L’osceno ossimoro delle nostre prigioni di Tullio Padovani* L’Unità, 21 maggio 2025 Qualcosa sembra finalmente muoversi sul tetro fronte del sovraffollamento carcerario, sin qui animato solo dall’iniziativa di Rita Bernardini che, qualche settimana fa, aveva iniziato, per sollecitare un intervento risolutore, uno sciopero della fame, che ora ha sospeso in presenza di qualche segnale positivo. C’è da augurarsi che sia così, perché, fra tutti i nodi che affliggono l’istituzione carceraria, quello del sovraffollamento è il più intollerabile. L’affermazione può stupire: tali e tanti sono gli orrori dell’esecuzione penitenziaria, che attribuire un primato negativo al sovraffollamento esige una spiegazione. Com’è noto, il carcere è un’istituzione totale, e cioè un universo disciplinare capace di includere, assorbire e definire ogni aspetto della vita dei detenuti, e si caratterizza ulteriormente per essere marginale ed emarginante: marginale, perché costituisce, in un contesto sociale dato, la peggiore condizione possibile, ed emarginante, perché determina e perpetua una condizione di esclusione. Naturalmente, questa dimensione, sostanzialmente immutabile, si prospetta in forme e contenuti relativamente variabili: il carcere può essere severo senza diventare feroce; può punire senza offendere la dignità umana: può far soffrire senza uccidere la speranza, e spesso anche la vita. Il sovraffollamento si inquadra però tra le situazioni contingenti estranee alla struttura del carcere, ed è anzi disfunzionale rispetto al suo carattere di istituzione totale, in quanto destinato ad influire negativamente sulla disciplina e sull’ordine, assi portanti su cui essa si regge. Dunque, affinché il carcere cessi di essere un’istituzione totale intrinsecamente non rieducativa, bisognerebbe abolirlo; per non ridurlo ad uno strumento di vacuo degrado della persona internata servono iniziative efficaci ed interventi congruenti, che richiedono tuttavia, denaro, tempo, e ferma volontà politica; ma per impedire che la galera si trasformi in un’orrenda discarica di corpi ammassati, si può fare subito tutto, e perciò deve essere fatto tutto, e subito. Si deve, perché il sovraffollamento rende di per sé illecita l’esecuzione stessa della pena. Come ha riconosciuto la stessa Corte costituzionale (279/2013), il sovraffollamento carcerario può risolversi “in trattamenti contrari al senso di umanità”. Una pena inumana non è evidentemente, e non può essere, una pena legale. Anzi, essa finisce con l’integrare, in termini obiettivi, una fattispecie delittuosa, di maltrattamenti se non peggio. Che l’esecuzione chiamata a ripristinare la legalità si traduca di fatto in un delitto, costituisce un ossimoro osceno che nessun ordinamento che si pretenda civile dovrebbe poter tollerare. Gli strumenti per impedire una tale aberrazione esistono. Si tratta di applicare un principio fondamentale: la funzionalità di ogni organizzazione è intimamente connessa al numero degli utenti. Su questa base venne a suo tempo riconosciuta la legittimità costituzionale del numero chiuso in determinate facoltà universitarie (Corte cost. 383/1988), su questa base funzionano ospedali, scuole, servizi pubblici. Perché mai non dovrebbe essere applicato anche agli istituti penitenziari? Anzi, a maggior ragione ad essi, perché la “risorsa” punitiva può essere “distribuita” se, e solo se, non sia negata o conculcata la finalità rieducativa che ne costituisce il fondamento. Vincolare al numero chiuso gli istituti penitenziari sarebbe inoltre il miglior modo di dare effettività e concretezza al principio dell’extrema ratio, cui dovrebbe ispirarsi il ricorso alla pena carceraria. Può mai esservi una ragione “estrema” di eseguire una pena consistente in un trattamento inumano? Se mai sarà “estrema” la ragione di non ricorrervi affatto, applicando una diversa sanzione. Sulle tecniche di attuazione del numero chiuso non è il caso di soffermarsi. Sono di diverso tipo e natura, pur se ispirate dalla stessa esigenza. Ma oggi l’urgenza impone vie più rapide e dirette; anche se all’orizzonte si dovrà subito collocare l’elaborazione di strumenti sistematici idonei ad impedire permanentemente il prodursi di fenomeno di sovraffollamento. Che fare, dunque? Sarà il caso di riaprire l’album di famiglia. Il sovraffollamento non è sempre esistito: è un fenomeno relativamente recente, più o meno dell’ultimo cinquantennio. Prima, la Repubblica seguiva - in questa materia come in mille altre - le orme del regime fascista, durante il quale di sovraffollamento non pare esservi traccia. Se si scorre “Il Ponte” del marzo 1949, in cui Piero Calamandrei raccolse le testimonianze di intellettuali, politici, artisti che avevano avuto la ventura di sperimentare sulla propria pelle il carcere durante il ventennio fascista (Altiero Spinelli, Vittorio Foa, Augusto Monti, Riccardo Bauer, Giancarlo Pajetta, Lucio Lombardo Radice, per citare solo i nomi più noti), si ritrovano critiche e denunce che accompagnano il carcere fin dal suo ingresso dominante nel sistema penale, più o meno 250 anni fa, e al contempo la prospettazione quasi profetica di quelle che ancor oggi ripetiamo indefessamente. Manca tuttavia, in questo ponderoso cahier de doléances, ogni riferimento al sovraffollamento. La ricetta per una tale stabilità era semplice quanto efficace: amnistie e indulti; indulti ed amnistie. La durezza proverbiale che il regime proclamava stentoreamente veniva poi gestita con l’occhio attentamente rivolto all’ordine, e quindi alla tenuta dei numeri. Così, nei vent’anni del regime si contano ben nove provvedimenti generali di amnistia e di indulto, oltre ad una sequela di altri interventi clemenziali relativi alle colonie o ad ambiti particolari. Più o meno ad anni alterni interveniva un ‘regolatore clemenziale di flusso’, ‘pudicamente’ mascherato con motivazioni più o meno risibili o pretestuose: la ‘pacificazione’ fascista; il venticinquennale dell’ascesa al trono; la nascita di principi e principesse; le nozze dell’erede e altre consimili amenità, sino al decreto che il destino impose come ultimo: il ventennale del regime, nel 1942. La Repubblica non ebbe peraltro esitazioni ad accodarsi su questo stesso binario, che non venne mai interrotto. Solo la frequenza si modificò, rallentando un poco: da biennale divenne all’incirca quinquennale, ciò che contribuì a produrre fenomeni sussultori di sovraffollamento, destinati ad un incremento dopo la riforma, nel 1992, dell’art. 79 Cost., che consegnò alle soffitte dell’ordinamento gli istituti clemenziali, la cui adozione presuppone ora maggioranze tanto elevate da renderli impossibili senza un vasto consenso politico. Sarebbe allora il caso che, per carità di Patria (una maiuscola vera), le parti politiche deponessero per un attimo le armi, si riconoscessero a vario titolo responsabili della situazione vituperosa in cui versa il nostro sistema penitenziario e solidamente si assumessero la responsabilità di un indulto accortamente modulato per dar corso ad un’effettiva riduzione della popolazione carceraria. La dottrina più autorevole in materia ha da tempo rilevato che un indulto può trovare piena giustificazione anche in esigenze di sfollamento, quando si prospetti una persistente condizione di inumanità nell’esecuzione penitenziaria, purché l’oggetto del provvedimento sia costituito da reati accertati con sentenza definitiva: non invece da reati commessi entro una certa data, ciò che finirebbe col rendere beneficiari del provvedimento soggetti “a futura memoria”, con effetti irragionevoli e distorsivi. Sarà solo “Il sogno di un uomo ridicolo”? Speriamo di no; ma quand’anche, varrebbe pur sempre la pena di averlo sognato, con Rita Bernardini. *Accademico dei Lincei Il fallimento non è solo del carcere di Riccardo De Vito Il Manifesto, 21 maggio 2025 Gli ordinamenti democratici nazionali e internazionali hanno perso la loro capacità di essere bussola del mondo. Tra poco più di due mesi l’ordinamento penitenziario compirà cinquant’anni. Chiamiamo così la legge del 1975 che aveva dato vigore e prospettiva all’articolo 27, comma 3, della Costituzione, per il quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Il compleanno di mezzo secolo, però, si è macchiato di sangue e quel sangue si è tinto di strumentalizzazioni. Tutto accade in pochi giorni, tra il 9 e l’11 maggio, quando Emanuele De Maria, in espiazione della pena per l’omicidio di una donna, esce dal carcere per recarsi a svolgere attività lavorativa all’esterno. Sono due giorni di tragedia: Emanuele torna a uccidere una donna, Chamila; ferisce quasi mortalmente un collega di lavoro; infine, si toglie la vita lanciandosi dalle terrazze del Duomo di Milano. Si riaffaccia una domanda insistente: è ancora tollerabile il sacrificio di una vittima per consentire ai detenuti di riconnettersi gradualmente alla società? Fino a qualche tempo fa ci si poteva trincerare dietro la forza della del diritto: è giusto perché lo dice l’articolo 27 della Costituzione. Questa replica rischia di non funzionare più. Gli ordinamenti democratici nazionali e internazionali hanno perso la loro capacità di essere bussola del mondo. Gaza segna l’assoggettamento della logica dei diritti umani e del diritto internazionale alla ragione della forza; negli Stati uniti si fa spettacolo delle persone incatenate e si ventila di abolire l’habeas corpus per i migranti; alle nostre latitudini, si ricostruiscono neo-colonie detentive in territorio estero e si prevedono ergastoli automatici. La Costituzione ha perso il suo carattere di fondamento della Repubblica ed è diventata culturalmente rifiutabile. L’articolo 27 dice che il condannato deve essere risocializzato? Sbaglia, lo si cancelli con un tratto di penna. E, infatti, un disegno di legge costituzionale prevede che la rieducazione possa essere limitata da “altre finalità” ed “esigenze di difesa sociale” (disegno di legge del deputato Cirielli di Fratelli d’Italia). Se così stanno le cose, occorre ri-giustificare il normativo, il dover essere del mondo, a partire dalla sostanza delle cose. Il progressivo reinserimento del detenuto in società - quelle finestre nella pena detentiva che consentono di mettere i piedi fuori dalla prigione - serve perché rende il mondo più sicuro e meno violento. Se le pene fossero scontate in carcere dal primo all’ultimo giorno, si finirebbe per consegnare alla libertà esseri umani incapacitati alla costruzione della relazione più semplice, pericolose bombe a orologeria. La pena, prima o poi, finisce e i conti con il pericolo di recidiva si dovranno fare comunque. Tutte le statistiche dimostrano che quei conti è bene farli prima, in quelle famose finestre che servono anche come momenti di sperimentazione controllata. Circola nell’aria, sempre meno latente, una pulsione a fare in modo che la pena non finisca. Non servirebbe: chi uccide, quasi sempre lo fa senza aver valutato le conseguenze in modo razionale. Il caso di questi giorni ne è un esempio: il condannato sa che perderà tutto, a partire dalla libertà riconquistata, ma uccide lo stesso. Subito dopo telefona alla madre, chiede perdono e va a lanciarsi dal Duomo di Milano. L’essere umano, troppo umano, è più complesso e drammatico di ogni tecnologia normativa della dissuasione. Statistiche e ragione, tuttavia, non bastano a dare senso alla vittima, che rimane unica. Quell’unicità ha bisogno di risposte ulteriori. La prima, essenziale. L’area del controllo penale, si è allargata a dismisura: 95mila persone in misure alternative, 62.400 detenuti. Sono numeri che rendono impossibile agli operatori (educatori e assistenti sociali) concentrarsi sui casi davvero importanti, quelli che meritano di essere seguiti anche quando tutto pare filare liscio. Se l’area penale fosse meno affollata di condannati per reati senza vittima, funzionerebbe meglio. Amnistia, indulto e depenalizzazione sono le parole di un vocabolario di sicurezza. Non serve risocializzare meno, serve risocializzare meglio. Strettamente collegato a questo punto, ne viene un altro: rieducare è una parola brutta, lascia pensare a pretese egemoniche sull’animo. Sappiamo che deve essere declinata a livello laico, come risocializzazione, ma il tema non cambia: è un problema che investe tutta la società e le sue agenzie, non può essere scaricata solo sul carcere. Sulle pagine online dei quotidiani più diffusi, nei giorni successivi alla vicenda De Maria, circolavano i video degli ultimi istanti di vita della vittima e del detenuto. Accanto a essi, il video del robot umanoide di Tesla che danza a ritmo di musica, accendendosi e spegnendosi a comando. Non serve scomodare “la precessione del simulacro” per capire che qualcosa è saltato. Ri-educare, nella società come in carcere, dovrebbe significare tornare a mettere in discussione (o in crisi) le strutture psichiche dell’ordine economico e sociale, i rapporti tra desiderio e frustrazione, la confusione tra libertà e signoria. Sono questioni che vengono prima del carcere e che vanno oltre il carcere. La speranza nelle celle divampa: riusciranno La Russa, Bernardini e Giachetti a fare il miracolo? di Gianni Alemanno* Il Dubbio, 21 maggio 2025 Un fulmine ha percorso le nostre celle, un passa parola così rapido come solo in carcere può avvenire: La Russa ha aperto sulla proposta Giachetti di una ‘ liberazione anticipata speciale’. Rita Bernardini, Presidente di ‘ Nessuno tocchi Caino’, ha interrotto il suo sciopero della fame in favore dell’indulto. Per farla semplice, potrebbe arrivare finalmente un provvedimento di clemenza per ridurre significativamente il sovraffollamento carcerario. Ma facciamo un passo indietro, per capire. Venerdì santo, tra le guardie carcerarie e la dirigenza c’è un clima di attesa, da grandi occasioni. La mattina, con passo felpato e aria sorniona, si presenta al braccio G8 Pierferdinando Casini, parlamentare Pd in carica ed ex Presidente della Camera. Fa un giro tra le celle, si fa spiegare la situazione carceraria, si vede che rimugina. Mi porta in regalo anche una colomba pasquale, che viene trattenuta dalla Direzione del Carcere e mi viene consegnata 26 giorni dopo (tanto per far capire come funzionano qui le cose). Poi nel tardo pomeriggio, la sorpresa è ancora più forte: nelle celle di Rebibbia incede addirittura la seconda carica dello Stato, il Presidente del Senato Ignazio La Russa, accompagnato dai suoi dirigenti. Dopo Papa Francesco credo che sia la personalità pubblica più importante che ha varcato i cancelli di Rebibbia. Entra nella mia cella, guarda le 6 brande a castello e, senza che nessuno gli dica niente, capisce tutto ed esclama: ‘ ma qui non dovrebbero dormire solo 4 detenuti?’. Certo, è il famoso sovraffollamento carcerario. Per inciso, qui sono venute in visita decine di parlamentari, ma sono saliti a vedere le celle solo Casini, La Russa e, prima di loro, Maurizio Gasparri (che si è pure bevuto un caffè offerto dai detenuti). La Russa, non dice nient’altro (non potrebbe, il regolamento carcerario non lo consente), continua il suo giro tra lo stupore dei detenuti e se ne va. I detenuti sorridono scettici, “va be’, sono venuti solo a farsi vedere” E, invece, No! Dopo qualche giorno, dopo la morte di Papa Francesco, Pierferdinando Casini lancia la proposta di un mini- indulto di un anno. Smuove le acque, ma trova il muro contrario della maggioranza di governo. E poi, per approvare un indulto o un’amnistia ci vuole la maggioranza di due terzi del Parlamento. Rita Bernardini, secondo il metodo non violento di usare il proprio corpo per lanciare messaggi umanitari estremi, comincia uno sciopero della fame per sostenere questa proposta, Poi, il 15 maggio, tutti i media lanciano la notizia dell’apertura di Ignazio La Russa alla proposta dell’onorevole Roberto Giachetti, parlamentare di Italia Viva. In cosa consiste questa proposta? Secondo l’Ordinamento penitenziario le persone detenute che tengono una buona condotta hanno diritto ad uno sconto di pena di 45 giorni ogni sei mesi di carcere. L’onorevole Roberto Giachetti ha presentato una proposta di legge, che per passare ha bisogno solo di una maggioranza semplice, secondo cui questi giorni di sconto di pena vengono aumentati da 45 a 75 nel periodo di tempo che va dal: 2016 fino ad oggi. Dopo, per il futuro, l’aumento sarebbe limitato a 60 giorni, cioè lo stesso sconto di pena previsto in Germania. Il risultato pratico di questa proposta è che i detenuti potrebbero avere immediatamente diversi mesi di sconto di pena, non tutti automaticamente come nell’indulto, ma solo quelli che hanno mantenuto una buona condotta. La proposta di Giachetti aveva già il consenso di quasi tutta l’opposizione di centrosinistra (salvo il Movimento 5 Stelle), se si trova un accordo con Ignazio La Russa, l’autorevolezza del Presidente del Senato potrebbe smuovere anche forze politiche dalla maggioranza di centro- destra. Insomma, la speranza divampa (prendendo in prestito una celebre frase del Signore degli Anelli) nelle celle di tutta Italia. Da queste stanze fatiscenti, in mezzo a questi letti accatastati in modo contrario a ogni normativa nazionale ed europea, in questo caos generato dalla sproporzione tra il numero dei detenuti e quello del tutto insufficiente di educatori, psicologi e magistrati di sorveglianza, si apre la speranza di un qualche ritorno alla normalità. Una normalità su cui ricostruire percorsi veri di rieducazione e reinserimento dei detenuti, una normalità con cui evitare le periodiche figuracce dell’Italia condannata dalla Corte Europea per violazione dei diritti dell’uomo per le condizioni delle sue carceri. E quindi, in attesa di un intervento di Papa Leone XIV sulle orme di Papa Francesco, speriamo che questa volta sia la politica italiana a fare un miracolo, nel segno coraggioso e beffardo del Presidente La Russa. *Già Sindaco di Roma, attualmente detenuto e Rebibbia È ora di intervenire sul carcere: il diario di Alemanno sveglierà i politici? di Gabriele Elia L’Edicola del Sud, 21 maggio 2025 In un clima di crescente attenzione e sensibilità verso la questione carceraria, il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha finalmente accolto la risolutiva proposta di legge di Roberto Giachetti e Rita Bernardini sul sovraffollamento carcerario. Dopo gli appelli di papa Francesco e del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, insieme all’iniziativa estiva di Forza Italia con il deputato Alessandro Cattaneo in prima linea, si è giunti a un importante riconoscimento