Giachetti: “Inferno carceri. Bene La Russa, ma ora serve una svolta”. di Marina De Luca Quotidiano del Sud, 18 maggio 2025 Un’apertura di portata storica, una “emancipazione”, non solo perché proviene da un esponente cardine della maggioranza del governo di centrodestra che a fine luglio scorso aveva affossato la proposta di legge firmata da Roberto Giachetti. Le parole del presidente del Senato Ignazio La Russa, che rilanciando la denuncia di Gianni Alemanno avverte che è necessario affrontare il problema e ripesca la proposta sulla “liberazione anticipata speciale” presentata dal deputato di Italia Viva con Rita Bernardini e l’associazione Nessuno tocchi Caino con l’intento di decongestionare le carceri, sono di impatto notevole. Perché vengono dalla seconda carica dello Stato. E perché “per la prima volta - afferma il deputato Giachetti - si parla di emergenza e ci si rende conto, si prende coscienza, della situazione reale delle carceri”. Onorevole Giachetti, il presidente La Russa apre alla sua proposta, anticipando che la convocherà perché la situazione delle carceri - dice - non è né di destra né di sinistra... “Apprezzo davvero le sue parole e non solo perché provengono dalla seconda carica dello Stato, ma perché finalmente viene citata la parola emergenza. Credo che il presidente abbia fatto un minimo di valutazione preventiva della proposta e della sua possibile attuazione, altrimenti illuderemmo di nuovo il mondo carcerario. Lo ringrazio per aver aperto questo importante varco. E sono contento che le mie lunghe battaglie abbiano contribuito a questo, perché non ho mai voluto portarmi a casa chissà quale premio. Per me la cosa più importante, al di là che la proposta si chiami Giachetti o porti un altro nome, è risolvere l’emergenza sovraffollamento. L’apertura di La Russa è ancora più importante se è finalizzata ad aprire una mediazione concreta che da parte mia troverà sempre disponibilità per una soluzione urgente e necessaria. Ma soprattutto se servirà ad andare oltre la risposta del ministro Nordio concentrata sulla sola edilizia penitenziaria”. La premier Meloni e il Guardasigilli Nordio in effetti hanno sempre chiuso a qualsiasi possibilità di amnistia o indulto e a misure svuotacarceri... “Ma la liberazione anticipata speciale non è niente di tutto questo. Il meccanismo premiale esiste già, e fu utilizzato dopo la famosa sentenza Torreggiani. La Corte europea dei diritti dell’uomo dodici anni fa condannò l’Italia con una pronuncia che chiedeva due cose precise: la riduzione immediata delle presenze (tant’è che fu fatta appunto la legge di cui stiamo parlando) ma poi, e soprattutto, che fossero rimosse le cause che rendevano la detenzione inumana e degradante. Da allora sostanzialmente nulla è stato fatto-per essere chiari da tutti i governi che si sono succeduti - ed oggi siamo ai livelli di sovraffollamento che ci procurarono quella condanna”. Anche il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli ha mostrato aperture verso la sua proposta. Ricordiamo in cosa consiste? “In sostanza si tratta di ampliare lo sconto di pena per buona condotta: da 45 giorni ogni sei mesi si passerebbe a 75, cioè oltre un terzo della condanna da espiare. Soprattutto, lo sconto sarebbe retroattivo: si applicherebbe a tutti i “bonus” concessi dal 2016 a oggi. Senza la retroattività non risolveremmo il problema del sovraffollamento. Pinelli ha affermato che si potrebbe, in una fase emergenziale, estendere questo beneficio a 60 o 90 giorni, soprattutto per detenuti con pene brevi e che non si sono macchiati di reati gravi. Sarebbe secondo il vicepresidente Csm una misura concreta, equilibrata, che non nega la funzione della pena e allo stesso tempo aiuta a gestire una situazione drammatica, nel rispetto dei principi fondamentali. Io credo che sarebbe interesse del Paese andare verso una cultura garantista e non giustizialista. Una battaglia che ho condotto per molto tempo in solitudine: quanto sta accadendo è per me un bel riconoscimento”. Perché sostenere questa proposta? “Perché siamo in Italia, dove abbiamo una Carta Costituzionale che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo come singolo e nelle formazioni sociali in cui esplica la sua personalità, e che richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. In questo momento sono molto vicino all’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno - come ho avuto vicinanza per altri politici nel tempo, da Dell’Utri a Lusi - che ha scritto a La Russa denunciando il sovraffollamento. Ma voglio dire che la battaglia che sta portando avanti, non per se stesso ma per i detenuti, è il senso di tutto quello che io stesso ho fatto fino ad oggi”. La sua proposta è appoggiata anche da molti magistrati di sorveglianza. Perché? “Dalle audizioni in commissione al dibattito pubblico e mediatico praticamente tutti riconoscono che, lungi dall’essere la soluzione strutturale ai mali del sistema carcerario, la proposta è l’unica che ha il merito di affrontare l’emergenza per almeno ridurla. Lo dicono i sindacati della polizia penitenziaria, lo dicono molti magistrati di sorveglianza, lo dice l’Anm, i garanti dei detenuti di tutta Italia, le associazioni di volontariato, le Camere penali, gli educatori, gli psicologi. Non puntiamo solo allo svuotamento ma alla gestione del mondo carcerario. Dopo la sentenza Torreggiani, molti detenuti non ricorrono più alla Corte Europea per denunciare la detenzione disumana, ma ai magistrati di sorveglianza. Migliaia di reclusi a cui il giudice dà ragione e che vengono risarciti con lo sconto di pena. È ora di uscire da questa ipocrisia: l’istituto c’è già, e i magistrati accogliendo i ricorsi dei detenuti certificano che lo Stato è fuori legge. Ecco perché parlare di situazione di illegalità non un’esagerazione”. Le parole di La Russa siano l’occasione per la ripresa di un dibattito parlamentare sul dramma delle carceri di Giunta e l’Osservatorio Carcere UCPI camerepenali.it, 18 maggio 2025 La nota della Giunta e dell’Osservatorio Carcere a seguito delle dichiarazioni del Presidente del Senato sulla situazione delle carceri. Abbiamo avuto modo di ascoltare le parole espresse dal Presidente del Senato, Ignazio La Russa, ritenendole, nella loro singolare novità, meritevoli di positivo accoglimento. Intervenendo al convegno, dal titolo-manifesto “Per un gesto di clemenza nelle carceri”, promosso dalla comunità “La Valle di Ezechiele”, guidata da don Davide Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio, la seconda carica dello Stato, nel denunziare l’intollerabile condizione di sovraffollamento carcerario, ha pubblicamente manifestato evidenti segnali di apertura rispetto al progetto di legge a firma dell’on. Roberto Giachetti sulla liberazione speciale anticipata, in forma retroattiva, quale possibile strumento deflattivo. La Russa, replicando all’affermazione del vicepresidente del CSM, l’avv. Fabio Pinelli, sulla necessità di trovare una soluzione perché “il sovraffollamento carcerario lede la dignità della persona”, ha dichiarato di averne parlato con la Presidente del Consiglio, on. Giorgia Meloni, in quanto anche lei lo “considera un problema molto importante” e di avere intenzione di convocare Roberto Giachetti per discutere la concreta fattibilità della sua proposta di legge sulla liberazione speciale anticipata, dichiarandosi apertamente impegnato in una azione di “moral suasion” sul Parlamento, perché di essa si deve parlare e decidere, in un civile confronto politico tra maggioranza e opposizione. Senza dubbio, le dichiarazioni del Presidente La Russa, da noi condivise, non possono essere strumentalmente tacciate di partigianeria, solo perché egli abbia fatto riferimento ad una lettera recapitagli dall’ex ministro Gianni Alemanno, oggi detenuto in espiazione pena nel carcere di Rebibbia, che lo ha sensibilizzato sulla necessità di una misura clemenziale in grado di ridurre drasticamente il sovraffollamento. Siamo dinanzi ad una situazione carceraria disastrosa che ci riporta indietro agli anni della sentenza “Torreggiani c/Italia” della CEDU, con 62.456 detenuti presenti, al 30 aprile 2025, ben 103 morti in carcere e di carcere dall’inizio dell’anno (30 suicidi e 73 decessi per cause diverse o comunque da accertare) e un tasso di sovraffollamento pari al 133,5%. Numeri, purtroppo, in aumento che rendono inaccettabile l’inerzia e l’indifferenza attuale. È una dichiarazione che non può e non deve essere lasciata cadere nel vuoto. Il Parlamento riapra, finalmente, un dibattito, franco e senza schemi pregiudiziali, sulle drammatiche condizioni detentive nelle carceri, impegnandosi nell’adozione di una serie di misure condivise di riforma dell’intero sistema dell’esecuzione penale, certamente a medio termine, ma anche immediatamente efficaci, per far rientrare il sistema penitenziario italiano nella legalità costituzionale. Riconciliare il mondo di dentro con quello di fuori di Daniele Mureddu e Matteo Frascadore L’Osservatore Romano, 18 maggio 2025 Liberare la speranza che abita il carcere. Liberarla dal pietismo di chi - da fuori - la considera come un sentimento consolatorio utile ad alleviare le pene della vita dei reclusi. E liberarla dalla sfiducia di chi - da dentro - pensa di non meritarla. Liberarla, per portarla nelle parrocchie e nelle strade della città come un dono che ci ricorda che siamo tutti figli di uno stesso padre, un padre misericordioso, compassionevole e che non smette mai di esserci vicino. È questa l’esperienza vissuta da una cinquantina di giovani, tra i quali molti scout, della parrocchia romana di Santa Maria delle Grazie al Trionfale che, a marzo, sono entrati nella casa di reclusione di Rebibbia per attraversare la Porta Santa che Papa Francesco ha voluto aprire proprio lì, il 26 dicembre scorso. Il loro è stato il primo di gruppo di “esterni” che ha potuto celebrare il Giubileo nel carcere, raccogliendo l’invito del Servizio per la pastorale carceraria della diocesi a costruire ponti per dare testimonianza concreta dell’attenzione della Chiesa verso i fratelli e le sorelle reclusi. Per i ragazzi è stata un’esperienza forte, che ha lasciato il segno. Non solo ha permesso di confrontarsi con una realtà lontana dalla loro quotidianità - tutti sono rimasti molto colpiti dal fatto che, per entrare nel carcere, abbiano dovuto lasciare in custodia all’ingresso i loro telefonini -, ma soprattutto ha dato modo di incontrare e conoscere un’umanità che non è diversa dalla loro, anzi, che è capace di insegnare qualcosa che troppo spesso viene trascurato o dato per scontato. “Abbiamo sentito parole di speranza - racconta uno dei giovani -, la speranza di una vita semplice, ma completa nella quale è centrale essere al servizio degli altri. Una delle persone che abbiamo incontrato fa il giardiniere e ci ha fatto capire come dare valore anche a cose all’apparenza piccole come la cura dei fiori in un giardino”. “Ci ha colpito molto - racconta un altro ragazzo - la testimonianza di una persona detenuta che, con orgoglio, ci ha parlato del suo lavoro nell’orto del carcere e di quanto lo renda felice poter offrire agli altri il frutto del proprio lavoro”. La condivisione è un altro segno di speranza che i giovani hanno appreso e che ha spazzato via quel “pregiudizio che spesso abbiamo nei confronti delle persone recluse”. Accompagnati dal Vescovo ausiliare Benoni Ambarus - per tutti semplicemente don Ben -, i ragazzi hanno partecipato alla celebrazione eucaristica con i detenuti. Raccontano che erano disposti su file diverse - loro da una parte, le persone recluse dall’altra -, ma al momento dello scambio di un segno di pace le distanze si sono azzerate. Molti detenuti si sono avvicinati: “Si percepiva la genuinità in quello che stavano