi operatori sociali Sai (Sistema accoglienza integrazione) e animatori, dipendenti della cooperativa Futura ‘89 (di cui è responsabile Liliana Di Maria), che gestisce il Centro di aggregazione giovanile di piazza Bovio. Licata e Incarbone si occupano della ricezione, del controllo e della consegna della corrispondenza. La scuola, il Centro per l’istruzione degli adulti e l’Istituto penale minorile seguono allievi e allieve coinvolti con insegnanti, educatori ed educatrici. Le referenti del progetto sono: le professoresse Agata Arcidiacono e Clara Grasso per il Regina Elena; Katerina Maddi per il Cpia 2 di Giarre che opera all’Ipm (dirigente scolastica Rita Vitaliti); le educatrici Rita Scandura e Marinella Patanè per l’Ipm di Acireale (direttore Girolamo Monaco). Il Cag di piazza Bovio offre sostegno allo studio e attività di animazione a 38 minori, figli e figlie di famiglie con Isee inferiore ai diecimila euro. La struttura è aperta da maggio 2023 ed è diventata, in poco tempo, un punto di riferimento delle numerose famiglie che fruiscono del servizio gratuito. La maggior parte di loro vive a San Berillo, nella zona della Fiera e in quella di piazza Bovio. Il progetto “Corrispondenze” è realizzato con fondi ex Pon Metro 2014-2020 del Comune di Catania. Cremona. Reinserimento sociale detenuti: “Ape? Sì” in pista coi Radicali cremonaoggi.it, 23 maggio 2025 Continua il percorso di visite ispettive organizzate dall’Associazione Radicale Fabiano Antoniani presso la Casa Circondariale di Cremona Ca’ del Ferro al fine di mantenere vivo il confronto con la Direttrice Antonicelli e la Comandante Tognali in missione presso la struttura. Da tempo ormai le visite cercano di rispondere alla necessità riscontrata dall’Associazione di attivarsi dall’esterno, per riuscire a coltivare una connessione con la cittadinanza e far comprendere al mondo fuori dalla Casa Circondariale che il reinserimento sociale del reo è possibile, seppur reso difficile dalle peculiarità della struttura detentiva. In occasione della visita, alcuni membri dell’Associazione sono stati accompagnati dal Consigliere Comunale Paolo La Sala e dai ragazzi della realtà di Ape? Sì. “Il tasso di sovraffollamento continua a presentarsi come alto, attestandosi al 140%, per un totale di 540 detenuti ristretti presso Ca’ del Ferro” racconta Vittoria Loffi, segretaria dell’Associazione e Consigliera comunale a Cremona, che continua “nonostante le problematiche poste dai numeri, cui va aggiunto anche il dato per cui il 60% della popolazione detenuta è straniera, la Casa Circondariale risponde con molteplici progettualità, tutte indirizzate verso il reinserimento lavorativo di detenuti in Art. 21 o semiliberi”. In visita anche il Consigliere comunale Paolo La Sala, che sottolinea come “la casa circondariale di Cremona meriti attenzione. Da tempo si trova ad affrontare problemi diversi: manca il personale, spazi adeguati e risorse sufficienti per lavorare al meglio. Questo rende tutto più difficile, sia per chi ci lavora che per chi è detenuto”. “Nonostante queste difficoltà”, prosegue il Consigliere, “voglio ringraziare sinceramente la Direzione e tutto il personale della Polizia Penitenziaria. Ogni giorno, con grande impegno e senso di responsabilità, cercano di garantire ordine, sicurezza e rispetto per le persone, facendo il possibile per offrire un servizio dignitoso”. “In particolar modo, merita attenzione e riconoscimento, il costante impegno nel fornire percorsi educativi e formativi all’interno della struttura, perché l’educazione e il reinserimento sociale sono fondamentali per dare una seconda possibilità e costruire un futuro diverso” conclude La Sala. Secondo Luigi Camurri, avvocato e fondatore dell’Associazione Radicale “l’ingresso in carcere di realtà del territorio, soprattutto giovanili e impegnate per contribuire alla dimensione sociale della città è per noi un risultato importante che sta a testimoniare il fatto che una struttura detentiva può e deve interessare i cittadini e coinvolgerli in percorsi riparativi dentro e fuori le mura”. “Abbiamo avuto il piacere di visitare il carcere per un incontro che ha segnato l’inizio di una collaborazione tra la nostra nuova attività e la struttura carceraria” raccontano, invece, Marco Boldori e Araken Makhlouf di Ape? Sì, in visita insieme all’Associazione. “Siamo stati colpiti dalla professionalità e dalla dedizione del personale direttivo del carcere, che ha dimostrato un grande interesse e sostegno verso la nostra iniziativa”. “L’obiettivo comune è quello di promuovere la riabilitazione e la reintegrazione dei detenuti nella società, attraverso progetti di socializzazione e inclusione. Siamo convinti che la sinergia tra la nostra attività e il carcere possa avere un impatto positivo sulla vita dei detenuti e sulla comunità tutta” concludono. Seconde generazioni e rabbia, Fabri Fibra: “Lo Stato non li aiuta” di Emanuela Del Frate Il Domani, 23 maggio 2025 “Non capisco come la politica si stupisca che scrivano testi così forti e così contro tutti, è proprio tutto il sistema a essere contro di loro”. Il rapper che ha rotto per primo il muro del mainstream torna con un nuovo album: Mentre Los Angeles brucia. “Perché mentre nel mondo succede di tutto, ognuno di noi va avanti con la propria vita, anche egoisticamente”. “Quanto è labile il confine tra diffamazione e censura nel rap? È stato un giudice che ha deciso quanto è labile il confine. Ma la libertà di espressione la può decidere un giudice?”. Fabri Fibra commenta così la condanna per diffamazione arrivata pochi giorni fa a seguito di una denuncia di Valerio Scanu per una sua canzone del 2013. La prima a un rapper italiano. A due anni di distanza dal suo ultimo Caos, torna con un nuovo album: Mentre Los Angeles brucia, in uscita il 20 giugno, prima del tour estivo che partirà il 7 luglio dal Circo Massimo di Roma. Ad anticiparlo il singolo Che gusto c’è, “per certi versi, il capitolo successivo di Propaganda”, con il featuring di Tredici Pietro (figlio di Gianni Morandi). Un’altra istantanea vista con gli occhi del rapper che, per primo, ha sfondato il muro del mainstream. Tra Caos e il nuovo album, la partecipazione, in veste di giudice con Rose Villain e Geolier a Nuova scena, talent rap di Netflix, e un solo singolo: In Italia 2024, attualizzazione del brano pubblicato nel 2009, con il featuring di Gianna Nannini. E che, questa volta, vede la partecipazione di Emma Marrone, Baby Gang e che, nel videoclip, ospita anche Ilaria Cucchi. Dice spesso che la sfida è continuare a fare qualcosa che non ha mai fatto. Cosa ci dobbiamo aspettare da questo nuovo album? Il rap è una musica che va veloce: in un paio di anni cambia tutto. Anche solo scrivere su dei beat nuovi è un modo per mettersi in gioco. Scelgo sempre situazioni in cui ci sono cose non dette e da cui riesco a trovare ispirazione. Ci sono stati dischi più introspettivi, altri più sentimentali. Ora spero di essere riuscito a dare un profilo adulto al rap, un genere spesso attaccato perché violento o banale. Poi c’è il fattore età: ovviamente quello che racconti a 45-50 anni è diverso da quello che avevi da dire quando ne avevi 20. Che istantanea regala al suo pubblico nel singolo Che gusto c’è? Parlo di quello che succede nel nostro paese, e il mercato musicale è quello che spesso prendo di mira, come in questo primo singolo, perché è l’ambiente dove lavoro. Parlo di invidia sociale, faccio la fotografia del mercato musicale, però cercando sempre di essere ironico. L’ironia è sempre fondamentale nei miei pezzi, non sto con il dito puntato. Nel pezzo realizzato per il 64Bars, in cui cita anche l’incontro tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky, dice proprio: “Tutti qui a rappare per la grana”... Il rap italiano non credo che sia mai stato così grande come adesso. Ai tempi di Bugiardo, eravamo