Carceri, La Russa redento apre allo sconto di pena di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 maggio 2025 “Moral suasion” per la pdl Giachetti. Convinto dall’esperienza di Gianni Alemanno. Di solito funziona proprio così: si può passare una vita propagandando modelli penali e punitivi come unica soluzione a tutti i mali e sciorinando ad ogni caso di cronaca slogan manettari da insufflare nella pancia elettorale, fino a che dietro quelle sbarre di cui si vorrebbe perdere le chiavi capita qualche fratello, di sangue o di bandiera. È ciò che deve essere successo a Ignazio La Russa - di cui, nel campo, si ricordano in particolare le battaglie contro la legge sulla tortura - che, colpito dalla diretta testimonianza del suo ex alleato Gianni Alemanno, visitato a Pasqua insieme agli altri detenuti di Rebibbia, ha mostrato un qualche segno di ravvedimento. Che sia anche operoso, però, è tutto da vedere. Per combattere il sovraffollamento penitenziario - “vero problema delle carceri” - non si può attendere il piano di edilizia penitenziaria, ha ammesso il presidente del Senato intervenendo al convegno “Un gesto di clemenza per le carceri” promosso da don Riboldi e alla presenza di monsignor Fisichella. Su indulto o amnistia i tempi non sono ancora maturi. Ma stimolato dal vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, La Russa è arrivato ad aprire le porte alla pdl sulla liberazione anticipata speciale firmata Giachetti-Bernardini e che giace da oltre un anno alla Camera a causa dell’opposizione sfrenata di Fd’I e del M5S (d’accordo invece FI). “Ne ho parlato con Giorgia Meloni e anche lei considera il sovraffollamento carcerario un problema molto importante”, ha affermato la terza carica dello Stato che ha anche annunciato di aver chiesto un incontro al renziano Roberto Giachetti per discutere il suo progetto che prevede di aumentare i giorni di liberazione anticipata per buona condotta da 45 a 60. “È un argomento per cui farò moral suasion”, promette La Russa che ammette di essere stato convinto da una voce amica (dopo anni di inascoltati appelli e avvertimenti simili, provenienti da voci ben più autorevoli): “Mi scrive Gianni Alemanno - che fra un po’ farà il partito dei carcerati, se lo conosco bene - che ci vorranno 3 - 4 anni, anche ammesso che si riesca, come promesso dal governo, di affrontare il problema del sovraffollamento con nuove strutture. E in questi anni che succede?”, si chiede. La risposta al momento è targata Giachetti e le sue parole convincono Rita Bernardini (Nessuno tocchi Caino) a interrompere lo sciopero della fame che aveva intrapreso 22 giorni fa a sostegno di un anno di riduzione di pena per tutti i detenuti. Anche il ministro Nordio, durante il question time alla Camera, ripete che la costruzione di nuove carceri è un progetto quantomeno problematico e annuncia interventi “a breve” sulla “detenzione differenziata per reati legati alla tossicodipendenza” e “sulla rimodulazione della custodia cautelare preventiva”. Ma esclude che “la mancata nomina del capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria” da quasi sei mesi abbia inciso sulle criticità del sistema penitenziario. In ogni caso, il nome del nuovo capo Dap è stato scelto - sarà il magistrato Stefano Carmine De Michele- ma questa volta prima di annunciarne la nomina il governo vuole fare le cose per bene. E attendere il via libera del Quirinale e del Csm. Pinelli: “Liberazione anticipata: soluzione realistica contro il sovraffollamento” Il Dubbio, 16 maggio 2025 Il vicepresidente del Csm propone di estendere il beneficio a 60 o 90 giorni, per ridurre il numero dei reclusi e per conciliare il principio di legalità con il rispetto della persona detenuta. Pubblichiamo l’intervento dell’avvocato Fabio Pinelli, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, al convegno “Per un Gesto di Clemenza nelle Carceri”, che si è svolto ieri in Senato. Vorrei iniziare sottolineando che ci troviamo di fronte a un tema di estrema complessità. Per questo motivo è importante evitare ogni forma di banalizzazione. Possiamo cercare, in poche battute, di semplificare o mettere a fuoco alcuni nodi centrali, ma dobbiamo farlo senza perdere la profondità del