Magistrati da remoto? Giustizia sempre più lontana dal cittadino di Sara Occhipinti altalex.com, 20 maggio 2025 La proposta del Governo va in senso totalmente contrario alle intenzioni più volte ribadite. La proposta di istituire una task force di 500 giudici che operano da remoto, per accelerare il conseguimento degli obiettivi del Pnrr, va in senso totalmente contrario alle intenzioni più volte ribadite dal Governo di voler riportare la Giustizia vicino ai cittadini, combattendo i pericoli derivanti dall’introduzione di udienze da remoto, cartolarizzazione, allontanamento dei Tribunali dal territorio. Alla ricerca di soluzioni eccezionali per cercare di portare a termine la riduzione del 40% dell’arretrato delle cause civili previsto dal Pnrr, il Ministero di via Arenula lancia la proposta di una task force di 500 magistrati che opereranno da remoto, per un costo stanziato di 20 milioni di Euro. Il contingente di togati svolgerà udienze in forma cartolare o in video-collegamento, potrà essere costituito anche da magistrati con formazione penale purché abbiano esperienza in campo civile, e deciderà controversie che non ha istruito. La soluzione, criticata dall’avvocatura attraverso il comunicato stampa dell’Unione delle Camere civili, come l’ennesima soluzione tampone incapace di affrontare le cause del malfunzionamento della Giustizia, mette a repentaglio il principio del “giudice naturale”, un cardine dell’ordinamento che sembra però sempre più accantonato dall’avvicendarsi di riforme e interventi che allontanano sempre più il cittadino dal Giudice. Il diritto al giudice naturale, contenuto nella Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo e nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, è contemplato nel nostro ordinamento all’art. 25 comma 1 della Costituzione. “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”, recita la Carta e sull’interpretazione di questa norma, si scontrano da tempo due visioni opposte: la prima più garantista che identifica il giudice naturale con la persona fisica del singolo magistrato, la seconda avallata dalla giurisprudenza per far fronte ai problemi di carenza di organico, che individua il giudice naturale nell’ufficio e non nella persona del magistrato. La recente proposta di via Arenula si allontana anche dalla seconda interpretazione meno garantista consentendo la decisione della causa a un magistrato individuato in modo precario solo ai fini dello smaltimento dell’arretrato. “L’accelerazione della Giustizia”, scrivono le Camere civili, “non può fondarsi su soluzioni temporanee, ma deve poggiare su riforme strutturali e su una visione di lungo periodo”. In questo senso i civilisti invocano interventi da parte del legislatore che favoriscano l’assegnazione di risorse economiche proporzionate alle esigenze (l’ultima legge di bilancio prevede tagli progressivi nel settore, dove la spesa corrente rappresenta già solamente lo 0,80% della spesa pubblica complessiva). I civilisti invocano poi un intervento prioritario nelle sedi giudiziarie con maggiori arretrati e nelle materie più critiche, chiedono di mettere mano in modo organico al sistema di reclutamento e formazione dei magistrati e del personale amministrativo e di razionalizzare il contenzioso valorizzando riti alternativi e deflativi. Anche la magistratura sembra contraria a misure tampone come quelle proposte dal Ministero. Nel corso della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario del Consiglio Nazionale Forense, il Vice Presidente del Consiglio Superiore della magistratura, Fabio Pinelli aveva acceso i riflettori sulla riforma della geografia giudiziaria (Geografia giudiziaria: revisione urgente per mitigare gli effetti della digitalizzazione), auspicando un ritorno alla prossimità territoriale del servizio Giustizia anche come contrappeso alla crescita della digitalizzazione, all’aumento delle udienze da remoto e all’impatto dell’IA nel settore. Il garantismo resiliente di Forza Italia: “Emendamenti ritirati, per ora...” di Valentina Stella Il Dubbio, 20 maggio 2025 Costa e Calderone puntavano a escludere che si potesse infliggere il carcere preventivo agli incensurati solo sulla base del rischio di fuga: “Ci riproviamo alla prima occasione”. Forza Italia non molla. Nonostante il governo abbia chiesto ai deputati Enrico Costa e Tommaso Calderone di ritirare, come al resto di tutta la maggioranza (Lega, Fratelli d’Italia, Noi Moderati), i loro emendamenti alla legge di conversione del dl sicurezza i due annunciano che non metteranno le questioni nel cassetto. Le modifiche al decreto legge proposte dagli azzurri puntavano tutte a inserire elementi garantisti nei codici di rito. Tra queste: escludere la custodia cautelare per gli incensurati qualora l’esigenza cautelare avesse riguardato esclusivamente il pericolo di reiterazione di reato; eliminare la “colpa grave” dalle ragioni che impediscono di ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione; in materia di misure di prevenzione estendere da 10 a 30 giorni il termine per il ricorso in Cassazione; impossibilità di dichiarare un ricorso inammissibile dalla Cassazione se è maturata una causa estintiva del reato tra il secondo e terzo grado di giudizio; così come per chi è stato sottoposto ad una ingiusta detenzione, prevedere anche per colui che ha subìto una misura di prevenzione personale un’equa riparazione. Abbiamo chiesto a Enrico Costa se abbia vissuto in maniera indolore questa ennesima richiesta dell’Esecutivo rispetto a suoi slanci in avanti sul piano delle tutele: “Indolore sicuro no. Avevamo lavorato molto su questi emendamenti che da un lato non intaccavano affatto l’impianto complessivo della norma ma dall’altro lato la completavano in senso garantista. Diciamo che ci ho fatto l’abitudine ma comunque non rinuncio, in quanto intanto presenterò degli ordini del giorno”. Ha aggiunto Tommaso Calderone: “Ci hanno chiesto di ritirare gli emendamenti per velocizzare un decreto che si occupa di sicurezza e che quindi va convertito velocemente nell’interesse dei cittadini. È ovvio che alla prima occasione utile riproporremo gli emendamenti ritirati che riguardano materie e argomenti su cui non intendiamo indietreggiare in alcuna maniera. Prima fra tutte la riforma della custodia cautelare”. Ricordiamo che proprio Calderone è il primo firmatario di una proposta di legge che punta a modificare l’articolo 299 del codice di procedura penale, intervenendo nella parte che prevede, tra le esigenze, il rischio di reiterazione del reato, escludendo però i reati di maggiore allarme sociale, come mafia e terrorismo e quelli a sfondo sessuale. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio aveva detto, rispondendo a una interrogazione, che su tale previsione ci sta lavorando la commissione ministeriale Mura. Ma diversi elementi lasciano immaginare che via Arenula non potrà presentare le proprie proposte a breve. Comunque nella riunione di maggioranza della scorsa settimana per gli azzurri era presente il vicepresidente della Commissione Giustizia Pietro Pittalis, che ci ha spiegato: “Il governo ha assicurato di voler dare parere favorevole agli ordini del giorno presentati sulle stesse questioni oggetto degli emendamenti da noi ritirati” per economia parlamentare. Intanto ieri è proseguito nelle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia il voto sui 500 emendamenti delle opposizioni su cui il governo ha espresso parere negativo. Dunque il testo arriverà blindato la prossima settimana nell’aula di Montecitorio, dov’è atteso lunedì 26 maggio per la discussione generale. Dovrà poi passare al Senato ed essere convertito entro il 10 giugno. Tra le prime proposte di modifica bocciate quella di Avs, a firma di Devis Dori e Filiberto Zaratti, secondo cui il saluto romano dovrebbe essere considerato a tutti gli effetti come “espressione del partito fascista vietato dalla Costituzione”. I due deputati hanno annunciato: “Ripresenteremo in Aula la nostra proposta per ricordare a questa destra che la nostra è una Repubblica antifascista nata dalla Resistenza”. “Cancelleranno gli assistenti dei giudici, violato patto Ue per il Pnrr”. Scontro Area e Governo di Conchita Sannino La Repubblica, 20 maggio 2025 Scomparirà l’esercito di oltre 8.500 nuove figure introdotte dall’Ufficio per il processo (Upp) con le funzioni previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. In Cassazione la battaglia della corrente progressista dei magistrati. Allo scadere delle misure previste dal Pnrr, scomparirà infatti l’esercito di oltre 8500 nuove figure, gli “assistenti” dei giudici introdotti dall’Ufficio per il processo (Upp), con le funzioni previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Così, denuncia il gruppo delle toghe di Area, si rischia il più drastico scivolamento all’indietro: “Assisteremo a una regressione in termini di quantità e qualità di risposte alle attese dei cittadini: bisogna invece prevedere il consolidamento e non lo sfaldamento dei risultati raggiunti”. Approda in Cassazione, oggi, la battaglia della corrente progressista dei magistrati: che hanno invitato anche governo e opposizioni, cioè il viceministro Sisto e la deputata Serracchiani, responsabile giustizia per il Pd, a confrontarsi sul tema caldissimo della fine dei contratti a tempo determinato dell’Upp, esattamente tra dodici mesi. Quell’iniezione vitale di laureati e funzionari, più o meno giovani, che hanno risollevato le sorti di cause e sentenze gravate da decenni di arretrati sarà stata dunque solo una parentesi? È quello che denunciano i vertici di Area-Dg, segretario Giovanni Zaccaro, che nel pomeriggio, presenti anche la prima presidente Margherita Cassano e il Procuratore generale Pietro Gaeta, aprono i lavori di “Ufficio per il processo, non una persona di meno”: discussione che non a caso si svolge in quegli uffici, perché, al di là dell’autorevolezza e della simbologia della Suprema corte, “proprio in Cassazione gli addetti all’Ufficio per il processo - spiegano ai vertici di Area - hanno mostrato di poter imprimere una svolta, anche inaspettata”. A chiudere i lavori sarà la presidente di Area, Egle Pilla, che sottolinea con Repubblica: “Spesso si dimentica che nel documento ufficiale del Pnrr, firmato dal governo italiano a giugno 2021, cioè da Draghi e von der Leyen, si legge che le nuove professionalità del Pnrr sono richieste e concesse per rendere stabile la misura dell’Ufficio per il processo, che è valutata fondamentale per l’innovazione della giurisdizione italiana. E lì si chiedevano due cose: che si prospettasse il consolidamento