Affollamento in carcere occorre ridurre le pene di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 19 maggio 2025 La Russa apre alla proposta di Giachetti. Ora il Parlamento approvi la legge. L’attuale situazione dei nostri penitenziari certifica la resa dello Stato. Il Governo è impegnato per la conversione in legge del decreto-legge sicurezza dopo il forte strappo istituzionale della “blindatura” di una proposta che aveva incontrato difficoltà in Parlamento. La proclamata finalità securitaria, l’introduzione di numerosi nuovi reati e l’aggravamento delle pene produrrebbero un aumento dei detenuti, tale da rendere ancor più drammatica la situazione del sovraffollamento con tutte le tensioni che ne derivano. Elon Musk nei mesi scorsi è più volte intervenuto sulle vicende della giustizia italiana, ma si deve ritenere che l’ipotesi di “delocalizzare” su Marte una parte dei detenuti nelle nostre galere non sia ancora praticabile. E allora, con l’autorevolissimo avallo del presidente del Senato La Russa, riemerge la proposta, a suo tempo avanzata dall’onorevole Giachetti, di un ampliamento delle riduzioni di pena consentite per ogni semestre di pena scontata. Giusto un anno fa il ministro Nordio si era affrettato a bollare quella proposta come “una resa dello Stato”. Resa dello Stato è l’attuale situazione delle nostre carceri. Ovunque nel mondo sono previste misure di riduzione di pena per buona condotta. Il nostro istituto della “liberazione anticipata” non è automatismo, non basta la sola buona condotta (mancanza di sanzioni disciplinari), ma si richiede la “partecipazione all’opera di rieducazione”. La demagogia securitaria almeno si misuri con la razionalità. In nessun Paese e in nessun tempo più carcere ha portato più sicurezza. Ma ciò che non può un approccio razionale alla questione della pena e del carcere sembra lo ottengano vicende particolari: una lettera scritta dell’ex ministro Gianni Alemanno, ora detenuto a Rebibbia in espiazione di pena, al senatore La Russa sulle drammatiche condizioni delle nostre galere. Il ministro della Giustizia ha mantenuto la delega nel settore penitenziario al sottosegretario Del Mastro, che nel novembre scorso esprimeva “una gioia non lasciare respirare chi sta nell’auto della penitenziaria”. Ed allora potrebbe definitivamente adottarlo come maitre à penser cogliendo lo spunto di una più recente dichiarazione dello stesso onorevole Del Mastro: “Nella mia persona convivono entrambe le pulsioni sia quella garantista che quella giustizialista a corrente alternata, secondo le necessità”. In realtà non si tratta neppure di essere garantisti o “buonisti”. Condizioni carcerarie incivili aumentano le pulsioni antisociali e sono controproducenti anche dal punto di vista della prevenzione della recidiva e dunque della “sicurezza” razionalmente intesa. Pensiamo davvero che “abbonare” due o tre mesi di carcere a chi è prossimo al fine pena aumenti le probabilità di recidiva? Meglio lasciarlo “marcire in carcere” qualche mese ulteriore in situazioni di intollerabile sovraffollamento? L’apertura manifestata dal senatore La Russa ha visto l’immediato sostegno del vicepresidente del Csm Fabio Pinelli. Lo scorso anno nelle audizioni in Parlamento diversi presidenti dei tribunali di sorveglianza hanno avanzato puntuali osservazioni tecniche sulla proposta di allargamento della liberazione anticipata, che - allora ignorate per andare all’inutile e dannoso Decreto carcere - oggi potrebbero contribuire a una rapida approvazione, con le opportune modifiche, della proposta Giachetti. Nel 1998 fu approvata una legge che evitò l’immediato ingresso in carcere di chi poteva essere ammesso a misure alternative, legge chiamata Simeone-Saraceni dai due parlamentari proponenti, il primo di Alleanza nazionale e il secondo di Rifondazione comunista. Il Parlamento potrebbe e dovrebbe replicare la virtuosa scelta bipartisan di allora con una legge che poterebbe essere ricordata come “La Russa-Giachetti”. Meglio tardi che mai, approvarla oggi dopo un anno che ha visto permanere l’insostenibile situazione carceraria, con il dramma dei suicidi, le tensioni costanti e le difficoltà del lavoro della polizia penitenziaria. L’effetto immediato sarebbe di una modesta, ma pur significativa riduzione del sovraffollamento, ma soprattutto, a voler essere nonostante tutto ottimisti, potrebbe essere un segnale se non di abbandono, almeno di “moratoria” degli eccessi securitari. REMS: tra criticità e prospettive future di Chiara Airoma centrostudilivatino.it, 19 maggio 2025 Un dialogo a più voci tenutosi nella giornata del 15 maggio presso il Consiglio Superiore della Magistratura sul tema delle REMS. Nella giornata del 15 maggio si è tenuto presso il Consiglio Superiore della Magistratura un convegno dal titolo “REMS: Stato dell’arte e prospettive di intervento”. Le REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) sono strutture sanitarie che accolgono persone affette da disturbi mentali che hanno commesso un reato e che per questo sono state sottoposte a una misura di sicurezza detentiva. Queste strutture, a differenza dei precedenti e poi aboliti Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG), si dovrebbero concentrare sulla cura e la riabilitazione delle persone, offrendo loro cure specifiche (che non potrebbero ricevere in carcere) in un ambiente protetto, nonché un percorso di reinserimento sociale. Il convegno in oggetto, introdotto dalla presentazione del documento del CSM in materia di REMS da parte del Consigliere Tullio Morello, è stato articolato in tre diverse sessioni nelle quali si è discusso della situazione attuale e delle criticità, del binomio tra cura e custodia ed infine delle proposte per il futuro. È stato un dialogo a più voci dove figure operanti in diversi ambiti hanno riportato il proprio punto di vista. Vi è stato, infatti, il punto di vista degli operatori sanitari, degli psichiatri, di coloro che operano a stretto contatto con le strutture REMS. Interessanti, sotto questo profilo, gli spunti di riflessione e le osservazioni della Dott.ssa Alessia Cicolini (Direttrice della REMS presso ASST Mantova), del Dott. Marco Mattei (Capo di Gabinetto del Ministero della Salute), del Prof. Alberto Siracusano e del Dott. Giuseppe Nicolò (rispettivamente Coordinatore e Coordinatore vicario del Tavolo tecnico per la salute Mentale), del Dott. Giuseppe Nese (Coordinatore P.U.R. Campania) e del Dott. Giancarlo Cerveri (Coordinatore P.U.R. Lombardia). In particolare, sotto il profilo psichiatrico/sanitario, i relatori si sono soffermati sulla necessità di un’adeguata specializzazione del personale sanitario ed hanno altresì affrontato il tema delle liste di attesa (criteri di priorità, loro attendibilità, soggetti irreperibili). Non sono mancati riferimenti alla necessità di garantire la dovuta sicurezza al personale sanitario operante nelle strutture, considerati i casi di aggressione che si sono registrati. Si è riflettuto, inoltre, sulla differenza tra pericolosità sociale e pericolosità psichiatrica, condizioni che non sempre camminano di pari passo, potendosi verificare ad esempio che la fine della pena edittale non coincida con la fine del periodo di permanenza necessaria in REMS perché il soggetto non è ancora guarito dalla sua condizione clinica (Dimissibilità psichiatrica e dimissibilità forense). Altro interessante tema di cui si è parlato è quello relativo alla mancata registrazione dei pazienti collocati in REMS (foto segnaletica, DNA). Nella prima sessione, moderata dal Consigliere Antonello Cosentino, è intervenuto anche il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, Dott. Marcello Bortolato, che tra i vari argomenti trattati, ha anche affrontato la possibilità della creazione di REMS ad alto contenimento, articolate tra nord, sud e centro che possano ospitare quei soggetti definiti inemendabili o a massima pericolosità e per i quali è stata pronunciata una prognosi negativa di guarigione a lungo termine, in modo da destinarli a strutture specifiche rispetto a soggetti per i quali la pericolosità non è così elevata. La seconda sessione, moderata dalla Consigliera Daniela Bianchini, componente del Centro Studi Livatino, ha dato spazio anche alla voce del mondo giudiziario con gli interventi della Dott.ssa Cristina Ornano (Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari), del Dott. Ernesto Napolillo (Direttore generali dei detenuti) e del Dott. Riccardo Turrini Vita (Presidente del Garante Nazionale delle persone private della libertà personale). In questa sessione, in particolare, è stato affrontato il tema del rapporto fra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), le diverse REMS dislocate sul territorio e il Ministero della Salute e sono state messe in evidenza le difficoltà comunicative riscontrate, con le relative conseguenze in ordine alla condivisione dei dati; si è posto il tema della necessità di un testo unico a cui fare riferimento e si è inoltre posta l’attenzione sul problema delle errate diagnosi di psicosi (spesso affidate a periti non adeguatamente formati) che condizionano anche le decisioni del magistrato. Un tema su cui i relatori si sono confrontati, facendo emergere posizioni diverse, è quello relativo all’aumento dei posti nelle REMS. Quest’ultimo aspetto è particolarmente serio, in quanto, laddove non sia possibile l’inserimento in una REMS per mancanza di posto, il magistrato si ritrova dinanzi alla scelta di lasciare il soggetto in carcere (scelta non legittima perché il soggetto dovrebbe essere collocato in strutture apposite), di collocare il soggetto in SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) o di mutare la misura di sicurezza da detentiva a non detentiva, ma senza che ciò sia stato determinato dal venir meno della pericolosità del soggetto. Sono stati, tanti, infatti i casi di soggetti che, in attesa di essere collocati in REMS, hanno commesso altro reato (spesso anche più grave) o che addirittura si sono suicidati perché non hanno ricevuto le cure mediche di cui necessitavano. Tuttavia, è stato osservato da alcuni che la questione dei posti nelle REMS va affrontata anche valutando con attenzione le persone da inserire nelle residenze. Non è mancata la voce dell’avvocatura, rappresentata dagli avvocati Antonella Calcaterra e Michele Passione, che hanno portato il punto di vista di coloro che garantiscono il diritto di difesa alle persone affette da disturbi mentali. Sono tanti, quindi, gli aspetti trattati in questo proficuo dialogo a più voci, così come tante sono state le proposte per il futuro, oggetto della terza sessione moderata dalla Consigliera Bernadette Nicotra e preceduta da un intermezzo teatrale, dove l’attore Daniele Russo ha voluto rendere omaggio alla tematica affrontata leggendo un brano tratto dal romanzo “Delitto e Castigo” e poi l’ultimo discorso tenuto da Vanzetti nel processo che lo condannò a morte insieme all’amico Sacco. Tra le varie proposte emerse si segnalano la necessità di concentrarsi sulla specializzazione del personale sanitario e di garantire loro assistenza e sicurezza (spesso hanno paura di lavorare in REMS), di migliorare la comunicazione tra le singole REMS operanti a livello regionale e i Ministeri (Salute e Giustizia), di implementare i reparti di ATSM (Articolazione Tutela Salute Mentale) presenti all’interno degli istituti penitenziari, di formare adeguatamente e aumentare le equipe forensi (avvocati, periti, assistenti sociali). In particolare, in relazione alla figura dei periti, il Dott. Francesco Patrone (GIP del Tribunale di Roma) si è soffermato sulla necessità di prevedere albi specifici (adeguando il compenso all’impegno oneroso) e sul corretto svolgimento dell’incarico peritale sia nei tempi che nei modi (il perito dovrebbe, infatti, incontrare più volte il soggetto ai fini di una perizia precisa e accurata e invece spesso accade che queste vengano redatte senza aver mai visto il soggetto o dopo solo una volta). Le altre proposte avanzate sono state quelle di migliorare l’interlocuzione tra magistratura e i servizi territoriali preposti anche mediante la predisposizione di protocolli nonché di ottimizzare - come sottolineato dal Presidente della Corte di Appello di Brescia, Dott.ssa Giovanna di Rosa - tutta la funzionalità del sistema (come le notifiche di udienze per il riesame della pericolosità, i colloqui, la libertà vigilata in comunità psichiatriche, la previsione di termini di prescrizione più rigidi per situazioni di detenzione domiciliare) ed infine, l’opportunità di differenziare tra soggetti con pericolosità sociale elevata (da collocare in strutture residenziali) e soggetti con pericolosità sociale bassa (da affidare a diverse sedi di cura o comunità presenti sul territorio). Insomma, il tema è sicuramente cruciale e merita un attento esame, perché coinvolge diritti fondamentali della persona che non ammettono compromessi: tutela della libertà personale (art.13 cost.), garanzia ex art. 25 co.3 cost., tutela del diritto alla salute inteso non solo come diritto dell’individuo, ma anche come interesse della collettività e quindi come tutela della sicurezza dei cittadini (art. 32 cost.). Il Garante dei detenuti Francesco Maisto: “Un danno ridurre i benefici dopo il caso De Maria” di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 19 maggio 2025 L’ex magistrato difende la scelta dei suoi colleghi: “Avrei fatto anch’io la stessa scelta: per