problema. Quando affrontiamo la questione del sovraffollamento carcerario - oggi parliamo di circa 11.000 detenuti oltre la capienza regolamentare - è fondamentale affiancare al dato quantitativo anche una riflessione culturale e giuridica. Esistono, infatti, delle resistenze culturali profonde rispetto ai provvedimenti di clemenza, come amnistie e indulti. Queste resistenze non sono prive di fondamento: penso, ad esempio, alla dogmatica tedesca, secondo cui una sanzione minacciata che poi non viene eseguita perde la propria efficacia preventiva generale. In altre parole, se lo Stato investe risorse per accertare una responsabilità e poi non dà seguito all’esecuzione della pena, la funzione stessa della pena viene meno. Tuttavia, i provvedimenti di clemenza presentano anche una loro intrinseca iniquità: si basano su criteri temporali che generano disuguaglianze. Due persone colpevoli dello stesso reato, ma in momenti diversi - anche solo a pochi giorni di distanza - si trovano trattate in modo totalmente differente. Questo crea, di fatto, una disparità di trattamento a parità di condotta. A queste considerazioni di carattere culturale e giuridico dobbiamo affiancare un elemento essenziale: la dignità della persona. Il Presidente emerito della Corte costituzionale Gaetano Silvestri ricordava che la dignità non si acquisisce e non si perde: è un attributo permanente. Quando le condizioni carcerarie ledono in modo grave e sistematico questa dignità, lo Stato viene meno ai suoi obblighi fondamentali. Quindi, quali soluzioni possiamo trovare? A mio avviso, possiamo e dobbiamo cercare una sintesi tra esigenze apparentemente opposte. Da un lato, il rispetto della legalità, dall’altro, il rispetto della dignità umana. E questa sintesi può e deve passare per gli strumenti già previsti dall’ordinamento penitenziario, migliorandoli e potenziandoli. Un esempio è la liberazione anticipata, che oggi prevede una riduzione della pena di 45 giorni per semestre per buona condotta. Potremmo, in una fase emergenziale, estendere questo beneficio a 60 o 90 giorni, soprattutto per detenuti con pene brevi e che non si siano macchiati di reati particolarmente gravi. Sarebbe una misura concreta, equilibrata, che non nega la funzione della pena ma che aiuta a gestire una situazione drammatica senza rinunciare ai principi fondamentali. Questa strada permetterebbe anche di evitare che lo Stato lanci un messaggio contraddittorio: minacciare la pena e poi non eseguirla. Allo stesso tempo, eviterebbe di ignorare le condizioni reali delle carceri e il valore della dignità umana. Aggiungo due ultime considerazioni. Il ruolo del magistrato di sorveglianza. Il sovraffollamento e la carenza di personale compromettono gravemente la possibilità di un rapporto diretto e continuo tra magistrato e detenuto. Questo rapporto è essenziale per valutare il percorso rieducativo e decidere, con cognizione di causa, l’accesso a benefici o misure alternative. Se viene meno, il rischio è duplice: da un lato, si possono concedere benefici a chi non è pronto; dall’altro, il magistrato può rifugiarsi in un atteggiamento “difensivo”, bloccando percorsi di reinserimento anche quando sarebbero possibili e auspicabili. Una visione moderna della pena. C’è un rischio concreto che si proceda a gesti emergenziali - come lo svuotamento delle carceri - senza accompagnarli con un progetto più ampio su cosa debba essere la pena in una democrazia avanzata del XXI secolo. La nostra idea di pena è ancora fortemente legata alla reclusione e alla retribuzione. Ma in un sistema moderno, dobbiamo interrogarci su quali conflitti debbano essere affidati alla giurisdizione penale, e su quali possano essere affrontati con altri strumenti. L’uso esclusivo e punitivo della pena, in condizioni strutturali carcerarie spesso indegne, non fa che alimentare la recidiva. In conclusione, ritengo che la direzione più sostenibile e realistica sia quella di intervenire sugli istituti già previsti dall’ordinamento penitenziario, migliorandoli e rendendoli strumenti efficaci di equilibrio tra il principio di legalità e il rispetto della dignità umana. Ma questo intervento tecnico deve essere accompagnato da un progetto culturale e politico più ampio: una riflessione profonda su cosa significhi davvero “pena” nella nostra società. La Russa apre a Giachetti: “Il problema è il sovraffollamento, discutiamo della libertà anticipata” di Angela Stella L’Unità, 16 maggio 2025 Dopo le parole della seconda carica dello Stato, la radicale Rita Bernardini (Nessuno tocchi Caino) ha interrotto lo sciopero della fame. Le dichiarazioni del vicepresidente del Csm Fabio Pinelli. “Il vero problema delle carceri è il sovraffollamento”. Lo ha detto il presidente del Senato Ignazio La Russa intervenendo al convegno “Un gesto di clemenza per le carceri” in corso a Palazzo Giustiniani. “Ne ho parlato con Giorgia Meloni e anche lei lo considera un problema molto importante”, ha aggiunto La Russa che ha detto di aver chiesto “un incontro a Roberto Giachetti” per discutere della sua proposta. Il deputato di Iv ha messo a punto un provvedimento che punta a modificare il sistema di detrazione di pena per la liberazione anticipata dei detenuti. “Non bisogna dimenticare - ha aggiunto - che di questo problema del sovraffollamento ci dobbiamo assolutamente occupare. La soluzione non può essere, come nei decenni che ci hanno preceduto, episodica: cioè svuotiamo il carcere, in attesa che si riempia di nuovo, come è sempre accaduto”. Il problema va affrontato, ha osservato, con una soluzione “strutturale: troviamo luoghi di pena, idonei, nuovi. Ma nel frattempo? Mi scrive Gianni Alemanno - che fra un po’ farà il partito dei carcerati, se lo conosco bene - che ci vorranno tre-quattro anni, anche ammesso che si riesca, come promesso dal Governo, di affrontare il problema del sovraffollamento con nuove strutture. E in questi tre-quattro anni che succede? - ha proseguito La Russa - c’è La proposta di un gesto di clemenza, che però non credo che questo governo voglia seguire, anche perché in passato si è dimostrato privo di soluzione effettiva: la velocità con cui si tornava al sovraffollamento lo ha dimostrato. C’è però una proposta Giachetti che non so se possa essere considerata accoglibile in toto, ma è un argomento per cui farò moral suasion perché se ne discuta. Ho chiesto a Giachetti di venirmi a trovare, voglio capire con lui come si può discutere di questo tema, magari riservandola a chi ha da scontare la parte finale della pena, magari riservandola a chi ha già scontato un numero di anni tali da garantire sulla sua buona condotta”, ha detto ancora La Russa. “A differenza dell’indulto - ha sottolineato - la liberazione anticipata ha un argomento in più: devi aver dimostrato una buona condotta o perlomeno di essere in linea con le regole, non è che deve fare opere pie in carcere, basta che uno si comporti bene. Io credo che su quella strada un incontro fra maggioranza e opposizione, approfondito, possa e debba, magari solo limitando nel tempo La novità normativa, cioè dicendo ‘è una norma emergenziale che dura tre anni’, affrontare la questione con l’obiettivo di consentire, a chi deve scontare la pena in carcere, di farlo in una condizione non eccessiva di sovraffollamento. Un po’ di sovraffollamento può essere sostenuto - ha dichiarato - ma quello che c’è attualmente nelle carceri italiane è superiore alla sostenibilità. Da parte mia - ha assicurato - vi è una disponibilità a verificare che sia possibile perlomeno il confronto, senza pregiudizi fra chi propone e chi deve accogliere La proposta o farne altre o esaminarle”. “Un esempio, ma non è il solo, potrebbe essere la liberazione anticipata, che oggi prevede una riduzione della pena di 45 giorni ogni semestre per buona condotta. Si potrebbe, in una fase emergenziale, estendere questo beneficio a 60 o 90 giorni, soprattutto per detenuti con pene brevi e che non si sono macchiati di reati particolarmente gravi. Sarebbe una misura concreta, equilibrata, che non nega la funzione della pena e allo stesso tempo aiuta a gestire una situazione drammatica, nel rispetto dei principi fondamentali”. Lo ha sottolineato il vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, in un passaggio del suo intervento, nella Sala Zuccari del Senato, al convegno ‘Per un gesto di clemenza nelle carceri’ che ha messo al centro l’emergenza del sovraffollamento negli istituti di pena e le possibili