dell’Ufficio per il processo con i soldi di bilancio; e che i giovani assunti a tempo determinato nel Pnrr restassero al lavoro proprio all’interno dell’Upp”. I dati, che saranno minuziosamente documentati, raccontano che l’ingresso degli assistenti ha consentito a livello nazionale “in soli 3 anni e mezzo risultati che non solo non si erano mai visti da quando abbiamo statistiche ufficiali (dal 2003), ma neanche in epoca precedente, se solo si guardano le aperture dell’anno giudiziario in Cassazione dove si lamentava la crescita costante di pendenza ed arretrato specie nel settore civile”. E quindi, nella primavera 2026, la finde dell’incantesimo riporterà indietro le lancette di anni? Di nuovo tempi lunghi: termini di prescrizione che scadranno, ritardi su giustizia civile, materia economica e sociale, e ridottissima capacità di affrontare l’enorme numero di impugnative dei dinieghi di protezione internazionale. Né può bastare la richiesta di “realismo” invocata giorni fa dal viceministro Sisto: “Mi rendo conto che gli assistenti per il processo sono diventati indispensabili: chi nega che vi siano necessità di un aiuto importante. Ma ora ci vuole la capacità di comprendersi: noi non siamo nelle condizioni di dire che tutti gli Upp saranno stabilizzati, dobbiamo essere franchi. Ne stabilizzeremo 2.600”. Ma qual è l’obiezione? Che quegli assistenti, in numero “del tutto insufficiente”, andranno solo “a fare attività amministrativa, vanno a coprire i buchi delle cancellerie: quindi smetteranno di preparare i processi, o di assistere le funzioni della giurisdizione”. Come spiega anche il giudice Luca Minniti (presidente di sezione Immigrazione a Bologna): “Il dato è che più del 70 per cento di questi assistenti tornano a casa nel 2026, nonostante i risultati straordinari raggiunti: ma l’Unione europea ha finanziato la misura a termine perché il governo la rendesse permanente. Si dice che non ci sono le risorse finanziarie per farlo. Ma il governo deve trovarle, lo impone il Pnrr. Potrebbe ad esempio usare i finanziamenti annuali dell’operazione Albania, che da 30.000 persone all’anno previste, oggi invece serve a traslocare poche decine di migranti che avrebbero potuto rimanere, per il tempo necessario al rimpatrio, nei Cpr in Italia”. Il confronto con Nordio: necessario un nuovo umanesimo giuridico di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2025 Fare i conti con un’innovazione che è già cronaca e investe in maniera dirompente il mondo delle libere professioni. Si è aperta ieri mattina, anche con l’intervento del ministro della Giustizia Carlo Nordio, la “Talk to the future week”, appuntamento ormai tradizionale dedicato dall’Ordine degli avvocati di Milano ai temi più caldi della modernizzazione della professione. Epicentro del confronto, che si articolerà per tutta la settimana, è stata l’Intelligenza artificiale e la sua applicazione alla giurisdizione in generale e all’avvocatura in particolare. Il presidente dell’Ordine degli avvocati milanesi Antonino La Lumia ha ricordato che “il mercato italiano dell’AI, secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano, è cresciuto nel 2024 del 58%, superando 1,2 miliardi di euro. Il 43% riguarda sistemi di generative AI. Le grandi imprese già investono in modo strutturato; le Pmi arrancano. Il 52% dei decision maker non comprende appieno la normativa vigente”. Per La Lumia serve un nuovo umanesimo giuridico, “che non rinunci a interrogarsi sui fini, sulle conseguenze, sulle diseguaglianze che ogni innovazione porta con sé. E serve, infine, una nuova idea di regolazione, che non rincorra la tecnica ma ne anticipi i rischi. Che non sia solo difensiva, ma propositiva”. Posizione sulla quale si attesta anche il ministro Nordio, che ha ricordato i punti irrinunciabili cristallizzati nel disegno di legge sull’Ai in discussione in Parlamento che conservano al magistrato la redazione del provvedimento e affidano ai programmi di AI una funzione di solo supporto. Del resto, ha esemplificato Nordio, solo l’intelligenza umana può compiere tutte levai necessarie per incasellare una condotta in una fattispecie di reato. A proposito di novità il presidente del Cnf, Francesco Greco, ha sottolineato gli elementi cardine della nuova legge professionale, con il ministro che ha confermato come ormai sia concluso il lavoro sulla legge delega da presentare in consiglio dei ministri a brevissimo. Il testo proposto dall’avvocatura, affrontato anche dal coordinatore Ocf Mario Scialla, interviene, quanto a profili innovativi, su incompatibilità, forme di esercizio della professione (con riferimento alla monocommittenza), accesso e tirocinio. Ma se l’intelligenza artificiale è la frontiera più avanzata dell’evoluzione della tecnologia applicata anche all’attività giudiziaria, la realtà dei tribunali è costellata da criticità anche solo nel provare a fare funzionare l’esistente. Ne sono fotografia ieri gli interventi dei rappresentanti degli uffici giudiziari milanesi, dal presidente del tribunale Fabio Roia al procuratore aggiunto Letizia Mannella, con al centro soprattutto le problematiche relative all’applicativo per il processo penale. Il M5S attacca Mori riesumando il mito della trattativa stato-mafia, bocciato dai giudici di Ermes Antonucci Il Foglio, 20 maggio 2025 Scarpinato, Conte & Co. attaccano l’ex ufficiale del Ros e la Commissione Antimafia riproponendo il teorema della Trattativa, smentito dalla Cassazione. Un’ossessione dura a morire. Una Trattativa è per sempre, come un diamante, o in questo caso come un’ossessione. Il 27 aprile 2023 la Cassazione ha fatto piazza pulita del teorema sulla cosiddetta “trattativa stato-mafia”, alimentato per anni dalla procura di Palermo e dal sistema politico-mediatico al seguito, assolvendo definitivamente i tre alti ufficiali del Ros dei Carabinieri imputati (Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno) “perché il fatto non sussiste”. La sentenza, però, non è bastata a mettere fine al mito della Trattativa. Uno dei pm del processo palermitano, Nino Di Matteo, ha ripetutamente attaccato in pubblico la Cassazione, che avrebbe adottato “un colpo di spugna che cancella vicende troppo scabrose per il paese”, e che a suo dire sarebbe “entrata nella valutazione dei fatti”, quindi esondando dalle sue competenze. La Cassazione è stata picconata anche dall’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, oggi senatore del Movimento 5 stelle, partito che fin dalla sua nascita ha offerto sponda politica alla tesi dei magistrati di Palermo. Proprio il M5s nei giorni scorsi si è reso protagonista di un durissimo scontro a distanza con Mori e De Donno, che sono stati chiamati a fornire la loro testimonianza in Commissione parlamentare Antimafia sull’indagine mafia-appalti, della quale si sta occupando la commissione in relazione alla strage di Via D’Amelio. Durante l’audizione, e nel corposo dossier consegnato ai commissari, Mori e De Donno hanno accusato i magistrati siciliani di aver ostacolato l’indagine voluta da Falcone e Borsellino sugli appalti condizionati da Cosa nostra, che all’inizio degli anni Novanta fu condotta proprio dai due ufficiali del Ros. Il giorno dopo, in una conferenza stampa il leader del M5s Giuseppe Conte ha attaccato la maggioranza di centrodestra per aver permesso a Mori e De Donno di portare la loro testimonianza, arrivando a parlare di “depistaggio istituzionale”: “Si sta indagando solo su via D’Amelio, spingendo verso una relazione finale focalizzata su una pista che stravolge la verità dei fatti”. Il M5s ha anche depositato una relazione di 90 pagine per smentire le affermazioni fatte da Mori e De Donno in Antimafia, definite “falsità”. Ciò che colpisce della relazione grillina è l’ennesima riesumazione della “trattativa stato-mafia”: secondo i pentastellati, Mori e De Donno avrebbero riferito in Antimafia notizie false con l’obiettivo di “scrollarsi di dosso oltre che le responsabilità penali anche quelle morali” che secondo loro emergerebbero dal processo sulla Trattativa. Iniziando l’interlocuzione con Ciancimino dopo l’uccisione di Falcone, infatti, secondo Scarpinato e gli altri, Mori e De Donno avrebbero “aperto un vaso di Pandora incontrollabile, che alimentò un tragico gioco al rialzo della strategia stragista di cui la prima vittima potrebbe essere stato proprio Borsellino e a seguire le vittime delle stragi del 1993 di Via Georgofili a Firenze nella notte tra il 26 e 27 maggio 1993 di Via Palestro a Milano la sera del 27 luglio 1993”. Insomma, secondo il M5s la causa dell’uccisione di Paolo Borsellino e delle altre stragi mafiose sarebbe stata proprio la “trattativa” dei Ros con Cosa nostra. E tutte le “falsificazioni” di Mori e De Donno troverebbero smentita nell’analisi dei documenti giudiziari. Peccato che la Cassazione nella sua sentenza sottolinei come “Cosa nostra, sotto la direzione di Salvatore Riina, sin dall’omicidio dell’on. Salvo Lima, stesse realizzando una propria strategia terroristica, volta all’ottenimento di concessioni da parte dello stato, e che, dunque, sarebbe proseguita anche a prescindere dall’intervento degli imputati appartenenti al nucleo operativo dei Ros”. Per la Corte, infatti, “non può ritenersi dimostrato sulla base degli apodittici rilievi della sentenza impugnata che l’interlocuzione ricercata da Subranni, da Mori e da De Donno sia stata idonea a integrare una forma di rafforzamento del proposito criminoso dei vertici di Cosa nostra di minacciare il governo”, anche attraverso la successiva uccisione di Borsellino. Evidentemente questi passaggi sono sfuggiti all’attenzione di Scarpinato e degli altri grillini. Al M5s deve essere sfuggita anche la sentenza del processo “Borsellino quater” sulla strage di Via D’Amelio, che individua proprio nell’attenzione posta da Borsellino all’inchiesta mafia-appalti uno dei possibili motivi che spinsero Cosa nostra a uccidere il magistrato. Per Scarpinato & Co. l’unica cosa che conta è la Trattativa (mai esistita). Patteggiamento senza pene accessorie: la Cassazione tutela l’accordo tra pm e difesa di Antonio Alizzi Il Dubbio, 20 maggio 2025 Un ex dirigente pubblico siciliano non dovrà scontare l’interdizione dai pubblici uffici. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (sesta sezione penale, presidente Pierluigi Di Stefano, relatore Fabrizio D’Arcangelo) che ha annullato senza rinvio la parte della sentenza emessa dal Tribunale di Messina il 21 novembre 2024 relativa all’applicazione della pena accessoria. L’interdizione quinquennale era stata disposta nonostante il patteggiamento, con cui l’imputato aveva concordato una pena di tre anni, sette mesi e dieci giorni di reclusione per i reati di corruzione e finanziamento illecito dei partiti. L’accordo processuale prevedeva esplicitamente l’esclusione di qualsiasi pena accessoria, come previsto dall’articolo 444, comma 3- bis, del codice di procedura penale. L’imputato, secondo quanto riportato nella rubrica imputativa, nella qualità di soggetto attuatore contro il dissesto idrogeologico, era stato accusato dalla Procura di Messina, con altre 13 persone, di una serie di fatti corruttivi relativi all’aggiudicazione e l’esecuzione di appalti, promossi dal Commissario di Governo contro il dissesto idrogeologico per la Regione Sicilia. Al centro dell’inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza, il cantiere aperto per la riqualificazione ambientale e il risanamento igienico dell’alveo del torrente Cataratti-Bisconte, oltre opere varie nel Comune di Messina. Secondo quanto rilevato dai difensori dell’imputato, gli avvocati Fabrizio Biondo e Bonaventura Candido, il Tribunale di Messina avrebbe disatteso l’accordo tra il pubblico ministero incaricato di istruire il procedimento penale e la difesa, imponendo l’interdizione dai pubblici uffici nonostante la clausola espressa di esclusione. Una posizione condivisa dalla Procura generale presso la Suprema Corte della Cassazione, che nelle proprie conclusioni ha chiesto l’annullamento della pena accessoria, confermando la violazione di legge. La sesta sezione penale della Cassazione ha accolto il ricorso e sottolineato come, in base alla normativa vigente (si fa riferimento alla nuova legge Cartabia), il giudice che non ritenga di poter rispettare l’accordo tra le parti deve rigettare la richiesta di patteggiamento. Non può invece modificarla unilateralmente, introducendo pene non previste, com’è avvenuto in questo caso, con una palese violazione del diritto di difesa stante l’intesa raggiunta tra chi aveva condotto le indagini e riteneva l’imputato colpevole e chi doveva difendere il dirigente siciliano. Nel caso in esame, l’interdizione dai pubblici uffici - pur formalmente prevista dall’articolo 29 del codice penale - era preclusa proprio in virtù della clausola di esenzione pattuita dalle parti in riferimento all’articolo 317- bis, norma speciale che disciplina le pene accessorie per i reati contro la pubblica amministrazione. In definitiva, la Suprema Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio la parte della sentenza che imponeva all’imputato l’interdizione quinquennale, ritenendola illegittima. Resta invece confermata la pena principale di reclusione definita con il patteggiamento, con la revoca degli arresti domiciliari. Torino. Dal Cpr in Albania al carcere delle Vallette: la tragica storia dell’uomo che s’è ucciso di Andrea Bucci, Elisa Sola La Stampa, 20 maggio 2025 La sorella di Hamid Badoui vuole giustizia: “Mio fratello voleva vivere”. Era tornato in città sabato, dopo poche ore l’arresto per resistenza a Barriera. Era libero da 48 ore. Dopo un mese e tre giorni di restrizione nel Cpr di Gijader, in Albania. È tornato sabato a Torino, la città in cui viveva da 15 anni. Nel pomeriggio è stato derubato di una scheda sim. Ha chiesto a un tabaccaio di chiamare la polizia. E quando è arrivata, ha tirato un calcio alla volante. Era fuori di sé perché gli agenti, non potendo fermare il presunto ladro, gli avevano detto di fare denuncia. Così è finito di nuovo in manette, mentre tutt’intorno c’era gente che protestava. E in carcere, dopo 24 ore, si è tolto la vita. Hamid Badoui, 40enne originario del Marocco, era stremato dalla permanenza nel Cpr in Albania. Ma secondo la sorella Zahira, non voleva uccidersi. “Adesso vogliamo giustizia”, ha detto la donna all’avvocato Luca Motta. Aggiungendo: “Non voleva togliersi la vita. Aveva vinto la sua battaglia. Era finalmente tornato in Italia”. Il difensore: “Un arresto particolare” - La procura di Torino ha aperto un’inchiesta sul decesso. L’ennesimo suicidio in carcere. L’avvocato Motta, legale di fiducia di Badoui, vuole precisare: “Alla luce delle carte processuali, emerge una circostanza di arresto particolare e conflittuale, che merita approfondimenti istruttori. L’arresto, per la tipologia di reato, era peraltro facoltativo. C’è da chiedersi anche perché il mio assistito non sia stato portato nelle camere di sicurezza ma direttamente in carcere”. È stato all’avvocato Motta che Badoui, dal Cpr albanese, aveva confidato: “Questo posto è peggio della galera, fatemi uscire, non ne posso più”. Schiavo del crack - Il 40enne, che da circa otto anni entrava e usciva dalle carceri piemontesi per i furti che commetteva per comprarsi il crack, aveva perso i documenti e la possibilità di rinnovo del permesso di soggiorno ottenuto nel 2010 perché non viveva più con la sua famiglia. Si era perso per la droga. Era finito in mezzo a una strada per il crack: campava di furti e rapine. Non spacciava. Non viene descritto come violento. Chi lo ha visto entrare in carcere tre giorni fa lo descrive come tranquillo. Sabato doveva essere una giornata di festa per lui. Tre giorni prima, il 13 maggio, la giudice di pace di Roma, Emanuela Artone, lo aveva liberato dal Cpr albanese. Il Cpr in Albania - Dopo una lunga e complicata battaglia legale, la giudice aveva accolto l’istanza dell’avvocata Anna Moretti, e ha stabilito che il giudizio sulla sua restrizione doveva essere “sospeso in attesa della definizione di costituzionalità, sollevata negli analoghi giudizi, dalla Corte costituzionale”. Esistono, per Badoui e per persone come lui ristrette nei Cpr, “dubbi di legittimità costituzionale”. Quindi, in attesa che la Corte decida, Badoui “deve essere liberato”, ha scritto la giudice di Roma, specificando: “A tutela del diritto inviolabile della libertà personale”. L’uomo era finito nel Cpr albanese a sorpresa. Circa due mesi fa aveva finito di scontare l’ultima condanna nel carcere di Torino. Ma il giorno della scarcerazione, siccome era irregolare, era stato trasferito in Puglia. E da qui in Albania. Nella struttura voluta dal governo Meloni. Dall’11 aprile al 14 maggio Badoui è stato ristretto lì. Venerdì scorso è tornato in Italia. Ha preso un treno per Torino. Truffato per la sim - Poche ore dopo il suo ritorno, è stato arrestato per resistenza. Era dalle parti di corso Giulio Cesare. È entrato in una tabaccheria e ha chiesto al negoziante di chiamare la polizia. Ha detto di essere stato truffato: voleva comprare una sim card ma chi gliel’ha venduta si è tenuto i suoi soldi, senza dargli la scheda. La polizia è arrivata. Lui era molto agitato. “Arrestate il ladro”, ha detto agli agenti, che gli hanno risposto: “Deve fare denuncia, non possiamo prenderlo”. Il resto della cronaca, è scritto nel verbale d’arresto: “L’uomo dà in escandescenze, colpisce e danneggia la volante, poi aggredisce i poliziotti”. Per strada una folla di 50 persone grida contro gli agenti: “Lasciatelo stare! Gli state facendo del male”. “I poliziotti hanno rischiato il linciaggio”, scriveranno nella relazione di pg. Dopo le tensioni, Badoui entra al Lorusso e Cutugno. Si impicca dopo circa 30 ore. Nella notte tra domenica e lunedì, alle quattro e mezza, era passato un agente a controllare. E andava tutto bene. Un’ora e mezza più tardi è passato un secondo poliziotto. Ha notato qualcosa di strano. È entrato nella cella per capire cosa stesse accadendo. E ha trovato Badoui impiccato alle sbarre. Non ha lasciato biglietti. Pare che non abbia fatto rumore, prima e mentre si toglieva la vita. Torino. Suicidio alla Vallette: al disagio sociale non si può rispondere con il carcere imgpress.it, 20 maggio 2025 La drammatica notizia del suicidio nel carcere di Torino di un uomo di 42 anni è tristemente emblematica del corto circuito della propaganda securitaria per “risolvere il problema delle periferie”. L’uomo, a quanto si legge, era stato arrestato ieri in Corso Giulio Cesare a Torino, in piena Barriera di Milano, per resistenza a pubblico ufficiale: davvero era necessario, per un reato del genere, l’arresto per direttissima e la detenzione cautelare in cella alle Vallette, in un carcere sovraffollato e notoriamente in sofferenza? La drammatica notizia ripropone un altro tema, troppo sottovalutato: e cioè la discriminazione nei confronti delle persone straniere, che hanno un tasso di misure cautelari ben più alto della media (43% rispetto al 31%, dati Cild). Anche i sindacati di polizia penitenziaria, esprimendo il loro cordoglio, ribadiscono poi che la questione della salute mentale è sempre più centrale per la tenuta del carcere: quale assistenza psicologica e quale sorveglianza vi è stata sull’uomo che si è tolto la vita per verificare che la detenzione avvenisse in condizioni di sicurezza? Ricordiamo che nel 2024 i suicidi sono stati oltre 90, uno ogni quattro giorni. Il sistema repressivo invocato da destra si scontra con una situazione di emergenza totale delle carceri italiane: 62.137 detenuti rispetto alla capienza di 46.839, e anche a Torino il tasso di sovraffollamento è continuamente sopra il 130%, mentre restano molti problemi sulla mancanza di ispettori e ispettrici di polizia penitenziaria e sui carenti servizi per la salute delle persone detenute, a partire da quella mentale. Una situazione che è destinata a peggiorare a causa delle norme sciagurate introdotte con il DL Sicurezza. Continuiamo a ripeterlo: al disagio sociale non si può rispondere con il carcere. Teramo. Morto un altro detenuto nel carcere di Castrogno: è il quarto decesso da inizio anno di Giacomo Del Borrello zonalocale.it, 20 maggio 2025 Un detenuto di 50 anni, il vastese Marco D’Ambrosio, è morto nel pomeriggio di lunedì 19 maggio nella Casa circondariale di Castrogno. In base alle prime indiscrezioni, la causa del decesso sarebbe da attribuirsi a un malore improvviso, ma sono in corso accertamenti da parte delle autorità competenti per chiarire con precisione le circostanze dell’accaduto. Si tratta del quarto decesso registrato nel penitenziario teramano dall’inizio del 2025. Nel mese di marzo, due detenuti hanno perso la vita a causa di malori improvvisi: Domenico Di Rocco, 46 anni, e Michele Venda, 42 anni. Il primo era in attesa di un’udienza per la richiesta di detenzione alternativa, mentre il secondo è deceduto mentre stava cenando in cella. Il primo maggio, una detenuta di 44 anni, Rita De Rosa, è morta dopo aver accusato forti dolori al petto. La donna, affetta da gravi patologie, era stata recentemente dimessa dall’ospedale con una diagnosi di bronchite. La Procura ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo, iscrivendo