veramente pochi. Adesso ogni venerdì escono almeno cinque canzoni di cinque rapper diversi. Uno arriva e uno sparisce, è un mercato che crea e uccide a una velocità incredibile. È una situazione che crea ansia. Vedo gente che non fa più neanche i dischi, ma solo singoli, per esserci il venerdì. I due anni di lavoro che ho impiegato per il mio album occuperanno un solo venerdì. Puoi cadere nell’illusione di dover competere per forza con tutti, in una vastità di musica infinita. In realtà non è così: devi concentrarti su quello che vuoi dire e prendere il posto che la tua musica si merita. È tutto per la grana, perché dietro ci sono sponsor e contratti. Fa moltissimi featuring, specie con le nuove generazioni di rapper, come nel caso Tredici Pietro. Cosa le restituiscono? La musica mi offre questa opportunità. È stimolante, a volte anche spiazzante. Quelli che cambiano sono i punti di riferimento, ma i passaggi della vita sono quelli. A 20 anni sei insicuro, c’è molta ansia sociale nei ragazzi di oggi perché sono schiacciati dalla competizione. Ma, in fondo, ne era segnata anche la mia adolescenza. A livello musicale è stimolante perché ci sono persone molto talentuose. Presentando il nuovo album dice: “Mi sono reso conto di quanto le nostre vite siano ciniche ed egoriferite al punto che anche mentre una città brucia, un paese viene bombardato, noi continuiamo ad andare avanti”... Mentre Los Angeles brucia equivale a dire: mentre il mondo va a rotoli. Ho iniziato questo disco con un produttore a Santa Monica, quindi Los Angeles è da sempre presente nella creazione dell’album. Due anni dopo, mentre ero chiuso in studio per la consegna del master, in tv tornava sempre questa frase. “Mentre Los Angeles brucia, continua la guerra in Ucraina”, “Mentre Los Angeles brucia, viene eletto Trump”. Mentre Los Angeles brucia, io sto chiudendo il disco. Ho pensato: questo è il titolo. Mentre nel mondo succede di tutto, ognuno di noi va avanti con la propria vita, anche egoisticamente parlando. Parlando del featuring con Baby Gang ha detto: “La sua strofa è l’emblema di un’Italia sempre più multietnica”. Ma la politica sembra sempre un passo indietro. Ora il governo invita anche a non votare ai referendum sulla cittadinanza... A parte il discorso della cittadinanza, è proprio tutto il sistema a essere contro i ragazzi di seconda generazione. Spesso i padri sono rimasti nei loro paesi, vivono soli con le madri che lavorano tutto il giorno per uno stipendio bassissimo. La scuola non li aiuta nell’integrazione. Non capisco come la politica si stupisca che scrivano testi così forti e così contro tutti, perché lo stato non fa nulla per aiutarli. È il ventennale di Mr. Simpatia, album politicamente scorretto, con cui ha bucato il mainstream. Per quello e per i due dischi successivi, molte associazioni femministe hanno chiesto, per anni, che le venissero negati i palchi... Quel disco, quei testi, sono veramente stati l’11 settembre della discografia italiana, non c’è mai stato nulla di più violento. Presi in quel contesto in quel momento avevano significato, riletti oggi ne hanno un altro perché è cambiata la società. Quando sono usciti non avevano nessuno contro, hanno iniziato ad avere le femministe contro quando ho iniziato ad avere successo. Erano underground quando sono usciti. È stato il successo ad averli fatti diventare fastidiosi, tanto che sono stati criticati quasi 20 anni dopo, tirati fuori dal contesto in cui erano nati. Mi chiedo: hanno dato fastidio i testi o il successo che hanno avuto? Prima il minore, altro che “reato universale” di Francesca Paruzzo Il Manifesto, 23 maggio 2025 È incostituzionale il divieto che fino a ieri era imposto alla madre “intenzionale” di riconoscere come suo un figlio nato in Italia da procreazione medicalmente assistita (Pma) fatta all’estero. È dunque il consenso e solo il consenso, nell’ambito di una progettualità familiare condivisa, a far nascere i doveri e i diritti che sono propri dei genitori. Il consenso volontariamente assunto dalla madre biologica così come da quella intenzionale. Lo ha deciso la Corte costituzionale che al centro della sua pronuncia resa nota ieri ha messo l’interesse morale e materiale del minore, quale principio fondamentale riconosciuto e protetto dall’ordinamento internazionale, da quello sovranazionale e da quello interno. Il fine preminente è lo svolgimento della personalità del bambino e questa va promossa e valorizzata (anche) indipendentemente dal nesso tra legame biologico e genitorialità. È un principio tanto evidente quanto fin qui messo in discussione dagli ufficiali di stato civile dei comuni che di frequente oppongono ostacoli alle coppie omogenitoriali. E peraltro non solo dalle amministrazioni comunali, con comportamenti eteorgenei e imprevedibili riguardo alla possibilità di iscrivere o meno il nome della madre intenzionale del nato da Pma, ma anche dalle procure della Repubblica, che, più volte, negli ultimi anni, hanno richiesto la rettificazione dell’atto di nascita che già aveva riconosciuto entrambi i genitori, sia biologico che intenzionale. Così è stato nel 2023 quando la Procura di Padova e quella di Milano hanno impugnato, rispettivamente, 33 atti di nascita iscritti a partire dal 2017, la prima, e 3 atti di nascita, la seconda. Imprevedibili sono state anche le decisioni che hanno fatto seguito a queste impugnazioni: di inammissibilità da parte del Tribunale di Padova (con conseguente “conferma” dell’atto di nascita impugnato) e di accoglimento da parte della Corte di Appello di Milano (con conseguente rettifica dell’atto di nascita impugnato). A fronte di tali condizioni di incertezza, la Corte costituzionale ha rinvenuto un evidente contrasto con il diritto all’identità personale del minore (che si vede privato, sin dalla nascita, di uno stato giuridico certo e stabile) e con quello di vedersi garantito nelle situazioni connesse alla responsabilità genitoriale e ai conseguenti obblighi che da ciò derivano. Stabilendo che è il superiore interesse del bambino il principio da tutelare in questi casi. Ma questo, affermano i giudici costituzionali, non può dipendere dall’essere eterosessuale od omosessuale la coppia che ha avviato il percorso genitoriale, l’omogenitorialità cioè “non può costituire impedimento allo stato di figlio riconosciuto per il nato”. Si aprono le porte, in questo modo, a un’idea di famiglia che non abbraccia (più), grazie all’evoluzione della società e dei suoi costumi, il modello composto da una coppia di genitori di diverso sesso uniti da vincoli affettivi. È la stessa Corte a confermarlo con un’altra importante decisione, anche questa resa nota ieri. Una sentenza che, pur rigettando la questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Firenze in un caso proposto da una donna single, ammette che il legislatore possa consentire l’accesso alla Pma a diverse fattispecie di nuclei familiari, non essendo, il riferimento alla “famiglia tradizionale” una scelta costituzionalmente obbligata. Anche se la stessa sentenza esclude che possa ravvisarsi, in assenza di bilanciamento con il superiore interesse del minore, una pretesa costitutiva di un diritto assoluto alla genitorialità. Si tratta nel complesso di pronunce destinate ad assumere un significato e una portata storica. E che ha anche il merito di sollevare pesanti dubbi di costituzionalità sulla contestata legge Varchi, quella che ha istituito il “reato universale” per chi, all’estero, ricorre alla gestazione per altri. Una legge che appare adesso incompatibile con i principi di quest’ultima pronuncia della Corte costituzionale. Quale sarebbe altrimenti lo spazio, nel nostro paese, per la tutela del superiore interesse del minore? Ben poco, dal momento che la legge Varchi prevede l’incriminazione, la reclusione e il pagamento di ingenti somme di ogni coppia che rientra in