Il Ministero della Giustizia sta limitando il lavoro di “Ristretti Orizzonti” ilpost.it, 17 maggio 2025 Cioè la storica rivista del carcere di Padova, per via di una circolare che danneggia molti detenuti con argomenti discutibili. Da qualche settimana nella redazione di Ristretti Orizzonti, storica rivista del carcere di Padova scritta da persone detenute, lavorano otto detenuti in meno, su una quarantina in totale. Sono quelli provenienti dall’Alta Sicurezza, la sezione del carcere riservata a persone condannate per alcuni tipi di reati associativi in cui si è normalmente sottoposti a una sorveglianza più stretta: non lavorano più in redazione per via di una recente circolare sulla gestione di questa categoria di detenuti diffusa dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), l’ufficio del ministero della Giustizia che si occupa di carceri. La circolare, molto contestata da giuristi e associazioni che si occupano di carcere, ha di fatto tolto alle singole carceri il margine di discrezionalità di cui finora avevano goduto sulla gestione dei detenuti dell’Alta Sicurezza: ha imposto criteri più rigidi sul numero di ore che possono trascorrere all’esterno dalle celle, e quindi anche in attività culturali, come nel caso della redazione di Ristretti Orizzonti (ma non solo). La decisione è stata motivata principalmente con la necessità di isolare i detenuti dell’Alta Sicurezza e limitare i contatti coi detenuti comuni, per prevenire quelle che il DAP ha definito “forme pericolosissime di reclutamento”, e il mantenimento dei contatti con la propria comunità criminale (grazie ai maggiori contatti con l’esterno che hanno i detenuti comuni). Ristretti Orizzonti esiste da quasi trent’anni ed è considerata un’eccellenza nel sistema carcerario italiano: è gestita dall’associazione “Granello di Senape”, che da anni si occupa di diritti dei detenuti, ha cadenza bimestrale, e impegna quotidianamente decine di detenuti in attività che nel corso degli anni, in molti casi, hanno contribuito al loro reinserimento nella società una volta terminata la pena. È inoltre un’iniziativa inserita in un sistema, il carcere italiano, le cui condizioni molto critiche - tra sovraffollamento, tensioni e frequenti suicidi - compromettono la funzione rieducativa della pena stabilita dalla Costituzione. Ornella Favero, la direttrice di Ristretti Orizzonti, dice che in redazione lavorano tra i 40 e i 50 detenuti: circa 30 lo fanno tutti i giorni per scrivere articoli e fare il lavoro quotidiano di redazione; gli altri partecipano ad attività complementari, con gruppi di discussione e riunioni che comunque hanno una cadenza di due volte a settimana. Degli otto detenuti che non possono più lavorare alla rivista, quattro lavoravano in redazione tutti i giorni e quattro partecipavano solo ai gruppi di discussione: “Il lavoro di redazione includeva anche incontri con le scuole, e in generale con ospiti esterni: un tipo di attività che finora ha dimostrato la sua efficacia nel reinserimento dei detenuti”, dice Favero. Elton Kalica, ex detenuto del carcere di Padova che ha lavorato molti anni a Ristretti Orizzonti, e che oggi è un ricercatore al dipartimento di Sociologia dell’università di Padova, racconta che per lui il lavoro di redazione è stato “una risorsa fondamentale” per indirizzare la propria vita. Aggiunge che gli incontri con le scuole avevano un valore particolare: “Ti ritrovi a spiegare a un gruppo di ragazzi e ragazze giovani, liberi e che ti ascoltano con grande curiosità e senza particolari idee prestabilite perché sei finito in carcere, che percorso di vita hai avuto”. “Inevitabilmente questo ti serve a riflettere su quello che hai fatto, su come hai gestito la tua vita per finire lì dentro”, dice Kalica. Favero ha detto che l’esclusione degli otto detenuti provenienti dall’Alta Sicurezza è stata decisa poco dopo la diffusione della circolare del DAP, con una seconda circolare inviata direttamente al carcere di Padova: citando la prima circolare, il DAP ha ordinato alla direzione del carcere di vietare ai detenuti dell’Alta Sicurezza di partecipare al lavoro di redazione. In maniera simile, in altre carceri è stato vietato ai detenuti dell’Alta Sicurezza di frequentare i corsi universitari organizzati per chi sta in carcere: i corsi normalmente sono organizzati all’interno del carcere, ma in aule dedicate collocate all’esterno della sezione Alta Sicurezza, da cui quindi i detenuti devono fisicamente uscire, pur restando dentro il carcere. “Abbiamo la certezza che in molti istituti non si stanno più facendo uscire i detenuti dell’Alta Sicurezza per seguire le lezioni, dato che potrebbero sedersi vicino ad altri tipi di detenuti: è una grave limitazione del loro diritto allo studio, che come altre attività ha documentati effetti positivi”, dice Davide Galliani, professore associato di Diritto costituzionale e pubblico all’università statale di Milano, e promotore di una lettera aperta inviata al DAP da 35 docenti universitari contro la circolare di fine febbraio. Formalmente la circolare ribadisce la necessità di rispettare alcune regole già esistenti; nella pratica, però, ha l’effetto di rendere queste regole più rigide e stringenti: per capire perché bisogna fare un passo indietro. La gestione della vita quotidiana dei detenuti nell’Alta Sicurezza non è regolamentata da una legge, ma da una serie di note e circolari diffuse dal DAP nel corso degli anni, in cui volta per volta sono state date indicazioni sul da farsi. “Queste circolari non hanno un valore di legge: sono indicazioni che le singole direzioni hanno finora gestito con discrezionalità e autonomia, valutando volta per volta se e come potessero venire applicate alla singola struttura o al singolo percorso rieducativo del detenuto”, dice Galliani. Le varie circolari, l’ultima delle quali del 2015, stabiliscono in linea generale che la custodia dei detenuti dell’Alta Sicurezza debba essere “chiusa”: è una definizione precisa, che prevede un massimo di 8 ore fuori dalla propria cella (nella custodia cosiddetta “aperta” possono essere fino a 14), e che esclude la possibilità di lavorare in carcere se il luogo di lavoro è collocato all’esterno della propria sezione. Permette di studiare solo in alcuni casi, e comunque dopo una serie di colloqui e valutazioni, e la circolazione all’interno del carcere deve avvenire sempre con un accompagnamento. La circolare del DAP diffusa a febbraio cita e riprende i contenuti di queste circolari per dire che tutte le carceri devono rispettare queste regole quando gestiscono i detenuti in Alta Sicurezza: “In carceri come quello di Padova, in cui ci sono attività innovative e impegnative come Ristretti Orizzonti, l’imposizione di limiti orari rigidi e l’esclusione di qualsiasi contatto con i detenuti comuni significa escludere i detenuti dell’Alta Sicurezza da quelle stesse attività, esattamente come è successo”, dice Galliani. Come detto, il DAP ha motivato queste indicazioni con la necessità di isolare i detenuti condannati per reati associativi gravi e prevenire eventuali continuazioni delle loro attività: secondo Galliani questo tipo di indicazione avrebbe senso soprattutto per i detenuti arrivati all’Alta Sicurezza dal “41-bis”, regime detentivo che prevede un livello ancora più estremo di isolamento per alcuni tipi di reati associativi: “Ma i detenuti che erano al 41-bis sono una minima parte di quelli in Alta Sicurezza, che sono oltre 9mila e che stanno subendo le conseguenze di questa decisione”. Elton Kalica spiega anche che gran parte dei detenuti esclusi dalla redazione di Ristretti Orizzonti ha tra i 60 e i 70 anni: “La redazione è anche un modo per fargli trascorrere il tempo, farli lavorare e mantenerli attivi, con possibilità che non potrebbero trovare altrove”. Mattarella: “La vita in carcere assicuri il pieno rispetto dei diritti dei detenuti” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 17 maggio 2025 Forte richiamo del capo dello Stato: “La pena si ispiri al senso di umanità prescritto dalla Costituzione”. La vita penitenziaria deve assicurare sempre “il pieno rispetto dei diritti dei detenuti, in particolare di quelli più vulnerabili, nell’adempimento dei principi della Costituzione, ispirandosi al senso di umanità che essa prescrive”. Lo ha ricordato ieri presidente della Repubblica Sergio Mattarella in un messaggio inviato alla coordinatrice nazionale dei magistrati di sorveglianza, la giudice Monica Amirante, in occasione del convegno per il cinquantesimo dell’Ordinamento penitenziario. “La dignità umana non conosce zone franche di esclusione. È questa la premessa che offre ai detenuti, attraverso percorsi lungimiranti, il recupero e l’accesso ai valori della socialità e della legalità”, ha quindi aggiunto il capo dello Stato, auspicando che questo importante anniversario sia l’occasione per compiere “un bilancio e riflettere sul nostro sistema detentivo in un contesto particolarmente critico”. Dopo la presa di posizione del giorno prima da parte del vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, anche il capo dello Stato ha voluto far sentire la propria voce su un tema quanto mai sensibile come quello del sovraffollamento nelle carceri, aggravato da una lunga scia di suicidi. “La pena non è vendetta ma rieducazione”, aveva detto Pinelli, ponendo l’accento sul fatto che “una pena scontata in condizioni strutturali carcerarie spesso indegne, non fa che alimentare la recidiva”. “In un sistema moderno - aveva aggiunto - dobbiamo interrogarci su quali conflitti debbano essere affidati alla giurisdizione penale e quali possano essere affrontati con altri strumenti”. La ricetta di Pinelli, va ricordato, non è nuova ma è l’unica oggi possibile: aumentare la riduzione anticipata della pena. Attualmente è prevista una riduzione della pena di 45 giorni ogni semestre per buona condotta. Come già fatto all’indomani della sentenza Torreggiani che condannò l’Italia per trattamento inumano e degradante per lo stato delle sue carceri, si potrebbe estendere tale beneficio a 60 o 90 giorni, soprattutto per i detenuti con pene brevi e che non si sono macchiati di reati particolarmente gravi. “Sarebbe una misura concreta, equilibrata, che non nega la funzione della pena e allo stesso tempo aiuta a gestire una situazione drammatica, nel rispetto dei principi fondamentali”, ha sottolineato il vicepresidente del Csm. Ed è di ieri la notizia della sospensione dello sciopero della fame da parte di Rita Bernardini, dopo 22 giorni, in risposta all’apertura manifestata dal presidente del Senato Ignazio La Russa, proprio riguardo la proposta di liberazione anticipata. “È giunto il momento di superare ideologie e pregiudizi e di affrontare con responsabilità e umanità il tema del carcere”, ha commentato l’ex presidente della Regione siciliana Salvatore Cuffaro. In Parlamento, comunque, è sempre ferma la proposta di Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata. “Auspico che l’intera politica, maggioranza e opposizione, sappia cogliere questa occasione per una riforma vera e giusta del nostro sistema penitenziario. Non possiamo più voltare lo sguardo davanti a condizioni inumane che riguardano non solo i detenuti, ma anche chi ogni giorno lavora nelle carceri. Serve una giustizia che accompagni, che non punisca soltanto, ma rieduchi”, ha aggiunto Cuffaro. Queste iniziative si scontrano, però, con il pensiero di Carlo Nordio. Il ministro della Giustizia ha sempre sottolineato infatti che i “suicidi in carcere non sono correlati al sovraffollamento carcerario”. “Stiamo valutando la possibilità di una detenzione differenziata per una gran parte di detenuti che sono incarcere per reati legati alla tossicodipendenza, perché più che essere dei criminali da punire, sono dei malati da curare”, ha ribadito l’altro giorno lo stesso Nordio, rispondendo ad una interrogazione al Senato sulle criticità nelle carceri. “Su questo interverremo a breve e vedrete che avremo anche dei risultati importanti. Così come - ha proseguito - interverremo sulla custodia cautelare, perché il 20percento delle persone detenute in carcere sono in attesa di giudizio e almeno la metà alla fine viene assolta, quindi la loro detenzione si rivela ingiustificata”. “Intervenendo sulla rimodulazione della custodia cautelare preventiva, penso che potremo ottenere entro tempi ragionevoli una riduzione del sovraffollamento carcerario”, ha poi concluso il Guardasigilli. In attesa che la politica prenda posizione, da questa settimana il nuovo capo del Dap è il magistrato Stefano Carmine De Michele, attuale