nel registro degli indagati il medico di turno che l’aveva visitata poche ore prima del decesso. Le autorità competenti hanno avviato gli accertamenti per chiarire le cause dell’ultimo decesso. La sezione scientifica della Polizia di Stato ha effettuato rilievi tecnici nella cella dove è avvenuto il decesso. Al momento, non sono stati resi noti ulteriori dettagli sull’identità del detenuto o sulle circostanze specifiche della sua morte. La situazione nel carcere di Castrogno continua a destare preoccupazione. Secondo quanto riportato, la struttura ospita circa 400 detenuti, a fronte di una capienza prevista per 200, evidenziando un problema di sovraffollamento. Inoltre, si segnalano carenze di personale medico e sanitario. Le autorità giudiziarie proseguono le indagini per fare piena luce sull’accaduto e valutare eventuali responsabilità. Milano. San Vittore, i “record” del carcere: dal sovraffollamento al picco di tossicodipendenti di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 20 maggio 2025 Ma ci sono anche le eccellenze positive. Due terzi dei detenuti sono stranieri, di 35 Paesi. E il 45% dei reclusi ha diagnosi psichiatriche gravi. Ma anche la rete di volontari e le “cliniche legali” universitarie sono da record. Il sovraffollamento, per paradosso, quasi è il meno: perché il record del 200% di presenze a San Vittore contro il 130% nazionale - cioè il doppio di detenuti (1.054) nella capienza regolamentare (702) amputata però dal 30% di posti inagibili (219) a causa di due reparti chiusi e in attesa di ristrutturazione da 19 anni - è indice quantitativo surclassato dall’”eccezionalità” qualitativa di tre parametri di San Vittore: unicità fotografata dai dati aggiornatissimi (maggio 2025) illustrati lunedì dalle tutor Candida Mistrorigo e Cecilia Pasini dello “Sportello della Clinica legale” dell’Università degli Studi, animata da due anni dalla professoressa Angela Della Bella e dall’avvocato Paolo Oddi. Il primo è che stranieri (di 35 Paesi) sono due terzi dei detenuti, contro la media nazionale di un terzo: di essi l’80% irregolari, e per un terzo giovanissimi ex minori non accompagnati, in un attimo infilatisi nel tunnel autocriminogeno della trafila strada/ piccolo reato/ arresto/ condanna/ conseguenza sullo status amministrativo/ espulsione teorica/ Cpr/ di nuovo in strada/ di nuovo reato/ di nuovo condanna, e si ricomincia. La seconda eccezionalità sono i tossicodipendenti: 60%, doppio della media nazionale. Facile, a parole, dire che debbano essere curati in strutture terapeutiche: il Sert non li prende in carico se non hanno almeno la fotocopia di un documento, e quasi nessuno ce l’ha. Così sono gli studenti della “Clinica legale” in Statale, come di quella in Bocconi coordinata dalla professoressa Melissa Miedico, o come le poco note ma molto preziose “cerniere” tra carcere e territorio incarnate dagli “agenti di rete” quali Agnese Elli, a fare salti mortali per risalire a un pezzo di carta recuperabile nei racconti tanto emotivi quanto accidentati degli stranieri: per i quali è quindi preziosa la mediazione linguistica-culturale degli studenti tirocinanti di Marco Aurelio Golfetto, visto che persino per i difensori (testimonia l’avvocata Paola Ponte) è arduo trovare interpreti disponibili a gratuito patrocinio. Il terzo record è il 45% di detenuti con diagnosi psichiatriche gravi: 7 volte la media nazionale, con risposte sanitarie della Regione ancor meno efficaci che sui tossicodipendenti. Eppure da questa che Oddi e il Garante comunale dei detenuti Francesco Maisto battezzano “una Torre di Babele nel centro di Milano”, polveriera che miracolosamente non salta per aria ogni giorno grazie all’ammortizzazione di cui la direttrice Elisabetta Palù e la comandante Michela Morello dei 544 agenti (111 sotto organico) raccontano i risvolti quotidiani, nessun detenuto vuole essere trasferito: perché c’è una eccezionalità di San Vittore pure nella rete di volontari (ben 900 gli autorizzati), tra cui appunto “cliniche legali” come quella della Statale narrata dal video-racconto dei reporter del master di giornalismo Francesca Menna e Martino Fiumi. Una mattina alla settimana almeno due giuristi in erba e un tutor fanno una cosa rivoluzionaria: ascoltano. Cercano cioè di comprendere le urgenze che i detenuti faticano a spiegare, se ne fanno carico, spiegano i meccanismi giuridici ignoti. Il che abbassa già l’ansia che divora un posto dove in un anno 4 detenuti si sono uccisi, 85 l’hanno tentato, e gli autolesionismi sono stati 1.216. Un posto dove al momento dell’arresto diventa un dramma per gli stranieri l’ok a una telefonata alla famiglia che la trafila di autorizzazioni può far attendere settimane: per rimediare si sta sperimentando un protocollo già alla convalida dell’arresto - spiega la gip Ezia Maccora - per una autorizzazione preventiva del giudice a che il detenuto telefoni al numero e al parente indicati dallo straniero e verificati dalla direzione del carcere. E funziona. Salvo quando dal carcere si sbatte la testa contro il mutismo dei consolati dei Paesi interpellati. Pescara. Il carcere è una polveriera: cento detenuti in più, allarme suicidi e proteste di Angela Baglioni Il Messaggero, 20 maggio 2025 Il carcere di Pescara scoppia. A parlare sono i numeri del ministero della Giustizia, aggiornati al 30 aprile scorso, che evidenziano la presenza di 385 detenuti rispetto ai 276 posti regolamentari, con un tasso di affollamento che sfiora il 140%. Come dire che ogni branda ospita quasi un detenuto e mezzo. Una condizione che rende la struttura pescarese una delle più sovraccariche d’Abruzzo, seconda in percentuale solo a Lanciano e Teramo, e ben oltre la media nazionale, che si ferma intorno al 133,5%. Il sovraffollamento non è solo una questione di numeri, ma una condizione che si traduce ogni giorno in spazi insufficienti, tensioni crescenti e difficoltà evidenti nel garantire un percorso detentivo dignitoso e realmente rieducativo. Risale a tre mesi il suicidio di un detenuto, che si è tolto la vita nella notte del 17 febbraio. Un gesto che ha scatenato la protesta di altri detenuti che hanno dato fuoco ai materassi causando l’intossicazione di 17 persone, e un tentativo di evasione dal tetto della struttura carceraria. A marzo, invece, un altro detenuto ha tentato di togliersi la vita con un panino. Delle 385 persone recluse a San Donato 116 sono straniere, un dato che rappresenta il 30% circa della popolazione carceraria pescarese; la percentuale risulta in linea con il trend nazionale, ma che porta con sé problematiche ulteriori legate alla mediazione culturale e linguistica, all’accesso ai percorsi rieducativi e al rischio di marginalizzazione. I numeri diffusi dal ministero evidenziano una tendenza che negli ultimi mesi ha coinvolto diverse carceri italiane, ma che in Abruzzo si manifesta in modo marcato. La struttura di Lanciano, ad esempio, ospita 128 detenuti per 83 posti disponibili (affollamento al 154%), quella di Teramo 179 per 120 posti (149%), mentre Chieti, pur restando sotto la soglia massima con un tasso del 110%, mostra un progressivo incremento delle presenze (rispetto a una capienza di 53 posti ospita 58 reclusi). Se Pescara è ben oltre la soglia della capienza, dall’altra parte il supercarcere aquilano delle Costarelle, che ha visto anche la presenza di boss del calibro di Matteo Messina Denaro, a fronte di 228 posti ospita 173 detenuti (tra carcerati comuni e sottoposti al regime del 41 bis), tra i quali 12 donne e 21 stranieri. Sempre secondo i dati pubblicati dal ministero della Giustizia, nella casa circondariale di Avezzano sono presenti 67 detenuti di cui 26 stranieri, ma i posti sono solo 53. Nel carcere di Sulmona, infine, si trovano ristrette 455 persone (11 stranieri), a fronte di una capienza di 519 posti. Ma il fatto che il numero dei detenuti sia inferiore ai posti disponibili non vuol dire che tutto funzioni. Negli ultimi anni, all’interno delle varie carceri abruzzesi sono stati segnalati ovunque problemi strutturali, sezioni chiuse per manutenzioni, carenza di personale e difficoltà nel garantire attività di trattamento costanti. Negli ultimi mesi, sindacati di polizia penitenziaria e operatori hanno più volte segnalato la difficoltà di garantire sicurezza, dignità e percorsi di trattamento, soprattutto quando ogni branda in più finisce per diventare un letto in meno per la rieducazione. In molti casi il sovraffollamento ha effetti concreti, come la riduzione delle attività scolastiche o lavorative e maggiore tensione tra chi è costretto a condividere spazi ristretti. A livello nazionale, i carcerati presenti al 30 aprile sono oltre 61.000, a fronte di una capienza di poco superiore ai 50.000 posti regolamentari. Nel frattempo i numeri, e i fatti di cronaca, ricordano che ogni posto letto in più oltre la soglia regolamentare è un segnale d’allarme. Anche a Pescara. Bologna. Nel carcere minorile i ragazzi vivono nella spazzatura: tutto è lercio da fare schifo di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2025 Muri sporchi di cibo o di chissà cos’altro, colate di liquidi ripugnanti, bucce di banana, di mandarino, fili elettrici a vista strappati dal muro, involucri di ogni tipo che nessuno raccoglie, cicche di sigaretta, uno strato di nera polvere ovunque. Ragazzini che vivono in mezzo alla spazzatura, quasi l’intera giornata chiusi in cella: questo accade nel carcere minorile di Bologna, che ho visitato nelle scorse ore insieme a Giulia Fabini, presidente di Antigone Emilia Romagna. E non è il solo in queste condizioni. Il sistema della giustizia minorile è allo sbando e la colpa è delle scelte politiche che lo hanno guidato negli ultimi tempi: gli arresti forsennati dovuti al Decreto Caivano del settembre 2023 e il sovraffollamento che ne è conseguito, la cancellazione di ogni progettualità educativa, gli adolescenti in gabbia privati di ogni sostegno e speranza. Il direttore dell’istituto bolognese fa il possibile e tampona le situazioni come può. Che non si cerchi il capro espiatorio in lui, in un educatore, in un qualsiasi operatore penitenziario: non è da loro che dipende questo sfacelo. Ero stata nel medesimo istituto un anno e mezzo fa e la situazione era completamente diversa. Oggi il direttore, lasciato troppo solo di fronte alla situazione precipitata, non può contare su personale sufficiente neanche a garantire una corretta igiene degli spazi. Quel che abbiamo trovato durante la nostra visita è indegno. Il corridoio, i refettori, le scale: tutto è lercio da fare schifo. Muri sporchi di cibo o di chissà cos’altro, colate di liquidi