della necessità di interventi concreti. Un ruolo fondamentale in questo dibattito lo sta giocando Gianni Alemanno, attualmente in carcere, il quale, attraverso un diario quotidiano, sta illuminando con la sua voce le problematiche emergenziali del sistema penitenziario italiano. Le sue riflessioni e testimonianze stanno contribuendo a far comprendere a tutta Italia l’urgenza di affrontare la questione carceraria con serietà e responsabilità. La proposta di aumentare lo sconto di buona condotta annuale da 60 a 75 giorni rappresenta un cambiamento significativo che potrebbe avere un impatto positivo sulle condizioni di vita all’interno delle carceri italiane. Questa misura non solo è un segnale di civiltà, ma è anche un passo fondamentale per affrontare il problema del sovraffollamento, che da troppo tempo affligge il sistema penitenziario del nostro Paese. La reazione di La Russa, che sembra voler allineare la sua posizione a quelle delle più alte cariche istituzionali e religiose, offre un’opportunità unica al premier Giorgia Meloni. Con tutti gli “assist” a disposizione, potrebbe finalmente concretizzare un intervento che non solo risponda a una necessità immediata, ma che segni anche una svolta nel modo in cui l’Italia affronta la giustizia e la dignità dei detenuti. In un periodo in cui le sfide sociali e politiche si intrecciano, questa proposta potrebbe dimostrarsi un importante banco di prova per il Governo, capace di sorprendere positivamente l’opinione pubblica con scelte audaci e responsabili. È il momento di agire e trasformare le parole in fatti, per garantire un futuro migliore a tutti i cittadini, detenuti inclusi. L’auspicio è che questo passo possa essere solo il primo di una serie di riforme necessarie, in grado di restituire dignità e speranza a chi vive nelle carceri italiane. Nordio promette sanzioni ai giudici che lo criticano di Mario Di Vito Il Manifesto, 21 maggio 2025 L’affondo del ministro dopo un commento sulla sentenza Open Arms. Per il ministro della Giustizia Carlo Nordio, la libertà d’espressione di un magistrato è in contrasto con la terzietà che la sua funzione giurisdizionale impone. Lo apprendiamo leggendo la risposta del Guardasigilli a un’interrogazione del forzista Maurizio Gasparri, che sollevava questioni di opportunità su un commento scritto su Avvenire dal giudice Luigi Patronaggio - pg alla Corte d’appello di Cagliari - sul tema della sentenza di Palermo per il caso Open Arms, quella che ha assolto Matteo Salvini dall’accusa di sequestro di persona. Secondo Nordio, “l’imparzialità della decisione deve declinarsi anche sotto il profilo della sua apparenza, imponendo sobrietà, irreprensibilità e riservatezza dei comportamenti individuali, così da evitare il rischio di apparire condizionabili o di parte”. Purtroppo, prosegue il ministro, “non può non constatarsi che sempre più frequentemente singoli esponenti dell’ordine giudiziario ritengono di poter assumere pubblicamente posizioni politiche o di poter partecipare ad iniziative su temi politicamente sensibili, con un atteggiamento di forte contrapposizione all’azione di governo”. Sul merito della vicenda, comunque, Patronaggio si era difeso dicendo che il suo commento era “un ragionamento tecnico rivolto ad un pubblico, non necessariamente” con “considerazioni giuridiche che trovano riscontro in precise sentenze della Cedu, della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione e in talune pronunzie dei giudici di merito sul tema dell’immigrazione clandestina e sul rispetto dei diritti fondamentali dei migranti”. Un’opinione che in tutta evidenza non ha convinto Nordio, che ribadisce la necessità di rimettere mano alle sanzioni disciplinari per le toghe, cosa che verrà fatta con la riforma della giustizia che intende separare le carriere dei magistrati requirenti e giudicanti. “L’intervento di riforma - dice il ministro nella sua risposta a Gasparri - attribuisce, infatti, alla legge ordinaria il compito di determinare gli illeciti disciplinari, le relative sanzioni, la composizione dei collegi e le forme del procedimento disciplinare nonché di stabilire le norme necessarie per il funzionamento dell’Alta Corte”. Questa ennesima sottolineatura di Nordio sul tema, inevitabilmente, fa rumore nel momento in cui si discute di riforma della giustizia e le toghe hanno già cominciato la loro campagna contro i piani del governo, in attesa del referendum costituzionale per il quale l’Associazione nazionale magistrati ha già annunciato che costituirà un comitato per il no. Il tema dell’imparzialità del giudice e della sua libertà di opinione non è nuovo, anzi, in realtà se ne discute più o meno dall’alba della Repubblica. La metafora più usata è quella della moglie di Cesare, che non deve solo essere imparziale, ma anche apparirlo. Il motto, tuttavia, non tiene conto dei numerosi problemi sorti nella storia recente sui “cittadini al di sopra di ogni sospetto”, quelli cioè che si guardano bene dall’esternare le proprie idee, ma poi magari le inseriscono nei loro atti d’indagine e nelle loro sentenze. “A me pare che la imparzialità del magistrato si debba verificare nel processo e nella motivazione delle decisioni - commenta Giovanni Zaccaro, segretario di Area democratica per la giustizia -. A me pare che la sobrietà e la irreprensibilità nei comportamenti pubblici sia un dovere di tutti coloro che agiscono per lo Stato, per i magistrati come per i politici. Preoccupa che il ministro agiti il manganello disciplinare per i magistrati che partecipano, con la dovuta continenza, al dibattito pubblico in materia di giustizia e diritti. Sarà forse che ha paura che qualcuno spieghi ai cittadini perché la giustizia funziona male e perché la riforma Nordio è pericolosa?”. Toghe “militanti”, ecco il giro di vite del ministro Nordio di Valentina Stella Il Dubbio, 21 maggio 2025 ll Guardasigilli annuncia l’intervento sugli “illeciti” da parte di magistrati che assumono posizioni politiche. Bilanciare i diritti in gioco è sempre molto complesso. E ciò emerge chiaramente quando si parla della libertà delle toghe di sostenere le loro idee in pubblico. Problema antico ma sempre attuale che può essere introdotto con le parole del ministro Nordio in una risposta ad un’interrogazione parlamentare: si tratta, in pratica, scrive il Guardasigilli della “annosa questione del delicato equilibrio tra la libertà di manifestazione del pensiero, che deve essere riconosciuta anche ai magistrati in quanto cittadini, ed il valore, anch’esso di rilievo costituzionale, dell’imparzialità e terzietà della funzione giurisdizionale”. Tutto parte da un atto di sindacato ispettivo del presidente dei senatori di Forza Italia Maurizio Gasparri, in cui stigmatizzava il fatto che “in un editoriale pubblicato su Avvenire il 29 dicembre 2024, il procuratore generale presso la Corte d’appello di Cagliari, Luigi Patronaggio, commentava, criticandola, la sentenza del Tribunale di Palermo sul caso Open arms”. L’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini, era stato processato per sequestro di persona e poi assolto perché il fatto non sussiste. L’interrogazione parlamentare ha dato la possibilità al responsabile di Via Arenula di annunciare che “è fermo intendimento del governo”, in attuazione del disegno di riforma costituzionale sulla separazione delle carriere, “rimettere mano al novero degli illeciti disciplinari previsti dalla legge”. In particolare sarà vietato alle toghe “tenere comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria”. Secondo Nordio, “l’imparzialità della decisione deve declinarsi anche sotto il profilo della sua apparenza, imponendo sobrietà, irreprensibilità e riservatezza dei comportamenti individuali, così da evitare il rischio di apparire condizionabili o di parte”. “Purtroppo - ha sottolineato il ministro - non può non constatarsi che sempre più frequentemente singoli esponenti dell’ordine giudiziario ritengono di poter assumere posizioni politiche o di poter partecipare ad iniziative su temi politicamente sensibili, con un atteggiamento di forte contrapposizione all’azione di governo”. Nordio non fa riferimenti diretti ma esistono precedenti recenti di cui si è discusso: la partecipazione dell’ex presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte, ad un dibattito organizzato da un circolo Pd romano insieme alla responsabile giustizia dem Debora Serracchiani sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere; o ancora un’iniziativa di Fratelli d’Italia sempre sulla riforma dell’ordinamento giudiziario in cui erano previsti gli interventi dei magistrati Giuseppe Cioffi e Luigi Bobbio che alla fine hanno dato buca, probabilmente per evitare polemiche. Della possibile re-introduzione dell’illecito disciplinare (norma già prevista dal governo Berlusconi IV e poi abrogata) per le toghe che prendono pubblicamente posizioni politiche o che partecipano a eventi politici in cui si discutono riforme della giustizia, assumendo atteggiamenti di forte contrapposizione all’Esecutivo, si era discusso già nei mesi precedenti. Ma a marzo proprio da Via Arenula avevano fatto notare che si trattava solo di un’ipotesi di lavoro, non destinata a essere tradotta a breve in un disegno di legge. A conferma di ciò, erano arrivate le parole anche del sottosegretario Delmastro: “Non è allo studio: siamo concentrati sulla riforma costituzionale”. Adesso invece il ministro Nordio detta la strada che sarà presa: ossia introdurre dei correttivi nelle leggi ordinarie che riguarderanno l’Alta Corte, nuovo organo disciplinare dei soli magistrati ordinari. Certo, al momento è difficile ipotizzare i dettagli della legge attuativa, qualora passasse il referendum. Sicuramente, un elemento che dovrà essere preso in considerazione è la possibilità di esentare dall’illecito il presidente dell’Anm che, in quanto vertice della associazione rappresentativa del 98 per cento dei magistrati, potrà essere chiamato, come già avviene, ad intervenire in dibattiti pubblici pure organizzati dai partiti, come successo qualche mese fa quando Cesare Parodi fu chiamato a parlare ad un evento di Noi Moderati. Proprio Parodi, venerdì scorso nel dibattito organizzato dal Dubbio al Salone del Libro di Torino, si era detto “d’accordo sul fatto che ci sia stato un eccessivo protagonismo di alcuni magistrati e questo non ha giovato all’immagine della magistratura. In generale esiste un tema al nostro interno: alcuni di noi, io personalmente no, ritengono che la manifestazione politica delle loro idee sia un qualcosa di dovuto, qualcosa di necessario, quasi di ontologico rispetto al loro ruolo. Altri ritengono che sia giusto il contrario. Come magistratura siamo compatti su tutto. Ma il mio compito, in questo momento, è proprio tenere insieme queste due anime”. Al momento, tuttavia, l’Anm non commenta la risposta di Nordio: l’impressione colta è quella di non voler dare troppa importanza alla questione ma non si esclude, tra le toghe, che questa previsione del ministro possa essere usata quando si entrerà nel vivo della campagna referendaria per dire ai cittadini che il Governo vuole imbavagliare le toghe. Infatti se è vero che esiste una fetta della magistratura, in particolare la corrente di Magistratura indipendente, che proprio all’interno del parlamentino aveva presentato un odg per richiedere un maggiore self-restraint dei colleghi, poi bocciato da tutte le altre correnti, è altresì vero che tutti sono compatti nell’esprimere contrarietà a questo tipo di illecito disciplinare. A parlare ieri è stato solo il segretario di AreaDg, Giovanni Zaccaro per il quale “l’imparzialità del magistrato si deve verificare nel processo e nella motivazione delle decisioni. A me pare che la sobrietà e la irreprensibilità nei comportamenti pubblici sia un dovere di tutti coloro che agiscono per lo Stato, per i magistrati come per i politici”. E ha concluso: “Preoccupa però che il ministro agiti il manganello disciplinare per i magistrati che partecipano, con la dovuta continenza, al dibattito pubblico in materia di giustizia e diritti. Sarà che ha paura che qualcuno spieghi ai cittadini perché la giustizia funziona male e perché la riforma Nordio è pericolosa?”. Caso Almasri: cosa non torna nella memoria difensiva inviata dall’Italia alla Cpi di Ermes Antonucci e Luca Gambardella Il Foglio, 21 maggio 2025 Il Foglio ha visionato la risposta inviata dal governo italiano alla Corte penale internazionale sul mancato arresto del comandante libico. Restano gli interrogativi. La mancata interlocuzione con l’Aia, il mistero sull’estradizione, il ruolo delle milizie e il futuro incerto della Libia. Sono due le ragioni principali con cui il Governo italiano, nella memoria inviata alla Corte penale internazionale (Cpi), visionata dal Foglio, ha giustificato la mancata esecuzione lo scorso gennaio del mandato di arresto per crimini contro l’umanità che era stato emesso dalla Corte dell’Aia nei confronti di Osama Njeim Almasri, capo della Polizia penitenziaria libica, fermato in Italia il 19 gennaio e poi rimpatriato in Libia due giorni dopo. Entrambe le giustificazioni italiane risultano essere poco convincenti sul piano fattuale e giuridico. Il governo spiega in primo luogo di non aver potuto dare seguito al mandato d’arresto perché questo era caratterizzato da “incongruenze” rispetto alla data dei gravi crimini commessi da Almasri: i crimini di guerra e contro l’umanità, compresi omicidi, torture e violenze sessuali, sarebbero iniziati nel 2011, ma in alcune parti del mandato d’arresto la Cpi indica come data il 2015. Per il governo italiano (e per il Guardasigilli Carlo Nordio, che già aveva puntato su questo tema in Parlamento) si tratta di un grave errore, che compromette un elemento essenziale della richiesta di arresto. In realtà, si è di fronte a meri errori tipografici, corretti dalla Corte dell’Aia con l’emissione di una versione aggiornata del mandato d’arresto il 25 febbraio (quando ormai però Almasri era già stato rimpatriato in Libia). A ogni modo, il compito di far notare questi vizi di forma non spettava al ministro della Giustizia italiano, bensì al difensore di Almasri. Peraltro, al primo mandato di cattura della Cpi era stata allegata una nota nella quale si invitava il governo a contattare prontamente la Corte qualora fossero sorte questioni che potevano impedire l’esecuzione dell’arresto. Il governo, però, non ha mai contattato la Corte per chiedere chiarimenti sugli errori delle date. La seconda ragione sollevata dal governo italiano per spiegare il mancato arresto di Almasri riguarda una (presunta, vedremo perché fra poco) concomitante richiesta di estradizione dello stesso Almasri giunta dalla Libia. Poche ore dopo il fermo del comandante libico a Torino, le autorità libiche - tramite l’ambasciata in Italia - avrebbero informato il nostro ministero degli Esteri, e di conseguenza anche quello della Giustizia, dell’esistenza di un’indagine in Libia a carico di Almasri per gli stessi reati oggetto del mandato di arresto della Cpi, avanzando così richiesta di estradizione dell’indagato. “In presenza di una richiesta concorrente, l’Italia è stata chiamata a valutare quale richiesta avrebbe dovuto avere la priorità”, si legge nella memoria inviata dal governo alla Corte dell’Aia, che richiama l’articolo 90 dello Statuto di Roma. L’articolo citato, in verità, stabilisce che in caso di richieste concorrenti (una richiesta di consegna da parte della Cpi e una richiesta di estradizione da parte di un altro stato), lo stato deve dare precedenza alla richiesta giunta dalla Cpi. È probabilmente anche per questo motivo che il governo italiano nella sua memoria va persino oltre, giungendo ad affermare che, poiché nel mandato di arresto internazionale non si faceva alcuna menzione dell’esistenza di un’indagine in Libia nei confronti di Almasri, il mandato della Cpi era da considerarsi inammissibile ai sensi dell’articolo 17 dello Statuto istitutivo della Corte dell’Aia. Insomma, anche in questo caso il governo italiano si spinge incredibilmente a giudicare la correttezza - e addirittura l’ammissibilità - della richiesta di cattura della Cpi, senza però avviare alcuna interlocuzione con essa. Già questi elementi sono sufficienti a far risultare molto fragile la posizione del governo italiano. Emerge infatti in modo ancora più evidente che la mancata esecuzione del mandato d’arresto internazionale non sia stata dovuta a un cavillo giudiziario, ma a una chiara volontà politica del governo. Come se tutto ciò non bastasse, domenica scorsa il premier libico Abdulhamid Dabaiba ha scaricato Almasri e ha smentito la linea difensiva dell’Italia con un discorso alla nazione. “Non ho cercato di estradarlo, non so chi sia e non l’ho mai incontrato. Come possiamo fidarci di un uomo che ha stuprato una ragazzina di 14 anni?”, ha detto riferendosi ad Almasri. La richiesta di estrazione, dunque, citata dall’Italia nella sua risposta alla Cpi, non sarebbe mai esistita. Ormai la vicenda si inserisce nella crisi che da due settimane sta trascinando la Libia sull’orlo di una nuova guerra civile e in cui il capo della Polizia giudiziaria è diventato la carta della disperazione per Dabaiba. Mai prima d’ora il premier aveva speso una parola sulla vicenda, dato che Almasri non ricopre ruoli di spicco e il suo destino non rientrava in cima alle priorità. Le cose sono cambiate in questi giorni, quando Dabaiba ha rischiato - e rischia tuttora - che i combattimenti di Tripoli, da lui stesso innescati, possano costargli la presidenza, nella migliore delle ipotesi. Domenica il premier ha ammesso che alcune milizie avrebbero esercitato delle pressioni per ottenere la liberazione di Almasri, un fatto che, in realtà, era acclarato da tempo. Subito dopo l’arresto del capo della Polizia giudiziaria, il suo superiore, Abdul Rauf Kara, leader della milizia Rada, si era presentato nell’ufficio di Dabaiba per chiedergli di attivarsi con l’Italia e ottenere il rilascio di Almasri. Per evitare una spaccatura con il leader della milizia che controlla l’aeroporto di Mitiga, Dabaiba ha acconsentito e nel giro di poche ore Almasri ha fatto ritorno in Libia. “Ma il problema per il premier o per Kara non è mai stato Almasri in sé, bensì il rischio di creare un precedente”, spiega Jalel Harchaoui, esperto di Libia del Royal United Services Institute, un think tank britannico. “Se Dabaiba non fosse intervenuto per liberare Almasri, gli altri capi delle milizie ricercati dalla Corte penale e alleati