Italia con un figlio e un certificato di nascita, regolarmente emesso sulla base della normativa straniera. Nelle conquiste sociali il diritto riesce laddove la politica fallisce di Mariano Croce* Il Domani, 23 maggio 2025 La sentenza della Corte costituzionale che riconosce alla nascita entrambe le madri di una famiglia non deve cogliere di sorpresa. Si allunga l’elenco delle riforme ottenute nelle aule di giustizia anziché in parlamento. Perché i politici si pongono in un’ottica fuori dal tempo. Che si provi nostalgia oppure no per la novecentesca politica dei partiti e dei parlamenti, essa è per noi come la radiazione cosmica di fondo: la traccia impercettibile di un passato distantissimo. Oggi le più significative riforme in molti campi della vita associata passano per le Corti. La sentenza n. 68/2025 della Corte costituzionale riafferma con mirabile coerenza questo stato di cose, che impone una presa d’atto meno sgomenta e impreparata. In sintesi, la sentenza stabilisce che è contro la Costituzione vietare alla madre intenzionale di riconoscere come proprio il figlio nato in Italia da procreazione assistita legittimamente praticata all’estero. Asserisce altresì che non sussistono ostacoli di natura costituzionale a un’eventuale estensione, ad opera del legislatore, dell’accesso alla procreazione assistita anche a nuclei familiari diversi da quelli attualmente indicati. Tutto ciò potrebbe sembrare l’esito di una semplice benché scrupolosa ricognizione del diritto costituzionale vigente. Ma c’è molto di più. C’è l’esclusione di una presunta “inidoneità genitoriale, in sé, della coppia omossessuale”; c’è l’idea, massimamente illuminata, che la costruzione di legami parentali abbia a che fare col “comune impegno volontariamente assunto”; c’è la tesi dirompente secondo cui l’intenzione e gli affetti vengono prima del sangue. E in questo c’è qualcosa di davvero notevole: i giudici fanno leva non tanto (certo anche) sul principio del superiore interesse del minore, quanto su un’intera teoria della parentela - quella che per comodità, e non senza qualche imprecisione, si usa chiamare “queer”. La sentenza n. 68/2025 nutre l’immagine della famiglia come una rete di relazioni costituite da pratiche di obbligo volontario, sostegno e cura nei confronti di altri che riteniamo particolarmente significativi e che amiamo. A meno che non si voglia pensare l’attuale Corte come composta di impenitenti attivisti da marcia dell’orgoglio, viene da chiedersi come e perché i suoi membri riescano a porsi in un’ottica che la politica ostinatamente rifiuta. Sia quella di destra, legata a ideali certo legittimi, ma che suscitano melancolia per la loro morbosa e pervicace tendenza a leggere la realtà con le categorie del primo Novecento - quando quelle categorie olezzavano già di rancido. Sia quella di sinistra, che muove da solenni dichiarazioni di principio, secondo lo schema dell’infinita compossibilità dei diritti, salvo astenersi dal tradurli in legge quando si trova al governo. Come mai, dunque, il diritto riesce là dove la politica fallisce con tanto studiata sistematicità? Perché una corte, e non il parlamento, vede come il primo dei suoi problemi quello di riconoscere i bisogni più urgenti e nodali della cittadinanza? Forse perché questo manipolo di non-eletti - secondo la comoda caricatura di un’erronea vulgata - fa suo il punto di vista di una società che abbisogna di strumenti per regolare le interazioni in modo tale che, nel caso insorgessero conflitti, ciascuno sappia cosa aspettarsi e a chi rivolgersi. Se il diritto fissa le regole che guidano la condotta, stabilizzano le aspettative e tutelano le parti più deboli, sta nelle cose che le corti affrontino il problema dirimente di come cambiare queste regole quando cambia il mondo. Si dirà che la politica fa ben altro: immagina mondi alternativi, pretende il concretarsi di altissime idealità, riduce la distanza tra realtà e utopia. Ma questa politica, che pure seppe scolpire il nostro Occidente, la si trova ormai solo nei manuali di storia del pensiero politico (dove anzi continua ad abbondare). Oggi la gente vuol morire senza accanimenti, poter tirare su famiglia, non annegare quando insegue una vita meno ingrata, respirare un poco d’aria se finisce in galera. Per tutto questo, la politica odierna - priva d’idee più che di ideali - non ha tempo. Se così è, la supplenza “legislativa” delle Corti sarà pure un’anomalia, ma di quelle che illustrano al meglio il perché, da che fu “inventato”, il diritto abbia l’istintiva e compiaciuta tendenza a pensarsi come il più inestimabile dei lasciti della nostra antichità. *Filosofo La disinformazione del Governo sulla cittadinanza di Vitalba Azzollini* Il Domani, 23 maggio 2025 La consultazione referendaria sulla cittadinanza sta diventando per i politici della maggioranza l’occasione per ripetere gli usuali slogan propagandistici e dissimulare una certa ipocrisia sul tema immigrazione. Una consultazione referendaria dovrebbe essere il momento essenziale per consentire alle persone di comprendere chiaramente la questione sottoposta al loro voto. Invece, ci si avvicina al referendum dell’8 e del 9 giugno tra poco argomentati inviti all’astensione, in spregio al “dovere civico” del voto, e affermazioni prive di fondamento, con cui i politici di maggioranza sostanziano la propria propaganda. In particolare, circa il quesito sulla cittadinanza ciò è di tutta evidenza. Pertanto, serve smontare alcune sciocchezze che si sentono in questi giorni. Va premesso che attualmente il cittadino di un paese che non fa parte dell’Unione europea deve risiedere legalmente dieci anni in Italia per poter chiedere la cittadinanza. L’obiettivo del quesito referendario è ridurre questo periodo a cinque anni. Le bufale delle motivazioni contrarie - Tra le motivazioni contro il Sì c’è quella per cui l’Italia è il paese dell’Ue che concede più cittadinanze, e pertanto non serve allentare i relativi criteri. È vero che l’Italia ha il primato in Europa, ma - come riferisce Pagella politica - se si rapporta il numero delle nuove cittadinanze a quello dei residenti nel paese, l’Italia passa al quinto posto dietro Svezia, Lussemburgo, Belgio e Spagna. Peraltro, la normativa italiana è più stringente rispetto a quella di altri paesi. Per chi è nato in Spagna, è sufficiente risiedervi legalmente per un anno prima di poter richiedere la cittadinanza. E in Germania i bambini stranieri diventano cittadini tedeschi se, al momento della loro nascita nel paese, almeno uno dei genitori risiede legalmente in Germania da cinque anni, con un permesso di soggiorno permanente. Un’altra delle affermazioni contro il Sì è che cinque anni sarebbero pochi per imparare la lingua italiana e, quindi, per integrarsi effettivamente. Chi avanza questa obiezione omette di dire che, al di là degli anni di residenza, restano fermi tutti gli altri paletti per l’acquisizione della cittadinanza. Tra questi, la conoscenza certificata della lingua italiana ad un livello non inferiore al B1 e la percezione di redditi sufficienti al sostentamento, oltre alla fedina penale pulita e altro. Dunque, chi chieda la cittadinanza senza saper parlare l’italiano o senza disporre di un lavoro, e quindi di un certo reddito, continuerà a non ottenerla, esattamente come accade ora, anche se gli anni passino da dieci a cinque. Del tutto infondata è pure l’affermazione per cui la riduzione dei tempi per diventare cittadini rappresenterebbe un incentivo per l’arrivo di migranti irregolari. Quelli che non riuscissero a ottenere un permesso di soggiorno per protezione internazionale, prima di poter pensare alla cittadinanza, dovrebbero regolarizzare la propria situazione. Ma ciò potrebbe avvenire solo attraverso un provvedimento di “sanatoria”, assai improbabile da parte dell’attuale governo. La farsa del decreto flussi - Il paradosso