facendo”, un gesto semplice, ma intriso di autenticità. Poi, raccontano i ragazzi, “ci hanno ringraziato per essere andati lì, semplicemente per aver condiviso con loro il nostro tempo”. Un “grazie” per niente scontato, ma che dimostra come incontri come questi possano rappresentare un momento autentico di riconciliazione tra il mondo “di dentro” e il mondo “di fuori”. Una riconciliazione di cui si avverte sempre più il bisogno affinché il carcere rispecchi veramente quello che è indicato nella Costituzione e non sia il luogo degli scartati. Dare valore a ciò che è semplice e puro, anche dentro le mura di un penitenziario, è già un passo verso un’esistenza riconciliata. “Una volta scontata la condanna - riflette uno dei giovani - le persone che abbiamo incontrato troveranno un mondo diverso da quello che hanno lasciato. Molti sono in carcere da anni. Ma la loro speranza è quella di potersi reinserire, anche senza sapere esattamente come sarà il domani. E per questo c’è bisogno di comunità che sappiano accogliere e accompagnare”. Nei ragazzi della parrocchia di Santa Maria delle Grazie al Trionfale il pellegrinaggio a Rebibbia ha lasciato un segno profondo. Sono tornati nelle loro case e tra i loro coetanei cambiati. Anche loro che appartengono alla generazione Z e che spesso gli adulti considerano immersi in un mondo solo virtuale hanno potuto confrontarsi con le parole di Gesù che continua a ripeterci: ero carcerato e siete venuti a trovarmi. Ronde e giustizia fai da te: il corto-circuito della sicurezza nelle città di Agnese Ranaldi Il Domani, 18 maggio 2025 Le “ronde anti-maranza”, la retorica securitaria sui social da decine di migliaia di follower, la politica che vuole riposte “qui e adesso”: le risposte ai bisogni di sicurezza vanno tutte nella direzione sbagliata. “Chiediamo soltanto di vivere in sicurezza le nostre città. Non ci stiamo a essere ostaggio di cento miserabili che si sentono coperti da una politica che dovrebbe tutelare i cittadini onesti e che invece tutela chi in Italia non dovrebbe starci”. La sicurezza in città è al centro delle arringhe, online e offline, di Simone Carabella, l’influencer romano noto alle cronache come uno dei principali ispiratori delle cosiddette ronde contro la microcriminalità. Dal suo profilo Instagram da più di 52mila follower prende di mira, tra gli altri, “chi vive di espedienti” nelle palazzine occupate di Tor Tre Teste a Roma e “tutti i maranza di Corvetto, quartiere di Milano in preda al crimine e al degrado”. La scorsa settimana ha parlato a una platea di un centinaio di persone (invitati anche Frank Mascia e “lady pickpockets” Monica Poli) radunate davanti alla stazione di Lambrate a Milano. Ha annunciato che si sarebbero ripresi il quartiere andando “a fare aperitivo in ogni bar della piazza”, ma non prima di aver lanciato una raccolta firme per chiedere più forze di polizia nelle stazioni. Farsi giustizia - Le ronde “anti-maranza” suggeriscono come la differenza tra “sicuro” e “securitario” ridisegni i profili delle città. “Farsi giustizia da soli denota una mancanza di fiducia nei confronti delle istituzioni, nata da un deterioramento dell’immaginario democratico”, dice Florencia Andreola, urbanista di genere e autrice, insieme alla ricercatrice e collega Azzurra Muzzonigro, del libro Libere, non coraggiose. Le donne e la paura nello spazio pubblico. “Decidere che la sicurezza vada affrontata con strumenti securitari, come la militarizzazione delle città, significa delegare a qualcuno una gestione repressiva e quasi violenta della società”, continua. Il rischio è che la retorica securitaria finisca per punire gruppi di persone marginalizzate e razzializzate. Sono le “condizioni di povertà, di mancata dignità, di instabilità abitativa e lavorativa”, secondo Andreola, la principale fonte di insicurezza. “Ma la politica vuole ottenere sempre risposte valide qui e ora, invece di avere in mente un’idea complessiva di città”. “Le ronde anti-maranza non possono produrre sicurezza, perché osservano il problema sbagliato”, dice Demetrio, attivista del centro sociale Lambretta di Milano, parte della rete “A pieno regime - No ddl sicurezza. “A Milano e in Italia, l’insicurezza più diffusa è quella lavorativa e abitativa. Destra e sinistra liberale hanno svuotato il concetto di sicurezza dell’elemento di critica al sistema economico”. Questo tipo di retorica securitaria ha guidato diversi provvedimenti adottati dalla politica in Italia. “Le zone rosse stanno avendo gli effetti più tangibili sulle città - continua Demetrio - Rendono esclusivi luoghi che non possono più essere attraversati da persone migranti, straniere, senza fissa dimora”. Sono state istituite su direttiva del Ministero dell’Interno, in città come Milano, Roma e Napoli, tra la fine del 2024 e il 2025 e puntano ad allontanare individui considerati pericolosi, con fogli di via e daspo urbani, da aree sensibili come stazioni ferroviarie, piazze della movida e zone note per attività illecite. “Il decreto Sicurezza, di cui le zone rosse sono un’anticipazione, per certi aspetti, è lo strumento che questo governo ha scelto per silenziare le voci di chi, con la propria presenza o attraverso iniziative, testimonia l’insicurezza sociale, come migranti, famiglie indigenti e movimenti sociali”. Immaginare una città alternativa, però, è possibile. “La sicurezza è legata a presidi spontanei - spiega Andreola, che insieme a Muzzonigro collabora con il Comune di Milano per mappare iniziative virtuose di urbanistica inclusiva - Cioè, si lega alla responsabilizzazione dei cittadini, che con la loro presenza garantiscono non tanto che in città non succeda più nulla di male, ma che vi siano luoghi in cui sia facile chiedere e ricevere aiuto”. Un esempio concreto è il caso dell’iniziativa “Bellarquà” in via Arquà a Milano. “È un progetto di rivitalizzazione della strada, dove le persone inibiscono risse o reati, perché ormai quella è una via in cui si sta insieme”. Da “Bellarquà” è nata l’iniziativa Musica dalla finestra, dove vicini di casa possono affacciarsi al balcone o scendere in strada ad ascoltare la musica suonata da una delle finestre. Gli “Affacci solidali”, invece, accompagnano, guardandole dal balcone, le persone che attraversano la via per farle sentire al sicuro sotto lo sguardo dei vicini. “È un progetto nato proprio da questa emergenza della sicurezza - dicono Andreola e Muzzonigro - Oggi fa sì che quelle persone, che ormai si conoscono e si riconosono, possano contare su un aiuto reciproco”. Invece di difendere le donne, lo Stato dice loro di nascondersi di Ilaria Boiano Il Domani, 18 maggio 2025 Le parole di Nordio sul braccialetto elettronico e il suo invito alle donne a rifugiarsi in chiesa o in farmacia se allertate di una violazione delle misure cautelari non sono una gaffe. Sono la manifestazione di ignoranza rispetto ai doveri dello stato e capovolgono, ancora una volta, la responsabilità della protezione e sicurezza. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, chiamato a rispondere in parlamento sul funzionamento del braccialetto elettronico, ha invitato le donne a rifugiarsi in una chiesa o in farmacia se allertate dalle forze dell’ordine di una violazione della misura cautelare applicata all’indagato, poiché lo strumento non consentirebbe un intervento immediato ed efficace delle forze dell’ordine. Queste dichiarazioni non possono essere banalizzate come una semplice gaffe, sono, piuttosto, l’ennesima manifestazione di una profonda ignoranza istituzionale rispetto ai doveri dello stato in tema di prevenzione e protezione nei casi di violenza di genere, poiché capovolgono, ancora una volta, la responsabilità della protezione e sicurezza e la trasformano in una questione individuale che la singola donna deve gestire meglio che può. Suona l’allarme, le forze dell’ordine ti avvisano, se tu non riesci a metterti in salvo, “te la sei cercata”. Ancora. Il sistema - Il sistema delle misure cautelari esiste per prevenire la reiterazione della violenza, e il braccialetto elettronico serve per vigilare sul rispetto delle disposizioni imposte dall’autorità giudiziaria, tuttavia non basta attivarlo, ma servono risorse, personale formato, protocolli chiari, investimenti strutturali. Serve soprattutto la consapevolezza politica che la protezione dell’incolumità delle donne che denunciano violenza di genere non può consistere nell’invito a “trovare rifugio” in una farmacia o in una chiesa, così come non si esaurisce nella previsione astratta di misure cautelari o di supporto: come ha più volte ribadito la Corte europea dei diritti umani, gli obblighi di protezione che vincolano lo stato nei casi di violenza di genere impongono un intervento concreto, tempestivo ed efficace. Pensare che una donna debba scappare in un luogo sacro per proteggersi dalla violenza dopo aver denunciato e ottenuto una misura cautelare significa ammettere che lo stato non è in grado di garantire l’effettività dei suoi provvedimenti. Un diritto - Come femministe e come operatrici dei centri antiviolenza, per prevenzione, protezione e sicurezza intendiamo una pratica politica da risignificarsi costantemente alla luce dell’esperienza delle donne accolte nei centri e nelle case rifugio. La prevenzione non è prescrivere alle donne come comportarsi per evitare la violenza, ma riconoscere le radici culturali, giuridiche e sociali della violenza stessa. Non può essere uno sforzo predittivo che ricade sulla responsabilità individuale della donna, né può ridursi alla retorica del “doveva denunciare prima” oppure “nasconditi dove puoi”. La protezione, invece, è un diritto. Non è un gesto caritatevole, né una limitazione della libertà della donna, ma l’accesso a spazi abitabili, sicuri e temporanei, dove il tempo della relazione con sé e con le altre consente la riprogettazione della propria vita. Infine, la sicurezza è quella costruita dalla comunità. Una sicurezza sociale, relazionale e condivisa, poiché la collettività si assume la responsabilità di riconoscere la violenza come un problema che riguarda tutte e tutti. Chiedere alle donne di nascondersi è il contrario della prevenzione, della protezione e della sicurezza ed è offensivo per le donne che denunciano, per i saperi di chi lavora nei centri antiviolenza e per chi ogni giorno costruisce spazi reali di libertà. Il compito della politica e delle istituzioni è garantire che gli istituti giuridici e gli strumenti esistenti nell’ordinamento non siano solo un manifesto, ma un sistema coerente e funzionante, capace di gestire interventi tempestivi e concreti, in linea con gli obblighi positivi della Convenzione di Istanbul e che vincolano lo stato a prevenire la violenza di genere e a proteggere effettivamente la vita e i diritti delle donne. Porto Azzurro (Li). “Ancora una morte di carcere e per il carcere” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 18 maggio 2025 Raccontano che ogni volta che un detenuto manifestava un problema, lui se lo caricava sulle spalle e cercava di risolverlo; raccontano che amasse il suo lavoro, ma che ultimamente era molto stanco e stressato. Venerdì pomeriggio l’agente penitenziario del carcere di Porto Azzurro, all’Isola d’Elba, 58 anni, si è tolto la vita nell’abitazione adiacente al carcere, dove l’uomo viveva con moglie e figlia. A dare la notizia il sindacato Uil-pa Polizia penitenziaria. “Siamo sgomenti per quest’ulteriore vita spezzata. Ancora una morte di carcere e per il carcere” dice Gennarino De Fazio, segretario generale del sindacato. Altri sette casi simili si sono registrati nel corso del 2024 in tutta Italia. “Naturalmente, a determinare un gesto così estremo concorrono una serie di variabili, di diversa natura - specifica De Fazio - ma noi riteniamo che il servizio in prigioni in perenne emergenza e con carichi di lavoro e di coscienza inenarrabili costituiscano il fattore prevalente, tanto che le consideriamo morti per servizio”. Nel 2025 è il secondo agente penitenziario che si toglie la vita, mentre ammontano a 29 i detenuti suicidi. L’agente di Porto Azzurro era rappresentante sindacale della Uilpa, prima agente assistente, poi era diventato sovrintendente e il carico di lavoro era aumentato. Stava facendo delle cure oncologiche e anche la moglie non stava bene. “Più volte si è rivolto personalmente a me per raccontarmi il pesante carico di lavoro che fronteggiava in carcere - racconta Eleuterio Grieco, segretario toscano Uilpa - Sono andato spesso a trovarlo all’Elba, negli ultimi tempi stava affrontando la questione sanità tra i reclusi, la questione falegnameria interna non a norma, la carenza di acqua calda nella caserma degli agenti. Seguiva da vicino le forti criticità del carcere di Porto Azzurro”. Catanzaro. 