del premier non avrebbero reagito bene”. A questa delicatissima situazione si è aggiunto il clamoroso annuncio di un accordo di cooperazione tra la Cpi e la Libia. Giovedì, il procuratore generale dell’Aia, Karim Khan, ha detto che il governo libico si è reso disponibile a riconoscere la giurisdizione della Cpi e, alla luce di questa disponibilità, Khan ha chiesto al procuratore di Tripoli, Siddiq al Sour, “di arrestare Almasri e consegnarlo alla Corte”. Un’eventualità che però resta lungi dal concretizzarsi perché Dabaiba non dispone dell’autorità sufficiente. Lunedì, il Parlamento di Tobruk ha ricordato che il mandato del premier è scaduto da tre anni e quindi non ha l’autorità per siglare accordi internazionali con l’Aia. Prima ancora, era stato Mohamed al Menfi, presidente del Consiglio presidenziale libico, a opporsi agli ordini dati da Dabaiba affinché la Rada fosse sciolta e Almasri fosse rimosso dal suo incarico. Risultato: la Rada è ancora a Mitiga e Almasri occupa ancora il suo posto. A far diffidare delle buone intenzioni di Dabaiba c’è anche il fatto che lo stesso entourage del premier libico è nel mirino della Cpi. A oggi, si sa che sono già stati emanati undici mandati di arresto segreti, ovvero senza svelare i nomi dei destinatari. Di questi, sette riguardano miliziani vicini a Dabaiba stesso. Ci sarebbe poi un’altra ottantina di nomi di altrettanti indagati, personaggi che dal caso Almasri in avanti vivono nel timore di fare la sua stessa fine, nel caso in cui dovessero uscire dalla Libia. Come interpretare allora la volontà di Dabaiba di collaborare con la Corte, se questa decisione rischia di innervosire i capi delle milizie suoi alleati? Per prendere il controllo dell’intera Tripoli e sottrarsi al ricatto delle milizie, la settimana scorsa il premier ha prima fatto fuori Abdul Ghani al Kikli, alias Ghnewa, per poi tentare l’offensiva contro la Rada e la Polizia giudiziaria, di cui fa parte Almasri. Quest’ultima parte del piano di Dabaiba è fallita per la risposta violenta della Rada e perché migliaia di persone sono scese in strada in questi giorni per chiedere le dimissioni del governo. “Accusando Almasri pubblicamente, il premier cerca una versione della storia che gli permetta di giustificare i suoi attacchi recenti lanciati contro la Rada e contro la Polizia giudiziaria sedando la rabbia dei libici”, spiega Harchaoui. Da Tripoli, molti interpretano il gesto del premier come un ultimo disperato tentativo di restare al proprio posto, magari salvando la pelle. Per venerdì prossimo è prevista una nuova, violenta manifestazione a Tripoli contro il premier, mentre si parla di incontri segreti e alleanze sempre più strette fra i capi milizia - in particolare fra Kara e il leader delle Guardie rivoluzionarie, Haitham Tajuri - che non aspettano altro che fare fuori Dabaiba, in un modo o nell’altro. Lavoro, imprese, sindacato: l’insegnamento di D’Antona di Adalberto Perulli* Corriere del Veneto, 21 maggio 2025 L’anniversario della morte del professore ucciso dalle Br. Dalla precarietà alla flessibilità fino al Nordest delle piccole imprese. I più deboli e il no alla società dei conflitti. Oggi ricorre l’anniversario della morte del professor Massimo D’Antona, assassinato dalle Brigate rosse in via Salaria, a Roma, la mattina del 20 maggio 1999. Ricordare la sua memoria è importante per molte ragioni. Anzitutto perché porta al cuore l’immagine della mitezza: di un uomo mite e di un diritto mite, capace di trovare soluzioni ai problemi delle persone, in sintonia con la capacità di creare ponti, di cercare di pacificare piuttosto che di creare conflitti. È una lezione che va ben al di là del diritto del lavoro, il suo campo d’azione, per riguardare tutti i settori della vita in comune e in particolare l’aspirazione alla giustizia sociale e quindi alla pace, universale e duratura. E poi perché quasi tutti gli insegnamenti che D’Antona ci ha trasmesso sono più che mai attuali e attendono ancora risposte. Il ruolo del sindacato nel mercato del lavoro e la necessità di una legge sulla rappresentanza sindacale, che è un fatto di democrazia anche per dare ai contratti collettivi di lavoro una efficacia generalizzata. Una disciplina razionale ed equa del licenziamento, in grado di garantire il diritto del lavoratore alla stabilità dell’impiego, mentre la stratificazione normativa ha creato un sistema talmente diversificato da creare incertezza giuridica e disagio sociale. La precarietà dell’impiego e il controllo della flessibilità è un altro argomento su cui D’Antona aveva puntato l’indice, e non può certo dirsi, oggi, un problema superato, al contrario. La necessità di ampliare le tutele oltre la sfera del lavoro dipendente e di abbracciare il complesso mondo del lavoro autonomo, così diffuso e importante in regioni come il Veneto, ha visto in D’Antona uno dei principali sostenitori. E l’attenzione al diritto europeo, come catalizzatore di istanze sociali transnazionali che solo in una dimensione sovranazionale possono trovare soluzione, è un’altra delle grandi lezioni di quest’uomo mite, che viveva il diritto del lavoro come una finestra sul mondo. Quando D’Antona cadde sotto il piombo dei terroristi, le sue idee influenti davano speranza. Oggi che ne ricordiamo la memoria, dovremmo essere consapevoli che solo il progetto sociale, la capacità di guardare al futuro del lavoro con idee alte e lunghe, può condurci sulla strada dell’inclusione e della protezione dei più deboli, che rimangono, nella nostra società, le persone che vivono del loro lavoro, e del loro sacrificio anche in termini di vite umane. Non abbiamo bisogno di freddi tecnicismi, ma di calorose iniziative solidaristiche, che abbiano nei principi di eguaglianza e di libertà i punti di riferimento essenziali. Troppo spesso invece vediamo attorno a noi il prodotto dell’incapacità di progettare il futuro, di dare forma ai valori che ispirano la nostra vita sociale: siamo ancora legati al conflitto sociale, e non guardiamo ai benefici che una collaborazione potrebbe comportare; nello stesso tempo ci ammantiamo di strumenti troppo deboli di regolazione sociale, non all’altezza del compito che D’Antona aveva indicato. Un esempio? La legge, approvata in Senato nei giorni scorsi, sulla partecipazione dei lavoratori nelle imprese, che lascia al potere dell’imprese decidere se accedere o meno al modello partecipativo, rischiando di ridurre, invece che di aumentare, le prerogative dei lavoratori. Un’occasione sprecata, non in linea con gli standard europei, di raggiungere effettivamente l’obbligo di portare i rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione o di sorveglianza delle imprese, come accade nella maggior parte dei paesi europei. Un altro esempio? Aspettiamo ormai da un paio d’anni che il parlamento legiferi sui licenziamenti nelle piccole imprese, dopo la sentenza-monito della Corte costituzionale, ma tutto tace, e questo non va affatto bene per un sistema produttivo, come quello del Nordest, basato su piccole e piccolissime imprese. Non ci si deve lamentare, allora, se alcune forze sociali propongono il ricorso al referendum popolare sulle materie del lavoro. Non ve ne sarebbe bisogno, se i legislatori degli ultimi lustri avessero dimostrato la capacità di stare lì, dove pensatori come Massimo D’Antona avevano indicato: nel punto più alto dell’equilibrio che in una società pluralistica la dignità del lavoro deve raggiungere, per diventare davvero un lavoro “sovrano”. *Docente di Diritto del Lavoro Università Ca’ Foscari di Venezia “Imputato” al posto di “indagato”, per il giornalista scatta la diffamazione a mezzo stampa di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2025 Le Sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 13200/2025) hanno chiarito, sciogliendo un contrasto con le sezioni penali, che non è configurabile l’esimente del diritto di cronaca giudiziaria. Attribuire in un articolo, su carta o online, la qualifica di “imputato” invece che “indagato” integra il reato di diffamazione a messo stampa. Così come attribuirgli un “reato consumato” rispetto ad uno soltanto “tentato”. Con una lunga e argomentata sentenza (35 pagine), le Sezioni unite della Cassazione (n. 13200/2025) sciolgono un contrasto tra giurisprudenza civile e penale e procedono ad una accurata ricognizione della responsabilità civile del giornalista nell’ambito della cronaca giudiziaria. Il caso parte da un articolo, pubblicato sul sito online di un settimanale, dal titolo “Truffa del superfinanziere”, dove la persona veniva indicata come imputata per truffa, mentre all’epoca era solo indagata, non essendovi stata la richiesta di rinvio giudizio, peraltro in relazione al diverso reato di tentata truffa. In primo grado, il Tribunale di Roma ritenne l’articolo non diffamatorio perché gli errori “non avevano scalfito l’aderenza al vero della ricostruzione complessiva dei fatti”. Di diverso avviso la Corte di appello che reputava falso l’addebito, aggiungendo che tale falsità non poteva ritenersi “sfumata e assorbita dall’essere effettivamente l’appellante indagato per un altro episodio meramente tentato”; anche considerato il prestigioso incarico ricoperto che si traduceva in un “attacco alla carriera e alla solidità della posizione ricoperta”. Nella ordinanza di rinvio (12239/2024) viene ricordato che l’indirizzo prevalente delle sezioni civili è nel considerare insussistente in un caso simile l’esimente del diritto di cronaca giudiziaria; ma si rammenta anche la diversa posizione di alcune sentenze della Cassazione penale (15093/2020), secondo cui “la divulgazione di una notizia d’agenzia riportante l’erronea affermazione che taluno sia stato raggiunto da richiesta di rinvio a giudizio anziché da avviso di conclusione delle indagini preliminari”, integra “una mera inesattezza su un elemento secondario del fatto storico, che non intacca la verità della notizia principale”. E la stessa dissonanza tra le Sezioni civili e penali si ritrova, a parti rovesciate, anche nell’attribuzione di un reato consumato in luogo di quello tentato. Per dirimere i dubbi le S.U. hanno affermato il principio di diritto per cui: “In tema di diffamazione a mezzo stampa, l’esimente del diritto di cronaca giudiziaria, qualora la notizia sia mutuata da un provvedimento giudiziario, non è configurabile ove si attribuisca ad un soggetto, direttamente o indirettamente, la falsa posizione di imputato, anziché di indagato (anche per essere riferita un’avvenuta richiesta di rinvio a giudizio, in luogo della reale circostanza della notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui all’art. 415-bis c.p.p.) e/o un fatto diverso nella sua struttura essenziale rispetto a quello per cui si indaga, idoneo a cagionare una lesione della reputazione (come anche nel caso di un reato consumato in luogo di quello tentato), salvo che il giudice del merito accerti che il contesto della pubblicazione sia tale da mutare, in modo affatto chiaro ed inequivoco, il significato di quegli addebiti altrimenti diffamatori”. Per addivenire a simile approdo, la Cassazione identifica anche il tipo di lettore prevalente, soprattutto su internet, che viene definito “frettoloso”; indicando come tale chi si sofferma a leggere soltanto i titoli o comunque i principali segni grafici. Del resto, spiega la Corte, proprio “il contesto dell’informazione digitale e telematica ha alimentato la tendenza dei lettori alla ricerca di un’informazione sintetica, poiché molto spesso il lettore, utente di un social network, accede alla notizia tramite la propria “homepage”, nella quale vengono raggruppati numerosi contenuti” che deve scegliere di voler approfondire cliccando sui link. “Ed è in questo ambito - prosegue la corte - che si affronta anche la differenza giuridica esistente tra avviso di conclusione delle indagini preliminari e la richiesta di rinvio a giudizio, provvedimento attraverso il quale il pubblico ministero esercita l’azione penale” e che opera il vero e proprio cambio di status. L’avviso di conclusione delle indagini preliminari, infatti, “pur sottendendo l’intenzione del pubblico ministero di far evolvere la propria prospettazione accusatoria in una formale imputazione, non necessariamente viene seguita da una richiesta di rinvio a giudizio, in cui tale proposito effettivamente si materializza”. Non si può, quindi, relegare, di per sé e in astratto, una infedeltà narrativa di tale portata all’ambito della mera marginalità, attribuendole impropriamente neutralità ai fini del riconoscimento del carattere diffamatoria della notizia propalata. Riassumendo, “in ordine alla sussistenza dell’esimente del diritto di cronaca”, sono da considerare “marginali le imprecisioni che non mutano in peggio l’offensività della narrazione e, per contro, sono rilevanti quelle che stravolgono il fatto ‘vero’ in maniera da renderne offensiva l’attribuzione a taluno, all’esito di una valutazione del loro peso sull’intero fatto narrato al fine di stabilire se siano idonee a renderlo ‘falso’ e, oltre che tale, diffamatorio”. Senza trascurare, e questa è un’altra osservazione interessante, che “il contesto narrativo, sotto lo spettro del quale scrutinare la portata diffamatoria dell’affermazione, può assumere anche una fisionomia diversa a seconda che si tratti di pubblicazioni on line o di stampa cartacea”. Tornando al caso concreto, per il massimo, correttamente la Corte di appello ha escluso che l’errore “evidente e inescusabile per essere stato commesso proprio da un giornalista di ‘cronaca giudiziaria’ (e, dunque, da ritenersi culturalmente attrezzato sugli anzidetti concetti giuridici), potesse giustificare l’operatività dell’esimente del diritto di cronaca, collocandosi la pubblicazione oltre il limite della verità, anche ragionevolmente putativa”. Così come era idoneo a ledere la reputazione il titolo (“Truffa del superfinanziere”) dove si era indebitamente uniformato il reato per il quale pendeva un procedimento penale nei confronti di un terzo soggetto, indagato per truffa, e quello contestato alla persona offesa, indagato invece per truffa tentata, ignorando che dagli atti risultassero addebiti diversi e per fatti diversi. Torino. Suicida in cella, tra le ipotesi c’è l’istigazione di Ludovica Lopetti Corriere di Torino, 21 maggio 2025 Sarà svolta l’autopsia sul corpo di Hanid Bodoui, 42 anni, trovato cadavere nella sua cella del “Lorusso e Cutugno” all’alba di lunedì mattina. Lo ha stabilito la Procura, che ha aperto un fascicolo d’indagine contro ignoti (pubblico ministero Paolo Scafi) con l’ipotesi di istigazione al suicidio. L’apertura del dossier e l’ipotesi di reato sono una conditio sine qua non per poter svolgere l’autopsia, che verrà effettuata questo giovedì. L’incarico al medico legale verrà formalizzato oggi. La sorella del defunto, cittadina italiana residente a Torino, risulta come persona offesa e potrà assistere alle operazioni tramite il suo avvocato Luca Motta o un consulente nominato ad hoc. Bodoui era tra i primi richiedenti asilo su cui si è espresso il giudice di pace di Roma, a seguito del Riesame presentato dal suo avvocato Anna Moretti - associazione Naga - facoltà contemplata dalla direttiva Rimpatri. Il 13 maggio il giudice Emanuela Artone ha richiesto la sua immediata liberazione dal centro di Gjader, dov’era stato portato il 9 aprile. Lo ha deciso in attesa della decisione della Corte Costituzionale, che dovrà esprimersi sul vulnus nel Testo Unico sull’immigrazione, laddove non dino sciplina le modalità di trattenimento nei Cpr. Secondo il tribunale di Lecce infatti, questa crepa normativa - a fronte di una detenzione “di fatto” nei Centri - violerebbe l’articolo 13 della Costituzione. Al suo legale, il 42enne marocchino aveva raccontato di essere stato bloccato con fascette ai polsi per tutto il viaggio. Teresa Florio, volontaria dell’associazione Naga e addetta al centralino Sos Cpr, è colei che ha ricevuto la chiamata di Bodoui da Gjader. “Mi ha detto pochissime cose con l’operatore accanto, c’è stato giusto il tempo di nominare l’avvocato. Gli operatori consentono chiamate di pochissimi minuti e li controlla a vista”. Dal ricorso (presentato il 9 maggio) emergono dettagli sul suo vissuto e sugli ultimi giorni prima dell’arresto in corso Giulio Cesare, seguito dal suicidio dentro il carcere “Lorusso e Cutugno”. Arrivato in Italia nel 2017, Bodoui era stato trasferito nel Cpr di Brindisi a inizio del 2025, presentando domanda di asilo. La commissione esaminatrice però aveva respinto la richiesta. Inoltre, nonostante avesse una sorella cittadina italiana e una madre titolare del permesso di soggiorno, era stato escluso dalla protezione speciale prevista per i conviventi di cittadini italiani, in quanto non aveva provato la convivenza con la sorella dal suo arrivo nel Paese. Il giudice di pace ha deciso anche sulla base della scheda sanitaria del 42enne, da cui risulta una diagnosi di disturbo da dipendenza ricevuta nel carcere di Torino a luglio 2024. Proprio la dipendenza dalla droga - conferma il legale Luca Motta, che lo ha assistito a Torino - lo avrebbe costretto a una vita di espedienti e piccoli reati contro il patrimonio. Non solo. Nel Cpr di Brindisi gli sarebbero state somministrate ingenti dosi di Rivotril e Lyrica, farmaci antiepilettici assurti a “droghe degli emarginati”. Foggia. Detenuto affetto da tetraparesi spastica in coma dopo caduta in cella, aperta un’inchiesta pugliapress.org, 21 maggio 2025 Un disabile cade nel carcere di Foggia e finisce in coma. L’uomo, un 51enne barese affetto da tetraparesi spastica, è stato ricoverato in gravi condizioni dopo una caduta avvenuta all’interno dell’istituto penitenziario. L’episodio ha spinto la Procura ad aprire un’inchiesta per chiarire le responsabilità. L’uomo è stato trasferito dal carcere di Bari a quello di Foggia nel luglio 2024, dopo una condanna definitiva a 4 anni e 8 mesi. Nonostante la grave disabilità, la richiesta del suo legale, Federico Straziota, di accedere a misure alternative alla detenzione è stata respinta. Nel penitenziario foggiano è stato assegnato a una cella con sette detenuti, senza supporti adeguati per le sue condizioni. “Era evidente che non potesse affrontare quell’ambiente senza assistenza continua,” ha dichiarato l’avvocato. Secondo i familiari, il detenuto è caduto più volte, in particolare per l’assenza di accessibilità al bagno, raggiungibile solo superando un gradino. Caduta nel carcere e coma: le conseguenze per il detenuto - Il 26 novembre 