ottenere i permessi al detenuto non si chiede solo buona condotta, ma molto di più”. “Avrei fatto le stesse cose che ha fatto il magistrato di sorveglianza. Tra le migliaia di casi che vanno a buon fine, questo è un’eccezione”. Così Francesco Maisto, garante dei detenuti del Comune di Milano e già presidente del tribunale di Sorveglianza di Bologna, legge la storia di Emanuele De Maria, il detenuto di Bollate ammesso al lavoro esterno in un hotel che ha ucciso la collega Chamila Wijesuriya e quasi ammazzato un altro dipendente, Hani Nasr, prima di suicidarsi buttandosi dal Duomo. Maisto, De Maria, arrestato nel 2018, tre anni dopo arriva a Bollate e nel 2023 ottiene il lavoro esterno. Un tempo congruo? “C’è una progressività nel passaggio dall’interno all’esterno del carcere. Ci sono scadenze, passaggi intermedi. Non è solo una questione di buona condotta: si chiede tanto di più”. De Maria aveva alle spalle un omicidio... “Se si fosse concesso il lavoro esterno a chi ha reati ostativi, ci sarebbero state certamente delle responsabilità. Ma se non c’è uno sbarramento legislativo, il tipo di reato in sé viene meno ai fini della valutazione. Si valuta la persona, per esempio l’appartenenza a un’organizzazione criminale. Il fatto che una persona abbia commesso un omicidio non è significativo del fatto che ne commetterà altri”. In questo caso però è successo... “Tra le migliaia di casi a buon fine, questo è stato un caso eccezionale. Non è il primo. Molti dimenticano il caso di Angelo Izzo. Da Bollate entrano ed escono ogni giorno più di duecento persone. Il rigore nell’applicazione delle misure è controllato in particolare dalla polizia penitenziaria. Le procedure di sospensione e revoca dell’articolo 21 sono rigorose: a volte viene tolto non per la commissione di altri reati, ma per la violazione di una singola prescrizione”. Come si concede l’articolo 21? “So come lavora il Gruppo osservazione e trattamento di Bollate. Si parte dall’offerta di alcune attività interne come scuola, università, lavoro in carcere, giustizia riparativa. Poi si definice un programma di trattamento. Che non porta necessariamente all’articolo 21: ci sono una serie di proposte che il Gruppo trasmette al direttore e che poi vengono inviate al magistrato di sorveglianza per l’approvazione. In caso di proposta di lavoro, si chiedono informazioni alla polizia. È un percorso collegiale e rigoroso. Molto più di una volta: ricordo un detenuto ammesso al lavoro esterno che fregò la macchina blindata del direttore mentre era al ristorante...”. Lei sulla vicenda De Maria cosa avrebbe fatto? “Le stesse cose che ha fatto il magistrato di sorveglianza”. L’inchiesta punta a capire se ci sono state sottovalutazioni. Lei non ne vede? “Se si cercano le responsabilità, o sono di tutti o di nessuno. Difficile individuare il punto preciso dove si annida la colpa professionale, la disattenzione, la sciatteria”. Da quello che emerge, Chamila Wijesuriya aveva paura di De Maria... “In caso di anomalie comportamentali, soprattutto il datore di lavoro deve segnalare al carcere. Con questo non sto dicendo che il titolare dell’hotel abbia sbagliato: probabilmente non ne sapeva niente”. Teme una riduzione di questi benefici? “Mi auguro di no. Sarebbe umano se ci fosse un rallentamento nel breve termine. Ma sarebbe un danno. Non è buonismo. C’è una certa imprenditoria illuminata che è interessata al loro lavoro. Bisogna muoversi con cautela prima di sfregiare un ordinamento costruito nel tempo e che ha già subito restrizioni”. Torino. Si impicca in carcere poche ore prima dell’udienza di convalida dell’arresto di Andrea Bucci La Stampa, 19 maggio 2025 Detenuto di 42 anni arrestato in corso Giulio Cesare e portato al Lorusso e Cutugno domenica: il cadavere trovato oggi alle 6 in cella. Un detenuto del carcere Lorusso e Cutugno, Hanid Bodoui, 42 anni, si è tolto la vita poche ore prima di essere portato in tribunale dove era atteso per l’udienza di convalida dell’arresto. Si tratta di un uomo arrestato per resistenza a pubblico ufficiale nella notte tra sabato e domenica in corso Giulio Cesare. La tragedia all’alba - Si è impiccato nella sua cella - decima sezione padiglione B - e il corpo senza vita è stato trovato questa mattina alle 6 dagli agenti della polizia penitenziaria. In carcere era arrivato ieri, domenica 18 maggio. Stamattina era atteso in aula per l’udienza di convalida davanti alla giudice Federica Bompieri, che ha invece dovuto prendere atto del decesso. Cordoglio e denuncia del sindacato - Vicente Santilli, segretario per il Piemonte del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe), esprime innanitutto “il nostro profondo cordoglio per la perdita di una vita umana”. “È sempre doloroso, per chi lavora nel mondo penitenziario - porsegue - trovarsi di fronte a simili tragedie che lasciano un senso di impotenza e di profonda amarezza. Ma ancora una volta, siamo costretti a sottolineare quanto la questione del disagio psichico e del rischio suicidario all’interno degli istituti penitenziari rappresenti una vera emergenza nazionale”. La Polizia Penitenziaria, ribadisce il sindacato, “continua a operare in condizioni di costante tensione, spesso in solitudine operativa e senza gli strumenti idonei per affrontare adeguatamente situazioni così complesse”. Santilli ricorda che il Sappe “ha più volte richiamato l’attenzione delle istituzioni sulla necessità di potenziare i servizi di assistenza psicologica, rafforzare l’organico, migliorare la formazione specifica e garantire presìdi adeguati alla prevenzione dei gesti autolesivi. Non possiamo più limitarci alla conta delle tragedie, occorre un cambio di passo concreto e immediato”. Caserta. Piana di Monte Verna, apre il centro “Nogaro”: un nuovo punto di accoglienza detenuti di Ornella Mincione Il Mattino, 19 maggio 2025 Casa Accoglienza “Raffaele Nogaro” sarà ufficialmente aperta al pubblico giovedì 29 alle 11: è l’associazione Generazione Libera odv a dare la notizia dell’inaugurazione della struttura situata in via Cipulli n. 14, a Piana di Monte Verna. “Questo importante progetto - si legge nella nota dell’associazione - nasce con l’obiettivo di fornire un sostegno concreto e un luogo sicuro per coloro che si trovano in una situazione di disagio e bisogno”. La casa di accoglienza infatti ospiterà i detenuti ed ex detenuti senza fissa dimora. “Invitiamo tutti coloro che desiderano sostenere questa causa a partecipare all’inaugurazione e a contribuire con il loro supporto alla realizzazione di questa importante iniziativa”, dicono ancora i referenti di generazione libera. In realtà, a fare luce sulla casa di accoglienza e sul suo significato è il lungo post di Facebook scritto dagli autori dell’associazione di volontariato. “Dentro le sue mura, si respira un’atmosfera di accoglienza e sostegno, dove i detenuti trovano una seconda possibilità di costruire un futuro migliore. I volontari della casa di accoglienza dedicano il loro tempo e la loro energia per aiutare detenuti a reinserirsi nella società, offrendo il loro supporto emotivo, formazione professionale e accompagnamento nella ricerca di un lavoro. Ogni giorno è un nuovo inizio, pieno di sfide da affrontare e successi da celebrare”. “Qui, ogni individuo è visto per la persona che è, con il potenziale per diventare qualcuno di migliore. È così, un giorno dopo giorno, la casa di accoglienza continua a essere un luogo di trasformazione e di crescita per tutti coloro che vi varcano la soglia”, concludono i volontari. Cuneo. Nel 2024 oltre 1.200 persone in carico all’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna di Simone Giraudi lavocedialba.it, 19 maggio 2025 Giovedì 15 maggio, in municipio a Cuneo, la commissione consiliare di illustrazione dell’Ufficio: con 16 funzionari e un educatore si occupano di tutto il territorio cuneese. In totale, nel 2024, in provincia di Cuneo sono state 1.253 le persone sottoposte a misure alternative al carcere che sono state interessate dai progetti dell’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna. Un dato importante, che va a comporre quello piemontese - 9.730 persone e 4.500 detenuti - e quello nazionale, che segna 142.773 persone in esecuzione penale esterna e 62.445 detenuti. A sciorinare i dati - nel corso dell’ultima riunione della VI commissione consiliare del Comune di Cuneo, occorsa nella serata di giovedì 15 maggio - le dottoresse Elena Boranga (direttrice dell’Ufficio) e Silvia Eicholzer. Presenti in sala Consiglio, oltre i commissari, anche il presidente Erio Ambrosino e il garante cittadino dei diritti dei detenuti Alberto Valmaggia. “Gli obiettivi nostri e del carcere si raggiungono solo collaborando con la collettività” - “La commissione di stasera è stata convocata come quarto momento d’incontro legato al tema del carcere, una sorta di chiusura del cerchio - ha detto Ambrosino nel suo intervento introduttivo -. Ho avuto il piacere, l’onore e la fortuna di conoscere l’UEPE nella mia attività professionale e mi sembrava giusto riservargli dello spazio”. L’Ufficio - che fa capo al Ministero della Giustizia come gli istituti penitenziari, ma a differenza di questi dal 2014 è stato accorpato al Dipartimento Giustizia Minorile di Comunità - si trova al quinto piano del cuneese Palazzo degli Uffici Finanziari e ospita 16 funzionari di servizio sociale, un educatore e quattro poliziotti penitenziari impegnati sull’intera provincia di Cuneo e i suoi quattro istituti. “Ci occupiamo prevalentemente di misure alternative al carcere, messe alla prova e tutte le pene sostitutive istituite con la legge Cartabia - ha detto la dottoressa Boranga -, con obiettivi del tutto identici a quelli del carcere stesso. Oltre ai lavori di pubblica utilità sosteniamo anche i detenuti nell’eventuale entrata nel mondo del lavoro vero e proprio, un’attività importante sia per la persona che esce dal carcere, sia per chi è in detenzione domiciliare. Per funzionare, però, abbiamo bisogno di una collettività che possa e voglia collaborare”. Le convenzioni: solo a Cuneo sono 29 i progetti aperti - Secondo Eicholzer i detenuti compresi nei progetti dell’UEPE non hanno commesso reati gravi a livello sociale o sono persone prima incensurate; alternativamente, hanno operato una “messa alla prova” - una misura che esisteva per i soli minori, ma che nel 2014 è stata estesa anche agli adulti -: gli imputati possono chiedere al tribunale di non andare a processo ma di entrare in un progetto d’intervento stabilito dall’UEPE come compensazione, una pratica che deflaziona i tribunali di processi in maniera alternativa. Insomma chi è condannato sconta la sua pena fuori dall’istituto penitenziario, con certe restrizioni, lavorando a favore del territorio e in un’ottica di restituzione alla società e di individuazione, nei coinvolti, di un senso di responsabilità sociale. “Per realizzarla davvero non servono solo le nostre competenze specifiche ma anche una rete di relazioni sul territorio solida e funzionale - ha aggiunto Eicholzer. Ed è complesso attuarla concretamente su un territorio provinciale così ampio come il nostro. Si è partiti con accordi a livello di Comuni e operatori sociali dedicati alle sole attività di volontariato, poi sono arrivate le convenzioni, realizzate dal tribunale ordinario di Cuneo e Asti”. Nel solo Comune di Cuneo sono 35 le persone coinvolte da attività legate alle convenzioni. Di queste, 29 le hanno proseguite anche nell’anno in corso. “Gli elementi di criticità più importanti nella nostra attività sono la mancanza di risorse economiche per imbastire i progetti e la carenza degli operatori, ovvero gli stessi di tutti gli attori del mondo sanitario con cui ci confrontiamo su base quotidiana - ha concluso Eicholzer. Attualmente, è chiaro, senza gli enti pubblici e le associazioni no profit non potremmo fare nulla”. Latina. Cella troppo piccola, Ministero condannato: ma dopo 5 anni ancora nessun risarcimento di Beatrice Tominic fanpage.it, 19 maggio 2025 Ha trascorso oltre 600 giorni fra Latina e Rebibbia in una cella troppo piccola. Il Ministero è stato condannato a ripagarlo, ma dopo cinque anni non è ancora arrivato alcune risarcimento al detenuto. Ha trascorso 130 giorni nel carcere di Latina e 510 in quello romano di Rebibbia in una cella più piccola di tre metri quadrati e in pessime condizioni, con poca luce e poca aria. L’uomo, un cinquantottenne della provincia di Latina, assistito dall’avvocato Antonio Cavaliere, ha presentato ricorso contro lo Stato e il Ministero della Giustizia, che alla fine è stato condannato a pagare al detenuto un risarcimento. Risarcimento che, a cinque anni dalla sentenza, non è mai arrivato. Vive in meno di tre metri quadrati per quasi due anni: cosa è successo - Il cinquantottenne ha vissuto in meno di tre metri quadrati, nella cella in carcere, per 21 ore al giorno e per quasi due anni. Dal novembre 2011 all’aprile del 2012 ha vissuto nel penitenziario di Latina, poi a Rebibbia, dall’aprile del 2012 fino all’agosto del 2013. In entrambi i casi ha lamentato condizioni igieniche degradanti e precarie, con poca luce, poca aria e poco spazio per muoversi. Condizioni che, come dichiarato dal detenuto, non sarebbero stati conformi al divieto di trattamenti inumani o degradanti, secondo l’articolo 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà. L’arrivo in Tribunale e la sentenza - Il procedimento è iniziato al Tribunale civile di Latina, che si è dichiarato