250 detenuti denunciano “negligenze e omissioni” e sei morti sospette in sei mesi di Fiorella Squillaro calabriainchieste.it, 18 maggio 2025 Nella Casa circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro, si leva un grido di allarme da parte di circa 250 detenuti. In un esposto firmato e consegnato in copia a Calabria Inchieste, comprensivo di firme, i reclusi denunciano una serie di gravi e persistenti carenze nell’assistenza sanitaria interna. Una missiva-denuncia inviata a una ventina di istituzioni, tra presidenza della Repubblica e del Consiglio, magistrature, autorità sanitarie, garanti. Le accuse (di parte) sono pesanti: presunte negligenze, omissioni e una gestione sanitaria ritenuta inadeguata che avrebbe contribuito, secondo quanto dichiarato, anche a sei decessi avvenuti tra luglio 2024 e gennaio 2025. Visite mediche: tempi d’attesa e assenza di reperibilità notturna - Uno dei principali punti critici evidenziati nell’esposto riguarda la gestione delle visite mediche interne, ridotte a una sola seduta settimanale. Tale servizio, già insufficiente per una popolazione carceraria di oltre 600 detenuti, risulta ulteriormente compromesso dalla frequente assenza di medici, causando ritardi fino a tre settimane anche solo per ricevere farmaci generici come la Tachipirina. In caso di emergenze notturne, il quadro si aggrava: nessun medico sarebbe presente tra le 20:00 e le 08:00, lasciando gli infermieri soli ad affrontare situazioni potenzialmente critiche in attesa dell’arrivo, spesso in ritardo, della guardia medica. Farmaci “distribuiti con ritardo” anche dopo la prescrizione - Un ulteriore elemento di forte disagio riguarda la distribuzione dei farmaci. La nuova gestione prevede l’erogazione anche dei medicinali più comuni solo dietro prescrizione medica, la quale, essendo soggetta ai suddetti ritardi, non consente la somministrazione tempestiva dei farmaci. In molti casi, anche dopo la prescrizione, i detenuti ricevono i medicinali con 3-4 giorni di ritardo. Assistenza ai detenuti disabili: piantonaggio abolito e condizioni inadeguate - Il problema si estende anche all’assistenza alla persona per i detenuti con patologie gravi o disabilità. Il sistema dei piantoni (detenuti addetti all’assistenza), sarebbe stato abolito e sostituito con soli 3-4 operatori socio-sanitari dell’ASP, numericamente insufficienti. Il risultato è l’isolamento di detenuti gravemente malati in celle comuni prive di assistenza specifica. Le sezioni “pseudo-cliniche” istituite al padiglione C.O. risultano inadeguate, con strutture fatiscenti, mancanza di acqua calda, docce inaccessibili e celle chiuse anche per soggetti con gravi difficoltà motorie. Sei morti sospette in sei mesi: “Tutti per arresto cardiaco?”, è il quesito che si pongono i detenuti. Nel documento viene evidenziata con preoccupazione la morte di sei detenuti in soli sei mesi. I decessi, ufficialmente attribuiti ad arresto cardiaco, hanno sollevato forti dubbi. Le vittime - tra cui anche un detenuto deceduto lo stesso giorno del suo ingresso e un altro prossimo alla scarcerazione - erano tutte persone relativamente giovani. Si citano i nomi: A. circa 45 anni (indagini in corso); F. 57 anni, pochi giorni prima della liberazione; I. C. 42 anni, abilitato al lavoro esterno; D. 37 anni, deceduto il giorno dell’ingresso in istituto; I. D. 28 anni, morto in isolamento (denuncia della madre); A. circa 43 anni. I detenuti chiedono alle autorità: “È stata garantita loro l’assistenza medica preventiva e il tempestivo soccorso al manifestarsi del malore?”. Omissioni burocratiche e dialogo negato - Nel mirino dell’esposto di parte ci sono anche presunte gravi mancanze nella gestione della documentazione sanitaria. I detenuti denunciano la mancata emissione di certificati essenziali per pratiche legali, pensionistiche o sanitarie, e l’assenza di risposte alle richieste degli avvocati. Ancora più grave, secondo quanto riferito, è l’impossibilità di ottenere colloqui orali con la direzione sanitaria, negati sistematicamente da oltre due anni. Le richieste dei detenuti - Con questo esposto, i detenuti chiedono l’intervento urgente delle autorità competenti affinché siano accertate le responsabilità per le presunte negligenze che avrebbero contribuito all’aggravarsi delle condizioni sanitarie dei detenuti, e forse anche alla morte di sei di essi. Il ripristino di un servizio sanitario efficiente, umano e in linea con i diritti costituzionali e internazionali. Un grido di giustizia - Il documento, inviato alle autorità competenti e firmato da tutti i detenuti dell’istituto, si conclude con la nomina dell’avvocato Emanuele Papaleo del Foro di Locri quale legale di fiducia. Un’iniziativa che punta non solo a denunciare ma a pretendere un cambiamento radicale. Perché, come ricordano gli stessi detenuti, la salute è un diritto inviolabile, sancito dalla Costituzione (artt. 3, 27, 32) e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. “Non chiediamo privilegi, ma il rispetto della dignità e dei diritti che spettano a ogni essere umano, anche se ristretto”, scrivono i firmatari. Una verità di parte: spazio al contraddittorio - È importante precisare che quanto denunciato in questo esposto rappresenta la versione dei detenuti, dunque una verità di parte. Come redazione di calabriainchieste.it siamo disponibili a ospitare repliche, chiarimenti o rettifiche da parte di chiunque abbia titolo per intervenire. Crediamo infatti nel valore del contraddittorio come fondamento del giornalismo etico e dell’informazione completa. Chiunque voglia fornire una versione differente dei fatti o approfondimenti, non essendo al momento riusciti ad acquisire un’altra versione di parte, può scrivere a: info@calabriainchieste.it. Nel frattempo, la vicenda sollevata dai detenuti di Catanzaro merita attenzione. La salute è un diritto fondamentale e le carceri non possono essere luoghi dove questo diritto non viene consentito. Ora la parola passa alle istituzioni. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Quando il carcere rieduca e professionalizza di Donato Di Stasio informareonline.com, 18 maggio 2025 Per un lasso di tempo non troppo lontano dall’odierno, il carcere di Santa Maria Capua Vetere finì sulle pagine dei quotidiani per i fatti e le violenze avvenuti al suo interno. Sono passati alcuni anni da allora, ma oggi l’aria che si respira tra le mura dell’istituto è totalmente diversa. Merito in parte di Donatella Filomena Rotundo, direttrice della Casa Circondariale dal 2020, che è riuscita a tracciare una nuova strada e a dare un indirizzo diverso ai detenuti, basato sul lavoro e sull’apprendimento delle professioni. Noi di Informare l’abbiamo intervistata proprio per farci spiegare la svolta intrapresa dal penitenziario casertano. Dott.ssa Rotundo, quanto è importante il lavoro per il reinserimento sociale dei detenuti? “Il lavoro costituisce l’elemento fondamentale per la rieducazione del detenuto mentre sta scontando la pena. Fino a qualche anno fa, nella maggior parte degli istituti carcerari ai detenuti venivano affidati lavori di tipo domestico, non professionalizzanti. Inoltre, prodotti come il vestiario della Polizia Penitenziaria venivano acquistati, mentre oggi tante cose si producono nelle carceri, con grandi benefit e competenze che i lavoratori acquisiscono e risparmio di denaro. Grazie ad un accordo con Ermenegildo Zegna, per esempio, il primo imprenditore che ha sposato questa linea nel 2017, attualmente nel carcere di Biella si producono uniformi della Polizia Penitenziaria, esempio che poi è stato replicato in altri istituti”. Passiamo alla Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere. Quali sono i progetti intrapresi qui? “Dopo i fatti del 2020, fui nominata direttrice di questo luogo. C’era bisogno di dare dignità nuova e sicurezza agli agenti e agli stessi detenuti. Strinsi subito un accordo con il noto marchio Isaia, il quale ha previsto la produzione delle camicie bianche che gli agenti indossano sotto l’uniforme. Oggi produciamo circa 30mila camicie all’anno, ma soprattutto viene insegnato ai detenuti un lavoro che gli sarà richiesto dal territorio una volta scontata la pena. È questa la cosa importante. L’idea maturata insieme a Tommaso D’Alterio (Fondazione Isaia ndr) potrebbe essere quella di fare prima un percorso formativo all’interno della loro azienda, dopo lo sconto della pena, ed eventualmente pensare poi ad un’assunzione. Con Isaia verrà anche inaugurato a breve un altro laboratorio all’interno del carcere, un capannone industriale dedicato alla produzione di tute operative della Polizia Penitenziaria. Abbiamo anche fatto un accordo con E. Marinella, grazie al quale nel reparto femminile vengono lavorate le cravatte per le uniformi. Altri laboratori attivati qui sono quello per la produzione di bandiere italiane ed europee esposte nelle carceri italiane e quello di pasticceria, il quale è stato dato in gestione ad un imprenditore esterno che ha assunto direttamente i detenuti. Tutte le attività di cui le ho parlato vengono chiaramente svolte all’interno della Casa Circondariale. Un altro progetto approvato e firmato con la Regione Campania, l’Asl di Caserta e il Comune di Santa Maria, riguarda un ospedale veterinario di primo livello, con l’attivazione di sette corsi professionali. Un’ultima idea che ci è venuta in mente è realizzare una tipografia interna per produrre scatole e per evitare di comprarle all’esterno”. Come vengono scelti i detenuti che partecipano ai laboratori? “I detenuti vengono scelti con una selezione, ma devono avere una condanna passata in giudicato. Inoltre, essi devono aver avuto una regolare condotta ed essersi distinti per la volontà di cambiamento. Per alcune attività viene seguita una rotazione trimestrale o semestrale, in modo da dare a tutti la possibilità di lavorare. La sartoria e la pasticceria sono invece una vera e propria ricompensa per il detenuto poiché trattasi di lavori a tempo indeterminato. Una volta che il detenuto supera la selezione, lo aspetta un lavoro fisso”. Tutti ricordano i fatti accaduti nel 2020. Cos’è cambiato da allora? “Il cambiamento tra 2020 e 2025 lo si vede proprio con l’atmosfera che si respira all’interno del carcere. Si immagini per un attimo il sentire interiore del detenuto: prima lavorava in sartoria e produceva cose destinate a sé stesso. Oggi è molto più gratificante sapere che il prodotto che sta cucendo sarà indossato da coloro che prima considerava come nemici. In questo istituto, due facce che prima erano contrapposte e in guerra sono diventate della stessa medaglia”. Da suoi racconti sembra tutto perfetto. C’è qualcosa che manca? “Quello che manca è l’inserimento lavorativo all’esterno, cioè le figure che fanno da cerniera tra domanda e offerta. Il detenuto che esce