ripugnanti, bucce di banana, di mandarino, fili elettrici a vista strappati dal muro, involucri di ogni tipo abbandonati da non so quanto tempo che nessuno raccoglie, cicche di sigaretta, uno strato di nera polvere ovunque. Ridotti in questo stato, i refettori non sono più utilizzati per mangiare insieme e anche durante i pasti i ragazzi restano in cella. ?Dentro la sezione dei minorenni, ci siamo affacciate a una cella in fondo al corridoio. Ospitava quattro ragazzini stranieri, diciassettenni. Capivano poco, sia le nostre parole che la situazione generale. Nella stanza c’erano quattro brande e una televisione. Niente di più. Non un tavolino, non una sedia. In compenso, montagne di spazzatura. Un cumulo si trovava sulla destra, composto da bioccoli di polvere nera, spessa, lanosa. I ragazzi la raccoglievano con la spazzola di una scopa priva di manico. Carponi, afferrandola con entrambe le mani, concentravano in quel punto il sudicio che a mano a mano si riformava sul pavimento. Non avevano una paletta per raccoglierlo. Semplicemente, lo vedevano crescere giorno dopo giorno. Sulla sinistra c’era un altro cumulo, di diversa natura. Era composto da bottigliette di plastica vuote, incarti di biscotti o di merendine, cartacce. Non avevano un cestino dove buttarle. Le pareti, il pavimento, tutto era vuoto e lurido. Ho chiesto ai ragazzi perché non pulissero la stanza. Mi hanno risposto che non avevano detersivo, non avevano straccio. I bastoni della scopa sono un bene prezioso: i ragazzi ci costruiscono dei pesi rudimentali, legando ai lati bottiglie di plastica piene d’acqua o cose simili, per fare un po’ di allenamento fisico. Nessuno gli fornisce gli attrezzi. I bastoni finiscono per rompersi e quindi è meglio non lasciarglieli. Ma non era questa la loro priorità. Uno dei ragazzi che parlava un po’ meglio la nostra lingua ci ha spiegato di cosa avessero bisogno. La televisione, unica compagnia delle loro lunghe giornate, era fissa sul canale 29. La programmazione era per loro scarsa e dall’apparecchio non si poteva cambiare canale. I telecomandi sono a pagamento e loro non avevano soldi. Ci hanno ripetuto più volte la parola ‘sussidio’, senza che inizialmente capissimo a cosa volevano riferirsi. Poi abbiamo capito: era stato detto loro di aspettare che arrivassero i sussidi, a volte in carcere accade, piccole somme che sono consegnate ai detenuti bisognosi. Così avrebbero potuto comprarsi un telecomando. Ma questi sussidi non arrivavano e intanto i ragazzi stavano buttati sulle brande, circondati di immondizia, a guardare il solo canale 29. Pensavo non si potesse incontrare di peggio in un carcere minorile. Ma mi sbagliavo. Dalla parte opposta del corridoio, speculare, nell’angolo estremo visibile solo a chi appositamente sceglieva di recarsi fin lì, abbiamo incontrato la situazione più indecente. Indegna. Drammatica. Della quale come paese dovremmo tutti vergognarci. Un ragazzino, anche lui di 17 anni, con evidenti problemi psichiatrici, chiuso da solo in una cella poco più grande di uno sgabuzzino, ridotta come potrebbe essere una casa abbandonata da un decennio e ormai in rovina. I vetri della finestra erano rotti, l’unico arredo era un letto con materasso, senza lenzuola e con una coperta fetida. Il pavimento era bagnato da pozzanghere di acqua sporca che filtrava fin fuori sul corridoio. Lui era in piedi con le scarpe nell’acqua. C’era spazzatura ovunque, unica compagnia per quel ragazzo (non aveva neanche la tv, neanche un singolo canale, perché l’ultima l’aveva rotta in un gesto di rabbia) che ci chiedeva di poter fare una doccia. Sporgendosi tra le sbarre si intravedeva il bagno scassato e una turca inondata da rifiuti. Abbiamo chiesto ai ragazzi della cella più vicina se sapessero qualcosa di lui. Ci hanno risposto che non lo incontrano mai, che non esce mai, che solo la notte lo sentono parlare ad alta voce e lamentarsi. Un ragazzino del tutto incompatibile con il carcere, che non dovrebbe trovarsi lì, per il quale è nostro dovere attivare percorsi di presa in carico che possano dargli una prospettiva di vita. Vi ho raccontato un singolo carcere che ne rappresenta anche altri (per fortuna non tutti). A pochi chilometri da lì, l’indecenza di una sezione minorile aperta all’interno di un carcere per adulti, quello della Dozza. Il sistema della giustizia minorile è al collasso. Un sistema che per decenni era considerato un modello dall’intera Europa è stato distrutto. Là dove prima si spiegava, si insegnavano i valori, si davano gli strumenti per riprendere in mano la propria vita, oggi si è perso ogni senso del nostro ruolo, non si agisce secondo alcuna consapevolezza di cosa ci stiamo a fare in quelle carceri come società. Quando va bene si fa un po’ di scuola, quando va benissimo si fa qualche laboratorio. Per il resto si chiudono le celle e si interrompe ogni dialogo. I ragazzi, fatti vivere nel degrado più assoluto, crederanno di essere anche loro degradati. Crederanno di non avere più nulla da perdere e di non meritare nulla. Neanche un po’ di detersivo per pulire il pavimento. Crederanno di essere spazzatura, come quella nella quale li facciamo vivere. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Milano. Reinserimento sportivo per minori al Beccaria. Nordio: “La pena deve rieducare” di Francesca Del Vecchio La Stampa, 20 maggio 2025 Il ministro della Giustizia: “Fondamentali gli spazi, che nelle nostre carceri mancano”. Dopo Bari, Catania, Napoli e Palermo arriva il progetto “Play for the future”, grazie a Fondazione Milan e Cassa depositi e prestiti. È stato presentato a Milano, nel Teatro Puntozero dell’Ipm Beccaria, il progetto “Play for the Future”, promosso da Fondazione Milan in collaborazione con il Ministero della Giustizia e Fondazione CDP. Un’iniziativa già attiva a Bari, Catania, Napoli e Palermo con un progetto pilota del 2023/2024 e che ha come obiettivo il reinserimento sociale di giovani tra i 16 e i 24 anni coinvolti nei circuiti penali, attraverso percorsi di educazione sportiva e orientamento professionale. “La pena deve tendere alla rieducazione e al reinserimento e questo vale soprattutto per i minori i quali, se non sono sempre delle vittime, molto spesso sono state messe in condizioni di sbagliare”, ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio. “L’importanza di questo progetto è quella di poter dare ai giovani una valvola di sfogo durante la detenzione. Il nostro problema sono le strutture carcerarie che difettano di spazio. Da quando ci siamo insediati stiamo cercando di capire come risolvere con le risorse che abbiamo”, ha sottolineato, ricordando che “purtroppo, dobbiamo tener conto di molti vincoli: paesaggistici, idrogeologici. In queste condizioni è molto difficile trovare soluzioni. Ma stiamo pensando di ripristinare alcune caserme dismesse, quantomeno per detenuti scarsamente pericolosi: lì ci sono spazi in abbondanza”, ha aggiunto. “Negli ultimi anni abbiamo investito 12 milioni di euro in iniziative sociali con l’obiettivo di usare lo sport per contribuire a dare una speranza”, ha precisato Paolo Scaroni, presidente della Fondazione Milan. “L’anno scorso abbiamo costruito sei campi da calcio in quartieri difficili e questo ha creato luoghi di lavoro che cambiano la mappa del quartiere. Fino a oggi abbiamo lavorato in tre città. Da quest’anno cominciamo anche con Milano e ci rivolgiamo anche ai giovani che sono in queste case come il Beccaria. Lo facciamo con piacere”, ha concluso. “L’attività rieducativa - ha detto poi Gabriele Gravina, presidente della FIGC - è un pilastro della nostra azione. Due nostri campioni importanti, due ragazzi splendidi (Tonali e Fagioli, ndr), hanno affrontato la ludopatia. Erroneamente sono stati considerati deboli, ma la ludopatia non ha nulla a che vedere con la debolezza”. “Il progetto Play for the Future rappresenta un’iniziativa ad alto impatto sociale, che unisce sport e formazione per aprire nuove vie di inclusione a giovani che stanno vivendo momenti di difficoltà”, è stata la conclusione di Giovanni Gorno Tempini, Presidente di Fondazione CDP e di Cassa Depositi e Prestiti. Verona. Emergenza abitativa e inclusione dei detenuti: i progetti Caritas per vivere il Giubileo Corriere di Verona, 20 maggio 2025 Un fondo per l’emergenza abitativa e un protocollo per l’inclusione delle persone sottoposte a provvedimenti giudiziari: sono queste le due proposte con cui la diocesi attraverso la Caritas e la cooperativa Il Samaritano, intende vivere concretamente lo spirito del Giubileo 2025. “Conosciamo - ha dichiarato don Matteo Malosto, direttore della Caritas - povertà nuove e domande nuove, come quella di chi pur avendo un’occupazione, non riesce ad accedere ad alcuna soluzione abitativa, o famiglie provenienti da altri Paesi che si scontrano con lo stigma dell’essere stranieri. A ciò si aggiungono la scarsa reperibilità di case in affitto e l’incremento dei costi”. Da questa fotografia è nata l’idea di istituire un “fondo giubilare”, alimentato in gran parte dalle offerte raccolte durante i pellegrinaggi veronesi per l’Anno Santo. Il fondo servirà a sostenere percorsi già attivi, come quelli che permettono a Caritas, insieme a parrocchie e associazioni del Terzo Settore, di offrire accoglienza a circa 400 persone tra Verona e provincia. E finanzierà progetti come la ristrutturazione di circa cinquanta appartamenti Agec da destinare a chi non rientra nelle graduatorie ordinarie. Accanto al tema casa, anche quello del reinserimento sociale. Attraverso Il Samaritano, Caritas ha sottoscritto un protocollo con l’Ufficio Distrettuale di Esecuzione Penale Esterna per accogliere persone sottoposte a provvedimenti giudiziari. Ogni parrocchia potrà accogliere fino a due persone con pene inferiori ai quattro anni, da impiegare in attività gratuite a favore della collettività. “Caritas - ha detto il vescovo Domenico Pompili - si è dimostrata essere gli occhi, le orecchie, le mani della Chiesa rispetto a tante situazioni umanamente complesse” Firenze. Parissi nuovo Garante dei detenuti, Fratelli d’Italia attacca Corriere Fiorentino, 20 maggio 2025 Eletto alla seconda votazione coi voti della maggioranza. Dragi (FdI): rapporti con l’ex terrorista Segio. Ranghi compatti nella maggioranza di Palazzo Vecchio per sbloccare la nomina del nuovo garante dei detenuti di Firenze, un ruolo centrale date le criticità del carcere di Sollicciano. A undici anni di distanza il successore di Eros Cruccolini sarà Giancarlo Parissi, dell’associazione C.I.A.O. (Centro informazione ascolto orientamento) che si occupa dei detenuti. Una vittoria arrivata solo