direttore generale delle risorse materiali e delle tecnologie del ministero della Giustizia. A lui toccherà il compito di riportare un po’ di calma in un contesto sempre più incandescente. La funzione liturgica della pena, l’oblio della Costituzione, e la coscienza di La Russa di Carmelo Palma linkiesta.it, 17 maggio 2025 Il presidente del Senato apre alla proposta di Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata, mentre il Parlamento si appresta a convertire in legge il decreto sicurezza, che aumenterà ulteriormente la popolazione detenuta. Il centro-destra è messo così male, coi suoi gorgheggiatori del comparaggio garantista che non alzano mai lo sguardo sullo spettacolo delle tragedie e delle galere altrui, che è toccato al più fascista della compagnia, il presidente del Senato Ignazio La Russa, mettersi una mano sulla coscienza e ammettere che non è più il caso di gloriarsi della Caienna e dell’oblio della Costituzione e che bisogna fare qualcosa per rimediare al sovraffollamento (una media del 133,5 per cento con punte del 219,2 per cento) e all’epidemia suicidaria nei penitenziari severamente sorvegliati dal camerata Andrea Delmastro Delle Vedove (al 6 maggio, venticinque vittime contro le ventisette dell’anno scorso alla stessa data, ma con ventuno decessi per cause ancora da accertare, contro i tre del 2024). Escludendo provvedimenti di clemenza, il presidente del Senato - in questo sostenuto anche dal vice presidente del Consiglio superiore della magistratura in quota Lega, Fabio Pinelli - ha promesso un’opera di moral suasion per l’approvazione della proposta sulla liberazione anticipata del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti; impegno piccolo e prezioso, che però suona grottesco mentre il Parlamento si accinge a convertire in legge l’ennesimo decreto sicurezza, con quattordici nuovi reati e nove aumenti di pena, destinato ad alimentare un’ulteriore esplosione della popolazione detenuta. L’uscita di La Russa ha consentito alla presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, di rifiatare e di sospendere uno sciopero della fame in corso già da ventidue giorni, mentre prosegue quello di Chiara Squarcione e di Laura Di Napoli, accompagnate da un digiuno a staffetta di circa centocinquanta attivisti radicali, proprio contro il decreto sicurezza. Il timore è che il sussulto di coscienza e l’iniziativa di La Russa, per quanto modesta nelle ambizioni, sia destinata a infrangersi contro un muro che non è affatto di indifferenza e insensibilità, ma di maturata ostilità contro il fine stesso della costituzionalizzazione della galera, su cui il Nordio Dr Jekyll aveva costruito una fama di competenza e umanità, e il Mr Hyde sbarcato a via Arenula, gettata la maschera, ha svelato il suo volto di mediocre mestierante. Come però dovrebbe essere chiaro a chiunque, per avere piena contezza del pervertimento del sistema penale, esemplarmente rappresentato dalla condizione delle carceri, occorre abbandonare il mondo delle interpretazioni giuridiche e inerpicarsi nel sopramondo di quelle teologico-politiche. Non è più un fenomeno che abbia a che fare con la laicità del diritto, bensì con la sacralità del potere, dove il delitto ha una sostanza dogmatica e la pena una funzione liturgica. Il primo cessa di essere un fatto previsto dalla legge come reato, per la lesione di un bene giuridico protetto, e diventa un meccanismo di difesa della società dal contagio e dall’incombenza del male. È un’idea intrinsecamente totalitaria del diritto penale, ma ampiamente condivisa da schieramenti che, per quanto formalmente opposti, ne condividono appunto il presupposto, quello della tutela penale come principio di salvaguardia dell’ordine politico ideale. Ovviamente in questo quadro la pena non serve a risarcire il vulnus e a ripristinare la normalità, proprio restituendo, quando sia possibile, il reo risanato alla società, secondo la logica liberale e costituzionale, ma serve al contrario a sacrificare il reo per propiziare il risanamento della società e celebrare in quel sacrificio la liberazione dal male. Inevitabilmente la legge penale così non solo diventa la prosecuzione della politica con altri mezzi, ma anche il mezzo privilegiato della politica. Se legge penale scrutina e battezza i nemici del popolo è per ciò stesso la legge suprema ed è insensato volerne relativizzare i responsi. Quindi dietro il buttate la chiave c’è qualcosa di più o di peggio di una violenza di Stato: c’è la violenza sacra di Girard non ancora emancipatasi nel rito simbolico delle religioni; c’è la liturgia del sangue necessario alla vita e alla pace di tutti; c’è l’irrevocabilità della eterna battaglia del bene contro il male, precipitata nella contingenza di qualunque episodio di cronaca. Il primato della galera, come sola ipostasi della giustizia, non risponde affatto a un’istanza di sicurezza, ma a un bisogno diffuso di identità politica ed è impossibile mitigarne gli effetti con appelli puramente umanitari, che sono destinati a finire nel nulla se non risvegliano il senso della catastrofe antropologica di una democrazia fondata sui sacrifici umani. La mutualità premia progetti di supporto alle famiglie e ai detenuti di Alessio Nisi vita.it, 17 maggio 2025 “Luce in fondo al tunnel” di Fondazione faro ets (supporto alle famiglie vulnerabili colpite da un lutto improvviso) e “Fuga di sapori bakery 2.0” di Idee in fuga scs (per l’inclusione sociale e lavorativa di detenuti ed ex detenuti) sono i vincitori della terza edizione del Premio nazionale mutualità, promosso da Itas Mutua e Reale Mutua. Luigi Lana, presidente di Reale Mutua: “La mutualità è un modello quanto mai attuale e necessario, capace di coniugare sostenibilità economica, coesione sociale e attenzione al lungo termine”. Sono “Luce in fondo al tunnel” di Fondazione faro ets e il progetto “Fuga di sapori bakery 2.0” di Idee in fuga scs i vincitori della terza edizione del Premio nazionale mutualità, promosso da Itas Mutua e Reale Mutua, le uniche due compagnie assicurative italiane costituite in forma di mutua. Il Premio mutualità nasce per valorizzare esperienze capaci di tradurre in pratica i principi mutualistici, sostenendo realtà che promuovono coesione, solidarietà e inclusione attraverso modelli sostenibili e replicabili. L’edizione 2025 ha visto la partecipazione di 81 progetti (+9% rispetto all’anno precedente) e ha confermato l’attenzione crescente verso un approccio collaborativo alla trasformazione sociale. “In Reale Mutua promuoviamo un’economia che mette al centro le persone, i territori e il valore delle relazioni”, precisa Luigi Lana, presidente di Reale Mutua, “la mutualità è un modello quanto mai attuale e necessario, capace di coniugare sostenibilità economica, coesione sociale e attenzione al lungo termine. Insieme a Itas Mutua, con cui condividiamo valori e visione, crediamo in un modo diverso di fare impresa: più responsabile, più umano, più orientato al bene comune. Per Lana, “progetti come quelli premiati oggi dimostrano che il benessere collettivo non è un’utopia, ma il frutto concreto di legami di fiducia, inclusione e responsabilità condivisa, su cui costruire una società più equa e solidale”. Visione di lungo periodo e responsabilità - Le mutue, come Itas e Reale, aggiunge Luciano Rova, presidente di Itas Mutua, “non seguono logiche di profitto fine a sé stesso né sono condizionate da obiettivi a breve termine. La loro struttura è pensata per privilegiare una visione di lungo periodo, con un forte senso di responsabilità verso i soci-assicurati, un legame profondo con i territori in cui operano e l’impegno a mantenere rapporti equi con le comunità. Efficienza, solidità aziendale e valore collettivo - I progetti premiati con il Premio mutualità 2025, chiarisce, “rappresentano la prova concreta di come il modello di impresa mutualistica sappia garantire efficienza e solidità aziendale e al contempo generare anche valore collettivo”. Luce in fondo al tunnel - Fondazione faro Ets è stata premiata per il progetto “Luce in fondo al tunnel”, che propone un modello innovativo di supporto alle famiglie vulnerabili colpite da un lutto improvviso. Il percorso prevede accompagnamento psicologico, reinserimento lavorativo personalizzato e formazione professionale, con l’obiettivo di restituire autonomia e dignità attraverso una rete territoriale di imprese e associazioni. Ascolto, cura e opportunità. Per Luigi Stella, direttore generale Fondazione faro Ets “ricevere questo riconoscimento da Itas Mutua e Reale Mutua è per la Fondazione faro un segnale forte di fiducia e una conferma del valore del lavoro che ogni giorno svolgiamo accanto alle famiglie più fragili. ““Luce in fondo al tunnel”, precisa, “è un progetto che unisce ascolto, cura e opportunità: partiamo da un momento di grande vulnerabilità, come la perdita improvvisa di una persona cara, per accompagnare i familiari verso una nuova autonomia, anche economica. La mutualità, in questo percorso, diventa alleanza tra il mondo sociale e quello imprenditoriale, capace di creare reti solidali, connessioni durature e risposte concrete ai bisogni emergenti della nostra società”. Inclusione sociale e lavorativa di detenuti ed ex detenuti - Fuga di sapori bakery 2.0 di Idee in fuga scs è un laboratorio di panificazione ad Alessandria, che promuove l’inclusione sociale e lavorativa di detenuti ed ex detenuti. Attraverso percorsi di formazione e inserimento, il progetto punta a ridurre il tasso di recidiva, restituendo un ruolo attivo ai partecipanti e rafforzando la coesione sociale. “La nostra cooperativa”, chiarisce Carmine Falanga, presidente della Cooperativa sociale Idee in fuga, “è nata per costruire un ponte tra il carcere e la società, rompendo il silenzio e l’invisibilità che circondano la vita detentiva. La mutualità è il cuore del nostro progetto: promuoviamo il reinserimento sociale e lavorativo di detenuti ed ex detenuti, accompagnandoli in un vero percorso di rinascita. Vogliamo contribuire a una società più giusta, inclusiva e sicura, in cui nessuno resti indietro”. La giuria - A decretare i vincitori è stata una giuria di alto profilo composta da esperti del mondo mutualistico, accademico e del Terzo settore, tra cui: Luigi Lana, Luca Filippone (direttore generale Reale group), Giuseppe Consoli (presidente Comitato guida strategie mutualità Itas Mutua), Alessandro Molinari (ad Itas mutua), Enrica Baricco (presidente Casaoz), Mario Calderini (Politecnico di Milano), Giovanna Melandri (Human foundation), Ernesto Olivero (fondatore Sermig), Maria Serena Porcari (Presidente Dynamo academy) e Gianluca Salvatori (segretario generale Euricse). 11 giugno, la data “nera” per la giustizia: al voto assieme separazione delle carriere e Dl Sicurezza di Liana Milella Il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2025 Via tutti gli emendamenti alla Camera per la Sicurezza. Idem al Senato per la separazione delle carriere, un unicum per una riforma costituzionale. È davvero en plein stavolta. La peggiore sconfitta possibile per la giustizia italiana. E per i magistrati, per la sinistra, ma anche per costituzionalisti, giuristi e avvocati che stanno dalla parte giusta. Tant’è che ne mena vanto il peggior nemico delle toghe, quel Maurizio Gasparri di Forza Italia che, a metà marzo del 2024, si piazzò non solo nella commissione Giustizia del Senato, ma anche nell’Antimafia, per portare avanti il suo piano vendicativo contro la magistratura. La data nera del calendario è il prossimo 11 giugno quando, al Senato, passeranno in aula l’uno dopo l’altro i due provvedimenti simbolo del governo Meloni, la separazione delle carriere e il decreto Sicurezza. In entrambi i casi, nel totale spregio delle minime regole parlamentari. Via tutti gli emendamenti alla Camera per la Sicurezza, un decreto monstre di 39 articoli che contiene 14 nuovi reati e nove aggravanti. Idem al Senato per la separazione. Un unicum per una riforma costituzionale di portata gigantesca, poiché cambia radicalmente l’assetto della magistratura italiana. Ebbene, con le stesse procedure antidemocratiche, con la negazione autoritaria di un civile confronto, la maggioranza irride l’opposizione e “marcia” a colpi di autoritarismo parlamentare. L’11 giugno, e il vanto politico che già ne porta la coalizione di governo, resterà nella storia costituzionale italiana come una data nera che segna il precipizio del confronto democratico e della stessa democrazia parlamentare. A nulla potranno servire le proteste della magistratura e dell’Anm che, dal rinnovo della sua