da qui ha difficoltà perché trova sempre pregiudizi”. Rimini. In nome della giustizia. Duecento senegalesi in marcia per Dassilva: “Vogliamo la verità” di Lorenzo Muccioli Il Resto del Carlino Presente anche Valeria, la moglie dell’indagato. Tra slogan, striscioni e appelli accorati, la manifestazione ha sollevato dubbi sulla solidità delle prove e sulla correttezza dell’inchiesta sull’omicidio Pierina. “Verità”, “giustizia”. Due parole gridate con forza dalla comunità senegalese, scesa in piazza ieri pomeriggio per manifestare solidarietà e vicinanza al connazionale Louis Dassilva, il 35enne in carcere dal luglio dell’anno scorso in quanto accusato dell’omicidio di Pierina Paganelli, commesso a Rimini il 3 ottobre del 2023. Un lungo corteo pacifico, alla presenza di 150/200 persone, con slogan, cartelli e striscioni (“Niente prove, niente prigione” recitava uno), partito dalla stazione ferroviaria passando poi per il centro storico e piazza Tre Martiri, fino ad arrivare in piazza Cavour. Tanti senegalesi - uomini, donne, moltissimi giovani - arrivati non solo da Rimini ma anche da Brescia, Milano, Cesena, Fano. Tra di loro anche dei rappresentanti istituzionali: due deputati del parlamento senegalese e il sindaco di un comune del paese africano. In mezzo alla folla, è spuntata anche Valeria Bartolucci, moglie di Louis Dassilva. Una manifestazione, quella di ieri, accompagnata alla vigilia dalle critiche dei figli di Pierina Paganelli, Giuliano, Giacomo e Chiara Saponi, che avevano contestato l’utilizzo dell’immagine della madre per il volantino circolato sui social network chiedendone la rimozione. “Questo è un atto collettivo di dignità e coraggio - ha detto Seck Papa Modou, rappresentante della comunità senegalese di Rimini -. Non chiediamo l’impossibile, ma viviamo in un paese la cui Costituzione si basa sul rispetto della persona e sulla presunzione di innocenza, fino a quando non arriva una condanna definitiva”. “Quello che chiediamo - ha aggiunto - è verità. Verità fondata solo su fatti certi e libera da pregiudizi. Le indagini sono chiuse, ma troppe domande restano senza risposta, troppe ombre calano ancora su questa vicenda”. “Non vogliamo cancellare le regole, ma rafforzarle - ha proseguito il rappresentante della comunità senegalese al microfono -. La giustizia dimostra di avere coraggio quando riconosce i suoi errori. La nostra è una preghiera per la trasparenza e per la dignità umana. Sappiamo quante persone in passato siano state condannate troppo in fretta. A chi ha il potere di indagare diciamo di non fermarsi: se un solo dubbio rimane, esso pesa come un macigno”. L’intera piazza, all’unisono, ha quindi scandito nuovamente la parola “giustizia” per Louis Dassilva e per “Pierina Paganelli”. Il 35enne senegalese si trova ora nuovamente in carcere, dopo il ricovero all’ospedale di Rimini dovuto al peggioramento delle sue condizioni di salute a seguito della decisione di intraprendere lo sciopero della fame e della sete. Nei giorni scorsi, la Procura di Rimini ha notificato ai difensori, gli avvocati Riario Fabbri e Andrea Guidi, l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, contestando al senegalese una serie di aggravanti, inclusa quella della premeditazione. Giovedì prossimo, intanto, il Tribunale del Riesame di Bologna sarà chiamato ad esaminare per la terza volta l’istanza di scarcerazione di Louis avanzata dal pool difensivo. Trento. “Breaking free”: il carcere raccontato, ascoltato, discusso ufficiostampa.provincia.tn.it, 18 maggio 2025 Il 29 maggio l’incontro in Piazza Santa Maria Maggiore con la cooperativa di Alessandria “Idee in Fuga”. È partita con il mese di maggio la rassegna di eventi dal titolo “Breaking Free: il carcere raccontato, ascoltato, discusso”, presentata dall’Osservatorio sull’Amministrazione Condivisa di Fondazione Franco Demarchi. Un contenitore di iniziative per discutere e far conoscere storie di trasformazione dentro e fuori dal carcere e per confrontare esperienze di creazione di opportunità di reinserimento sociale. Il prossimo appuntamento, dal titolo “Fuga di sapori Bistrò”, si terrà il 29 maggio alle ore 17.30 in Piazza Santa Maria Maggiore a Trento. Quali sono le realtà che operano per creare opportunità di formazione, crescita professionale e, in generale, di reinserimento sociale per detenuti ed ex detenuti? L’OAC - Osservatorio sull’Amministrazione Condivisa di Fondazione Franco Demarchi è attualmente impegnato nella facilitazione del tavolo provinciale di coprogettazione per il reinserimento sociale di persone in esecuzione penale, coprogettazione che, tra le attività ai fini del reinserimento, prevede l’apertura di un punto di ristoro-pizzeria adiacente alla casa circondariale di Spini. In quest’ambito l’OAC rilancia importanti eventi organizzati sul tema e ne propone di nuovi allo scopo di attivare un dialogo con la cittadinanza. Giovedì 29 maggio, alle ore 17.30, in Piazza Santa Maria Maggiore a Trento appuntamento dal titolo “Fuga di sapori Bistrò”: un incontro aperto al pubblico che vedrà la Cooperativa Idee in Fuga di Alessandria condividere la propria esperienza nella creazione di un modello di Economia Carceraria, con progetti importanti di formazione e lavoro quali l’apertura della prima Bottega Solidale sulle mura di un carcere italiano. Sabato 31 maggio, alle ore 15.30, nella Piazzetta delle Erbe a Riva del Garda esabato 7 giugno, in Corso de Gasperi a Predazzo presso La Stazione destinazione cultura, due immancabili appuntamenti con la “Biblioteca Vivente” di Liberi da Dentro: racconti di persone che hanno vissuto o che vivono la realtà del carcere e che diventano “libri” aperti, condividendo una parte della propria storia con chi sceglie di ascoltarla. Venerdì 6 giugno, alle ore 15, presso la sede di Fondazione Franco Demarchi in Piazza Santa Maria Maggiore, si terrà ‘incontro con Livio Ferrari, l’autore del libro “Il carcere in Italia oggi: una fotografia impietosa”. L’evento si inserisce tra le attività a margine dell’assemblea nazionale semestrale del Cnca, che si terrà proprio in Fondazione e che ha come tema l’ecologia sociale. Dialogheranno con l’autore il garante dei detenuti di Trento Giovanni Maria Pavarin e il vicepresidente della Conferenza regionale Volontariato Giustizia Carlo Scaraglio. La rassegna è stata creata in collaborazione con Apas, Liberi da Dentro e con il sostegno del Comune di Trento. Per maggiori informazioni: oac@ffd.tn.it. Volterra (Pi). Un crowdfunding per portare Cenerentola oltre le sbarre Corriere Fiorentino, 18 maggio 2025 Un crowdfunding per portare Cenerentola nel carcere di Volterra. Una delle fiabe più note è infatti al centro della nuova produzione artistica della Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo, fondata nel 1988 e ad oggi una delle più importanti realtà culturali e professionali attive in un istituto penitenziario. “Questa nuova Cenerentola - spiegano dalla compagnia -, in scena dal 25 al 28 luglio, trasforma il celebre racconto in un viaggio tra arte, scienza e pensiero, alla ricerca di compagni e compagne di strada, figure eccezionali del passato e del presente che, attraverso le loro intuizioni nei campi della matematica, della fisica, della letteratura, della musica, della pittura e della poesia, hanno saputo andare oltre i destini già scritti”. Un allestimento ambizioso fatto di scenografie in trasformazione continua, costumi visionari e oggetti simbolici, pensati e realizzati dagli attori-detenuti insieme a Punzo e al suo team, per realizzare il quale è stata lanciata una raccolta fondi sulla piattaforma Produzioni dal Basso. Milano. La Croce della Misericordia nel carcere di Bollate L’Osservatore Romano, 18 maggio 2025 Dopo essersi fatta pellegrina in tante case di reclusione italiane, la Croce della Misericordia, realizzata dai detenuti del carcere di massima sicurezza di Paliano e benedetta da Papa Francesco il 14 settembre 2019, è giunta anche a Bollate. Qui è stata protagonista di tre momenti importanti e significativi: la celebrazione della Via Crucis, alla quale hanno partecipato decine e decine di detenuti e di detenute, l’incontro di riflessione dedicato a tutti i lavoratori del carcere e, terzo momento, la preghiera di una comunità religiosa femminile di un vicino convento di clausura. Davanti a quell’icona del Crocifisso, che i detenuti di Paliano hanno dipinto con tanta eleganza, ognuno ha potuto fare silenzio dentro di sé, pensare alle proprie cadute e abbracciare con la preghiera tutte le persone recluse, i loro familiari e quanti si adoperano per portare conforto e aiuto. Il pellegrinaggio della Croce della Misericordia è stato anche un segno di grande consolazione nella vita del carcere di Bollate che, durante la Quaresima, è stata scossa dalla notizia del suicidio di una detenuta. Il mistero della morte chiede solo rispetto, preghiera e silenzio. Tuttavia, di fronte a una tragedia come questa, non si può non pensare alla realtà nelle carceri italiane che si fa ogni giorno più grave, tant’è che qualcuno non ha esitato a parlare del fenomeno dei suicidi come di una “carneficina”. Di fronte a tutto questo, chi vive la condizione della reclusione sente la lontananza e l’indifferenza delle istituzioni e avverte da parte dei legislatori una mancanza di attenzione verso una realtà che fa violenza a quanto sancito dalla Costituzione della Repubblica. A tenere viva la speranza restano solo la vicinanza e le parole di Papa Francesco: “Con la risurrezione di Gesù, il male non ha più potere, il fallimento non può impedirci di ricominciare”. “Mai vendetta, ma libertà”. La rinascita di Lucia Annibali: “Bisogna sorridere alla vita” di Angela Maria Fruzzetti La Nazione, 18 maggio 2025 Al Papazzo Ducale di Massa Carrara è stato presentato il suo libro “Il futuro mi aspetta”. Un inno alla gioia. Nessun odio, solo parole di pace, amore e rispetto, citando la forza di Liliana Segre. Ci sono voluti anni per restituire al volto di Lucia Annibali un aspetto... umano, ma non basterà una vita per sanare le ferite di quel gesto che le ha sfregiato soprattutto l’anima. Era il 16 aprile 2013 quando il suo volto venne sfregiato con l’acido da due uomini mandati dal suo ex fidanzato Luca Varani (tutti condannati). Tuttavia Lucia Annibali, avvocato ed ex deputata, non prova odio, non ha desiderio di vendetta verso i suoi carnefici: al centro c’è lei, la sua vita, la sua rinascita. Ha citato la forza di Liliana Segre nel suo intervento ieri a Palazzo Ducale e nelle sue parole traspare il messaggio della senatrice a vita: “Chi ama la vita non può toglierla a nessun altro”. E’ questa la grandiosità di Lucia Annibali, una donna che ha subito una violenza inaudita da cui rinascere, riaffacciarsi al mondo con un volto nuovo e tanta speranza che ciò non accada più, a nessuna donna. Un incontro emozionante quello che si è svolto nella sala della Resistenza con la presentazione del libro “Il futuro mi aspetta” (Feltrinelli editore) dinanzi a un pubblico soprattutto femminile, tranne i rappresentanti istituzionali e pochi uomini volenterosi. E chi si aspettava parole d’accusa verso i carnefici, ha ascoltato invece parole di pace e di gioia per avercela fatta, per essere riuscita a trovare la luce in fondo al tunnel e a sorridere alla vita. “Mai vendetta ma libertà”, ha detto Annibali. L’evento è stato voluto dalle consigliere provinciali Dina Dell’Ertole, Eleonora Petracci, Maria Grazia Tortoriello, Marzia Butteri e Benedetta Muracchioli. Prima di entrare nel vivo del dibattito, condotto dalla caposervizio de La Nazione, Emanuela Rosi, hanno portato il saluto istituzionale Gianni Lorenzetti, presidente della Provincia; Giacomo Bugliani, consigliere regional e il prefetto Guido Aprea, che ha espresso preoccupazione per l’escalation di