è che il governo Meloni, come già i precedenti, ha realizzato una sanatoria di fatto, “mascherata” attraverso lo strumento triennale del decreto flussi. Con l’ultimo, ha disposto l’ingresso regolare in Italia, tra il 2023 e il 2025, di circa 450.000 lavoratori, il numero più alto degli ultimi anni. Il meccanismo dovrebbe essere questo: il datore di lavoro, su una piattaforma del Viminale, presenta la domanda di assunzione di una persona che vive all’estero e, se la domanda è accettata, la assume dopo l’arrivo in Italia. Ma è palese che nessuno assumerebbe individui che non ha mai conosciuto, specie per mansioni delicate quali baby sitter o badanti. In realtà, in molti casi, si finge che lo straniero, il quale già lavora in Italia senza permesso di soggiorno, si trovi nel proprio paese e che entri legalmente con la richiesta nominativa. Ciò è noto da tempo, ma il governo mostra di ignorarlo. Dunque, il problema sono gli anni per ottenere una cittadinanza, con cui si consentirebbe a persone già integrate di divenire italiane a ogni effetto, o l’ipocrisia della propaganda che esponenti dell’esecutivo continuano a fare sul tema dell’immigrazione? *Giurista Referendum cittadinanza: col Sì diremo ai giovani di origine straniera che questo è anche il loro Paese di Filippo Miraglia* Il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2025 È un primo passo che darà la possibilità a molte persone di sentirsi finalmente parte del Paese in cui vivono e per il quale contribuiscono ogni giorno. I referendum dell’8 e 9 giugno rappresentano un passaggio importante per la nostra democrazia. Raggiungere il quorum è possibile e per farlo è importante tenere insieme la lotta per i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori con quella per il diritto alla cittadinanza. I diritti umani, i diritti civili e i diritti sociali sono sotto attacco da molti anni e le nostre democrazie, che sembravano spazi sicuri per garantirli, luoghi di emancipazione delle persone, sono diventate luoghi nei quali si afferma sempre più la legge del più forte, in sfregio ai principi fondanti della Costituzione. Nel nostro Paese da più di trent’anni c’è una legge sulla cittadinanza che produce effetti negativi su centinaia di migliaia di persone che nascono in Italia, che frequentano scuole e università, che lavorano e che sono costrette ad attendere più di dieci anni per avanzare la richiesta di vivere, almeno formalmente, nelle stesse condizioni di tutti gli altri e tutte le altre. Una legge sbagliata, la legge n.91 del 1992, con conseguenze negative sulla nostra società e sulla nostra democrazia. Il referendum non è una riforma, la riforma che servirebbe. Vuole ottenere però un risultato piccolo ma molto importante: la riduzione del periodo necessario ad avanzare la richiesta di cittadinanza da dieci a cinque anni, permettendo così anche la trasmissione automatica della cittadinanza ai figli e figlie minorenni. È un primo passo che darà la possibilità a molte persone di sentirsi finalmente parte del Paese in cui vivono e per il quale contribuiscono ogni giorno. ?I dati pubblicati di recente dall’Istat ci dicono infatti che il nostro Paese sta già spingendo molti giovani a cercare lavoro all’estero. Tra questi è crescente la percentuale di giovani di origine straniera che, oltre a non trovare un lavoro dignitoso nel nostro Paese, non si sentono a casa loro in un’Italia che li considera e li tratta da estranei. Quello che è in gioco quindi non è solo una singola modifica di una legge sbagliatissima, ma è anche un segnale che la società italiana può dare alle persone di origine straniera, soprattutto a ragazzi e ragazze che qui sono nate e cresciute. Con il Sì al referendum sulla cittadinanza diremo a loro che questo è anche il loro Paese e che la maggioranza degli italiani e delle italiane li considerano cittadin* alla pari. In Italia, come nel resto dell’Unione Europea, in questi anni c’è stato un progressivo peggioramento della rappresentazione pubblica del mondo dell’immigrazione, che è servito ad alimentare odio e rancore, giustificando interventi legislativi e politiche repressive e liberticide. L’uso strumentale del tema dell’immigrazione per fini elettorali ha rappresentato la fortuna di alcuni movimenti e partiti politici e di singoli leader, che hanno costruito la loro carriera attraverso campagne anti immigrazione. Questo processo, che oramai dura da più di due decenni, si è sempre più consolidato anche per l’assenza di una alternativa. Nel dibattito pubblico, caratterizzato da una presenza asfissiante di politici e giornalisti e dall’assenza quasi totale della società civile e, ancor di più, delle stesse persone di origine straniera, non c’è mai stato un soggetto che abbia investito con la stessa forza e determinazione sull’idea di una società aperta e plurale, come unica via per una democrazia matura. All’impegno straordinario delle destre xenofobe, che puntano a indirizzare i propri elettori e, più in generale, i cittadini e le cittadine italiane, quindi a perseguire l’egemonia, ha corrisposto un impegno debole e frammentato delle forze democratiche e di sinistra, spesso caratterizzato da un approccio difensivo e impaurito dall’opinione pubblica. Il referendum è uno strumento che consente agli elettori e alle elettrici di esprimersi direttamente su una questione specifica, di rilevanza politica e culturale, senza doversi affidare alla mediazione dei partiti. In questi ultimi anni infatti, come dimostrano tutti gli ultimi appuntamenti elettorali, l’astensione ha raggiunto numeri davvero preoccupanti. Non c’è solo un cambiamento nella società e nella mancanza di consapevolezza che le persone hanno della centralità della partecipazione al voto per determinare il futuro comune. C’è senz’altro anche un progressivo allontanamento dei partiti dalla società, che ha prodotto una crescente sfiducia e la conseguente alta astensione. Il referendum dell’8 e del 9 giugno è senz’altro una grande occasione per mobilitare tutte quelle persone e quelle forze sociali che hanno perso fiducia nei partiti, ma non nella politica intesa come partecipazione alla vita società nella quale viviamo. Mancano pochi giorni e bisogna fare ogni sforzo per motivare e coinvolgere quante più persone possibili. È una impresa difficile ma non impossibile. Un’impresa davvero importante per invertire la rotta di una società che rischia altrimenti il declino. *Responsabile Immigrazione Arci Nazionale Migranti. Porte aperte o chiuse? Ecco il dibattito attuale sul Cpr di Gradisca e il suo degrado di Aurora Cauter goriziaoggi.news, 23 maggio 2025 “Guantanamo italiana” è l’appellativo del Cpr di Gradisca d’Isonzo, uno dei dieci centri per il rimpatrio di immigrati irregolari presenti sul territorio nazionale. Da anni si sentono notizie di cronaca provenienti da centri di questo genere, tra rivolte, scontri, feriti, anche suicidi. Da Gradisca arrivano voci di trattenuti, che raccontano le condizioni (umanitarie, igienico-sanitarie, sociali) precarie, e delle forze dell’ordine. Quest’ultimi, che entrano nel centro per risolvere i disordini, denunciano la violenza nei loro confronti, contano i feriti e lamentano la fatiscenza della struttura, che impedisce di lavorare in sicurezza. La comunità non rimane silente, e l’opinione pubblica si divide tra chi si indigna e chiede la chiusura del Cpr e chi non è disposto a rinunciare a una struttura ‘simbolo di legalità’. Se il nostro obiettivo è raccontare la realtà oggettiva dei fatti, dobbiamo ascoltare più voci. Per capire le posizioni di coloro che vogliono mantenere aperto il Centro, abbiamo contattato il Segretario regionale del Sindacato autonomo di Polizia (SAP) Lorenzo Tamaro. Recentemente SAP si è espresso contrario al movimento NO Cpr, portando sul piatto l’importanza del centro come luogo di detenzione per gli immigrati irregolari. ‘Arrivare