2024, il disabile è stato ricoverato in ospedale in coma, con una tumefazione frontale e gravi condizioni di disidratazione. I medici hanno eseguito un intervento chirurgico e avviato un percorso di riabilitazione. Tuttavia, il quadro clinico è peggiorato fino a diventare irreversibile. La vicenda rilancia l’attenzione sulla gestione dei detenuti fragili. Il caso è stato segnalato anche al Garante nazionale dei detenuti. Oggi, il 51enne si trova in detenzione domiciliare per via delle sue condizioni critiche. L’inchiesta, tuttora in corso, mira a verificare se ci siano state negligenze da parte del personale carcerario o omissioni nelle cure mediche. Si attendono nuovi sviluppi nelle prossime settimane. Salerno. L’inferno carcere: “Dignità calpestata” di Eleonora Tedesco La Città di Salerno, 21 maggio 2025 Nei tre istituti della provincia ben 200 detenuti in più rispetto ai limiti. La crisi di Fuorni: in aumento eventi critici e suicidi. Duemila detenuti in più rispetto alla capienza massima prevista nelle carceri campane: di questi, 210 sono in sovrannumero nelle case circondariali di Salerno e provincia. Sono gli inquietanti dati emersi ieri mattina al Comune nel corso della presentazione della relazione annuale del garante per i detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, che hanno messo ancora una volta in evidenza le sofferenze delle strutture detentive dell’intera “terra felix” e, in particolare, del Salernitano. A dicembre 2024, sui 15 istituti penitenziari della Campania si contavano 7.509 detenuti, di cui 892 stranieri e 349 donne, a fronte di 5.584 posti regolarmente disponibili. Per quanto riguarda la provincia di Salerno le tre carceri - Fuorni, Vallo della Lucania ed Eboli - ospitano, complessivamente, 676 persone su una capienza di 470 posti disponibili: 206 in più rispetto al “limite massimo”. Di questa popolazione di detenuti 95 sono stranieri e 61 sono donne la cui presenza è stata segnata solo relativamente al carcere di Salerno. Nel dettaglio, fino a dicembre 2024 all’Icatt di Eboli c’erano 49 detenuti su 54 posti disponibili, alla casa circondariale “Antonio Caputo” del capoluogo erano 568 su 371 posti disponibili e nella casa circondariale “Alfredo Paragano” di Vallo erano 59 su 40 posti. Firenze. Giancarlo Parissi è il nuovo Garante comunale dei detenuti nove.firenze.it, 21 maggio 2025 Prende il posto di Eros Cruccolini. Funaro: “Quello del carcere è un tema prioritario e urgente”. Il Consiglio comunale ha eletto Giancarlo Parissi come nuovo Garante delle persone private della libertà del Comune di Firenze. Parissi, che va a sostituire Eros Cruccolini, è tra i fondatori del C.I.A.O., Centro Informazione Ascolto Orientamento, associazione costituita a Firenze nel 1992 con l’obiettivo di promuovere una possibilità di accesso a un ruolo di cittadinanza anche per le persone ai margini della comunità. Parissi è stato eletto, a scrutinio segreto, con 19 voti alla seconda votazione. “Faccio gli auguri di buon lavoro a Giancarlo Parissi eletto oggi dal Consiglio comunale Garante comunale dei detenuti. Quello del carcere è un tema prioritario e urgente. Ci siamo espressi più volte sulle condizioni inadeguate di Sollicciano, una situazione di emergenza e criticità che segnaliamo con forza da anni e che ha bisogno di risposte concrete. Siamo da sempre impegnati come amministrazione a favorire tutti i percorsi necessari al reinserimento dei detenuti ma sappiamo bene che è necessario un impegno importante a ogni livello istituzionale. Tenere accesi i riflettori sulla condizione dei detenuti, di tutti coloro che operano all’interno dei penitenziari, questo è un obiettivo da perseguire e sono convinta che il neogarante Parissi non mancherà di lavorare in questa direzione. È la prima volta che il garante dei detenuti viene eletto dal Consiglio comunale, un passaggio che valorizza l’assemblea elettiva di Palazzo Vecchio, la funzione di rappresentanza che ha questo organo, ma anche la funzione delicata e importante di chi va a ricoprire questo ruolo. Colgo l’occasione anche per ringraziare il garante uscente Eros Cruccolini che in questi anni si è messo a disposizione della realtà carceraria fiorentina con grande impegno e spirito di servizio”. Così la sindaca Sara Funaro in merito all’elezione del garante dei detenuti del Comune di Firenze, Giancarlo Parissi, avvenuta nella seduta del Consiglio comunale. “Il confronto di oggi sul ruolo del garante dimostra la forte sensibilità del consiglio comunale riguardo la realtà del carcere, di chi vive detenuto e di chi all’interno del carcere lavora quotidianamente. Il coordinamento tra amministrazione e realtà che si occupano del tema carcerario è un impegno concreto sul quale approfondire il confronto, per condividere azioni e obiettivi. Siamo pronti a lavorare assieme al neogarante Parissi, portando avanti questo impegno e questo confronto per condividere tutti assieme le azioni da mettere in campo e gli obiettivi da raggiungere, siamo sicuri che questa sinergia quanto mai necessaria andrà avanti. Ringrazio il garante uscente Cruccolini che in questi anni non ha mai fatto mancare il suo impegno e la sua dedizione verso la tutela dei diritti delle persone detenute”, aggiunge l’assessore al Welfare Nicola Paulesu. “Rivolgiamo i nostri auguri di buon lavoro a Parissi - dichiarano Francesco Casini e Francesco Grazzini di Italia Viva - Con la sua lunga esperienza nel campo dell’inclusione sociale, dell’integrazione e del sostegno alle fasce più fragili della popolazione, siamo certi che saprà interpretare questo ruolo con attenzione, sensibilità e concretezza. Il Garante rappresenta un presidio fondamentale a tutela della dignità di chi vive situazioni di reclusione e vulnerabilità. Ma è anche qualcosa di più: una figura che incarna una speranza concreta per chi, troppo spesso, ha smesso di sperare. Una responsabilità grande, che implica la capacità di ascoltare e di farsi prossimo anche dove sembrano prevalere solitudine e marginalità. Siamo fiduciosi che Giancarlo Parissi porterà avanti questo impegno con serietà e spirito di servizio, contribuendo a rafforzare il senso di umanità e giustizia all’interno della nostra comunità”, concludono gli esponenti di Italia Viva. Dmitrij Palagi (Sinistra Progetto Comune) afferma per parte sua: “Buon lavoro al nuovo garante Giancarlo Parissi e grazie al garante uscente Eros Cruccolini. Esprimiamo dispiacere per la scelta della maggioranza di non sostenere un accordo tra culture politiche diverse, venendo incontro alle opposizioni. La seconda votazione ha dimostrato che c’era uno sforzo di incontro. Il profilo di Massimo Lensi secondo noi corrispondeva a quanto abbiamo detto in aula, ma avevamo capito che da parte della coalizione di governo c’era una lettura diversa. Legittima, ma rimane il dato politico.Adesso comunque rimane il comune impegno a ridurre la distanza tra carcere e città, superando la logica che condanna le marginalità a un sistema di appalti e finanziamenti che spesso durano il tempo di un progetto specifico, senza mettere in discussione un sistema che non funziona, tanto per la popolazione detenuta, quando per chi ne esce, passando per chi ci lavora e ci opera.Grazie a tutte le persone che avevano mandato la loro candidatura. Abbiamo la certezza che la prossima volta sapremo consegnare alla Città un rapporto migliore tra chi ha inviato il curriculum e chi è chiamato a votare. Esprimiamo soddisfazione per il dibattito che si è svolto in aula: se il voto è segreto, la discussione sui criteri non deve esserlo. Le scelte devono essere prese in modo chiaro, soprattutto in questi casi”, conclude Palagi. Rovigo. Pavarin è il nuovo Garante dei detenuti, l’avvocato scelto dal sindaco fino al 2030 di Elisa Barion La Voce di Rovigo, 21 maggio 2025 I detenuti della Casa circondariale hanno un nuovo garante dei loro diritti. Si tratta dell’avvocato rodigino Paolo Pavarin. La sua nomina è stata formalizzata martedì dal sindaco Valeria Cittadin attraverso un apposito decreto. Nato nel 1957, Pavarin, che resterà in carica per i prossimi cinque anni, fino al 19 maggio 2030, assume l’incarico che fino a domenica scorsa è stato detenuto dall’architetto rodigino Guido Pietropoli, nominato a sua volta il 19 maggio 2020 dall’allora sindaco Edoardo Gaffeo. Il sindaco Cittadin ha puntato sull’avvocato Pavarin “in considerazione della sua formazione professionale e personale, nonché degli incarichi di prestigio svolti nell’ambito del volontariato”. Dal canto suo l’assessore alle politiche sociali Nadja Bala commenta con soddisfazione la nomina: “L’avvocato Pavarin è una figura molto riconosciuta e stimata per i suoi meriti professionali e per il suo impegno nell’ambito del volontariato”. L’incarico di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Rovigo prevede il riconoscimento di un’indennità annua di 1.200 euro l’anno. Milano. L’arte vi farà (un po’) liberi. Storia di un bel murale nel carcere di Opera di Maurizio Crippa Il Foglio, 21 maggio 2025 Grandi onde che provano a far uscire sogni interiori, mondi nascosti e nuove possibilità. Un grande progetto con un artista e sei detenuti, sostenuto da Brera. Destinato a ripetersi, strutturarsi e stringere migliori rapporti tra il dentro e il fuori. Appunti per il Governo. La prima impressione visiva evoca il fluttuare delle onde, le onde del destino forse, che nella vita di ognuno possono prendere le curve più indecifrabili. L’artista visuale Carlo Galli, che ha immaginato questa grande opera murale e l’ha chiamata Superfici dell’Immaginazione, parla però del fluire del tempo. Un tempo che procede per onde, scava solchi, ma non è mai un tempo perduto, ha un senso da ritrovare. Intuizione molto vera, e molto reale, per il luogo in cui siamo, la Casa di Reclusione di Opera, a Milano. Un luogo dove, per le persone che vi sono ristrette, il tempo è l’elemento più estraneo, che scorre a lato, immobile. Un tormento o al massimo la speranza di un conto alla rovescia. Invece queste grandi onde, queste strisce di zebra, provano a far uscire sogni interiori, mondi nascosti e nuove possibilità. E il continuum dell’immagine fluida, quasi psichedelica, ha la capacità di far apparire tridimensionale, vivo, quel grande muro grigio di cemento: il muro interno di un cortile di prigione. O almeno questa sensazione devono averla provata, i sei detenuti che con Carlo Galli e con l’educatrice Silvia Brambilla a quest’opera hanno lavorato. Intensamente, da metà marzo a metà maggio, compreso un corso di preparazione. Si sono anche divertiti, dicono sorridendo quasi con timidezza: non solo la rottura della routine, ma un’esperienza davvero nuova. Un workshop d’arte, addirittura, dentro a un carcere. Il grande murale fatto di bianchi, neri e grigi progettato da Galli e realizzato, dopo un bel lavoro preparatorio, con sei detenuti di Opera - tutti “articolo 21”, coloro che possono essere assegnati al lavoro esterno, nel loro caso nelle strutture dell’istituto - non è un gesto estemporaneo, ma il risultato di un progetto ampio e ricco di significato. Lo ha realizzato l’associazione Artàmica APS ed è promosso e sostenuto dalla Pinacoteca di Brera, anzi meglio la Grande Brera, fortemente voluto dal direttore Angelo Crespi nell’ambito di quella missione importante per i grandi musei che è quella dei progetti di inclusione e integrazione, soprattutto rivolti alle componenti sociali più fragili: nei giorni scorsi Brera ha presentato un progetto, finanziato dal museo, dedicato all’inclusione di bambini con disabilità intellettive realizzato con l’associazione i Bambini delle Fate, attiva dal 2005. E le persone ristrette in carcere, appunto. Il progetto partito da qualche mese ha già permesso le visite in Pinacoteca di tre gruppi di detenuti e altre ne seguiranno. Intanto, tra le mura di Opera, con il convinto sostegno della struttura a partire alla direttrice, Stefania D’Agostino, è iniziato questo lavoro insolito, realizzazione d’arte, che ha coinvolto un po’ tutti. Dentro e fuori. Come spiega Alessandro Pellarin presidente di Artàmica, sottolinendo che non è un progetto a sé destinato ad esaurirsi, ma invece a ripetersi, strutturarsi, coinvolgere altri detenuti e stringere migliori rapporti tra il dentro e il fuori. “Il muro, spesso simbolo di separazione, qui si trasforma in una superficie di senso, di bellezza e di riscatto. E’ un invito a guardare oltre, a riconoscere l’umano dove meno ce lo aspettiamo”. Portare l’arte in luoghi “ristretti” come questo non è una novità assoluta, ma aver realizzato un’opera “dentro” e destinata a rimanere all’interno di quel perimetro per definizione angusto, è un passo significativo. I musei sono le moderne cattedrali dove la gente va “a cercare una qualche “redenzione ai propri mali”, dice Crespi. L’arte non è salvifica, ma ha il potere attraverso la bellezza di migliorare le persone in ogni condizione. E anche di migliorare luoghi come le carceri, che nella nostra società sono state invece concepite per essere brutte, inutilmente afflittive per chi vi è detenuto e per chi svolge il compito di custodia. “Attivare trasformazioni anche nei luoghi più chiusi e fragili”. Non una rivoluzione, certo, ma un piccolo buon passo. Considerando cosa sono i luoghi, e di abbandono, del nostro paese. E un modo per affermare che “qui abbiamo a che fare con persone”, come dice la direttrice di Opera D’Agostino. Il governo, così zeppo di teorici delle chiavi da buttare, prenda appunti. Torino. Il Cpr è già da ristrutturare. Gallo: “Costi enormi per 7 rimpatri in 2 mesi” di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 21 maggio 2025 Nel Centro sono rimasti 27 ospiti e una sola area agibile. Dopo gli incendi e le rivolte all’interno del Cpr di corso Brunelleschi, non si placano le polemiche sui costi della struttura, riaperta lo scorso 24 marzo dopo due anni di chiusura. Ieri mattina la garante delle persone private della libertà Monica Gallo e l’assessore comunale alle Politiche Sociali Jacopo Rosatelli si sono presentati all’ingresso per rendersi conto della situazione, ma solo la garante, dopo 18 minuti di attesa, è riuscita a varcare il cancello. “La nostra visita era stata comunicata alla Prefettura, ma mi è stato detto che la richiesta deve essere presentata con una settimana d’anticipo - ha raccontato Rosatelli -. Ho già inoltrato una nuova richiesta e non nascondo che il giorno prima la commissione aveva già avuto accesso, ma, come assessore alle Politiche Sociali credo di avere comunque il diritto di entrare in una struttura pubblica, pagata anche dai torinesi. Che mostra la sua totale chiusura verso l’esterno”. All’interno dell’unico blocco ancora funzionate sono rimasti 27 “ospiti”, 14 dei quali sono di nazionalità marocchina: “Una situazione assurda, un controsenso dal punto di vista legislativo - commenta Gallo -. Non hanno documenti in regola, ma, non essendoci accordi con il Marocco, non potranno essere rimpatriati. Quindi verranno rilasciati alla scadenza dei termini e ritorneranno a essere clandestini sul territorio italiano. Più o meno quello che è successo al ragazzo che l’altro giorno si è ucciso in carcere. Una persona radicata in Italia, arrivata a Lampedusa addirittura nel 2017. E che è stata anche nel Cpr in Albania prima di togliersi la vita in carcere. Forse proprio per paura di rientrare in posti come questo. E non capisco come possa essersi impiccato con i lacci in cella. Un suicidio che, per certi versi, mi ricorda quello di Alessandro Gaffoglio”. Fra pozzanghere e detriti, la garante ha parlato con tutti i “trattenuti” presenti: “Si sono avvicinati loro, mi hanno raccontato le loro storie, la loro disperazione e l’intolleranza verso questo sistema che non offre nessuna prospettiva. Se non quella di entrare e uscire da una struttura dove si vieni privati della libertà e della dignità. Un luogo dove il tempo si dilata all’infinito, dove non si fa niente. Il tutto con un prezzo altissimo per la comunità, a fronte di risultati praticamente nulli”. Le statistiche documentano che, dal 24 marzo al 6 maggio, sono stati effettuati 7 rimpatri dal Cpr di Torino: “Numeri che non giustificano un investimento di questo genere. Anche perché in 2 casi si è trattato di rimpatri volontari, incentivati da un budget messo a disposizione alla partenza e all’arrivo”. Sulla questione dei costi è intervenuto anche l’assessore Rosatelli: “Al di là di ogni orientamento politico o delle diverse “sensibilità”, un centro di questo genere rappresenta un evidente spreco di risorse. Oltre ai soldi pubblici spesi inutilmente, penso anche alle forze di polizia che potrebbero essere impegnate in altri compiti, da cui invece vengono distolte. Con tutti i rischi del caso, come abbiamo visto in queste settimane” I primi due mesi della nuova gestione sono stati particolarmente difficili. Due rivolte, un’area completamente inagibile e altre due ancora da completare: “Una parte del Cpr dovrà essere ristrutturata a spese dei cittadini per continuare a far sopravvivere un luogo dove manca il rispetto dei valori fondamentali dell’essere umano. E questo, sia chiaro, nulla ha a che fare con chi la gestisce o ci lavora. Riguarda invece l’incapacità di trovare un’alternativa che punti ad investimenti sociali invece di alzare muri di cemento”. Catanzaro. L’incontro con Pavese dietro le sbarre, tra emozioni profonde e la luce della Calabria di Stefania Romito rivieraweb.it, 21 maggio 2025 Ho vissuto molti momenti intensi nella mia vita, ma quello che ho sperimentato il 16 maggio, all’interno della Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro, resterà per sempre inciso nel mio cuore. È lì che ha preso ufficialmente il via il Progetto culturale-educativo “La cultura rende liberi”, da me ideato e curato, un percorso che mira a restituire dignità, ascolto e speranza attraverso la letteratura, in un luogo in cui il tempo sembra fermarsi, ma l’anima ha ancora il diritto di muoversi, di cercare, di rinascere. Ho scelto di iniziare questo viaggio con Cesare Pavese, un autore che da sempre abita le mie riflessioni più intime. La sua inquietudine, la sua solitudine così profondamente umana, la sua struggente tensione verso un senso che pare sempre sfuggire… Pavese non consola, ma accompagna. E ho visto, negli sguardi dei detenuti che ho incontrato, che le sue parole sono arrivate lì dove nemmeno la speranza osa sempre entrare. Ci siamo trovati a parlare di dolore, di riscatto, di memoria, ma soprattutto di quella possibilità concreta di cambiamento che