presidenza con il cambio tra Giuseppe Santalucia e il suo successore Cesare Parodi, il primo della sinistra di Area, il secondo della destra di Magistratura indipendente, mostra al suo interno gli evidenti segni di uno scollamento e di frequenti strizzatine d’occhio al governo. ?Basti citare gli incontri in via Arenula, a quanto pare in un clima disteso e colloquiale, tra il Guardasigilli Carlo Nordio e gli esponenti del sindacato delle toghe che paiono porre sullo stesso piano i colpi mortali della separazione e del dl Sicurezza, nonché i 45 giorni per le intercettazioni e la prossima stroncatura della custodia cautelare, con interventi del tutto dovuti sul piano dell’organizzazione giudiziaria. E poi la sorpresa della durissima intervista del 6 maggio sul Giornale rilasciata dal plenipotenziario di Magistratura indipendente Claudio Galoppi che ha scagliato contro la sinistra togata il suo anatema. Quel titolo, “L’Anm è diventata un soggetto politico contro il governo”, era già un programma. Buonanotte. Carriere separate, Guzzetta: “La riforma non è incostituzionale”. Parodi: “La Carta va difesa” di Valentina Stella Il Dubbio, 17 maggio 2025 Dibattito serrato nello stand del Dubbio al Salone del libro di Torino tra il presidente dell’Anm Cesare Parodi e il costituzionalista Giovanni Guzzetta. Il tema è stato ovviamente quello della riforma costituzionale della separazione delle carriere, proprio nei giorni di forti polemiche al Senato tra opposizioni e maggioranza per la decisione di quest’ultima di portare in Aula il provvedimento l’11 giugno, quando molto probabilmente non ci sarà il tempo di dare mandato al relatore e analizzare tutti gli emendamenti. “Una scelta che ci amareggia, ma purtroppo non ci sorprende”, ha detto Parodi. Ha replicato Guzzetta: “La Costituzione consente alla maggioranza di fare una riforma senza l’accordo con l’opposizione, salvo poi esporsi al rischio del referendum. Ovviamente, anche ai fini di un maggior consenso, si può valutare questo aspetto, ma non è un problema di costituzionalità, bensì di opportunità politica”. Ha aggiunto: “Dal punto di vista del diritto costituzionale io non vedo particolari forzature in un contesto in cui peraltro le forzature della Costituzione sono ahimè all’ordine del giorno da decenni, senza che nessuno si scandalizzi. Pensate che cos’è il fenomeno dei decreti legge”. Abbiamo poi affrontato il modo in cui si sta portando avanti la campagna comunicativa in vista del referendum: alcuni mesi fa sulle bacheche Facebook di molti magistrati sono apparsi messaggi in cui si diceva che la riforma va osteggiata perché ideata da Licio Gelli. Mentre i favorevoli alla separazione sostengono che Rocco, Grandi e Mussolini siano i veri padri dell’unicità delle carriere. Parodi invece preferisce guardare al presente: “L’Italia di oggi non è quella di Mussolini e Gelli. Non possiamo cancellare la storia, dimenticarla, ma abbiamo un presente molto complesso. E nell’immediato ci sono tutti gli elementi per difendere l’attuale assetto costituzionale. La Costituzione è stata già fortemente e correttamente emendata con l’articolo 111. Il giusto processo lo abbiamo già”, anche se “devo ammettere che purtroppo forse può essere capitato che dei pubblici ministeri non abbiano ricercato le prove anche a favore dell’indagato, ma parliamo di singole eccezioni”. A proposito di Costituzione, secondo Guzzetta invece “l’unità delle carriere è quasi considerata un dogma, un’eredità dei nostri padri costituenti. Ma non è così. I tanti, autorevolissimi, costituenti - da Moro a Bettiol a Calamandrei, Einaudi, a Leone - che parteciparono al dibattito della Costituente, erano perfettamente consapevoli che la soluzione di un’unica carriera non fosse quella migliore. Proprio Bettiol nel 1947 dichiarava: “le funzioni del pubblico ministero non devono essere incapsulate insieme a quelle dei giudici, ma tenute distinte. È proprio dei regimi totalitari voler considerare il pubblico ministero come un organo della giustizia”“. A proposito del ruolo del pm Parodi ha illustrato i rischi sottesi alla riforma: “Essa vuole limitare in qualche modo l’autonomia e l’indipendenza della magistratura? Indirettamente. Perché quello che non si dice è che in tutti i Paesi dove c’è la separazione delle carriere, in qualche modo il pubblico ministero è subordinato all’Esecutivo. E allora il nostro timore non è legato ad un processo alle intenzioni, ma osserviamo quello che accade negli altri Stati, anche in Portogallo”. Secondo Guzzetta la necessità della riforma “è legata alla realizzazione dell’articolo 111 della Costituzione laddove leggiamo che “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Ebbene, di fronte a un giudice terzo imparziale, c’è una parte, ossia la magistratura requirente, che ha tutta una serie di relazioni con quella giudicante, in particolare al Csm dove ad esempio decidono insieme le carriere di giudici e pm. C’è un rischio di conflitto di interessi che si ripercuote sulla terzietà dei giudici”. Su questo punto Parodi ha portato l’argomento “dell’oltre 40 per cento delle assoluzioni in primo grado. Si tratta di un dato empirico di cui il legislatore avrebbe dovuto tener conto perché questi dati dimostrano che non c’è alcuna sudditanza psicologica e culturale del giudice rispetto al pubblico ministero”. Discutendo di Csm, il professor Guzzetta ha lanciato una proposta: “Se il confronto tra le parti è utile anche per l’esercizio delle competenze del Csm, allora oltre alle attuali componenti dovrebbe esserci anche quella dell’avvocatura che vive anch’essa i problemi della giustizia?”. Parodi non si è detto contrario: “Su questo punto non posso parlare a nome dell’Anm ma a titolo personale posso dire che è una proposta che avrebbe un senso e potremmo lavorarci ma penso sia tardi. A quel punto credo che sarebbe anche giusto che negli organi disciplinari dell’avvocatura ci fosse una presenza del pubblico ministero e del giudice”. Parodi poi, rispondendo ad una domanda sulle accuse di politicizzazione rivolte alla magistratura, si è detto “d’accordo sul fatto che ci sia stato un eccessivo protagonismo di alcuni magistrati e questo non ha giovato all’immagine della magistratura. In generale esiste un tema al nostro interno: alcuni di noi, io personalmente no, ritengono che la manifestazione politica delle loro idee sia un qualcosa di dovuto, qualcosa di necessario, quasi di ontologico rispetto al loro ruolo. Altri ritengono che sia giusto il contrario. Come magistratura siamo compatti su tutto. Ma il mio compito, in questo momento, è proprio tenere insieme queste due anime”. Parodi ha poi ammesso: “La nostra immagine è fortemente deteriorata un po’ per colpa nostra, un po’ perché altri hanno avuto un interesse a presentarci ancora peggio di quello che siamo. Oggi dobbiamo cercare di recuperare questa immagine ma non tanto per noi stessi ma perché i cittadini devono avere fiducia nella giustizia e avere fiducia nella giustizia vuol dire anche fidarsi delle persone”. Su questo Guzzetta ha replicato: “Come diceva Montesquieu “persino la virtù ha bisogno di limiti”. I magistrati hanno nelle loro mani il destino di molte persone, spesso non basta l’etica, occorrono delle regole”. “Ora approviamo il ddl sugli errori giudiziari: non è un’offesa all’Anm” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 17 maggio 2025 Luigi Marattin, che a giugno terrà a battesimo il primo Congresso del Partito Liberaldemocratico, sul rinvio del ddl errori giudiziari confessa di non capire “perché difendere, anche solo simbolicamente, chi ha passato l’inferno avendo subito un errore debba “irritare” qualcuno, tanto più un corpo dello Stato”. Onorevole Marattin, il ddl errori giudiziari ha subito uno stop in Parlamento, per volere della maggioranza: come si è arrivati a ciò? La versione più accreditata è che la maggioranza non voglia acuire il clima di contrapposizione con la magistratura, trovandoci alla vigilia (o presunta tale) della modifica costituzionale sulla separazione delle carriere. Ma il ddl di cui si parla si limita a istituire una giornata per ricordare le vittime degli errori giudiziari. Si figuri, io sono anche contrario a riempire il calendario di “giornate del”, le considero del tutto inutili. Ma qui il discorso è simbolico: non capisco perché difendere, anche solo simbolicamente, chi ha passato l’inferno avendo subito un errore debba “irritare” qualcuno, tanto più un corpo dello Stato. Lo stop si inserisce all’interno di un elenco più lungo di mancate tutele per chi entra nel sistema giustizia e ne esce poi con le ossa rotte e di mancate responsabilità per chi in quel sistema ha sbagliato: pensa si debba fare di più? Qualche passo avanti lo si è fatto negli anni scorsi, per merito del collega Enrico Costa che ha fatto approvare leggi come quelle che stanziano un po’ di soldi per pagare le spese legali a chi viene riconosciuto innocente. E ha ragione quando dice che chi esce innocente da un procedimento giudiziario deve essere la stessa persona - nella dignità e nel portafoglio - che ci è entrata. Quello che non capisco è come faccia a portare avanti queste sacrosante battaglie presentandosi agli italiani assieme ai peggiori giustizialisti di Lega e FdI. Stessa cosa penso per i garantisti del centrosinistra, sia chiaro. In che modo potrebbero e dovrebbero essere tutelati i presunti innocenti che finiscono in carcere e poi si dimostrano tali, magari dopo anni di processi? L’elenco delle anomalie è noto: abuso della carcerazione preventiva, lunghezza eccessiva dei processi, cortocircuito mediatico che amplifica le indagini e sminuisce le assoluzioni, mancati risarcimenti a coloro che sono riconosciuti innocenti. Pensa che in Italia manchi, a destra e a sinistra, quella cultura garantista necessaria affinché provvedimenti del genere vedano la luce? In Italia ci sono politici garantisti, a partire da Enrico Costa, ma il punto è che, quando si tratta di imbastire una proposta politica, insistono a volersi mischiare con i manettari. Sia a destra che a sinistra il garantismo è ininfluente, perché si annacqua all’interno di due schieramenti (io le chiamo le “curve ultrà”) a salda guida populista e giustizialista. Ecco perché abbiamo fatto nascere il Partito Liberaldemocratico, che a fine giugno terrà il suo primo congresso nazionale. Perché abbiamo capito che i populismi e i giustizialismi non si moderano: si combattono. Chi crede in una società liberale, e oggi sono sparsi in entrambe le curve ultrà, tra due anni deve presentarsi alle elezioni all’interno di una unica proposta politica, autonoma dai populismi di destra e di sinistra. Come giudica l’operato del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che sta portando avanti la separazione delle carriere ma anche aumentando i reati e rimanendo piuttosto inerme sulla questione carceri? Si vede a vista d’occhio che vorrebbe fare di più e meglio, ma è frenato da quello che dicevo prima: la golden share dello schieramento di centrodestra (così come quello di centrosinistra) non vuole una vera riforma della giustizia. Come su tutto il resto, hanno creato un finto derby tra “chi difende i magistrati” e “chi difende i delinquenti”. Noi del Partito Liberaldemocratico invece pensiamo che difendere la sacralità del ruolo della magistratura e del perseguimento della giustizia non sia affatto in contraddizione con il valutare i magistrati, separare le carriere, garantire i diritti della persona evitando i processi mediatici e tutelare appieno gli innocenti. Insomma, per noi vale la definizione di Luigi Ferrajoli: “L’essenza del garantismo è assolvere in mancanza di prove quando l’opinione comune vorrebbe la condanna, e condannare in presenza di prove quando l’opinione comune vorrebbe l’assoluzione”. Quando a morire è un uomo in manette di Marica Fantauzzi* vocididentro.it, 17 maggio 2025 Igor Squeo era un ragazzo normale: aveva un lavoro, anzi due lavori, una fidanzata, degli amici e una madre. È proprio lei a ricordarlo così, ribadendo quella normalità come antidoto a qualcosa di estraneo che si è scaraventato nelle loro vite. Squeo aveva 33 anni quando è morto nel suo appartamento di Milano la notte dell’11 giugno 2022, dopo un intervento della polizia e del personale sanitario. La cronaca di quelle ore, mettendo insieme quanto emerso dalle carte processuali, è questa: Squeo era a casa sua in compagnia di una persona conosciuta da poco con la quale, si presume, ci sarebbe stato un diverbio particolarmente acceso. Un inquilino chiama la polizia e, all’arrivo degli agenti, Squeo risulta alterato: per tale ragione, dicono, viene utilizzato per due volte l’arco di avvertimento del Taser. Non sortendo alcun effetto, gli agenti chiamano i rinforzi. A quel punto arrivano sei volanti e l’uomo viene ammanettato e legato con fascette alle caviglie su una sedia. Nel frattempo, accorre il personale sanitario che, diversamente da quanto sostiene la polizia, dice di aver trovato l’uomo in posizione prona a terra tenuto dagli agenti con forza, con la schiena compressa sul pavimento dai loro corpi. La versione della polizia, invece, riferisce che l’uomo era sì legato ma tenuto in posizione laterale di sicurezza. Secondo la documentazione disponibile, sappiamo che Squeo - in quella posizione - aveva avuto più di una crisi respiratoria e, nonostante il livello di ossigenazione fosse oltre la soglia di guardia, i sanitari hanno proceduto ugualmente nella somministrazione del Propofol, un potente anestetico con gravi effetti collaterali. Al terzo arresto cardiaco, avvenuto alle 6 e 45, l’uomo muore. Il corpo, dirà la madre in seguito, aveva ecchimosi e ferite, per le quali nessuno è stato in grado di dare una spiegazione. Secondo il Pubblico Ministero, il decesso sarebbe esclusivamente riconducibile all’assunzione di cocaina (avvenuta almeno cinque ore prima dell’ultimo arresto cardiaco) e nulla avrebbero a che fare la posizione in cui l’uomo era stato tenuto dalla polizia al momento del fermo né la somministrazione da parte degli operatori sanitari dell’anestetico. Il prossimo 20 maggio scadranno i sei mesi dati dal GIP al Pubblico Ministero per avviare ulteriori indagini e il rischio di archiviazione è molto concreto. La madre di Squeo sa che quanto è avvenuto al figlio non è un caso isolato: a morire durante un fermo o un intervento delle forze di polizia sono stati molti prima di lui. E, come lei, molte sono le madri a chiedere verità e giustizia per i loro figli. In questa come in altre vicende atrocemente simili, capita che i familiari sottolineino che la ricerca della verità non sia affatto un atto ostile nei confronti delle forze di polizia: tale elemento, che potrebbe apparire esclusivamente privato, nei mesi successi all’approvazione del cosiddetto Decreto Sicurezza, imporrebbe una riflessione collettiva e, quindi, politica. Chiarire cosa successe l’11 giugno del 2022 a Igor Squeo, o ad Arafette Arfaoui il 17 gennaio del 2019 o a Enrico Lombardo nell’ottobre dello stesso anno è un atto di giustizia che non mina le basi dello Stato di diritto, piuttosto ne riconosce e ne legittima l’esistenza. La disumanizzazione, sebbene sia un fatto storico concreto, non è un destino inevitabile, ma il risultato di un ordine ingiusto che genera violenza negli oppressori, la quale a sua volta disumanizza gli oppressi (Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi). *Giornalista, scrittrice Firenze. L’impegno per i diritti dei detenuti: “Chance di lavoro e nuove lavatrici” di Fabrizio Morviducci La Nazione, 17 maggio 2025 In ponte l’accordo con l’associazione Olivicoltori per impieghi stagionali. E il Lions vuole donare due lavanderie. Prosegue l’impegno del comune di Scandicci per sostenere i detenuti di Sollicciano. Un impegno che procede su diverse direzioni: la prima è quella del lavoro. Dopo il primo incontro con il responsabile dell’associazione ‘Seconda Chance’, Stefano Fabbri, stanno arrivando i primi accordi per dare lavoro al fine di reintegrare nella società chi sta scontando una pena detentiva. “Il primo contatto - ha detto Fabbri - è stato con l’associazione Olivicoltori toscani associati. Si tratta di un lavoro stagionale, la discussione sulle modalità di impiego è aperta”. Il progetto prevede anche dei piani di impiego nelle partecipate di area metropolitana. L’amministrazione è al lavoro per partire con un piano operativo dalla fine dell’estate. La seconda direzione è quella della dignità di chi si trova nella casa circondariale. In questo caso entrano in gioco i Lions di Scandicci che, attraverso il presidente Paolo Dieni hanno deciso di venire incontro all’appello di Sereni. L’obiettivo? Installare una lavanderia per l’igiene degli indumenti dei detenuti. Che a oggi sono costretti per lo più a lavare nei lavandini delle singole celle, con pezzi di sapone o detersivo acquistato in gruppo. Una situazione alla quale l’associazione scandiccese sta cercando di trovare soluzione, attraverso l’acquisto di due lavatrici industriali. Intanto la sindaca, dopo il sopralluogo di due giorni fa, ha annunciato una nuova visita in carcere. “Torneremo nel carcere il 22 maggio - annuncia sempre Sereni - questa volta per visitare le zone detentive e renderci personalmente conto dello stato delle cose e delle esigenze più urgenti, insieme a una delegazione politica del consiglio comunale. Il sottosegretario Delmastro ha assicurato che i fondi, già previsti da tempo, per Sollicciano arriveranno, come anche un direttore, noi nel frattempo teniamo la luce accesa su questo luogo, mantenendo la nostra vicinanza istituzionale, una attenzione pubblica e l’impegno a contribuire sui temi degli inserimenti lavorativi, vera azione efficace per abbassare il rischio di recidiva dal 68% al 5%, sulla cultura e su alcuni servizi di base”. La sindaca ha anche voluto commentare la sentenza del Tar che ha dato ragione alla direttrice Antonella Tuoni. Secondo il Tar Tuoni avrebbe esercitato in maniera responsabile le sue funzioni e si attribuirebbe al Dap la responsabilità della mancanza di interventi sulla struttura e le conseguenze sulla situazione interna, che generano una reale e oggettiva situazione di emergenza sanitaria, gestionale, di sicurezza, di riabilitazione. Pesaro. Gulliver, l’altra “strada”. Le storie dei 300 che trovano l’alternativa alle sbarre del carcere di Alice Muri Il Resto del Carlino, 17 maggio 2025 Andrea Boccanera, il presidente della Onlus, racconta le vittorie e i fallimenti nella rieducazione di chi ha commesso reati, lievi o gravi. “Non li lasciamo soli”. Sono circa 300 le persone che ospita ogni anno la onlus Gulliver, tra detenuti che hanno ricevuto permessi di lavoro esterno e persone che hanno richiesto misure alternative al carcere, tradotte in attività di lavoro socialmente utili. Una attività che l’ente guidato da Andrea Boccanera porta avanti da 14 anni, diventando la struttura che ne accoglie di più nella nostra provincia, punto di riferimento anche per altre città limitrofe (come Cattolica o Rimini). Quello dei permessi di lavoro esterni è un tema tornato al centro del dibattito nazionale in seguito all’omicidio commesso da Emanuele De Maria a Milano, proprio mentre in era in permesso dal carcere dove stava già scontando una pena per un altro omicidio. Una vicenda che ha portato con sé anche polemiche proprio sui permessi finalizzati al reinserimento dei detenuti, tra favorevoli e contrari e su cui, dopo tanti anni di esperienza in città, si esprime anche Andrea Boccanera. “Per quanto riguarda la nostra esperienza - dice il presidente di Gulliver - le misure alternative alla pena carceraria sono istituti che funzionano e sono molto utili non soltanto per la persona che ne usufruisce ma anche per la ‘comunità’ che lo accoglie. Ci sono tantissimi esempi virtuosi di ragazzi che sono stati da noi e hanno imparato molto da questa esperienza. Quattordici anni fa siamo stati tra i primi a partire con questa attività. Oltre il 50% delle persone che viene qui per lavori socialmente utili è rappresentato da persone che sono state condannate (o ancora sotto processo) per guida in stato di ebbrezza e per cui gli è stata accordata dal giudice una pena alternativa al carcere”. “Si tratta - prosegue Boccanera - di persone che stanno da noi per solo qualche settimana (dovendo lavorare circa 15-20 ore in totale). Poi ci sono persone che invece sono agli arresti domiciliari o carcerati che scontano una pena molto più lunga, fino anche all’ergastolo. In questi casi dopo aver avuto una buona condotta per tanti anni, possono essere accordati dal giudice dei permessi di lavoro”. Queste persone vengono impiegate sia alla bottega del riuso di Gulliver, che al ristorante Utopia e al vivaio Pantanelli, realtà sempre in gestione all’associazione. “Si tratta di persone - aggiunge Boccanera - che non vengono mai lasciate sole, ma sono sempre seguite da un tutor ed affiancano i ragazzi con disabilità impiegati nelle nostre realtà. Per loro è un grande insegnamento, tanto che nel tempo ne abbiamo assunti anche quattro”. Tra questi casi Boccanera ci tiene particolarmente a sottolineare quello di Massimiliano. “Un ragazzo che era stato coinvolto anche nella baby gang di piazza Redi - dice - quando non era ancora maggiorenne e che oggi invece ha ritrovato la sua strada, tanto che lo abbiamo anche assunto con un contratto part-time, tanto ci siamo affezionati a lui”. In tutti questi anni però ci sono stati casi che purtroppo non sono andati come sperato: “Ricordo un ragazzo, otto anni fa, che era stato da noi ma purtroppo una volta uscito da qui ha commesso un nuovo furto. Invece, qualche tempo fa c’è stata una rapina alla Snai messa a segno da due ragazzi mascherati. Purtroppo uno dei due era stato con noi per lavori socialmente utili. Queste situazioni però sono davvero rarissime”. Napoli. Al via un progetto pilota per comunità educative alternative agli istituti di pena Il Dubbio, 17 maggio 2025 È stato siglato un importante accordo tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e l’Associazione Terra Dorea, rappresentati rispettivamente dalla dottoressa Lina Di Domenico e dall’avvocato Claudia Majolo. L’intesa punta a dare avvio a un progetto innovativo che prevede la creazione di comunità educative come alternativa alla detenzione tradizionale, con l’obiettivo di contrastare il grave problema del sovraffollamento carcerario. Alla base del protocollo, i principi fondanti dell’iniziativa: il reinserimento dei detenuti in percorsi educativi mirati alla riabilitazione, alla formazione professionale e al supporto psicologico, con l’obiettivo dichiarato di ridurre in modo concreto il tasso di recidiva. L’Associazione Terra Dorea, che opera nell’area di Napoli, ha illustrato il proprio modello educativo e di reinserimento sociale, ricevendo il pieno sostegno del Dap, che si è impegnato a supportare il progetto attraverso le proprie strutture istituzionali e a partecipare attivamente alla selezione dei detenuti da coinvolgere. L’accordo prevede inoltre la creazione di una rete di collaborazione per organizzare e monitorare i percorsi educativi e rieducativi, garantendo un costante controllo sulla qualità e l’efficacia delle attività. “Questa iniziativa nasce per superare il sovraffollamento carcerario offrendo alternative concrete alla detenzione” ha dichiarato l’avvocato Claudia Majolo, presidente dell’associazione Terra Dorea. “I colloqui preliminari con il Dap ci hanno permesso di costruire un progetto mirato e ambizioso. Il protocollo prevede l’avvio di un progetto pilota in Campania, con l’intento di estenderlo a livello nazionale. Profilare, rieducare, reinserire nella società: sono queste le tre parole chiave che guideranno il nostro lavoro. Ringrazio il Capo del Dap per la fiducia accordata”. Forlì. Don Dario e il carcere, convegno con Sisto e Gardini di Sofia Nardi Il Resto del Carlino, 17 maggio 2025 Don Dario Ciani, cappellano del carcere di Forlì e fondatore della comunità di Sadurano, scomparso 10 anni fa. Attiva da 30 l’associazione a lui intitolata. S’intitola ‘L’utopia di don Dario: il carcere, un’opportunità per rinascere alla vita’, il convegno stasera alle 20.45 alla sala Zambelli della Camera di Commercio, piazza Saffi. L’incontro, promosso da ‘Amici di don Dario’ con patrocinio di Comune, Camera di Commercio e Fondazione Carisp, celebra i 30 anni dell’associazione e i 10 dalla scomparsa di don Dario Ciani e intende favorire una riflessione sull’istituzione carceraria al fine di promuovere azioni rieducative e lavorative per i detenuti. Don Dario Ciani, nei suoi 22 anni di presenza come cappellano della casa circondariale di Forlì e nella sua veste di fondatore della comunità di Sadurano, è stato un costante punto di riferimento in questa direzione e ora l’associazione Amici di don Dario porta avanti la sua missione. Dopo i saluti di Alberto Bravi, presidente dell’associazione, del sindaco Gian Luca Zattini, del vescovo Livio Corazza e della deputata Rosaria Tassinari, interverrà Maurizio Gardini, presidente nazionale di Confcooperative e della Fondazione Carisp, su ‘Memoria ed eredità di don Dario’. Seguiranno testimonianze di don Daniele Simonazzi (cappellano della casa circondariale di Reggio Emilia), Daniele Versari (impresa sociale Altremani) e Giorgio Pieri (responsabile del servizio carcere della Papa Giovanni XXIII). Chiuderà il viceministro alla giustizia Francesco Paolo Sisto, ospite d’onore. Come spezzare la catena perpetua della giustizia e delle umane sofferenze che imprigionano vittime e carnefici di Loris Facchinetti Rialta L’Unità, 17 maggio 2025 Questo articolo è un bel testo introduttivo al dibattito dal titolo “Verità e Riconciliazione” che si svolgerà a Roma il 20 maggio, dalle ore 15 alle 19, presso la Sala del Refettorio della Camera dei Deputati, in Via del Seminario 76. Indica una riforma possibile che prelude a un’idea di giustizia che non punisce e separa, ma riconcilia e ripara. All’insediamento di ogni nuovo Governo abbiamo sperato che la “Giustizia” diventasse il centro di un rivoluzionario progetto innovatore che ne guarisse le inaccettabili disfunzioni e che avviasse un percorso di efficienza, equità e modernità degno di uno Stato democratico ispirato alla tutela dei diritti fondamentali e impegnato nella difesa del futuro delle generazioni. Anche con questo Governo abbiamo sperato terminasse il conflitto sconsiderato tra “caste di potere”, tra ideologie oramai obsolete e cinici individualismi. Invano. Nessuna riforma organica. Qualche legge repressiva e molta confusione. Il livello di civiltà di uno Stato si misura giudicando l’imparzialità del suo “sistema di Giustizia”. La qualità della democrazia si esprime attraverso le forme di garanzia dei diritti fondamentali della persona e della vita di tutti i suoi cittadini, compresi quelli ristretti nelle carceri. La società umana non è perfetta. Non lo è mai stata. Eppure oggi viaggiamo nello spazio, tra i pianeti e le stelle, penetriamo nei misteri del microcosmo, tra gli atomi e i neutrini, generiamo “mostri tecnologici”, come l’Intelligenza Artificiale. Ci avviamo a rivoluzionare ogni regola sociale e ogni modello di organizzazione statale, ma viviamo ancora sottoposti a un “sistema di ingiustizie” che provoca guasti irreparabili all’esistenza individuale e collettiva, che “produce” milioni di poveri e rinchiude in prigioni disumane donne e uomini troppo spesso innocenti. C’è un mondo oscuro, fatto di tenebre dell’anima e della mente, un deserto dell’esistenza, un luogo di dolore e di segregazione, dove la “società organizzata”, per vergogna e per paura, cerca di nascondere le cause devastanti della violenza che nasce dallo squallore delle sue periferie umane definendola, con conformistica eleganza e falso pudore, “devianza sociale”. Ma se vogliamo veramente trovare delle cure efficaci per sanare il “male necessario” che tormenta l’umano cammino, è indispensabile penetrare nel cuore malato delle nostre comunità ed esplorare quest’arida terra di confine dove vive abbandonata una parte dell’umanità e dove vengono celati gli aspetti meno nobili della coscienza e dell’esistenza. Dobbiamo affrontare senza ipocrisie i mali occulti e palesi delle nostre democrazie e sfidare la secolare incapacità della burocrazia statale se vogliamo trovare soluzioni innovative nella gestione del sistema giudiziario e creare percorsi non convenzionali nella formazione e nell’applicazione delle leggi. Sono necessari metodi adeguati a rendere l’espiazione della pena un reale ‘viaggio di redenzione’ del detenuto attraverso il recupero morale e civile. Solamente la creazione di un percorso che consenta il riscatto personale del condannato può saldare il debito sociale e compensare, almeno in parte, il danno provocato. Solamente l’azione sussidiaria di un potente movimento riformatore potrà risvegliare le coscienze intorpidite del potere politico e dei cittadini svelando i lati oscuri di una democrazia incompiuta e interpretando le prospettive ‘rivoluzionarie’ offerte al futuro delle generazioni dal millennio nascente. Va superata la logica sterile tra garantisti e giustizialisti e va spezzato il silenzio sui mali nascosti nelle oscurità della coscienza individuale e collettiva. Una catena ininterrotta di errori giudiziari, di ingiusti processi, di violenze carcerarie e di umane sofferenze lega epoche diverse e differenti regimi, fino a imprigionare l’intera società organizzata in un sistema incapace di rinnovarsi e di garantire a tutti una Giustizia giusta e una Libertà inviolabile. Dobbiamo penetrare nelle “prigioni dell’uomo”, visibili e invisibili, studiando e analizzando il buio dell’anima, il legame tra sofferenza e solidarietà, tra dolore e ascesi, tra mancanza di libertà e crimine, tra delitto e ravvedimento, tra pena e giustizia, non dimenticando mai la difesa dei diritti della persona, la salvaguardia della dignità, l’attenzione e la cura nei confronti delle vittime e delle famiglie di chi ha subito violenza. Ma per fare questo serve una “totale conversione” ideologica e culturale che guidi la politica e tutta la classe dirigente a esercitare la “Giustizia” come la massima difesa della sacralità della vita, garanzia degli equilibri sociali, protezione dei più deboli e della libertà. Carcere. Il suono delle anime di Isabella De Silvestro theitalianreview.com, 17 maggio 2025 Franco Mussida è chitarrista, compositore e membro fondatore della Premiata Forneria Marconi, il gruppo musicale simbolo del rock progressive anni 70. Nel corso della sua carriera ha collaborato con i più grandi nomi del cantautorato italiano, ha vinto premi, scalato le classifiche oltremanica e oltreoceano. Ma la sua carriera non è solo quella di un virtuoso della musica, è anche quella di un uomo che ne ha fatto una pratica di comunità, un mezzo per creare reti di sostegno e vie di conoscenza. Mussida si impegna da decenni per l’applicazione della musica in ambito sociale, dalle carceri alle comunità di recupero per tossicodipendenti. Nel 2013 dà vita al progetto Co2, che ha visto la creazione di audioteche in undici carceri italiane con il fine di educare all’ascolto e dare sollievo. L’iniziativa più recente, unica in Europa, è la sonorizzazione di ampi spazi del carcere di San Vittore a Milano, con musica strumentale selezionata dai detenuti nella cornice del laboratorio “Ascolto emotivo consapevole”, condotto da Mussida stesso. Mi accoglie nel suo ufficio all’ultimo piano di Cpm-Music Institute, la scuola di alta formazione musicale che ha fondato e dirige dal 1984. Ha bianchi capelli lunghi e una rara serenità nei gesti e nel tono della voce. Nonostante la porta chiusa, gli esercizi di pianoforte di qualche alunno penetrano le pareti, facendo da sfondo al nostro incontro. Isabella De Silvestro: Da dove viene il suo interesse per il carcere? Franco Mussida: Non fu direttamente il carcere a interessarmi. Accadde che molti dei tecnici della Premiata Forneria Marconi iniziassero ad avere problemi di dipendenza dall’eroina. Li vedevo soffrire molto, così insieme a mia moglie decidemmo di provare a dare una mano accogliendoli in casa. È stato questo il primo approccio alla marginalità. Il carcere è arrivato dopo, nell’87, quando il professor Garavaglia, il responsabile del gruppo di psicoterapia del carcere di San Vittore, nel prendere atto che la sua équipe non funzionava più chiese alla Provincia di mandare delle attività artistiche. Il mio socio dell’epoca era in contatto con la Provincia e mi chiese se me la sentivo. Da lì è partita la mia ricerca, trentacinque anni di onorato servizio. Non mi sono mai fermato. È stato l’interesse per la persona a portarmi fra quelle mura. I.D.S. Il carcere è un luogo dove ancora si espia una pena corporale: la sensorialità è ridotta, gli stimoli sono scarsi e ripetitivi. Che significato assume, in un contesto del genere, l’introduzione della musica? F.M. Dopo trentacinque anni di lavoro in carcere sono riuscito, in seguito a innumerevoli sforzi non solitari - queste cose sono sempre il frutto di relazioni - a fare in modo che i corridoi di San Vittore abbiano un impianto dedicato esclusivamente alla sonorizzazione: ho lavorato con i detenuti per creare playlist di sola musica strumentale che risuonano nei corridoi della galera. È vero che sembrerebbe che la dimensione degli stimoli in carcere sia compressa, in realtà si tratta di una compressione da eccesso di stimoli. La compressione arriva dall’incapacità delle persone detenute di gestire il dolore pregresso, il dolore presente e l’immaginario nero del futuro che hanno davanti. Quindi il tema non è quello di arrivare a dare ulteriori stimoli, perché ne hanno già abbastanza, anche di fortemente negativi. Tutti, anche gli agenti di custodia. Il tema è piuttosto usare la musica come stabilizzatore dell’umore, agendo sulla nostra comune struttura emotiva. I.D.S. Che cosa significa “agire sulla nostra comune struttura emotiva”? F. M. Ci sono dei medicamenti naturali, e artificiali, che agiscono sul fisico e che hanno dei risultati anche sulla psiche. Dobbiamo immaginare la musica come una sostanza. Non parlo di musicoterapia perché già il tema mi fa rizzare i peli, dal momento che non c’è una fisiologia musicale conclamata, e non essendoci si fa fatica a immaginare di operare fisicamente con la musica. Io mi tiro indietro e osservo. Che cosa osservo? Che la nostalgia di un giapponese non è diversa da quella di un napoletano, di un milanese, di un cileno o di un nigeriano. È la stessa cosa. Tutto il mondo del sentire è un archetipo. Il mio lavoro sul codice musicale è duplice: da un lato studio gli elementi oggettivi, dall’altro studio come questi elementi oggettivi diventano soggettivi attraverso l’esperienza umana, che è unica e irripetibile ma che è osservabile proprio per il fatto che la nostra struttura emotiva è comune. Le emozioni possono cambiare di intensità, di spessore, di auto-percezione, di coscienza, ma la radice è la stessa. Vedi, è come per gli elementi fisici: io e te abbiamo gli occhi. Magari tu li hai azzurri e io verdi, ma entrambi abbiamo gli occhi. E la musica che cosa fa? Agisce attraverso elementi magici, spirituali, dell’anima, che poggiano la loro sostanza sul fatto che noi siamo esseri vibranti e che, in quanto esseri vibranti, se organizziamo le vibrazioni in un certo modo otteniamo dei risultati di natura anche emotiva. A me sembra di aver scoperto l’acqua calda, ma sono 35 anni che ci lavoro, su come scaldare l’acqua. I.D.S. Come si dialoga in maniera efficace con l’umanità variegata e marginale della galera, uomini che provengono da angoli anche remoti della Terra, della cui esperienza sappiamo pochissimo? F.M. Ricordo che feci sentire il Tema di Deborah di Ennio Morricone a un centinaio di detenuti, di cui ottanta erano stranieri, al carcere di Venezia. Diedi a queste cento persone diverse faccine in grado di rappresentare diversi stati d’animo e poi chiesi loro di alzare questi fogli catalogando l’emozione che il brano musicale emanava. Tutti hanno scelto la nostalgia: i siciliani, gli albanesi, ma anche i nigeriani, che non l’avevano mai sentita. Le forme ti avvicinano a casa, alla storia, alla cultura. Ma il portato musicale va al di là della forma, della storia e della cultura. Certo, bisogna tenere conto delle forme: in carcere facciamo un lavoro sulla musica dei paesi di provenienza dei detenuti, sulla storia della musica classica, sentiamo il jazz, ascoltiamo Chet Baker, arriviamo al pop. Ci confrontiamo con tutto. Oggi la depressione imperversa. Schiere di uomini e di donne che elaborano un pensiero che ne pensa un altro che ne pensa un altro che ne pensa un altro e ti uccide. E questo accade quando si esce dallo spazio del sentire come strumento di conoscenza. I.D.S. Il suo essere uomo e il suo essere musicista coincidono? F.M. L’abito fa il monaco, sì. Non è facile. Il mondo del sentire è come le nuvole, cambia di continuo, ma nello stesso tempo ci vuole un orientamento: la musica è il mio orientamento, mi indica la direzione. Può essere pesante a volte, vengo assalito da attacchi di solitudine. Ma sono malinconico: nella solitudine ci sto benissimo. I.D.S. Qual è l’ambiente sonoro del carcere? Che suoni si sentono? F.M. Ci sono due tipi di suoni: quelli della gestione della giornata, i suoni della popolazione del carcere che arrivano dagli oggetti, dall’aprirsi e chiudersi dei portoni di ferro, dalle chiavi, dai chiavistelli. Sono i suoni dati dalla manifestazione degli esseri senzienti che lì vivono o lavorano e che manifestano la loro presenza. Poi c’è un altro tipo di suono che si fa più fatica a sentire, ed è quello delle anime che sono lì. Quel suono è così potente che anche un operatore di passaggio deve maneggiarlo con cura. Ci