a una chiusura del centro non rappresenta un messaggio di legalità verso i cittadini, ma anche verso gli stranieri che arrivano in Italia in maniera regolare e affrontano correttamente la complessa burocrazia. La chiusura rappresenta un’ingiustizia anche nei loro confronti, perché le persone trattenute sono in attesa del rimpatrio, dal momento che sono soggetti irregolari e criminali che hanno commesso reati, alcuni anche molto gravi. Dobbiamo considerare che queste persone temono maggiormente i Centri di rimpatrio piuttosto delle carceri: nei primi si sono registrati molti più tentativi di fuga’, espone Tamaro. Riguardo alla nostra situazione: ‘Uno dei problemi principali del Cpr di Gradisca è la fatiscenza della struttura. Riteniamo necessaria una ristrutturazione integrale, non più interventi parziali e temporanei. Richiediamo degli interventi concreti in seguito ai numerosi e frequenti tentativi di fuga, le rivolte, e l’uso improprio degli oggetti presenti all’interno della struttura. Sulla base delle funzioni e delle necessità di entrambe le parti, si chiede la messa in sicurezza del luogo’. Poi, proprio riguardo questi lavori, il Segretario SAP può confermarne la presa d’atto, infatti dice: ‘Come sindacato abbiamo incontrato il Prefetto di Gorizia, la massima autorità che a livello locale può intervenire sulla questione, per dare voce alla precarietà delle condizioni di lavori delle forze dell’ordine. Il Prefetto ha garantito nel corso della riunione che tutte le necessità vengano soddisfatte in una ristrutturazione imminentè. Si parla di ‘telecamere inservibili, impianti di illuminazione, di raffreddamento e di riscaldamento quasi sempre malfunzionanti, cancelli carrai da spingere a mano, impianti idraulici con perdite costanti’, per cui si capisce come le condizioni oggettivamente e umanamente indegne in cui vivono i trattenuti sono motivo di rivolte. Di fronte a ciò, le parole di Tamaro esprimono la posizione del sindacato ‘Vogliamo che le condizioni dignitose per gli esseri umani vengano garantite, ma non è compito della Polizia giudicare se queste condizioni sono in questo momento umane o meno. La ristrutturazione terrà conto dei parametri di sicurezza previsti dalla legge, e si auspica che la messa in regola della struttura possa rendere pacifica la convivenza dei clandestini e il lavoro degli operatori’. Per riuscire ad effettuare i lavori importanti, il centro potrebbe essere chiuso, ma solo temporaneamente. Ma qui sorgerebbe un’altra questione, prontamente spiegata da Tamaro: ‘Il problema che ora sorge è una nuova collocazione fino alla conclusione dei lavori. Non essendoci altre strutture di questo tipo a Gradisca, e in generale in Regione, le persone dovranno essere portate in altre zone dell’Italia. Questo però rappresenta un’ulteriore peso sulle spalle della Polizia’. Una possibile soluzione a ciò? ‘Come SAP abbiamo avanzato anche l’augurio, che poi si traduce in concreta necessità, della presenza di altri Cpr, almeno uno per Regione, anche per dare all’Italia un quadro generale di sicurezza’. Un altro sindacato, COISP, davanti ai ‘bollettini delle guerriglie’ si indigna e richiama l’Amministrazione, denunciandone l’incuria e l’indifferenza, affinché si decida ad ‘attuare tutte le misure possibili per garantire che i nostri colleghi al termine del servizio facciano ritorno dalle loro famiglie camminando sulle proprie gambè. Ma leggendo le dichiarazioni di Silf, il sindacato italiano dei lavoratori di Finanza, ci poniamo in piano diverso: ‘Non ci sono più le condizioni per mantenere ancora aperta questa struttura. Con l’aumento del livello degli scontri, che ha causato il ferimento di tre finanzieri e di molti carabinieri e poliziotti, è a rischio la vita delle forze dell’ordine ed è intollerabile. La situazione non è più sostenibile e non può continuare a essere gestita con queste modalità’. A queste parole risponde Tamaro: ‘Dall’incontro con il Prefetto di Gorizia abbiamo capito che all’interno delle forze dell’ordine ci sono varie posizioni, e questa è un esempio. Al momento la Polizia, in particolare la rappresentanza del nostro sindacato, nutre fiducia e speranza che alle parole del Prefetto seguano i fatti: durante la riunione infatti, la voce che si è sentita di più è quella che chiede lavori per mantenere la struttura in sicurezza, e quindi assolutamente aperta.’ Ora vediamo le argomentazioni di chi vuole chiudere il centro. In questa sede per rappresentare la controparte abbiamo ascoltato le parole del Sindaco di Gradisca Alessandro Pagotto. Il Sindaco ha parlato anche alla recente manifestazione NO Cpr del 17 maggio, una marcia di circa 200 persone che ‘non riconosce in queste strutture la forma di gestione corretta per l’immigrazione’. Ma cosa significa avere nel proprio comune un centro di rimpatrio? ‘Abbiamo potuto constatare negli anni delle difficoltà. A Gradisca c’è la coincidenza del Cpr e del Cara, e si capisce come la presenza di queste due strutture per una cittadina di poco più di 6000 abitanti ha un impatto forte. Per oltre 20 anni la consapevolezza dell’uso e della gestione di questa struttura ha portato la comunità a sviluppare una certa idea. Anche attraverso atti e mozioni ufficiali del Comune si chiede, non solo per le persone trattenute, ma anche per i lavoratori, gestori, forze dell’ordine, la chiusura dei Centri’. Si parla al plurale, perché la convinzione di base è che queste strutture non sono in grado di gestire il fenomeno dell’immigrazione. ‘Tenga presente che in tutta Italia le persone trattenute nei Cpr sono una percentuale minima, 1 per cento rispetto alla totalità del fenomeno in oggetto. Attraverso queste forme non siamo in grado di gestire il fenomeno dell’immigrazione clandestina. I Cpr sono manifestazioni di come il Governo vuole gestire gli irregolari, ma non è un sistema efficiente: le persone trattenute vivono in condizioni peggiori rispetto a quelle delle carceri, e per alcuni si parla di lunga permanenza. Non sempre si riescono a trovare degli accordi con i Paesi d’origine dei detenuti in attesa di rimpatrio’. Il Sindaco ci tiene a ricordare che le rivendicazioni non si trovano su un piano politico-ideologico, ma umano: lo striscione a capo del corteo di scorsa settimana recitava ‘restiamo umani’. ‘Sappiamo che la modalità di mantenimento non è corretta. Le condizioni, per usare un eufemismo, sono piuttosto dure e poco degne per la gestione di vite umane. Bisogna ammettere che parte delle persone detenute sono accusate di reati gravi, ma è vero anche che altri hanno soltanto il permesso di soggiorno scaduto. La situazione non è accettabile perché prima di tutto siamo umani, e la dignità deve stare al primo posto’. Nel caso di una chiusura definitiva rimane però dell’incertezza sulla gestione concreta del fenomeno. In questo momento la comunità riconosce che ‘bisogna rispettare i ruoli, l’immigrazione non deve essere gestita da un’amministrazione comunale, le normative devono arrivare dallo Stato. Affermiamo però con certezza che quando si lede la dignità umana bisogna fermarsi’. Comunque la situazione attuale non è sostenibile, e se non si riesce ad ottenere una chiusura imminente, il gruppo NO Cpr chiede maggiore serietà nell’organizzare vite umane. C’è bisogno in un potenziamento della comunicazione tra gli Stati per riuscire a rimpatriare le persone in meno tempo. Secondo le nuove norme, i trattenuti possono stare nei Cpr per massimo 18 mesi, periodo che non tiene in considerazione il tempo scontato in carcere. Si vengono così a creare situazioni scomode e inspiegabili per i trattenuti, che sono costretti a scontare un’altra pena. Una soluzione può essere raggiunta, come dice il Sindaco, in una ‘ottimizzazione dei tempi, sovrapponendo il percorso amministrativo già in carcere, per garantire minore sofferenza dentro e una riduzione di costi della