può nascere dal confronto sincero con la letteratura. Mentre condividevo con loro brani di Il mestiere di vivere o di La luna e i falò, percepivo le emozioni affiorare, crude, vere, a volte quasi urlate nel silenzio. Le parole diventavano ponti. Non c’erano più solo sbarre e mura, ma esistenze, storie, e il desiderio struggente di essere visti come persone, non solo come colpe. Quel giorno, fuori dal carcere, la Calabria si mostrava in tutta la sua struggente bellezza. Le colline bagnate da una pioggia primaverile, l’odore del mare che arrivava lontano, come un messaggio sottile di libertà. Una terra antica e generosa, la terra di Calabria, che amo profondamente, con la sua anima aspra e accogliente, capace di raccontare anch’essa, in silenzio, storie di ferite e rinascite. Il Progetto si articola in tre aree: le interviste, i laboratori di scrittura creativa, e gli incontri letterari. Ma non sono solo “attività”. Sono occasioni per ascoltare e farsi ascoltare. “Voci dal carcere” “Parole liberate” e “Libri oltre le sbarre”, il cuore letterario del progetto, che nasce proprio da questa prima esperienza con Pavese. Una finestra spalancata sul senso più profondo dell’essere umani. Portare la cultura in carcere è un atto d’amore e di coraggio. Significa mettere al centro la persona, prima del reato. E soprattutto, significa dare una possibilità concreta di riscatto, perché, come credo fermamente, la cultura rende liberi. Desidero ringraziare profondamente la direttrice della Casa Circondariale “Ugo Caridi”, la dott.ssa Patrizia Delfino, per aver creduto nella forza di questo progetto. Grazie a lei, a tutti gli operatori e ai detenuti che hanno accolto con emozione e partecipazione questo percorso. Torno a casa con un senso di pienezza e gratitudine. Lo sguardo dei detenuti che mi hanno detto “grazie” vale più di mille riconoscimenti. Questo è solo l’inizio. Ma è un inizio che ha già lasciato un segno. E continueremo, insieme, a percorrere questa strada. Perché dove c’è parola, c’è possibilità. Dove c’è ascolto, c’è rinascita. Dove c’è cultura… c’è libertà. Torino. “Adotta uno scrittore”, dal Salone del libro alle carceri di Viola Mancuso gnewsonline.it, 21 maggio 2025 Leggere un libro è come viaggiare: è questo lo spirito che anima “Adotta uno scrittore”, il progetto più longevo del Salone Internazionale del Libro, che da anni permette gli incontri degli studenti con alcuni tra i più importanti autori contemporanei. Al centro ci sono la parola e il desiderio di ampliare l’accesso alla cultura, coinvolgendo sempre più Istituti scolastici e penitenziari, affinché anche le scuole in carcere possano diventare veri e propri presìdi culturali. Nel tempo, oltre 20 carceri hanno preso parte al progetto, tra cui gli istituti di Roma Rebibbia, le case circondariali di Genova Marassi, Pavia, Verona Montorio, Vercelli, Catanzaro e la casa di reclusione di Palermo Ucciardone. L’istruzione e la cultura rappresentano elementi fondamentali del trattamento rieducativo favorendo la crescita personale, l’apertura verso nuove relazioni sociali e il superamento dell’isolamento. Un esempio concreto è arrivato il 15 maggio nella sezione femminile dell’istituto di Vercelli, dove la giornalista Antonella Frontani ha presentato il suo romanzo “Il silenzio della marea”. Un libro capace di evocare ricordi, stimolare emozioni e far viaggiare lontano anche chi vive in uno spazio ristretto. L’iniziativa, fortemente voluta dall’Area educativa, garantisce pari opportunità anche alle detenute, che spesso, a causa del numero inferiore rispetto agli uomini, hanno meno occasioni di accedere a questi progetti. Ma non finisce qui. L’edizione 2025 del Salone proseguirà nella sezione maschile di Vercelli con la presentazione del libro “Onda Calabra” di Vins Gallico, autore già noto negli ambienti penitenziari per aver dialogato in passato con detenuti calabresi, anche minorenni. “Un’esperienza di grande intensità, anche se rischiosa”, ha dichiarato lo scrittore. Da Nord a Sud le iniziative culturali non si fermano: dal 19 maggio prende il via la XXII edizione del Progetto Gutenberg, storica fiera del libro sostenuta dal Comune di Catanzaro che promuove un autentico confronto tra scuola, territorio e cultura. Per la prima volta, l’apertura dell’evento avverrà nella casa circondariale “Ugo Caridi” con un incontro sul tema della legalità insieme alla scrittrice Irene Spini. La lettura, strumento di unione e riconnessione con la società, è al centro dell’impegno della direttrice dell’istituto di Catanzaro, Patrizia Delfino, che ha investito fortemente in progetti culturali capaci di dare voce a tutte le anime del carcere: agenti, educatori, detenuti. Tra questi spicca un ciclo di incontri guidato dalla giornalista Stefania Romito che accompagnerà per sei mesi la popolazione detenuta in un viaggio tra i grandi autori italiani, creando momenti di riflessione capaci di dare spazio a tutte le persone che vivono l’esperienza del carcere. Rimini. Teatro sociale, l’AiCS a San Patrignano con la Compagnia “Stabile Assai” di Rebibbia aics.it, 21 maggio 2025 Il 27 maggio, dalle 18 negli spazi della più nota comunità terapeutica del Paese. Detenuti ed ex detenuti porteranno in scena lo spettacolo “Fiumi di parole”. In chiusura, performance musicale dei Terapia d’Urto, band della Compagnia - tra gli ospiti il presidente AiCS Bruno Molea e il responsabile del settore primario della Comunità Marco Tamagnini. Musica e teatro per portare il carcere fuori dal carcere e per aprire le porte delle comunità terapeutiche. Un connubio speciale quello che si celebrerà martedì 27 maggio a Rimini, quando la Comunità di San Patrignano di Rimini ospiterà la Compagnia Stabile Assai di Rebibbia - gruppo teatrale carcerario promosso da AiCS. La compagnia metterà in scena lo spettacolo “Fiumi di parole” e, al termine, la sua band musicale (i Terapia d’urto) chiuderanno la serata di festa con un breve concerto di musica d’autore. Sul palco, quindi, detenuti, ex detenuti, operatori sociali di AiCS - tutti diretti da Antonio Turco, coordinatore dell’area di promozione sociale di AiCS nonché fondatore della Compagnia teatrale di Rebibbia. Tra gli ospiti, in prima fila, il presidente di AiCS Bruno Molea, e le “anime” di San Patrignano, Marco Tamagnini (anche componente del Sottosegretariato sociale del CNEL per l’inclusione dei detenuti) e Giovanni Ponzelli. Tra attori e musicisti, alcune delle figure più note del panorama attoriale e musicale sociale: Giovanni Arcuri (ex detenuto di Rebibbia), nonché il Cesare di “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, vincitore dell’Orso d’oro a Berlino nel 2011; Fabrizio Collevecchio, vice commissario della Polizia penitenziaria di Rebibbia; il musicista Mario Donatone - leggenda del blues in Italia; e Roberto Turco per anni bassista di Rino Gaetano. Si tratta di un evento storico per la nascita di entrambe le esperienze. La comunità di San Patrignano fu fondata nel ‘78 da Vincenzo Muccioli e da oltre 40 anni offre aiuto gratuito a ragazze e ragazzi con problemi di tossicodipendenza (ben 26mila quelli accolti nei decenni e circa 800 quelli attualmente in percorso); la Compagnia Stabile assai di Rebibbia è nata poco tempo dopo - nell’ ‘82 - e fu la prima esperienza di teatro carcerario in Italia. Crotone. “Non fare autogoal”, ultima tappa tra i detenuti della Casa circondariale laprovinciakr.it, 21 maggio 2025 Conclusa la campagna di sensibilizzazione tra scuole e carcere per educare alla prevenzione dall’uso di fumo e alcol e alla promozione di stili di vita sani tra giovani e adulti. Con l’ultima significativa tappa, tenutasi presso la Casa circondariale di Crotone, si è ufficialmente conclusa la campagna di sensibilizzazione “Non fare autogoal - I danni alla salute del tabagismo e dell’alcol”, promossa dall’assessorato all’Istruzione del Comune di Crotone, guidato dal professor Nicola Corigliano. Un’iniziativa che ha saputo coniugare rigore scientifico, impegno educativo e attenzione sociale, coinvolgendo un ampio spettro della cittadinanza, dagli studenti delle scuole superiori ai detenuti, nel nome della prevenzione e della salute pubblica. L’ultimo incontro, tenutosi questa mattina, 20 maggio, all’interno dell’istituto penitenziario crotonese, ha assunto un valore simbolico e umano particolarmente forte. Per la prima volta, infatti, il progetto ha varcato i confini scolastici per raggiungere un contesto spesso dimenticato dalle campagne educative, offrendo anche ai detenuti un’occasione di riflessione consapevole sui danni provocati dall’abuso di alcol e tabacco. A porgere i saluti istituzionali sono stati la direttrice della Casa circondariale, Mariastella Fedele, l’assessore comunale Nicola Corigliano e la referente della scuola, Domenica Scida. A relazionare, come in tutti gli altri appuntamenti, sono stati la dottoressa Tullia Prantera, già primario di Oncologia presso l’ospedale “San Giovanni di Dio” di Crotone, e il professor Romano Pesavento, docente di Diritto ed economia e presidente del Coordinamento nazionale docenti della disciplina dei Diritti umani (Cnddu). Il confronto è stato intenso, partecipato e umano: la dottoressa Prantera ha condotto un dettagliato percorso informativo sulle malattie legate al fumo e all’alcol, mentre il professor Pesavento ha messo in luce le gravi ricadute economiche e sociali delle dipendenze sul sistema sanitario nazionale, ribadendo l’importanza delle scelte consapevoli e del libero arbitrio nella cura di sé. L’iniziativa ha suscitato vivo interesse e partecipazione da parte del pubblico, che ha accolto con attenzione e rispetto i contenuti proposti, ponendo numerose domande e riflessioni. L’evento ha dimostrato ancora una volta quanto sia importante diffondere la cultura della salute in ogni contesto. La campagna “Non fare autogoal”, partita a febbraio 2025, ha fatto tappa in cinque istituzioni del territorio crotonese: Liceo scientifico “Filolao”, Polo tecnologico “Donegani-Ciliberto”, Polo tecnico professionale “Barlacchi-Lucifero”, Centro provinciale per l’istruzione degli adulti (Cpia) e, appunto, la Casa circondariale. In ciascun incontro, gli studenti e i partecipanti sono stati accompagnati da relatori in un percorso di consapevolezza sui rischi legati alle dipendenze, con l’obiettivo di promuovere una cultura della prevenzione fondata su conoscenza, responsabilità e benessere psico-fisico. Il successo dell’iniziativa - sottolineato dall’attiva partecipazione e dal coinvolgimento emotivo e intellettuale dei presenti - rappresenta un chiaro segnale per il futuro. Come auspicato dall’assessore Corigliano e dai relatori, la speranza è che simili momenti formativi possano diventare appuntamenti permanenti all’interno del calendario scolastico e civico, contribuendo alla costruzione di una società più consapevole e attenta alla salute collettiva. In un tempo in cui le dipendenze continuano a colpire soprattutto le fasce più giovani e vulnerabili, “Non fare autogoal” si conferma come un modello virtuoso di collaborazione tra enti pubblici, scuola e società, capace di lasciare un segno concreto nella comunità crotonese. Lecco. “Belli dentro”, inaugurata la palestra diffusa e l’area verde del carcere di Andrea Besati laprovinciaunicatv.it, 21 maggio 2025 L’importanza del coinvolgimento della comunità e dell’entusiasmo creatosi intorno al progetto è stata evidenziata anche da Luisa Mattina, direttrice della casa circondariale, e da Maria Grazia Nasazzi, presidente della Fondazione Comunitaria del Lecchese. Sono stati inaugurati martedì mattina i nuovi spazi realizzati all’interno della casa circondariale di Pescarenico nell’ambito del progetto “Belli dentro” sostenuto da fondazione comunitaria nel lecchese, Rotary club Lecco, Panathlon club Lecco, banca della Valsassina, Comune di Lecco e fondazione Scola. In tutte le tre salette socialità presenti nella casa circondariale, una per piano, è stata creata una palestra per lo svolgimento di attività fisica. “L’attività fisica - ha spiegato Roberto Butta, professionista nel settore dello sport - favorisce il miglioramento della qualità della vita delle persone. Serve costanza e motivazione per farla tutti i giorni. Era un’esigenza molto sentita dai detenuti”. In aggiunta, è stata creata un’area all’aperto con uno spazio riservato all’incontro tra i detenuti e i loro famigliari e cinque vasi in cui i detenuti potranno coltivare ortaggi che poi potranno utilizzare nella loro cucina. Le pareti di questa nuova area sono state decorate dagli studenti del liceo artistico Medardo Rosso assieme all’artista Afran. “Prima di questo progetto - ha spiegato l’architetto Enrica Quinto - l’area, compresa tra il muro esterno della casa circondariale e la cinta muraria, era un non luogo. Ora, invece, ha una forte identità. I disegni sulle pareti richiamano le montagne. Sono stati creati alcuni riquadri in cui i ragazzi hanno disegnato delle immagini espressione di libertà. Davanti agli orti sono state inserite anche delle gigantografie raffiguranti dei lavori che i detenuti potranno svolgere una volta usciti”. Sempre all’interno del progetto “Belli dentro” Afran aveva collaborato con i detenuti nella realizzazione di alcuni murales su altre pareti della casa circondariale. “Grazie a questo progetto - ha spiegato Lucio Farina, direttore del centro di servizio per il volontariato Monza - Lecco - Sondrio e garante dei diritti delle persone private della libertà personale - la scorsa estate siamo riusciti a portare un ventilatore in ogni cella. È un’iniziativa flessibile per la quale si è mossa tutta la comunità locale. Ora è dovere del personale della casa circondariale far si che questi nuovi spazi siano utilizzati così come è dovere dei detenuti tenerli bene per chi arriverà dopo”. L’importanza del coinvolgimento della comunità e dell’entusiasmo creatosi intorno al progetto è stata evidenziata anche da Luisa Mattina, direttrice della casa circondariale, e da Maria Grazia Nasazzi, presidente della Fondazione comunitaria del lecchese. “Prendersi cura dei luoghi - ha aggiunto il sindaco di Lecco Mauro Gattinoni - vuole dire prendersi cura delle persone. Questo progetto è frutto di una bella intuizione della direttrice. È un investimento sui detenuti”. L’inaugurazione si è poi conclusa con un rinfresco a cura degli alunni di Enaip. Referendum e delitto di Garlasco. Lo schermo preferisce il nero di Vincenzo Vita Il Manifesto, 21 maggio 2025 Con noncuranza verso Carte deontologiche e codici di autoregolamentazione, imperversa l’ubriacatura dei processi mediatici. Quante ore sono dedicate alla triste vicenda del delitto di Garlasco, la cui vittima Chiara Poggi non riesce a dormire in pace? Una quantità impressionante di tempo scorre attorno alla riapertura del caso, attraverso un metodo divulgativo sensazionalistico e di un cinismo disdicevole. Sul tema un’occhiata vigile andrebbe data, trattandosi di persone in carne e ossa. Non si confonda la doverosa trasparenza con il chiasso mediatico. Qual è la proporzione tra la bulimia della cronaca nera (quella che fa il verso alla fiction) e l’attenzione al diritto di essere informati sui referendum che si terranno i prossimi 8 e 9 giugno? Impossibile calcolare la differenza di attenzione, essendo incommensurabile. Non si vuole accedere a moralismi fuori luogo, bensì sottolineare come proprio la cronaca nera costituisca una forma di coinvolgimento emozionale del pubblico, portato per mano fuori dalle urgenze di carattere politico e sociale. La campagna referendaria in corso rappresenta un caso che diverrà oggetto di studi e di ricerca. Un appuntamento importante, previsto dalla Costituzione come elemento connotativo del sistema democratico, è boicottato da gran parte dell’universo radiotelevisivo. Non parliamo delle tribune canoniche, che pure non vanno neppure male (tra il 2% e il 4-4,6% di share, e i messaggi autogestiti pure meglio), bensì delle strisce informative quotidiane. Le tabelle pubblicate dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (periodo tra il 9 aprile e il 10 maggio, le più recenti disponibili) sono implacabili. La Rai: 0,62% nei telegiornali e 0,14% nelle trasmissioni extra-tg; Mediaset: rispettivamente 0,45% e 0,03%; La7: 0,75% e 0,44%; Sky: 0,82% e 0,87%; Nove: 0. Insomma, cifre da prefisso telefonico. Contrariamente a ciò che con leggerezza qua e là si scrive o si dice (vedi, ad esempio, la trasmissione radiofonica del mattino curata dal pur bravo Peter Gomez e da Marcello Foa dello scorso lunedì) non è vero che i regolamenti attuativi della legge 28 del 2000 - e neppure a maggior ragione la norma primaria- impedirebbero la trattazione dei referendum per eccesso di zelo impositivo. In verità, ad una lettura un po’ meno vaga, risulta evidente la differenza tra disciplina delle trasmissioni di comunicazione politica e di quelle di informazione, legate alle testate di riferimento. Se nelle prime vale il cronometro, nelle seconde le pari opportunità vanno intese nell’insieme delle puntate del periodo elettorale. Se mai, come annuncia il ricorso alla giustizia amministrativa evocato dal segretario di +Europa Riccardo Magi, il limite degli articolati è di non offrire spazi adeguati ai Comitati promotori dei quesiti e di sollecitare in maniera troppo blanda la spiegazione della natura e del senso delle domande abrogative. La par condicio nei referendum non va intesa tanto e solo nella uguale rappresentazione dei Sì e dei No (in cui è conteggiata l’astensione), quanto nella divulgazione dei contributi e dei contesti delle decisioni da assumere nelle urne. Si è già scritto, in questa stessa rubrica, dell’importanza di affidare ad uno specifico talk (plurale e supportato da esperti) la presentazione delle problematiche sottese ai 5 referendum. Tuttavia, non sembra esserci ancora un clima di lotta sufficiente, quasi che il non raggiungimento del quorum richiesto per la validità del voto sia un’inesorabile sorte imposta dal destino crudele. Servono atti emblematici, capaci di sollecitare attenzione e mobilitazione cognitiva, nonché la rivolta delle coscienze. Una proposta concreta: le forze di opposizione facenti parte della commissione parlamentare di vigilanza occupino simbolicamente (e, ovviamente, in modo pacifico) la sede della citata commissione bicamerale e -oltre ai pur utili sit-in davanti alla Rai- promuovano corner e manifestazioni permanenti in città e paesi. Si rende indispensabile un salto di qualità, una rottura dell’inerzia. Il postino non bussa in questo caso