si abitua, il callo arriva abbastanza in fretta, però, una volta che lo hai sentito, non lo devi dimenticare. È una sensazione molto profonda, traumatica per certi versi. È per questo secondo suono che continuo a recarmi in carcere dopo trentacinque anni. I.D.S. Il carcere rieduca o punisce? È cambiato in questi trentacinque anni che ha avuto la possibilità di osservare? F.M. L’unica grande differenza è il ruolo della società civile. Io sono arrivato proprio all’inizio di un cambiamento, dopo la legge Gozzini, che ha consentito alle associazioni di entrare in carcere e portare arte e cultura. Per il resto l’etica in carcere rimane una questione personale. Si possono trovare degli agenti di custodia pessimi, brutali, senza capacità di sentire l’altro, e trovare invece dei piccoli angeli come li ho incontrati io, soprattutto all’inizio del mio lavoro. Non posso dimenticare non solo Luigi Pagano [il direttore a cui si deve il modello a celle aperte della casa di reclusione di Bollate, ndr], l’allora direttore del carcere di San Vittore, ma anche Luigi Cadoni, un agente di custodia che andava nelle celle a tirar fuori questi ragazzi per portarli a fare musica. Si tratta purtroppo di visioni eccezionali, non della norma. Il peggio sono le carceri minorili perché sono abitate dai ragazzi ma vigono più o meno le stesse regole delle carceri per adulti, cosa tremenda. Va modificato il pensiero, la maniera di percepire l’uomo nella sua essenza. I.D.S. Le interessano di più i vizi o le virtù? F.M. Che bella domanda… I vizi per promuovere le virtù. Quando entro in carcere non voglio mai sapere la storia delle persone. Per me sono persone pulite, tutte. Poi hanno una voglia tremenda di raccontare le loro storie. Però voglio immaginarli così. Perché il lavoro del musicista non è quello di stabilire cosa sia giusto e cosa sbagliato. Il suo ruolo è quello di portare elementi di luce, di coscienza, di equilibrio, a persone che ne hanno bisogno. Il lavoro in carcere è da un certo punto di vista un processo educativo anche per chi lo fa. Bisogna provare a stare con le persone immaginando di essere un prete laico. Non siamo operatori culturali, non è un lavoro di cultura, è un lavoro sulla profondità dell’essere. Dico prete laico in questo senso: l’arte è una via di conoscenza, quello di cui stiamo dimenticando il senso è l’arte come via di conoscenza, non di espressività. Ora è diventato tutto espressività, bravura, dimostrazione. Ma non dovrebbe essere quello il punto. Chi è un artista? E una persona intelligente? Una persona sensibile? Che connotati ha? Queste sono le domande che oggi il mercato di qualsiasi genere ha coperto. Si fatica ad arrivare sotto la domanda, perché sopra è coperto tutto dal mercato. La musica è una via di conoscenza e gli artisti dovrebbero percorrerla. Il bene, che rabbia di Massimo Gramellini Corriere della Sera, 17 maggio 2025 Il male gode di ottima salute mediatica e suscita più curiosità che indignazione, come conferma lo sciagurato sondaggio apparso su una chat scolastica di Bassano del Grappa: “Chi meritava di più di essere uccisa, Chiara Tramontano o Giulia Cecchettin?”. In compenso il bene sta cordialmente sulle scatole a tanti, specie a chi pensa di saperla lunga e lo svilisce di continuo, derubricandolo a “storiella edificante”. Ne ha appena fatto le spese una tostissima impiegata di banca lombarda, tornata in Kenya per assicurare alla giustizia i tre rapinatori che durante le vacanze di Natale l’avevano ferita con un machete. Dopo avere riconosciuto il capo della banda - ma anche conosciuto lui e i suoi problemi, economici e familiari - non si è limitata a perdonarlo. Gli ha pagato un corso di italiano per consentirgli di trovare impiego in una struttura turistica del posto. La reazione dei social (identica a quella degli umani di ogni altra epoca, che però non possedevano ancora uno strumento per scoperchiare il tombino dei loro pensieri) è stata di condanna spinta fino al dileggio. Perché fare del bene a un povero che ti ha fatto del male, anziché aiutarne uno che non ti ha fatto niente e che magari abita sotto casa tua? Il bello è che chi sostiene certe tesi di solito non aiuta mai nessuno, neanche i poveri che abitano sotto casa sua. Sarà per questo che il bene lo infastidisce più del male: è come se lo spingesse ad agire, mentre lui adora limitarsi a guardare. E a giudicare. I nostri 30 anni di lotta per una svolta radicale sulle droghe di Susanna Ronconi* L’Unità, 17 maggio 2025 Superamento della war on drugs, decriminalizzazione, riduzione del danno, diritti delle persone che usano sostanze. Dal 1995 a oggi, Forum è luogo e stimolo per la produzione di ‘alternative critiche’: critica ai paradigmi, alle norme, alle politiche di intervento, alle rappresentazioni dei fenomeni. Sempre con attenzione allo snodo tra pensiero critico e pratica politica. Il 7 e 8 novembre noi saremo a Roma. Noi di Forum Droghe, con decine di associazioni, e centinaia di professionist?, ricercator?, studios?, difensori dei diritti umani, persone che usano droghe, attivist? per la riforma delle politiche delle droghe, operativi nella riduzione del danno, promotori della salute di chi usa droghe e della salute pubblica, difensori dei diritti umani, cultori del pensiero critico e della ricerca. Saremo a Roma fuori e contro la Conferenza nazionale sulle droghe indetta dal governo, di cui denunciamo l’approccio basato su criminalizzazione, patologizzazione e ‘tolleranza zero’. Per Forum Droghe, giunto al suo trentesimo anno di vita, motore e protagonista di questo movimento plurale, una rinnovata sfida da accettare per cambiare il discorso pubblico sulle droghe nel nostro paese. Così Forum Droghe celebra il suo trentennale: rinnovando la sua lunga e tenace battaglia per una svolta radicale nelle politiche delle droghe, che fin dal 1990 non hanno mai smesso di produrre danni e effetti perversi, oltre che a misurare la propria inefficacia. Questi trent’anni si celebrano senza Grazia Zuffa, che ci ha lasciati improvvisamente lo scorso febbraio, ma che rimane per Forum punto di riferimento insostituibile. Fu proprio lei, insieme a Franco Corleone e a un piccolo gruppo di ardimentos?, a fondare l’associazione nel 1995: da quel 1990, che aveva visto il varo della legge 309, con una brusca inversione rispetto alla ‘legge mite’ del 1975, si palesavano già le prime evidenze dei danni di una norma che faceva la guerra non alle droghe ma a chi le usa, con enormi aggravi penali, carcerari, sociali e di sofferenza individuale e collettiva. Evidenza che aveva portato alla promozione di un referendum, grazie alla spinta dei Radicali e poi al sostegno della società civile, che nel 1993 portò gli italiani alle urne attorno al quesito che voleva smussare i picchi più repressivi della legge. L’esito fu sorprendente, se si considera la relativa marginalità del tema e la pervasività di un ‘senso comune’ moralista e punizionista: gli italiani votarono per l’abrogazione di quelle norme. Grazia e gli altri si resero conto che era maturo il momento per fare delle droghe un tema del discorso pubblico, fuori dai recinti del penale e del patologico, e che le politiche delle droghe dovevano diventare oggetto di una conoscenza e di un pensiero critico resi accessibili al dibattito pubblico, e funzionali a un processo riformatore. Dentro il movimento nazionale e internazionale per la riforma delle politiche delle droghe, Forum Droghe ha voluto fin da subito essere luogo e stimolo per la produzione di ‘alternative critiche’ su diversi piani: critica ai paradigmi, critica alle norme, critica alle politiche di intervento, critica alle rappresentazioni dei fenomeni. Ma sempre con attenzione - e anche per questo siamo grati a Grazia - allo snodo tra pensiero critico e pratica politica, ieri come oggi. Basta, su questo, leggere l’infinita teoria delle iniziative dell’associazione dal 1995 a oggi. Che si sgranano tra seminari, convegni e formazioni da un lato, e mobilitazioni di piazza dall’altro; tra redazione di proposte di legge e sostegno a iniziative ‘dal basso’, anche di disobbedienza; dalla produzione e pubblicazione di ricerche e saggistica alla diffusione di contenuti fruibili in un dibattito pubblico aperto, come quello promosso dal sito fuoriluogo.it e dai mensili prima, e dalle rubriche settimanali poi sul Il Manifesto; dallo scambio con governo e istituzioni alla loro aperta contestazione quando necessario, come accaduto, in modo alterno, con le Conferenze governative sulle droghe; dalla produzione di teoria circa paradigmi e approcci, alla sua ‘traduzione’ in termini formativi e operativi, in un confronto serrato e diretto con operatori e operatrici, soprattutto nel campo della Riduzione del danno. Il contributo più denso di esiti teorici e politici, che percorre in filigrana tutta la proposta politica e scientifica di Forum, è proprio lo sguardo critico sul fenomeno, le chiavi di lettura. La dimostrazione della fragilità teorica sia del paradigma morale che di quello patologico, che fondano le politiche mainstream, è avvenuta attraverso prima di tutto la ricerca. L’indagine qualitativa sul ‘consumo controllato’, con cui Forum, con Grazia Zuffa per prima, ha aperto anche in Italia una prospettiva che a livello internazionale si era dimostrata fondamentale già dagli anni ‘80, ha consentito di mettere in dubbio alcuni assunti fino a ieri dati per assodati (sebbene non dimostrati): è stata rovesciata l’immagine secondo cui le droghe (illegali) sono ‘incontrollabili’, con ciò ‘meritando’ o divieto o trattamento; sulla base dell’osservazione di strategie, competenze e carriere di consumatori in grado di mantenere un controllo e una regolazione dell’uso ‘compatibili’ con la vita personale e sociale e con la salute, si è introdotto uno sguardo sociale e culturale sul fenomeno, salvando la sua complessità. È stata messa radicalmente in discussione la teoria della escalation, secondo cui l’uso si evolve comunque in abuso e poi in dipendenza, così come quella della centralità delle sostanze, a favore di uno sguardo secondo cui il set (la persona, le sue aspettative, obiettivi e culture dell’uso) e soprattutto il setting (il contesto sociale, normativo, culturale) influenzano e co-determinano stili e esiti dell’uso. Un lavoro scientifico ma anche sociale, condotto sempre in alleanza e dialogo con le persone che usano droghe, con le loro competenze e esperienze, e con gli operatori. Questo filo rosso è stato dipanato sotto diversi profili, oltre la ricerca condotta da Forum per 15 anni, con la collaborazione di ricercatori quali Peter Cohen, Jean Paul Grund, Tom Decorte, vi è stata una attività editoriale mirata a sprovincializzare il contesto italiano (ricordiamo insieme ai numerosi Quaderni di Fuoriluogo, la versione italiana di Drug, set e setting, l’opera di Norman Zinberg che ha rivoluzionato sguardi e pratiche), ed è stata sviluppata una prospettiva strategica affidata alla Riduzione del danno come politica complessiva, nonché un lavoro formativo con gli operatori e le operatrici perché le pratiche potessero dotarsi di un solido retroterra teorico e sapersi innovare. Questo patrimonio, su cui ancora oggi lavoriamo, ha una formidabile e attualissima ricaduta politica. La battaglia per il superamento della war on drugs, per decriminalizzare le condotte che hanno a che fare con l’uso di sostanze e ancor più la prospettiva di una regolazione legale dei mercati, implica una seria alternativa, sostenibile, praticabile, di riduzione al minimo di danni e rischi e rispettosa dei diritti. Lo spazio ‘liberato’ dalla norma penale è lo spazio di azione di un ‘governo sociale’ del fenomeno (culturale, di apprendimento sociale, e su certi aspetti regolato amministrativamente come accade per le sostanze legali); la sua praticabilità, sostenibilità ed efficacia parte proprio dal paradigma dell’apprendimento sociale, dall’autoregolazione, dalla verificata inconsistenza del ‘destino del tossicomane’, da contesti che minimizzino - invece che enfatizzare - rischi e danni. Ecco che ricerca e pensiero critico alimentano in un circolo virtuoso la riscrittura del paradigma e la proposta politica e normativa. In questo solco, si inserisce anche il lavoro rivolto ai più giovani: già nei primi anni 2000, grazie all’incontro con due pedagogisti americani, Skager e Rosembaum, Forum ha portato in Italia la più radicale delle critiche a quel ‘Just say NO’ dei coniugi Reagan con cui sono stati repressi e messi a rischio milioni di adolescenti. Una alternativa fatta di empowerment, investimento sulla limitazione