comunità fuori’. Spaccio di Cbd nella sede dei Radicali: un arresto di Giansandro Merli Il Manifesto, 23 maggio 2025 Disobbedienza contro il dl sicurezza. La norma equipara la cannabis light a quella con Thc. Blengino vuole farla arrivare davanti alla Consulta. Dopo aver insistito per tre giorni Filippo Blengino, membro del comitato nazionale dei Radicali italiani, è riuscito a farsi arrestare. Alle 15 di ieri pomeriggio davanti alla sede romana del partito sono arrivate tre volanti dei carabinieri. All’interno gli agenti hanno trovato Blengino dietro un tavolo pieno di bustine di cannabis light. All’esterno due manifesti con il faccione fumante di Marco Pannella, leader radicale scomparso nel 2016, e la scritta: “Cbd shop. Ti vendo il mio arresto”. Il manifesto ha assistito a tutta la scena, che si è svolta accanto alla redazione. Il “negozio” era stato aperto martedì per sfidare, in un gesto pannelliano, il decreto sicurezza che equipara la cannabis light, senza effetti psicotropi, a quella con principio attivo. Dopo le prime chiamate di autodenucia al 112, però, non era successo niente. Così mercoledì Blengino è andato a palazzo Chigi, ha steso un lenzuolo e lo ha riempito di bustine piene di infiorescenze. “Vendere una sostanza che non ha nessun effetto sulle persone significa spaccio. Questa è l’assurdità del governo Meloni”, ha gridato fino al fermo di polizia. Questa gli ha sequestrato i fiorellini, ma non lo ha denunciato. Pare non tutti conoscessero la nuova legge. Ieri, infine, l’esponente politico ha nuovamente chiamato i carabinieri, ma stavolta senza qualificarsi e rivolgendosi al commissariato di zona. “All’inizio gli agenti sono andati in tilt, non capivano che fare. L’atteggiamento è stato un po’ aggressivo finché si sono resi conto che si trattava di un gesto politico - afferma Blengino - Anche stavolta ho dovuto spiegare come si applica una norma che evidentemente è ancora sconosciuta per molti. Nonostante dei negozi siano già stati chiusi e alcuni rivenditori di Cbd accusati di spaccio”. Secondo i dati dei Radicali i posti di lavoro che rischiano di andare in fumo sono 22mila. Per un fatturato di milioni di euro. “A un certo punto mi hanno comunicato che ero in arresto - continua Blengino - In caserma hanno pesato la sostanza: 80 grammi. Sono stato denunciato per spaccio e rischio fino a 20 anni. Ma il pm di turno non ha convalidato l’arresto e dopo tre ore sono stato liberato”. Nel frattempo era passato a trovarlo il deputato di +Europa Riccardo Magi. I Radicali spiegano che “l’obiettivo della disobbedienza è smantellare una norma liberticida davanti alla Corte costituzionale”. Per Blengino non è la prima protesta di questo tipo. A dicembre scorso ha fumato dell’erba, due giorni dopo si è messo alla guida e ha chiamato i vigili chiedendo il test. Risultato positivo si è vista togliere la patente. Mercoledì ha ricevuto l’avviso di chiusura indagini. In quel caso la disobbedienza serviva a contestare la norma introdotta dal nuovo codice della strada che punisce chi guida dopo aver assunto sostanze psicotrope, a prescindere dall’effettivo stato di alterazione. La questione di legittimità costituzionale sul tema è poi stata sollevata davanti alla Consulta dal gip di Pordenone, ma in un altro procedimento. Il giudice chiede alla Corte di valutare se la rimozione delle parole “in stato di alterazione psicofisica” violi i principi costituzionali di ragionevolezza, proporzionalità e uguaglianza. L’11 aprile, invece, il ministero Infrastrutture e trasporti ha diramato una circolare affinché le condizioni di guida siano verificate attraverso analisi tossicologiche “capaci di circoscrivere l’assunzione in un periodo temporale definito”. Una prima marcia indietro del governo, nonostante dal ministero di Salvini sostengano che l’atto è “pienamente coerente” con la legge. Tutti contro l’antisemitismo. Ma cosa serve davvero a Israele? di Milena Santerini* Avvenire, 23 maggio 2025 La lotta sacrosanta per estirpare l’odio contro gli ebrei è indebolita dalla violenza a Gaza e dalle azioni che non rispettano i diritti umani dei palestinesi. Quello che serve è un cambio di rotta. L’attentato in cui sono stati uccisi due giovani funzionari dell’Ambasciata israeliana a Washington è stato, secondo le parole del Presidente israeliano Herzog, una delle voci più sagge del Paese, “un atto spregevole di odio, di antisemitismo”. Una violenza inescusabile e ingiustificabile ha interrotto due giovani vite e ha aggiunto altro terrore a una situazione, il conflitto in Medio Oriente, che sta diventando intollerabile. Colpire due civili inermi è inescusabile e alimenta un circolo vizioso di violenza di cui non si vede la fine. Ci si chiede cosa serva oggi per arrivare a quella pace disarmata e disarmante perseguita da papa Francesco e oggi da Leone XIV. Secondo il governo israeliano la ripresa dell’invio degli aiuti a Gaza, indispensabili a una popolazione stremata e senza cibo dopo il blocco deciso dagli inizi di marzo (invio ripreso in minima parte solo alcuni giorni fa), sarebbe diventato obbligatorio per non perdere gli aiuti dei Paesi alleati. I responsabili dell’Unione Europea, storici amici di Israele, oltre all’Onu, infatti, avevano protestato nei giorni scorsi per l’intollerabile situazione di milioni di persone nella Striscia. Ma la ricerca di una soluzione e il rispetto dei diritti dei civili e del popolo palestinese non possono essere frutto solo di una coercizione diplomatica, cioè per non perdere appoggi esterni, ma devono essere parte di una politica che rispetti i diritti di tutti. La domanda angosciata di molti è cosa serve davvero a Israele. Serve sicuramente che persegua la sua sicurezza, che ripristini una situazione di diritto in una terra martoriata, riprenda l’azione diplomatica proponendo una soluzione politica e non solo militare, che persegua la pace. Come ha chiesto ufficialmente il Ministero degli Affari Esteri italiano nella persona del Segretario generale Ambasciatore Guariglia il 21 maggio “Israele deve interrompere le operazioni militari a Gaza, deve puntare sul negoziato politico e diplomatico per la liberazione degli ostaggi israeliani e per raggiungere un cessate il fuoco che possa far ripartire un processo di pace”. Non serve, invece, che continui in azioni che non rispettano i diritti umani dei palestinesi. Non serve, soprattutto, a contrastare l’antisemitismo che riemerge dietro lo schermo della critica alle politiche israeliane. In questi anni, l’antisemitismo in Europa e in Italia è cresciuto o diminuito soprattutto in base alla situazione internazionale. Aumentava, cioè, in occasione di ogni Intifada o delle guerre nell’area, tornava sommerso nei periodi di calma. Con il Covid-19 si è riaffacciata l’antica idea del “sangue”, cioè l’accusa agli ebrei di cospirare contro vittime innocenti e bambini per avvelenare i pozzi e spargere la peste, e oggi per diffondere il virus. La guerra a Gaza ha dissepolto un odio antico? Sicuramente l’antisemitismo era aumentato spregevolmente anche nei giorni immediatamente successivi al terribile attentato del 7 ottobre, e prima della reazione israeliana contro Hamas, segno di correnti sotterranee che aspettavano solo un pretesto per tornare più visibili. Ma l’identificazione totale tra mondo ebraico della diaspora e Israele non aiuta a combattere questa piaga, e lo prova il fatto che molte comunità ebraiche nel mondo e molti cittadini israeliani non approvano gli eccessi del governo di Netanyahu, né le politiche discriminatorie. Il presidente Herzog, nel commento all’attentato negli Stati Uniti, ha aggiunto: “Il terrore e l’odio non ci spezzeranno”. In effetti, si chiede una resistenza al mondo ebraico: quella di non abbattersi all’idea che il mondo intero sia suo nemico, ma anche quella di non cedere al circolo vizioso della violenza. Dal dopoguerra sono state combattute