casi di violenza domestica che ogni giorno si registrano sul territorio. Tante le domande rivolte a Lucia Annibali da parte di Rosi nonché da Eleonora Lama, Sofia Stagi e Anna Volpi. Un focus importante sul progetto ‘Ristretti orizzonti’ dove Annibali e le altre vittime entrano nelle carceri a confronto con gli autori dei reati; vittime che trasformano il loro dolore in impegno civile. Presenti in sala anche la dottoressa Antonella Ventura, direttrice della casa di reclusione di Massa, Bianca Venezia, questore di Massa Carrara, il comandante Alessandro Domenici del nucleo provinciale dei carabinieri, le associazioni Duna e Cif e alcune dirigenti scolastiche, quest’ultime invitate dalla consigliera provinciale e comunale Dina Dell’Ertole a portare il libro nelle scuole. Tra i vari interventi, dopo l’introduzione di Rosaria Bonotti, il pubblico ha potuto ascoltare le letture di alcuni passi dalla voce di Laura Manfredi, con intermezzi musicali di Matteo Sportelli. Una storia di rinascita, una lezione sul rispetto reciproco e sull’amore per la vita. “Nikita”: a 16 anni ho sparato per i clan Poi sono cambiata, l’ho fatto per amore di Cristina Liguori Corriere del Mezzogiorno, 18 maggio 2025 “Mi sono raccontata senza filtri e senza assoluzioni”. Non cerca perdono, Cristina Pinto vuole solo parlare della sua vita e raccontare la sua storia criminale. È per farlo ha deciso di mettere nero su bianco il suo vissuto, gli anni della sua adolescenza e della sua maturità in un libro intitolato Nikita, storia di una camorrista curato da Stefania Franchini edito da Iod di Pasquale e Francesco Testa. L’altra sera la presentazione presso la cappella di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta con il filosofo Giuseppe Ferraro e Pasquale Testa. Durante l’incontro Cristina Pinto, che ha iniziato la sua carriera criminale a 16 anni con furti e scippi, affiliata poi al clan Perrella, ha raccontato la sua storia, i suoi dolori e la sua rinascita dopo le condanne e il carcere. Di cosa parla questo libro? “Della mia vita, dall’87 fino ad oggi. Stefania Franchini aveva visto su YouTube alcuni video. Aveva visto Camorriste su Sky. Mi ha corteggiata e mi ha chiesto di fare questo libro. Io ho accettato. Il volume non parla solo della criminalità o degli anni che ho vissuto. Parla anche della mia storia privata”. Quando è cominciata la sua storia criminale? “Nel 1987, avevo 16 anni e mezzo”. Perché la chiamavano Nikita? “Il mio soprannome era Cristina “di sopra la Masseria” perché sono cresciuta sulla Masseria. All’epoca usavo le armi e quando uscì il film francese uno di noi disse: “Guarda come ce l’abbiamo noi”. E così è nata Nikita”. La chiamavano Nikita perché ha sparato e ha ucciso? “Io eseguivo degli ordini. Punto”. Il boss dell’epoca chi era? “Mario Perrella”. Lei ha trascorso anche alcuni anni in carcere? “Io ho scontato quattro pene. Alcuni collaboratori di giustizia fecero il mio nome”. Oggi che persona è? “Sono una persona che ha guardato molto lontano, che ha vissuto molto. Sono cambiata per amore della famiglia. Sono cambiata per mia figlia, per i miei nipoti, ma anche per una persona che non c’è più, che è stato il mio compagno, Raffaele Mirabella. Si cambia perché comunque vai sulla retta via”. Ha cominciato a 16 anni, oggi ci sono tanti tantissimi ragazzi minorenni che sparano e uccidono cosa vorrebbe dire a questi ragazzi? “Io ai ragazzi vorrei dire tante cose, come tante cose l’hanno dette a me all’epoca. Però a volte i giovani non capiscono, perché si trasmettono queste fiction e loro si immedesimano in quelle parti. Noi donne dovremmo scendere in campo e dire basta a queste guerre”. Pensa che queste fiction influenzino i giovani? “Sì. Anche a me colpì molto il film Il camorrista. Lo vedo ancora oggi che ho 56 anni. Però è una cosa diversa da Gomorra dove si parla di ragazzini. Nel Camorrista erano tutti adulti. Era crudele e diseducativo ma erano uomini adulti. Non erano bambini. Le fiction di oggi sono diventate soltanto un business e hanno fatto un sacco di soldi”. Se la logica della forza soppianta quella della giustizia di Giorgio Vittadini* Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2025 Lo Stato sociale infragilito, il lavoro povero e precario, l’economia reale messa nell’angolo. Bastano questi tre problemi per comprendere perché la sussidiarietà è oggi quanto mai necessaria: sia per rispondere alla crisi portata dal neo-liberismo sia, quindi, per la tenuta dei sistemi democratici. La sentenza 192/2024 della Corte costituzionale ci offre una sintesi efficace e attuale del principio di sussidiarietà, identificandolo come quella “distribuzione dei poteri in base al solo criterio del bene comune” che si realizza attraverso la “collaborazione tra istituzioni e realtà sociali”. In quest’ottica viene messo in risalto il valore di ogni singola persona, della sua relazionalità e della sua capacità costruttiva. I segnali di una grave crisi della democrazia erano già stati colti da osservatori come David Riesman che nel suo libro del 1950, “La folla solitaria”, descriveva la figura - per certi versi persino tragica - dell’”uomo massa” cresciuto in Occidente: eterodiretto, dipendente dalla influenza ambigua dei mass media, educato alla scuola del conformismo, schiacciato dal bisogno di approvazione e di successo, abitante di un mondo governato dalle apparenze, spogliato della propria individualità, solo e disarmato nella solitudine che gli si affolla intorno. Come si può rispondere a un “uomo massa” e a una “folla solitaria”? - La risposta a questa crisi e la strada da intraprendere con coraggio è quella di ricostruire comunità che permettono alle persone di formarsi un pensiero critico e libero, senza essere inquinate dalla mentalità dominante; capaci di ridare centralità all’economia reale e al lavoro dignitoso, di costruire opere sociali come risposte solidali ai bisogni, di fare scelte di lungo periodo per il bene comune, senza lasciare indietro nessuno. Dalle considerazioni fatte e dalla voglia di reagire a questa situazione emerge quella che si può definire “la messa a sistema di tutti”, cioè la sussidiarietà. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel “tempo dell’individualismo esasperato”, ha richiamato con forza e lucidità il vocabolo della prima persona plurale, il “noi”, in occasione del primo Premio Sussidiarietà che ha recentemente ricevuto al Quirinale. Ha detto il Capo dello Stato: “Le identità plurali delle nostre comunità, locali, sociali, sono il frutto del convergere delle persone verso mete comuni e, a loro volta, partecipano della costruzione del percorso verso il bene comune della nostra società. In questa maniera si invera la democrazia che è fatta di sostanza e non di mera forma”. Mattarella ha concluso: “Per affrontare le sfide locali come quelle nazionali, come quelle globali, è indispensabile rilanciare la cultura che viene espressa dal “noi”. Dando uno sguardo agli ultimi quarant’anni, si può affermare che il Presidente della Repubblica ha rovesciato, con questo “noi” e con l’elogio della sussidiarietà, il pensiero anglosassone che ha caratterizzato la svolta epocale, sociale ed economica, che avevano quasi idealizzato il Presidente Usa Ronald Reagan e soprattutto la premier britannica Margaret Thatcher. Fu in quegli anni che alcuni accademici noti e meno noti svilupparono il recupero e la rivalutazione dell’individualismo economico. Visti i risultati di questi anni, le crisi come quelle dei subprimes, il ruolo della finanza che si è sostituita in molti casi alla politica e alla stessa economia, un mercato senza regole e diseguaglianze sociali che sono diventate lo specchio di una globalizzazione male affrontata, il “noi” di Mattarella e la funzione della sussidiarietà appaiono come una benefica e autentica “rivoluzione” rispetto alla crisi della democrazia e alla crisi dell’ordine mondiale. Ancora oggi, nel mondo attuale, la logica della forza sembra soppiantare quella della giustizia, e il potenziamento della tecnica rischia di essere funzionale al dominio anziché promuovere il progresso della civiltà. L’essere umano pare ridotto a mero strumento. Di fronte a tale deriva, lo spirito di sussidiarietà esorta al coraggio di recuperare uno sguardo sull’esperienza umana e sul suo intrinseco valore, rifiutando di ridurli. *Presidente Fondazione per la Sussidiarietà La cultura vera e l’ossessione dell’egemonia di Sebastiano Maffettone Corriere della Sera, 18 maggio 2025 Si torna a parlare delle varie forme di “direzione intellettuale e morale” (Gramsci) da parte di un gruppo o di una classe in grado di costruire un sistema di controllo sociale. E che oggi proprio non si vede. Karl Marx scrisse che la storia si ripete due volte. La prima come tragedia, la seconda come farsa. Nel caso nostro, la farsa è a portata di mano. Si tratta della famosa egemonia di sinistra nella cultura italiana. Quello di egemonia culturale è un concetto che indica le varie forme di “direzione intellettuale e morale” (Gramsci) da parte di un gruppo o di una classe in grado di costruire un sistema di controllo sociale. Magari qualcosa del genere esisteva una cinquantina di anni fa, sebbene in una forma non coordinata. Francamente è difficile pensare che sussista di questi tempi. Oggi, se vuoi incontrare un comunista devi mettere un annuncio in Rete. E, tanto per non parlare sempre di altri, capita al sottoscritto - un vecchio liberale progressista - di essere spesso quello più a sinistra in discussioni e convegni. Eppure, nonostante l’evidenza, Arianna Meloni, capo della segreteria di Fratelli di Italia, e Alessandro Giuli, Ministro della Cultura, nel corso degli “Stati generali della cultura” promossa dai gruppi parlamentari di Fratelli d’Italia a Firenze, hanno attaccato la supposta egemonia culturale della sinistra. Dicendo naturalmente che è loro intenzione porvi rimedio per restituire la libertà a tutti. Che dire? Prima di tutto che la cultura, quella vera, non è né di destra né di sinistra. Cosa anche banale su cui però non c’è dubbio. Nella maggior parte dei casi, la cultura è praticata da strani individui che frequentano con ostinazione il mondo delle idee. Ciò appurato. Perché allora Meloni e Giuli, due persone intelligenti, parlano di un’araba fenice come l’egemonia culturale della sinistra? È un modo per giustificare l’amichettismo di destra. Nella convinzione che la cultura si fa distribuendo posti di assessore e direzioni di istituzioni. Credo che si sbaglino. la cultura si fa con le idee e la coscienza critica. E non è retorica utopistica. Gli Eco e i Bobbio, e non direzioni e assessorati, servono alla destra per recuperare terreno, ammesso che ce ne sia bisogno. La deriva digitale, “chatto ergo sum” di Massimo Nava Corriere della Sera, 18 maggio 2025 Le differenze tra democrazie e regimi autoritari tendano a ridursi nello scontro perdente fra media tradizionali e social network, armati di fake news e propaganda. Le differenze fra dittature e democrazie sono ovvie. La prima è che i regimi autoritari reprimono la libertà di stampa, la porta dei valori democratici. Non è invece ovvio esplorare come le differenze tendano a ridursi nello scontro perdente fra media tradizionali e social network, armati di fake news e propaganda. La massima cartesiana, penso dunque sono, andrebbe riscritta: “Chatto, ergo sum”. L’uso distorto dell’Intelligenza Artificiale diventa l’arma letale, essendo uno strumento che può agire al posto dell’uomo. C’è poi un nemico della democrazia che si nutre di pressioni da parte del potere politico, di gruppi d’interesse, di “format” televisivi che finiscono per esprimere un tutto indistinto, una sorte di rete unificata. I pericoli sono un’evidenza nell’America di Trump, la patria delle libertà. Il presidente