Una “norma di buona condotta” contro il sovraffollamento delle carceri di Francesco Grignetti La Stampa, 22 maggio 2025 È di questo che hanno discusso il presidente del Senato, Ignazio La Russa, Roberto Giachetti di Iv e Rita Bernardini di “Nessuno tocchi Caino”. Come previsto, abbiamo incontrato stamattina a mezzogiorno il Presidente del Senato Ignazio La Russa che ringraziamo per l’attenzione e la sensibilità dimostrata riguardo la problematica delle carceri. Al centro del colloquio la necessità di affrontare il perdurante sovraffollamento delle carceri (16.000 detenuti in più rispetto ai posti disponibili) affinché la pena possa essere scontata secondo quanto previsto dalle leggi in vigore cioè - come ha ribadito il Presidente del Senato - nella maniera più civile possibile”. Così in una nota la Presidente di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini e il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti .”Si è così discusso di quella che potrebbe essere definita “la norma della buona condotta”. Una norma pensata per innescare un percorso virtuoso per il detenuto che abbia un incentivo a comportarsi nel modo migliore per accedere alla già prevista liberazione anticipata - potenziata per il solo momento emergenziale. Nella sostanza si tratta di una riduzione controllata della popolazione carceraria fino a che non sarà risolto il problema del sovraffollamento che di per sé genera trattamenti inumani e degradanti. Proprio per accentuare la caratteristica di norma della buona condotta saranno automaticamente esclusi i detenuti autori di aggressioni nei confronti del personale, in particolare della polizia penitenziaria”. “Consideriamo certamente importante e di rilievo la scelta del Presidente del Senato, nella piena consapevolezza che qualunque decisione non potrà che essere nelle mani del Parlamento. Certamente aiuterebbe molto se fosse accolto l’appello del professor Tullio Padovani affinché le forze politiche depongano le armi e si assumano le proprie personalità”. La Russa sulle carceri: “I detenuti vivano in condizioni di civiltà” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 22 maggio 2025 Prosegue senza sosta l’impegno di Nessuno Tocchi Caino per migliorare in qualche modo la situazione nelle nostre carceri, al collasso dal punto di vista del sovraffollamento e nelle quali i suicidi nel 2025 hanno già superato le tre decine. Ieri Rita Bernardini, assieme a Roberto Giachetti, ha incontrato a palazzo Madama il presidente del Senato, Ignazio La Russa. “Come previsto, abbiamo incontrato La Russa che ringraziamo per l’attenzione e la sensibilità dimostrata riguardo la problematica delle carceri - hanno scritto Bernardini e Giachetti dopo l’incontro - Al centro del colloquio la necessità di affrontare il perdurante sovraffollamento delle carceri (16mila detenuti in più rispetto ai posti disponibili) affinché la pena possa essere scontata secondo quanto previsto dalle leggi in vigore cioè - come ha ribadito il Presidente del Senato - “nella maniera più civile possibile”“. Non solo. “Si è così discusso di quella che potrebbe essere definita “la norma della buona condotta” - proseguono - Una norma pensata per innescare un percorso virtuoso per il detenuto che abbia un incentivo a comportarsi nel modo migliore per accedere alla già prevista “liberazione anticipata” - potenziata per il solo momento emergenziale”. Nella sostanza si tratta di una riduzione controllata della popolazione carceraria fino a che non sarà risolto il problema del sovraffollamento che di per sé genera trattamenti inumani e degradanti. Proprio per accentuare la caratteristica di norma della buona condotta saranno automaticamente esclusi i detenuti autori di aggressioni nei confronti del personale, in particolare della polizia penitenziaria. “Consideriamo certamente importante e di rilievo la scelta del presidente del Senato, nella piena consapevolezza che qualunque decisione non potrà che essere nelle mani del Parlamento - conclude la nota - Certamente aiuterebbe molto se fosse accolto l’appello del Prof. Tullio Padovani affinché le forze politiche “depongano le armi e si assumano le proprie personalità”“. Raggiunto dal Dubbio Giachetti ha parlato di un clima “assolutamente cordiale” in cui da parte di La Russa c’è stata la consapevolezza “che l’emergenza è oggi, al di là del tema carceri in generale”. Chiaramente il presidente del Senato non può andare oltre la moral suasion visto che la competenza è del Parlamento, e tuttavia “la nostra proposta non nulla di innovativo ma una semplice estensione della Legge Gozzini, la quale era già un’estensione di una legge precedente”. Insomma, nulla di eclatante ma qualcosa che coinvolga “detenuti dal comportamento esemplare e che non si siano resi protagonisti di atti di violenza contro la Polizia penitenziaria”. Recentemente La Russa aveva affrontato il tema del sovraffollamento delle carceri aprendo, a titolo personale, all’esame della proposta Giachetti su quella è “un’emergenza che io ho toccato con mano” da avvocato “penalista”. Il presidente del Senato si era dunque pronunciato sull’esigenza di affrontare la questione “nell’attesa che il governo possa compiere quel progetto di ammodernamento delle carceri, di aumento dei posti di detenzione” perché chi sbaglia deve pagare “ma deve pagare in una condizione di civiltà”. Dopo il faccia a faccia La Russa ha parlato sui social di “un incontro utile e sentito per discutere dell’emergenza carceraria, che da decenni colpisce la nostra Nazione” perché “chi sbaglia deve sempre pagare, ma in condizioni di piena civiltà”. A Rita Bernardini premio “In difesa della dignità e della speranza dei detenuti Riccardo Polidoro” camerepenali.it, 22 maggio 2025 Il premio sarà consegnato venerdì 13 giugno 2025 a Rimini, in una sessione del IX Open Day dell’Unione Camere Penali Italiane. La Giuria del Premio In difesa della dignità e della speranza dei detenuti “Riccardo Polidoro” ha deciso, all’unanimità, di assegnare il premio della seconda edizione a Rita Bernardini. Militante di lungo corso dei Radicali, inizia e prosegue il suo percorso al fianco di Marco Pannella con un instancabile impegno totalizzante sul versante dei diritti civili e politici in anni di grande fermento del nostro Paese, caratterizzati da battaglie civili per l’ottenimento di diritti di libertà che oggi sembrano scontati ma che all’epoca sembravano irrealizzabili. Redattrice di Radio Radicale e vicedirettrice fino al 1992, ha poi svolto una esperienza come deputata della Repubblica, nel corso della quale si è dedicata con passione ad alcuni difficili temi della giustizia, chiedendo l’attuazione del regolamento penitenziario per le carceri. Nel 2015 è stata chiamata a coordinare il Tavolo n. 6 degli Stati generali dell’esecuzione penale dedicato “al riconoscimento e all’esercizio del diritto all’affettività del detenuto, con particolare riguardo alle provvidenze necessarie per compensare la insufficiente o mancata realizzazione del principio di territorializzazione della pena.” Nel corso della sua militanza civile ha effettuato centinaia di visite nelle carceri per apprendere dai detenuti le criticità del sistema penitenziario, e per portare la sua passione all’interno di quelle mura che creano un sottomondo volutamente dimenticato dalla società. Nell’occasione del “Giubileo dei Carcerati” ha organizzato una iniziativa nonviolenta di sciopero della fame di due giorni da parte dei detenuti di tutte le carceri italiane, con la loro simbolica partecipazione alla Marcia per l’Amnistia da Regina Coeli a Piazza San Pietro. Il 30 gennaio 2019, in udienza pubblica, ha consegnato a Papa Francesco le lettere e le firme di quasi 20.000 detenuti. Da Presidente dell’associazione “Nessuno Tocchi Caino” prosegue con grande passione la sua battaglia per i diritti dei detenuti e per condizioni più umane delle carceri, oltre alla cura del progetto “Spes contra spem” per il superamento dell’ergastolo ostativo e del 41bis. Ha condotto e conduce la sua battaglia per i diritti dei detenuti anche con un notevole impegno fisico, con numerosi scioperi della fame per sensibilizzare le istituzioni politiche per ridurre il sovraffollamento carcerario. Nel corso della pandemia, con la sua iniziativa non violenta finalizzata alla richiesta di un provvedimento di amnistia e indulto, dell’ampliamento della detenzione domiciliare e del ripristino della liberazione anticipata speciale, ha coinvolto tantissimi cittadini comuni, detenuti, e numerose personalità del mondo politico, della cultura e del diritto. Il suo instancabile lavoro di informazione e sensibilizzazione sul tema delle carceri, la sua battaglia sempre in prima fila per tutelare la dignità delle persone detenute, sono un esempio di altissimo impegno civile. La Giuria: Francesco Petrelli, Giovanni Melillo, Glauco Giostra, Rinaldo Romanelli, Nicola Mazzacuva, Gianpaolo Catanzariti, Giorgio Varano. Il magistrato civile Stefano Carmine De Michele sarà il nuovo capo del Dap Il Manifesto, 22 maggio 2025 Il magistrato civile Stefano Carmine De Michele sarà il nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ruolo attualmente ricoperto come facente funzione dalla vice capo, Lina Di Domenico. Ieri infatti il plenum del Csm ha dato il via libera, con due astensioni, alla delibera riguardante De Michele, già collocato fuori ruolo presso il ministero della Giustizia per la funzione fin qui ricoperta di Direttore generale delle risorse materiali e delle tecnologie del Dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria (Dog). Lina Di Domenico, particolarmente vicina al sottosegretario Delmastro e che era stata designata dal governo capo Dap dopo le dimissioni di Giovanni Russo senza attendere il parere del presidente Mattarella e del Csm, assumerà l’incarico di capo del Dog. Il (facile) ricorso al diritto penale, tra populismo legislativo e populismo giudiziario di Bartolomeo Romano* Il Foglio, 22 maggio 2025 Come il mantra del “fare giustizia” ha finito per alimentare l’inflazione penalistica. La perversa sottomissione della politica all’opinione pubblica. Ogni volta che si presenta un’emergenza criminale, vera o ritenuta tale, l’opinione pubblica, cui fa spesso eco il politico più rapido a coglierne gli umori, richiede a gran voce l’introduzione di nuovi reati o, almeno, l’inasprimento delle pene per quelli già esistenti. Ciò avviene perché spesso si ritiene, o si viene indotti a pensare, che determinate forme di criminalità vivano e si rafforzino nell’assoluto deserto normativo o, comunque, in presenza di “risposte” penali troppo timide e blande. Non si tratta certo di una tendenza recente, e neppure propria soltanto del nostro Paese. Panpenalismo e inflazione penalistica sono locuzioni conosciute nella letteratura scientifica (almeno) di tutto l’occidente. Qui, alla positiva diffusione della democrazia fa da contraltare una sudditanza psicologica del legislatore alle opinioni diffuse, al comune sentire, alla vox populi, con l’inclinazione a cercare una risposta immediata, piuttosto che la risposta dovuta. Se ciò è, in certa misura, inevitabile, la situazione si complica ulteriormente nell’eventualità (frequente nel nostro Paese) che le competizioni elettorali si seguano quasi senza soluzione di continuità, con una trasposizione a livello nazionale (quello, poi, della politica criminale: le leggi penali possono essere approvate solo dal Parlamento) anche del più limitato agone locale; e con l’asservimento ad una “sondaggite” acuta, ed allo stesso tempo cronica, alla ricerca dei consensi ricevuti (o perduti). Per la politica risolvere i problemi sottostanti o comunque legati all’intervento - ritenuto salvifico o almeno consolatorio - del diritto penale è operazione più complessa, costosa e lenta rispetto al facile ricorso alla legislazione simbolica di stampo penalistico. Ed allora, talvolta non bastano neppure i tempi fisiologici (e, riconosciamolo, in alcuni casi, patologici) dei lavori parlamentari: e si sente il bisogno di ricorrere al decreto-legge. È quello che è avvenuto recentemente con il c.d. disegno di legge “sicurezza”, trasfuso (appunto, per fare prima) nel decreto-legge 11 aprile 2025, n. 48, nel nome - tra l’altro - del contrasto al terrorismo e alla criminalità organizzata. Queste ultime, peraltro, a mio avviso, sono due delle principali fonti del populismo legislativo, risalente ormai a oltre un quarantennio addietro: appunto, la legislazione emergenziale antiterrorismo e i doppi binari in materia di criminalità organizzata. Ma ad accrescere il “bisogno” di pena sono stati anche altri fenomeni. Dalle inchieste della magistratura conosciute con il nome di “mani pulite” - che pure hanno reso evidenti fenomeni diffusi di malcostume e di vera e propria corruzione sistemica - sino alla emersione (e, forse, alla emergenza) di “tangentopoli”, con conseguente affermazione della c.d. questione morale, più che l’efficienza dell’azione dell’apparato pubblico, si è inteso porre al centro dell’attenzione del legislatore la questione della “lotta” o del “contrasto” alla corruzione, ritenuta - certo, non a torto - un problema gravissimo del nostro Paese (soprattutto alla luce della c.d. corruzione percepita). Di qui, però, una pericolosa deriva, che ha condotto, tra l’altro, a taluni aspetti criticabili della I. 6 novembre 2012, n. 190 (c.d. legge Severino), approdando poi alla I. 9 gennaio 2019, n. 3, generalmente conosciuta (purtroppo, e non a caso) come “legge spazza-corrotti”. Con la collegata eliminazione della prescrizione dopo la sentenza (anche se di assoluzione) di primo grado. Ma il populismo legislativo si è innestato su altri filoni rispetto ai quali l’opinione pubblica, comprensibilmente, è particolarmente sensibile: penso a certe coloriture assunte da leggi in materia di “pedofilia”, ai vari “codici rossi” a tutela delle vittime di reati sessualmente connotati, sino alla recente ipotizzata introduzione del reato di “femminicidio”. I toni sono, complessivamente, quelli del diritto penale del nemico, con il ricorso a leggi generalmente connotate da un forte intento repressivo, e per certi versi moraleggiante. A ciò si aggiunga un ulteriore paradosso. Il populismo legislativo è persino contagioso e non si limita a invocare l’introduzione di nuove e più gravi disposizioni penali. Arriva addirittura a pretendere che non si abroghi nessuna delle disposizioni penali esistenti: persino quelle generalmente additate quali simbolo di atipicità e indeterminatezza, come l’abuso di ufficio o il traffico di influenze. Ora, è veramente singolare che ormai da decenni ci si lamenti del diffuso panpenalismo, dell’inflazione penale, dell’uso simbolico della legislazione penale, e si spinga verso ipotesi di ampia depenalizzazione (o decriminalizzazione); ma, di contro, ogni qual volta si tenti di eliminare uno o due reati dal panorama penalistico, peraltro affollato da migliaia di incriminazioni che probabilmente colmeranno i vuoti creati, si alzino gli scudi e si gridi alla possibile diffusione della criminalità. È ciò che è avvenuto, con quasi tutta la dottrina penalistica contraria e i dubbi diffusi in giurisprudenza, rispetto alla “riforma Nordio” (legge n. 114 del 2024), che ha abrogato l’abuso d’ufficio e riformulato il traffico di influenze. Mi viene in mente “not in my back yard”, “non nel mio giardino”: tutti si dichiarano, in astratto, favorevoli ad uno sfoltimento della foresta penalistica, ma poi - in concreto - non è mai la disposizione “giusta” quella da abrogare. Lunghe, dotte ed approfondite riflessioni sul carattere frammentario del diritto penale, e sul suo dover essere extrema ratio (perché non tutti gli eventuali illeciti configurabili devono necessariamente essere illeciti penali), sono spazzate via da quello che potremmo chiamare populismo conservativo (almeno in questo caso, non conservatore). Per fortuna, la Corte costituzionale, con sentenza del 7 maggio, ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, confermando che non è incostituzionale l’abrogazione del reato di abuso di ufficio, come ho sempre, quasi da solo, sostenuto. Cosa possiamo fare noi tutti, e cioè non solo gli addetti ai lavori, ma soprattutto i cittadini-elettori, per frenare la deriva? Evitare di “buttarla” in politica ed al contempo di additare la politica (o, meglio, i politici) quale unico colpevole. Aumentiamo, invece, la consapevolezza collettiva e cerchiamo, se possibile, di evitare che ogni ventata comporti una riforma, che ogni avvenimento di cronaca si trasformi in una iniziativa legislativa, che ogni novità si converta in misure emergenziali. Solo così daremo il nostro contributo ad una democrazia matura ed efficiente. Ma anche paziente: tanto più che - per il divieto di irretroattività della legge penale più sfavorevole (art. 25, comma 2, della Costituzione) - le nuove disposizioni, pur dettate dall’emozione del momento, non potranno mai incidere sui fatti verificatisi, che pure sono quelli che inducono a scelte emergenziali, da decreto-legge: come nel caso dell’introduzione, in una calda estate del 2000, del delitto di incendio boschivo (come se gli incendi estivi fossero eventi straordinari che richiedessero interventi urgenti, e non eventi consueti, persino sistemici, da affrontare soprattutto mediante efficaci strumenti di prevenzione, sistemi di sorveglianza e mezzi antincendio). Bisogna, infatti, comprendere che per cercare di circoscrivere un fenomeno criminale mediante il diritto ed il processo penale si dovrebbe operare su diversi versanti: applicare la sanzione nel maggior numero di casi, nei tempi più rapidi che sia possibile (cioè, i più vicini al momento della commissione del reato) e con picchi di severità non necessariamente elevatissimi, ma raggiungendo livelli avvertiti, dalla generalità dei consociati, come giusti. 