incompetente, poi si è spostato a Roma, dove è stata emessa la sentenza. Il Ministero della Giustizia, però, ha chiesto il rigetto dell’istanza, come riporta Latina Oggi. Il giudice ha così esaminato le relazioni delle case circondariali e analizzato i due periodi di detenzione. “Per i detenuti lo spazio vitale era effettivamente inferiore a tre metri quadrati, detraendo dalla superficie utile calpestabile anche l’ingombro dei letti a castello - aveva scritto -Non vi è prova sufficiente dell’adozione di misure idonee, la relazione della Casa Circondariale risulta sul punto assai lacunosa ed inconcludente”. La sentenza è poi stata emessa nel settembre del 2020. A distanza di cinque anni, però, non sono arrivate ancora risposte da parte del Ministero della Giustizia sul risarcimento che spetta al detenuto. Genova. C’è un carcere in Italia dove i bambini vanno più volentieri a visitare i padri detenuti ilpost.it, 19 maggio 2025 È quello di Marassi, a Genova, in cui ci sono spazi colorati per giocare e professionisti che assistono le famiglie divise. Il carcere maschile di Marassi, a Genova, ha un ingresso speciale per i minori che vanno a trovare i loro padri detenuti. Dà direttamente sulla strada, e non c’è nessun metal detector da attraversare, nessun cane antidroga che annusa, e nessun suono disturbante di sbarre che scorrono: oltre la porta ci sono pennarelli, libri e giochi, e anche alcuni professionisti tra educatori e psicologi che intrattengono i minori mentre i familiari svolgono la lunga trafila di controlli per entrare a fare visita a qualcuno dei detenuti, un momento che spesso aggiunge stress e mestizia a chi sta già vivendo una condizione molto difficile. Questo spazio, chiamato Spazio Barchetta, fa parte di un progetto sperimentale unico nelle carceri italiane, di cui solitamente si parla per le condizioni degradanti e per la carenza di programmi in favore della socialità dei detenuti. Lo Spazio Barchetta e tutto quello che gli sta intorno puntano al sostegno emotivo e psicologico dei figli che hanno un genitore in carcere, riconoscendo loro una fragilità e delle accortezze che il sistema di per sé non prevede. Lo ha raccontato Repubblica Genova. Il progetto è curato da un team di undici specialisti, tra educatori, assistenti sociali e psicologi, che accolgono, parlano e giocano con bambini e ragazzi che entrano nella struttura: si contano 130 ingressi di minori ogni mese. Un progetto di questo tipo è simile allo Spazio Giallo del carcere di Bollate, vicino Milano, che però non prevede attività per gli adulti. Il team al carcere di Genova invece si rapporta anche con i genitori, sia quelli dentro che quelli fuori dal carcere, che in entrambi i casi hanno le loro difficoltà. La pedagogista coordinatrice del progetto, Vanessa Niri, ha raccontato a Repubblica che mentre chi sta fuori può avere problemi più legati alla gestione quotidiana della famiglia, come l’iscrizione a scuola o l’accesso ai contributi statali, il genitore detenuto si ritrova a cercare di capire come fare a mantenere il rapporto col figlio a distanza e con le limitazioni pratiche e il peso psicologico della mancanza di libertà. I professionisti di Spazio Barchetta organizzano per i detenuti incontri proprio per parlarne e ogni due mesi realizzano dentro agli spazi del carcere alcune iniziative per tentare una “genitorialità normale” in giornate dedicate al rapporto tra genitori e figli, tra giochi, sport e attività. Niri ha detto a Repubblica che ogni volta coinvolgono un centinaio di persone. Il progetto prossimamente sarà esteso ad altre carceri in Liguria, ed è già avviato al carcere di Pontedecimo, sempre a Genova. Nel frattempo le diverse associazioni coinvolte amplieranno anche i servizi esterni a sostegno di genitori e figli fuori dal carcere. Niri ha spiegato a Repubblica che lo Stato non prende provvedimenti particolari per occuparsi di chi resta fuori: “avere assistito all’arresto del papà o avere il papà in carcere è una bomba atomica nella loro vita, ma non sono riconosciuti come soggetti fragili in quanto figli di detenuti”. Aversa (Ce). Taglio del nastro per la nuova sala colloqui del carcere casertanews.it, 19 maggio 2025 Il 22 maggio alle 10 si terrà l’inaugurazione della nuova struttura “Colloqui detenuti” presso la Casa di Reclusione di Aversa. Un progetto programmato già da tempo e finalmente concretizzatosi grazie alla caparbietà e l’impegno costante della direzione del penitenziario normanno, guidato dalla direttrice Stella Scialpi e il comandante del reparto di polizia penitenziaria Francesca Acerra, nonché degli esecutori e addetti settore Mof, ingegneri e maestri artigiani che hanno realizzato e coordinato i lavori. A darne notizia è il segretario regionale dell’Osapp Vincenzo Palmieri che oltre ad esprimere soddisfazione per la realizzazione delle nuove postazioni di servizio dove presiederà la Polizia penitenziaria aggiunge: “la nuova struttura colloqui oltre ad assicurare un degno comfort ai familiari e agli ospiti, produrrà anche benessere organizzativo e snellimento operativo nei processi di lavoro e maggiore sicurezza, condizione imprescindibile per garantire il trattamento. Per l’occasione la Libreria sociale “Il Dono” di Aversa ha donato agli uffici una mostra sul Genio di Leonardo da Vinci, riproduzioni uno a uno in alta risoluzione delle sue opere che sarà esposta”. Un gesto che vuole suggellare una collaborazione della Libreria con la Casa di reclusione, nata un anno fa con un Convegno nazionale sulle Biblioteche innovative in carcere organizzato dal Cesp e dalla Libreria, grazie a Fortunato Allegro che dichiara: “Sono molto soddisfatto della opportunità che il rinnovamento del settore colloquio coincida anche con l’esposizione dei capolavori leonardeschi donati ed esposti nei corridoi della direzione. Lo scopo comune sia dell’amministrazione penitenziaria che nostro, anche in questa occasione, passa attraverso un lavoro di diffusione di Cultura di qualità per la polizia penitenziaria e anche per i ristretti, delle Biblioteche innovative nel carcere normanno e del modello aversano si parlerà anche al Salone Internazionale del Libro di Torino mettendo a confronto l’esperienza di Aversa con altre realtà penitenziarie della penisola che in questo momento stanno soffrendo gravi criticità”. L’Osapp ringrazia l’associazione e la direzione del carcere di Aversa per l’invito a presenziare all’evento come organizzazione sindacale, una delle maggiormente rappresentative del Corpo di Polizia Penitenziaria. “Si auspica che la direzione aversana in chiave futuristica venga messa nella condizione da parte dei vertici Prap e Dap attraverso maggiori stanziamenti di fondi sui capitoli edilizia penitenziaria per la realizzazione di altre opere indispensabili di adeguamento all’interno del penitenziario aversano per creare benessere al personale e più sicurezza alla struttura per i fini istituzionali e costituzionali”, conclude Palmieri. Torino. Cpr, dimezzata la capienza dopo la rivolta di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 19 maggio 2025 Dopo la rivolta dello scorso venerdì notte (quando l’area bianca è stata incendiata da alcuni migranti detenuti) la capienza del Cpr in corso Brunelleschi è dimezzata. Dei 57 detenuti, ne resteranno solo 30 all’interno della struttura gestita dalla cooperativa Sanitalia. Sono passati due mesi dalla riapertura del Centro: macerie, incendi, proteste e metà del Cpr è distrutto. Lo scorso 1 maggio un gruppo di ristretti aveva ingaggiato una sommossa, 4 migranti feriti - tra cui un 28enne marocchino che è riuscito a evadere: era stato trasportato presso l’ospedale Martini per un ricovero e da lì si è dato alla fuga facendo perdere le sue tracce. Fatto sta che la prima sommossa ha visto la devastazione dell’area denominata “viola” mentre quella dello scorso venerdì ha distrutto quella “bianca”. Resta utilizzabile un’ultima area, la “blu”. Così ieri sono cominciati i trasferimenti dei detenuti, alcuni sono stati mandati a Potenza, altri verranno collocati in Puglia. Niente viaggi verso l’Albania. La situazione all’interno è tesa: gli “ospiti” lamentano una condizione difficile, senza la possibilità reale di poter comunicare con l’esterno e porzioni di vitto scarse. Ieri l’ennesimo presidio dei centri sociali fuori dalle mura del Centro: un uomo all’interno si è arrampicato sul tetto e ha cominciato a urlare. La notte di venerdì altri due avevano seguito lo stesso copione e uno di questi, cadendo, pare si sia rotto un arto. Seminara (Rc). La “Sete di giustizia” dei giovani che rompono il silenzio sulla violenza di Silvio Cacciatore ilreggino.it, 19 maggio 2025 Studenti, attivisti, magistrati e garanti in piazza per sostenere chiedere giustizia e verità. Una giornata di dignità civile in un paese dove in troppi avevano scelto di tacere. Il procuratore Musolino: “Non siete soli”. C’è stato un tempo in cui Seminara taceva. Le persiane abbassate, le parole sussurrate, le mani giunte dietro la schiena. Un tempo in cui la violenza si poteva commentare solo con frasi svuotate, con lo sguardo voltato altrove, con la sentenza velenosa sussurrata all’orecchio: “se l’è cercata”. Quel tempo non è finito. Ma oggi, in una piazza rimasta troppo a lungo ferma e vuota, una nuova voce ha cominciato a farsi sentire. È arrivata da fuori, da chi ha scelto di esserci nonostante tutto, e si è fatta spazio con la sola forza che hanno i gesti veri: una presenza senza rumore, ma piena. Non è stata una marcia, né una protesta. È stato un incontro. Una manifestazione nata dal basso, pensata da studentesse e studenti della provincia reggina, giovani che hanno deciso di rompere il silenzio, di portare parole là dove per settimane c’è stato solo imbarazzo e giudizio. Hanno scelto di farlo nel cuore stesso della frattura, non per provocare, ma per stare accanto. Perché quando una ragazza di quattordici anni subisce una violenza, non è lei a dover vergognarsi. È la comunità che deve guardarsi allo specchio. In un pomeriggio che non ha avuto bisogno di slogan, cartelloni scritti a mano, sguardi densi e mani tese hanno ridato senso a un luogo che sembrava incapace di contenere qualcosa di diverso dal silenzio. Ed è proprio in quel vuoto che i ragazzi hanno scelto di entrare, senza retorica, ma con la necessità profonda di esserci. Il network LaC ha accompagnato l’iniziativa in qualità di media partner, documentando ogni momento della manifestazione. L’evento sarà raccontato in uno speciale televisivo in onda nei prossimi giorni su LaC Tv e disponibile anche su LaC Play, per offrire spazio e voce a chi ha scelto di esserci e testimoniare. Il peso del contesto - Non era scontato che accadesse. Non a Seminara. Non in un luogo dove, dopo la violenza, non è arrivato un abbraccio collettivo, ma un mormorio, una rimozione, a tratti persino un giudizio. A far rumore, in quei giorni, non erano le voci vicine alla vittima, ma le frasi a mezza bocca, i sospetti insinuati, le accuse mimetizzate da chiacchiere da bar. “Se l’è cercata”. Parole come pietre, raccolte e raccontate dalla stampa. Parole che hanno ucciso una seconda volta l’umanità. Come se denunciare fosse colpa, come se essere aggredita significasse esserselo meritato. E proprio da qui, da questo vuoto colpevole, è arrivata la risposta più inaspettata. Quella dei ragazzi. Hanno visto l’assenza, l’hanno sentita come un’offesa, e hanno scelto di fare ciò che nessuno aveva ancora avuto il coraggio di fare: venire a Seminara. Esporsi. Parlare. Nonostante le difficoltà logistiche di un territorio sempre più emarginato e mal collegato. Il loro non è stato un atto contro, ma un atto per. Per dire che una comunità che tace è complice, che chi si gira dall’altra parte, si rende parte. E che il tempo delle giustificazioni è finito. La scelta di portare una manifestazione proprio qui, proprio oggi, ha avuto il sapore di una rottura simbolica. Una frattura dentro la frattura. Una linea netta, tracciata da chi non ha voluto ergersi a giudice, ma a presenza consapevole, a voce amica, a corpo accanto. Non tutti a Seminara hanno accolto. Alcuni hanno osservato da lontano, altri non si sono fatti vedere. Ma qualcuno ha ascoltato. E questo, in certi territori, è già un fatto storico. Il gesto dei liceali e la vicinanza delle istituzioni - A organizzare l’iniziativa è stato un gruppo di studenti e studentesse dei licei della provincia reggina, che hanno scelto di raggiungere Seminara per testimoniare vicinanza alla vittima e alla sua famiglia. Le parole più forti, oggi, sono state quelle pronunciate senza forzature. Con fermezza, ma senza sovrapporsi. Quelle che hanno restituito ai presenti un’idea di Stato non distante, non retorico, ma capace di esserci nel momento giusto, nel luogo esatto in cui si è prodotto il vuoto. Carlotta Mulè, che ha coordinato l’intero incontro, ha aperto con un intervento asciutto, sentito, costruito sul bisogno di restituire senso alla presenza: “Essendo soprattutto dei liceali, dei ragazzi molto più vicini - sia a livello di ideologie che di età - alla ragazza, abbiamo sicuramente l’opportunità di mostrarle la nostra vicinanza in questo periodo molto difficile per lei: prima, durante e dopo. Abbiamo pensato che potesse essere un modo, per lei e per la famiglia, di sentirsi meno soli. Sapevamo che non sarebbe stato semplice arrivare qui, ma la volontà è quella di continuare con altre attività, proprio per non lasciare più nessuno solo. È stato