dei rischi e sul rispetto per i più giovani e le loro competenze che ancora oggi Forum propone come modello formativo, contro la attuale rinascita del ‘consumo zero, zero tolleranza’. Un secondo piano che caratterizza da sempre il lavoro di Forum è quello della riforma legislativa, della lotta per decriminalizzare e per ridurre il ruolo della reclusione nelle politiche delle droghe. Sono stati negli anni elaborati testi di riforma della legge 309, con un lavoro di alleanza e collaborazione con molti giuristi e parlamentari, oltre a singole proposte (come quelle relative all’art. 73, piccolo spaccio) per portare le pene almeno al rispetto del principio di proporzionalità e per ridurre il carcere a favore di forme alternative, fino all’azione per la promozione del referendum sulla legalizzazione della canapa. La pubblicazione del ‘Libro bianco’, insieme a una rete di associazioni, ha accompagnato questa azione, dimostrando di anno in anno con inesorabile evidenza l’impatto drammatico della legge penale sulle persone, sulla società, sui costi sociali e economici. In filigrana a tutte le campagne, le azioni di advocacy, il lavoro scientifico e politico, il tema dei diritti umani e sociali delle persone che usano droghe, il loro ‘Niente su di noi senza di noi’ è sempre stato un punto fermo, e non solo teoricamente: Forum ha cercato e trovato il modo per sostenere e rispettare la loro parola, fin dal lontano 1996, quando facilitò la prima assemblea nazionale delle persone che usano droghe (allora si chiamava ‘In prima persona’) e la stesura della prima Carta dei loro diritti. Infine ma non ultima, la dimensione internazionale: le reti europee e internazionali di cui Forum è parte sono una potente opportunità di prendere parola sulle politiche globali, che grazie alla società civile si stanno - sebbene, certo, lentamente - riorientando in una direzione riformista. Occasione, anche, di confronto e apprendimento, che Forum mette a disposizione delle realtà e del dibattito italiano, attraverso i suoi strumenti di comunicazione e documentazione, fuorilugo.it, il podcast, le newsletter, gli eventi pubblici, la formazione. Tutto questo troverà, ancora una volta, il suo posto e il suo senso nel presente: l’assemblea del trentennale, a Firenze, oggi 17 maggio, non è una celebrazione. È mettere in gioco tutto questo patrimonio per le nuove sfide. La prima, Roma, novembre 2025. E Grazia Zuffa, ancora una volta, sarà per noi una bussola nella complessità. *Forum Droghe, Comitato scientifico Migranti. Storie dal Cpr, dove è facile scomparire e morire di Isabella De Silvestro* vocididentro.it, 17 maggio 2025 Nella notte tra l’1 e il 2 maggio, un uomo è morto nel Cpr di Brindisi Restinco: Abel Okubor, 37 anni, nigeriano. Tre informazioni basilari - il nome, l’età, la provenienza - che hanno impiegato giorni per venire alla luce. Giornalisti, attivisti e parlamentari che si sono interessati alla sua morte hanno faticato a ottenerle. Sarebbero dettagli minimi, se non fosse che sulle persone trattenute nei Centri per il Rimpatrio cala un velo di insignificanza, che si traduce anche nella difficoltà, per il mondo libero - per noi - di sapere qualcosa di concreto su di loro. Ci si può interrogare per mesi, senza ottenere risposte, su perché queste persone vengano trattenute, quale sia il loro stato di salute, quali violenze subiscano ogni giorno, a quali diritti fondamentali venga loro negato l’accesso. Fino ad arrivare alla domanda più tragica e definitiva: perché un uomo di 37 anni è morto mentre era sotto la custodia dello Stato? E ancora: perché la sua morte è stata taciuta al deputato Claudio Stefanazzi, che proprio la mattina del 2 maggio era in visita alla struttura e ha incontrato operatori sanitari e non, in un clima da lui stesso definito “sereno”? Il governo, in risposta all’interrogazione parlamentare presentata da Stefanazzi, ha risposto che il Prefetto di Brindisi era convinto che il deputato fosse già a conoscenza del decesso. Ma resta il fatto che le stesse persone che poche ore prima avevano gestito una morte, sono state in grado di accogliere un parlamentare senza fare alcun cenno all’accaduto. Nei giorni successivi, grazie al presidio degli attivisti della rete No Cpr - Puglia, si è saputo che Okubor, che si faceva chiamare Mimmo, è morto tra le convulsioni, con la schiuma alla bocca. Sintomi che potrebbero indicare un’overdose da farmaci, da confermare con l’autopsia. Nel Cpr di Brindisi, il 50% delle persone trattenute assume psicofarmaci. Non solo attraverso la somministrazione ufficiale della “terapia” - un termine familiare a chi conosce il carcere - ma anche perché i farmaci vengono mescolati al cibo, all’insaputa di chi è costretto a nutrirsene per non fare la fame. Questa prassi è un metodo di sedazione collettiva, di disciplinamento e di controllo. Ed è pericolosa, oltre che potenzialmente illegale. Ogni prescrizione dovrebbe essere frutto di una valutazione psichiatrica individuale, e invece diventa routine, strumento dell’amministrazione per tenere a bada gli umori delle persone recluse, che - racconta Stefanazzi - alle undici del mattino dormono ancora, gettate sulle brande. Quella di Okubor è la terza morte in tre mesi avvenuta sotto la responsabilità dello stesso soggetto gestore: il consorzio composto dal gruppo Agh Resort Ltd e dalla cooperativa sociale Hera. Perché, lo ricordiamo, i Cpr non sono gestiti da istituzioni pubbliche ma da aziende, spesso multinazionali della detenzione, che vincono appalti proponendo ribassi significativi sui costi di servizio. Ribassi che si traducono, inevitabilmente, in condizioni disumane, abusi e violazioni sistematiche dei diritti fondamentali. Tre morti in tre mesi dovrebbero dunque spingerci a interrogarci, con gravità e urgenza, sulla natura stessa dei Centri di permanenza per il rimpatrio: luoghi di detenzione amministrativa dove vige la logica del profitto, quella della repressione e quella dell’esclusione dai diritti, su cui la cittadinanza non ha alcun controllo. Ma l’interrogativo fondamentale non riguarda solo la gestione e la mancata sorveglianza democratica: riguarda le traiettorie di vita delle persone che vi vengono trattenute. Nell’immaginario collettivo, forse, i Cpr sono contenitori per chi arriva irregolarmente via mare e viene trattenuto in attesa del rimpatrio. E se anche fosse questa l’umanità che stiamo rinchiudendo, ci sarebbe comunque motivo di scandalo: uomini giovani e giovanissimi che approdano dopo esodi lunghi e dolorosi vengono accolti dalla violenza istituzionalizzata, dalla precarietà giuridica, e cacciati in una forma estrema di insignificanza politica. Quella che lo Stato italiano riserva a chi dichiara immeritevole di varcare il perimetro della cittadinanza. Ma la questione è ancora più vasta e complessa: i Cpr trattengono anche persone che vivono in Italia da anni, che lavorano, parlano italiano, hanno costruito relazioni affettive e sociali. Persone che, per un vizio formale o un ritardo burocratico, diventano improvvisamente “irregolari” e dunque detenibili. Okubor era arrivato in Italia nel 2013. Aveva lavorato per anni come bracciante tra Foggia e Lucera. Il titolare dell’azienda agricola in cui prestava servizio aveva da poco espresso l’intenzione di assumerlo regolarmente: sarebbe bastato questo per far partire una nuova richiesta di permesso di soggiorno per lavoro. Non ce n’è stato il tempo. La sua prima richiesta di protezione internazionale era stata rigettata dal tribunale di Bari. La procedura si era formalmente chiusa solo nel 2023, ma il tribunale non era riuscito a notificarla a causa della morte del suo precedente legale. Un errore tecnico che ha generato un effetto domino: le nuove richieste di protezione speciale presentate dal nuovo avvocato sono state dichiarate inammissibili per l’assenza della chiusura formale della procedura precedente. Okubor è così diventato destinatario di un decreto di espulsione, e la sua permanenza nel Cpr di Brindisi Restinco era stata da poco prorogata fino a luglio. Come lui, molti altri sono reclusi non per aver commesso reati, ma perché intrappolati in un limbo giuridico e sociale prodotto dalle stesse fragilità strutturali - lavorative, abitative, legali - a cui la politica non sa rispondere con la dovuta complessità. Se la minaccia della detenzione amministrativa è una spada di Damocle che incombe anche su chi ha lavorato per dare forma a una vita, allora i Cpr non sono che l’attestato del fallimento di una democrazia che pretende di dirsi tale. Luoghi dove è molto facile morire, senza che la propria morte valga almeno la decenza di fornire spiegazioni. *Giornalista, autrice del podcast Gattabuia Migranti. “Paesi sicuri”, slitta la sentenza europea di Giansandro Merli Il Manifesto, 17 maggio 2025 Tutti l’attendevano per maggio, massimo giugno. Invece la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (Cgue) sulla designazione dei “paesi sicuri” slitterà di un bel po’. Per la verità è già stata deliberata, ma dovrebbe essere resa pubblica soltanto a ottobre. Così ha detto l’altro ieri il giudice ceco Jan Passer, membro del collegio che lo scorso 25 febbraio ha trattato il caso alla Grande chambre, durante un incontro alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). L’occasione è stata una “tavola rotonda di alto livello” organizzata da Agenzia europea per l’asilo, Cgue, Cedu, Associazione dei giudici amministrativi europei e Associazione internazionale dei giudici per i rifugiati e le migrazioni. Si è svolta il 15/16 maggio con al centro il tema del dialogo tra tribunali europei e nazionali in materia di diritto d’asilo. La terza sessione, in cui è intervenuto Passer, era dedicata al “Concetto di paese sicuro e controllo giudiziario indipendente”. La notizia è sorprendente perché a novembre del 2024 la Cgue aveva scelto di trattare il procedimento, per la sua rilevanza, seguendo un iter rapido che generalmente porta a sentenza in sei/otto mesi (scartando invece la procedura d’urgenza che chiude tutto in una sessantina di giorni). Da qui le aspettative di una conclusione primaverile del caso che si è caricato di grosse implicazioni politiche: ne va del futuro dei centri in Albania. È da lì che inizia tutto, con lo scontro governo-magistratura e i giudici di Roma che a un certo punto passano la palla a quelli europei per chiarire come vadano selezionati i “paesi sicuri” (che permettono di applicare ai relativi richiedenti asilo le procedure accelerate di frontiera in detenzione). Nonostante il sostegno politico di quasi tutti gli Stati membri e della Commissione Ue, a livello giuridico le cose non si sono messe bene per il governo italiano. Il 10 aprile è stato pubblicato il parere indipendente dell’Avvocato generale Richard de la Tour che ritiene legittimo designare come “sicuri” paesi che non lo sono per tutta la popolazione e presentano dunque eccezioni per categorie di persone, come vuole il governo Meloni, ma nel rispetto di precise condizioni, che di fatto eliminerebbero dalla lista la maggior parte degli Stati scelti a livello nazionale. In attesa di leggere la sentenza, lo slittamento significa una cosa sola: fino all’autunno i centri in Albania rimarranno vuoti. A eccezione della quarantina di posti occupati, per un gioco delle tre carte crudele e costoso, da cittadini stranieri privi di documenti che erano già trattenuti nei Cpr italiani e da lì sono stati portati oltre Adriatico. Un escamotage per nascondere lo stallo del progetto, che ha richiesto un apposito decreto per cambiare la destinazione d’uso dei centri. Un provvedimento, che a breve diventerà legge, di dubbia compatibilità con il testo del protocollo. Ieri la premier Giorgia Meloni era in visita a Tirana, dove ha incontrato l’omologo Edi Rama. “Stiamo andando avanti”, ha detto riferendosi ai centri per migranti. “Mi pare che il lavoro dimostri… anche per la velocità… il funzionamento dei rimpatri… alla fine come promesso stiamo andando avanti”, ha aggiunto insolitamente impacciata. Poi ha interrotto le domande e dato le spalle ai cronisti. Al di là delle parole, il fatto è che Meloni a visitare il Cpr di Gjader non ci è andata. Nonostante disti solo un’ora dalla capitale albanese. Forse 40 persone vanno bene per qualche dichiarazione di facciata, ma non sono sufficienti per una photo opportunity. Stati Uniti. La Corte Suprema Usa ferma la legge di guerra usata da Trump contro i migranti di Massimo Basile La Repubblica, 17 maggio 2025 Per i giudici i detenuti non hanno avuto garanzie legali. La Corte Suprema ha inferto uno schiaffo