2. Occorre anche essere consapevoli che il populismo legislativo si accompagna - talvolta a cascata, altre volte con effetti anticipatori - ad un populismo giudiziario dalle coloriture giustizialiste, se non addirittura forcaiole. Si pensi - e l’esemplificazione è ovviamente parziale e incompleta - a certe interpretazioni assai late del concorso esterno, alle contestazioni generiche, agli avvisi di garanzia “a strascico” (ad esempio, nel settore sanitario), all’uso ancora troppo esteso della custodia cautelare (un terzo circa dei detenuti sono “in attesa di giudizio”, come nell’omonimo film del 1971, diretto da Nanni Loy e interpretato da Alberto Sordi: sono passati oltre cinquant’anni, ma per certi versi sembra oggi...), al fastidio che talora serpeggia per l’attività difensiva, ai filtri spesso eccessivi in Cassazione. 3. Del resto, da molti, troppi, anni la gara è a chi grida più forte e urla cose spesso assurde, che però - ripetute con apparente convinzione - appaiono vere o, almeno, verosimili. Al riguardo, mi viene alla mente la Rivoluzione francese: certo, nata con nobili ideali, e che pure ha lasciato tracce indelebili, come la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e la separazione dei poteri. Ma che - in chiave di superamento dell’ancien régime e dell’affermazione del nuovo - ha visto una corsa del “puro” superato dal più “puro”, con molte teste cadute sulla ghigliottina, Comitati di salute pubblica, Terrore, legge dei sospetti (con la quale ogni nemico, o presunto tale, della Rivoluzione venne incarcerato o giustiziato sommariamente, e che definì “sospetti” tutti i nobili e i loro parenti, tutti i preti refrattari e i loro parenti, tutte le persone che per condotta, atteggiamenti, relazioni, opinioni verbali o scritte, si erano dimostrate nemiche della libertà). Sino a giungere, nel 1794, all’arresto di Robespierre e dei suoi collaboratori, il giorno successivo ghigliottinati senza processo. Di qui il Termidoro, la ricerca di nemici esterni e le guerre napoleoniche: ma la storia è nota. 4. Tuttavia, a ripercorrere quella storia, mi vengono ancor oggi i brividi, perché non mi sembra così lontana: il primato del popolo è diventato sottoposizione della politica all’opinione pubblica; l’affermazione (art. 101 Cost.) che “La giustizia è amministrata in nome del popolo” è stata tradotta volgarmente nei processi mediatici (e si potrebbe richiamare “In Nome del Popolo Italiano”, un film del 1971, diretto da Dino Risi che ha come attori protagonisti Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman, nel quale il magistrato finisce per fare condannare un innocente proprio “per fare giustizia”: l’imputato è innocente per l’omicidio, ma merita di essere condannato in quanto corruttore…). Inoltre, da tempo si sente dire che il rispetto delle garanzie è “peloso”, mentre il giustizialismo è virtuoso, è dei giusti. Persino la moderata assicurazione (art. 27, comma 2, Cost.) che “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” e la più decisa affermazione che “Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa”, contenuta nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948 (e analoga affermazione è presente nell’art. 6, comma 2, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950), sono sembrate da superare. Pertanto, dovrebbe, se ci riesce, dimostrare la sua estraneità l’imputato; e ancora di più l’arrestato; e in misura addirittura esasperata il prevenuto (cioè, il soggetto sottoposto a misure di prevenzione). Del resto, “non ci sono innocenti, ma solo imputati dei quali non si è riusciti a dimostrare la colpevolezza”, dichiarava solennemente un noto magistrato, ora a sua volta (ecco la Rivoluzione francese…) condannato. 5. Dunque, per raggiungere un livello sufficiente di civiltà giuridica, mi ancorerei alla Costituzione, che - in materia penale - rappresenta un sicuro e condivisibile punto di riferimento. Forse non è “la più bella del mondo” (affermazione di chi la vorrebbe immutabile e cristallizzata), ma è certamente una ottima Legge fondamentale, che in molte parti non sembra avvertire l’inarrestabile scorrere del tempo e che scolpisce in modo veramente alto i diritti fondamentali. Una Costituzione, però, non ancora del tutto attuata e rispettata sino in fondo. Basterebbe ricordare che l’art. 25 della Costituzione fissa il principio di legalità: la legge penale deve essere ritagliata dal Parlamento con la dovuta precisione, non deve punire retroattivamente, precludendo la “creazione” dei reati da parte della magistratura (in violazione del divieto di analogia in malam partem). Dunque, da un lato il legislatore deve scrivere regole chiare e precise; dall’altro la magistratura non deve eccedere in estri interpretativi. Sembrano regole ovvie e scontate; ma purtroppo spesso non sono attuate. Un diritto penale di uno Stato moderno e liberale dovrebbe però garantirne sempre il rispetto. Poi, il richiamato art. 27 della Costituzione: l’imputato non si considera colpevole sino alla eventuale sentenza definitiva di condanna. Anche qui: sembra ovvio. Ed invece, come ricordato, spesso si ragiona e si agisce in senso opposto, triturando le persone nel gorgo giudiziario e massmediatico e poi neppure segnalandone l’assoluzione. Ancora, occorrerebbe riappropriarsi del finalismo rieducativo della pena, sempre scolpito nell’art. 27 della Costituzione. E ciò, sia chiaro, non per mero “buonismo”, ma perché accanto al bastone della pena, che va mantenuto, occorre utilizzare la carota della speranza, che rafforza l’ordine penitenziario e tende ad attenuare il fenomeno del recidivismo, che certifica la sconfitta dello Stato e alimenta l’insicurezza sociale (se il detenuto, una volta libero, commette un nuovo reato). Inoltre, occorrerebbe attuare pienamente l’art. 111 Cost., inverando il modello accusatorio ed il “giusto processo”, facendo sì che ogni giudizio si svolga nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale. Ovviamente, con una separazione di carriere tra giudici e p.m., come ipotizzato dalla riforma costituzionale già approvata, in sede di prima deliberazione, dalla Camera dei deputati il 16 gennaio 2025. E poi assicurando realmente la ragionevole durata del processo e che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata “riservatamente” della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; prima, cioè, che la notizia sia diffusa via stampa. 6. Ma tutto ciò non è sufficiente. Occorre, infatti, anche evitare che, rincorrendo il populismo giudiziario, il giustizialismo, la lotta dei duri e puri contro il reato e contro il peccato, si persegua ad ogni costo una verità assoluta, più che il vero processuale. In tal senso, la spasmodica tensione verso la ricostruzione della verità può addirittura comportare pericoli per la correttezza dei mezzi utilizzati per perseguirla: nel passato, si ricorreva alla tortura, oggi alla custodia cautelare (ma l’art. 13 Cost. parla, più brutalmente ma più correttamente, di carcerazione preventiva...): una sorta di tortura, appunto, “moderna”. Se ci sono verità storiche, lasciamole agli storici e al giudizio del cittadino-elettore; e non al processo penale. Occorre, infine, poter avere piena fiducia nella magistratura, nelle regole che la riguardano (l’ordinamento giudiziario) e negli organi di controllo e di garanzia, quale dovrebbe essere il Consiglio Superiore della Magistratura. Se fosse liberato dall’abbraccio soffocante delle correnti e se operasse sempre in piena trasparenza. La via da percorrere è lunga e tortuosa: una sorta di Cammino di Santiago laico, per la giustizia terrena. *Ordinario di diritto penale e già componente CSM Giustizia, arriva il “canguro” per far correre la riforma Nordio di Mario Di Vito Il Manifesto, 22 maggio 2025 Bagarre sul taglio degli emendamenti, le opposizioni insorgono. Deciderà la giunta. L’obiettivo della maggioranza è approvare tutto entro dicembre. Poi il referendum. A tappe forzate: l’11 giugno in aula al Senato deve arrivare la riforma delle carriere, costi quel che costi. Già la settimana scorsa la maggioranza aveva deciso che il testo arriverà in ogni caso per quella data, anche senza la fine della discussione in commissione e senza un relatore. Ieri è arrivato l’ennesima bastonata: Alberto Balboni (FdI) propone di usare “il canguro”, l’arma da fine del mondo degli incastri parlamentari, il meccanismo per cui gli emendamenti simili si possono accorpare ed eliminare con un solo colpo di spugna. A questa notizia sono ovviamente insorte le opposizioni, che hanno chiesto l’intervento urgente della Giunta per il regolamento, e il presidente del Senato ha detto sì. Con un però: “Per la verità c’è un precedente…”. Lo spiega Balboni: “Ho chiesto di applicare un parere del presidente Grasso del 2017”. All’epoca accadde che il canguro venne usato in commissione Sanità dalla maggioranza di centrosinistra. La giunta dunque verificherà, ma l’esito è scontato: il canguro distruggerà buona parte dei 500 emendamenti depositati. Oggi, per la destra, arrivare all’approvazione al Senato della riforma della separazione delle carriere entro l’estate ha un’importanza pressoché vitale, perché il piano è di arrivare all’approvazione definitiva entro la fine dell’anno. Trattandosi di materia costituzionale, ed essendo quindi necessarie due letture per ciascun ramo del parlamento, in autunno ci sarebbe tutto il tempo per concentrarsi sui secondi round a Montecitorio e a palazzo Madama e chiudere la partita nei tempi previsti. Dopo, visto che la maggioranza qualificata non appare un orizzonte possibile, comincerà la campagna referendaria. Qui l’Associazione nazionale magistrati ha già annunciato che sarà della partita in maniera pesante, con tanto di costituzione di un comitato per il no. In attesa di questi sviluppi, comunque, resta la partita parlamentare, che maggioranza e governo vivono quasi come un fastidioso obbligo da superare quanto prima. “In quest’aula - ha detto Francesco Boccia del Pd riferendosi al Senato- non è mai stato utilizzato il canguro per una riforma costituzionale. Noi sappiamo che questa maggioranza non sente sulla pelle la nostra Costituzione, lo abbiamo verificato quando abbiamo discusso di Premierato e Autonomia differenziata. Ma non consentiremo che le Commissioni parlamentari siano considerate proprietà della maggioranza. Non si può chiudere qualsiasi dibattito con i muscoli dei numeri”. Per Peppe De Cristofaro di Avs siamo di fronte a “una delle scene più pietose di un parlamento ormai piegato all’arroganza delle forze di maggioranza”, mentre la vicepresidente del gruppo M5s Alessandra Maiorino racconta che “in commissione si è quasi venuti alla mani. Il clima è ormai irrespirabile”. Alle scontate difese della destra (Giulia Bongiorno: “Un successo fisiologico e privo di forzature”. Francesco Paolo Sisto, Forza Italia: “La democrazia è fatta di numeri”) si è aggiunta nel pomeriggio anche una lettera dei capigruppo delle opposizioni per invocare l’intervento della Giunta. E La Russa ha così avuto modo di chiosare: “La questione sarà esaminata dalla Giunta del regolamento. Facciamola decidere democraticamente. Quello che è certo è che l’ostruzionismo in democrazia è lecito ed è altrettanto lecito che si utilizzino tutte le forme consentite dal regolamento per contrastarlo”. Il problema è che tra canguri, tagliole, partiti di maggioranza che in parlamento non intervengono mai se non per la propria, scontatissima, dichiarazione di voto, la riforma della giustizia non è mai stata al centro di un vero e proprio dibattito né alla Camera né al Senato. Ci sarà tempo durante la campagna referendaria, di sicuro. Ma intanto il treno della riforma continua la sua corsa nel silenzio. Senza interruzioni né ripensamenti. Dieci anni della legge sugli eco-reati, ma oggi la politica preferisce punire gli ambientalisti di Ferdinando Cotugno Il Domani, 22 maggio 2025 Fu il primo mattone di quella che sarebbe stata un’altra svolta della storia repubblicana, l’inserimento nel 2022 della tutela dell’ambiente nella Costituzione. Oggi sarebbe impensabile approvarla. L’ambiente non è più visto come bene comune da difendere, ma come qualcosa da cui difendersi. Prima del 2015, e per quasi settanta anni di storia repubblicana, nel codice penale italiano non c’è stato un reato di inquinamento ambientale né uno di disastro ambientale. Forse è qualcosa che dovremmo ricordarci, quando parliamo di progresso o assenza di progresso, di cose che non cambiano mai. Ci sono state volte in cui, con tutti i suoi enormi limiti, la politica è stata in grado di svolgere un lavoro di cura. L’approvazione della legge sugli eco-reati del 2015 fu un raro caso di allineamento di forze e intenzioni. Forse non casualmente, quel voto al Senato avvenne nello stesso anno della firma dell’Accordo di Parigi e dell’adozione dell’Agenda 2030 dell’Onu. La legge sugli eco-reati fu approvata in via definitiva pochissimi giorni prima della pubblicazione dell’enciclica Laudato sii di papa Francesco. Non la più brutta delle settimane, insomma. L’inizio di una svolta - Fu un momento prezioso per tanti motivi: il riconoscimento legislativo di decenni di lavoro sulla sensibilità ambientale di questo paese, la partecipazione della società civile (per la legge fu fondamentale, tra gli altri, il contributo di Legambiente e di Libera), l’iniziativa parlamentare come motore legislativo per un provvedimento così importante, su una materia che forse oggi nessun governo farebbe sfiorare a deputati e senatori. In un certo senso, la legge sugli eco-reati fu il primo mattone di quella che sarebbe stata un’altra svolta della storia repubblicana, l’inserimento nel 2022 della tutela dell’ambiente nella Costituzione, che prima faceva riferimento solo alla tutela del paesaggio. Quel voto costituzionale forse è stato l’ultimo atto in cui la politica italiana riuscita a mettere trasversalmente la tutela ambientale come obiettivo primario e non negoziabile, proprio come era accaduto con la legge sugli eco-reati sette anni prima. Un argine penale - La sensazione è che politicamente sia passato molto più di un decennio dal 2015. Un po’ perché sembra quasi che le norme contro gli eco-reati esistano ormai da sempre nel codice penale, pare quasi ovvio e naturale che l’inquinamento ambientale debba e possa essere perseguito come tale, anzi, ci mancherebbe che non fosse così. E invece no, prima del 2015 non era così, oggi invece sì, con 6.979 reati ambientali accertati da quando è stata approvata la legge, un illecito ogni tre controlli, sequestri per un valore complessivo di 1,155 miliardi di euro. È così perché è stato creato questo argine penale contro inquinamento e disastri ambientali ed è così perché i partiti avevano scelto di correre il rischio di scontentare Confindustria e allo stesso tempo hanno cercato con le forze produttive un compromesso onorevole e imperfetto, insomma, quell’attività che si chiamerebbe politica. Visto dieci anni dopo - Ma sembrano passati più di dieci anni anche perché oggi è diventato più difficile immaginare la politica che difende l’ambiente dall’attività privata. Il paradigma è cambiato: la politica si è presa di nuovo il compito opposto, difendere a ogni costo l’attività privata dall’ambiente e dalle esigenze ambientali. Non fu un cammino facile: la legge sugli eco-reati è stata frutto di un complicato lavoro di tessitura, il testo finale lasciò scontenti sia gli ambientalisti più radicali sia molti industriali, il che vuol dire che si era trovato un punto di caduta ragionevole, accettabile. Quel punto di caduta ha generato un cambio di mentalità anche nell’imprenditoria italiana. Sui reati ambientali la prevenzione e la deterrenza sono fondamentali, perché quando un disastro ambientale si verifica hanno già tutti perso, saranno poi le comunità a doverci convivere a lungo, anche se e quando giustizia sarà stata fatta e la sentenza sarà passata in giudicato. Come ultimo esercizio, proviamo a immaginare come sarebbe provare a far passare oggi, nell’Italia politica del 2025, una legge come quella sugli eco-reati del 2015. Probabilmente impensabile, e non solo per una questione di opposti schieramenti, ma perché è cambiata un’epoca. L’ambiente non è più visto come bene comune da difendere, ma come qualcosa da cui difendersi. In dieci anni siamo passati dal punire gli eco-reati al punire gli ambientalisti, cucendo le leggi su misura delle loro proteste. Non solo Garlasco. “Indagini fatte male, oggi manca l’attività sul campo” di Ermes Antonucci Il Foglio, 22 maggio 2025 Parla Riccardo Ravera, il carabiniere che arrestò Riina: “Le indagini non si fanno con le intercettazioni, ma con l’attività sul territorio”. “Gli errori giudiziari stanno aumentando perché gli inquirenti partono da tesi precostituite, si innamorano delle proprie idee anziché vagliare tutte le ipotesi. Non solo, gli investigatori ormai si affidano soltanto alle tecnologie, tralasciando le indagini tradizionali. Possiamo parlare ormai di indagini fatte a tavolino e sempre meno sul campo”. Lo dice al Foglio Riccardo Ravera, maresciallo dei Carabinieri in congedo che, con il nome in codice Arciere, fece parte della squadra che catturò Totò Riina. Dai casi Erba, Perugia e ora Garlasco emerge in maniera sempre più chiara l’incapacità diffusa di svolgere indagini. “Il controllo del territorio esiste sempre meno, indagini con pedinamenti o osservazioni non se ne fanno quasi più. Oggi ci sono indagini con intercettazioni telefoniche, ambientali e trojan, ma spesso senza attività di riscontro”. “Emerge una grande superficialità nello svolgimento delle indagini”, ribadisce Ravera. “Si tralascia l’attività sul campo. Quando succede un fatto di cronaca importante negli Stati Uniti arriva l’Fbi che prende in mano la situazione. Noi vogliamo copiare gli americani ma non ne abbiamo le capacità. Noi italiani siamo