molto difficile arrivare fin qui con parte degli studenti, ma sicuramente sarà la prima di tante lunghe tappe. Questo è un punto di partenza”. All’iniziativa hanno preso parte, tra gli altri, la senatrice Tilde Minasi, il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Stefano Musolino, la presidente della Fondazione Scopelliti Rosanna Scopelliti, la giudice Viviana Piccione, la delegata dell’Università Mediterranea Patrizia Frontera, l’insegnante pedagogista Antonella Votano, l’attivista Samanta Nigro di Break The Silence, Siria Scarfò, Sergio Gaglianese, Tiberio Bentivoglio e Raffaele Fazio per La tazzina della legalità, Domenica Imbesi di Libera, Lidia Papisca dell’Associazione Grace, Giovanna Roschetti del M5S della provincia reggina, l’avvocata Saveria Cusumano per la CPO regionale, Maria Rosaria Russo e Anna Maria Stanganelli, garanti regionali rispettivamente dei diritti dei detenuti e della salute, Francesca Mallamaci coordinatrice centro antiviolenza e casa rifugio “Angela Morabito” dell’Associazione Piccola Opera Papa Giovanni Onlus di RC, il sindaco di Villa San Giovanni Giusy Caminiti, il primo cittadino di Seminara Giovanni Piccolo, oltre a rappresentanti istituzionali e forze dell’ordine. In rappresentanza dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, è intervenuta Patrizia Frontera, delegata alle pari opportunità del Dipartimento Diceam e componente del Comitato Unico di Garanzia dell’Ateneo. “Che la cultura della legalità passi proprio dai nostri centri di cultura è fondamentale - ha dichiarato -. Era fondamentale esserci oggi per testimoniare come un presidio di cultura e di formazione come l’Università Mediterranea sia molto attento a questi temi. Nell’attività che l’Ateneo svolge, sia dal punto di vista formativo che educativo, si mira sempre a sottolineare l’importanza delle pari opportunità, dell’uguaglianza di genere, soprattutto a non voltarsi mai dall’altra parte. Perché il problema non è solo chi commette le azioni, ma anche chi si gira dall’altra parte senza manifestare dissenso”. Viviana Piccione, magistrato del Tribunale di Palmi, ha voluto concentrarsi sul peso che porta chi denuncia, ma anche sulla necessità che le istituzioni non restino spettatrici. “Siamo qui per sostenere la legalità, per sostenere la formazione dei giovani verso questi valori che non possono essere lasciati soltanto alla fase repressiva - le parole del magistrato dalla piazza di Seminara -. Vogliamo contribuire a rinnegare ogni forma di vittimizzazione secondaria e sostenere le giovani donne in un percorso di denuncia, rispetto al quale nessun timore e nessuna vergogna ulteriore devono aggiungersi al trauma subito. Il processo è una vicenda dolorosa, difficile. Ma la magistratura è consapevole e sostiene chi ne è vittima affinché possa portare a termine il percorso ottenendo giustizia”. Samanta Nigro, attivista transfemminista e fondatrice dell’associazione Break The Silence ITA, ha approfondito il tema del femminismo intersezionale e della necessità di includere nei discorsi pubblici anche la discriminazione territoriale subita da chi vive e cresce nel Mezzogiorno. “Una donna non è soltanto una donna - ha affermato -. Spesso non è discriminata solo in quanto tale: può essere nera, disabile, povera, queer, migrante. O meridionale”. L’attivista ha richiamato il contesto in cui è cresciuta e ha parlato della Calabria come luogo dove, troppo spesso, “rompere il silenzio è ancora più difficile per colpa della paura, dell’omertà”. Tra le testimonianze più forti, quella di Siria Scarfò, ex suora, abusata da un sacerdote per sette anni. Ha preso la parola con voce rotta dall’emozione, ma ferma nella sua scelta di esporsi: “Parlare non è importante, è fondamentale. Sono felice di essere qui, di poter dare la mia testimonianza. Mi auguro che questa manifestazione sia un segno evidente e profondo che le cose possono e devono cambiare”. A intervenire anche Sergio Gaglianese, fondatore del progetto La tazzina della legalità, che ha espresso delusione per l’assenza della comunità locale e ha rivolto un appello diretto: “Questo paese ha abbandonato le vittime di un reato crudele. C’è tanto di legalità da ripristinare. Davanti a un fatto del genere, oggi avrei voluto vedere tutta la città. Se non avete il coraggio di denunciare, almeno isolate chi fa del male. Non si può accogliere con un caffè chi rappresenta la negazione della dignità. La ‘ndrangheta è come la mafia: una montagna di merda. E va trattata come tale”. Presente alla manifestazione anche la senatrice Tilde Minasi, che ha voluto rivolgersi direttamente ai più giovani. “La vostra voce oggi è forte. La nostra determinazione incrollabile. Ci uniamo per dire no alla violenza. Il vostro futuro è luminoso e non dovete mai permettere che venga offuscato dalla violenza. Da oggi in poi, non dovete più tacere davanti a questi episodi. Continuate a dar voce, sempre”. Infine, Rosanna Scopelliti, presidente della Fondazione intitolata al padre Antonino, ha lanciato un messaggio chiaro: “È importante far vedere che lo Stato c’è. Che le istituzioni e le associazioni sono accanto a tutte le vittime di violenza. A chi ha paura di denunciare dico: non siete soli. Serve una comunità che non sia sorda, cieca e muta. Non siamo qui per giudicare Seminara, ma per dare forza a chi ha voglia di mettersi in gioco”. A chiudere la giornata è stato il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Stefano Musolino, con un intervento diretto e privo di formalismi. Ha voluto rivolgersi ai più giovani, ringraziandoli per la loro scelta coraggiosa. “Lo Stato c’è ed è al vostro fianco. Ringrazio voi per aver partecipato, per avere scelto di esserci, per aver fatto la cosa giusta. Il mio appello è a non mollare, a continuare. La vostra voce è importante. Il cambiamento parte da qui”. La posta in gioco - Non è stato solo un momento di ascolto. Né una semplice manifestazione. A Seminara oggi è accaduto qualcosa di più profondo e più necessario: un’assunzione di responsabilità, costruita con le parole di chi ha scelto di esserci, anche senza aver nulla da riparare. Il gesto compiuto dai liceali reggini, sostenuto da alcune istituzioni presenti in piazza, ha rappresentato una rottura netta con la cultura del disimpegno, con l’abitudine a tacere, con l’idea che la giustizia riguardi sempre qualcun altro. Portare i corpi in un luogo ferito, esporli alla freddezza dell’indifferenza, significava dire che non si può più lasciare che le cose accadano senza conseguenze. A fare la differenza, in questa giornata, non è stata la quantità dei presenti, ma la qualità del gesto. Nessuna retorica, nessuna bandiera. Solo una generazione che ha sentito il dovere di colmare un vuoto lasciato da altri, e che ha scelto di farlo nel modo più semplice e più scomodo: mettendoci la faccia. In un paese che nei mesi scorsi è diventato il simbolo di un’omertà ancora resistente, e di un’opinione pubblica ancora disposta a colpevolizzare le vittime, l’evento di oggi ha rappresentato una discontinuità. Fragile, forse. Ma reale. E soprattutto necessaria. Perché anche il silenzio ha delle responsabilità. E oggi, quel silenzio è stato interrotto. Mantova. Reincludere o escludere? Il Psi apre il dibattito pubblico sul carcere mantovauno.it, 19 maggio 2025 Un confronto aperto sul delicato tema della giustizia e del sistema carcerario italiano avrà luogo martedì 20 maggio alle ore 18 presso la sala conferenze dell’Hotel Casa Poli di Mantova. L’iniziativa, organizzata dalla Federazione Provinciale del Partito Socialista Italiano (Psi), si intitola “Carcere e società: esclusione o reinclusione?”, e si propone di riflettere sul ruolo della detenzione nella società contemporanea. Tra i relatori spiccano figure di rilievo nel panorama giuridico e politico italiano. Interverranno Graziella Bonomi, garante dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale per la città di Mantova; Roberto Casari, già presidente di CPL Concordia e Maurizio Turco, segretario del Partito Radicale e presidente della “Fondazione Marco Pannella”. A moderare e introdurre il dibattito sarà l’avvocato Giuseppe Angiolillo, rappresentante del direttivo provinciale del Psi. Durante la serata sarà inoltre possibile firmare a sostegno della proposta di legge Zuncheddu, mirata a garantire risarcimenti alle vittime di errori giudiziari. Un’iniziativa che accende i riflettori su un tema spesso trascurato, ma di grande rilevanza umana e civile. Forlì. Dalla comunità islamica dono di vestiario ai detenuti Corriere Romagna, 19 maggio 2025 “In accordo con la direttrice Carmela De Lorenzo e il cappellano don Enzo Zannoni, anche quest’anno, nell’imminenza dell’estate, abbiamo donato indumenti agli ospiti del carcere di Forlì”. A comunicare l’ennesimo gesto caritativo a beneficio della popolazione maschile della Casa circondariale di via Della Rocca, è il presidente della moschea di via Masetti, Mohamed Ballouk. Nell’elenco del vestiario, rigorosamente nuovo, consegnato sabato scorso a don Zannoni, compaiono 150 canotte, 150 magliette mezza manica collo tondo, 150 pantaloncini e 150 slip. “È un dono della comunità islamica forlivese - precisa Ballouk - che viene elargito a tutti i carcerati, nessuno escluso”. Il responsabile conferma che si tratta di un gesto operato per il quarto anno consecutivo, senza dimenticare che nel marzo scorso, sempre in accordo con la direzione e il cappellano del carcere, “abbiamo offerto pacchi di cibo ai detenuti impegnati nel Ramadan”. All’epoca, Ballouk pensò ai detenuti di fede islamica, per poi elargire un dono a tutti gli ospiti del penitenziario. Lo stesso don Zannoni conferma che, con l’arrivo a Forlì di Ballouk, i gesti di reciproco aiuto e collaborazione con la comunità islamica si sono moltiplicati, fino a divenire una prassi costante. L’apporto della comunità islamica si aggiunge a quelli della Caritas e delle altre associazioni impegnate con i detenuti. Le recite scolastiche dei politici che fanno rimpiangere il “pastone” di Aldo Grasso Corriere della Sera, 19 maggio 2025 Di fronte alla sequenza pavloviana delle brevi dichiarazioni dei politici che telegiornali e giornali radio della Rai propongono con una ostentazione euforica e minacciosa (i famosi “vocali” presi a prestito da TikTok) viene da rimpiangere il pastone. Devo spiegare che cos’è e perché per tanti anni è stato vissuto con un grande fastidio. Tecnicamente il pastone è un servizio giornalistico che contiene il resoconto di tutti i fatti della giornata politica; l’espressione gergale nasce dal fatto che quei due o tre minuti esprimevano l’idea di un impasto di notizie, commenti e dichiarazioni di esponenti dei diversi schieramenti politici. Il pastone è stato sempre vissuto con fastidio, come ricordava, alcuni anni fa, Michele Serra: “Il pastone è stato fin qui in tutti i tigì Rai una specie di ammainabandiera del giornalismo, il segno patente dell’occupazione di viale Mazzini”. Era muffa che sbuca sempre dall’intonaco dei telegiornali. Se prima dovevamo subirci il pastonista adesso ci viene inflitta una carrellata di figurine parlanti, di recite scolastiche, di retoriche oratoriali, di sorrisi che più finti non si può. Succede un evento, breve descrizione del medesimo e poi via al gran pavese dei commenti: quattro facce per il governo (FdI, Lega, FI e Lupi), una faccina per i Cinquestelle, una per Bonelli o Fratoianni (quanto ci tiene Bonelli ad apparire!), e una, buon’ultima, per il Pd. Ogni tanto appaiono anche Renzi e/o Calenda. Ma mi faccia il piacere! Se il pastone creava malessere perché era “l’ammainabandiera del giornalismo” e “il segno patente dell’occupazione di viale Mazzini”, cosa dovremmo dire oggi di fronte a questo vasto fenomeno di disintermediazione, come direbbe un teorico del web, dove, all’interno dei telegiornali e dei giornali radio, alle cosiddette “forze politiche” vengono appaltati spazi autogestiti? Chi si nega come servizio pubblico negando il servizio pubblico (“chi si uccide uccidendo”) è un modello supremo di deresponsabilizzazione. Informàti superficialmente su tutto, di fatto conosciamo poco: sarà il tramonto dell’Occidente di Paolo Ercolani* Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2025 Questa impressionante opulenza informativa, in linea teorica sarebbe positiva, ma alle suddette condizioni si rivela disastrosa e alla base di due fenomeni socialmente devastanti. La grande confusione che caratterizza il nostro tempo, rendendo quantomai ostica la comprensione delle questioni ideologiche, geopolitiche o anche solo culturali in senso lato, non è dovuta a una complessità specifica di questa epoca. Tutte le epoche storiche, infatti, hanno presentato elementi di complessità tali da non rendere possibile l’individuazione netta e definitiva di torti e ragioni. Tuttavia, per noi occidentali le cose sono state colpevolmente più semplici fino a poco tempo fa. Da una parte perché abitavamo nella parte vincente del mondo (e “la Storia la scrivono i vincitori”, come ebbero a scrivere Marx e Benjamin, ripresi dal nazista Goering che, in questo modo, pensava di difendersi al processo di Norimberga). Dall’altra perché il sistema dell’informazione era molto più ridotto e semplificato, mentre per accedere a versioni alternative o anche solo più articolate della Storia, rispetto a quelle fornite dai vincitori, bisognava attingere a volumi ponderosi di cui i più facevano volentieri a meno. Oggigiorno invece, perlopiù a causa della