molte battaglie in favore di diritti umani che hanno visto protagonisti vari esponenti del mondo ebraico: dalla definizione di genocidio di Raphael Lemkin, che oggi viene impropriamente rievocata per la guerra a Gaza, all’appoggio contro le discriminazioni verso gli afroamericani negli Usa, o contro l’apartheid in S7udafrica, o ancora contro la pena di morte, di cui fu coraggioso testimone Elie Wiesel, uno dei più noti sopravvissuti all’Olocausto. Le due vittime di Washington sono state colpite vicino al Capital Jewish Museum, un luogo significativo, come altri nelle nostre città, dove si lavora per la conoscenza del mondo ebraico, il ricordo storico e il dialogo. Dobbiamo contribuire tutti perché la memoria delle vittime innocenti della Shoah e la lotta all’antisemitismo non siano indebolite dalla violenza di oggi. *Già Coordinatrice nazionale per la lotta contro l’antisemitismo alla Presidenza del Consiglio Le vere radici dell’orrore in Palestina di Franco Corleone L’Espresso, 23 maggio 2025 Quello che succede a Gaza è un’apocalisse, una catastrofe dell’umanità e della ragione. Netanyahu è colpevole di un moderno genocidio o soltanto di una pulizia etnica senza limiti? I bombardamenti non hanno distrutto solo case, scuole, ospedali e ucciso migliaia di civili, ma hanno ammutolito le persone dell’Occidente, hanno provocato la perdita delle forme della politica e le “parole per dirlo” e il silenzio è inevitabilmente complice. Questo segno di impotenza nasce dalla convinzione che tutte le soluzioni immaginate negli anni, una per tutte - due popoli due Stati - sono divenute irreali e impraticabili. La crudeltà ha preso il sopravvento in quella terra contesa e l’accusa, che suona come ricatto, di antisemitismo se la si condanna, rappresenta il trionfo dell’ipocrisia e del fariseismo. È bene demistificare e dire che la costruzione di Israele non ha a che fare con la Shoah, ma nasce ben prima; da un sogno di ricerca di un focolare per sfuggire a pogrom e persecuzioni verificatesi in Europa. Bisogna risalire agli anni della Prima guerra mondiale con l’occupazione inglese della Palestina nel 1917 e con il ruolo del segretario per gli affari esteri lord Balfour, favorevole alla creazione di uno Stato ebraico. Camillo Berneri, autorevole esponente anarchico, in un articolo pubblicato sulla rivista “Vogliamo!” nel novembre del 1929, chiariva la situazione della presenza sionista sulla base di elementi politici e di dati demografici. L’analisi delle caratteristiche economiche, sociali e culturali dell’immigrazione ebraica esplosa tra il 1919 e il 1927, metteva in luce una contraddizione sulla possibile convivenza con gli arabi. Berneri sottolineava che il problema del sionismo andava risolto in Europa: “Basta il fatto che nel 1925 il 50,5 per cento degli immigrati ebrei in Palestina derivava dalla Polonia per dimostrare che l’idea della ricostruzione della nazione ebraica è cresciuta e si è sviluppata su un terreno di sofferenze, di timori, di inferiorità che degli ebrei ha fatto e fa tuttora in alcuni Paesi una razza reietta”. E profeticamente aggiungeva: “I sionisti che pretendono di aprire la Palestina a un’illimitata corrente migratoria ebraica non possono che volere la diaspora araba”. Il destino deciso dall’imperialismo inglese si è costruito da allora sull’odio e sul sangue. C’è un’altra voce significativa da ricordare, quella di Nello Rosselli, trucidato con il fratello Carlo dai fascisti nel 1937. Il giovane storico partecipò al congresso giovanile ebraico a Livorno, intervenne il 2 novembre 1924 ed espresse il suo dissenso sulle tendenze che si affermavano, quella dell’ebraismo integrale e quella del sionismo. Soprattutto espresse il rifiuto del sionismo con una frase precisa: “L’idea della patria da riconquistare non fa vibrare l’animo mio. Aggiungerò di più: che ha sempre urtato in me quella che è una delle basi incrollabili del mio essere, la coscienza cioè di cittadino che ha la sua patria, che la ama, la critica, la sprona, la adora, che la ha dunque davvero, che la sente sua davvero, che non intende sentir discutere la sua più o meno legittima appartenenza a questa patria”. Parole nette che si scontreranno con la concezione del nazismo e con le leggi razziste del fascismo del 1938. L’appello di ebree ed ebrei italiani del 26 febbraio di quest’anno contro la violenza del governo e dei coloni israeliani emoziona per il no all’indifferenza e per l’indignazione senza paura. Stati Uniti. Tra gaffe e proclami Donald Trump dichiara guerra all’habeas corpus di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 23 maggio 2025 L’espressione latina habeas corpus deriva dalla formula iniziale di un ordine giudiziario emesso da un tribunale, con cui si chiede che un detenuto sia portato davanti a un giudice per verificare la legittimità della sua detenzione. L’origine del principio risale all’Inghilterra medievale: il primo uso documentato di simili formule è del XIII secolo, ma la consacrazione giuridica più nota si ha nel 1679 con l’Habeas Corpus Act, votato dal Parlamento inglese sotto il regno di Carlo II. La legge nasce per arginare gli abusi del potere regio, in particolare l’arresto arbitrario dei sudditi sgraditi al monarca. Stabiliva che nessun cittadino potesse essere imprigionato senza un’accusa formale e senza la possibilità di essere ascoltato da un tribunale. Kristi Noem, detta “la mastina”, è la Segretaria alla sicurezza interna degli Stati Uniti (homeland security), nota al grande pubblico per i video in cui appare dietro dei gabbioni zeppi di migranti irregolari ringhiando: “Questa è la fine che fanno i terroristi!”. Astro nascente del nuovo partito repubblicano, è uno dei volti scelti da Donald Trump nella sua guerra senza quartiere all’immigrazione clandestina. Martedì scorso, durante un’audizione al Senato ha difeso la linea di tolleranza zero dell’amministrazione con il solito piglio da combattimento ma con poca cognizione del diritto. Infatti secondo Noem il principio dell’habeas corpus “dovrebbe essere utilizzato dal governo per espellere più rapidamente i migranti irregolari dagli Stati Uniti”. A quel punto la senatrice democratica Maggie Hassan le ha chiesto se conoscesse il significato giuridico dell’habeas corpus ricevendo una risposta disarmante: “È un diritto del presidente a mandare via persone dal Paese e a sospendere i loro diritti”. Oltre a non aver capito di cosa stia parlando, Noem ha probabilmente confuso le stesse consegne di Trump il quale l’habeas corpus vorrebbe rimuoverlo proprio perché protegge i cittadini dalle ingiuste detenzioni. Per comprendere appieno la portata del paradosso occorre fare un passo indietro e tornare alle radici storiche di un principio giuridico tanto antico quanto vitale, oggi protetto dalla Costituzione statunitense e da molte altre carte fondamentali delle democrazie moderne. L’espressione latina habeas corpus deriva dalla formula iniziale di un ordine giudiziario emesso da un tribunale, con cui si chiede che un detenuto sia portato davanti a un giudice per verificare la legittimità della sua detenzione. L’origine del principio risale all’Inghilterra medievale: il primo uso documentato di simili formule è del XIII secolo, ma la consacrazione giuridica più nota si ha nel 1679 con l’Habeas Corpus Act, votato dal Parlamento inglese sotto il regno di Carlo II. La legge nasce per arginare gli abusi del potere regio, in particolare l’arresto arbitrario dei sudditi sgraditi al monarca. Stabiliva che nessun cittadino potesse essere imprigionato senza un’accusa formale e senza la possibilità di essere ascoltato da un tribunale. Il principio si afferma presto come baluardo irrinunciabile dello Stato di diritto. Lo troviamo al centro della riflessione illuminista e dei primi esperimenti costituzionali del Settecento. In particolare, la Costituzione degli Stati Uniti - approvata