randella la stampa libera a colpi di inchieste giudiziarie e risarcimenti miliardari. Alcuni, come Jeff Bezos, magnate di Amazon e proprietario del giornale più libero d’America, il Washington Post, si sono adeguati. Altri hanno pagato un prezzo altissimo. Steve Bannon, ideologo di Trump, ha detto a Le Monde: “Abbiamo schiacciato gli studi legali. Sono il tessuto muscolare, i tendini che collegano il Campidoglio, Wall Street e la classe politica. Bisogna andare avanti, epurare duecento professori progressisti più pericolosi”. Trump ha instaurato il regno dell’arbitrarietà, puntando al controllo della giustizia, delle università, dei media e della cultura. L’alleanza con i leader dell’alta tecnologia fa nascere un Grande Fratello digitale. Paul Beckett, senior editorialista del Wall Street Journal, moderato e conservatore, ha scritto: “Parliamo spesso delle minacce alla libertà di stampa all’estero, ma non possiamo perdere di vista ciò che accade qui da noi. Sono evidenti i tentativi di controllare la narrazione, sacrificando la verità dei fatti”. Quanto avviene negli Usa rischia di essere esportato. Più l’autorità s’impone, più viene giudicata efficace. Più è efficace, più si arroga il diritto di decidere da sola in nome dell’urgenza (l’immigrazione, la criminalità, la guerra) o a misura di un traguardo ideologico, come il primato della patria. Questa logica inverte la responsabilità. È il cittadino che deve dimostrare di non essere sleale, di non disturbare la coesione del Paese. Percorsi simili si avvertono in Paesi dell’Est, dall’Ungheria alla Slovacchia, dalla Polonia alla Romania, in contrasto con valori di quell’Europa cui appartengono. Ma anche nelle democrazie più mature si impongono verità di comodo e si nascondono verità scomode. Nei regimi autoritari, il potere si esercita con l’arbitrio. In democrazia, il potere tende ad agire per urgenza. Parlamento, organismi di controllo, opposizioni, stampa sono una necessità, ma anche un impiccio. La contestazione è inopportuna. Il beneficio del dubbio è screditato. Di questo slittamento, il cittadino è indirettamente complice, in quanto rinuncia a chiedere il conto. È il riflesso di società intossicate di informazioni non affidabili, disorientate dalla velocità delle tecnologie, dall’immanenza della cronaca, dalla velocità del cambiamento. Chi governa ne approfitta, decide in fretta. La voce dei cittadini conta meno nelle urne, nelle strade, nei talk show, nelle assemblee. Prendiamo la decisione che gli Stati spendano di più in armamenti. Si può condividere l’obiettivo di costruire la difesa europea. Ma chi decide che sia raggiunto a spese della sanità o della scuola? O a vantaggio delle industrie militari, per lo più americane? Come ha scritto Yuval Noah Harari “L’aumento dei bilanci militari va a scapito dei membri più deboli della società. Le alleanze militari tendono ad ampliare le disuguaglianze. Gli Stati deboli diventano facili prede. E con l’aumento delle tensioni, cresce la possibilità che una piccola scintilla possa innescare una conflagrazione globale”. Nel 2024 quasi 2 miliardi di persone sono andate alle urne. Un indice di crescita democratica, tuttavia inquinato da campagne digitali, fake news, assenteismo elettorale e sfiducia nella classe politica. È paradossale che miliardi di individui possano votare e ricevere informazioni in tempo reale, eppure siano convinti di contare meno, con il risultato di alimentare la scorciatoia più semplice: il populismo. È una minaccia per la democrazia qualcuno che si sente in diritto di parlare in nome del popolo. Ma il populismo non si combatte mettendo fuori legge i populisti o denigrando il popolo che li vota, bensì allargando il più possibile la partecipazione e la consapevolezza dei cittadini. Per fortuna, le istituzioni ancora funzionano. L’ordine giudiziario resiste. I media liberi denunciano. In questi mesi abbiamo assistito a grandi manifestazioni nelle principali città tedesche, americane, francesi, spagnole. Erano risposte civili al razzismo, al “ trumpismo “, contro la guerra, per il lavoro. Milioni di cittadini credono che la democrazia sia vigilanza, diritto alla correzione, voglia di contare. La democrazia rimane l’unico sistema in cui l’arbitrarietà può essere denunciata. La speranza è che l’inversione di tendenza sia cominciata. Referendum cittadinanza: 5 anni anziché 10 per poterla richiedere. Cosa c’è da sapere di Marika Ikonomu Il Domani, 18 maggio 2025 L’8 e il 9 giugno gli elettori e le elettrici saranno chiamati a decidere sull’abrogazione di una parte della legge sulla cittadinanza. I promotori chiedono di ridurre il requisito della residenza da 10 a 5 anni. Allargherebbe la possibilità di fare richiesta a 2,5 milioni di persone. Tra i cinque referendum abrogativi indetti l’8 e il 9 giugno uno dei quesiti si occupa di cittadinanza. Di fronte a una legge che ha più di trent’anni e che per esperti e attivisti è “nata vecchia”, il comitato promotore chiede di abrogare una parte della norma del 1992 e ridurre il requisito della residenza in Italia da 10 a 5 anni. “Volete voi abrogare l’articolo 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione” e lettera f) della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza?”“, recita il quesito depositato il 4 settembre 2024 in Cassazione. Il referendum si occupa di quella che viene chiamata cittadinanza per naturalizzazione, e quindi nei casi in cui una persona non sia nata sul territorio dello stato, né sia figlia o figlio di cittadino italiano. Può essere per matrimonio o per residenza. C’è una precisazione da fare, però: la cittadinanza per naturalizzazione, a differenza delle altre modalità di acquisizione, non è un diritto ma una concessione dello stato. Ed è un percorso ad ostacoli. La residenza - L’articolo 9 della legge del 1992 prevede che “la cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del ministro dell’Interno” al cittadino straniero “che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio” dello stato. Questo termine si riduce a quattro anni per i cittadini comunitari e a cinque anni per le persone apolidi, che quindi non hanno alcuna cittadinanza. Il referendum dell’8 e 9 giugno perciò chiede di abrogare in toto la lettera f), che prevede questo termine, e di uniformarla alla disciplina prevista per chi viene adottato da un cittadino italiano. Cittadini stranieri adottati e non potrebbero, se passasse il referendum, fare domanda di cittadinanza se residenti in Italia per cinque anni consecutivi. Una volta ottenuta la cittadinanza italiana con questo nuovo requisito, il referendum consentirebbe poi di trasmettere automaticamente ai figli e alle figlie minorenni. Un primo passo - Questa iniziativa porterebbe alla situazione precedente al 1992, quando è stata introdotta la legge ancora in vigore con uno degli standard più restrittivi d’Europa. Questo intervento darebbe la possibilità a circa 2,5 milioni di persone di origine straniera di accedere alla cittadinanza, e con questa avere la possibilità di “partecipare agevolmente a percorsi di studio all’estero, rappresentare l’Italia nelle competizioni sportive senza restrizioni, poter votare, poter partecipare a concorsi pubblici come tutti gli altri cittadini italiani”, spiega il comitato promotore. Persone che vivono da moltissimi anni in Italia e che partecipano pienamente alla dimensione sociale e lavorativa del paese. Per i promotori e le promotrici la modifica che verrebbe apportata dal referendum costituirebbe solo il primo passo in prospettiva di una riforma strutturale della legge. I requisiti - “La legge sulla cittadinanza è vecchia di 32 anni, appartiene a un’epoca in cui la presenza straniera in Italia era limitata a poche centinaia di migliaia di persone”, aveva commentato l’ex senatore Luigi Manconi a Domani. La normativa è molto stringente, a partire dal requisito della residenza, e non solo per la durata. La residenza legale infatti non deve avere interruzioni e, per qualsiasi motivo, può accadere ad esempio di non avere il contratto della casa in affitto. Il buco della residenza è uno dei principali motivi di rigetto. Ma ci sono altri requisiti che spesso ostacolano l’accesso alla richiesta: oltre alla documentazione - certificati di nascita, casellario giudiziale del paese di origine, non sempre facili da reperire - e alla conoscenza della lingua italiana, la legge prevede un reddito minimo, che spesso è un grande ostacolo vista la precarietà lavorativa o il lavoro nero. Anche se tutti i requisiti sono soddisfatti, non è automatico ricevere una risposta positiva e diventare cittadino, perché, come si diceva, non è un diritto ma una concessione. Cioè il ministero dell’Interno ha un’ampissima discrezionalità. A questo si aggiunge un lungo periodo di attesa, la decisione di solito arriva dopo almeno tre anni e il ricorso impiega almeno quattro. Le tappe - Il quesito referendario è stato depositato in Cassazione da un gruppo di associazioni, organizzazioni, partiti e personalità singole. Un’iniziativa dal basso, in cui sono in prima linea le associazioni di persone con background migratorio, come Italiani senza cittadinanza, CoNNGI e Idem Network. A promuovere la campagna anche partiti come Più Europa, Possibile, Partito Socialista, Radicali Italiani, Rifondazione Comunista e diverse personalità come Luigi Manconi e Mauro Palma. In breve tempo sono state raccolte oltre 637mila firme di cittadini e cittadini, anche tramite la piattaforma online del ministero della Giustizia. Le firme sono poi state validate dalla Cassazione e il referendum è stato ritenuto ammissibile dalla Corte costituzionale, perché “omogeneo, chiaro e univoco”. Dunque, il futuro di questa modifica si giocherà l’8 e il 9 giugno, se si raggiungerà il quorum costitutivo. Per essere valido quindi dovrà recarsi a votare il 50 per cento più uno degli aventi diritto di voto. E l’abrogazione si avrà se sarà raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. È proprio la partecipazione al voto che preoccupa chi sostiene il referendum, anche perché la maggioranza di governo ha deciso di boicottarle questo e gli altri quattro inducendo gli elettori al non voto. C’è un alto rischio che il quorum costitutivo non venga raggiunto, non solo per l’invito del governo e per quella che le opposizioni definiscono censura in Rai, ma anche per la crescita dell’astensionismo negli ultimi anni. Vero è che è stata data la possibilità ai fuori sede per lavoro, studio o cure mediche di registrarsi per votare nel comune di domicilio. I motivi del sì e del no - Chi è favorevole al sì, considera la legge del 1992, una legge vecchia che - per dirla con Manconi - non tiene conto degli immensi cambiamenti sociali. Una legge che porta a discriminazioni e a diritti negati. E “il problema di accesso completo ai diritti non è tema di schieramento politico, ma di democrazia e civiltà di un paese”, aveva precisato l’ex garante dei detenuti Mauro Palma. Le associazioni delle nuove generazioni, nate o cresciute in Italia da genitori di origini straniere, chiedono di essere non solo oggetto di dibattito ma soggetti coinvolti, e quindi poter avere un ruolo attivo nella comunità in cui vivono. C’è poi un tema di riconoscimento - non crescere in una condizione di diversità imposta e di esclusione - e di diritti: poter partecipare a un concorso pubblico, poter andare all’estero o esercitare alcune professioni. Chi sostiene il no invece ritiene la legge congrua e addirittura - aveva detto il ministro dell’Interno Piantedosi - generosa, sostenendo che sia in testa agli altri stati dell’Unione europea. Come sottolinea Pagella Politica, altri pensano che la cittadinanza sia un punto di arrivo e non di partenza e abbassare il termine “potrebbe indebolire il valore dell’integrazione