alla seconda votazione - per la prima volta è stata prevista l’elezione in Consiglio con voto segreto e non tramite nomina della Giunta - ma non esente da polemiche, con FdI a criticare Parissi per la vicinanza con l’ex terrorista rosso di Prima Linea, Sergio Segio. “Quello del carcere è un tema prioritario e urgente, ci siamo espressi più volte sulle condizioni inadeguate di Sollicciano e siamo da sempre impegnati a favorire tutti i percorsi necessari al reinserimento dei detenuti. Tenere accesi i riflettori sulla condizione dei detenuti è un obiettivo da perseguire e sono convinta che Parissi non mancherà di lavorare in questa direzione”, commenta la sindaca, Sara Funaro, ringraziando Cruccolini per l’impegno portato avanti negli anni. Parissi, eletto con 19 voti a favore (Pd, Avs-Ecolò e Iv) alla seconda votazione quando bastava la maggioranza semplice dell’assemblea, ha superato l’alternativa (mai decollata) di Saverio Migliori della fondazione Michelucci, un altro nome che era circolato all’interno dell’area a sinistra dem. Ma soprattutto ha superato la concorrenza di Massimo Lensi dell’associazione Progetto Firenze proposto dal consigliere Spc, Dimitrij Palagi, su cui al primo turno era arrivato il sostegno trasversale dell’opposizione. Nessuna possibilità invece per Gemma Brandi, indicata dal centrodestra al secondo turno: “Una figura di altissimo livello e scevra da ideologie ma il Pd, forte dei numeri, ha fatto passare il proprio candidato, scelto per colore politico”. Mentre il consigliere FdI, Alessandro Draghi, attacca: “Parissi in passato ha avuto relazioni costanti con Segio, responsabile dell’omicidio del giudice Galli e del magistrato Alessandrini. È vero che ognuno non risponde di chi frequenta ma mi auguro prenda le distanze”. Sassari. “Il carcere a scuola”: un’occasione di reinserimento sociale per i detenuti di Emanuele Floris L’Unione Sarda, 20 maggio 2025 Un percorso di formazione professionale nel mondo dello spettacolo che promuove il riscatto e nuovi posti di lavoro. Da detenuti a futuri professionisti dello spettacolo. È l’occasione offerta dal progetto “Il carcere a scuola”, presentato oggi a Sassari nella sede della Fondazione di Sardegna, promosso dalla associazione culturale San Domenico Caniga, con la collaborazione della Studios Academy di Roma, e finanziato dalla Fondazione. Con il corso offerto a coloro che, per vari motivi, si trovano in prigione, si vuole offrire la chance di una importante formazione professionale ma anche permettere il riscatto e il reinserimento nella società. “Il settore dello spettacolo è in crescita continua - spiega Anna Cherchi, fondatrice della S. Domenico Caniga e garante dei detenuti a Sassari - e presenta una vasta gamma di offerte lavorative non solo con sbocchi professionali stabili e remunerativi, ma permette ai ragazzi di sviluppare competenze tecniche avanzate e di lavorare in un ambiente creativo e dinamico, ed essere anche una risorsa per la comunità”. Sono diversi gli sbocchi potenziali e, solo per citarne alcuni vanno da quelli di tecnici luci e audio alle mansioni di addetti alla scenografia, alla gestione delle attrezzature video, montatori e responsabili dell’illuminazione. Il progetto prevede una seconda azione, focalizzata sulla pedagogia e che consiste in un “Corso sulla Giustizia riparativa” che verrà tenuto nelle scuole secondarie di primo e secondo grado da parte di esperti socio-psicopedagogici e giuridici con il prezioso contributo delle testimonianze dei detenuti e di persone sottoposte a misure alternative al carcere. “L’obiettivo è quello di sensibilizzare i giovani sul valore della legalità, sul vissuto travagliato delle persone private della libertà e sull’importanza della rieducazione e del reinserimento nella società come “operatori di Ben-Essere” - specifica la progettista Dora Quaranta -. L’idea è quella di creare un’esperienza umanizzante e costruttiva verso il rispetto della cosa pubblica, cercare di prevenire gli atteggiamenti violenti e ridurre la “logica” dell’avventura nell’illecito”. Il progetto potrebbe concludersi con la realizzazione di un festival musico-artistico di libera espressione a cura dei giovani studenti partecipanti al Tour “Legalità e Ben-Essere”. Presenti alla presentazione il vicesindaco di Sassari Pierluigi Salis e la rappresentante dell’Endas Fiorella Donatini. A prendere la parola l’avvocata Anastasia Fara, il presidente della Studios Academy Furio Capozzi, la prefetta Grazia La Fauci, poi la direttrice dell’Uepe Sassari Carmen Magistro. Catanzaro. “Un cane dentro per un futuro fuori”, progetto all’Ipm del Centro Cinofilo Due Mari corrieredilamezia.it, 20 maggio 2025 La rieducazione dei detenuti e il loro reinserimento è un dovere costituzionale ma di complicata applicazione, difficoltà che aumentano in maniera esponenziale quando parliamo di minori detenuti. L’Istituto Penale per Minorenni di Catanzaro “Silvio Paternostro” è guidato da oltre 20 anni da Francesco Pellegrino, persona competente e sensibile che da sempre ha mostrato grandissima attenzione per il recupero di chi finisce in quelle mura. Il personale è costantemente impegnato nell’offrire, per quanto possibile, una seconda opportunità a quei giovani che per i motivi più diversi sono finiti in Istituto. Tra le iniziative che hanno avuto maggior successo in questo campo bisogna segnalare il progetto “Un cane dentro per un futuro fuori”, organizzato dal Centro Cinofilo dei Due Mari asd, in collaborazione con il Centro Commerciale Due Mari e lo stesso Istituto minorile di Catanzaro.Un progetto bello, educativo ed ambizioso, portato avanti con successo da Giuseppe Grandinetti, presidente del Centro Cinofilo Due Mari, e da Fabio Salvatore Carioti, vicepresidente, entrambi addestratori Enci e con il supporto di altri due collaboratori, Francesco Brescia e Claryssa Ventura. Il Centro cinofilo è ospitato oramai da sette anni negli spazi di proprietà del Centro commerciale Due Mari, che è sempre presente per ogni iniziativa sociale o di supporto che riguarda gli animali. Lo scopo del progetto “Un Cane dentro per un futuro fuori” è quello di fornire ai giovani dell’Istituto una formazione adeguata per poter aspirare a diventare educatore cinofilo. Al corso hanno preso parte 12 ragazzi che hanno aderito al corso con entusiasmo e massima partecipazione. “È motivo di grande orgoglio per noi - afferma Giuseppe Grandinetti - che abbiamo realizzato questo progetto tenendo presente tre scopi, oltre a l’inclusione sociale: dare una possibilità ai ragazzi appena usciti dall’Istituto; riuscire a controllare le proprie emozioni, cosa particolarmente difficile quando sei rinchiuso per scontare una pena e far comprendere il rispetto che si deve avere per gli altri, per le cose e le regole imposte dalla società”. Gli incontri settimanali, oltre trenta, sono avvenuti all’interno della struttura per minori, in uno spazio verde dove gli addestratori del Centro Cinofilo Due Mari hanno portato attrezzature e, naturalmente, anche i piccoli amici a quattro zampe. “All’inizio abbiamo dovuto superare le naturali diffidenze dei ragazzi - evidenzia Fabio Salvatore Carioti - Ci siamo dovuti guadagnare la loro fiducia e far capire loro che questo progetto poteva essere utile per il loro futuro. E così è stato, i ragazzi hanno mostrato grande interesse per il corso e grande passione per cani con i quali hanno svolto un percorso formativo, durante il quale hanno imparato come si educano”. Tra addestratori e ospiti della struttura si è creato un rapporto confidenziale, in alcuni casi anche amichevole. Il progetto ha previsto la presenza e supporto di una psicologa, Ilaria Costanzo, che ha redatto una relazione molto positiva sull’andamento del corso. “In buona sostanza - aggiunge Giuseppe Grandinetti - si tratta di un “format” che auspichiamo di proseguire il prossimo anno nella stessa struttura ma di poterlo diffondere anche in altri Istituti minorili italiani. Il principio fondamentale è quello di garantire ai giovani detenuti un ambiente fisico e relazionale improntato al rispetto della dignità della persona, dei suoi diritti e dei suoi bisogni”. Volterra (Pi). I detenuti puliscono le aree archeologiche di Ilenia Pistolesi La Nazione, 20 maggio 2025 Il Comune di Volterra ha avviato un nuovo progetto di inclusione sociale e valorizzazione del patrimonio culturale, che vede coinvolti alcuni detenuti del Maschio. Si tratta di un’iniziativa, già iniziata, che mira a offrire ai detenuti l’opportunità di partecipare a attività di manutenzione e cura delle aree archeologiche aperte al pubblico, contribuendo così alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio storico della città. Il progetto si inserisce in un quadro più ampio di collaborazione tra il Comune e l’istituto penitenziario, sancito da una convenzione che promuove azioni riparative e di riabilitazione attraverso il lavoro e l’impegno civico. In particolare, i detenuti coinvolti si dedicano alla manutenzione delle zone verdi e delle due strutture archeologiche, acropoli e teatro romano, facilmente raggiungibili e visitate ogni anno da circa 35.000 persone, tra turisti e visitatori internazionali. Le attività svolte includono la pulizia e il mantenimento delle aree, l’utilizzo di strumenti idonei e sicuri, e, dopo una fase di formazione specifica, anche interventi di pulizia delle strutture archeologiche e di piccole manutenzioni su manufatti non archeologici, come ringhiere, parapetti e cartellonistica. Il progetto, frutto di un protocollo stilato dal Comune di Volterra con l’amministrazione penitenziaria, prevede una fase formativa propedeutica, durante la quale i partecipanti riceveranno le prime nozioni sui temi storico-archeologici delle aree, sui metodi di intervento e sulla delicatezza delle strutture antiche. Successivamente, i detenuti saranno accompagnati da personale specializzato del Comune, che li guiderà nell’acquisizione di competenze professionali utili anche in un’ottica di reinserimento post detentiva. Un aspetto importante è anche l’interazione con il pubblico: seppur limitata, questa fase permetterà ai partecipanti di confrontarsi con i visitatori, contribuendo a rafforzare il senso di appartenenza e responsabilità verso il patrimonio culturale di Volterra. Il progetto rappresenta un esempio concreto di come il lavoro e la cultura possano diventare strumenti di riabilitazione e di integrazione sociale, portando benefici sia alla comunità che ai singoli partecipanti. Offrendo opportunità di formazione, lavoro e partecipazione attiva, si favorisce il percorso di riabilitazione e si riducono le