orgogliosamente invidiati da tutto il mondo per la nostra attività informativa. Dobbiamo mantenere questa strada. È ovvio che la tecnologia è importantissima, ma questi strumenti possono solo servire a sostenere le indagini”. “Ricordo che in Italia abbiamo sradicato il terrorismo e portato ai minimi termini la mafia non con le intercettazioni o con i trojan, ma con il servizio sul campo e il controllo del territorio. Oggi, però, il controllo del territorio non c’è più”, prosegue Ravera. Perché è accaduto? “Per una questione di comodità”, replica. “È molto più facile fare un’indagine dall’ufficio, a tavolino, che non stare in mezzo alla strada dalla mattina alla sera, sudando, senza indossare la giacca e la cravatta. Nessuno ha voglia di stare in una macchina o dentro a un furgone tutto il giorno. Ci vuole sacrificio. Io ho svolto questa attività per anni felicemente. Era un sacrificio ma comportava anche felicità, a me e soprattutto agli altri. Per me quello dello ‘sbirro’ è il lavoro più bello del mondo perché permette di aiutare la propria comunità”. Cosa significa, in concreto, svolgere attività di investigazione sul campo? “Prendiamo l’esempio dell’omicidio Gucci. I colpevoli sono stati scoperti perché i Ris di Parma hanno fatto il loro lavoro ma degli investigatori acuti hanno fatto un’indagine sul campo certosina, riscontrando una marea di testimonianze, intercettazioni e videoregistrazioni di telecamere. Questo significa lavorare sul campo. Il compito dei Ris di Parma è svolgere accertamenti tecnici (Dna, impronte, balistica). Ma gli investigatori devono svolgere un’attività di indagine e operativa. Se non facciamo questo e ci affidiamo solo ai Ris di Parma abbiamo perso”, spiega. “L’indagine tecnica va bene ma deve essere a supporto dell’indagine tradizionale, che è quella sul campo, è quella sudata”. Sul caso Garlasco sta emergendo uno spaccato sulle indagini svolte diciotto anni fa non proprio esaltante. “Dai giornali emerge che alcuni testimoni all’epoca dei fatti non sono stati sentiti e che delle prove sono state acquisite male o addirittura nascoste”, dice Ravera. “Abbiamo scoperto anche che sono stati arrestati dei carabinieri che facevano parte della sezione di polizia giudiziaria della procura di Pavia e che l’ex procuratore di Pavia è indagato. Sono loro che hanno chiuso la seconda indagine sull’omicidio di Chiara Poggi. Questo fa sorgere il dubbio che le indagini siano state svolte in maniera superficiale. Ora emerge che il colpevole potrebbe essere un altro rispetto ad Alberto Stasi. Io mi auguro, da cittadino italiano, che anche questa volta la procura non prenda un abbaglio. Perché non vorrei che creassimo un’altra vittima innocente”. “Noi investigatori dobbiamo renderci conto che indaghiamo su esseri umani, non su carte”, sottolinea Ravera. “Non possiamo permetterci di essere superficiali: se lavoriamo bene assicuriamo i colpevoli alla giustizia, ma se lavoriamo male facciamo andare in galera delle persone innocenti”. Per Ravera occorre porre l’attenzione soprattutto sulla “commistione diabolica tra la polizia giudiziaria e il pubblico ministero”: “L’unica riforma che deve essere fatta non è quella della separazione delle carriere, ma quella della rottura del legame morboso che in molte procure esiste tra polizia giudiziaria e pm. Oggi la polizia giudiziaria scrive le informative sentendosi un pm, e il pm lavora pensando di essere un carabiniere. Ma il magistrato non è capace di fare il carabiniere. Lui deve essere il soggetto che valuta il lavoro della polizia giudiziaria”. Caso Cospito: “Delmastro ha divulgato segreti creando un concreto rischio per la sicurezza” di Irene Famà La Stampa, 22 maggio 2025 Secondo i giudici è impossibile credere che il sottosegretario alla Giustizia abbia agito per “leggerezza, superficialità” o, peggio, per ignoranza vista la sua formazione. Sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro ha divulgato informazioni “segrete” creando un “concreto pericolo per la tutela e l’efficacia della prevenzione e repressione della criminalità”. Impossibile credere che abbia agito per “leggerezza, superficialità” o, peggio, per ignoranza. Il suo profilo personale parla da sé: “Laureato in legge, avvocato penalista, sottosegretario con delega agli istituti di pena (quindi proprio il settore che attua il regime di carcere duro), parlamentare di lungo corso, attento e sensibile ai profili della sicurezza”. Lo scrivono nero su bianco i giudici che il 20 febbraio scorso hanno condannato l’onorevole a otto mesi di reclusione per divulgazione di segreto d’ufficio. Le tappe della vicenda - La vicenda ruota intorno a documenti riservati che Delmastro ha condiviso con l’amico e compagno di partito Giovanni Donzelli. E il deputato di Fratelli d’Italia li ha utilizzati per un intervento in parlamento contro altri colleghi del Pd. Le informazioni risalgono a inizio 2023, quando l’anarchico libertario, recluso in Sardegna, era nel pieno dello sciopero della fame contro il 41 bis. Dietro le sbarre erano state captate delle conversazioni tra Alfredo Cospito e alcuni esponenti di spicco della criminalità organizzata, che facevano intuire “una comune battaglia per l’abolizione del carcere duro, una sorta di saldatura, per convergenza di interessi, tra la criminalità politica e quella comune, nella sua forma più pericolosa”. Ecco. Quelle “intese, ritenute di rilievo e degne di attenzione sotto il profilo preventivo e repressivo”, Delmastro le condivide con l’amico. E così diventano di dominio pubblico. Non solo. Per ottenere quei dettagli, i particolari di quelle conversazioni, “compulsa” l’allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Russo. Chiede con insistenza le relazioni su Cospito. Si mette pure una sveglia per ricordarselo. Poi racconta tutto al deputato Donzelli. La versione fornita da Delmastro in Aula - Difficile credere alla versione fornita in aula dal parlamentare: “Delmastro non aveva con sé nessun documento. Ha una grande memoria”. Come sottolineano i giudici nelle quarantatré pagine di motivazione della sentenza, i colloqui sono stati riportati “con termini e modi così precisi da consentirne una riproduzione letterale parola per parola”. C’è poi un ulteriore aspetto, messo in evidenza negli atti. Con il suo comportamento, il sottosegretario alla Giustizia ha messo in pericolo anche alcuni agenti della polizia penitenziaria in servizio a Sassari. Perché se è vero che il fatto che i detenuti fossero controllati e ascoltati era una sorta di “segreto di pulcinella”, un conto sono le ipotesi, un altro è la certezza. E proprio in seguito al “clamore mediatico dell’intervento in Parlamento dell’onorevole Donzelli, Cospito e altri vennero a sapere che il loro colloquio era stato ascoltato e riferito. E l’indicazione precisa e circostanziata delle frasi captate, poteva mettere i detenuti in condizione di ricostruire il momento in cui si erano parlati e individuare, quantomeno a livello di sospetto, il personale che le aveva captate e riferite”. La difesa di Delmastro in tribunale - Delmastro, in aula, assistito dagli avvocati Andrea Milani e Giuseppe Valentino, si era difeso più o meno così: “Non sapevo che quegli atti fossero riservati. Non sono di certo io a dover valutare come classificare un documento”. Mentre gli avvocati di parte civile, Federico Olivo, David Ermini e Mitja Gialuz, in rappresentanza di alcuni deputati Pd, erano andati all’attacco: “L’onorevole sapeva bene che quei documenti erano riservati”. In caso contrario? “Il percorso delle carte trasmesse a Delmastro - si legge nella sentenza - era disseminato di alert sulla delicatezza e la riservatezza delle informazioni contenute”. Insomma: impossibile non sapere. E impossibile non capire che quelle informazioni dovevano restare top secret. Oristano. Il carcere di Massama? “Una specie di Alcatraz italiano” di Francesco Grignetti La Stampa, 22 maggio 2025 L’avvocato Giuseppe De Lucia presenta un esposto alla Corte di appello di Cagliari e per conoscenza al procuratore generale e al magistrato di sorveglianza. “Io chiuso a chiave in una cella insieme con il detenuto”. In Sardegna c’è un carcere che sembra in tutto e per tutto una Alcatraz italiana. Si trova ad Oristano, in località Massama. È stato costruito di recente, inaugurato nel 2012, e classificato come istituto per l’Alta sicurezza. Un gradino sotto la Massima sicurezza. Ci sono quasi solo condannati per reati di criminalità organizzata: mafiosi siciliani, camorristi campani, ‘ndranghetisti calabresi, qualche pugliese. Già di per sé è un’anomalia, questo penitenziario così lontano per le famiglie dei detenuti. Ma poi giungono notizie inquietanti sul clima che vi si respira. Qualche giorno fa, un legale che doveva avere colloqui con alcuni assistiti è stato chiuso per più di un’ora in una cella, quella adibita agli incontri. Probabilmente volevano impedirgli di incrociare il magistrato di sorveglianza che era lì in visita. L’avvocato Giuseppe De Lucia ha appena presentato un esposto alla Corte di appello di Cagliari e per conoscenza al procuratore generale e al magistrato di sorveglianza. Racconta: “Un agente di polizia penitenziaria, presente fuori la stanza, dapprima chiudeva la porta blindata e poi dava una/due mandate alla serratura allontanandosi subito dopo. Immediatamente lo scrivente, sbigottito da tale atteggiamento, cominciava a dare forti colpi con la mano sul portoncino blindato”. La storia ha uno sviluppo quantomeno inquietante. L’avvocato è dentro la cella, chiuso a chiave, che protesta. L’agente da fuori, nel corridoio dove transitano gli avvocati, gli urla che “quella porta deve restare chiusa”. Ma così non è mai, in genere. A forza di proteste, il legale vede riaprirsi il portoncino blindato per qualche centimetro. “Istintivamente lo scrivente, che per cercare di uscire per prendere aria, apriva il blindato, ma si vedeva “sbattere” la porta in faccia dall’esterno sempre dal medesimo agente di polizia penitenziaria”. Alla fine viene aperta la porta dal lato dei detenuti, verso le celle, non dal lato degli esterni. E così sarà per un’ora finché arriva un altro agente e la situazione è sanata. Conclusioni dell’esposto: “Tale situazione di assoluto disagio, che veniva ripreso dalle telecamere interne, ha infuso nello scrivente un profondo stato d’ansia, nonché timore a ritornare presso detto Istituto per colloqui con i propri assistiti, nonostante la necessità di conferire”. Questo esposto, però, non è il primo e non sarà l’ultimo. L’avvocato De Lucia, infatti, è collegato all’associazione “Bon’t worry”, una Ong fondata e presieduta dalla pugnace avvocata Bo Guerreschi, che gira come una trottola per i penitenziari italiani a difesa dei diritti dei detenuti. E Guerreschi da due anni sta inondando di esposti e lettere il Dap, il ministero della Giustizia, e la magistratura della Sardegna in merito al carcere di Oristano. Un penitenziario tristemente famoso perché 2 anni fa vi è stato ritrovato morto un detenuto romano, Stefano Dal Corso, apparentemente per suicidio, ma su cui l’autopsia insinua molti dubbi. Altro motivo di inquietudine: nel luglio scorso tutti e quattro i medici in servizio nel carcere avevano dato le dimissioni per non avere più nulla a che fare con Massama. Ed ecco che cosa l’associazione scriveva a Nordio nel febbraio di quest’anno: “Riceviamo lettere dove i detenuti rinchiusi ad Oristano ci segnalano situazioni sempre più aberranti e pericolose per la loro incolumità… Ci segnalano ancora abusi e torture nelle celle denominate “lisce”... Buttati indumenti personali. Mobiletti distrutti per impedirgli di appendere qualsiasi cosa. Insultati e denigrati continuamente... Continue violenze psicologiche, offese, denigrazioni, umiliazioni, togliere o lasciare oggetti concessi un giorno e l’altro no, dicendo che “doveva pagare per quello che aveva fatto”. Sono stati fatti rapporti adducendo che i detenuti stessero urlando, che “battessero il blindo” invece risulterebbe essere un falso”. Carceri italiani tra sovraffollamento e disagio - E così via a lungo. “Nel periodo estivo, messi in isolamento senza finestre, senza ventilatori e in caso qualcuno si fosse sentito male, nelle ore dalla sera alla mattina, “nessuno è presente per intervenire”. Ci sono detenuti ergastolani che per recarsi nella sala hobby devono fare la domandina. La risposta dell’area trattamentale è stata che “nella sala hobby non vai più perché devi pagare per quello che hai fatto”. Uno dei nostri assistiti, ergastolano, avrebbe dovuto scontare 2 anni di isolamento diurno (cioè non in totale isolamento, ndr), ma gli viene risposto che lì “non c’è possibilità e che, essendo ergastolano deve rimanere da solo come in tutti le carceri”. Si precisa che non è un 41bis”. Commenta amaramente Bo Guerreschi: “Il ministero e il Dap devono occuparsi seriamente di quel che accade a Oristano”. Torino. Oggi l’autopsia sul detenuto suicida. Don Ciotti: “La sua morte sconfitta di tutti” di Elisa Sola La Stampa, 22 maggio 2025 Il quarantenne si è impiccato in carcere prima dell’udienza di convalida dell’arresto. Aperta un’inchiesta per istigazione. C’è il video dell’arresto. “Perdonaci Hamid. Perché, nonostante tutto, non siamo riusciti a tenerti qui con noi. La tua morte ce la sentiamo addosso. È una sconfitta per tutta la società”. Non solo la sorella Zahira, i familiari che lo aspettavano in Marocco, i suoi amici e i compagni di strada di Barriera di Milano. Anche don Luigi Ciotti del Gruppo Abele piange la morte di Hamid Badoui, l’uomo di 40 anni emigrato a Torino 15 anni fa, che si è tolto la vita lunedì mattina nel carcere Lorusso e Cutugno. Nel tunnel del crack - Hamid era diventato un ragazzo di strada da quando era finito nel tunnel del crack. Le operatrici del Drop in di via Pacini del Gruppo Abele erano diventate il suo punto di riferimento. Le uniche a cui chiedeva aiuto, ogni volta che usciva dal carcere dopo l’ultimo arresto per furto che faceva per comprarsi la droga. L’ultima telefonata dal Lorusso e Cutugno l’ha fatta a loro: “Ho deciso. Smetto. Mi disintossico. Voglio cambiare vita. Mi prenotate la visita al Serd?”. L’appuntamento era fissato. Ma Hamid è morto prima. Impiccato nella sua cella, dopo 28 ore dall’ingresso in carcere. Era appena tornato a Torino, dopo 33 giorni di reclusione nel Cpr in Albania voluto dal governo Meloni. “È stato sballottato in un’odissea burocratica che si rivela ancora una volta assurda e inumana”, dice don Ciotti. Hamid è stato liberato dal Cpr una settimana fa, su ordine del giudice di pace di Roma, che ha scritto: esistono “dubbi sulla legittimità costituzionale del trattenimento nei Cpr”. Occorre aspettare che sul punto si esprima la Corte costituzionale. Hamid era tornato libero. Dall’Albania era arrivato in Puglia. Venerdì era sceso dal treno a Porta nuova. La sorella Zahira ricorda: “Non voleva uccidersi”. L’arresto e i tafferugli - Sabato pomeriggio succede qualcosa. Hamid entra in una tabaccheria in corso Giulio Cesare. Dice: “Mi hanno derubato di una scheda sim, chiamate la polizia”. Arrivano le volanti. “Arrestate il mio ladro” grida Hamid. Ma gli agenti non possono farlo. Non ci sono gli estremi. Glielo spiegano. Lui si agita. Colpisce la macchina della polizia, grida che vuole i carabinieri. Si dimena. Una folla di 50 persone, così scriveranno gli agenti del commissariato Barriera di Milano, accerchia gli agenti. Ci sono persone che riprendono con il telefonino. Altre che urlano: “Fermatevi! Non potete trattarlo così! Attenzione al piede”. I poliziotti cercano di mettere Hamid nella volante ma lui non vuole. La tensione è altissima. Una donna col velo tenta di impedire che lo portino via. I tafferugli coinvolgono altri passanti. Tutti urlano. La donna è a terra. Arriva il 118. Alcune persone verranno denunciate per avere tentato di bloccare i poliziotti. Ma l’inchiesta principale aperta dalla procura, è quella per istigazione al suicidio. Il pm Paolo Scafi ha affidato al medico legale l’incarico per svolgere oggi l’autopsia. “Un ragazzo tranquillo” - In procura arriveranno anche i video dell’arresto. Alla fine, dopo le urla, l’arresto per resistenza di Hamid, e i tafferugli, nessuno chiede un intervento sanitario per l’uomo, che è fuori di sé. E che forse ha bisogno di uno psichiatra. Appare, in questi frame, un uomo stremato. Non lucido. “Fammi uscire da qui, preferisco tornare in galera”, diceva Hamid al suo avvocato torinese, Luca Motta, ad ogni telefonata che riusciva a fargli dal Cpr in Albania. “Annientato emotivamente”, dice don Ciotti. Eppure, prima di finire lì, era una persona diversa. Lo conferma Ioana Ciurean, la referente del Drop in del gruppo Abele di via Pacini: “Era un ragazzo tranquillo. Non è mai stato violento. Lo conosciamo dal luglio del 2023. Da quando viveva sotto il portico di via Pacini. Era collaborativo. Aveva una famiglia a Torino che lo poteva accogliere. Ma si vergognava a tornare dalla sorella perché era dipendente dal crack. Dava una mano a pulire il portico. Se qualcuno litigava, lui mediava. Aveva una fidanzata. Si è sempre posto con rispetto nei nostri riguardi e verso gli altri”. Poi lo hanno perso di vista, dopo l’ultimo arresto, a ottobre. “Ma dal Lorusso e Cutugno ci hanno cercato - racconta Ioana - perché Hamid ha chiesto di noi. Aveva detto di volere iniziare un percorso con il Serd e con noi per disintossicarsi. Aveva capito che era il momento di dire basta. Voleva fare qualcosa. Così abbiamo attivato il Serd della zona in cui vive sua sorella, perché in Barriera sarebbe stato troppo alti il rischio di tornare nel giro. Avremmo dovuto vederlo ieri. Quando abbiamo saputo che era morto ci si è aperto il cuore”. Avellino. Aggredito in carcere, ora rifiutato dagli ospedali: la lunga agonia di Paolo Piccolo di Vinicio Marchetti avellinotoday.it, 22 maggio 2025 Non è più detenuto. È