culturale e sociale”, o ancora l’abrogazione di una sola parte non risolverebbe i problemi in modo sistemico. Referendum cittadinanza: oltre 1,4 milioni di persone già residenti potrebbero diventare italiane di Marta Di Donfrancesco L’Espresso, 18 maggio 2025 Tra i potenziali beneficiari anche 284mila minori. Ma 700 mila stranieri restano a rischio esclusione perché troppo poveri e la pratica ha un costo: “È discriminazione indiretta basata sul censo”. Con la vittoria del “sì” al referendum sulla cittadinanza, 1 milione e 420 mila persone non comunitarie potrebbero diventare cittadini e cittadine italiani. A dirlo è un report del Centro studi e ricerche Idos (Immigrazione dossier statistico), secondo le cui stime la riforma dovrebbe interessare oltre uno straniero ogni 4 regolarmente residenti in Italia. Nello specifico, 1 milione e 136 mila adulti, tutti titolari di un permesso di soggiorno di lunga durata, e 284 mila minori, dei quali 229 mila soggiornanti di lunga durata e 55 mila che, pur non avendo maturato in proprio il requisito minimo previsto dalla riforma, diventerebbero italiani per automatica trasmissione della cittadinanza da parte dei genitori che si saranno naturalizzati grazie alla modifica referendaria. La stima è stata calcolata a partire da quei soggiornanti non Ue titolari di un permesso di soggiorno di lunga durata, che viene rilasciato dopo 5 anni di soggiorno regolare ininterrotto, ovvero il periodo che servirebbe per poter far richiesta di cittadinanza se passasse la riforma per cui si andrà al voto l’8 e il 9 giugno. Il quesito referendario, infatti, chiede di cancellare parte dell’articolo 9 della legge n. 91 del 1992 sulla cittadinanza: oggi uno straniero maggiorenne adottato da italiani può diventare italiano dopo 5 anni di residenza, mentre per gli altri stranieri ne servono 10. La vittoria del referendum porterebbe per tutti gli stranieri maggiorenni a 5 anni il periodo di residenza legale nel nostro Paese necessario a chiedere la cittadinanza italiana. Un termine, quello dei 5 anni, che era rimasto tale dai tempi della legge varata nel 1912 (e quindi in vigore per 80 anni) prima della norma del ‘92, con la quale è stato ridotto a 4 per i cittadini dell’Unione europea e, d’altro canto, aumentato a 10 per chi viene da uno Stato extra-Ue. Secondo i dati Istat, gli immigrati con permesso di soggiorno di lunga durata a fine 2023 erano circa 2.139.000, di cui 347.000 minori. È questa la cifra di stranieri che, quindi, hanno maturato in proprio il requisito previsto dalla riforma: essendo i dati più recenti riferiti a un anno e mezzo fa, anche qualora la registrazione anagrafica sia avvenuta con ritardo rispetto all’acquisizione del permesso di lunga durata, oggi quei lungo-soggiornanti hanno senz’altro raggiunto il termine dei 5 anni di residenza legale. La stima dei potenziali beneficiari effettivi, inoltre, decurta dal conteggio anche una quota di cittadini provenienti dai 50 Paesi non Ue che non ammettono la doppia nazionalità. Al netto dei numeri di chi si trova in questa impasse e “attraverso altri calcoli, il report arriva a determinare una ipotesi massima e una minima, indicando infine come più probabili i valori mediani indicati”, si legge in una nota del di Idos. Ma c’è un altro dato che salta agli occhi: quello delle 700 mila persone (nell’ipotesi massima) che non potranno comunque fare richiesta di cittadinanza perché troppo povere. Il referendum, infatti, non modifica gli altri requisiti necessari per la naturalizzazione, tra cui (oltre alla conoscenza della lingua e all’assenza di condanne penali) il possesso di un reddito adeguato: una condizione che - in base ai dati Istat sulla popolazione a rischio di povertà e di esclusione sociale - anche con la vittoria del Sì non sarebbe soddisfatta da una ampia fascia di stranieri residenti. Senza contare il costo per avviare la pratica, che è stato recentemente aumentato fino a un massimo di 600 euro a testa. Una situazione, dice il report, che rende quello alla cittadinanza per naturalizzazione “un diritto limitato di fatto attraverso una discriminazione indiretta basata sul censo”. “In un Paese civile e con una politica attenta a quel che succede nella realtà - afferma Luca Di Sciullo, presidente di Idos - non ci sarebbe stato bisogno di un referendum per varare questa modifica legislativa sulla naturalizzazione. Basterebbe constatare che la popolazione italiana diminuisce in media di oltre 300 mila unità all’anno, tra decessi che surclassano le nascite e l’incremento dell’emigrazione all’estero, e che negli ultimi 5 anni l’Italia ha inanellato altrettanti record negativi, arrivando al minimo storico di appena 370 mila nascite nel 2024, mentre oltre 1 milione di minorenni stranieri, quasi tutti in Italia dalla nascita, e altrettanti adulti che risiedono da almeno 5 anni nel Paese, ancora non accedono alla cittadinanza italiana”. Migranti. Torino, rivolta nel Cpr di Mauro Ravarino Il Manifesto, 18 maggio 2025 Migranti La protesta è scoppiata venerdì, un gruppo ha cercato di raggiungere il tetto della struttura. Un uomo è precipitato rompendosi una gamba. Le due ambulanze giunte sul posto sono state bloccate prima di poter intervenire. Quel reticolo di gabbie in mezzo ai palazzi del quartiere Pozzo Strada non ha più senso di esistere e mai l’ha avuto. Inaugurato nel 1999 e riaperto a fine marzo, dopo una chiusura di due anni, il Cpr di Torino ha una storia accidentata, che parla di sofferenza, proteste e violenze. Due i decessi accertati: Moussa Balde e Faisal Hossein. Nella tarda sera di venerdì la tensione è tornata ai massimi livelli dopo una rivolta esplosa nell’area bianca della struttura, maturata in seguito a una giornata di proteste iniziate prima nell’area blu dove i trattenuti avevano rifiutato il pasto per le restrizioni imposte alle comunicazioni telefoniche. La rivolta nell’area bianca sarebbe invece esplosa, in base a quanto ha ricostruito la Rete No Cpr, dopo l’orario di consegna della terapia, quando due migranti hanno tentato la fuga arrampicandosi sulla rete del cortile. Uno sarebbe stato raggiunto dalle forze dell’ordine e sarebbe caduto da un’altezza di due metri. Il giovane ha riportato una gamba fratturata. Nell’area hanno cominciato a divampare le fiamme, ben visibili dall’esterno, e altri migranti hanno raggiunto il tetto. Un agente sarebbe rimasto intossicato dai fumi. Alice Ravinale, capogruppo Avs in Regione, si è recata in corso Brunelleschi nella notte e, augurandosi che “questa volta ci sia maggiore chiarezza sulle condizioni” del migrante, sottolinea: “Nel nostro sopralluogo di lunedì abbiamo incontrato tante persone fragili e disperate a causa delle condizioni di detenzione, non mi stupisce che venerdì sera sia di nuovo esplosa la protesta. Il Cpr va chiuso, le persone con problemi di salute mentale che oggi sono lì recluse devono essere immediatamente rilasciate: è un posto che mette a rischio l’incolumità di tutti. Questa settimana sarà il quarto anniversario della morte di Moussa Balde: possibile che la sua drammatica vicenda, per cui è in corso un processo, non abbia insegnato nulla alle istituzioni di questo paese? Possibile che la propaganda anti-immigrazione del governo conti più del rischio, concreto, che ci possano essere altre vittime?”. Nel Cpr di Corso Brunelleschi sono rinchiuse una cinquantina di persone a fronte di una capienza (provvisoria) di 60. La situazione anche con la nuova gestione della cooperativa Sanitalia, che si è aggiudicata l’ultimo appalto, resta tesa. Le proteste nella notte tra venerdì e sabato arrivano a meno di un mese dalla rivolta del 30 aprile. La prima dopo la riapertura, che aveva reso inutilizzabile l’area viola. Ieri sera, al di fuori del muro di cinta di corso Brunelleschi, si è radunata una piccola folla di attivisti richiamati dal tam-tam sui social. Gli attivisti, avuta la notizia del ferito, hanno chiamato il 118, ma le due ambulanze giunte sul posto (con i vigili del fuoco) sono state bloccate prima di poter intervenire. Era già passata la mezzanotte - dicono gli attivisti - quando l’ambulanza è intervenuta e, durante tutto questo tempo, le persone sul tetto intonavano cori e canti, denunciando le terribili condizioni di reclusione. Stati Uniti. Caccia ai migranti, la Corte suprema “tradisce” Trump di Luca Celada Il Manifesto, 18 maggio 2025 I massimi giudici bloccano (per ora) l’uso di una legge del 1798 contro il nemico invasore per deportare i latinos illegali. L’ex capo del Fbi prelevato dai servizi segreti per un interrogatorio: “Un suo post mi minacciò di morte”. Trump torna dal viaggio nel Golfo e si scatena in casa. “Ho riportato a casa centinaia di miliardi” ha affermato soddisfatto Donald Trump nell’intervista rilasciata a Brett Baier di Fox News al suo rientro, ma il buon umore derivato dal tuffo nel Golfo dei petrodollari non è durato. Dopo l’adulazione e il cerimoniale degli sceicchi a Washington, il presidente ha trovato un’altra aria e una scorsa alle notizie (compreso un primo voto negativo in commissione per la sua finanziaria) deve averlo messo di umore pessimo. Ripresa in mano la tastiera, Trump ha tuonato contro la Corte suprema che giovedì ha tenuto audizioni preliminari sulla costituzionalità del decreto abrogativo dello ius soli firmato nel giorno dell’insediamento: la legge di guerra del 1798 sul rischio di invasione (Alien enemy act) non si può ancora usare, hanno detto i giudici supremi, finché resta incastrata negli appelli e contro-appelli della giustizia federale. La sentenza non è prevista ancora per settimane ma i togati non sono parsi ben disposti verso l’azzardo anticostituzionale. Il presidente ha fatto poi prelevare l’ex capo dell’FBI James Comey per “accertamenti” dal Secret Service. L’antica nemesi aveva postato sui social una foto di conchiglie in spiaggia arrangiate per comporre i numeri 8647 - un meme anti-Trump che usa il codice utilizzato nei ristoranti per “buttare via ingredienti avariati” (“eighty-six”) accanto al numero del quarantasettesimo presidente (Trump). Dopo aver dichiarato il post “un’istigazione all’assassinio del presidente”, Trump ha mandato gli agenti a prendere Comey per interrogarlo, aggiungendo un elemento concretamente intimidatorio alla solita diatriba online. I toni più aspri e petulanti il presidente li ha riservati ad una raffica di tweet che hanno preso mira Bruce (“faccia di prugna”) Springsteen e Taylor Swift (“da quando ho scritto che la odio non se la fila più nessuno”). A Springsteen in particolare ha riservato insulti e minacce dopo l’attacco del Boss che a Manchester aveva definito la sua amministrazione un governo “di corrotti, incompetenti e traditori.” Al rocker Trump ha suggerito di “TENERE CHIUSO IL BECCO, almeno fin quando non tornerà a casa, poi vedremo come gli vanno le cose”. La scenata, cafona quanto basta, condita di minaccia in stile mafioso, ha rafforzato l’atmosfera sempre più pesante che regna nel paese. Né hanno aiutato gli stendardi in stile nordcoreano, con gigantografia del presidente, issati fra le colonne del ministero dell’agricoltura. I locali di quel dicastero verranno requisiti ospitare i 6000 soldati che parteciperanno alla parata militare che si terrà per il 14 giugno, giorno del compleanno di Trump. Dietro al cerimoniale da regime quasi parodistico, la deriva neo autoritaria è fin troppo reale per un numero sempre maggiore di persone. Lo hanno sottolineato questa settimana due storie raccapriccianti uscite dall’America profonda, in Georgia. A Dalton, cittadina nel nord dello stato, Ximena Arias Cristobal, studentessa universitaria diciannovenne arrivata in USA coi genitori dal Messico all’età di quattro anni, è stata fermata per avere svoltato a destra senza mettere la freccia. Quando la