all’amministrazione Trump nella lotta all’immigrazione clandestina. I giudici supremi hanno respinto il tentativo di inviare in una prigione lager in Salvador cittadini venezuelani che, secondo il governo, sarebbero membri di gang. La Corte ha stabilito che i detenuti devono avere un’opportunità adeguata per presentare obiezioni legali. La causa ruota attorno al tentativo dell’amministrazione di utilizzare l’Alien Enemies Act, una legge di guerra del diciottesimo secolo raramente applicata, per deportare cittadini venezuelani che, secondo le autorità, sarebbero membri della gang Tren de Aragua, considerata una delle più spietate. La decisione, presa con un voto di 7 a 2, ribaltando la maggioranza conservatrice di sei giudici a tre, di cui tre nominati da Trump, ha accolto la richiesta presentata da un gruppo di venezuelani e rimandato a un’ordinanza emessa dai giudici della Corte nelle prime ore del 19 aprile, che aveva sospeso temporaneamente qualsiasi piano del governo per deportare persone rinchiuse nei centri di detenzione in Texas. La Corte ha criticato l’amministrazione per aver concesso ai detenuti solo ventiquattro ore di tempo per avviare ricorsi legali. Le procedure di garanzie erano apparse poco chiare fin dall’inizio. Alcuni detenuti non avevano avuto neanche il tempo di avvertire i familiari. “In queste circostanze - si legge nel dispositivo della sentenza - un preavviso di circa ventiquattro ore prima del rimpatrio, privo di informazioni su come esercitare i diritti di difesa previsti dal giusto processo, certamente non è sufficiente”. La Corte ha concluso che gli stessi giudici, “lontani dalle circostanze concrete”, non sono nella posizione migliore per stabilire con esattezza quale procedura debba essere seguita. Per questo motivo la Corte ha rinviato il caso a una corte d’appello affinché “proceda ulteriormente e determini quali garanzie di giusto processo debbano essere riconosciute ai detenuti”. Due giudici conservatori, Samuel Alito e Clarence Thomas, hanno espresso parere contrario. Alito ha scritto che non c’erano motivi per l’intervento della Corte in una fase così precoce del procedimento legale. “Per essere chiari - hanno stabilito i giudici a maggioranza - oggi decidiamo soltanto che ai detenuti spettava un preavviso maggiore rispetto a quello fornito il 18 aprile”. Stati Uniti. Chi sono i boia dei bracci della morte: un articolo svela i segreti attorno alle esecuzioni Valerio Fioravanti L’Unità, 17 maggio 2025 Corinna Barrett Lain si è pagata gli studi servendo per alcuni anni come sottufficiale nelle file dell’esercito. Ora è professoressa di legge in alcune importanti università statunitensi, e molto attiva contro la pena di morte. Nelle settimane scorse ha pubblicato un articolo fenomenale in cui ricostruisce otto anni di fatiche per “decifrare” i segreti attorno alle esecuzioni. L’articolo andrebbe letto tutto (è sul sito di Nessuno tocchi Caino), e quella che segue è una versione ridotta. Dal 1995 al 2006, in Missouri, 54 esecuzioni sono state gestite dal dottor Alan Doerhoff. Non era lui a iniettare la siringa - incredibilmente, questo compito era affidato a guardie carcerarie non mediche - ma faceva praticamente tutto il resto. “Nessuno farà mai tante esecuzioni quante ne ho fatte io”, si vantava. La sua identità è stata rivelata quando l’avvocato di un condannato a morte ha controllato i registri del dispensario chimico della prigione e ha scoperto che nelle esecuzioni precedenti erano stati utilizzati 2,5 grammi di anestetico per sedare il detenuto prima di ucciderlo, mentre la dose prescritta era di 5 grammi. Il detenuto morituro ha fatto causa. I funzionari inizialmente dissero alla corte che c’era un errore nei registri, poi ammisero che erano corretti. Preoccupata dalla scoperta, la corte permise agli avvocati del detenuto di convocare il “boia in capo”. In una udienza segreta dichiarò sotto giuramento di avere problemi a miscelare i farmaci. “Sono dislessico. A volte scambio i numeri, quindi non è insolito per me commettere errori. Effettivamente al momento stiamo ancora improvvisando”. Il Missouri ha mantenuto il punto, dicendo alla corte che aveva fiducia nella competenza del suo “chief executioner” (il cui nome continuava a rimanere segreto) e che intendeva continuare a utilizzarlo nelle future esecuzioni. Ma la corte ha respinto le assicurazioni dello Stato, scrivendo che era “gravemente preoccupata dal fatto che un medico, unico responsabile della corretta miscelazione dei farmaci che determineranno la morte dei detenuti, soffra di un disturbo che gli causa confusione con i numeri”. Lo Stato ha presentato ricorso, ma poco dopo, nel gennaio 2008, il giornalismo d’inchiesta ha scoperto l’identità di Doerhoff, rivelando anche un altro fatto scioccante: Doerhoff prima di dedicarsi alle esecuzioni, ognuna delle quali gli fruttava una retribuzione di 20.000 dollari, era stato citato in giudizio per negligenza medica più di 20 volte, era stato licenziato da due ospedali, e aveva subito varie sanzioni ufficiali dall’ordine dei medici. Dopo queste scoperte (e l’ulteriore scoperta che i “precedenti” erano perfettamente noti a chi lo aveva assunto) la corte dispose che l’uomo non poteva continuare nel suo incarico. Non potendo più “lavorare” in Missouri, Doerhoff è entrato a far parte dello staff di un’azienda locale specializzata nella depilazione, e ha lavorato come boia per il governo federale, e per almeno un altro Stato, l’Arizona. L’Arizona era a conoscenza della sentenza del Missouri e dei fatti alla base della stessa. Ciononostante, ha assunto Doerhoff, che ha eseguito un’esecuzione per lo Stato. Quando gli avvocati hanno scoperto il suo coinvolgimento, i condannati in Arizona hanno intentato una causa, che si è risolta due anni dopo con l’adozione di regole più severe sulla selezione del personale. Ma durante il contenzioso, gli avvocati dei detenuti avevano scoperto che Doerhoff non era l’unico “executioner” che non avrebbe dovuto compiere esecuzioni. Il membro “n. 3” del team medico era un ex infermiere a cui era stata sospesa la licenza. Al momento del contenzioso, la sua occupazione era quella di gestore di un’azienda di elettrodomestici in un altro Stato. L’identità del membro n. 3 è rimasta sconosciuta, ma il tribunale ha osservato che era stato arrestato più volte, “tra cui tre volte nell’arco di dieci giorni per guida in stato di ebbrezza”. Nel 2011 l’Arizona è stata nuovamente citata in giudizio perché non aveva mantenuto l’impegno a selezionare meglio il personale. Il direttore della prigione ha ammesso di aver condotto cinque esecuzioni sapendo perfettamente che il membro n. 4 dell’équipe, una guardia carceraria che in precedenza aveva prestato servizio nel servizio sanitario militare, non era in possesso di alcuna licenza medica, e i funzionari non avevano attribuito rilevanza a suoi precedenti penali, tra cui guida in stato di ebbrezza, un caso di ubriachezza molesta e l’emissione di un assegno a vuoto. Numero 4 in seguito ha dichiarato che l’unica verifica a cui era stato sottoposto era stata una telefonata del direttore del carcere che gli aveva chiesto se sapeva come praticare una flebo e se avrebbe avuto problemi a farlo per un’esecuzione. Non gli era stata fatta nessun’altra domanda e, all’epoca, erano 15 anni che non praticava una flebo. Qui finisce lo spazio a disposizione per questo racconto dell’orrore. Iraq. Nelle carceri il doppio dei detenuti previsti, mentre entra in vigore l’amnistia L’Unità, 17 maggio 2025 Le prigioni irachene sono sovraffollate, ospitando più del doppio della loro capacità prevista, ha dichiarato il Ministro della Giustizia il 3 maggio 2025, mentre è da poco entrata in vigore nel Paese una legge di amnistia generale. Il Ministro della Giustizia Khaled Shwani ha dichiarato in un’intervista all’Associated Press che le 31 carceri irachene ospitano attualmente circa 65.000 detenuti, nonostante il sistema sia stato progettato per ospitarne la metà. Ha riconosciuto che il sovraffollamento ha messo a dura prova l’assistenza sanitaria e gli standard dei diritti umani nelle carceri. “Quando abbiamo assunto l’incarico, il sovraffollamento era al 300%”, ha dichiarato. “Dopo due anni di riforma, l’abbiamo ridotto al 200%. Il nostro obiettivo è di portarlo al 100% entro il prossimo anno, in linea con gli standard internazionali”. Migliaia di altri detenuti rimangono in custodia delle agenzie di sicurezza, ma non sono ancora stati trasferiti al Ministero della Giustizia a causa della mancanza di capacità delle carceri. Quattro nuove prigioni sono in costruzione, ha affermato Shwani, mentre tre sono state chiuse negli ultimi anni. Altre due sono state aperte e sei prigioni esistenti sono state ampliate. La legge di amnistia generale, approvata lo scorso gennaio, ha ricevuto un forte sostegno da parte dei deputati sunniti, i quali sostengono che la loro comunità sia stata presa di mira in modo sproporzionato dalle accuse di terrorismo, con confessioni talvolta estorte sotto tortura. Gli oppositori della legge affermano che quest’ultima consentirà il rilascio di persone coinvolte in corruzione pubblica e appropriazione indebita, nonché di militanti che hanno commesso crimini di guerra. L’Osservatorio Iracheno per i Diritti Umani ha dichiarato in una nota che “l’attuale versione della legge di amnistia generale solleva profonde preoccupazioni sulle sue potenziali conseguenze legali e di sicurezza”. Shwani ha affermato che 2.118 prigionieri sono stati rilasciati dalle prigioni del Ministero della Giustizia dall’entrata in vigore della legge sull’amnistia, mentre altri sono stati rilasciati dalla custodia delle agenzie di sicurezza, prima di essere trasferiti al Ministero della Giustizia. “Abbiamo una commissione che studia la situazione dei detenuti e individua coloro che potrebbero avere diritto al rilascio, ma il quadro non è ancora definitivo”, ha affermato. Il ministro ha detto di aspettarsi che un “buon numero” di persone verrà rilasciato, ma “non può specificare una percentuale esatta finché non riceveremo chiarimenti dalla magistratura su chi ha diritto all’amnistia”. Le carceri irachene ospitano centinaia di cittadini stranieri, la maggior parte dei quali condannati per reati legati al terrorismo e per affiliazione ad Al-Qaeda e Daesh. I detenuti provengono da paesi come Kirghizistan, Kazakistan, Azerbaigian, Turchia, Egitto, nazioni nordafricane e diversi stati europei, oltre a una manciata di cittadini statunitensi. Shwani ha affermato che sono in corso trattative con diversi governi per il rimpatrio dei rispettivi cittadini, esclusi quelli condannati a morte. Ha aggiunto che dei detenuti sono stati rimpatriati in base ad accordi esistenti con Iran, Turchia e Regno Unito, inclusi 127 detenuti iraniani che sono stati recentemente trasferiti a Teheran. Un iraniano condannato per l’omicidio di un cittadino statunitense, avvenuto a Baghdad nel 2022, rimane tuttavia in custodia, ha aggiunto Shwani. La vittima, il 45enne Stephen Edward Troell, originario del Tennessee, fu uccisa a colpi d’arma da fuoco nella sua auto a novembre, nella strada del quartiere Karrada di Baghdad in cui viveva con la famiglia. In relazione all’omicidio, il cittadino iraniano Mohammed Ali Ridha è stato condannato insieme a quattro iracheni, in quello che è stato descritto come un rapimento finito male. Tutte le esecuzioni sono state sospese in seguito all’approvazione della legge di amnistia generale, ha dichiarato Shwani. L’Iraq viene criticato dalle organizzazioni per i diritti umani per l’applicazione della pena di morte e in particolare per le esecuzioni di massa effettuate senza preavvisare avvocati e familiari dei prigionieri. Shwani ha respinto le critiche sulle condizioni carcerarie e sulle esecuzioni. “Sono in vigore misure severe per qualsiasi violazione commessa contro i detenuti”, ha affermato. “A seguito di segnalazioni, molti dipendenti sono stati indagati, licenziati o perseguiti”. Il ministro ha insistito sul fatto che “il numero di esecuzioni effettuate è limitato, non così elevato come riportato dai media” e ha affermato che la pena di morte viene applicata solo per “crimini che minacciano gravemente la sicurezza nazionale e la sicurezza pubblica”, incluso il caso dei condannati per l’attentato del 2016 nel distretto Karrada di Baghdad, che uccise centinaia di persone, così come per i casi di stupro di minori e quelli relativi a leader di alto rango di Daesh. Le esecuzioni capitali sono state sospese per riesaminare i casi in base alla nuova legge sull’amnistia, ha concluso il ministro.