due volte. Morire di alternanza scuola-lavoro: rivendicare i diritti degli studenti per ottenere più sicurezza di Anita Fallani Il Domani, 21 maggio 2025 Da gennaio a marzo le denunce di infortunio sono state 25.797. “I Pcto nella stragrande maggioranza dei casi non sono formazione al lavoro ma manodopera gratuita. Lo studente viene inserito nel ciclo produttivo senza diritti né tutele e infatti, non a caso, di Pcto si muore”, spiega il coordinatore nazionale del sindacato studentesco Rete degli Studenti Medi Paolo Notarnicola. Angela Lenoci, zia di Giuseppe, morto in alternanza scuola lavoro: “Gli studenti dovrebbero simulare il lavoro non svolgerlo”. Tra i dati Inail relativi agli infortuni e alle morti sul lavoro avvenute tra gennaio e marzo del 2025 ce n’è uno piuttosto allarmante: sono morti cinque studenti durante il cosiddetto Pcto (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento), l’ex alternanza scuola lavoro, che adesso il governo vuole estendere e anticipare al secondo anno di superiori negli istituti tecnici. Il dossier elaborato dall’Inail spiega che di questi cinque studenti uno è morto durante il tragitto mentre gli altri quattro nella sede in cui si teneva il Pcto. Si tratta di due studentesse e di tre studenti che studiavano in Lombardia, Campania e provincia autonoma di Bolzano. La legge 107 del 2015 voluta dal governo Renzi e conosciuta con il nome di “Buona scuola” è quella che ha reso obbligatoria l’istituzione dell’alternanza scuola lavoro, che nel 2018 ha cambiato nome in Pcto. Quando la Buona Scuola era ancora una proposta, centinaia di migliaia di studenti avevano manifestato contro la degenerazione aziendalista che l’alternanza scuola lavoro avrebbe portato al sistema didattico italiano mentre il governo - e in particolare la senatrice del Partito democratico Simona Malpezzi, che in quegli anni organizzava comizi in giro per l’Italia per spiegare la riforma - sosteneva che non ci sarebbe stato alcuno stravolgimento, anzi. Grazie alla legge 107, dicevano, si sarebbe finalmente avuto un quadro normativo nazionale capace di regolare i tirocini e gli stage, una pratica consolidata e diffusa ma mai regolamentata prima. “È vero che anche prima del 2015 tantissimi istituti organizzavano tirocini e stage senza rifarsi a un quadro normativo nazionale ma è anche altrettanto vero che a 10 anni dall’approvazione della legge possiamo dire che ci avevamo visto lungo: la Buona scuola ha favorito il lavoro minorile. La legge 107 del 2015 non tutela gli studenti quindi il risultato è stato quello di esporre a livello nazionale centinaia di migliaia di studenti al rischio” ha detto a Domani il coordinatore nazionale del sindacato studentesco Rete degli Studenti Medi Paolo Notarnicola. “A scuola si dovrebbe fare solo formazione mentre i Pcto nella stragrande maggioranza dei casi non sono formazione al lavoro ma semplicemente lavoro, manodopera gratuita. Lo studente viene inserito nel ciclo produttivo senza diritti né tutele e infatti, non a caso, di Pcto si muore” ha aggiunto Notarnicola. Legittimare i decessi in formazione - Per capire come mai l’Inail dal 2023 ad oggi ha registrato un aumento dei casi di infortunio e di decessi tra gli studenti, vanno considerati diversi elementi, alcuni contingenti altri strutturali. “L’articolo 18 del decreto legge 48/2023 ha esteso l’assicurazione Inail anche agli studenti in Pcto, prima esisteva solo l’assicurazione della scuola. Questo ha significato per l’Inail poter raccogliere da quel momento dati certi sugli infortuni e i decessi. Tutto quello che è successo prima rimane un mistero” ha spiegato Notarnicola. L’articolo 17 di quel decreto, tra l’altro, ha istituito un fondo da 10 milioni che aumenta di 2 milioni ogni anno per i risarcimenti in caso di infortuni e decessi degli studenti. È un articolo molto criticato dai sindacati studenteschi perché il governo “legittima l’idea che nei percorsi di formazione si può morire dato che, parallelamente, la normativa non è cambiata per aumentare la sicurezza e garantire i diritti degli studenti” ha riferito il coordinatore nazionale. Nel 2017 è stata approvata una Carta dei diritti degli studenti in alternanza che non li tutela dai possibili abusi: la carta non obbliga i tutor a seguire costantemente gli studenti, non viene indicata la durata massima della attività giornaliere, non c’è l’obbligo per le scuole di stipulare accordi solo con aziende iscritte nel registro delle Camere di Commercio. Gli studenti, inoltre, non hanno la possibilità di capire se quanto viene proposto loro rientra nelle mansioni che sono tenuti a svolgere o meno. “Dopo la morte di mio nipote Giuseppe Lenoci ho studiato in maniera approfondita la normativa perché avevo capito che la sua morte non era un incidente ma una possibilità figlia delle carenze delle leggi e, come tale, replicabile” ha detto Angela Lenoci, zia di Giuseppe, a Domani. Le carenze della legge - Secondo l’Inail, nei primi 3 mesi del 2025 ci sono state 25.797 denunce di infortunio tra gli studenti (si tratta di un incremento del 1,9 per cento rispetto al 2024) e per Angela Lenoci i motivi che le permettono sono diversi: “Innanzitutto, i tutor non hanno un albo e non seguono corsi specifici, sono semplicemente persone nominate ad assumere quel ruolo. Tra l’altro può essere nominato tutor anche il titolare dell’azienda. È successo nel caso di mio nipote Giuseppe ed è assurdo pensare che una persona con un ruolo dirigenziale possa seguire ininterrottamente uno studente”. Poi, ha aggiunto Angela Lenoci “mio nipote non aveva niente che lo identificasse come studente, si confondeva in mezzo agli altri operai. Credo che dovrebbe diventare obbligatorio indossare un simbolo identificativo per gli studenti in Pcto per evitare equivoci”. Gli studenti non vengono informati sui loro diritti né sulle mansioni che possono e non possono svolgere: “Se Giuseppe avesse conosciuto bene le regole non sarebbe mai salito su quella macchina per fare una trasferta a 120 chilometri da casa. Avrebbe detto di no e le cose sarebbero andate diversamente”, ha raccontato Angela Lenoci. Ma la questione fondamentale che sta alla base di tutti gli incidenti è per Angela Lenoci e i sindacati studenteschi principalmente una: “Gli studenti dovrebbero simulare il lavoro non svolgerlo”. Nel primo trimestre 2025, le denunce di infortunio tra gli studenti sono 25.797, con un incremento dell’1,9 per cento rispetto al 2024. La Lombardia è la regione con il maggior numero di casi (23 per cento del totale nazionale). Tra le denunce, circa 600 sono relative a studenti in percorsi Pcto. Inoltre, sono stati registrati cinque decessi, contro i due del 2024. Fine vita, pressing Consulta ma la legge è ancora al palo di Marzio Bartoloni e Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2025 La Corte costituzionale nella sentenza numero 66, depositata oggi, ha affermato che il requisito non è in contrasto con la Costituzione e ha rinnovato i propri appelli al legislatore. Non è costituzionalmente illegittimo subordinare la non punibilità dell’aiuto al suicidio al requisito che il paziente necessiti, secondo la valutazione medica, di un trattamento di sostegno vitale. È quanto ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza numero 66, depositata oggi, in cui sono state ritenute non fondate varie questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, sollevate dal GIP di Milano, al quale il pubblico ministero aveva chiesto di archiviare due procedimenti penali per aiuto al suicidio nei confronti di Marco Cappato (indagato per il delitto di cui all’articolo 580 cod. pen.) commessi il 2 agosto 2022 e il 25 novembre 2022. La Corte ha rammentato quanto già precisato nella sentenza numero 135 del 2024, pubblicata successivamente all’ordinanza di rimessione: il requisito che il paziente dipenda da un trattamento di sostegno vitale è integrato già quando vi sia l’indicazione medica della necessità di un tale trattamento allo scopo di assicurare l’espletamento delle sue funzioni vitali, in particolare ogniqualvolta si debba ritenere che l’omissione o l’interruzione di tale trattamento determinerebbe prevedibilmente la sua morte in un breve lasso di tempo, e sussistano tutti gli altri requisiti sostanziali e procedurali indicati dalla sentenza numero 242 del 2019. Non è dunque necessario che il paziente sia tenuto a iniziare il trattamento al solo scopo di poter poi essere aiutato a morire. In assenza di una simile condizione, la Corte - reiterando considerazioni già svolte nella sentenza numero 135 del 2024 - ha ritenuto che non è discriminatorio limitare a questi pazienti la possibilità di accedere al suicidio assistito, e che tale limitazione non viola il diritto all’autodeterminazione del paziente. Pur non essendo, in ipotesi, precluso al legislatore compiere scelte diverse, laddove appresti le necessarie garanzie contro i rischi di abuso e di abbandono del malato, al legislatore stesso deve infatti riconoscersi un “significativo margine di discrezionalità […] nel bilanciamento tra il dovere di tutela della vita umana, discendente dall’art. 2 Cost., e il principio dell’autonomia del paziente nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo, e che è a sua volta un aspetto del più generale diritto al libero sviluppo della propria persona”. La Corte ha poi sottolineato il carattere essenziale che rivestono i requisiti e le condizioni procedurali per la non punibilità dell’aiuto al suicidio cui ha fatto riferimento la giurisprudenza costituzionale, in quanto funzionali sia a prevenire il pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili, sia a “contrastare derive sociali o culturali che inducano le persone malate a scelte suicide, quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso”. La Corte ha rammentato che costituisce preciso dovere della Repubblica garantire “adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, perché la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e può costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte”. In proposito, ha osservato con preoccupazione che ancor oggi, nel nostro Paese, non è garantito un accesso universale ed equo alle cure palliative nei vari contesti sanitari, sia domiciliari che ospedalieri; vi sono spesso lunghe liste di attesa; si sconta una mancanza di personale adeguatamente formato e una distribuzione territoriale dell’offerta troppo divaricata; e la stessa effettiva presa in carico da parte del servizio sociosanitario, per queste persone, è a volte insufficiente. Infine, la sentenza ha “ribadito con forza l’auspicio […] che il legislatore e il Servizio sanitario nazionale intervengano prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione a quanto stabilito dalla sentenza n. 242 del 2019, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina nel rispetto delle esigenze richiamate ancora una volta dalla presente pronuncia”. Verso il referendum, c’è chi ha paura dei nuovi cittadini di Marika Ikonomu Il Domani, 21 maggio 2025 Ottenere la cittadinanza nel nostro paese è un percorso a ostacoli. Bontempelli: “Il referendum riguarda noi e la nostra idea di popolo”. “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”. Giorgio Gaber nel 2003 cantava la sua idea di (non) appartenenza: “Mi scusi presidente, se arrivo all’impudenza di dire che non sento alcuna appartenenza”. Eppure, chi è nato da cittadini e cittadine italiane, secondo il principio dello ius sanguinis, non rischia di vedersi togliere la cittadinanza se non si sente italiano o commette reati, così come non è tenuto a provare di guadagnare abbastanza o sapere a sufficienza la lingua per ottenere un documento. Ma cosa significa essere cittadini? E cosa significa essere italiani? Ottenere la cittadinanza in Italia è un percorso a ostacoli, anche per chi è arrivato nel paese a pochi mesi di vita ed è costretto a fare domanda per naturalizzazione. È la principale forma di acquisizione: non un diritto, ma una concessione dello stato. Ci sono requisiti da ottenere, burocrazie da affrontare e anni di attese. Il referendum dell’8 e 9 giugno ha l’obiettivo di attenuare uno dei requisiti necessari: abrogando un comma dell’articolo 9 della legge del 1992 si propone di ridurre da 10 a 5 anni la residenza continuativa necessaria per fare richiesta di cittadinanza. O meglio, di ripristinare la disciplina precedente alla legge in vigore. Gli altri requisiti invece rimangono: certificato di nascita, casellario giudiziale del paese di origine, conoscenza della lingua e reddito minimo. “Penso sia fondamentale non solo perché è ragionevole ridurre il termine, adeguandolo alla tendenza europea, ma anche perché i cittadini cominciano a prendere coscienza dell’opacità di queste procedure”, spiega Sergio Bontempelli, operatore sociale, studioso e responsabile degli Sportelli di assistenza agli stranieri dei Comuni della provincia di Pistoia. Un voto dal grande senso simbolico, dice l’esperto: “Le procedure non vengono più nascoste o occultate dietro il concetto che la cittadinanza bisogna meritarla”. Poi però servirà comunque una “riforma radicale della legge”. La burocrazia - Anche per le nuove generazioni che hanno promosso il referendum si tratta di un primo passo. Ma già di per sé potrebbe allargare il bacino dei beneficiari, secondo il rapporto di Idos pubblicato il 16 maggio, a 1 milione e 420mila cittadini non comunitari, di cui 284mila minori. 700mila, invece, secondo la stima, rimarrebbero esclusi a causa del requisito del reddito. Alla difficoltà di avere tutti i requisiti, si aggiungono gli ostacoli formali: se un documento riporta la capitale iraniana “Teheran” e in un altro la trascrizione è “Tehran”, l’amministrazione considera la domanda inammissibile. Nell’ottusità della burocrazia, Bontempelli non legge un’intenzionalità. Di fronte a documenti con diciture diverse i funzionari hanno probabilmente trovato un modo per velocizzare le procedure. “Bisogna però distinguere l’intenzionalità dall’effetto”, evidenzia l’esperto: “Michel Foucault diceva che una delle caratteristiche della burocrazia ostile è il presentarsi al pubblico come stupida, non facendolo intenzionalmente. Cioè l’idea che una burocrazia venga percepita dal corpo sociale tanto più potente quanto più è nelle mani di meccanismi farraginosi, stupidi, ottusi, limitati”. Un’idea di burocrazia diversa da quella della Costituzione. Concessione - Cittadinanza come concessione significa poi enorme discrezionalità del ministero dell’Interno. “È un atto di alta amministrazione”, spiega, “qualcosa a metà strada tra il provvedimento amministrativo, che deve seguire una legge, e il più libero atto politico”. Un atto demandato ai funzionari e, “se vogliamo, al loro immaginario”, suggerendo una concezione dello stato che Bontempelli definisce “predemocratica e precostituzionale”, e che porta il Viminale, in diversi casi, a negare la cittadinanza per “un mero sospetto”, anche senza condanne né indagini o imputazioni. In Italia, nel dibattito pubblico e politico, la cittadinanza è intesa come “fortino assediato, da presidiare, vigilando che nessuno entri se non persone iperselezionate con procedure ultra discrezionali”, prosegue, sottolineando come le persone con background migratorio siano viste come “immigrate eterne”. Sono considerate permanenza provvisoria, perennemente escluse dalla comunità. “E il rischio”, dice l’esperto, “è che l’approccio discriminatorio venga perpetuato persino quando le persone ottengono la cittadinanza”. Bontempelli individua due orientamenti: la destra ha una concezione familistica e razziale, secondo cui non è italiano chi nasce, cresce, lavora in Italia, ma chi è espressione di quello che Roberto Vannacci, europarlamentare e vicesegretario della Lega, definisce “italianità”; il pensiero più democratico, invece, tende ad affermare che la cittadinanza deve essere data perché in fondo queste persone sono come noi, “come se uno status giuridico dovesse corrispondere a un’omogeneità etnico-linguistica”. Anche quest’ultima lettura non riflette l’idea di cittadinanza sancita dalla Costituzione, secondo cui soggetti diversi per appartenenza politica, convinzioni, idee religiose convivono e costruiscono una casa comune. “Penso che essere cittadini voglia dire partecipare alla vita della propria comunità, non essere tutti uguali”, sottolinea l’esperto. Perciò, il referendum riguarda tutte e tutti, non solo chi ha origini straniere: “Riguarda noi e la nostra idea di popolo”, conclude, “perché c’è una fetta di popolazione che non ha il diritto di rappresentanza, proprio come quando a essere escluse erano le donne”. Trent’anni di Forum Droghe. Non mollare di Stefano Vecchio Il Manifesto, 21 maggio 2025 Abbiamo “festeggiato” i nostri trent’anni a Firenze, segnati dall’impegno a contrastare con tutti i modi possibili la politica ancora dominante della “guerra alla droga” e ai “drogati” con l’impegno rinnovato di rintracciare le linee rosse e complesse della nostra storia per recuperarne gli aspetti più trasgressivi e radicalmente critici per rilanciare l’iniziativa politica e l’elaborazione culturale in quest’epoca contrassegnata da una svolta politica neoautoritaria. Il trentennale, purtroppo, è stato segnato dalla grave perdita di Grazia Zuffa, fondatrice di Forum Droghe. Abbiamo voluto affidare al pensiero eccentrico, innovativo e prorompente di Grazia la funzione di orientamento e stimolo critico alla nostra riflessione e ricerca di nuovi orizzonti per innovare le nostre strategie politiche e culturali. La Conferenza indetta dal governo sulle droghe, ha escluso Forum Droghe e le altre organizzazioni della rete, che pure avevano dato un contributo decisivo alla precedente Conferenza, riproponendo il paradigma penale e patologico e la critica alla Riduzione del Danno senza alcuna giustificazione scientifica. I temi e i campi sui quali Forum Droghe si è impegnata, sono molteplici e tutti con l’obiettivo di coinvolgere quanti più soggetti e persone in una critica attiva e militante alle politiche proibizioniste fondate sulla guerra alla droga che hanno avuto come effetto quello di affidare il controllo dei mercati alle mafie e di riempire le carceri consumatori. Dall’altra parte Forum droghe ha elaborato un discorso critico sulle rappresentazioni sociali dominanti sulle droghe e gli stigmi collegati, rendendo note le ricerche qualitative europee e italiane che hanno messo in discussione l’inconsistenza della teoria ideologica della incontrollabilità delle droghe e “messo in luce” le pratiche individuali e collettive diffuse di autoregolazione dell’uso di droghe all’interno delle strategie di gestione della propria vita. Su questo retroterra Forum Droghe ha coinvolto attiviste/i, intellettuali e giuriste/i per elaborare proposte di legge sulla depenalizzazione e decriminalizzazione delle droghe e sulla legalizzazione della cannabis. La Riduzione del danno, che è un Livello Essenziale di Assistenza dal 2017, è stata ridefinita come un orizzonte politico e culturale ampio e trasversale, che si intreccia con misure di welfare sociale e di comunità per riorientare le politiche pubbliche e dei servizi e delle alternative alle pene. La Riduzione del Danno si configura come una strategia di promozione e affermazione dei diritti umani e civili. Forum Droghe ha sempre sostenuto la soggettività e l’autorganizzazione dei consumatori, contribuendo in modo significativo alla prima carta dei diritti, con lo slogan “niente su di noi senza di noi”. Intrecciate con queste azioni, le Summer School hanno promosso spazi di approfondimento a tutto campo nel dialogo e relazione tra pratiche, migrazioni, generi. Una fucina di iniziative nelle quali si colloca Fuoriluogo, uno spazio largo e partecipato, che offre uno sguardo alternativo e plurale a quello dominante sul mondo delle droghe. In questo quadro abbiamo salutato con soddisfazione e supportato la rete Elide delle città per innovare le politiche sulle droghe. Abbiamo affrontato nella nostra assemblea, seguendo queste piste e tracciando nuovi possibili percorsi. A partire dall’organizzazione della contro-Conferenza sulle droghe, per il 7 e 8 novembre a Roma, che abbiamo deciso di promuovere, insieme a molte realtà della società civile, per rilanciare le nostre proposte radicalmente alternative alla Conferenza governativa. Ci aspettiamo che le forze politiche di opposizione, scendano in campo per condividere questa battaglia di civiltà e di democrazia e di critica radicale a ogni deriva politica autoritaria e repressiva. Migranti. “Meglio il carcere che finire a Shengjin”. Hamid Badoui, suicida a Torino di Rita Rapisardi Il Manifesto, 21 maggio 2025 Era qui da 15 anni, aveva la carta d’identità e la famiglia con documenti regolari. “Ci aveva fatto vedere una pagella di un istituto tecnico di Torino, fiero dei suoi voti, tutti sette e otto. Ma era visibilmente fragile, stremato dalla sua permanenza nel Cpr di Gijader”. È così che Cecilia Strada ricorda Hamid Badoui, quarantenne di origine marocchina morto suicida nella notte tra sabato e domenica nel carcere di Torino, appena tornato dopo una permanenza di oltre un mese nel centro albanese, dove l’europarlamentare lo aveva incontrato. Badoui viveva nel capoluogo piemontese, in Italia da quindici anni, aveva la carta d’identità, una madre con un permesso senza scadenza e una sorella pure con la cittadinanza. La spirale della droga in cui era finito lo aveva portato a fare piccoli furti per permettersi il crack. Da lì un circolo vizioso, tra condanne e soggiorni in carcere, senza nessun piano per combattere la dipendenza. Circa due mesi fa aveva finito di scontare l’ultima pena al Lorusso Cutugno, ma il giorno dopo, siccome i documenti di permanenza erano scaduti, era stato trasferito nel Cpr di Bari, dove è rimasto per tre mesi. Da lì l’Albania, da cui era venuto via dopo che la giudice aveva stabilito l’irregolarità della sua detenzione. Una decisione arrivata “in attesa della definizione di costituzionalità, sollevata negli analoghi giudizi, dalla Corte costituzionale”. Arrivato a Torino venerdì, Badoui è stato arrestato nel quartiere Barriera di Milano: pare fosse andato in escandescenza contro la polizia dopo aver subito un furto. Così è finito di nuovo in manette, mentre il quartiere intero protestava perché non lo portassero via. Meno di ventiquattro ore dopo l’uomo si è impiccato con i lacci delle scarpe. Aveva paura di ritornare in Albania. Al suo avvocato aveva detto: “Meglio il carcere che il Cpr”. La procura ha aperto un’inchiesta. “Aveva paura di non poter accudire la madre malata di cuore e temeva di essere rispedito in Albania senza poterle essere di aiuto - racconta ancora Strada -. Si lamentava, perché almeno in carcere poteva chiamare la famiglia, ma da lì no. Tutte le persone che abbiamo incontrato (la prima volta 39 e durante la seconda visita, 25, ndr) erano molto fragili”. Persone prese e messe nei centri voluti dal governo Meloni: “Delle piccole Guantanamo, senza la possibilità di sentire nessuno, senza sapere il proprio destino, visto che si può restare lì dentro fino a diciotto mesi”, chiosa l’europarlamentare. “Non esiste alcuna gestione delle migrazioni che possa passare sopra la dignità e la salute mentale delle persone - prosegue la deputata del Pd Rachele Scarpa -. Ci troviamo di fronte all’ennesimo fallimento umano e politico. E il fatto che l’eco di questa tragedia sia così flebile nella discussione pubblica la rende ancora più insopportabile. Hamid non è una vittima casuale: è il prodotto di un sistema costruito per schiacciare”. Strada insieme a Scarpa ha presentato alla Corte europea un documento che descrive come questi trasferimenti e le condizioni in cui avvengono sono paragonabili alla tortura: gli stranieri senza documenti vengono prelevati a sorpresa dall’Italia, legati mani e caviglie per venti ore e trasportati in luoghi di cui non sanno niente, non godendo dei diritti basilari. Migranti. Gjader non è Italia. Così la corte d’Appello rinnega la Cassazione di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 maggio 2025 Il tribunale di secondo grado di Roma disattende una sentenza della Corte suprema che equipara i Cpr albanesi a quelli nazionali. Con un decreto dai toni molto duri, e dalle ampie motivazioni, la Corte d’appello di Roma ha disatteso una recente sentenza della Cassazione e non convalidato il trattenimento in Albania di un richiedente asilo del Ghana: l’uomo dovrà tornare in Italia e in libertà. La decisione è di lunedì scorso e fa riferimento alla sentenza con cui l’8 maggio la prima sezione penale degli ermellini aveva accolto il ricorso dell’avvocatura dello Stato contro la liberazione di un richiedente asilo dal centro di Gjader, decisa proprio dai magistrati di secondo grado della capitale. In quell’occasione il massimo tribunale ha affermato il principio di diritto secondo cui il Cpr d’oltre Adriatico va equiparato “a tutti gli effetti” a quelli attivi sul territorio nazionale ed è possibile trattenere nella struttura anche chi chiede asilo dopo il trasferimento dall’Italia. Ma è proprio su questo punto che la Corte d’appello della capitale dissente, ribadendo che il protocollo rende possibile la detenzione dei cittadini stranieri solo in due casi: per le procedure di frontiera, ovvero la richiesta d’asilo accelerata di chi non è mai entrato sul territorio nazionale; per le procedure di rimpatrio, di chi si trova in situazione di irregolarità amministrativa con i documenti. La persona trasferita dall’Italia a Gjader come irregolare che lì fa domanda di protezione internazionale crea un terzo caso giuridico. “Lo status di richiedente asilo - si legge nella decisione - è compatibile con quello di trattenuto ma non con l’allontanamento dal territorio dello Stato, presso il quale ha diritto di attendere la definizione del procedimento”. Così stabilisce la direttiva procedure dell’Ue. Ritorna quindi il tema del territorio italiano, e dunque europeo, che nella conferenza stampa del 27 marzo scorso - in cui il governo presentava il decreto (convertito in legge ieri) che estende la destinazione d’uso dei centri anche agli irregolari - il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aveva provato a liquidare. “Sarebbe un po’ strano che in territorio straniero uno applica la legge italiana, con poliziotti italiani, con giudici italiani. Sarebbe una tesi un po’ singolare”, aveva risposto a una domanda del manifesto. Sicuramente ciò che sta avvenendo oltre Adriatico è sia strano sia singolare, ma altrettanto certo è che quello resta territorio albanese. Tornando in Italia, l’ordinamento non prevede il vincolo del precedente giurisprudenziale. Per cui è anche possibile disattendere una sentenza della Cassazione. Sarebbe diverso se questa venisse dalle Sezioni unite o si trattasse di un orientamento consolidato. In questo caso però, rileva la giudice, la pronuncia è “al momento unica e isolata”. Criticata da molti giuristi potrebbe aver creato qualche dubbio, se non malumore, nella stessa prima sezione penale. Il 14 maggio, infatti, su due casi analoghi un collegio della stessa sezione ma composto da giudici diversi ha rimandato la decisione. Significa che si è preso del tempo per studiare la materia, nuova per quei magistrati visto che fino all’inizio del 2025 era di competenza della Cassazione civile. La doppia sentenza è attesa per il 29 maggio. La Corte d’appello di Roma contesta poi la possibilità del trattenimento fuori dalle esplicite disposizioni della legge, solo perché alcune circostanze non sono “precluse o vietate”. Come quella di chi chiede asilo a Gjader. Del resto vale sempre la riserva di legge rinforzata dell’articolo 13 Costituzione: la restrizione della libertà personale è possibile sono “nei casi e modi previsti dalla legge”. Altro profilo problematico individuato nella sentenza della Cassazione è l’equiparazione del Cpr di Gjader a quelli italiani. “A tacer d’altro”, scrive significativamente la giudice, resta il problema dell’effettività del diritto di difesa, che in Albania risulta compromesso. Verosimilmente il Viminale impugnerà la decisione della Corte d’appello e si tornerà in Cassazione. Nel frattempo tutto lascia credere che le prossime richieste d’asilo dei migranti detenuti oltre Adriatico porteranno a nuovi rientri sul territorio nazionale. Il bug di sistema della nuova fase del protocollo non è stato risolto. Dall’Europa un altro colpo al diritto d’asilo di Marika Ikonomu Il Domani, 21 maggio 2025 L’esecutivo Ue propone un altro tassello del piano che mira a esternalizzare le frontiere e allontanare i richiedenti asilo. Apre alla possibilità di trasferire in Paesi terzi senza legami. La Commissione europea prosegue il suo cammino verso lo svuotamento del diritto di asilo e il sostegno delle politiche sempre più securitarie dei governi. Alla proposta di regolamento sui rimpatri, la lista comune di paesi sicuri, che pare disegnata su misura per legittimare il protocollo Italia-Albania, si aggiunge un ulteriore tassello che “renderà più facile l’applicazione per i paesi membri del concetto di paese sicuro”. Di fatto, in base al progetto della Commissione, gli stati membri possono considerare inammissibile una domanda di asilo se il richiedente ha la possibilità di ricevere protezione internazionale in un paese terzo considerato sicuro. La normativa attuale richiede che ci sia un legame dimostrato, tra la persona e il paese extra Ue. Ora si propone di eliminare questa condizione - “il collegamento non sarà più obbligatorio” - consentendo agli stati membri di trasferire in un paese terzo persone di qualsiasi nazionalità. E in deroga al diritto internazionale dei rifugiati, in base al quale, spiega Amnesty international, “la responsabilità primaria di valutare la richiesta di asilo spetta al paese in cui la persona presenta la domanda”. A questo si aggiunge l’effettiva impossibilità di presentare ricorso. Se nella proposta, che dovrà poi passare al Consiglio e al parlamento, si assicura l’accelerazione delle procedure di asilo senza rinunciare alle garanzie legali per i richiedenti, le organizzazioni della società civile la considerano “un colpo contro le persone che cercano protezione e sostentamento in Europa”, ha commentato Silvia Carta, advocacy officer di Picum. Carta vede un rischio elevato che “le famiglie vengano separate e le persone deportate senza un adeguato controllo giudiziario in luoghi che nemmeno conoscono”. Una politica lontana, denuncia Picum, da quei valori europei della dignità e dei diritti umani. La proposta - I quattro punti della proposta confermano la tendenza, in materia di asilo, a lasciare un margine di manovra sempre più ampio agli stati membri, un ruolo sempre più centrale agli accordi con i paesi extra Ue, procedure sempre più rapide e ricorsi sempre meno garantiti. Con il risultato di tenere lontani dalla fortezza Europa i richiedenti asilo, attraverso intese con stati che hanno risorse e garanzie limitate o, ancor di più, definiti sicuri ma che all’evidenza tali non sono. E, quindi, il solo transito attraverso uno stato, prima di superare il confine dell’Ue, “può essere considerato un collegamento sufficiente per applicare il concetto di paese terzo sicuro”. Ma le maglie si allargano ulteriormente e, se manca il collegamento o il transito, servirà un’intesa con un paese terzo sicuro, a meno che non si tratti di minori non accompagnati. Se tutto ciò non bastasse, nemmeno il ricorso contro la decisione di inammissibilità salverebbe la persona migrante dal trasferimento forzato, perché l’esecutivo Ue propone di eliminare l’”effetto sospensivo automatico”. “Non è il Ruanda” - Non si tratta del piano Ruanda, ci ha tenuto a precisare il portavoce della Commissione per gli Affari interni Markus Lammert, perché diversa è “la soglia oltre la quale i paesi possono essere considerati sicuri” e la garanzia di un’effettiva protezione sarebbe superiore. Piuttosto, ha detto, si potrebbe paragonare alla “dichiarazione Ue-Turchia” sui richiedenti asilo siriani, che la Grecia può rimpatriare in Turchia. Non sembra nemmeno ispirarsi al “modello” Albania, i cui centri sono in uno stato extra Ue ma rimangono sotto la giurisdizione italiana. Mentre la Commissione presentava un altro tassello del sistema immaginato con il nuovo patto, il governo italiano al Senato chiedeva di nuovo la fiducia sul decreto Albania - approvato alla Camera - con cui ha reso Cpr i centri per richiedenti asilo. Dietro il racconto dell’istituzione, c’è il tentativo di esternalizzare sempre di più le frontiere e, con loro, le responsabilità dell’Ue e dei suoi stati membri. “Invece di spendere tempo e risorse infinite per scaricare le proprie responsabilità su altri paesi, l’Ue dovrebbe investire nei propri sistemi di asilo e lasciare che le persone che chiedono protezione inizino a ricostruirsi una vita”, ha segnalato Olivia Sundberg Diez, portavoce di Amnesty international per l’immigrazione e l’asilo nell’Ue. La decisione di “inviare persone in paesi con cui non hanno alcun legame” o prospettiva, ha proseguito la portavoce, “non è solo caotico e arbitrario, ma anche devastante a livello umano”. I diritti tanto assicurati a parole dal commissario, per Amnesty, continuano a essere indeboliti, ma a essere rafforzato è “il rischio di respingimento e di detenzione arbitraria diffusa nei paesi terzi”. C’è la svolta sui Paesi sicuri: l’Ue apre ad accordi sul modello Ruanda di Marco Bresolin La Stampa, 21 maggio 2025 Le nuove regole permetterebbero di trasferire i richiedenti asilo anche dove non hanno “legami”. In Italia arriva il via libera al decreto Albania. L’Unione europea compie un altro passo in direzione della totale esternalizzazione della gestione dei flussi migratori. Dopo aver spianato la strada alla possibilità di creare centri per i rimpatri in Paesi terzi, in cui deportare i migranti che non hanno diritto all’asilo, la Commissione ha ora proposto di rivedere il concetto di “Paese terzo sicuro” per consentire di trasferire lì anche i migranti che hanno effettivamente i requisiti per ottenere la protezione internazionale. Una svolta che va persino oltre il primo “modello Albania”, quello che prevedeva di usare i centri nel Paese balcanico per effettuare l’esame delle domande: con il nuovo sistema, i migranti resteranno infatti nello Stato terzo in maniera definitiva. Intanto l’Italia rinnova in Senato la fiducia al decreto Albania, l’ispiratore di tante strette europee, che ora è legge. Da Palazzo Berlaymont si sono subito affrettati a precisare che “non si tratta dell’applicazione del modello Ruanda” e che il modello “è più simile a quello utilizzato con i siriani in Turchia”. Ma in realtà la ratio del nuovo schema è molto simile a quello ideato dal Regno Unito (e poi respinto dalla Corte Suprema britannica) perché permetterà agli Stati membri di mandare i richiedenti asilo verso Paesi terzi con i quali non hanno alcun tipo di legame. La Commissione, su spinta dei governi, ha deciso di andare avanti con questa proposta nonostante le “forte preoccupazioni” sollevate dall’Unhcr durante la fase di consultazione, come emerge dal documento di lavoro allegato al provvedimento. Dure critiche sono arrivate anche da Amnesty International e dalle altre associazioni che difendono i diritti dei migranti, mentre il governo italiano ha espresso la sua soddisfazione: “Queste proposte - ha detto il ministro per gli Affari Ue, Tommaso Foti - confermano la validità e l’efficacia dell’approccio adottato dal governo Meloni”. Ora spetterà al Consiglio e all’Europarlamento approvare la proposta che va a emendare il regolamento sulle procedure per l’asilo introdotto dal nuovo Patto sulla migrazione. La riforma di Dublino aveva già introdotto la possibilità di trasferire in un Paese terzo - se considerato sicuro - i richiedenti asilo, ma soltanto in presenza di un “legame” con questo Paese, rimandando poi a un successivo provvedimento la definizione del legame. Ora la Commissione propone di annacquare drasticamente questo concetto, fino a farlo sparire del tutto. Gli Stati saranno infatti liberi di definire a livello nazionale i criteri per stabilire il legame, potranno basarsi sul semplice “transito” nel Paese, ma addirittura potranno ignorare totalmente la necessità di stabilire una “connessione” tra il migrante e lo Stato terzo. Se le prime due ipotesi aprivano alla possibilità di trasferire i richiedenti asilo provenienti dall’Africa subsahariana nei Paesi nei quali erano transitati, come ad esempio la Tunisia, la terza apre alla possibilità - in linea teorica - di mandare un richiedente asilo siriano in uno Stato totalmente estraneo alla sua rotta migratoria, per esempio il Ruanda, l’Uganda o qualsiasi altro Paese che verrà identificato. In questo caso, sono necessari tre requisiti: il Paese terzo deve ovviamente essere d’accordo, deve aver stipulato un accordo con lo Stato membro dell’Ue che si trova a esaminare la domanda e deve essere considerato appunto “sicuro”. E chi decide se un Paese è