comparsa di Internet e molto meno a motivo del fatto che l’Occidente liberale non è più così egemonico, il dark side (lato in ombra) delle questioni storiche, ideologiche e geopolitiche è stato portato alla luce. Il problema è che quando ciò avviene nel campo della conoscenza, si tratta di un progresso indubbiamente positivo, che amplia la conoscenza degli eventi e aiuta a formulare dei giudizi storici più articolati e ispirati a una visione critica di insieme. Ma si dà il caso che, nel nostro tempo, questa illuminazione del lato in ombra della Storia sta avvenendo nell’ambito spettacolare e commerciale della comunicazione, con le relative modalità banalizzanti. Quello in cui la logica quantitativa (auditel, visualizzazioni, monetizzazione dei click) ha oscurato quella qualitativa (comprensione critica, dialogo, conoscenza), in maniera tale che una impressionante opulenza informativa finisce col generare una paradossale indigenza conoscitiva. Insomma, informati superficialmente su tutto, di fatto conosciamo poco o nulla in maniera approfondita. È un po’ come osservava Platone nel “mito della caverna” (Repubblica, capitolo VII): l’occhio umano non vede in due circostanze. Certamente quando è buio, ma anche quando c’è troppa luce. L’oscurità totale sortisce lo stesso effetto della troppa luce, impedendo all’occhio umano di vedere. ?La comunicazione che oggigiorno avviene in Rete (il medium da cui ormai l’80% della popolazione trae la propria informazione sui fatti del mondo), costituisce quella troppa luce di cui parlava metaforicamente Platone. Troppa, ma anche superficiale e selezionata dagli algoritmi per confermare gli individui nelle proprie convinzioni di partenza, per intrattenerli in maniera non troppo impegnativa e soprattutto soddisfacente, perché quegli stessi individui sono di fatto clienti di un servizio a pagamento. Questa impressionante opulenza informativa che, veicolata con le dinamiche dello show business, in linea teorica sarebbe positiva, alle suddette condizioni si rivela disastrosa e alla base di due fenomeni socialmente devastanti: 1) la convinzione sempre più diffusa di sapere quanto basta su tutto e ovviamente di poter intervenire con cognizione di causa su ogni argomento; 2) la divisione degli utenti in tifoserie fanatiche e depositarie della Verità assoluta, indisposte al dialogo e alla considerazione per cui il vero potrebbe essere nel mezzo (in fondo l’intelligenza ha a che fare con le sfumature di cui è lastricato il mondo umano, mentre l’ideologia si aggrappa al bianco e al nero che abitano in una terra ideale). Soprattutto a livello storico e geopolitico, tutto ciò ha messo l’Occidente di fronte a una difficoltà cognitiva di base: quella di scoprire che anche e soprattutto in tale ambito i torti e le ragioni sono ovunque. Nessuno è alieno dall’aver compiuto nefandezze e lotte di potere, a partire dallo stesso Occidente cristiano e liberale. Il trauma è stato tale per cui molti sono caduti nello stesso tranello in cui piombò Gandhi: il leader indiano pacifista che, durante la Seconda guerra mondiale dichiarò la propria neutralità fra il nazismo hitleriano e l’imperialismo dei paesi dell’Intesa. Pensiamoci bene: quante valide ragioni poteva avere il leader pacifista, come anche ciascuno di noi oggi, nel denunciare le politiche imperialistiche e predatorie delle potenze occidentali?! Certamente molte, ma da qui a non riconoscere il male radicale del nazifascismo, ovunque esso si annidi (oggigiorno direi nella Russia di Putin e nel governo israeliano di Netanyahu, ma anche nel capitalismo finanziario neoliberista), e quindi a preferirgli l’imperfettissima democrazia occidentale, ci espone tutti a una situazione tanto ottusa quanto rischiosa. Non dobbiamo dimenticare quanto qualcuno attribuisce erroneamente ad Aristotele, che le bugie dei vincitori diventano Storia mentre quelle dei vinti vengono scoperte. Se smettiamo di combattere il Male in nome di un Bene assoluto di cui nessuno può ragionevolmente ammantarsi, cadremo in quel relativismo nichilistico denunciato anche da Papa Leone XIV. Diventeremo un mondo di presunti Superuomini in assenza di Umanità. E quello sarà il tramonto dell’Occidente. *Filosofo, Università di Urbino “Carlo Bo” Generazione maranza, gli idoli rapper da Serpe a Papa V: “Noi non siamo educatori” di Andrea Galli Corriere della Sera, 19 maggio 2025 Un genitore: “La fascinazione per lo stile di vita fatto di soldi facili, vestiti griffati e auto di lusso esiste eccome”. La nuova puntata dell’inchiesta del Corriere. Questa donna, giovane, dice d’arrivare dall’Albania, dalla zona a nord, quella delle montagne, verso il Kosovo; siede dentro una macchina giapponese con le mani sul volante e guardandosi nello specchietto retrovisore; è una macchina nuova, scura, pulita, sembra appena lavata, parcheggiata all’immediato principio di una strada laterale che hanno trasformato in una discarica abusiva, su ogni spiazzo d’asfalto all’angolo con gli alberi hanno appoggiato scarti industriali e di cantieri edili, materassi, sacchi neri. Lei anche, e sono già due donne in pochi metri, viene dall’Albania, è meno giovane, la sua è una macchina grigia e sporca di terra e di polvere, vecchia, la donna sta fuori dall’abitacolo, troppo caldo forse, quasi si sdraia mentre fuma su di una seggiola da campeggio nell’unico pezzo d’ombra garantito da cespugli selvatici. Ed è così - un’albanese che ha una macchina come base - pure per una terza signora, che si pulisce le mani con l’Amuchina, sullo sfondo si allontana un camion col cassone pieno di roba appena tirata fuori da una cantina da sgomberare, alla guida un tizio in canottiera bianca, in cima al cumulo di oggetti c’è uno sgabello di legno rovesciato con le gambe in su. Chissà se stanno indagando sugli aguzzini, gli schiavisti di queste donne, forse albanesi pure loro. Serve una decina di minuti, tra le province confinanti di Milano e Pavia, sugli stradoni dove sostano in attesa le prostitute - con intorno, costante, l’umanità di quelli che frenano di colpo per accostare compresi ragazzini in due sugli scooter e ciclisti in tenuta aderente sulle biciclette costose - ecco serve una decina di minuti per spostarsi da Pieve Emanuele a Siziano. Ovvero i luoghi pacifici e curati dove due dei rapper amati dalla generazione dei maranza sono nati e cresciuti e hanno cominciato a sperimentare i propri indiscussi talenti musicali, quantomeno a sentire veri o presunti esperti di musica, magari un profano, con rispetto, qualche dubbio se lo tiene, nonché a leggere i progressivi fatturati: trattasi di Lorenzo Vinciguerra, 24 anni, da Pieve Emanuele, alias Papa V; e Matteo Di Falco, 25 anni il prossimo ottobre, alias Nerissima Serpe. Il successo - Tra costoro, che sempre più realizzano album insieme registrando in Italia come fuori confine tipo a Tenerife, che vantano estimatori fra i super big del settore e collaborazioni di livello, c’è una solida alchimia, un’amicizia che viene definita profonda e sincera dai diretti interessati e da quelli che li conoscono e frequentano; una sintonia rara; in fondo entrambi si portano dietro parecchio studio, la fatica vera di provare e riprovare, le delusioni della gavetta, l’improvviso successo che non è mai scontato, al contrario, e anche, sì, senza dubbio, Papa V e Nerissima Serpe si portano dietro dei virgolettati come i seguenti, che hanno concesso all’attento magazine Rockol nell’ambito di una corposa intervista: “A me interessa fare musica per i ragazzi di strada, io non voglio frenarmi nel linguaggio” (parole di Papa V); “Non sono un educatore, non sono un politico, il mio compito non è educare” (parole di Nerissima Serpe). La vecchia San Siro - Un esperto della musica rapper e trapper, uno che analizza, è il professor Silvestro Lecce, con il quale abbiamo concordato un lungo appuntamento per la prossima settimana, due ore sull’agenda in maniera tale da provare a porre più interrogativi possibili per avere risposte articolate; per intanto lui, che è uno psicologo clinico nato a San Siro dove ancora tiene uno dei due studi, quella San Siro popolare che è pura geografia privilegiata per studiare le migrazioni a Milano dal dopoguerra in avanti, dagli italiani ai nordafricani, dice che i testi delle canzoni che sono pieni di botte, droga, disperazione, mestizia profonda, degrado, terrore, devastazioni famigliari, orrori vari, nella stragrande maggioranza dei casi non caratterizzano le esistenze né dei musicisti né dei maranza che li ascoltano. Insomma non sono per niente uno specchio di vita reale, di frammenti di vita reale. Ma giustappunto ci torneremo sopra. Per ora, nel ricordare che siamo giunti alla settima puntata del viaggio del Corriere attraverso i maranza, conviene riproporre la definizione: ebbene per la Treccani il maranza è un giovane che fa parte di comitive oppure gruppi di strada chiassosi caratterizzati da atteggiamenti smargiassi e sguaiati e con la tendenza ad attaccar briga, riconoscibili anche dal modo di vestire appariscente (con capi e accessori griffati, spesso contraffatti) e dal linguaggio volgare. Contrariamente a un’opinione diffusa, non esiste una peculiarità per nazioni o continenti, i maranza non sono soltanto, come si crede e ripete, nati all’estero oppure figli di seconda generazione venuti al mondo in Italia da genitori per lo più di Marocco, Tunisia ed Egitto. Niente di tutto questo. “Denunciare? Anche no” - Contattandoli sui canali social dove macinano seguaci, abbiamo chiesto a Papa V e Nerissima Serpe di poterci sentire, se c’era modo per conversare, senza il filtro di uffici stampa, addetti alle pubbliche relazioni, portavoce, compagnia circense che bivacca e mangia sulle spalle degli artisti. Vedremo cosa si riuscirà a fare. Il nostro viaggio ha comunque tappe in rapida sequenza. Sicché al McDonald’s di Binasco c’incontriamo con un carabiniere in congedo, che negli ultimi anni ha lavorato proprio sulla linea di confine tra le province di Milano e Pavia, dove aveva già la residenza: “In queste zone gli unici maranza, se vogliamo intenderli come ragazzini che delinquono, sono gli italiani. C’è bullismo più di quanto si legga sui giornali e si veda alla televisione. Le scuole tendono a tacere, insabbiare, lo dico per esperienza diretta, sai, non vogliono avere pubblicità negativa, attirarsi le paure dei genitori che intasano le chat di gruppo... Mi erano capitati genitori che non volevano denunciare per non dover spiegare a casa e in paese. Non un caso soltanto, ma più casi... Le dinamiche restano tali, in provincia: si ha paura del giudizio della gente, meglio tenersi i fatti propri anche se uno è vittima. Meglio subire, che alimentare il chiacchiericcio”. A un tavolino esterno del medesimo McDonald’s, l’ultimo prima del parcheggio sotto al sole, con le macchine messe come capita poiché lo spazio è terminato, pranzano mamma, papà, due figli tra i dieci e i quattordici anni. I genitori attaccano a litigare con furia, si dicono cose orrende, una insulta e l’altro di più, la mamma va in monologo con ulteriori indicibili insulti, poi si mette il cappuccio della felpa in testa perché non vuol sentire più nulla, mette anche gli occhiali da sole; in tutto ciò, i figli guardano altrove, sconfortati più che rattristati, e non finiscono nemmeno le patatine fritte in versione large con cinque salse sopra, ognuna con soprapprezzo. Poveri pendolari - Nella piazza della chiesa a Siziano, la prima che si incontra entrando in paese, due bimbi giocano a pallone, mamme e papà li lasciano in pace sorvegliando da lontano, i bambini calciano in aria, calciano vicino alla strada, calciano contro la facciata di un palazzo; un bullo in Ferrari sgasa, accelera, sgomma, sgasa ancora, sgomma, accelera, sparisce, un baccano atomico, un cafone, un maleducato che qui in coro dicono di non conoscere, ma chissà, forse lo proteggono, fracassa la pace della gente serena e contenta nel rito della colazione al bar, famiglie riunite, amiche che non si vedevano da tempo e parlano di un imminente matrimonio, quelli coi cani che discettano di zecche; i bar di Siziano sono ariosi, e ospitano torme di menagrami, a seconda dei punti di vista, per carità, i milanisti che augurano agli interisti di perdere ovunque, campionato e coppa, un maggio disastroso, di epocale fallimento. Salutato il paese di Siziano, la stazione ferroviaria di Pieve Emanuele, visitata di domenica, è questa roba qui: le saracinesche abbassate, nessun negozio e nessun servizio, zero, la visuale ampia sulle campagne un po’ consola, è bella, piena di luce, non è affatto un brutto panorama; fra i presenti, dentro la stazione, ci sono tre amici sessantenni in pantaloni corti e maglietta sulla panchina che se la raccontano, gira un velo di fresco, tirano mezzogiorno, a una cert’ora uno dei tre riceve la telefonata della mamma, il pranzo è pronto, sorride al telefono, promette che si muoverà, allora la compagnia si scioglie; si scorge l’ennesimo cartello offensivo, in stazione, ce lo stavamo perdendo, sia mai: l’ascensore è guasto, il cartello annuncia la fine dei lavori nel 2025, in forma generica, se domani o Natale boh, nel dubbio questi non sono andati nel dettaglio, così, avranno pensato, con geniale intuizione, i pendolari non potranno mica contestarci. A causa dell’ascensore guasto, per forza bisogna affidarsi alle proprie forze, da sotto le scale si sentono maledizioni di anziani, malati, acciaccati, maledizioni contro le Ferrovie Nord, contro