possibilità di recidiva. Massa Carrara. In carcere il progetto formativo sull’acqua di Michele Scuto La Nazione, 20 maggio 2025 Speciale incontro coi detenuti organizzato da Gaia con la Casa di reclusione e la Fondazione Telefono Azzurro. Si è tenuto, all’interno della Casa di reclusione di Massa, un incontro speciale dedicato ai detenuti, organizzato da Gaia insieme alla direzione e all’area educativa dell’istituto, con il coordinamento del gruppo di Massa Carrara di Fondazione Telefono Azzurro. All’incontro erano presenti Michela Consigli, vice presidente di Gaia, Francesco Mangiaracina, assessore alle politiche sociali del Comune di Massa, Mariagiovanna Guerra, referente di Telefono Azzurro Massa Carrara. All’interno del carcere, Gaia ha portato il proprio progetto educativo ‘Alla scoperta dell’acqua’, pensato per sensibilizzare sui temi della sostenibilità, del risparmio idrico e della riduzione della plastica monouso. “Questo evento - ha detto Antonella Venturi, direttrice della Casa di reclusione di Massa - dimostra come il tempo della detenzione possa essere denso di significato e contribuire a creare valore non solo per il singolo ma anche per la collettività. Da anni ormai, grazie alla Fondazione Telefono Azzurro di Massa Carrara, organizziamo iniziative volte a dare una dimensione anche formativa all’esperienza del carcere. Eventi come questi, possibili grazie all’attenzione del territorio - e nello specifico oggi di Gaia spa, che ringrazio per la splendida iniziativa - rendono possibile il raggiungimento di un obiettivo ambizioso: quello di diffondere una maggiore sensibilità rispetto a tematiche di enorme rilievo, una occasione per porre le basi di una società migliore”. “Portare progetti educativi all’interno del carcere - ha dichiarato l’assessore Mangiaracina - significa offrire ai detenuti non solo un’opportunità formativa ma anche un momento di riflessione e crescita personale. La collaborazione tra Gaia, Telefono Azzurro e l’istituto penitenziario rappresenta un esempio virtuoso di come il territorio possa fare rete per promuovere inclusione e sensibilizzazione su temi fondamentali come il rispetto dell’ambiente”. “Cerchiamo di essere presenti con il nostro progetto educativo anche in contesti complessi come questo - ha sottolineato Michela Consigli di Gaia - dove ogni giorno le persone affrontano sfide profonde e vengono messe alla prova. Offrire un’occasione di apprendimento è un modo per creare ponti e accendere riflessioni che vanno oltre una attuale situazione di detenzione. Come Gaia, crediamo che l’educazione ambientale e la consapevolezza del valore dell’acqua possano essere anche uno strumento di inclusione e speranza”. A guidare la lezione è stato il tecnico dell’azienda Alfredo Brunini, con attività e momenti di condivisione. “Sono momenti fondamentali all’interno di un contesto complesso- ha aggiunto Mariagiovanna Guerra, referente della Fondazione Telefono Azzurro e del progetto ‘Bambini e carcere’ all’interno della struttura -. La collaborazione con realtà come Gaia arricchisce il nostro lavoro e permette di offrire esperienze significative, in questa occasione con gli adulti tra cui alcuni dei papà che frequentano la ludoteca con i figli minori. Prossimamente Gaia tornerà e nella Ludoteca coinvolgerà con il suo progetto anche i più piccoli alla scoperta dell’acqua”. La speranza di Francesco e l’eredità di Pannella di Giorgio Borrini Il Giornale, 20 maggio 2025 Nella San Pietro che ha vissuto gli ultimi sospiri di Francesco, circolava un libretto. Era il messaggio del Papa per la 58ª Giornata mondiale per la pace, che ha aperto l’anno giubilare. “Rimetti a noi i nostri debiti, concedici la tua pace” le parole scelte da Francesco per il suo ultimo messaggio al mondo. Un testamento, direbbero in molti. Morale. Politico. Intellettuale. Quel libretto è ancora lì, ristampato e sempre in cima agli scaffali della Libreria Editrice Vaticana, a pochi passi dal cupolone. Lo continuano a sfogliare cardinali, pellegrini e curiosi, anche dopo l’insediamento di Leone XIV. Dentro c’è l’eredità di un Papa. E tre proposte, rivolte ai potenti della Terra. Primo: cancellare il debito del Sud del mondo, riconoscendo l’esistenza di un “debito ecologico” contratto nei secoli. Secondo: abolire la pena di morte, riaffermando la dignità della vita umana in una visione universalistica. Terzo: creare un fondo globale - finanziato con parte delle spese militari - per combattere la fame, investire in educazione e conoscenza, crescita sociale e sviluppo sostenibile. Non un appello ideologico al disarmo, ma un invito a ricostruire e ad abbattere le disuguaglianze: il vero nemico, per Francesco, del nostro tempo. Sembra un manifesto di Marco Pannella, scritto trent’anni fa. Sono i suoi temi, oggi ripresi da una figura solo in apparenza distante per ruolo, linguaggio e tradizione. E invece, a ben guardare, così vicina. “Ti voglio bene”, scriveva Pannella a Papa Francesco dal suo letto d’ospedale, quando combatteva la sua ultima battaglia. A unirli è stato un legame profondo, più forte delle etichette che li separavano: l’amore per la vita, per gli ultimi, per la speranza. Spes contra spem. Pannella, che ha fatto del liberalismo una religione civile e delle libertà battaglie vissute sul proprio corpo, ha conosciuto la condanna di ogni liberale: vedersi riconosciute le proprie ragioni decenni dopo. Parliamoci chiaro: le sue idee sono sempre state largamente minoritarie. La storia gli ha dato ragione. Il tempo, non le persone. Denunciava il potere delle procure ai tempi di Tortora, entrava in carcere a urlare per i diritti degli ultimi, parlava di riduzione del debito quando sembrava un’eresia e molto altro. Trent’anni avanti, sempre. Per questo, sempre solo. Parlava di diritti, riscoprendoli inalienabili per ogni individuo proprio nel Vangelo, rivolgendosi a una società che non lo comprendeva. Eppure continuava, accompagnandola con il corpo maltrattato da scioperi e sigari. Oggi viviamo in un’Italia più laica e per questo più utile alla Chiesa, non più eurocentrica e chiamata a mantenere un rapporto con la contemporaneità. Anche grazie a Francesco si parla di carceri disumane, di fame, di ricostruzione con parte dei fondi destinati al riarmo. Temi attuali, che erano di Pannella e già ripresi da Leone XIV. L’ultimo messaggio di Francesco non è stato solo un atto pontificale: è una dichiarazione politica. È l’eredità di Pannella che riemerge, portata da una mano inattesa. Dopo la morte di Francesco si sono affollati, anche goffi, i tentativi di appropriarsi della sua eredità politica, da ogni parte. Oggi il tema è quale eredità raccolga il suo successore, Prevost. Eppure, tra i tanti, forse il più vicino a Francesco era proprio Pannella. Il vecchio radicale. Nel voler interpretare l’eredità di Francesco, pochi si accorgono che potrebbe essere già lì, sulle spalle di un uomo che non c’è più. Ma che a nove anni dalla scomparsa continua ad abitare questa nostra, arruffata società italiana. Per un’etnografia ibrida del mondo del carcere di Francesca Cerbini* Il Manifesto, 20 maggio 2025 Un’anticipazione dai Dialoghi di Pistoia, al via il 23 maggio. L’intervento dell’antropologa autrice di “Prison Lives Matter”, per Elèuthera. Durante la pandemia da Covid-19, chi non è mai stato in carcere ha sperimentato la costrizione del confinamento. Per alcune e per alcuni, la casa si è improvvisamente rivelata nella sua forma più rassicurante: un luogo di protezione e di cura di sé e dei propri cari. Per altri invece si è trasformata in uno spazio di sofferenza, inospitale e talvolta minaccioso: una prigione. E di fatto, per la maggior parte delle persone detenute, la prigione, per quanto dimora abituale, è stata sempre ben lungi dal potersi considerare una casa. È piuttosto “Il ventre della bestia” come l’ha chiamata Jack Abbott nel suo bestseller. Dall’Europa all’Africa al continente americano, numerosi studi etnografici e qualitativi rigorosi e di lunga durata hanno alterato i tropi del nostro senso comune sul carcere, mettendo tra l’altro in luce importanti tratti di “domesticità” e addomesticazione dell’ambiente penitenziario. Ricercatori e ricercatrici hanno tratteggiato un carcere non più così “totale”, cioè completamente separato dalla società, e neanche semplice prolungamento sociologico del ghetto. Ne hanno esaltato piuttosto i confini porosi e l’integrazione in un sistema in cui legalità e illegalità, formalità e informalità, chiuso e aperto non sono poi così diversi, configurando al contempo un luogo in cui tutto sommato poter “abitare”. È così che queste letture ricostruiscono insieme all’immaginario anche i nostri valori e i nostri orizzonti morali, senza mai edulcorare la critica ad una delle istituzioni più intollerabili e obsolete delle nostre società. Cosa succede, quando le “porte chiuse, alte mura, filo spinato, rocce, corsi d’acqua, foreste o brughiere”, come recita l’ormai classico testo di Goffman sulle istituzioni totali, non sono più le componenti essenziali che definiscono l’esperienza dell’incarcerazione? Quando un carcere assomiglia a un quartiere della città? Quando gruppi esterni o interni alle carceri ne assumono il controllo? Quando l’incarcerazione di massa selettiva riempie ogni piccolo spazio di vita? Negli ultimi anni la ricerca antropologica e sociologica ha messo in discussione molte delle immagini “classiche” del carcere tramandate da opere scientifiche, romanzi e inchieste giornalistiche, i quali hanno retroalimentato cinematografia, programmi televisivi e serie truculente, cristallizzati nella versione più sensazionalista e polarizzata della lotta tra buoni e cattivi: i captivi, per l’appunto. L’apporto forse più importante di queste etnografie, oltre alla restituzione di un vissuto resistente alla multiforme violenza del carcere, consiste nell’aver esplorato e riconfigurato tanto le connessioni, i legami e le continuità con l’esterno, ovvero la porosità dei confini del carcere, tanto le sue dinamiche gestionali, presentando un ventaglio di pratiche “ibride” di governo del penitenziario difficilmente ascrivibili a formule teoriche univoche e cristallizzate. A scardinare la lente teorica attraverso cui si guarda l’istituzione penitenziaria è dunque un cambio di prospettiva: pensare il carcere partendo dai soggetti che lo vivono e lo abitano, o meglio, a partire dalla loro “visione del mondo”, come direbbero antropologhe e antropologi. Tentando dunque di decolonizzare i saperi e gli immaginari sul carcere, in un continuo rimando tra contesti molto diversi senza indugiare soltanto sulle differenze, sulle