ragazza è risultata sprovvista di permesso di soggiorno, è stata arrestata come immigrata “clandestina”, le sono messe le manette e ferri alle caviglie mentre all’agente diceva “non portatemi in prigione, la prossime settimana ho gli esami”. Da una settimana Arias Cristobal si trova in un CPR in attesa di deportazione in un paese che non conosce, come parte della grande deportazione di “criminali”. Ma la storia di Ximena dimostra come la pulizia etnica di Trump sia ben altro. Specie per gli ispanici (forse 10 milioni in totale) che pur senza documenti vivono spesso da molti anni di fatto integrati nella vita, cultura ed economia degli Stati Uniti. La loro rimozione da località come Dalton, un centro dell’industria tessile dove gli ispanici sono ora circa il 50% della popolazione di 30.000, somiglia più ad un’operazione che si prefiggesse di rimuovere i meridionali dal nord Italia che al respingimento dell’invasione immaginata dalla demagogia sovranista. Nel frattempo anche Jose Franscisco Arias Tovar - il padre di Ximena - è finito in manette e in attesa di espulsione. Le due sorelle minorenni (cittadine americane) temono ora che venga prelevata anche la madre. L’altra storia di ordinaria crudeltà, sempre più diffusa in questa America crepuscolare, arriva invece da Atlanta, la capitale dello stesso stato ed una città a maggioranza afroamericana. Riguarda Adriana Smith una infermiera di 30 anni che era incinta di nove settimane quando, dopo un ictus è stata dichiarata morta cerebrale. Da tre mesi Smith si trova ricoverata in stato vegetativo, tenuta artificialmente in vita per ottemperare alla legge sulla “protezione della vita” promulgata in Georgia dopo che la Corte suprema trumpista ha abrogato il diritto federale ad abortire. Le autorità hanno disposto che la gravidanza dovrà essere portata a termine, pur senza la certezza delle condizioni di salute del feto affetto da idrocefalia. “Ci hanno detto che potrebbe essere cieco o paralizzato,” ha dichiarato la madre della donna, “ma non abbiamo voce in capitolo”. Gaza, la strage dei bambini, morti quasi 20mila minori: un milione rischia fame e malattie di Greta Privitera Corriere della Sera, 18 maggio 2025 L’allarme di Save the Children: molti hanno bisogno di assistenza medica e devono essere evacuati. Quando cade una bomba senti un rumore “forte, forte”, dice Jana portandosi le mani alle orecchie. La casa, spiega, inizia a tremare e tu pensi che “piano piano” ti crollerà addosso. Jana dice che quel rumore “forte forte” a lei fa sempre tanta paura, allora ti conviene correre tra le braccia della tua mamma che stringe anche tutti i tuoi fratelli e “ti protegge”. Così non muori, spiega la bambina di cinque anni, esperta di guerra. Poi però c’è Mohammed che grida “Allah, fai che mia madre sia viva”, accanto al corpo della donna che non lo abbraccerà mai più. Piange, e delle nuvole di polvere sbuffano dalle guance truccate come quelle di un mimo: è la calce della sua casa rasa al suolo. C’è Ghana che da grande vuole fare l’ingegnera per ricostruire tutta Gaza: “Sai come ci divertivamo qui? Era bellissimo”. Ha perso la sorella gemella e un fratello in un bombardamento. C’è Khalid che ha 9 anni e dice: “Sono molto forte”. Deve pensarlo perché è l’unico sopravvissuto della famiglia. Rashaf ha 11 anni, il viso stranamente gonfio, le ossa del corpo così visibili da poterle contare tutte. “Voglio tornare a pettinare i miei capelli lunghi”, racconta con un filo di voce, toccandosi i pochi che le sono rimasti attaccati alla testa. “Se qualcuno la sfiora grida di dolore. È così malnutrita che rischia di morire, deve mangiare pollo, carne, uova, ma non c’è nulla”, spiega il padre, mentre mostra una foto di Rashaf prima della guerra: bellissima. Sono i bambini di Gaza. Piccoli corpi senza vita in fila in un corridoio di un ospedale. Occhi castani sbarrati, senza più nessuno da cercare. Salme leggere avvolte in lenzuoli bianchi, sorrette da padri disperati. Cadaveri ammucchiati in camion della morte. Volti impolverati. Neonati sulle ginocchia di madri orfane di altri figli. Ieri, il ministero della Salute palestinese ha detto che in 24 ore sono state uccise 153 persone dai raid dell’autorità israeliana. Unicef fa sapere che in due giorni sono morti almeno 45 bambini. Da marzo, da quando il governo di Benjamin Netanyahu ha violato la tregua ricominciando a bombardare l’enclave palestinese, il bilancio è da record: uccisi 950 minori (quasi 20 mila dall’inizio della guerra). Il blocco totale imposto dalle autorità israeliane all’ingresso di aiuti e beni umanitari ha spinto le famiglie della Striscia ad adottare misure inimmaginabili, racconta Save the Children: “Un milione di bambini rischia la fame, le malattie e la morte”. Disperati, senza più nulla, nel nord della Striscia si è tornati a mangiare mangime per animali, farina scaduta, farina mescolata con sabbia, foglie. Mentre a qualche metro, ai cancelli della prigione-Gaza, centinaia di camion stracolmi di tutto attendono di entrare: potrebbero sfamare la popolazione per almeno quattro mesi, dicono dall’Onu. Si aggiunge un numero: 4.500 bambini necessitano di evacuazione medica. “Le uscite mediche dovrebbero essere facilitate senza pregiudicare il diritto dei palestinesi al ritorno sicuro, volontario e dignitoso”, dicono da Medici senza frontiere. Da lì arrivano racconti anche al contrario: minori usciti per curarsi e forzati al ritorno. “È peggio dell’inizio”, racconta Sami Abu Omar, dalla Striscia. “Bombardano e noi moriamo come formiche”. A pagare quel “peggio” sono soprattutto Jana, Ghana, Khalid e tutti gli altri: dei circa due milioni e 100 mila abitanti, metà sono bambini. Sono gli stessi che ci appaiono nei profili social in quei cortometraggi della disumanità che si fatica a pensare veri. Da dentro, chi ha visto prova a offrire qualche coordinata per renderli reali. A Gaza, dicono, muore un bambino ogni 45 minuti. Oppure, immaginate una palestra di una scuola dove ci sono cento studenti: due sono stati uccisi, due sono dispersi, tre sono feriti, cinque sono orfani, cinque richiedono un trattamento per malnutrizione acuta. Venezuela. Caracas apre alla possibilità di una visita consolare ad Alberto Trentini di Estefano Tamburrini Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2025 L’apertura è frutto di un lungo percorso di mediazione e si inserisce nella cornice ben più ampia e delicata che riguarda i negoziati tra Usa, El Salvador e Venezuela. Fonti di Caracas affermano che Alberto Trentini riceverà, al più presto, una visita consolare da parte dei rappresentanti della Farnesina in Venezuela. Sarà quindi la prima volta in cui diplomatici italiani potranno incontrare di persona il cooperante 45enne di Lido Venezia da sei mesi trattenuto nel Paese sudamericano. Ma le tempistiche della visita non sono chiare: “Accadrà presto”, dicono sempre dalla capitale venezuelana. La richiesta ufficiale di una visita consolare risale allo scorso 16 gennaio, secondo quanto annunciato dal ministro degli Esteri Antonio Tajani all’Ansa. E in precedenza qualche tentativo è stato compiuto dall’ambasciatore italiano a Caracas, Giovanni Umberto De Vito, senza esito positivo. L’improvvisa apertura è in continuità con la telefonata concessa da Caracas a Trentini nella quale il cooperante ha rassicurato la mamma, Armanda Colluso, sulle proprie condizioni di salute e ha sottolineato il desiderio di voler “tornare presto a casa”. Sappiamo che nel caso specifico del cooperante, l’apertura è frutto di un lungo percorso di mediazione che ha coinvolto il governo italiano, la famiglia Trentini e l’avvocata Alessandra Ballerini. E anche le parole sono state disarmate nel cammino, come direbbe Leone XIV, con il viceministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Edmondo Cirielli, che ha ringraziato il presidente venezuelano Nicolas Maduro auspicando che “si possa giungere alla rapida scarcerazione del connazionale”. Dopo questa mossa, il palazzo di Miraflores attende gesti di distensione sui quali le autorità di Roma sono già a lavoro. Tuttavia Trentini non è stato l’unico a telefonare: nelle ultime ore quasi tutti i prigionieri stranieri reclusi a El Rodeo I nell’ambito delle tensioni post-elettorali dell’estate 2024 hanno potuto sentire i propri parenti, rompendo così mesi di totale incomunicabilità. Il punto di Caracas - Vista dal Venezuela, la trattativa si inserisce in una cornice ben più ampia e delicata. Stiamo parlando dei negoziati tra Usa, El Salvador e Venezuela per il rilascio di 252 prigionieri politici, compresi gli oltre 60 stranieri ancora detenuti nel Paese sudamericano, in cambio di altrettanti venezuelani deportati dagli Usa a San Salvador. E una bozza con un primo elenco di nomi sarebbe già stata sottoposta all’esame di Washington e Caracas. “Il nostro è un gesto di apertura verso El Salvador”, spiegano al palazzo di Miraflores. Tali negoziati hanno già prodotto un primo risultato con la consegna di Maykelis Espinoza, la bambina di due anni sbarcata all’aeroporto internazionale di Maiquetia, in Venezuela, giovedì 15 maggio dopo essere stata deportata dagli Usa insieme ai suoi genitori, accusati di appartenere alla nota gang transnazionale del Tren de Aragua sotto la legge dell’Alien Enemy Act del 1798. Anche allora si è verificato un altro gesto di distensione: i ringraziamenti di Nicolas Maduro al suo nemico naturale, il presidente Usa Donald Trump, “per aver compiuto questo atto umano di giustizia”. Ma al centro non c’è solo il ritorno dei connazionali deportati bensì l’auspicata uscita del Paese dall’isolamento internazionale in cui si trova da alcuni anni oltre alla necessità di superare la crisi socio economica aggravata dalle recenti sanzioni Usa. E infine le elezioni amministrative di domenica prossima, 25 maggio, attraverso le quali Maduro vorrebbe consolidarsi ulteriormente sulle macerie di un’opposizione divisa e smarrita. Altri precedenti già risaputi e che fanno ben sperare riguardano la liberazione dell’imprenditore italo-venezuelano Alfredo Schiavo, recluso dal 2020 nel Penitenziario dell’Helicoide a Caracas, in Plaza Venezuela, e rilasciato per motivi umanitari, così come il trasferimento negli Usa dei cinque oppositori che si erano rifugiati nell’ambasciata di Buenos Aires a Caracas. Guai però a leggere le recenti mosse di Maduro come cenno di debolezza da parte del Palazzo di Miraflores. Anche perché da quelle parti lo studio della geopolitica è cosa seria, assidua, ossessiva. D’altronde, chi si schiera contro l’Impero statunitense deve saper giocare le poche carte che ha. E finora il chavismo le ha giocate bene, tenendo testa a Washington anche a costo di grossi sacrifici. In questo senso la Cuba di Fidel Castro è stata una scuola importante. Sono quindi ore delicate nelle quali, citando Aldo Moro, “una qualche concessione non è solo equa, ma anche politicamente utile” ricordando che “in questo modo civile si comportano moltissimi Stati”. La Francia costruirà un carcere di massima sicurezza in Guyana di Federica Romeo ilmetropolitano.it, 18 maggio 2025 Con l’obiettivo primario di neutralizzare i narcotrafficanti più pericolosi e ospitare prigionieri radicalizzati, il governo francese ha annunciato la sua intenzione di realizzare, entro il 2028, un carcere di massima sicurezza. La struttura, che conterà 60 posti e sarà caratterizzata da un regime detentivo estremamente rigoroso, sorgerà in Guyana francese, nel dipartimento sudamericano d’oltremare immerso nella giungla amazzonica. Il ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin, ha dichiarato: “Istituiremo in Guyana francese il terzo carcere di massima sicurezza: 60 posti, un regime carcerario estremamente rigido e un unico obiettivo: mettere al sicuro i narcotrafficanti più pericolosi”.