le Ferrovie dello Stato, contro tutti quanti insieme, poi in cima si regalano una sigaretta col fiatone, e dopo il primo tiro sputano. Al bar - “Chiedi a un barista italiano qualunque, dirà che noi marocchini ce ne approfittiamo, ordiniamo un caffè e stiamo lì a parlare per ore. Ma ovvio, per noi arabi il caffè è un lungo momento, si gusta lentamente e in compagnia”. Sempre al McDonald’s ci siamo rivisti con questo signore che fa avanti e indietro dal Marocco, che ha casa a Pavia, che traffica in parecchi settori; l’avevamo conosciuto due anni a Béni Mellal, nella parte centrale e più povera del Marocco, la prima grande zona dell’emigrazione marocchina verso l’Italia, avevamo cominciato quelli che vendevano tappeti, dopodiché li hanno sostituiti (anche) quelli che vendevano droga. Ci sono villaggi piccoli e isolati dove non prende il cellulare ma la maggioranza parla un buon italiano. Con la droga questo signore non ha niente da spartire, muove tanti soldi, ma attraverso altri canali. Comunque sia, dice: “Mio figlio adesso ha la maturità, poi vuol fare medicina. Poi dopo la laurea andrà a lavorare in Germania, in America, non in Italia. I maranza? Li considera dei totali deficienti. La loro musica? Non mi pare la ascolti, non la ha mai ascoltata, preferisce uscire con le ragazze”. Padri e figli - I maranza, i maranza... Su di essi ci ha scritto un lettore, italiano, che risiede nell’hinterland di Milano: “Sono papà di tre figli... La fascinazione di questo stile di vita (?) esiste, eccome se esiste! Marche alla moda, soldi facili, bella vita e macchinoni fanno scordare tutti gli aspetti deteriori anche ai miei ragazzi che crescono, lo dico senza false modestie, in un ambiente stimolante... Ma un po’ maranza, nel modo di vestire e nella gergalità, se non nei modi e nell’approccio alla vita, lo sono”. Violenza sui minori, l’abuso di alcol è tra i maggiori fattori di rischio. C’è un nuovo studio di Valentina Rorato Corriere della Sera, 19 maggio 2025 È quanto emerge da un nuovo studio finanziato dal Consiglio per la ricerca sanitaria della Nuova Zelanda, che sottolinea come questo vizio da parte di genitori o tutori sia associato a diverse forme di maltrattamento sui piccoli. Prevenire l’abuso di alcol per prevenire la violenza sui bambini. È quanto emerge da un nuovo studio finanziato dal Consiglio per la ricerca sanitaria della Nuova Zelanda, che sottolinea come questo vizio da parte di genitori o tutori sia associato a diverse forme di maltrattamento sui piccoli. “I caregiver che bevono in modo eccessivo hanno il doppio delle probabilità di essere violenti con i minori rispetto ai caregiver senza questo problema. Sebbene molti fattori contribuiscano al maltrattamento dei minori, l’alcol è un fattore di rischio prevenibile”, spiega June Leung, ricercatrice del Shore & Whariki Research Center della Massey University. Il lavoro, pubblicato su Addiction Journal, raccoglie i risultati di dodici studi di coorte, in paese ad alto reddito (tre in Australia, uno in Danimarca, uno in Nuova Zelanda, due in Corea del Sud, uno nel Regno Unito e quattro negli Stati Uniti) sui maltrattamenti dei piccoli. “La violenza sui minori è spesso un problema nascosto, poiché molti casi non vengono mai denunciati”, racconta l’autrice, a cui si aggiunge la riflessione di un’altra ricercatrice, la professoressa Taisia Huckle dello Shore & Whariki Research Centre: “Sappiamo che più punti vendita di alcolici ci sono in una comunità, più persone bevono e maggiori sono i danni che subiscono. Alcuni studi internazionali hanno persino riscontrato una correlazione tra la densità dei punti vendita di alcolici e il maltrattamento sui minori”. Lo studio non vuole creare allarmismo. L’obiettivo, però, è diffondere consapevolezza su un problema estremamente grave, e fare prevenzione, perché ridurre la disponibilità di alcol con “una regolamentazione efficace del marketing dell’alcol e l’aumento del prezzo” può ridurre il fenomeno sociale. Su questo tema della violenza sui minori si sono interrogati anche i ricercatori dell’università del Queensland, analizzando il comportamento di oltre 6.000 bambini nati al Mater Mother’s Hospital di Brisbane tra il 1981 e il 1983. “Abbiamo esaminato le caratteristiche sociodemografiche e perinatali delle madri di questi bambini per determinare quali fossero i fattori di rischio per abusi fisici, emotivi, sessuali e negligenza tra zero e 15 anni”, racconta Claudia Bull, ricercatrice in epidemiologia psichiatrica della Facoltà di Salute, Medicina e Scienze Comportamentali. “Abbiamo scoperto che le probabilità di un qualsiasi tipo di maltrattamento sui minori sono 1,88 volte più alte se la madre non termina la scuola superiore e 1,44 volte più alte se il reddito familiare dei genitori è inferiore alla media australiana del 1981. Ciò suggerisce che dobbiamo riflettere su come affrontare il maltrattamento sui minori in tutti i suoi aspetti e cause”. La violenza ha effetto a lungo termine - I bambini esposti ad abusi manifestano comportamenti aggressivi e antisociali durante l’adolescenza e hanno il 31% di probabilità in più di essere ricoverati in ospedale per abuso di alcol in età adulta, dando il via a una vera e propria spirale viziosa. “Sappiamo che le persone che hanno subito abusi durante l’infanzia hanno quasi tre volte più probabilità di essere ricoverate in ospedale per abuso di alcol e sostanze da grandi”, conferma il dottor Mike Trott, ricercatore della Facoltà di Salute, Medicina e Scienze con lo studio “Risk factors associated with child maltreatment in the second generation of a prospective longitudinal Australian birth cohort: A MUSP study”. “Abbiamo scoperto che comportamenti esternalizzanti estremi, come aggressività, attività criminali e comportamenti antisociali nei quattordicenni sono fortemente correlati a maltrattamenti infantili e abuso di alcol e di sostanze stupefacenti da adulti”. Remigrazione, una parola che pare neutra ma nasconde un elefante di Giuseppe Antonelli Corriere della Sera, 19 maggio 2025 E il vocabolo speculare “reimmigrazione” era usato già negli anni del fascismo. Parole nuove per idee vecchie. Parole nuove per rendere rassicuranti cose spaventose. Parole nuove per rendere accettabili cose inaccettabili. Parole pensate per camuffare cose che, chiamate con il loro nome, risulterebbero più difficili da dire. Gli esempi sono molti. Dal condono che diventa pace fiscale all’intolleranza trasformata in tolleranza zero, fino alle stragi di civili riportate come effetti collaterali di una guerra. Anche l’etichetta cambiamento climatico, che oggi sembra neutra, è stata coniata dai conservatori americani per sostituire la più allarmante riscaldamento globale. Lo spiegava qualche anno fa George Lakoff nel suo libro “Non pensare all’elefante”, mostrando come questo sia da sempre uno dei modi in cui la politica orienta il nostro pensiero. Inventare parole nuove, potremmo dire, per nascondere l’elefante nella stanza. Parole come quella remigrazione a cui è intitolato il ritrovo internazionale dell’estrema destra che si è tenuto l’altro ieri a Gallarate. Il dizionario Treccani la definisce un “eufemismo per ritorno forzato di persone immigrate nel loro Paese d’origine”. Ciò a cui remigrazione si riferisce, a partire dalla sua originaria forma tedesca Remigration, è di fatto la deportazione in massa della popolazione immigrata. Tra i primi a proporla - per i richiedenti asilo, per gli immigrati con permesso di soggiorno e per quelli che chiama “cittadini non assimilati” - è stato il leader dell’estrema destra austriaca Martin Sneller, presto seguìto dal partito dell’estrema destra tedesca (l’AfD di cui molto si discute in questi giorni). Eletta nel 2023 in Germania come parola indesiderata dell’anno (Unword of the Year), la parola risuona ormai con frequenza anche nella politica italiana: in slogan minacciosi come “Remigrazione. Inverti la rotta” o, con una rima dagli echi storici ancor più tremendi, “Remigrazione unica soluzione”. In italiano, in realtà, la si trova documentata da secoli con un significato spirituale (il ritorno dell’anima ai corpi “sia per remigrazione, o ritorno ne’ suoi propri, o per trasmigrazione”, 1736) oltre che con un significato legato già alle migrazioni di popoli (“Causa della remigrazione dei tirreni”, 1851). Ma non sarà forse un caso che la sua variante reimmigrazione appaia più volte - con il significato di ritorno alla patria - in pubblicazioni del ventennio fascista. “Della grandiosa opera di colonizzazione e di reimmigrazione dei tedeschi dall’oriente europeo” raccontano ad esempio gli Annali del fascismo nel 1940, notando “come il Führer, nel suo ultimo discorso, avesse già annunciato questa opera”. Le destre e il falso problema migranti nella crisi della democrazia liberale di Lea Ypi La Stampa, 19 maggio 2025 La promessa dei populisti è di risolvere i conflitti attribuendo la colpa del fallimento agli esclusi. Quando ero adolescente in Albania negli Anni 90, il padre di una delle migliori amiche era un trafficante di persone. Lo chiamavamo “Ben lo Zoppo”. Non aveva scelto di fare il trafficante - le riforme di privatizzazione che seguirono il crollo del comunismo in Albania costrinsero i dirigenti del cantiere navale a licenziare i lavoratori e così Ben e sua moglie si ritrovarono disoccupati. L’Occidente aveva passato decenni a criticare l’Est per i suoi confini chiusi. Chi riusciva a fuggire venivano accolto da eroe. All’improvviso, la retorica cambiò. Dalla fine della Guerra Fredda, la migrazione è stata sia una benedizione che una maledizione per molti Paesi postcomunisti. È stata una benedizione perché senza il sostegno dei parenti immigrati, le famiglie non sarebbero sopravvissute al devastante impatto delle riforme neoliberali che promettevano di trasformare Stati comunisti falliti in paradisi capitalisti fiorenti. È stata una maledizione perché la migrazione in queste condizioni non può essere una scelta. Contrariamente a ciò che vuole farci credere la propaganda, nessuno mette la propria vita a repentaglio per il gusto di infastidire i cittadini di un altro Paese. Questo deve essere il punto di partenza di ogni discussione sulla migrazione in Europa. Non lo sforzo di distinguere tra migranti buoni e cattivi, migranti utili e migranti che non lo sono, migranti che obbediscono alla legge e migranti che seguono le proprie regole, migranti economici e richiedenti asilo, migranti che meritano ospitalità e migranti che vengono espulsi. Affrontare la migrazione come un problema significa capire che non è un problema in sé. Significa capire il pericolo che comporta normalizzare questa stessa posizione. Se guardiamo alla migrazione solo in termini di numeri e flussi, i dati suggeriscono che, sebbene il numero di persone che vivono fuori dal loro Paese di nascita sia aumentato in termini assoluti, tale aumento è in linea con l’aumento della popolazione globale e quindi proporzionale ai flussi migratori del passato. Se guardiamo al contributo dei migranti nelle società ospitanti, ci sono poche prove per concludere che siano un peso in termini assoluti. I migranti aiutano a contrastare il declino demografico, versano nei sistemi di sicurezza sociale e contribuiscono alle società ospitanti. Questo vale anche per i migranti irregolari, quando sono disponibili percorsi di regolarizzazione. Commettono crimini quando non hanno altra scelta. E, naturalmente, se i visti fossero facilmente accessibili, non ci sarebbe affatto immigrazione irregolare. Eppure la migrazione viene sempre considerata come problema nel discorso politico. Il problema è politico, non culturale. La questione non ha nulla a che fare con i migranti stessi, ma con la crisi della democrazia liberale, una crisi che i migranti non hanno causato e che certamente non si viene aggravando per colpa loro, anzi. Il problema è l’egemonia della destra sul discorso sulla migrazione e l’incapacità, la “mancanza di coraggio di pensare in modo critico” (per richiamare una famosa definizione dell’Illuminismo), di pensare al di là dell’ideologia che tenta di persuaderci del contrario. Da molto tempo ormai, le società liberali stanno fallendo su tre dimensioni. Primo, il fallimento della politica democratica: il divario tra rappresentanti e rappresentati, un sistema partitico che funziona sempre più come un cartello di imprese, un rapporto tra politici e popolo che assomiglia al rapporto tra imprese e consumatori. Secondo, un fallimento della giustizia sociale: un sistema economico incapace di soddisfare le preoccupazioni dei più vulnerabili (sia cittadini che non cittadini), di gestire un’economia che funzioni per tutti e di lottare contro gli interessi organizzati di oligarchi, grande capitale, ricchi donatori e piattaforme digitali aziendali - in breve, chiunque usi il proprio denaro per acquistare influenza politica. Terzo, un fallimento della solidarietà internazionale: l’incapacità di offrire una visione alternativa di un ordine globale che includa una riforma delle istituzioni internazionali in grado di servire anche le persone vulnerabili nei paesi vulnerabili. Il problema, a mio avviso, è che abbiamo scelto un modello di società in cui la ricerca del profitto subordina le relazioni tra esseri umani agli imperativi del mercato. Una comunità politica che attribuisce i propri fallimenti a coloro che non ne fanno parte, o non hanno diritto a farne parte, o sono visti come indegni di farne parte, non ha