sicuro? I singoli Stati membri sono liberi di farlo (l’Italia al momento è uno dei tre Paesi Ue che ancora non hanno introdotto il concetto nel loro ordinamento). Nell’elenco potranno essere inseriti anche i Paesi che non hanno firmato la Convenzione di Ginevra, ma a patto che garantiscano “una protezione contro il respingimento, non ci siano rischi reali di danni gravi e di minacce alla vita e alla libertà a causa della razza, della nazionalità, dell’appartenenza a un gruppo sociale o delle opinioni politiche, nonché la possibilità di ricevere una protezione effettiva”. Con tutti questi Paesi, gli Stati Ue potranno siglare accordi per far sì che siano loro a occuparsi della protezione dei richiedenti asilo. Nel farlo, dovranno soltanto informare preventivamente la Commissione e gli altri Stati membri. Ma non sarà necessaria alcuna “autorizzazione” da parte di Bruxelles. Soltanto i minori non accompagnati saranno esclusi dalle deportazioni verso i Paesi con i quali non ci sono legami. La decisione sul trasferimento dovrà avvenire nel giro di due mesi al termine di una valutazione individuale, dopodiché il richiedente potrà presentare ricorso, ma questo non avrà un effetto sospensivo automatico. Il che vuol dire che il trasferimento andrà avanti. Francia. A Calais il sogno dei migranti può diventare un incubo di Francesca Ghirardelli Avvenire, 21 maggio 2025 C’è chi prova per l’ennesima volta ad attraversare la Manica, chi teme i poliziotti e chi si prepara a una nuova odissea dopo il deserto e Lampedusa. Abbiamo raccolto le loro voci sul campo. Correre veloci sulla spiaggia non è facile, soprattutto quando si è al sesto mese di gravidanza, o si ha un figlio piccolo in braccio, o una gamba rotta immobilizzata da un tutore. “Stavamo correndo, appena usciti dal nascondiglio fra la vegetazione. Alcuni aiutavano a trasportare i bambini e gli anziani. La barca è arrivata all’improvviso, poi l’unica cosa che abbiamo visto è stato il gas lacrimogeno che cadeva. Abbiamo cercato di coprirci, ma l’abbiamo respirato”, racconta Immanuel, etiope di 25 anni, descrivendo ciò che gli è accaduto il giorno in cui lo abbiamo incontrato. Con una cinquantina di persone, alle 7 del mattino del 1° maggio, ha tentato di attraversare la Manica, partendo dalla costa francese di Boulogne-sur-Mer, a sud di Calais, per entrare nel Regno Unito e chiedere asilo. “Venti secondi e saremmo saliti sul gommone, ma dal nulla sono arrivati i poliziotti. È stata una pioggia di lacrimogeni, anche sui bambini. Bruciavano gli occhi, la gola, tutto. La polizia francese li usa sempre”. Sono già oltre dodicimila le persone arrivate via mare sulle coste britanniche da inizio anno (600 solo il 12 maggio), in aumento del 40% rispetto gli stessi mesi del 2024. Tra gennaio e aprile si sono registrati più arrivi che nello stesso periodo di qualsiasi altro anno da quando si tiene il conto, cioè dal 2018. Anche i morti sono aumentati. Il 2024 ha visto il numero più alto di decessi, almeno 82, secondo l’Oim. Dalla Libia a Calais: un’odissea senza fine - Dopo essere sopravvissuti a Sahara, Libia, Tunisia, Mediterraneo e rotta balcanica, rischiare di nuovo la vita quando si è già in Europa sembra incomprensibile. Per Immanuel è stato l’ottavo tentativo. Senza contare quello via terra in cui è montato sopra un camion diretto in Gran Bretagna. È così che si è rotto la gamba, perché la polizia lo ha tirato giù. Dopo la Libia, il ragazzo era riuscito a entrare in Belgio dove ha chiesto asilo. “Ma la mia domanda è stata respinta. Ovunque nell’Ue per me sarebbe lo stesso, il sistema è unico - spiega -. Così vado nel Regno Unito. Questo è il motivo per cui tanti ci provano”. C’è chi attraversa per raggiungere parenti già di là, sapendo di ricongiungimenti familiari legali difficili da ottenere. E c’è chi crede a un Eldorado britannico. Ma numerosi sono quelli alla ricerca di una seconda possibilità, fuori dal circuito di Dublino e dell’Unione europea, per ripartire da zero con l’asilo. Ce lo ripetono in molti che hanno vissuto in Germania per anni, senza ottenere i documenti. Ora ci riprovano oltremanica, in un cortocircuito che è effetto collaterale della Brexit. Nella boscaglia lungo Rue des Fontinettes c’è una delle jungle di Calais. Vi si accampano eritrei ed etiopi, fra tende sfondate, file di scarpe ad asciugare, pentole appoggiate vicino a cumuli di spazzatura. Chi vive qui parla dei topi che di notte girano in cerca di cibo, scarso anche per gli umani. Quando entriamo, l’accampamento è in agitazione, il container dell’acqua è vuoto. Davanti alla sua tenda c’è Lulya, eritrea di 18 anni, quasi svenuta in mare per i gas lacrimogeni nel penultimo tentativo di attraversare. È stata in Libia, poi in Italia e in Germania ha chiesto asilo. “Che però, è stato respinto”. L’11 maggio ha provato di nuovo a imbarcarsi, ma non ha corso abbastanza veloce verso il gommone. Lo stesso giorno si è contata un’altra vittima in mare. Nella boscaglia vive anche Jerusalem, di Asmara. È incinta e nella tenda con lei c’è un bambino. Con il marito Samuel (che ci mostra i segni dei proiettili che lo hanno colpito in Libia) ha ugualmente avuto il diniego dell’asilo in Germania. Speranze appese al vento, tra app e trafficanti - Sono trenta i chilometri nel punto più breve, dalle coste francesi a quelle britanniche. Ma la rigida sorveglianza delle autorità ha spinto su rotte più lunghe e meno sicure. Nel 2023, il governo britannico ha promesso alla Francia 500 milioni di sterline in tre anni per finanziare videosorveglianza, droni e tecnologia per la visione notturna. Non è servito a molto. Ora, presentando nuovi piani di inasprimento delle regole per i visti, il premier laburista Keir Starmer il 12 maggio ha dichiarato di volere “riprendere il controllo” dei confini, visto il rischio di “diventare un’isola di stranieri”. Nella Manica di norma le autorità francesi, di fronte a un’imbarcazione già in acqua, non intervengono. Seguono a distanza e se c’è avaria, riportano tutti in Francia. Attraversare costa dai 1.400 ai 2.000 euro. Le jungle e gli squat, malsani e senza servizi igienici, sono soggetti a sgomberi frequenti, tende e sacchi a pelo requisiti. I sudanesi occupano quello che viene chiamato l’hangar Orange. Lungo il canale al quai de la Gironde troviamo, invece, ragazzi e famiglie da Kuwait, Iraq, Siria. Si riposano fra grosse pietre, collocate dalla municipalità per impedire di piantarci le tende. Lì c’è il signor Rashid, kuwaitiano di 57 anni, che vuole raggiungere i fratelli in Inghilterra. Wissam, invece, viene da Gaza: “La Germania chiude agli stranieri - spiega -. Niente documenti”. È di Aleppo Mohammed, che ha vissuto in Turchia e che in Siria non vuole tornare, perché per lui il nuovo presidente Al-Joulani “è Daesh”. Un gruppo è appena rientrato da un tentativo fallito, chiede cibo, un ragazzo sembra sul punto di svenire. La distribuzione di alimenti, opera di una Ong, però è già terminata. La rete di solidarietà c’è, ma l’assenza delle istituzioni lascia vuoti troppo grandi. Trentacinque chilometri più a nord, a Dunkerque, in un’area boschiva attorno a uno spiazzo dove si concentrano gli aiuti umanitari, sono disseminate centinaia di tende. Il giovane D., etiope, ha tentato la traversata sei volte. “Non so niente di Calais, l’agente (cioè il trafficante, ndr) mi ha portato qui” dice. Intanto, molti tengono d’occhio un’app chiamata Windy. Fornisce dati su direzione del vento, pioggia e altezza delle onde. Creata per chi fa windsurf, è usata anche da chi si mette in mare sui gommoni stracarichi. Così, online, chi aspetta di imbarcarsi cerca di prevedere quando la telefonata del trafficante arriverà per annunciare il prossimo tentativo. Stati Uniti. È un think tank libertario a smontare le bugie trumpiane sugli immigrati illegali di Luciano Capone Il Foglio, 21 maggio 2025 Dover spiegare a una esponente del governo che l’habeas corpus non è il diritto del presidente degli Stati Uniti di disporre della libertà delle persone ma, al contrario, il diritto delle persone a non essere private arbitrariamente della propria libertà senza una ragione convalidata da un tribunale, avrebbe fatto molto sorridere. Ma in quest’epoca è un po’ inquietante, soprattutto se a rispondere è la segretaria alla Sicurezza nazionale. A essere preoccupati per la violazione dei diritti civili da parte del governo americano non sono soltanto i liberal, come la senatrice democratica del New Hampshire, ma anche pezzi di mondo vicini al Partito repubblicano. Anche perché ormai è chiaro che le espulsioni illegali non sono casi singoli, come quello celebre di Abrego Garcia, ingiustamente spedito in una prigione in El Salvador e goffamente accusato, anche attraverso immagini di tatuaggi ritoccate con photoshop, di essere membro di una gang criminale. Il Cato Institute, per esempio, ha pubblicato un dossier che dimostra come oltre 50 venezuelani attualmente detenuti in El Salvador fossero entrati legalmente negli Stati Uniti, senza aver mai violato alcuna legge sull’immigrazione. L’aspetto interessante è che il Cato Institute è un think tank libertario, fondato dal miliardario Charles Koch, considerato una sorta di George Soros di destra, un pensatoio indipendente sensibile alle tematiche del libero mercato e delle libertà civili, storicamente vicino all’ala liberal-libertaria del Gop. E per giunta la diaspora venezuelana, frutto dell’esodo di massa dal regime socialista di Nicolás Maduro, è vicina alle posizioni intransigenti del Partito repubblicano rispetto alla dittatura in Venezuela. E invece anche loro, migranti politici, vengono trattati come criminali: arrestati ed espulsi. Dopo che il governo americano aveva deportato, a metà marzo, nelle prigioni salvadoregne circa 240 venezuelani, la Cbs ne aveva pubblicato i nomi e scoperto che il 75 per cento di loro non aveva precedenti penali né negli Stati Uniti né all’estero. Meno attenzione è stata prestata al fatto che decine di questi uomini non abbiano mai violato le leggi sull’immigrazione. Secondo il governo americano sono tutti “immigrati clandestini”, ma la ricerca effettuata dal Cato Institute mostra che dei 90 casi di cui è noto il metodo di attraversamento del confine, 50 uomini sono entrati legalmente negli Stati Uniti, con un’autorizzazione preventiva del governo. Non si tratta di una cosa inusuale, perché circa la metà dei venezuelani immigrati negli ultimi due anni negli Stati Uniti è entrata con un visto o come rifugiato politico. Il Cato è riuscito a ricostruire i profili e le vite di buona parte di queste persone ora imprigionate nelle carceri di Nayib Bukele, il presidente salvadoregno alleato di Trump. “Erano operai, muratori, installatori di tubature, cuochi, fattorini, un allenatore di calcio, un truccatore, un meccanico, un veterinario, un musicista e un imprenditore. La maggior parte di coloro che sono stati rilasciati ha trovato rapidamente lavoro negli Stati Uniti. La maggior parte degli uomini sono padri. In totale, cercavano di mantenere 44 figli”. Sono stati espulsi senza prove e senza un giusto processo. Le autorità statunitensi sostengono che siano dei “terroristi” membri del Tren de Aragua, una pericolosa gang criminale venezuelana, e le prove dell’affiliazione sarebbero i tatuaggi. Ma le evidenze mostrano tutt’altro: un ragazzo ha un tatuaggio di carte da gioco che copre una cicatrice a seguito di un incidente quando era bambino, un altro è un truccatore omosessuale che ha tatuate sui polsi due corone con scritto sopra “mamma” e “papà”; un altro ragazzo ha il tatuaggio del simbolo del Real Madrid, la sua squadra di calcio preferita. “Queste persone sono arrivate con un’autorizzazione del governo statunitense, sono state sottoposte a controlli e screening prima dell’arrivo, non hanno violato alcuna legge sull’immigrazione e il governo statunitense le ha fatte sparire senza un regolare processo, trasferendole in una prigione straniera. E sta pagando il governo salvadoregno per continuare a tenerle in carcere”, scrive il Cato Institute. Formalmente c’è ancora, ma forse negli Stati Uniti di Trump l’habeas corpus è già sospeso. Guyana. La Francia costruirà una prigione in mezzo alla foresta amazzonica ilpost.it, 21 maggio 2025 Nella Guyana francese, dove un tempo c’era il famigerato carcere dell’isola del Diavolo. Il ministro della Giustizia francese Gérald Darmanin ha annunciato un piano per costruire una grande prigione di massima sicurezza in mezzo alla foresta pluviale della Guyana francese. Il piano, di cui non sono ancora chiari tutti i dettagli, è stato contestato da molti, secondo cui rischierebbe di far tornare la Guyana francese ai tempi in cui era una colonia penale della Francia. La Guyana francese è a tutti gli effetti una regione della Francia, ma si trova in Sudamerica, a più di 7mila chilometri da Parigi, e quasi tutto il suo territorio è coperto dalla foresta amazzonica. È anche una regione molto povera, abitata da poco meno di 300mila persone, e da cui passa moltissima cocaina, in transito dai laboratori di altri paesi sudamericani verso il resto della Francia. La prigione sarà creata nella zona di Saint-Laurent-du-Maroni, vicino al fiume che segna il confine occidentale del territorio con il Suriname. Secondo il progetto presentato da Darmanin avrà 500 posti, di cui 60 con un regime carcerario ancora più severo, per le persone condannate per aver avuto ruoli importanti nel narcotraffico, e altri 15 per quelle condannate per crimini connessi al terrorismo jihadista. La prigione dovrebbe aprire nel 2028 e la sua costruzione dovrebbe costare 400 milioni di euro. Fa parte di un progetto più ampio, che prevede anche alcune modifiche a due prigioni sul territorio europeo della Francia per aumentare il loro grado di sicurezza e la creazione di una procura speciale per la persecuzione della criminalità organizzata. È stato voluto da Darmanin, che prima di diventare ministro della Giustizia a fine 2024 è stato per quattro anni ministro dell’Interno e ha sempre sostenuto un approccio duro al contrasto della criminalità. Inviare in una foresta pluviale estremamente isolata i criminali dovrebbe rendere loro impossibile comunicare con i propri collaboratori per continuare a gestire il traffico di droghe illegali, secondo il piano di Darmanin. In Francia questo è un grosso problema: si stima che ci siano migliaia di telefoni che circolano illecitamente nelle prigioni, e le autorità finora non sono riuscite a contrastarne il traffico. Inoltre nell’ultimo anno ci sono stati diversi attacchi contro il sistema carcerario francese: quello più notevole avvenne nel maggio del 2024, quando un importante narcotrafficante venne liberato da un furgone penitenziario durante un trasferimento, e rimase latitante per nove mesi. Più recentemente, nell’arco di alcuni giorni lo scorso aprile, erano stati incendiati diversi veicoli parcheggiati fuori da alcune prigioni francesi. I responsabili non sono stati identificati, ma il governo ha detto di ritenere che siano legati alla criminalità organizzata e al narcotraffico. L’idea di creare una grande prigione in Guyana non è nuova: fra la metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento il territorio fu in pratica una grande colonia penale della Francia. Il carcere più famoso fu quello dell’isola del Diavolo, dove vennero detenuti fra gli altri anche Alfred Dreyfus, un ufficiale militare ebreo al centro di un caso estremamente discusso in Francia a fine Ottocento, e Henri Charrière, che raccontò in maniera romanzata la sua detenzione e la sua evasione nel libro Papillon, il soprannome con cui era conosciuto, adattato nel 1973 in un famoso film con Steve McQueen e Dustin Hoffman. L’isola del Diavolo era solo una delle molte carceri presenti in Guyana, dove furono spedite molte decine di migliaia di condannati, ed era in realtà un carcere piuttosto piccolo, ma è di gran lunga il più famoso, sia per la storia di Charrière sia per il suo nome evocativo. In effetti le condizioni sull’isola del Diavolo e nelle altre colonie penali erano tremende: la mortalità era altissima per via dei lavori forzati, dei maltrattamenti delle guardie e della violenza fra detenuti, ma soprattutto per le malattie tropicali. I condannati smisero di essere deportati in Guyana francese nel 1938, ma la Seconda guerra mondiale rallentò le procedure di dismissione del sistema carcerario della colonia penale. Le ultime prigioni furono chiuse all’inizio degli anni Cinquanta. Anche adesso le condizioni carcerarie in Guyana non sono buone: c’è un solo carcere, quello di Rémire-Montjoly vicino alla capitale Cayenne, ma è gravemente sovraffollato e gli episodi di violenza al suo interno sono frequenti. La costruzione del nuovo carcere dovrebbe anche servire ad alleviare il sovraffollamento della prigione esistente: il piano di Darmanin però è stato criticato perché prevede l’invio nel territorio di persone condannate per crimini commessi nel resto della Francia. Saint-Laurent-du-Maroni, la città vicino a cui sarà costruita la prigione, è uno snodo molto importante nel traffico di droghe illegali. Attraverso il fiume che la divide dal Suriname arriva in città la droga prodotta nel paese vicino, che poi viene portata in Europa nelle valigie o nello stomaco dei corrieri, persone che hanno un compito estremamente rischioso, in molti casi provenienti dal Brasile. Alcuni rappresentanti locali hanno detto che il piano rischia di causare un ritorno ai tempi della colonia penale. In Guyana francese la criminalità è molto più alta che nel resto del paese: fra gli altri dati, quello degli omicidi in relazione alla popolazione è 13 volte più alto rispetto alla parte europea. Anche il fatto che un investimento statale tanto grande in un territorio con forti difficoltà sociali ed economiche riguardi una prigione è stato criticato. In realtà il punto dei trasferimenti di persone arrestate e condannate nel resto della Francia non è chiaro. Quanto scritto dal settimanale francese Le Journal du Dimanche, che sabato ha ottenuto in esclusiva la notizia della costruzione della prigione, lasciava intendere che i trasferimenti fossero possibili, così come la presenza dei posti destinati a persone condannate per crimini connessi al jihadismo (in Guyana la radicalizzazione islamica è pressoché assente, a differenza che nel resto della Francia). Lunedì però Darmanin ha negato questa possibilità, dicendo che i detenuti saranno solo persone arrestate in Guyana e nei Caraibi francesi, anche se provenienti da altri paesi.