un paziente in stato grave che nessuna struttura vuole accogliere. La famiglia lancia un appello. La sanità risponde con il silenzio. Un ragazzo giace immobile in un letto dell’Ospedale Moscati, né vivo né morto, ma sospeso in quel territorio incerto che i medici definiscono “stato quasi vegetativo” e che i familiari, più brutalmente, chiamano “agonia”. Si chiama Paolo Piccolo, ha ventisei anni, ed è stato ridotto in questo stato da dieci detenuti che, il 24 ottobre scorso, decisero di farsi giustizia - o forse solo esercizio di violenza - nel carcere di Bellizzi. Lo massacrarono con ciò che trovarono: calci, pugni, spranghe, bastoni, oggetti acuminati. Una spedizione punitiva senza appello, aggravata da una crudeltà che il codice penale punisce, ma che la coscienza comune dovrebbe almeno riconoscere come tale. Secondo gli atti dell’inchiesta, il movente - ancora avvolto da quella nebbia che in Italia è riservata alle motivazioni più ignobili - sarebbe legato al controllo delle chiavi di un piano carcerario. Ma sarebbe quasi un sollievo scoprire che dietro c’era una logica, per quanto distorta. Il timore, invece, è che non ci fosse nemmeno quello: solo ferocia e dominio. Oggi Paolo non è più un detenuto. Non perché abbia saldato il conto con la giustizia - quella giustizia che, paradossalmente, ora è chiamata a tutelarlo - ma perché, in quelle condizioni, nessun ordinamento serio potrebbe ritenere applicabile la pena. Il suo avvocato, Costantino Cardiello, ha ottenuto la sospensione, affinché la famiglia potesse almeno abbracciarlo senza l’ingombro del piantone. Ma se la detenzione è sospesa, la sofferenza - quella sì - è attiva, continua, instancabile. Il vero processo, in fondo, non è quello che si aprirà il 27 giugno, davanti a un collegio giudicante, con dieci imputati chiamati a rispondere di tentato omicidio aggravato e sequestro di persona. Il vero processo è quello che si consuma ora, in silenzio, nei corridoi degli ospedali, nelle stanze delle direzioni sanitarie, nelle email formali che rimbalzano da un ufficio all’altro con l’efficacia di un battito d’ali nel deserto. Il problema, oggi, è che Paolo non trova posto. O, più precisamente, che nessuno glielo offre. Le strutture riabilitative - Telese, Isernia, Terni - o tacciono, o negano disponibilità. Una, per correttezza, ha risposto: non ci sono posti. Le altre, pare, si siano trincerate dietro un fraintendimento: che Piccolo sia ancora un detenuto. Non lo è. Ma poco importa, perché anche se fosse, il diritto alla cura non conosce statuti d’eccezione. Intanto, il Moscati resta. Non per scelta, ma per mancanza di alternative. Non è un centro di riabilitazione, non ha le risorse, non ha gli strumenti. Ma ha, come spesso accade, la responsabilità di colmare il vuoto lasciato dagli altri. E così Paolo resta lì, “in attesa di tempi migliori”, come si dice con quella pietà rassegnata che tanto somiglia all’abbandono. Il paradosso è che, per una volta, lo Stato ha fatto il suo dovere: ha arrestato i responsabili, ha istruito il processo, ha concesso la sospensione della pena. Ma tutto questo non serve a nulla se poi si dimentica l’unico fatto che conta: Paolo respira, e chiede - non a voce, perché non può - di poter almeno tentare di sopravvivere. La famiglia, comprensibilmente, ha perso la pazienza. E oggi si rivolge all’opinione pubblica, non con rabbia, ma con quel pudore tipico di chi ha già visto il peggio e non si aspetta nulla. “Quando c’è stato clamore, altri hanno trovato posto”, dice l’avvocato Cardiello, con una chiarezza che rasenta l’amarezza. Tradotto: la pietà, in questo Paese, funziona solo se ha un microfono davanti. E allora, ecco il senso di queste righe. Non per commuovere, ma per ricordare. Che un cittadino, qualunque sia stato il suo passato, ha diritto a una cura. Che un pestaggio in carcere non è un dettaglio, ma una vergogna. E che l’indifferenza, più ancora della violenza, è ciò che uccide. Silenziosamente. Lentamente. Come sta accadendo a Paolo. Foggia. Detenuto disabile cade in cella ed entra in coma: esposto dei legali di Massimiliano Nardella foggiatoday.it, 22 maggio 2025 Avevano chiesto una misura alternativa al carcere. La vicenda risale al 26 novembre 2024 in una cella del carcere di Foggia. Il 51enne barese è stato operato alla testa e dopo un mese trascorso in Neurochirurgia e due in una struttura riabilitativa, è tornato a casa. Entrato in carcere a Bari nell’estate 2024 per una condanna a quattro anni e otto mesi, un 51enne barese affetto da tetraparesi spastica, nel novembre scorso è caduto ferendosi gravemente nel carcere di via delle Casermette a Foggia, dov’era stato trasferito e dove nonostante la sua disabilità - limitazioni delle capacità motorie e cognitive - era stato ristretto in una cella insieme ad altri sette detenuti. Prima del suo ingresso nell’istituto penitenziario, l’avvocato Federico Straziota aveva avanzato richiesta di detenzione alternativa, atteso che le condizioni di salute del recluso a suo dire non erano compatibili con la detenzione carceraria. Tuttavia il 26 novembre l’uomo è stato soccorso e ricoverato in seguito ad una caduta (era già capitato altre volte). Arrivato in condizioni disperate al Policlinico Riuniti di Foggia, con un grave danno cerebrale, è stato sottoposto ad un delicato intervento chirurgico alla testa. Da qui la sospensione dell’esecuzione della pena. Dopo aver trascorso un mese in Neurochirurgia, per due mesi ha affrontato il percorso riabilitativo in una struttura privata e ora è a casa. Sull’accaduto e sulla detenzione carceraria durata quattro mesi, il legale difensore ha presentato un esposto in Procura, che ha aperto un fascicolo d’inchiesta. Si attende l’udienza in cui il giudice stabilirà se il 51enne dovrà o meno rientrare in carcere. Ergo, se confermerà o meno la sospensione dell’esecuzione della pena. Per l’avvocato Federico Straziota è altamente improbabile che il suo assistito, viste le condizioni di salute in cui versa, possa essere nuovamente trasferito in una struttura penitenziaria. Catania. Ex detenuto risarcito con 11mila euro. “Celle troppo piccole e insalubri” di Giuseppe Bonaccorsi Il Dubbio, 22 maggio 2025 Undicimila euro a titolo di risarcimento a un ex detenuto catanese che ha scontato la pena nella casa circondariale di Augusta, in provincia di Siracusa. Lo ha deciso il tribunale di sorveglianza di Catania, (presidente Carlo Cannella, Alessandro Dagnino, Valentina Monaco Crea, Salvatore Capizzi), nei confronti di un uomo di 57 anni che è stato recluso dal 13 febbraio del 2019 al 23 novembre del 2023. L’ex carcerato, (come scrive il sito catanese Iene Sicule) durante la sua detenzione aveva chiesto, attraverso il suo legale, l’avv. Alfio Grasso del Foro di Catania, la riduzione della pena, avanzata in considerazione delle condizioni di sovraffollamento, dell’insalubrità delle celle e dei bagni e della mancanza di riscaldamento e di acqua calda, richiedendo la riduzione della pena che era stata, però, rigettata. Nel successivo reclamo proposto dal legale il 22 novembre del 2024, a detenzione già conclusa, l’ex carcerato aveva contestato le conclusioni del giudice evidenziando - si legge nel provvedimento del Tribunale di sorveglianza - “come in realtà le metrature della cella non rispettavano i livelli minimi previsti dall’articolo 35 ter e dalla giurisprudenza del CEDU, ed inoltre non erano stati tenuti nella debita considerazione gli allegati dell’originario reclamo, con particolare riferimento al documento presentato dai detenuti già nel dicembre 2019, in merito alle carenze relative all’acqua calda, al riscaldamento ed al vitto riservato ai detenuti, oltre che all’insalubrità dei locali”. Il Tribunale, nel provvedimento rileva inoltre che “il reclamo sia in parte meritevole di accoglimento... Considerando le dimensioni della cella, detratto lo spazio occupato per ciascun detenuto dagli arredi fissi e dai letti, risulta evidente che il detenuto abbia avuto a disposizione uno spazio inferiore a 3m quadri...”. L’accoglimento in parte del reclamo si riferisce ad alcuni periodi di detenzione dell’ex carcerato in cui sono state rilevate le violazioni, mentre nei restanti anni di detenzione l’uomo ha potuto usufruire nella cella di uno spazio superiore a 5 metri quadri e, inoltre, di acqua calda e riscaldamento. “Prive di riscontro - rileva inoltre il Tribunale - sono le lamentazioni in ordine alla non adeguata salubrità degli ambienti, mentre dalla relazione comportamentale risulta che lo stesso ha potuto accedere ad attività sportive, corso di alfabetizzazione e ad un corso cognitivo comportamentale”. Per queste motivazioni il tribunale riconosce il risarcimento all’ex detenuto per violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. “In buona sostanza - dichiara l’avv. Alfio Grasso - la sentenza sancisce l’assoluta legittimità del detenuto ad avere condizioni di vita carceraria dignitose. In particolare il penitenziario di Augusta è in condizioni vergognose, per il sovraffollamento, la mancanza del personale e per l’assenza di servizi”. Reggio Emilia. Botte in carcere: si va in Appello. Ricorso di pm, parte civile e difese di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 22 maggio 2025 Sarà celebrato un processo in Appello sul caso di presunta tortura da parte di agenti della polizia penitenziaria su un 44enne tunisino. Sarà celebrato un processo in Appello sul caso di presunta tortura da parte di agenti della polizia penitenziaria su un 44enne tunisino, in passato detenuto nel carcere di Reggio. La sentenza di primo grado (17 febbraio), è al centro di opposte impugnazioni: sia da parte della Procura e dell’avvocato Luca Sebastiani, che tutela il 44enne costituito parte civile, sia dalle difese. Il pm Maria Rita Pantani aveva formulato per i dieci poliziotti imputati le accuse a vario titolo di tortura aggravata, lesioni e falso nelle relazioni stese sull’episodio, datato 3 aprile 2023. Nel processo con rito abbreviato, il pm Pantani aveva chiesto condanne sino a 5 anni e 8 mesi. Il giudice Guareschi aveva riqualificato l’accusa di tortura aggravata in abuso di autorità contro detenuti in concorso; inoltre aveva riformulato le lesioni in percosse. Poi aveva emesso le condanne: Si andava da 2 anni per un viceispettore, 1 anno a tre agenti per abuso di autorità e percosse; sempre per queste due accuse, a un poliziotto 6 mesi e 20 giorni, ad altri tre agenti 4 mesi. Un anno, per il solo falso, ad altri due imputati. Sul falso, nessuno dei tre agenti a cui veniva contestato ha impugnato il verdetto: quindi sul punto le sentenze sono definitive. Mentre sono stati depositati i ricorsi contro l’abuso di autorità. Gli accertamenti si erano basati sulle telecamere interne. Secondo la ricostruzione investigativa, il detenuto uscì dalla stanza della direttrice del carcere dopo averla insultata per essere stato sanzionato per violazioni del regolamento. Fu incappucciato con una federa al collo e colpito con pugni mentre veniva spinto verso il reparto di isolamento. Quindi denudato e condotto nella cella; qui, non più col volto coperto, preso a calci e pugni e lasciato nudo dalla cintola in giù. Le altre quattro parti civili, ovvero il Garante nazionale e quello regionale dei detenuti, le associazioni Antigone e Yairaiha, hanno deciso di depositare memorie in vista dell’Appello. “La sentenza di Reggio ha dato per scontato che si trattasse di una perquisizione andata oltre. Ma non è così - dichiara Michele Passione, avvocato del Garante nazionale dei detenuti. Basta vedere le immagini e confrontarsi col compendio processuale per verificare che si è trattato di una condotta del tutto extra ordinem, mai comandata e mai eseguibile nei termini in cui è stata fatta. Dunque un pretesto: a prescindere che sia stata o meno una spedizione punitiva, non è accettabile che queste condotte siano state derubricate in abuso d’autorità. Siamo sicuri che la Corte d’Appello di Bologna darà ai fatti la giusta qualificazione giuridica”. Bologna. “La situazione all’Ipm Pratello è grave”, il sindaco Lepore chiede risposte dal Governo bolognatoday.it, 22 maggio 2025 All’indomani del rapporto di Antigone sulla situazione all’istituto bolognese, il sindaco ha chiesto un intervento da parte del governo. “Muri sporchi di cibo o di chissà cos’altro, colate di liquidi ripugnanti, bucce di banana, di mandarino, fili elettrici a vista strappati dal muro, involucri di ogni tipo che nessuno raccoglie, cicche di sigaretta, uno strato di nera polvere ovunque”. È così che Susanna Marietti, coordinatrice di Antigone, descrive sulla sezione blog de ilfattoquotidiano.it la situazione al carcere minorile di via del Pratello, a Bologna. Le notizie sulle condizioni di vita difficili e degradanti che i giovani detenuti sono costretti a vivere sono riportate spesso sui quotidiani locali e nazionali. Ma la situazione nell’ultimo anno e mezzo, scrive Marietti, è profondamente cambiata: “Oggi il direttore, lasciato troppo solo di fronte alla situazione precipitata, non può contare su personale sufficiente neanche a garantire una corretta igiene degli spazi. Quel che abbiamo trovato durante la nostra visita è indegno. Il corridoio, i refettori, le scale: tutto è lercio da fare schifo”. Il rapporto di Marietti, che ha visitato l’istituto insieme alla presidente di Antigone Emilia Romagna Giulia Fabini, è crudo e diretto. Sulla stampa il racconto non ha trovato molto spazio, ma delle condizioni del Pratello ne ha parlato il sindaco Matteo Lepore interrogato in proposito dai cronisti a margine della conferenza stampa sui primi tre anni di mandato. “La situazione è grave e va affrontata dal governo in maniera seria - ha detto Lepore -. Noi ogni mese visitiamo con assessori, consiglieri comunali e parlamentari sia il Pratello che la Dozza, e credo che su questo bisogna davvero che il governo dia risposte concrete. Noi abbiamo dato disponibilità a chi ci ha chiesto come città di affrontare un progetto condiviso, ma adesso le chiacchiere stanno a zero e le condizioni di chi vive in ambito carcerario devono migliorare”. Nell’istituto bolognese, poi, c’è anche “un uso di farmaci molto elevato, non c’è assistenza medica, non ci sono educatori sufficienti e gli spazi sono angusti - conclude il sindaco -. Purtroppo in questo momento il governo pensa a come rinchiudere le persone nei centri di accoglienza, nei centri di espulsione e nelle carceri, ma poi alla fine non seguono fatti concreti rispetto alla gestione di questi problemi”. Bologna. Pratello, dopo la visita-choc arriva una ditta per ripulire il carcere minorile di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 22 maggio 2025 “Al carcere minorile del Pratello la situazione è grave e va affrontata dal Governo in maniera seria. Noi ogni mese visitiamo, con assessori, parlamentari, sia il Pratello sia il carcere della Dozza. C’è davvero bisogno di risposte concrete. Noi abbiamo dato disponibilità a chi ci ha chiesto come città di affrontare un progetto condiviso, ma adesso le chiacchiere stanno a zero e la condizione di chi vive in ambito carcerario deve migliorare”. Lo ha detto il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, durante la conferenza stampa al padiglione Filla della Montagnola. L’occasione per tornare a parlare dell’istituto di pena minorile è stata la denuncia, l’altro giorno, dell’associazione Antigone che dopo avere visitato gli spazi del Pratello ha restituito una situazione drammatica, tra sporcizia, incuria, ragazzi abbandonati a se stessi nelle celle. Un racconto preoccupante di vite perdute, a due passi da dove i nostri figli, fuori, si divertono la sera. Una situazione così incresciosa che dopo la denuncia pubblica è satta chiamata una ditta per pulire gli ambienti dell’istituto. “Al Pratello - ha aggiunto il sindaco - non possiamo tenere recluse persone in sovrannumero c’è un grande uso di farmaci, non ci sono educatori a sufficienza, non c’è assistenza medica, gli spazi sono angusti. Noi dobbiamo pensare che quei ragazzi usciranno. Purtroppo il governo oggi pensa a come rinchiudere le persone nei centri di accoglienza nei centri di espulsione e nelle carceri, poi alla fine non seguono fatti concreti riguardo alla gestione di questi problemi”. Da almeno un paio di anni l’istituto minorile soffre di una grave sovraffollamento, con conseguente difficoltà a organizzare attività e prendere in carico le situazioni dei singoli ragazzi. Ci sono stati episodi recenti di disordini che hanno anche portato al cambio del comandante della polizia penitenziaria. Vigevano (Pv). Una speranza di nome lavoro per il reinserimento sociale dei detenuti viveremilano.org, 22 maggio 2025 Prima l’aver commesso qualche grave pecca di troppo. Poi, il rinvio a giudizio e seguente condanna al carcere. E dopo le sbarre? La possibilità di un lavoro per il reinserimento sociale. A Palazzo Pirelli un convegno sul “modello” della Casa di Reclusione di Vigevano (Pv) promosso dalla Presidente della Commissione Carceri Alessia Villa. Il lavoro come strumento di reinserimento sociale per i detenuti: è il tema al centro del convegno, “In carcere non si finisce…si ricomincia”, promosso dalla Presidente della Commissione Carceri, Alessia Villa, (Fratelli d’Italia) e che si è svolto lunedì mattina, 19 maggio, a Milano e dentro Palazzo Pirelli. Mattinata che ha visto, anche, la presenza del Vice Presidente della Commissione Carceri Luca Paladini (Patto Civico). “La Commissione Carceri - sottolinea la Presidente Alessia Villa - ha avuto, fin dall’inizio un approccio molto concreto: formazione e inserimento lavorativo sono i due ‘asset’ su cui stiamo lavorando e su questi temi contiamo di portare entro la fine della legislatura un Protocollo in Aula. Oggi, raccontiamo una pagina diversa: non solo le criticità del sistema penitenziario, ma una concreta opportunità