nel 1787 e che tanto dovrebbe essere cara alla signora Noem- ne sancisce l’inviolabilità all’articolo I, sezione 9: “Il privilegio dell’habeas corpus non sarà sospeso, se non quando, in casi di ribellione o invasione, la pubblica sicurezza lo richieda”. È vero che Trump parla spesso di “invasione” riferendosi ai migranti, ma si tratta di un’iperbole politica e non di un stato di cose reale. Negli Stati Uniti come altrove non è solo un principio astratto, ma una garanzia concreta che ogni individuo - cittadino o straniero - può invocare per contestare la propria detenzione davanti a un giudice. È il fondamento stesso della separazione dei poteri: l’autorità esecutiva non può privare qualcuno della libertà personale senza il controllo dell’autorità giudiziaria. Solo una grande ignoranza (o una grande malafede) può indicarlo come strumento per accelerare l’espulsione di migranti irregolari; al contrario, è il mezzo per cui questi ultimi possono difendersi dagli abusi di potere. La giurisprudenza americana ci mostra migliaia di migranti in detenzione ricorrere proprio all’habeas corpus per fermare deportazioni sommarie, condizioni di reclusione disumane o privazioni arbitrarie dei diritti. Confonderlo con un grimaldello in mano all’esecutivo equivale a rovesciare il tavolo del costituzionalismo liberale. È come dire che la libertà di stampa serva a censurare i giornalisti. In questo senso, la dichiarazione di Noem si inserisce in una retorica più ampia già emersa durante il primo mandato di Trump: l’idea che le garanzie costituzionali non siano un limite al potere statale, ma strumenti da reinterpretare per rafforzarlo. In nome dell’”ordine”, della “sicurezza”, del “popolo sovrano”, si teorizza un’erosione progressiva delle tutele individuali, Dopo l’ 11 settembre, l’amministrazione di George W. Bush cercò di limitarne l’applicabilità ai detenuti di Guantánamo, sostenendo che i non cittadini catturati all’estero non potessero beneficiarne. La Corte Suprema intervenne più volte - da Rasul v. Bush (2004) a Boumediene v. Bush (2008) - per riaffermare che il principio dell’habeas corpus non conosce confini geografici o status di cittadinanza: è uno standard minimo di civiltà giuridica. Gran Bretagna. Castrazione chimica e detenzioni ridotte, la tentazione svuota-carceri di Antonello Guerrera La Repubblica, 23 maggio 2025 L’ex ministro conservatore Gauke ha pubblicato un rapporto indipendente sulle misure da adottare contro il sovraffollamento nelle prigioni. Si ipotizza di far scontare solo un terzo della detenzione per poi optare per la libertà vigilata. Nel caso di crimini sessuali la ministra della Giustizia pensa al trattamento farmacologico volontario e in alcuni casi obbligatorio. Castrazione chimica per stupratori e pedofili? Il governo Starmer ci sta pensando e potrebbe approvarla, in via obbligatoria, in alcuni casi. Anche perché è una delle indicazioni che emerge da una commissione indipendente sulla riforma della Giustizia e delle carceri nel Regno Unito che ha pubblicato oggi l’ex ministro conservatore David Gauke, e che dovrebbe essere adottata in larga parte dal governo laburista di Sir Keir Starmer. La teoria di fondo del report di Gauke è che Inghilterra e Galles - su cui si concentra questa riforma perché Scozia e Irlanda del Nord hanno sistemi devoluti - hanno un affollamento insostenibile della popolazione carceraria. Dunque, ai detenuti verrà concesso di uscire prima dai penitenziari, avere una detenzione ridotta, e scontare il resto della pena ai domiciliari ma anche nella società. Questo sarà un punto decisamente controverso, soprattutto quando il Labour presenterà la riforma della Giustizia. Il primo ministro Keir Starmer scatenò già polemiche l’anno scorso quando fu costretto a liberare improvvisamente circa 1500 detenuti, anche per far fronte alle rivolte razziste e di estrema destra a Southport, dopo la strage di tre bambine, e far posto in carcere ai rivoltosi arrestati. Allora, il premier fece uscire di galera coloro che aveva già scontato il 40% (e non il 50% come di norma) di pene detentive superiori a 8 anni. L’obiettivo, stavolta, è di ridurre la popolazione carceraria di 9800 persone entro il 2028. Al momento, sono 97.700 i detenuti nel Regno Unito in 141 carceri e penitenziari, e di questi 87.900 in Inghilterra e Galles. Secondo la review di Gauke, a tutti i condannati in Inghilterra e Galles sarà concesso di scontare soltanto un terzo della pena in galera. Poi, come sul modello americano, per il secondo terzo i detenuti torneranno in libertà vigilata a condizioni severe, e nell’ultimo terzo i condannati non saranno più supervisionati dalle autorità e saranno praticamente liberi nella società, ma potrebbero tornare in carcere appena infrangono nuovamente la legge. Tuttavia, questa riforma si applicherebbe anche a coloro che si sono macchiati di crimini sessuali e di violenza domestica. Ed è questo che inquieta di più le associazioni in difesa delle vittime di tali reati, che al momento sono critiche, o comunque molto scettiche, riguardo questa possibile riforma del Labour. Anche per questo, il governo Starmer sta pensando contestualmente di ampliare l’applicazione della castrazione chimica per i condannati per stupro o altri reati sessuali. Sinora, questa misura è su base volontaria in Inghilterra e Galles e permette ai detenuti che accettano questa terapia di uscire prima di galera. Ora però, secondo indiscrezioni sulla stampa inglese, la ministra della Giustizia Shabana Mahmood starebbe pensando non solo di ampliare il programma di castrazione chimica volontaria, ma in alcuni casi di ricorrere anche a quella obbligatoria, soprattutto se si tratta di condannati per pedofilia o reati sessuali gravi. Nel frattempo, per risolvere l’emergenza carceraria, il governo Starmer ha già stanziato 4,7 miliardi di sterline (circa 5,5 miliardi di euro) per la costruzione di nuove carceri tra 2026 e 2031. Il Regno Unito sperimenta la castrazione chimica per chi ha commesso reati sessuali gravi L’Espresso, 23 maggio 2025 La misura del governo laburista si applicherà su base volontaria, ma non si esclude l’ipotesi di renderla obbligatoria. L’iniziativa rientra nell’ambito del tentativo dell’esecutivo britannico di contrastare il sovraffollamento carcerario. Il Regno Unito ha annunciato l’avvio di una sperimentazione della castrazione chimica per i condannati a gravi reati sessuali. Si tratta di un progetto pilota, voluto dal governo laburista di Keir Starmer, destinato per ora a 20 istituti penitenziari, che avrebbe lo scopo di combattere il sovraffollamento delle carceri. A spiegarlo, alla Camera dei Comuni, la ministra della Giustizia Shabana Mahmood. L’iniziativa - per il momento su base volontaria, ma che “potrebbe diventare obbligatoria” - si inserisce nell’ambito delle misure “radicali” a cui sta lavorando l’esecutivo per rilasciare migliaia di detenuti e diminuire la popolazione carceraria che affolla gli istituti penitenziari in Inghilterra e in Galles. L’idea dell’obbligatorietà - intesa a prevenire la recidiva -, però, è stata messa in discussione dalle organizzazioni per i diritti umani. La ministra ha affermato che la somministrazione di farmaci “per controllare l’eccitazione sessuale problematica” - ad esempio nei pedofili - sarebbe accompagnata da “interventi psicologici che affrontino altre possibili cause delle aggressioni, come l’affermazione di potere e controllo”. La castrazione chimica avviene, infatti, tramite sostanze che spengono la libido, la pulsione e la funzionalità sessuale. La proposta era inclusa in un rapporto commissionato dal governo all’ex ministro della Giustizia conservatore, David Gauke, in carica durante l’esecutivo di Theresa May. La pratica è già stata utilizzata su base volontaria in Germania e Danimarca, mentre in Polonia è obbligatoria per alcuni gravi reati sessuali.