bisogno di assumersi la responsabilità dei propri fallimenti. Ecco allora la promessa della destra: se risolvete la questione di chi appartiene, avrete risolto i conflitti del nostro tempo. Ma la migrazione non è la fonte del problema; è piuttosto un sintomo della crisi. Ed è qui che consiste il fallimento dell’alternativa. La questione del progresso politico è ora vista solo come una questione di diritti astratti, di chi plasma e promulga le leggi, di chi è incluso e chi è escluso. Eppure, non è difficile decostruire il discorso della destra sulla migrazione. I confini in quanto tali non sono un problema, perché i confini sono sempre stati (e continueranno ad essere) aperti per alcuni e chiusi per altri. Guardiamo a due tendenze recenti. La prima tendenza si applica ai molto poveri. Anche lasciando da parte gli attuali progetti di espellere i richiedenti asilo respinti verso paesi terzi in violazione delle norme internazionali, il percorso verso la cittadinanza non è semplice nemmeno per i migranti regolari. C’è una semplice ragione per questo. Quando le persone non hanno voce politica, sono molto più facili da sfruttare. La seconda tendenza si applica ai molto ricchi. Per loro, i confini sono più aperti che mai. La Casa Bianca pubblicava video di immigrati irregolari che si imbarcavano su voli di deportazione in catene, Trump annunciava i piani di vendere la residenza e un percorso accelerato verso la cittadinanza per 5 milioni di dollari a chi richiedeva la golden card. La speranza della socialdemocrazia all’inizio del XX secolo era che la democrazia avrebbe portato all’abolizione delle differenze di classe, genere, razza e così via. Nelle parole del politico e teorico marxista tedesco Eduard Bernstein, “i partiti e le classi che li sostengono imparano presto a riconoscere i limiti del loro potere”. La tendenza attuale è infatti precisamente opposta. Quando la cittadinanza viene comprata e venduta, invece di essere un veicolo di emancipazione politica, diventa un veicolo di oppressione. Lo Stato diventa uno strumento che serve a premiare i membri di gruppi con più denaro e potere e a disciplinare e punire il resto. Cosa richiede una vera alternativa? Rifiutarsi di ripetere il gioco delle destre. Rifiutare la riduzione della democrazia all’appartenenza e del conflitto politico al conflitto culturale. Collocare la questione della migrazione nel contesto di più ampie ingiustizie sociali causate dal declino dello stato del welfare. Migranti. C’è un progetto che può aiutare i minori stranieri soli in Italia di Paolo Lambruschi Avvenire, 19 maggio 2025 Mediobanca e Unhcr insieme per rilanciare la figura del tutor volontario, istituita dalla legge Zampa. Sostenere i minori stranieri non accompagnati in Italia con la formazione l’inserimento e soprattutto promuovendo la figura del tutore volontario. È l’impegno che ha preso il Gruppo Mediobanca che ha deciso di rafforzare la collaborazione con Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati per sostenere un programma integrato di protezione dei minori stranieri non accompagnati. L’Italia nel 2024 ha registrato quasi 67mila arrivi via mare, il 19% dei quali erano bambini e il 69% di loro sono arrivati sulle nostre coste senza famiglia, spesso perduta per mare o lungo le rotte migratorie con traumi indelebili. In base al report del ministero del Lavoro, il più completo, a marzo erano poco più di 16mila i minori soli sul nostro territorio, spesso contro tutto e tutti in un Paese che non conoscono e che vorrebbero lasciare in fretta per proseguire il viaggio della speranza ignorando i propri diritti. Sono diminuiti nella contabilità degli sbarchi - che non comprende, però, i tanti arrivi di afghani dalla rotta balcanica al valico di Trieste -, ma non sono venute meno le attenzioni di trafficanti, reti criminali e sfruttatori verso di loro. La sfida è convincerli a restare e una figura adulta diventa perciò fondamentale. Il programma, che comprende un finanziamento di 200mila euro, ha l’obiettivo primario di affiancare i minori stranieri non accompagnati dal momento del loro arrivo, aiutandoli a superare gli ostacoli, dall’apprendimento dell’italiano alla costruzione di nuove relazioni sociali, dalla comprensione dei loro diritti all’integrazione scolastica fino alla ricerca di opportunità lavorative. In particolare, Mediobanca affianca Unhcr per promuovere e rafforzare la conoscenza del tutore volontario, figura chiave per sostenere i minori nella delicata fase dell’accoglienza. La sensibilizzazione e divulgazione si sviluppa all’interno di incontri organizzati sul territorio, così come dentro lo stesso gruppo bancario. “Con questo nuovo progetto al fianco di Unhcr, confermiamo il nostro percorso a sostegno dell’inclusione e della diversità. Investire nella figura dei tutori, che sono un supporto essenziale per i minori vulnerabili appena arrivati nel nostro Paese, ha l’obiettivo di garantire loro un futuro più sicuro e dignitoso. Favorire la costruzione di un tessuto sociale ed economico solido e inclusivo, in cui i principi di fiducia, solidarietà, pari opportunità e vita dignitosa siano applicati a tutti i cittadini, è parte integrante dei nostri obiettivi di Gruppo”, commenta Giovanna Giusti del Giardino, Group Chief Sustainability Officer di Mediobanca. “Sono molti i minori stranieri che arrivano in Italia senza genitori o parenti - ha dichiarato Chiara Cardoletti, rappresentante Unhcr per l’Italia la Santa Sede e San Marino -. Alcuni sono molto giovani, non conoscono la lingua e si devono confrontare con difficoltà enormi in un Paese che non conoscono. Nonostante le leggi nazionali per la loro protezione siano tra le più avanzate, hanno bisogno che il sistema di accoglienza a loro dedicato venga potenziato e che risponda adeguatamente ai loro bisogni. Insieme a Mediobanca, partner di fondamentale importanza per Unhcr, possiamo offrire a tanti minori stranieri nel nostro Paese il supporto di cui hanno bisogno”. Grazie al sostegno di Mediobanca è possibile infatti rafforzare la rete dei tutori volontari, figura pensata per sostituire l’adulto di riferimento per il minore solo. Che è in prevalenza un maschio di 16 anni, in cui si sommano la complessità degli adolescenti e i traumi dei vissuti specifici, con un background culturale e linguistico diverso dal nostro. “Noi sosteniamo la formazione - spiega Chiara Pelaia, Protection Office di Unhcr -. Il progetto promuove anche l’attività delle associazioni dei tutori volontari supportata da Save the Children anche con una hot line. È importante condividere problematiche, soluzioni e strategie e formare una comunità che possa confrontarsi, supportarsi e mettere in contatto anche i minori che si trovano nella stessa situazione”. Fondamentale investire su una campagna di comunicazione perché servono tutori. Dopo gli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della legge Zampa, in cui tutti i garanti regionali si sono attivati per organizzare i corsi, il numero dei candidati è calato a fronte di una necessità molto alta. Ora occorre rilanciare. Quello del tutore non è un compito facile, ma anche in pochi mesi si riesce a instaurare un rapporto di fiducia che si trasforma in amicizia e vicinanza. Codice della strada e droghe, le linee guida ministeriali? Non cambiano nulla di Salvatore Frequente Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2025 E i pazienti in cura restano a rischio. I ministeri dell’Interno e della Salute corrono ai ripari sul tema della guida dopo l’assunzione di stupefacenti, ma rimangono ancora tanti dubbi. Il legale: “Un maldestro tentativo di correre ai ripari”. A diversi mesi dall’entrata in vigore della riforma del Codice della strada, i ministeri dell’Interno e della Salute corrono ai ripari sul tema della guida dopo l’assunzione di stupefacenti, cercando di mettere ordine a una norma finita alla Consulta per possibili vizi di costituzionalità. Ma le nuove linee guida se da un lato chiariscono aspetti come l’inutilizzabilità degli esami delle urine per accertare la positività alle droghe, dall’altro sembrano più un tentativo finalizzato solamente a provare a legittimare - legalmente e tecnicamente - una norma molto contestata anche da giuristi e medici. E per i soggetti in cura con farmaci che contengono sostanze stupefacenti come, ad esempio, la cannabis terapeutica? Finalmente, dopo tanti mesi, l’argomento viene affrontato, ma i pazienti che assumono questi farmaci sotto prescrizione medica, non solo rischiano comunque la sospensione della patente per 10 giorni, ma rimangono anche molti dubbi su come la loro posizione verrà successivamente valutata. Un “intervento riparatore” che rischia pertanto di creare ulteriori problemi. L’eliminazione dello stato di alterazione - Come noto, la nuova riforma del Codice della strada - fortemente voluta e sponsorizzata dal ministro Matteo Salvini - ha introdotto una rilevante modifica all’articolo 187: è stato infatti eliminato qualsiasi riferimento allo “stato di alterazione psico-fisica” per chi guida dopo avere assunto sostanze stupefacenti o psicotrope. In pratica la sola positività ai test, comporterà così la punibilità (con l’arresto da sei mesi a un anno), anche se il risultato del test è stato causato da un’assunzione avvenuta molte ore prima e il soggetto non presenta alcuna alterazione. Un aspetto considerato da molti illogico e incostituzionale anche sotto il profilo della “indeterminatezza della fattispecie penale”. La “correlazione temporale” - Ed ecco che arrivano in soccorso le linee guida del ministero dell’Interno e della Salute (adottate l’11 aprile ma rese note solo pochi giorni fa) che individuano criteri e metodiche uniformi per l’esecuzione degli accertamenti tossicologici. I ministri così scrivono nero su bianco: “L’elemento caratterizzante la nuova fattispecie, contenuto nella locuzione ‘dopo aver assunto’, è costituito dallo stretto collegamento tra l’assunzione della sostanza e la guida del veicolo”. In pratica per essere punibile la condotta deve essere presente “una correlazione temporale tra l’assunzione e la guida, che si concretizza - spiegano i ministeri - in una perdurante influenza della sostanza stupefacente o psicotropa in grado di esercitare effetti negativi sull’abilità alla guida”. Ecco il passo indietro: non basta più la semplice positività ma bisogna dimostrare che questa è avvenuta “in un periodo prossimo” alla guida. Come dimostrarlo? - Qui sorge il primo problema. Vengono escluse le analisi delle urine (che possono presentare tracce di droghe anche dopo diversi giorni o settimane), ma basterà risultare positivi “esclusivamente attraverso analisi di campioni ematici o di fluido del cavo orale del conducente”. Quindi le analisi del sangue e i famosi test salivari. In una nota al testo viene sottolineato, infatti, che “nel sangue e nella saliva la maggior parte delle sostanze stupefacenti è rilevabile solo per alcune ore, a seconda dell’emivita della singola sostanza. In tale periodo, le sostanze rinvenute sono ancora in grado di esercitare il loro effetto”. Nessun riferimento però a ricerche o dati scientifici che dimostrino questa affermazione. Al contrario però ci sono diversi studi, come quello dell’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo (datato ottobre 2023), che parlando di test salivari che hanno dato risultato positivo fino a 22,5 ore dal consumo di Thc (il principio attivo presente nella cannabis), 25 ore dal consumo di oppiacei e 31,23 ore dopo il consumo di cocaina. Sono da considerare questi eventuali “periodi prossimi alla guida”? Tra l’altro, come affermato a ilfattoquotidiano.it da alcuni esperti, la permanenza nell’organismo delle sostanze varia da soggetto a soggetto e da un numero elevato di variabili. “Così non si accerta il pericolo” - “Un maldestro tentativo di correre ai ripari”, lo definisce l’avvocato Claudio Miglio, che insieme al collega Lorenzo Simonetti hanno una lunga esperienza nel settore dei reati in materia di stupefacenti. Se queste linee guida da un lato hanno “rimediato ad alcune evidentissime storture, come appunto quella dell’esame delle urine”, dall’altro “non risolve il problema” perché non si accerta ancora se il “soggetto è pericoloso alla guida”. Secondo la norma modificata e le linee guida “il reato è configurato se il test dà esito positivo, ma in realtà non dovrebbe essere così”, sottolinea a ilfattoquotidiano.it l’avvocato Miglio. “Qui il problema - aggiunge - è capire che l’offesa al bene giuridico tutelato, cioè la sicurezza stradale, si perfeziona quando il soggetto è in uno stato alterato”, va perseguita “l’assunzione pericolosa”, per questo “il legislatore avrebbe dovuto non toccare lo stato di alterazione”. L’unica via d’uscita, in attesa della decisione della Consulta, rimane pertanto quella di “provare e far valutare al giudice, durante il processo, l’assenza di pericolosità alla guida”, sottolinea il legale: “Ma il processo - aggiunge - è lungo e dispendioso”. Cosa cambia per i pazienti in cura - Infine, finalmente, viene affrontato l’argomento dei pazienti in cura con farmaci come la cannabis terapeutica. Nelle linee guida, però, i ministeri si limitano a fare presente agli agenti che “è importante indicare” nel verbale di accertamento “i farmaci eventualmente dichiarati dal soggetto o riportati nella certificazione medica eventualmente esibita ed acquisita dagli organi accertatori attestante una terapia farmacologica”. Questo, viene