di riscatto. Il lavoro in carcere è uno strumento potente per abbattere la recidiva e restituire dignità. Investire nella formazione e nel reinserimento significa applicare l’articolo 27 della Costituzione, che assegna alla pena una funzione rieducativa. I dati lo dimostrano: la recidiva scende al 2% tra chi intraprende un percorso lavorativo, mentre supera il 70% tra chi non ha questa possibilità. In Italia si parla da decenni di crisi carceri, ma oggi non serve più definirla emergenza: è una condizione cronica, da prendere in carico come un paziente. Questo governo lo sta facendo, Regione Lombardia è pronta a fare la sua parte”. “Il carcere non può essere considerato una “discarica sociale” - ha evidenziato il Vice Presidente della Commissione Carceri Luca Paladini (Patto Civico) - Per questo è fondamentale costruire percorsi condivisi che siano in grado di riportare i detenuti, a fine pena, nel contesto sociale per ridare loro lo stato di cittadino. Le persone che si trovano negli istituti di pena non devono solo scontare una condanna, ma devono poter accedere a progetti di riabilitazione. In carcere bisogna investire sul tempo per dare ai detenuti ‘una seconda opportunità” dopo aver scontato la loro pena. In questo contesto il lavoro e la formazione costituiscono lo strumento principale”. Nel corso del convegno è stato presentato, attraverso voci istituzionali e testimonianze dirette, il progetto di storytelling video “Pionieri”, realizzato dalla Casa di Reclusione di Vigevano (PV) in collaborazione con la cooperativa sociale “bee.4 - altre menti”: otto volti, otto storie per raccontare attraverso il linguaggio del video un percorso di costruzione di una “seconda possibilità”. I protagonisti sono otto detenuti che lavorano nel contact center del Carcere di Vigevano. La Casa di Reclusione di Vigevano ospita circa 400 persone, a fronte di una capienza regolamentare di poco superiore a 300, e comprende una sezione maschile e femminile di media sicurezza e una sezione femminile di alta sicurezza. La maggiore presenza è di detenuti stranieri, con un passato di tossicodipendenze e con problemi di carattere psicologico e psichiatrico. All’interno del carcere nel 2024 la cooperativa sociale “bee.4 - altre menti” ha promosso un progetto di lavoro qualificato per detenuti che ha portato all’apertura di un call center che, oggi, impiega stabilmente 30 persone in attività di customer care, back office e help desk tecnico: un modello di reinserimento innovativo e replicabile che, attraverso il lavoro, ha promosso un “percorso virtuoso” in uno dei penitenziari più complessi della Lombardia. Questo Progetto ha attivato un modello di collaborazione che coinvolge amministrazione penitenziaria, imprese e terzo settore, con ricadute positive non solo sul reinserimento lavorativo, ma anche sul clima interno al carcere, sul benessere degli operatori e sulla percezione stessa della pena, sempre più orientata a un significato rieducativo e costruttivo. Dopo i saluti istituzionali di Alessia Villa e Luca Paladini, sono intervenuti Andrea Ostellari (Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia), Rosalia Marino (Direttrice della Casa di Reclusione di Vigevano), Pino Cantatore (Presidente “bee.4 - altre menti”), Walter Meregalli (Videomaker e autore del progetto “Pionieri”), Guido Garrone (Amministratore Delegato di EOLO), Rino De Zotti (Direzione Servizi Innovativi e Inclusione di Sielte), Francesca Scipione (Customer Care Manager di Dolomiti Energia), Chiara Santambrogio (Director Customer Operations di Team System). A seguire la tavola rotonda, “Limiti e opportunità per la replicabilità di modelli di intervento efficaci”, che è stata moderata dal professore Filippo Giordano (Università LUMSA). Hanno partecipato Elena Lucchini (Assessore alla Famiglia, Solidarietà sociale, Disabilità e Pari opportunità di Regione Lombardia), Simona Tironi (Assessore all’Istruzione, Formazione, Lavoro di Regione Lombardia), Gianalberico De Vecchi (Garante regionale dei detenuti della Lombardia), Maria Milano Franco D’Aragona (Dirigente Generale Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria Lombardia), Federico Papa (Presidente della Camera Penale di Milano), Valentina Alberta (già Presidente della Camera Penale di Milano), Emilio Minunzio (Segretariato permanente inclusione lavorativa detenuti del CNEL), Daniele Nahum (Presidente della Sottocommissione carceri del Comune di Milano), Marina Mira d’Ercole (Principal Expert di The European House - Ambrosetti) e Diego Dagradi (Impact Investment Manager di Fondazione Social Venture GDA). Napoli. Nel carcere minorile di Nisida sta sorgendo la “Cappella Sistina dei giovani” di Giorgio Paolucci Avvenire, 22 maggio 2025 Per i giovani detenuti il progetto con la Fondazione Scholas Occurrentes. Si rilancia così l’invito di papa Francesco alla Gmg 2023: trasformare il caos in cosmo. A partire dalla nostra vita. Uno spazio dove poter esprimere in maniera creativa le domande e i desideri dei giovani, attraverso un murale realizzato in un luogo che è insieme di sofferenza e di speranza. Ha preso vita nelle scorse settimane a Nisida, l’isola che si affaccia sull’incantevole scenario del Golfo di Napoli e che ospita il carcere minorile. Un progetto gestito in collaborazione tra la direzione del carcere e la Fondazione Scholas Occurrentes, nata in Argentina sotto gli auspici dell’allora cardinale Bergoglio per promuovere l’educazione dei giovani e da anni presente anche in Italia. Il 3 agosto 2023, durante la Giornata mondiale della gioventù in Portogallo, papa Francesco percorreva una strada su cui si affacciava un murale lungo quattro chilometri che si concludeva in una sala interamente dipinta dai ragazzi di Scholas di diverse culture e religioni, che il Pontefice aveva battezzato come “la Cappella Sistina dei giovani”. Nelle scorse settimane a Nisida si è aperto il cantiere per realizzare un’analoga “Sistina dei Giovani” grazie alla collaborazione tra un gruppo di ospiti del carcere, alcuni educatori di Scholas e tre studenti dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, che lavorano insieme nella progettazione, nel disegno dei bozzetti e nella pittura. Gli ingredienti di questa opera corale sono l’ascolto attivo e l’apertura all’altro come mezzi per creare uno spazio di incontro e riflessione, dove le diverse esperienze rafforzino il senso di comunità. Il tutto sulla scia delle parole che il Papa rivolse ai giovani a Cascais: trasformare un caos in un cosmo. “Questo è il cammino di ognuno. Una vita che rimane nel caotico è una vita fallita, e una vita che non ha mai provato il caos è una vita distillata, dove tutto è perfetto. E le vite distillate non danno vita, muoiono in sé stesse. E se una vita personale e relazionale che ha provato la crisi come caos e lentamente dentro di sé, e nella comunità, si è trasformata in un cosmo… tanto di cappello!”. Il percorso artistico che ha preso forma a Nisida è una delle due declinazioni di un originale progetto promosso da Scholas: si chiama “Zona Luce”, dal nome di un termine tecnico del calcio che indica il cono di luce che si apre tra chi ha la palla e il suo compagno che si trova dietro l’avversario. Lo presenta così l’architetto Mario Del Verme, coordinatore internazionale di Scholas Sport: “Il progetto nasce dal dialogo avuto con alcuni ragazzi che avevamo coinvolto nelle carceri minorili. Evoca qualcosa che accade nella vita quotidiana: per poter ricevere la palla dal mio compagno, devo assumermi il rischio d riceverla e giocare. Questa dinamica aiuta i giovani a mettersi in gioco, a essere autentici. La libertà implica sempre un rischio, chi non rischia rimane nella propria comfort zone, non diventa protagonista dell’esistenza. Attraverso il gioco i ragazzi si raccontano, si dialoga su concetti importanti come resilienza, condivisione, identità, rispetto, comunità. Parole che interpellano tutti, a qualsiasi tradizione culturale e religiosa si appartenga. È un modo per andare al cuore dell’esperienza elementare di ogni persona, proprio come sta accadendo nel percorso artistico che abbiamo inaugurato in questi giorni”. Il percorso sportivo coinvolge trenta ragazzi dell’Istituto penale minorile di Nisida che partecipano a un corso di formatore sportivo sponsorizzato dalla Uefa e della Federazione Gioco Calcio, al termine del quale quattro di loro ricevono una borsa lavoro per un’esperienza lavorativa in un centro sportivo napoletano: un piccolo trampolino di lancio che può favorire il reinserimento nella società attraverso il lavoro dopo il periodo di detenzione. Il percorso artistico, incentrato sulla realizzazione della “Cappella Sistina dei giovani”, viene realizzato in un grande spazio ricavato da un cantiere in cui lavorano da anni gli ospiti di Nisida all’interno di un progetto finanziato dal Cosvip, un ente di formazione professionale, sotto la guida dell’architetto Felice Iovinella. Nel murale verranno inserite anche delle ceramiche realizzate dagli studenti di alcune scuole di Napoli, dando vita in questo modo a un’opera autenticamente corale, espressione di varie anime. Una Cappella Sistina che in questo modo dà voce alle diverse sensibilità del popolo napoletano. Terracina (Lt). Arriva “noi fuori”: le voci dei detenuti e l’emergenza carceraria latinatu.it, 22 maggio 2025 Voci dei detenuti da Rebibbia e confronti sui temi che attanagliano le carceri. Interviene Salvatore La Penna, Consigliere regionale del Lazio gruppo Pd. Modera Rosalba Grassi. Ai piedi del Tempio di Giove Anxur giunge la quarta tappa del Book Tour di ‘Noi fuori’, il libro a cura di Emma Zordan, la suora che va incontro al pubblico. Sabato 24 maggio alle 17 si terrà a Terracina, presso la Parrocchia San Domenico Savio in via delle Arene, la presentazione del libro, una raccolta di testimonianze dei detenuti del carcere romano di Rebibbia, realizzato in seguito a laboratori di scrittura creativa. “Ogni evento che si crea attorno al libro - spiega Rosalba Grassi, la giornalista che farà da moderatrice - è un pretesto per orchestrare forme di sinergie sul tema in questione, per proporre, analizzare, raccontare e far emergere l’importanza di creare e mettere in atto progetti di rieducazione da destinare a persone detenute. Ogni evento è un’occasione di incontro per sottolineare l’urgenza di impegnarsi affinché si renda davvero possibile il reinserimento sociale per chi ha già scontato la propria pena. E il problema si affronta da tutte le diverse sfaccettature”. Stavolta a Terracina i relatori sviscerano il tema relativo al pregiudizio. Si farà un parallelo tra pregiudizio e legalità, pregiudizio ed educazione scolastica e si approfondirà il settore della sanità penitenziaria nelle sue accezioni istituzionali sia dentro sia fuori dal carcere. Spesso infatti si rileva stigmatizzazione e discriminazione che può portare i detenuti ad essere oggetto di pregiudizi da parte del personale sanitario e del pubblico influendo sulla loro assistenza e sui loro diritti. Dopo i saluti del Parroco, don Fabrizio Cavone, la serata si aprirà con l’intervento del Consigliere regionale del Lazio gruppo PD Salvatore La Penna, che in qualità di membro della VII Commissione Sanità e Politiche sociali e integrazione socio-sanitaria sarà disponibile a relazionare su quel che c’è, quel che manca e cosa si può fare. Gli ospiti saranno introdotti al tema con la visione di un breve video. Suor Emma Zordan, religiosa dell’Ordine delle Adoratrici del Sangue di Cristo e responsabile dell’Ufficio famiglia presso l’Usmi spiegherà qual è la sua mission e perché la formula della scrittura in carcere. Racconterà la sua esperienza che l’ha portata a dedicarsi al volontariato, da oltre dieci anni, nella Casa Circondariale di Rebibbia e di come nell’ascolto, ancor prima che nel racconto, si creino rapporti reciproci che conducono all’apertura e all’espressione del dolore e della sofferenza che il detenuto ha per il reato commesso e per la difficoltà di perdonarsi non avendo la possibilità di relazionarsi con le famiglie delle vittime. Suor Emma sarà puntuale sul tema del pregiudizio e ribadisce: “Non si può identificare il reato con la persona che a fine pena avrà fatto un suo percorso. Il reato si sconta con la pena e il carcere deve costruire una persona diversa tramite la rieducazione e prepararla al reinserimento in modo che non si senta respinta dalla società e che quindi possa non ricadere nella recidiva”. Seguirà l’intervento dell’Avvocato Emanuele Armando Polli il quale spiegherà che il pregiudizio se non contrastato può compromettere legalità e giustizia generando discriminazioni e violazioni di diritti. Barbara Marini, Preside dell’Istituto I.C. Montessori di Terracina porterà la sua esperienza pregressa come vicepreside in una scuola di Tor bella Monaca, uno dei quartieri più degradati di Roma, dominato da criminalità e da occupazioni abusive, e quindi dell’urgenza di educare famiglie e giovani alla legalità; che certo il quartiere si presta ad essere una bella palestra all’aperto d’allenamento al pregiudizio. Dal vivo ci sarà la testimonianza di un ex detenuto Fabio Rocca che spiega come sta facendo i conti col pregiudizio nel suo percorso di reinserimento. Ad intervallare i relatori con letture di storie di detenuti tratte dal libro sarà in sala la professoressa di religione Daniela Ferrara. Taranto. Gruppi di lettura in carcere: storie di crescita e riscoperta di Gabriella Esposito buonasera24.it, 22 maggio 2025 Voce ai protagonisti del progetto che ha trasformato la lettura collettiva in un potente strumento di arricchimento personale. Storie di rinascita e riscatto tra le pagine: la Casa Circondariale di Taranto ospiterà la giornata conclusiva dei Gruppi di lettura in carcere, un’iniziativa che ha trasformato la lettura collettiva in un potente strumento di crescita personale e riflessione per detenute e detenuti. L’iniziativa, in programma venerdì 30 maggio a partire dalle ore 10,30, vedrà i partecipanti condividere le proprie toccanti testimonianze, mettendo in luce il valore di un percorso che va oltre le sbarre. Il progetto ha coinvolto due distinti gruppi: nella sezione femminile, il gruppo di lettura “Di mano in mano” si è confrontato con le complesse dinamiche del libro “Stai zitta” di Michela Murgia, generando un dibattito stimolante e partecipato. Parallelamente, nella sezione maschile, il GdL “Eppure ci rialziamo” ha esplorato “L’arte di sbagliare alla grande” di Enrico Galiano, trovando spunti preziosi sulla resilienza e nuove prospettive di vita. L’incontro offrirà un’inedita opportunità di introspezione e dialogo, prevede la partecipazione di figure chiave che hanno reso possibile questa significativa iniziativa. Interverranno i protagonisti stessi dei gruppi di lettura, le donne e gli uomini che hanno abbracciato questo percorso. Presenti anche Pietro Rossi, Garante Regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Puglia, Luciano Mellone, direttore della Casa Circondariale di Taranto, Maria Donatella Laricchia, vicedirettrice. A completare il quadro degli interventi, Bellisario Semeraro, Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria, Gabriella Acireale, responsabile della Biblioteca della Casa Circondariale e i rappresentanti della Biblioteca Civica Pietro Acclavio, Gianluigi Pignatelli (responsabile), Eugenia Croce e Monica Golino (bibliotecarie). L’iniziativa ha dimostrato ancora una volta come la cultura e la condivisione possano aprire nuove finestre di speranza e fornire strumenti concreti per un percorso di cambiamento e reinserimento nella società. Roma. “I giochi della speranza”: la piccola olimpiade all’interno del carcere di Rebibbia Il Messaggero, 22 maggio 2025 Venerdì 13 giugno, all’interno del carcere di Rebibbia si disputerà la prima edizione de “I giochi della speranza”, in occasione del Giubileo degli sportivi. L’iniziativa promossa dalla Fondazione Giovanni Paolo II per lo sport, dal Dap - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dalla rete di magistrati “Sport e Legalità”, è stata presentata nel corso del convegno “Lo Sport Dentro” - Il ruolo della pratica sportiva nelle carceri per promuovere educazione e qualità della vita, un’importante occasione di riflessione e confronto sul valore educativo e rieducativo dello sport in ambito penitenziario. “Il convegno ci ha permesso di porre l’attenzione sull’importanza dell’attività sportiva all’interno delle carceri - ha spiegato Daniele Pasquini, presidente della Fondazione Giovanni Paolo II per lo sport -. Un’importanza, anzi direi una necessità, un bisogno primario, che probabilmente spesso non cogliamo pienamente. Questo bisogno di sport non può rimanere inascoltato. Per questo abbiamo deciso di dare una ricaduta concreta, pratica a questa riflessione, lanciando la prima edizione dei Giochi della Speranza. Questi giochi vogliono essere una sorta di eredità del Giubileo degli sportivi per il mondo delle carceri italiane: un modello replicabile anche in altre strutture carcerarie. Dare speranza ai detenuti passa anche dallo sport”. Significative anche le parole di Sergio Sottani, Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Perugia: “Lo sport, come riconosciuto dalla Costituzione, ha un grande valore educativo e sociale, è fondamentale per la promozione del benessere fisico ed essenziale per il benessere di tutti, in particolare dei soggetti chiusi all’interno degli istituti di pena, essenzialmente per 3 motivi: in primo luogo perchè in carcere spesso non si fa nulla, quindi fare pratica sportiva significa migliorare l’aspetto fisico e svolgere attività sociale; poi il carcere spesso è un non-luogo, un posto dove si attende qualcosa che può essere l’uscita dal carcere stesso, riempirlo di contenuti diventa fondamentale; e per finire, è previsto anche per legge, svolgere attività sportiva