discrepanze, sulle mancanze del carcere del Sud globale a beneficio implicito (o esplicito) delle carceri del Nord, le etnografie presentate nel contesto del festival (Dialoghi di Pistoia) hanno messo in risalto il protagonismo che la comunità carceraria si è guadagnata in questi ambienti in cui, assumendo talvolta il ruolo manageriale dello Stato nelle sue diverse funzioni di controllo, protezione e sostento degli internati, sono state in grado o sono state messe nelle condizioni di sviluppare un potenziale negoziale senza precedenti. In questo percorso, si prende spunto dalle ricerche di sociologi, antropologi, criminologi che sono stati in grado di raccontarci una storia diversa sul carcere senza abbandonarsi mai alla celebrazione di un modello, senza abdicare alla prospettiva critica e senza abbracciare il linguaggio e la narrazione autolegittimante di un’istituzione in cui la violenza, straordinaria e ordinaria, sono il punto di partenza e non il fine ultimo dell’analisi teorica e della riflessione metodologica. Le vite delle recluse e dei reclusi divengono così la lente d’ingrandimento attraverso la quale capire i meccanismi di produzione e riproduzione dell’istituzione, laboratorio di un futuro distopico votato alla costruzione di un mondo sotto controllo, sempre più pericoloso per i dannati della terra, come scrive Franz Fanon e per i diseredati della colonia, citando invece Rita Laura Segato. Un mondo a cui le persone recluse, con le risorse di ordine materiale e simbolico di cui dispongono, cercano di mettere ordine, cercano di attribuirgli un senso secondo i propri principi, creando allo stesso tempo resistenza, ribellione ovvero l’unico modo possibile di abitare il carcere. *L’intervento di Francesca Cerbini al festival Dialoghi di Pistoia (23-25 maggio) si terrà sabato 24 alle ore 15 nell’Antico Palazzo dei Vescovi (con bis alle ore 18). La XVI edizione del festival di antropologia del contemporaneo, diretto da Giulia Cogoli, è dedicata a “Stare al mondo. Ecologie dell’abitare e del convivere”. Ne discutono antropologi, scienziati, filosofi, artisti, architetti, psicologi, scrittori. Tra gli ospiti, Telmo Pievani, Francesca Mannocchi, Filippo Barbera, Chiara Saraceno, Loredana Lipperini, David Quammen, Gabriele Del Grande, Ascanio Celestini, Ginevra Di Marco, Franco Arminio. “La toga o la vita”. Raccontare la giustizia senza sconti (di pena) di Luca Taddio Il Riformista, 20 maggio 2025 Nel tempo in cui la giustizia si consuma sui social prima che nei tribunali, e in cui la legge si piega al ritmo del consenso mediatico, c’è qualcosa di sorprendentemente anacronistico e per questo prezioso in La giustizia raccontata. Il libro scritto a quattro mani da Luca Ponti e Luca De Pauli, avvocati di lungo corso, è un’opera che unisce la riflessione etico-professionale alla narrazione esperienziale, con lo stile leggero della conversazione e la gravitas di chi conosce a fondo le pieghe della vita giudiziaria. Che cosa vuol dire, oggi, essere avvocato? Non è solo una professione, ci ricordano gli autori, ma un esercizio di umanità in un mondo che tende a disumanizzare: l’avvocato è il soggetto che si incarica della difesa, della mediazione, dell’ascolto. È figura tecnica, certo, ma anche e soprattutto antropologica: uno snodo sensibile tra la norma e la carne, tra l’astrazione del diritto e la singolarità di ogni vita. A suo modo, è un filosofo pratico della verità, un terapeuta della parola e un testimone del tempo. Il libro è costruito per brevi quadri tematici, quasi fossero schede o frammenti. Una forma “modulare”, direbbe qualcuno, che consente al lettore di comporre un mosaico delle diverse declinazioni della figura forense: l’avvocato penalista e quello civilista, l’avvocato d’impresa e quello investigatore, il docente e il mediatore, il comunicatore e il giurista “di sport”. Ma ciò che più colpisce non è tanto la varietà delle figure, quanto l’unità dello sguardo: una continua tensione a restituire all’avvocato il suo posto nella polis. Non solo nell’aula di giustizia, ma nella società tutta. Ciò che ne emerge è una figura profondamente in crisi, ma non per questo minore: crisi di ruolo, di riconoscimento, di sostenibilità economica, di reputazione sociale. In un tempo in cui l’intelligenza artificiale promette di sostituire (o forse soltanto svuotare) molte delle sue funzioni, l’avvocato viene qui pensato come colui che custodisce un sapere incarnato: la capacità di interpretare il non detto, di gestire l’ambivalenza, di portare la parola giuridica oltre i formalismi. Il libro è attraversato da un doppio tono, complementare: ironico e disilluso da un lato, quasi elegiaco dall’altro. L’autoironia sugli stereotipi della categoria si alterna a un rispetto profondo per la funzione democratica dell’avvocato, come garante delle libertà e presidio contro gli abusi del potere. Un’idea che suona antica ma che, proprio per questo, parla al futuro. In un paese che discute di riforme giudiziarie senza mai nominare davvero la cultura giuridica, questo libro è un gesto di resistenza. E, insieme, un invito: a pensare la giustizia non solo come macchina o procedura, ma come racconto condiviso. Perché, come ricorda Tommaso Cerno nella sua prefazione, “un giorno, seduti là, potremmo esserci noi”. Se tutto si può comprare: Trump e il venir meno di patto sociale e diritti di Sergio Labate* Il Domani, 20 maggio 2025 Nessuno sembra più scandalizzarsi se il presidente di un grande paese occidentale esibisce i suoi affari con alcuni dei paesi più ricchi e meno democratici del mondo. Eppure è proprio in questi suoi viaggi che egli svela l’essenza del suo programma politico: più soldi ci saranno per pochi, meno diritti ci saranno per tutti. Pecunia non olet. Nessuno sembra più scandalizzarsi se il presidente di un grande paese occidentale esibisce i suoi affari con alcuni dei paesi più ricchi e meno democratici del mondo. A maggior ragione se questo presidente risponde al nome di Donald Trump, la cui primitività della razionalità politica è cosa nota: tutto si riduce ad affari - che riguardino gli Stati Uniti o soltanto la sua ditta personale, come spiegava magistralmente Mario Del Pero su questo giornale qualche giorno fa. Ma questo apparente episodio senza troppa importanza ci permette di fare alcune considerazioni più ampie sullo stato di salute delle democrazie occidentali. Che la politica segua la ricchezza, non è una novità. Vale per Trump e vale per l’ultimo dirigente di un’azienda, che sarà attratto da chi può portargli dei soldi. Non è questo che deve scandalizzare. Ma la funzione della politica non è mai stata semplicemente quella di garantire la circolazione di ricchezza tra i ricchi, piuttosto quella di permette una redistribuzione più ampia. Con una formula, potremmo dire che il compito della politica era quello di permettere - anche tramite il controllo della ricchezza dei ricchi - la persistenza del legame sociale tra classi sociali diversissime tra loro. Perché un super-ricco e un lavoratore povero dovrebbero stare insieme all’interno di un’unica società? La risposta a questa domanda non solo non è banale ma ha richiesto, nel corso dei secoli, un costante aggiustamento del tiro (si veda il bel libro di Guido Alfani, Come dèi tra gli uomini. Una storia dei ricchi in Occidente, 2024). Per fare solo un esempio, la ricchezza dei ricchi è stata utile in particolari situazioni di crisi economica complessiva della società. Anche questo legittimava l’esistenza di super-ricchi all’interno di una società: il fatto che il loro patrimonio privato fosse in ultima istanza un tesoro cui attingere per redistribuire quando la società rischiava la propria dissoluzione. Questa funzione correttiva della ricchezza è completamente venuta a mancare negli ultimi decenni: anche in situazioni di crisi estreme come il Covid non sono stati i più ricchi a rimetterci, ma i più poveri e meno tutelati. Le democrazie liberali avevano in qualche modo istituzionalizzato - almeno in forma regolativa e con tutte le finzioni che la storia ci ha consegnato - la separazione tra i potenti e i ricchi, introducendo due principi fondamentali. Il primo: che la ricchezza non può comprare tutto, perché è anch’essa sottoposta al primato dei diritti. Il compito di chi detiene il potere è innanzitutto quello di garantire i diritti di tutti, non di incrementare la ricchezza di pochi. Per questo gli atteggiamenti di Renzi o di Trump - di coloro che non si fanno problemi a stringere accordi con stati la cui ricchezza proviene anche dal non rispetto dei diritti fondamentali - ci disturbano: perché vengono meno al principio per cui dentro una democrazia moderna i diritti non possono essere barattati con la ricchezza. Il secondo: che i potenti sono tali non perché sono ricchi, ma perché possono controllare i ricchi. È il principio del conflitto di interesse, di cui si capisce immediatamente l’utilità pubblica: il controllore non può essere il controllato e chi possiede il potere (di controllo) non può avere troppi intrecci - almeno formalmente - con i più ricchi. Si può intuire che il non rispetto di entrambi questi principi segnala una malattia incurabile per le nostre democrazie: se politica e capitalismo finiscono per diventare indistinguibili, il prezzo da pagare sarà la dissoluzione potenziale delle società, per cui i ricchi avranno sempre di più disinteressandosi del destino degli altri e gli altri non capiranno il motivo per rispettare il patto sociale che gli impone di non prendersela coi ricchi. La fine del patto sociale: è questo lo scenario finale che ci attende alla fine del precipizio che abbiamo intrapreso. Non c’è solo una gravità politica negli intrecci di affari che Trump esibisce senza vergogna. C’è anche una gravità per così dire estetica: una dissoluzione quasi plastica del compito fondamentale del politico di garantire il legame sociale tra classi differenti - il super-ricco e il lavoratore povero uniti sotto la stessa bandiera. Le conseguenze concrete di questo atteggiamento sono note. Trump si sente investito di un doppio compito che snatura il senso stesso del potere all’interno di una democrazia: da un lato andare in giro per il mondo per incrementare i profitti e i guadagni degli uomini più ricchi - compreso sé stesso; d’altro lato svuotare ogni investimento di denaro pubblico che abbia la funzione di correggere le diseguaglianze e far rispettare i diritti di tutti. Più soldi ci saranno per pochi, meno diritti ci saranno per tutti. Altro che democrazia borghese, qui siamo decisamente dentro un neofeudalesimo sempre più esibito e trionfante. *Filosofo