scritto, “potrà essere utile per consentire una più completa valutazione e interpretazione dei risultati degli accertamenti tossicologici di secondo livello”. In tutti i casi, infatti, dopo un test della saliva con esito positivo, vengono prelevati altri due campioni per effettuare i successivi accertamenti: in quei 10 giorni però la patente potrà essere sospesa. “Da quello che si interpreta, tecnicamente si procederà alla contestazione anche penale e ci sarà la sospensione della patente”, in attesa delle successive analisi, spiega l’avvocato Miglio. In più “dobbiamo capire in che termini avverrà questa valutazione, perché si rischia addirittura di andare contro quello che si vorrebbe tutelare”. Le linee guida di questo non parlano. “Ovviamente - sottolinea il legale - se un paziente è oggettivamente pericoloso alla guida va sanzionato, quella che va tutelata è la sicurezza stradale”. Nonostante l’intervento dei due ministeri, pertanto, tanti punti rimangono ancora poco chiari. Potrà però essere la Corte costituzione a mettere dei paletti sulla norma. No, la pace non può essere solo un desiderio di Giusi Fasano Corriere della Sera, 19 maggio 2025 La parola pace è così abusata da sembrare ormai priva di tutta la sua potenza pratica, reale. Incatenata alle pretese di questo o quello, evocata in ogni dove, citata sempre e sempre più astratta. L’ha descritta con grande lucidità, in una recente intervista ad Avvenire, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme: “La pace”, ha detto riferendosi alla situazione in Terra Santa, “qui è la grande assente: non soltanto nelle nostre città e nella realtà quotidiana, ma anche nel pensiero. Resta soltanto un desiderio”. Esattamente a questo si è ridotta, la pace; niente più di un desiderio. Indeterminato, teorico. Un desiderio spesso immaginato troppo lontano perché possa essere esaudito davvero. La parola pace è così abusata da sembrare ormai priva di tutta la sua potenza pratica, reale. Una parola diventata quasi superficiale e perfino divisiva, per usare un’espressione oggi tanto di moda. Perché c’è sempre chi è convinto di poterla chiedere in esclusiva negando agli altri il diritto di nominarla. Su fronti piccoli come su quelli grandissimi. Si litiga in nome di questa pace, “depotenziata” del suo significato, fra le fazioni che si fronteggiano a insulti sulla questione israelo-palestinese ma anche sotto le bombe sganciate sui tanti fronti di guerra nel mondo, mentre si cerca la famosa e sconosciuta “pace giusta”. Come se quell’aggettivo - giusta - potesse rimediare a tutto ciò che è successo prima e a ciò che verrà dopo. Ma la pace è la pace, non si porta appresso nessun aggettivo. Ce l’ha insegnato, con un gesto piccolo ma grandioso, Yocheved Lifshitz, la donna israeliana di 85 anni rapita il 7 ottobre e rimasta prigioniera nei tunnel di Gaza per due settimane. Quando scese dalla camionetta dei suoi rapitori fece per andare incontro agli operatori della Croce Rossa che l’avrebbero presa in consegna ma all’improvviso di voltò verso uno dei miliziani armati, prese la sua mano e disse una sola parola: shalom, cioè pace in ebraico. Per tramutarsi in realtà la pace “disarmata e disarmante, umile e perseverante” augurata al mondo da Papa Leone XIV nel suo primo discorso, ha bisogno di diventare pensiero, e questo non ha nulla a che vedere con la fede. Non importa essere ebrei o musulmani, cattolici o copti, credenti o atei. Importa essere pervasi da quel sentimento, averlo in mente come imperativo etico. Farne un pensiero, appunto. Non soltanto un desiderio. Non vedo indignazione per il riarmo di Luciano Casolari Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2025 Subito dopo il ‘68, i giovani avevano il desiderio e l’illusione di cambiare il mondo. Ora sembrano prevalere il distacco e il disincanto. Come mai di fronte alla prospettiva di trasferire enormi risorse, prese soprattutto a discapito dei poveri, verso le armi non emerge una diffusa indignazione? Come può succedere che l’affermazione perentoria sulla ineluttabilità di una guerra entro i prossimi dieci anni contro una potenza nucleare dotata di 6mila testate nucleari non provochi un sussulto nella popolazione? Questa domanda mi pare centrale in questa fase della vita del nostro Paese e della sempre incompiuta Unione europea. Si dirà che singole personalità, partiti politici o organizzazioni tutti i giorni ne parlano e esprimono la loro avversione. È vero però che agli occhi dei più queste posizioni, definite pacifiste o “pacifinte”, sembrano fare parte del piccolo cabotaggio politico e politicante per ottenere qualche voto in più. L’aumento dei voti nelle ultime elezioni per molti leader politici con posizioni contrarie a queste smanie belliciste, da Trump a Farage, da Le Pen e Melechon a Fico, da Weidel a Simion, vengono derubricate a espressioni di estremisti asserviti al nemico. Per lo più si ritiene, forse in alcuni casi a ragione, che siano politici che non credono realmente alla possibilità di una convivenza pacifica ma piuttosto a furbastri che utilizzano il sentimento contrario alla guerra serpeggiante nella popolazione per ottenere un momentaneo successo. Quando ero ragazzo, subito dopo il ‘68, i giovani avevano il desiderio e l’illusione di cambiare il mondo. Ora sembrano prevalere il distacco e il disincanto. Si ritiene che in questa bolgia di messaggi mediatici una manifestazione contro il riarmo non verrebbe neppure percepita. Ho provato come medico e psicologo a riflettere ascoltando il vissuto di alcuni pazienti giovani. Mi pare che emergano tre elementi che sottopongo ai lettori per sentirne il parere. Individualismo. In una società massificante e massificata la consapevolezza di essere uno su otto miliardi ha provocato come reazione il chiudersi nel proprio particolare. La vita di ognuno di noi scorre su un binario individuale che non sembra mai intersecarsi con ciò che avviene a livello macrosociale. L’idea della guerra, pur prospettata come vicina dai politici che governano l’Europa, risulta lontana ai giovani. I leader dei vari paesi appaiono come degli attori di teatro che recitano il loro copione ma che, finita la rappresentazione, torneranno a gestire il piccolo cabotaggio nazionale. Non si crede a quello che affermano, con petto in fuori e sicumera, in quanto appaiono come guitti che rappresentano un personaggio in una finzione propinata alle masse per intrattenerli. Rassegnazione. Cosa ci possiamo fare? In una società liquida sembra che le onde verso destra o sinistra, verso la pace o la guerra, verso l’ateismo o la fede vadano e vengano senza che nessuno possa farci granché. Ora è il momento dell’onda verso destra, della smania per gli armamenti e per il nuovo papa. Prevale l’idea di lasciare scorrere in attesa che l’onda di reflusso faccia il suo corso. Desiderio. Il desiderio dell’uomo occidentale non è mai stato così tanto manipolato. Milioni di spot pubblicitari sono la zavorra che ogni nato sarà costretto a subire per arrivare all’età della ragione. Tutti a dire che per essere felici occorre questo e quello. Capirete che un giovane sia disorientato e arrivi nell’età dell’adolescenza, che verrà artificialmente prolungata per renderlo un buon consumatore, senza uno straccio di idea su ciò che veramente gli serve. La guerra inconsciamente rappresenta un potente stimolo al cambiamento del mondo. Potrà essere inconsciamente quasi desiderata, anche se coscientemente osteggiata. La guerra offre un senso, che il consumismo ha distrutto, al desiderio del giovane perché definisce dei valori per cui vale la pena di vivere e morire. Che poi questi valori siano ambigui, costruiti dai mezzi di comunicazione, per propagandare la smania a spendere tutto il denaro disponibile per armarsi, il giovane lo scoprirà troppo tardi. Al valico di Rafah dove si fermano gli aiuti per Gaza. “Qui è in crisi tutta l’umanità” di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 19 maggio 2025 La delegazione italiana è arrivata alla frontiera con Gaza, mentre arrivano le notizie dell’uccisione del capo di Hamas, Mohammed Sinwar, e le ulteriori centinaia di vittime della grande offensiva dell’Idf. Il valico di Rafah è vuoto. Così come la strada percorsa per arrivare a questo unico punto di frontiera tra l’Egitto e la Striscia di Gaza. Un contrasto visivo netto rispetto a qualche mese fa, quando era impossibile riuscire a contare i tir fermi in fila ad aspettare per entrare. La carovana italiana di “Gaza oltre il confine”, composta da parlamentari ed eurodeputati delle opposizioni, ong e giornalisti è arrivata al valico di Rafah la mattina presto. Sono presenti solo gli operatori della Croce Rossa e i medici egiziani. Il silenzio è interrotto dal suono dei boati dell’artiglieria e dalle bombe dell’aviazione israeliana. I rumori della guerra si sono sentiti per tutta la notte anche nella città egiziana di Al Arish, che dista poco meno di 50 chilometri. Cancelli sbarrati - La carovana è arrivata fin qui per chiedere, tra le altre cose, la fine dell’occupazione e dell’impunità per i crimini internazionali commessi, il cessate il fuoco, l’ingresso degli aiuti e l’embargo alla vendita di armi allo stato ebraico. L’obiettivo era anche quello di entrare a Gaza, “ma quel cancello è rimasto sbarrato”. Da oltre 70 giorni Gaza è sotto assedio. Se non sono l’infinità di bombe sganciate dall’Idf negli ultimi 18 mesi, a uccidere sono la malnutrizione e il mancato accesso alle cure mediche. Eppure sono circa diecimila, secondo l’Onu, i camion pronti a entrare, di cui oltre mille da Rafah. Di fronte al valico la carovana ha organizzato un’azione dimostrativa esponendo giocattoli e vestiti per bambini. I presenti hanno chiamato in causa direttamente i leader internazionali. I cartelli nelle mani della delegazione italiana mostrano i volti di tutti i leader europei e dell’Ue, oltre alla scritta “stop genocide now”. Ai loro piedi uno striscione recita: “Stop complicity”. “Chiamiamo in causa il governo italiano affinché faccia e dica qualcosa con tutti i mezzi che ha disposizione”, dice Rachele Scarpa, deputata del Pd. “Non sentiamo le voci di Gaza, ma sentiamo le bombe, siamo qui per dire che ci sentiamo responsabili ma non vogliamo essere complici di questo genocidio”, è il commento, invece, di Marco Grimaldi di Avs. Appena arrivato al valico, Yousef Hamdoun ha chiamato la sorella. A separarli una decina di chilometri di barriere e macerie. Hamdoun, della ong Educaid, è riuscito a evacuare da Gaza poco dopo il 7 ottobre. Nato e cresciuto nella Striscia, tutta la sua famiglia è ancora lì. Ogni giorno è in contatto con loro e ogni chiamata è carica dello stesso dolore. Indossa una maglietta con la scritta: “Se a Gaza c’è crisi umanitaria, nel resto del mondo c’è crisi di umanità”. Il prezzo del pane - “Il blocco degli aiuti è uno strumento per distruggere l’unità e l’identità dei palestinesi. In una situazione simile, anche chi ti circonda rischia di diventare un competitor nella lotta per la sopravvivenza”, racconta Youssef. “Chi ha anche solo un piccolo pezzo di pane lo vende a prezzi allucinanti. Le persone iniziano a percepire meno solidarietà interna. Ognuno pensa alla propria sopravvivenza. Ricordo ancora quando mio fratello mi ha chiamato in lacrime perché aveva mangiato l’ultimo pezzo di pane. Lo aveva fatto nel bagno e di nascosto. Si sentiva in colpa di non averlo condiviso con il resto della famiglia”. Se non si arriva a una tregua, sua sorella, invece, dovrà lasciare l’area in cui si trova, perché rischia di essere al centro delle prossime operazioni via terra dell’Idf. Tutto è riposto nell’ultimo tentativo di mediazione in corso in Qatar. Quando la carovana lascia il valico, il volto di Hamdoun è scavato dalle lacrime ma riesce a trovare la forza per salire sul pullman. Dopo il primo scalino si sofferma e guarda verso la Striscia, inviando un bacio verso la sua Gaza. Mentre l’autobus si sposta verso i magazzini di stoccaggio della Croce Rossa egiziana, i media internazionali raccontano di altre centinaia di vittime nella notte, tra cui cinque giornalisti, e della morte di Mohammed Sinwar. Vicino Rafah ci sono due grandi magazzini, il primo, di 30mila metri quadri è stracolmo, Il secondo, grande quasi il doppio, è in fase di ampliamento. A pochi minuti di distanza c’è l’hub di stoccaggio dove ci sono tutti i pallet rifiutati. Le regole d’ingaggio dell’esercito israeliano sono rigidissime. Lofty S. Gheit, head of operation and strategic communication della Croce Rossa egiziana, si prende diversi minuti per elencarle tutte. Nel tendone dei pacchi rigettati ci sono sedie a rotelle e stampelle. “Respinte perché c’è il ferro”, spiega. I sacchi a pelo, invece, sono stati rispediti al mittente perché di colore verde militare. Un kit di giochi per bambini che contiene pupazzi e palloni non può entrare perché il box che li contiene “non andava bene”. L’inventario è grande: ci sono bombole di ossigeno, generatori diesel, torce alimentate da pannelli solari, ruote di automobili e medicinali. Tanti medicinali. Delle unità refrigeranti custodiscono vaccini, insulina e altri farmaci essenziali per patologie comuni. Servono per conservarli in attesa dell’usura del tempo. “A volte qualcuno osserva che la varietà di materiali rifiutati non è tanta. Ma sono quelli più essenziali per portare a termine il nostro lavoro”, dice S. Gheit. “Siamo pronti a inviare tutto, le porte dell’Egitto sono aperte, quelle dell’altro lato no”.