all’interno di una casa circondariale fa si che il detenuto non si senta isolato dal mondo”. “Sport e Salute promuove lo sport a tutti livelli con una grande attenzione a quello che noi definiamo lo sport sociale e il carcere fa parte di questo mondo. Abbiamo fatto tanto, ma c’è ancora molto lavoro da fare. Abbiamo già finanziato 147 progetti nell’ambito dell’iniziativa “Sport per tutti in carcere” in 70 strutture per adulti e 10 per minori, ma non può bastare. Abbiamo il dovere di reperire nuove risorse perché la nostra volontà è quella di continuare a sostenere questo settore. Penso anche a iniziative di partenariato pubblico/privato e alle fondazioni che sostengono iniziative benefiche dico d’investire nel recupero di chi sta in carcere perché attraverso la pratica dello sport si vive un vero spazio di libertà”, ha concluso Marco Mezzaroma, Presidente di Sport e Salute. La prima edizione, come già anticipato si terrà a Roma, nel carcere di Rebibbia, dove lo scorso 26 dicembre, Papa Francesco aprì la Porta Santa, in segno di speranza e inclusione per i detenuti, segnando un momento storico nella storia dei Giubilei ordinari. L’evento sportivo consisterà in una piccola olimpiade che vedrà quattro rappresentative sportive (detenuti, polizia penitenziaria, magistrati ed esponenti della società civile) che si confronteranno in varie discipline sportive: calcio a 5, pallavolo, atletica leggera, tennis tavolo, calcio balilla e scacchi. Quella in programma a Rebibbia venerdì 13 giugno sarà solo la prima edizione, ma l’obiettivo è quello di creare un modello replicabile anche in altri istituti di pena, per permettere anche alle persone recluse di vivere in armonia e serenità questo momento di gioco ma soprattutto per valorizzare sempre di più lo sport come strumento di crescita personale e reinserimento sociale dei detenuti. La giornata di venerdì 13 giugno si svolgerà nel seguente modo: ore 8.00 - cerimonia di apertura; ore 8.30 - inizio gare; ore 13.00 - premiazioni finali. Torino. Al Salone del Libro premiati gli autori sul carcere di Marina Lomunno vocetempo.it, 22 maggio 2025 Grande folla al Salone del Libro per l’assegnazione del Premio letterario “Meco” sui temi del carcere. Oltre 800 gli elaborati giunti alla giuria del concorso promosso dal Forum Terzo Settore e dai Salesiani, in collaborazione con “La Voce e il Tempo”. Decine di persone sono rimaste in piedi al Salone del Libro, venerdì scorso presso lo stand del Comune di Torino, dove si è tenuta la premiazione della 1ª edizione del Premio letterario “Meco”, dedicato alla memoria di Domenico Ricca, salesiano, per 40 anni cappellano all’Istituto penale minorile torinese “Ferrante Aporti, scomparso lo scorso anno. Un pubblico inatteso come la partecipazione al concorso di cui il nostro giornale era media partner: nel giro di due mesi sono pervenuti alla giuria da tutt’Italia 850 contributi di autori nati dal 2007 al 1947. Saggi, poesie, racconti anche di detenuti (nel carcere di Biella al termine di un laboratorio di scrittura si è deciso di partecipare al premio) e da 13 giovani ristretti al “Ferrante Aporti” a cui era dedicata una sezione. “Un numero che ci ha colpiti” è stato sottolineato dai promotori, il Forum del Terzo Settore Piemonte, di cui don Ricca fu tra i fondatori, e i Salesiani del Piemonte e della Valle d’Aosta “perché il tema del Premio ‘Dietro le sbarre’, le sbarre fisiche di chi è in carcere e le sbarre ‘psicologiche e mentali’ di cui ognuno è prigioniero, non era semplice. Ma è stato sviscerato da molti punti di vista a seconda della propria sensibilità e condizione di vita: le sbarre della detenzione, malattia fisica e mentale, pregiudizio, conformismo, bullismo e molto altro”. Alla premiazione, oltre ai 12 giurati tra cui gli scrittori Margherita Oggero e Younis Tawfik e i rappresentati dei numerosi enti ed associazioni che operano nel sociale di cui don Ricca era punto di riferimento, sono intervenuti Michela Favaro, vicesindaco di Torino, Bruno Mellano, garante dei detenuti della Regione, Ennio Tomaselli, già capo della Procura minorile torinese, don Leonardo Mancini ispettore dei Salesiani del Piemonte e della Valle d’Aosta e don Silvano Oni, salesiano, successore di don Meco al “Ferrante”. Tra il pubblico, i vincitori e molti collaboratori di don Meco tra cui il procuratore dei minori del Piemonte e della Valle D’Aosta Emma Avezzù e gli amici del mondo associativo e del Terzo settore come le Acli e l’Associazione Aporti Aperte che, con la Scuola Holden che ha donato alcune borse di studio, hanno contribuito ai premi in denaro. Ed ecco i vincitori: categoria adulti, 1° premio a Laura Nair Diena con il racconto “Storia piccola di un lavoro”; per gli adolescenti ha vinto con il saggio breve “L’abbattimento del muro” Edoardo Degiovanni. Premi speciali a due persone con disabilità e per i 13 ragazzi del “Ferrante Aporti” la giuria ha deciso di premiare ex aequo 4 opere (tra cui la poesia che pubblichiamo in pagina) con un contributo di 250 euro e un riconoscimento di 100 euro a tutti i partecipanti. I primi tre premiati delle categorie adulti e adolescenti, 25 contributi che hanno ottenuto dalla giuria la menzione di pubblicazione e le quattro opere del “Ferrante” verranno incluse nel libro della 1ª edizione del Premio i cui proventi della vendita verranno interamente devoluti alla comunità per minori Harambée di Alessandria dove don Meco era di casa. Dato l’inatteso successo e la ricchezza dei contenuti, l’appuntamento è per la seconda edizione: il seminato di don Ricca continua a “dare di più ai giovani che hanno avuto di meno”. Quella luce nel buio del carcere di Claudio Bottan* L’Osservatore Romano, 22 maggio 2025 C’ero anch’io accanto a Papa Francesco il 6 novembre 2016, Anno Santo della Misericordia, e non potrò mai dimenticarlo. Don Silvano, il cappellano del carcere di Busto Arsizio a cui mi legava ormai un rapporto fraterno di amicizia, ci aveva preannunciato che alcuni di noi sarebbero stati scortati a Roma per assistere alla celebrazione del Giubileo dei carcerati. Avremmo potuto farlo da una posizione molto vicina al Pontefice, ci aveva promesso “il don”. Nessuno tra gli undici “prescelti”, tuttavia, si sarebbe mai aspettato di trovarsi faccia a faccia con Francesco e, men che meno, accanto a lui come chierichetto. Abbiamo assistito il Pontefice nella fase di vestizione poi siamo entrati in processione e abbiamo preso posto ai piedi dell’altare cercando di reggere all’emozione. “Ogni volta che entro in un carcere mi domando: “Perché loro e non io?”“. Le parole pronunciate da Papa Francesco hanno spalancato i cuori, ma hanno anche contribuito ad accrescere la commozione dei chierichetti-galeotti: ricordo ancora di essere inciampato in mondovisione mentre mi avvicinavo al Pontefice per versare l’acqua, ma ho trovato una mano pronta a sorreggermi e un sorriso tranquillizzante. Oggi, chi ha avuto il privilegio di incrociare sul proprio cammino lo sguardo di quell’uomo “venuto dalla fine del mondo” non può che aggrapparsi alla speranza per vincere la malinconia, il senso di solitudine e il vuoto che lascia la scomparsa di una figura che ha rappresentato un punto di riferimento. Tanto più profondo è il vuoto per chi ha avuto l’opportunità, come è capitato a me, di stare vicino a Francesco anche una seconda volta a distanza di qualche anno quando avevo finito di scontare la mia pena. Nella lettera indirizzata al Papa, scritta durante la pandemia, chiedevo di poterlo incontrare di nuovo insieme a Simona, la donna che mi aveva rivoluzionato la vita. Si è aperta la porta, è entrato in quel salottino di Santa Marta dove ci avevano fatti accomodare. Da solo, senza tanti convenevoli, sorridente, e con quell’andatura ciondolante a causa dell’artrosi che lo rendeva ancora più umano, fratello e vicino. “Come state?”. Papa Francesco mi ha abbracciato, poi ha allungato la mano verso quella di Simona e ha intuito immediatamente che quelle braccia non si sarebbero mosse a causa della sclerosi multipla. Si è seduto di fronte a noi e ha ascoltato. Mezz’ora di lacrime e sorrisi; racconti di vite che si intrecciano e arrancano guardando oltre le difficoltà del quotidiano. “Io non credo - aveva premesso Simona - ma ovunque nel mondo durante i miei viaggi in carrozzina ho incontrato persone che mi hanno assicurato le proprie preghiere”. “Pregate per me” è stata la raccomandazione finale di Bergoglio mentre ci accompagnava verso l’uscita. Da qualche anno Simona ed io incontriamo gli studenti di scuole e università lungo la Penisola per parlare di disabilità e carcere, di diritti, pregiudizi e speranza nel futuro. In un certo senso è la nostra preghiera laica, per non spezzare la catena del bene e dare un senso alla sofferenza. *Ex detenuto, vicedirettore della rivista “Voci di dentro” Teatro. Il carcere “Senza parole” premiato al teatro Parioli Costanzo di Viola Mancuso gnewsonline.it, 22 maggio 2025 Ieri sera lo storico palcoscenico del Maurizio Costanzo Show ha ospitato un evento straordinario: il premio dedicato al grande giornalista e autore, una iniziativa che mira a valorizzare i progetti teatrali realizzati all’interno degli istituti penitenziari e a promuovere il teatro come strumento di riscatto e integrazione. Tra le 26 opere inviate dalle compagnie teatrali, la giuria composta dal conduttore Pino Strabioli, dall’attore Valerio Mastandrea, dal giornalista Paolo Conti e dalla presidente dell’associazione “Voglia di Teatro”, Brunilde Di Giovanni, ha selezionato la sceneggiatura scritta dai detenuti della casa circondariale Sanquirico di Monza, con il supporto della Compagnia teatrale dei “Geniattori”. Attraverso la voce narrante del regista Mauro Sironi, i sette attori-detenuti hanno presentato lo spettacolo “Senza Parole”, un’opera che esplora le emozioni e le storie di chi vive l’esperienza del carcere. La serata del teatro Parioli Costanzo è stata condotta da Camilla Costanzo che, assieme ai fratelli e agli amici più stretti del padre, scomparso nel 2023, ha deciso di creare un’associazione impegnata nel portare il teatro negli istituti penitenziari ma anche nel valorizzare gli ambienti interni delle carceri romane come oggetto per le prossime produzioni. L’evento ha rappresentato un’opportunità unica per il pubblico di assistere a una performance autentica e commovente, frutto di un percorso di crescita personale e professionale dei detenuti coinvolti nella pratica teatrale. Doverosi i ringraziamenti al dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, al capo Dap facente funzioni Lina Di Domenico e a tutto il personale presente che, assieme ai sottosegretari Andrea Delmastro Delle Vedove, per la Giustizia, e Wanda Ferro, per l’Interno, hanno consentito la realizzazione dello spettacolo di fronte a ospiti illustri del mondo della cultura. Iniziato sulle note di “Vivere” di Vasco Rossi, lo spettacolo ha messo in scena con ironia e malinconia una giornata-tipo dei detenuti: 11 quadri che ripercorrono il tempo del carcere, che a volte non scorre mai. Gli 11 quadri raccontano le emozioni che scandiscono i diversi momenti detentivi: dall’ingresso in istituto con le foto segnaletiche, allo svolgimento delle attività lavorative, al passaggio del carrello del vitto fino ai colloqui con i familiari, attimi di gioia e di dolore. E poi, ancora, l’ora d’aria, la scelta del programma televisivo da guardare in cella, i pasti condivisi fino alla conclusione della pena, che porta con sé ansie e timori per il mondo che li aspetterà. Non sono mancati momenti di leggerezza, con l’imitazione di Maria De Filippi, presente in platea , i cui programmi “in carcere sono un momento istituzionale”, come dice uno degli interpreti di “Senza parole”, ma anche momenti di riflessione, come la lettera di un detenuto alla figlia che si é definito “papà per una sola volta alla settimana”. Il direttore commerciale del Teatro Parioli Costanzo, Fabrizio Musumeci, ha consegnato un premio in denaro alla compagnia teatrale “Geniattori”, fondata nel 2012 da un gruppo di attori amatoriali di Monza, con lo scopo di far appassionare i bambini alla magia del teatro. “Poetici, ironici, leggeri” é stato il commento di Pino Strabioli, che ha annunciato la prossima pubblicazione del testo per la casa editrice “La Ribalta”, nella collana dedicata al teatro. Massimo Giletti, facendo riferimento a momenti difficili e sottolineando l’importanza di non fermarsi mai di fronte alle difficoltà, ha ricordato l’attentato a Maurizio Costanzo del 1993, che segnò la sua carriera. Rita Dalla Chiesa, ha sottolineato come “Costanzo avrebbe amato questo spettacolo per le risate amare e per la lettera del padre a una figlia, perché è stato il primo ad interessarsi del sociale ed è stato capace di scavare nell’animo umano, andando oltre le apparenze”. Si è poi soffermata su un ricordo del padre, il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che si recava in carcere per andare a trovare il brigatista Patrizio Peci, donandogli dei libri a testimonianza del fatto che tentare di comprendere chi ha commesso degli errori può infondergli speranza. Hanno contribuito allo splendido omaggio a Maurizio Costanzo il comico Giobbe Covatta e il produttore Aurelio De Laurentis; quest’ultimo, per riallacciarsi al titolo dello spettacolo, ha sottolineato come il vero cinema sia nato muto e non abbia bisogno di parole. La serata si è conclusa con l’intervento del sottosegretario Delmastro Delle Vedove, che ha ricordato come Maurizio Costanzo sia stato il primo giornalista a dar voce a chi opera in carcere, garantendo le esigenze di sicurezza e trattamento. Ha poi ringraziato il corpo di Polizia penitenziaria che ha contribuito allo svolgimento di una serata che, attraverso il teatro, ha raccontato storie di vita, di cambiamento e di rinascita. Infine, si è complimentato con i detenuti per aver dimostrato che la bellezza può arrivare ovunque, anche nei luoghi ristretti. Teatro. “Mostra che sai cambiare!” di Paola Gabrielli Corriere di Bologna, 22 maggio 2025 Scutellà mette in scena “Antigone” con i giovani detenuti del carcere minorile Beccaria di Milano. I più giovani hanno appena 14 anni. Gli anziani, per così dire, non arrivano ai 25. Questa sera al Teatro del DAMSLab il Dipartimento delle Arti insieme al Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica presentano Antigone, spettacolo di teatro-carcere della compagnia Puntozero Teatro con gli attori-detenuti dell’Istituto Penale Minorile Cesare Beccaria di Milano. Diretto da Giuseppe Scutellà, è un progetto composito. Nei giorni scorsi è stato svolto anche un laboratorio per gli studenti del nostro ateneo condotto dallo stesso Scutellà che partecipano alla messa inscena con un introduttivo, energic oK horos. Conclude il progetto “Rinuncia alla tua rabbia, mostra che sai cambiare” (ore 20.15. Prenotazione consigliata: unibo.it/damslab/eventi). Scutellà, che lavoro vedremo? “Testualmente, l’Antigone integrale così com’è. Con la professoressa Rossella Mazzaglia siamo poi riusciti a introdurre gli studenti nel lavoro che la precede: un training psico-fisico pieno di senso, un bellissimo connubio tra loro e i nostri ragazzi. Si parla molto di rieducazione, in realtà chi è in scena non ha avuto neanche un’educazione. Quindi, prendere integralmente un testo di Sofocle, addentrarsi con loro e capirlo per me è un incredibile percorso”. “Rinuncia alla tua rabbia, mostra che sai cambiare”, le parole con cui Emone chiede a Creonte di non uccidere Antigone, è la frase perfetta... “I ragazzi lo sanno. L’importante è dotarli di possibilità e strumenti. Pretendere che cambino rinchiusi in una cella 3 metri per 2 è una cosa sciocca. Hanno bisogno di muoversi, scoprirsi, scoprire l’altro, relazionarsi e il teatro è strumento preferenziale in questa direzione”. Avete molto lavorato sul piano fisico... “L’energia che sprigionano è fantastica. Teniamo conto che sono in scena due ore e mezza. Del resto, sono ragazzi, nonostante siano segnati dalle avversità. Dico una cosa un po’ retorica, ma sprigionano voglia di vivere. E futuro”. Qual è il giusto atteggiamento per avvicinarsi a questo lavoro? “Non de v’ esser ci alcuna preparazione. Il classico bisogna affrontarlo senza paura. Racconto un aneddoto. A Milano venne una professoressa. Le piacque molto lo spettacolo, ma poi scivolò chiedendo a un ragazzo in scena: sai chi l’ha scritto? Lui non rispose e lei, disse: molto male. Se pensiamo al filologico abbiamo perso”. Perché l’idea del Khoros? “Il coro ha due funzioni: uscire dalla quotidianità e preparare all’atto performativo. Qui il protagonista in realtà è proprio il coro. Di esso si dice: abbatte l’individualità per andare insieme, invece tiene ferma l’individualità e fa andare verso un obiettivo comune”. Ha una formazione damsiana: cosa significa tornare qui? “È un ritorno in patria. Bologna è nel mio cuore e il Dams per me rappresenta ancora un’officina teorico-pratica interessante, una fucina di pensiero dal punto di vista artistico-teatrale. L’ho frequentata a inizio anni 90, ho ritrovato persone care e conosciute di nuove”. Puntozero dal 1995 è un esempio di teatro teatrale che continua nel tempo: come vede il suo stato di salute? “Lo vedo bene. Avevano dichiarato il teatro morto già nel secondo secolo avanti Cristo. Che dire: una lunga agonia che continuerà ancora molto”. Libri. “La speranza siamo noi, nessuno si senta escluso”. Viaggio nei luoghi di Resistenza d’Italia di Marianna Aprile La Stampa, 22 maggio 2025 Il saggio di Marianna Aprile con Luca Telese racconta le comunità che ci provano ancora: “Bisogna essere refrattari alla resilienza, il più riuscito anestetico dei nostri tempi”. La relativizzazione dei diritti non l’abbiamo vista arrivare. Ma anche ora che ce l’abbiamo sotto gli occhi fatichiamo a riconoscerla davvero, quindi ad arginarla. Ma sta (anche) a noi farci domande, e farne, non tanto per leggere quel che fin qui è stato, quanto per provare a interpretare quel che è e quel che potrebbe essere. Lo facciamo a partire da un’altra cifra tonda che cade nel 2025: gli ottant’anni dalla Liberazione dell’Italia e dell’Europa dal nazifascismo. Abbiamo iniziato l’anno con un discorso in cui il “sempre sia lodato” (copyright di Giuseppe Civati) presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ribadito che quella Liberazione con la maiuscola riassume in sé quelle “da tutto ciò che ostacola libertà, democrazia, dedizione all’Italia, dignità di ciascuno, lavoro, giustizia”, che costituiscono le fondamenta di Costituzione e democrazia, e quindi della nostra comunità nazionale. Ammetto che, ascoltandolo, ho pensato volesse anche un po’ mettere le cose in chiaro sul fatto che il 25 aprile del 2025 non sarebbero stati ammessi certificati medici, giustificazioni, otoliti o mal di denti a impedire la partecipazione alle celebrazioni anche da parte di chi, fin qui, ha dimostrato di non vederci poi molto da celebrare, in quella data. Ma forse sono io a essere maliziosa e a vedere nelle parole di Mattarella cose che non ci sono. A essere invece esplicito, nel suo discorso, era il richiamo a una particolare forma di speranza, quella che “non può tradursi soltanto in attesa inoperosa. La speranza siamo noi. Il nostro impegno. La nostra libertà. Le nostre scelte”. Una chiamata all’impegno che veste benissimo il senso di questo libro, che sembra una raccolta (di incontri, storie, inciampi) ma in realtà è un viaggio tra le piccole e grandi forme di operosa speranza con cui io e Luca ci siamo confrontati negli ultimi anni del nostro lavoro, insieme e separati. Forme di operosa speranza, le ho definite. La verità è che io e Luca, mentre le incontravamo e ce le raccontavamo a vicenda, non abbiamo avuto la minima esitazione nel ritenerle forme di resistenza, modi in cui singoli, piccoli gruppi o comunità provano a fare la cosa giusta in un Paese che spesso imbocca la direzione sbagliata. Tutte le volte cioè in cui si verificano strappi in quel tessuto di valori di cui è composto il dna della nostra Costituzione. Strappi che spesso neanche registriamo più, anche perché quando qualcuno ci prova parte il coretto del “vedete fascisti ovunque”. L’amore per la battuta mi farebbe rispondere d’impulso che se ce li vediamo forse è perché ci sono. Ma come molte battute sarebbe una semplificazione forse eccessiva. Perché non sono i fascisti a essere ovunque (non proprio ovunque, almeno), ma i fascismi, intesi come negazione delle libertà (di tutti, anche di quelli che non ci piacciono o non ci somigliano o ci fanno persino paura) e dei diritti (di tutti, se no, come diceva Gino Strada, si chiamano privilegi). E quegli strappi, i fascismi, sono così frequenti che non ci facciamo quasi più caso, che indicarli e stigmatizzarli può costare un’accusa di pedanteria anacronistica o un’ondata di insulti e odio; spesso entrambe le cose. Sono frequenti, dicevo, e mai inefficaci, anche quando per fortuna le proposte che sottendono non trovano reale applicazione. Il solo fatto di sdoganare l’indicibile (le classi separate per i bambini con diverse abilità o per i figli degli stranieri, la deportazione di immigrati in un Paese extra-Ue o quella di ogni palestinese da Gaza) modifica un immaginario, allargandolo fino all’inimmaginabile. Rompe un tabù, quello dell’inviolabilità dei diritti fondamentali; e la rottura del tabù è essa stessa una violazione di quei diritti. Sistematica, studiata e finalizzata. Lo dice con precisione chirurgica e parole esatte il Benito Mussolini di Luca Marinelli in M. Il figlio del secolo, la serie Sky tratta dal primo dei romanzi che Antonio Scurati ha dedicato al Duce: “Per cambiare la storia serve sfrontatezza. Bisogna violare ciò che è considerato inviolabile. Bisogna superare un confine che nessuno ha mai osato superare. Ci sarà chi griderà, chi strepiterà che è inaudito. E ne potremo discutere. Ma a quel punto il più è fatto, l’inviolabile è stato violato. Potremo parlare del quanto, del come, ma il confine è stato superato. E un confine superato non è più un confine”. Ecco, le storie di questo libro raccontano di chi invece quei confini li presidia, li difende, li ribadisce con la consapevolezza che siano gli unici confini che valga davvero la pena presidiare, difendere e ribadire. Perché i diritti non diventino privilegi di pochi e per combattere la pur umanissima ambizione a voler essere tra quei pochi. Questo è quindi un libro militante, resistente, ma soprattutto refrattario alla resilienza, il più riuscito anestetico dei nostri tempi, l’antidoto più efficace contro ogni tentazione di resistenza. (Pubblicato per Piemme da Mondadori Libri S.p.A, © 2025 Mondadori Libri S.p.A., Milano) Fine vita, la partita è ancora aperta: ma il centrodestra è diviso sul testo di Francesca Spasiano Il Dubbio, 22 maggio 2025 Nel piccolo giallo sul fine vita il finale non è ancora scritto. Un “testo condiviso” dalla maggioranza è ancora possibile, anche se il quadro è complicatissimo e la partita si gioca a carte coperte. Qualcuno tira un sospiro di sollievo: meglio nessuna legge che una cattiva legge, si sussurra fuori dal Palazzo. Dentro, invece, sono tutti a volerla. Almeno a parole. Perché a destra c’è anche chi farebbe volentieri a meno di una norma, nella speranza che un nuovo orientamento della Consulta tolga dall’imbarazzo il Parlamento. Al momento, però, l’imbarazzo c’è eccome. E lo dimostra l’incidente politico avvenuto al Senato martedì scorso, proprio nel giorno in cui la Corte Costituzionale sollecitava per l’ennesima volta il legislatore ad occuparsi della materia. Il set in cui si è consumato lo scontro è il Comitato ristretto di Palazzo Madama, al quale i relatori Pierantonio Zanettin di Forza Italia e Ignazio Zullo di Fratelli d’Italia avrebbero dovuto presentare un testo unificato. Che però non è mai esistito, o non esiste più: non è dato saperlo. Ciò che sappiamo è che il presidente della Commissione Affari Sociali, il meloniano Francesco Zaffini, si è presentato per la prima volta al Comitato per spiegare che prima di adottare una bozza bisogna sciogliere alcuni nodi. Uno riguarda le cure palliative, sulle quali si era previsto un percorso obbligatorio come requisito aggiuntivo per accedere al suicidio assistito. Un quinto criterio, oltre ai quattro stabiliti dalla Consulta. L’altro intoppo, invece, riguarda il ruolo del Servizio sanitario nazionale, che Fratelli d’Italia vorrebbe tenere fuori dai percorsi di fine vita. Ma con quali conseguenze, dal punto di vista pratico? Le perplessità trapelano anche dal centrodestra. Mentre si fa strada l’idea che il “blitz” a Palazzo Madama non abbia a che fare con il testo: un’intesa si può sempre trovare, dicono da Forza Italia. Il vero ostacolo arriverebbe da Palazzo Chigi, come sospetta qualcuno. Con un’anima dentro il centrodestra che starebbe cercando di bloccare ogni tentativo di legiferare a colpi di rinvii e sedute a vuoto. Rieccoci al punto: chi è che non vuole una legge? Ufficialmente i movimenti pro vita, così come Simone Pillon. Anche se non è un mistero, dice una fonte, che sia il sottosegretario Alfredo Mantovano a “frenare”. Certo è, fanno notare dal centrodestra, che il presidente del Senato ha già calendarizzato: si va in Aula il 14luglio. Ma con quale testo? È qui che entra in scena il senatore del Pd Alfredo Bazoli, relatore nella scorsa legislatura del testo approvato alla Camera e naufragato con la caduta del governo. Il dem ha ripresentato lo stesso testo, che per altro è l’unico a poter approdare in Aula senza mandato al relatore perché ha la firma di un terzo dei senatori. Dopo la fumata nera nel Comitato, che Bazoli considera ormai più che “fallito”, lo stesso senatore non nasconde la sua frustrazione di fronte a una maggioranza spaccata e propone di ripartire dai lavori in Commissione, adottando il suo testo. “Il comitato si è riunito sei volte, sei volte in cinque mesi, e non è riuscito a produrre nulla. Ora è ridicolo mettersi ancora a parlare di nodi generali senza avere davanti un’ipotesi su cui lavorare”, ragiona il dem. Il fatto è che il centrodestra non sarà disposto ad accettare la sua gentile offerta. Come ammette anche Zanettin: “Il Comitato ristretto nasce proprio perché nessuno dei testi in Commissione era considerato adeguato. La speranza era quella di licenziare un testo base, ma ora continuiamo a lavorare. Sappiamo che è un percorso complicato”. Non solo perché la politica si incarta sui temi etici. Ma perché la “libertà di coscienza” lasciata al singolo parlamentare rende la partita in Aula prevedibile, ma non del tutto scontata: c’è sempre la possibilità che il testo di Bazoli ci arrivi, e che dai banchi del centrodestra qualcuno decida di votarlo. Perché lo chiedono i pazienti che vivono sofferenze intollerabili e lo chiede la Corte Costituzionale, che ha regolamentato l’accesso al suicidio assistito con la sentenza numero 242 del 2019, la storica “Cappato/ Dj Fabo”. Ancora la Consulta si è pronunciata per due volte sul requisito del “trattamento di sostegno vitale”, con la sentenza 135 del luglio 2024 e la numero 66 di martedì. Ma l’attesa adesso è tutta per la decisione della Corte che dovrebbe precedere l’Aula: quella sulla legge della Toscana, prima Regione in Italia a dotarsi di una norma sul fine vita, che il governo ha deciso di impugnare rivendicando le competenze. Se i giudici “legittimeranno” quella legge, le Regioni andranno a ruota libera. In caso contrario, l’esecutivo potrà ancora sottrarsi dall’impegno che gli ha scippato? Stato e libertà individuale: il paradosso delle destre sulle norme sul fine vita di Piero Ignazi* Il Domani, 22 maggio 2025 Sul tema la società civile italiana, come ai tempi del divorzio e dell’aborto, è molto più avanti rispetto ai governanti. La stessa Corte costituzionale è intervenuta ben quattro volte per dirimere tutte le questioni sorte in merito a una legislazione carente. Ma la maggioranza fa ostruzione, anche per le sue divisioni interne. Di chi è la mia vita? Questo è l’interrogativo essenziale di cui scriveva anni fa Roberto Escobar a proposito del caso di Eluana Englaro. Un caso che sollevò tanta passione emotiva e politica per la ferocia, questa sì mortifera, con cui la destra voleva impedire una fine degna a una vita già spenta da decenni. Ora siamo tornati a quel punto, perché in Italia raramente si fanno passi in avanti: si è condannati a eterni ritorni. Basti pensare a come l’essenza del fascismo, la sua pulsione autoritaria e nazionalista, stia tornando a infettare la società dopo un secolo. Un “diritto civile” - Per un impasto tradizionalista clericale, la destra, che di questi sentimenti si nutre - anche ma non solo altrimenti non ci spiegheremmo la sua presa - fa ostruzione a ogni tentativo di normare quello che l’opinione pubblica considera un “diritto civile”: il diritto a una morte serena senza patimenti terribili e infiniti. Del resto, per tornare all’interrogativo inziale, chi deve prendere una decisione sulla nostra vita, sull’alfa e l’omega dell’esistenza? C’è una autorità suprema che ha il diritto di definire i nostri destini ultimi? Per chi crede nel Dio dei cattolici è proprio a questa entità suprema e ultraterrena che si rimanda la decisione finale. Le nostre vite sono nelle mani del Signore recita una antica sentenza popolare. A nessuno viene in mente di sottrare al destino e allo scorrere del tempo l’arrivo della grande falciatrice - ovviamente per chi ha fede. Per gli altri il discorso non può che rimandare a un’etica laica, terrena. Su questo punto si scontrano due visioni del mondo che hanno marcato la storia dell’Occidente nei secoli. Da un lato il libero arbitrio con il suo corollario di autonomia del pensiero e quindi di scelte individuali su ogni piano, e dall’altro il controllo dall’alto della vita delle persone da parte di una autorità suprema e intangibile. Che per secoli è stata identificata nella chiesa e poi, con la modernità, nello stato. E il peggio è arrivato quando religione e stato si sono intrecciati. Lo abbiamo visto nella storia, ma lo vediamo ancora oggi, ad esempio in Iran e in Israele, dove la forza dello stato si fonda sul richiamo alla religione. Stato e religione - La società civile italiana, come ai tempi del divorzio e dell’aborto, è molto più avanti rispetto ai governanti. Tutte le inchieste rivelano una netta maggioranza a favore della libertà di scelta per il fine vita. La stessa Corte costituzionale è intervenuta ben quattro volte per dirimere tutte le questioni sorte in merito ad una legislazione carente su questo tema, e conseguentemente ha sollecitato il parlamento a intervenire. Ma la maggioranza fa ostruzione, anche per le sue divisioni interne: e la posizione aperturista del presidente leghista del Veneto, Luca Zaia, lo mette bene in luce. Potrebbe essere forse di stimolo per sbloccare lo stallo in parlamento la discussione molto civile che si svolge in questi giorni all’Assemblea nazionale francese pur nella divisione trasversale delle sensibilità. Anche in Francia si ricalcano sostanzialmente i requisiti già messi in evidenza dalla sentenza della nostra Corte costituzionale: patologie irreversibili, sofferenza fisica o psicologica non tollerabile , sostegno vitale assicurato da trattamenti insostituibili non solo meccanici, capacità di decisione autonoma. La libertà individuale - Con il suo boicottaggio il governo non solo si allontana, anche su questo, dalle sensibilità maturate nell’opinione pubblica, ma evidenzia anche un bel cortocircuito rispetto alle posizioni No-vax che aveva difeso a spada tratta negli anni della pandemia, e che tuttora persegue. La destra allora era insorta contro le iniziative di protezione dal virus della collettività in nome di una supposta libertà individuale. Ora nega alla radice la libera scelta. Mentre le limitazioni durante la pandemia servivano a non mettere in pericolo altri, nel caso del fine vita la decisione dell’individuo non riguarda altri che sé stesso. Ma allora, ancora una volta, di chi è la mia vita? *Politologo Parla Noury: “Un sì ai referendum sulla cittadinanza per abbattere le discriminazioni” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 22 maggio 2025 “Il quesito vuol rendere il sistema più equo e realistico senza stravolgere i criteri già previsti. Non si chiede la luna. L’appello all’astensione di La Russa? Siamo al menefreghismo istituzionale. Amnesty International invita a recarsi ai seggi e ad esprimersi su tutti e cinque i referendum”. Riccardo Noury, Portavoce di Amnesty International Italia. Amnesty Italia è particolarmente impegnata per il sì al referendum sulla cittadinanza dell’8-9 giugno. Cosa vi ha spinto a questo sostegno attivo? Nei nostri primi 50 anni di attività in favore dei diritti umani in Italia, che ricorrono proprio nel 2025, abbiamo appreso e praticato una lezione: il progresso nel campo dei diritti passa attraverso forme di partecipazione attiva: mobilitarsi nelle piazze, andare al voto in occasione delle elezioni e, naturalmente, partecipare ai referendum. Quest’ultimo strumento è particolarmente utile quando non c’è altro modo per cambiare una situazione. La normativa sull’acquisizione della cittadinanza italiana, che il referendum intende modificare, risale addirittura al 1992. Da allora si sono succeduti governi di orientamento diverso ma non c’è stato mai modo di intervenire. La proposta referendaria abrogativa intende meramente rendere il sistema più equo e realistico, senza stravolgere i criteri già previsti dalla legge. Non si chiede la luna. Caso mai mezza, dato che il quesito propone la riduzione da dieci a cinque anni del requisito di residenza legale e ininterrotta in Italia per poter presentare domanda di cittadinanza. Peraltro, il percorso è molto più lungo: se si sommano il tempo necessario per soddisfare i requisiti (ad esempio, maturare il reddito richiesto) e i lunghi tempi di attesa per la valutazione della domanda da parte della pubblica amministrazione, si arriva facilmente ad almeno quindici anni prima di ottenere la cittadinanza. Anche se il referendum passasse, il tempo complessivo per ottenere la cittadinanza rimarrebbe comunque molto lungo. Oltre ai cinque anni di residenza legale, bisogna considerare che la pubblica amministrazione ha fino a tre anni per valutare la domanda. Questo significa che in ogni caso, tra il tempo necessario per maturare i requisiti e l’iter burocratico, potrebbero passare comunque otto anni prima di ottenere la cittadinanza. Quindi, alla fine, siamo alla richiesta di un quarto di luna. Qual è la situazione oggi in questo campo? L’Italia ha uno degli standard più restrittivi d’Europa. La Germania dal 2024 ha ridotto a cinque anni il requisito di residenza, riconoscendo il contributo dei cittadini stranieri allo sviluppo del paese. La Francia richiede cinque anni di residenza, ridotti a due per chi vi ha studiato, idem la Spagna in caso di forti legami storici e culturali col paese. Quali sarebbero gli effetti positivi della vittoria del sì? Ridurre il periodo di attesa della cittadinanza significherebbe riconoscere più rapidamente il ruolo delle persone che già vivono qui e contribuiscono alla nostra società. Produrrebbe anche un miglior accesso ai diritti: con la cittadinanza si acquisiscono pieni diritti civili e politici, tra cui il diritto di voto. In altre parole, si otterrebbe una sostanziale riduzione delle forme di discriminazione per le persone oggi prive di cittadinanza italiana. Soprattutto, ne deriverebbe un profondo cambiamento sotto il profilo identitario: chi ha un background migratorio non verrebbe più percepito come “di passaggio” o semplicemente “soggiornante” in Italia, ma come una persona che progetta di costruire la sua vita qui. Vorrei sottolineare un aspetto che è molto trascurato: le persone senza cittadinanza italiana sono oggi più discriminate nel momento in cui scendono in piazza per far valere i loro diritti. Un tema di grande rilevanza di cui si parla e scrive troppo poco. La tendenza al racial profiling da parte delle forze di polizia è stata rilevata dalla Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza. Il racial profiling può produrre una serie di conseguenze negative: lo sviluppo di un senso di sfiducia o di avversione nei confronti delle istituzioni, l’emarginazione e la stigmatizzazione. Nel caso del diritto di manifestazione pacifica, può condurre invece all’autoesclusione, privando quindi le persone razzializzate e senza cittadinanza di uno dei pochi strumenti per far sentire la propria voce, dato che il diritto di voto è loro negato. Inoltre, la segnalazione da parte delle forze di polizia delle persone manifestanti può portare a un diniego della cittadinanza a fronte della presentazione della richiesta. Libertà è partecipazione, cantava il grande Giorgio Gaber. Eppure, la seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Ignazio La Russa, dichiara, con piccoli aggiustamenti retorici, la sua intenzione a fare campagna per il non voto. Fa impressione una presa di posizione così netta da parte della seconda carica dello Stato. Naturalmente, la cornice di legittimità invocata è quella dell’esercizio di un diritto, e chi glielo può contestare! Però, c’è un problema di opportunità: invitare a non votare vuol dire disincentivare la partecipazione attiva, che è un ingrediente fondamentale delle società democratiche. Non c’è dubbio che, in contesti nei quali già recarsi alle urne è considerato uno sforzo immane o un atto inutile - tant’è che a livello globale la tendenza a presentarsi in pochi a un seggio fa sì che maggioranze vengano elette da minoranze - dichiarazioni di non voto disincentivino a prendere parte a scelte importanti. Siamo al menefreghismo istituzionale, che è un po’ più grave della disaffezione popolare. Anche perché il primo rafforza la seconda. Da qui l’invito di Amnesty International a recarsi ai seggi e ad esprimersi su tutti e cinque i referendum. I referendum sono oscurati dalla Tv di Stato che, sulla carta, dovrebbe essere un servizio pubblico… Dovrebbe essere un servizio pubblico anche per quanto riguarda la completezza delle informazioni su quanto sta accadendo da 19 mesi nella Striscia di Gaza mentre invece, come hanno dimostrato le reazioni alla puntata di Presa diretta a ciò dedicata, molti considerano che l’unica informazione corretta sui palestinesi è quella che non ne debba parlare. Nei giorni scorsi, in una conferenza, ho visto in collegamento un uomo sfinito dalla fame, uno dei pochi giornalisti ancora vivi nella Striscia di Gaza: Hassan Selmi. Le sue parole non hanno neanche più un vocabolario adeguato a commentarle: “Cerchiamo di stare il più lontano possibile dai luoghi cui più dovremmo stare vicini: gli ospedali, perché l’esercito israeliano li bombarda. E potrebbe uccidere me in questo esatto momento, mentre sto parlando a voi o perché sto parlando con voi”. A parte il Tg3, non ne ha parlato nessuno. Quanto alla sua domanda sui referendum, ecco l’alibi perfetto: se sono solo alcuni a dichiarare che voteranno no e se le alte cariche dello stato dicono che non voteranno, come fai a parlarne, a prendere parte a un dibattito, se dalla parte contraria al sì non trovi praticamente nessuno? Cosa dovrebbe fare il comitato per il sì? Creare anche un comitato per il no e uno per l’astensione per poter parlare dei referendum? Per restare su Gaza, una tragedia senza fine… In un’escalation terribile di attacchi israeliani contro la Striscia di Gaza, con centinaia di morti solo tra i civili palestinesi nell’ultima settimana e nuovi ordini di sfollamento, dopo 80 giorni di blocco dell’ingresso degli aiuti umanitari e dunque di fame, lunedì scorso il governo israeliano ha deciso di far entrare un centinaio di camion, la distribuzione del cui contenuto è comunque tutta da vedere. Insomma, un indoramento della pillola genocida. Soprattutto quando ha iniziato a circolare la notizia che in qualche camion, che avrebbe dovuto contenere sacchi di farina, c’erano invece sacchi per cadaveri. Qualche governo occidentale si sta muovendo, minacciando sanzioni nei confronti di Israele. Così abbiamo capito qual è la soglia minima necessaria da raggiungere (19 mesi di bombardamenti, oltre 50.000 morti, due mesi e mezzo di blocco degli aiuti) prima che si faccia qualcosa. Martedì scorso la Commissione europea ha annunciato una revisione dell’Accordo di associazione tra Unione europea e Israele, il cui articolo 2 parla di rispetto dei diritti umani e dei principi democratici. Hanno votato a favore 17 stati membri dell’Unione europea. L’Italia? Ha votato no. Intanto Amnesty International è finita nell’elenco delle “organizzazioni indesiderabili” in Russia… È stato il regalo di compleanno del presidente Putin per i nostri 50 anni di attività in Italia. Da un certo punto di vista, è motivo di orgoglio essere insieme a organizzazioni non governative, mezzi d’informazione indipendente, gruppi per i diritti umani, movimenti Lgbtqia+: il loro numero è superiore a 230 ed è enormemente cresciuto dall’inizio della guerra contro l’Ucraina. La legge, entrata in vigore nel 2015, consente allo stato di vietare le attività di organizzazioni non governative straniere o internazionali considerate una minaccia per “la sicurezza dello stato, la difesa nazionale o l’ordine costituzionale” e stabilisce sanzioni per i cittadini e gli organismi della società civile della Russia in contatto con esse. L’etichetta di “organizzazione indesiderabile” non impedirà minimamente ad Amnesty International di continuare a svolgere ricerche sui crimini di guerra in Ucraina o sulla repressione del dissenso interno. Non ebbe alcuna conseguenza nemmeno il provvedimento con cui, nel marzo 2022, venne chiusa la sede moscovita di Amnesty International. Ma rischia di colpire, anche col carcere, persone realmente o pretestuosamente ritenute associate all’organizzazione per i diritti umani. Come sono stati questi 50 anni di lavoro in Italia? Demoralizzanti, perché non abbiamo visto emergere una cultura politica dei diritti umani. Dal “qui da noi certe cose non succedono”, siamo passati al rivendicarle: penso all’uso della forza durante le manifestazioni, alla repressione del dissenso, al bavaglio alla libertà di stampa, al trattamento crudele delle persone migranti. Ma sono stati anche entusiasmanti, perché quella cultura che nelle istituzioni manca l’abbiamo allevata e allenata nelle piazze e nelle scuole. Sappiamo che nei prossimi 50 anni altre persone prenderanno il testimone di queste lotte. Migranti. Soccorso in mare, il decreto anti-ong alla Consulta di Giansandro Merli Il Manifesto, 22 maggio 2025 Ieri l’udienza sui dubbi di incostituzionalità. Attesa per il responso. Tra le questioni finite ieri davanti alla Corte costituzionale c’è anche quella se la zona di ricerca e soccorso libica violi gli obblighi internazionali a cui l’Italia è vincolata. Nella sala Gialla del palazzo della Consulta è approdato il decreto Piantedosi, con cui a gennaio 2023 il governo ha creato nuovi ostacoli al soccorso in mare delle navi ong. I quindici giudici delle leggi dovranno esaminarlo alla luce del rinvio avanzato dal tribunale di Brindisi in un procedimento che riguarda la nave Ocean Viking, dell’ong Sos Mediterranée. Il 6 febbraio del 2024 in quattro diverse operazioni l’imbarcazione umanitaria aveva salvato 261 naufraghi. All’arrivo nel porto pugliese, però, era stata sottoposta a fermo amministrativo. La motivazione è che in uno dei salvataggi non avrebbe obbedito agli ordini della sedicente “guardia costiera libica”. La giudice Roberta Marra ha prima sospeso il fermo e poi, al termine delle udienze, deciso di sollevare alla Consulta tre questioni di legittimità costituzionale. Partendo dall’ultima, la Corte dovrà valutare se la norma voluta dal governo italiano è in contrasto con le convenzioni internazionali che regolano il diritto del mare e il diritto d’asilo. Se un capitano obbedisse agli ordini delle forze libiche, infatti, i migranti sarebbero condotti in un paese che viola i loro diritti più basilari, a partire da quello alla vita. A Tripoli non c’è alcun “porto sicuro” ad attenderli, ma centri di tortura in cui subiscono sistematicamente violenze, stupri, detenzioni arbitrarie e omicidi. Lo hanno affermato in questi anni alcune sentenze della Cassazione, denunciato i report delle Nazioni unite e, nel procedimento in corso, lo sostengono i pareri inviati da due importanti organizzazioni: Human Rights Watch e European Center for Constitutional and Human Rights. Il tribunale di Brindisi dubita poi che la norma rispetti i principi di determinatezza e legalità dal momento che impone un “rinvio in bianco” agli ordini di un’autorità straniera che si danno nella contingenza del caso singolo, senza il requisito di “prevedibilità proprio della legge, generale e astratta”. Caratteristiche che impediscono di verificare la loro conformità costituzionale. Basti pensare che durante l’udienza di ieri la difesa di Sos Mediterranée ha sventolato in aula l’indicazione dei libici che, disattesa, ha portato al fermo: “To leave, to leave” (andate via, ndr), una riga contenuta in una mail successivamente indirizzata alle autorità italiane, che l’ong ha visto solo durante il processo. L’altra questione di legittimità, quella più precisa da un punto di vista giuridico, contestava l’impossibilità del giudice di graduare la sanzione del blocco amministrativo in base alla condotta (sono tante e diverse quello che possono causarlo). Però superata perché nel frattempo il governo ha modificato la norma. Resta il fatto che il decreto Piantedosi va a toccare il quadro delle norme internazionali e intacca diritti di protetti dalle fonti sovraordinate. “Le nuove norme dimostrano la sfiducia dell’esecutivo nel diritto consuetudinario, pattizio e costituzionale. Segnalano la volontà latente di uscirne”, ha affermato il legale dell’ong Dario Belluccio. Dal canto suo l’avvocatura dello Stato ritiene che le tre questioni siano manifestamente infondate o inammissibili. Oggi la Corte potrebbe pubblicare il comunicato stampa, allegando o meno la sentenza, per rendere noto quanto stabilito. In caso contrario bisognerà attendere il testo della decisione, per cui non c’è una data prestabilita. Se la democrazia è meno luminosa di Danilo Taino Corriere della Sera, 22 maggio 2025 Nel 1990, ha scritto l’Economist, l’80% dei tedeschi diceva di sentirsi libero di esprimere le proprie opinioni, ora la percentuale si è più che dimezzata. In Francia, un pensionato che aveva esposto uno striscione nel quale invitava il presidente Macron ad “andare fuori dalle palle” ha dovuto frequentare un corso di rieducazione civica per evitare di essere incriminato. In Spagna ci sono reati contro l’offesa al re. Sembra che sull’Atlantico il faro della democrazia faccia meno luce di un tempo. Dell’America si sa, se ne parla molto: l’Amministrazione Trump ha messo sotto pressione i media considerati nemici, le università politicamente troppo corrette, alcuni giudici e grandi studi legali non graditi. Delle evoluzioni della democrazia europea, però, non si parla quasi mai. Ha fatto bene, dunque, il settimanale Economist a mettere in copertina una cerniera che chiude una bocca: titolo, “Il Problema della libertà di espressione dell’Europa”. Perché un problema c’è. Non solo nell’Ungheria di Viktor Orbán, della quale si discute molto. Anche in Germania, nel Regno Unito, in Francia e in altri Paesi la questione esiste. Il settimanale britannico si concentra sulle cosiddette leggi anti odio, attraverso le quali la libertà di espressione viene spesso negata. È chiaro che, soprattutto online, molti messaggi sono più che sgradevoli, in parecchi casi offensivi, fake news che rimbalzano migliaia di volte. È ovviamente legittimo usare la legge per punire l’incitamento alla violenza, la diffusione di segreti nazionali, la pedopornografia. Ma l’ex vicecancelliere tedesco Robert Habeck che ha sporto ottocento denunce contro persone che, per esempio, lo hanno definito “idiota”? Nel 1990, ha scritto l’Economist, l’80% dei tedeschi diceva di sentirsi libero di esprimere le proprie opinioni, ora la percentuale si è più che dimezzata. In Francia, un pensionato che aveva esposto uno striscione nel quale invitava il presidente Macron ad “andare fuori dalle palle” ha dovuto frequentare un corso di rieducazione civica per evitare di essere incriminato. In Spagna ci sono reati contro l’offesa al re. Nel Regno Unito, la polizia trova più comodo passare ore a pattugliare online che per strada. Criticare duramente i potenti è diventato più rischioso. Fin qui, il settimanale di Londra. In molti Paesi europei, c’è però anche una censura più sottile. Su alcuni argomenti, è difficile essere franchi fino in fondo se si va contro le opinioni preferite dagli establishment: sui metodi di lotta al cambiamento climatico, per esempio, o sulla retorica europeista. Non si commette un reato ma una conversazione su questi temi prende quota raramente, è osteggiata. Con il risultato, tra l’altro, che discutendo solo tra chi è d’accordo non si correggono mai gli errori. Serve più luce sull’Atlantico. Com’è fatta la “Guantánamo francese” che vuole Darmanin di Mauro Zanon Il Foglio, 22 maggio 2025 Le carceri di Vendin-le-Veil e Condé-sur-Sarthe, nell’Orne, si preparano a ospitare nei prossimi mesi duecento tra i più pericolosi trafficanti di droga sul territorio francese. Il ministro della Giustizia di Macron ha già promesso entro il 2028 un nuovo istituto nel cuore della giungla amazzonica, nonostante le proteste della comunità della Guyana. Fin dal primo giorno in cui ha indossato gli abiti di ministro della Giustizia del governo francese, Gérald Darmanin, ex sarzkoysta di ferro convertito al macronismo, ha fatto della lotta al narcotraffico la sua priorità, annunciando misure drastiche per spezzare le reti criminali e riprendere il controllo dei cosiddetti “territori perduti della République” (Georges Bensoussan). A gennaio, Darmanin aveva manifestato per la prima volta la sua volontà di isolare “i cento più grossi trafficanti” in “istituti penitenziari di massima sicurezza”, prevedendo un regime di isolamento totale ispirato al 41-bis italiano, la forma di detenzione più dura del nostro sistema carcerario (a febbraio, il guardasigilli francese ha incontrato a Roma il suo omologo italiano Carlo Nordio per studiarlo da vicino). Le carceri di Vendin-le-Veil, nel dipartimento del Pas-de-Calais, e di Condé-sur-Sarthe, nell’Orne, si stanno già preparando a ospitare nei prossimi mesi duecento tra i più pericolosi trafficanti di droga sul territorio francese. Ma non saranno gli unici. Sabato, in un’intervista al Journal du dimanche, Darmanin ha annunciato la creazione entro il 2028 di un istituto penitenziario di massima sicurezza a Saint-Laurent-du-Maroni, nella Guyana francese, a oltre settemila chilometri dalla Francia continentale. Il carcere, sul modello delle prigioni “supermax” americane, pensate e costruite per i detenuti più pericolosi, che devono scontare pene a lungo termine e sono destinati all’isolamento, sorgerà nel cuore della giungla amazzonica e conterà cinquecento posti. Il costo totale del cantiere? Circa 400 milioni di euro. “Ho deciso di costruire in Guyana il terzo carcere di massima sicurezza della Francia. Sessanta posti saranno riservati a un regime detentivo estremamente severo, pensato per isolare i narcotrafficanti più pericolosi”, ha dichiarato il ministro della Giustizia al giornale. Ma non ci saranno solo i “baroni della droga” nella futura prigione di Saint-Laurent-du-Maroni. “Quindici celle saranno dedicate esclusivamente a islamisti radicali e detenuti considerati altamente pericolosi”, ha aggiunto Darmanin. Situata sulla costa nord-orientale del Sudamerica, la Guyana è uno dei dipartimenti francesi col più alto tasso di criminalità. Come evidenziato da France 24, il nuovo centro penitenziario è destinato a snellire il sovraffollamento della prigione di Rémire-Montjoly, vicino a Cayenna, capoluogo della Guyana francese, e fa parte del progetto di “cité judiciaire” previsto dal piano d’emergenza nell’ambito degli “accords de Guyane” firmati nell’aprile 2017, quando all’Eliseo c’era ancora il socialista François Hollande. “La mia strategia è semplice: colpire la criminalità organizzata a tutti i livelli. Qui (in Guyana, ndr), all’inizio del percorso della droga. Nella Francia continentale, neutralizzando i capi delle reti, fino ai consumatori. Questa prigione sarà un elemento chiave nella guerra contro il narcotraffico”, ha sottolineato Darmanin. La scelta di Saint-Laurent-du-Maroni non è casuale: la città della Guyana francese è un crocevia strategico per i “muli” - i corrieri della droga, spesso provenienti dal Brasile - che ogni giorno tentano di imbarcarsi su un volo per l’aeroporto di Parigi-Orly con la cocaina proveniente dal vicino Suriname nascosta nei bagagli o nello stomaco. Ma il progetto attraverso cui Darmanin vuole affermarsi come l’uomo forte del governo è lungi dal raccogliere l’unanimità: sia nella Francia continentale, dove la sinistra accusa Darmanin di voler aprire una “Guantanamo francese”, sia in Guyana, dove i politici locali parlano di ritorno ai “bagni penali coloniali”, attivi nel dipartimento d’oltremare tra il 1795 e il 1953. In un comunicato, la Collettività territoriale della Guyana ha affermato che il dipartimento “non è destinato ad accogliere terroristi e criminali” provenienti dalla Francia continentale, denunciando la persistenza di “stereotipi tenaci e sprezzanti”. Si chiede il Monde: sarà un bagno penale 2.0?