soluzioni deflattive. Questa ‘soluzione’ emergenziale, ad avviso di Pinelli “permetterebbe, per un verso, di evitare che lo Stato lanci un messaggio contraddittorio: minacciare la pena e poi non eseguirla, per altro verso, eviterebbe di ignorare le condizioni delle carceri e il valore della dignità umana”. “Aggiungo due ultime considerazioni - ha proseguito Pinelli - la prima: il ruolo del magistrato di sorveglianza. Il sovraffollamento e la carenza di personale compromettono gravemente la possibilità di un rapporto diretto e continuo tra magistrato e detenuto. Questo rapporto è essenziale per valutare il percorso rieducativo e decidere, con cognizione di causa, l’accesso a benefici o misure alternative. Se viene meno, il rischio è duplice: il magistrato di sorveglianza può concedere benefici a chi non ha compiuto il necessario percorso di rivisitazione critica delle proprie condotte o, all’opposto, il magistrato potrebbe rifugiarsi in un atteggiamento difensivo, non favorendo percorsi di reinserimento. La seconda considerazione: una visione moderna della pena. Dobbiamo evitare - ha sottolineato inoltre Pinelli - che al provvedimento che voglia superare il dramma del sovraffollamento carcerario non si accompagni un piano strategico carceri/detenzione di medio-lungo termine, e una più ampia riflessione su cosa debba essere la pena in una democrazia avanzata del XXI secolo”, ricordando che “la pena però non è vendetta, è rieducazione”. “L’uso esclusivo della sanzione penale, con una pena scontata in condizioni strutturali carcerarie spesso indegne, non fa che alimentare la recidiva. In un sistema moderno, invece, dobbiamo interrogarci su quali conflitti debbano essere affidati alla giurisdizione penale e quali possano essere affrontati con altri strumenti”, ha concluso Pinelli. Intanto, “Rita Bernardini, Presidente di Nessuno tocchi Caino, al suo 22° giorno di sciopero della fame a sostegno di un anno di riduzione di pena per tutti i detenuti ha sospeso l’iniziativa nonviolenta, per salutare l’intervento del Presidente del Senato Ignazio La Russa e la sua apertura a una misura deflattiva”. È quanto si legge in una nota dell’associazione ‘Nessuno tocchi Caino’. “La Russa, intervenendo al Convegno “Per un gesto di clemenza nelle carceri” organizzato da “La Valle di Ezechiele” grazie a Don David Riboldi, ha riconosciuto che il principale problema del carcere è il sovraffollamento e ha ritenuto che La soluzione più adeguata a governarlo sia la proposta di legge sulla liberazione anticipata presentata dal deputato Roberto Giachetti di Italia Viva sulla base di un testo predisposto da Nessuno tocchi Caino”, continua La nota. “Sulla stessa lunghezza d’onda della seconda carica dello Stato, si è espresso il vicepresidente del CSM Fabio Pinelli. D’altro canto, La prima carica dello Stato, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella non ha mai cessato di sollevare il drammatico problema del sovraffollamento carcerario. Il Presidente del Senato ha annunciato altresì di aver chiesto un incontro con lo stesso Giachetti che si terrà nei prossimi giorni. La sospensione dello sciopero della fame - si spiega - è avvenuta a seguito di una richiesta di Don David Riboldi che ha offerto un pezzo di pane a Bernardini che ha accettato”. “Sospendo lo sciopero della fame come segno di riconoscimento di questa importante apertura politica volta a superare pregiudizi e ad affrontare un problema non rinviabile, quello del crescente sovraffollamento carcerario che crea condizioni inumane e degradanti per i detenuti e i ‘detenenti’, cioè chi in carcere ci lavora a partire dalla polizia penitenziaria”, ha dichiarato Rita Bernardini. “La mia è una sospensione”, ha proseguito La Presidente di Nessuno tocchi Caino, “e chiedo intanto alle oltre 150 persone che hanno aderito alla iniziativa nonviolenta di sciopero della fame di proseguirlo per accompagnare insieme questo processo che oggi ha visto un’apertura politica significativa”. Rita Bernardini sospende lo sciopero della fame dopo l’apertura di La Russa sulla liberazione anticipata Il Dubbio, 16 maggio 2025 La presidente di “Nessuno tocchi Caino” celebra il riconoscimento del sovraffollamento carcerario da parte delle istituzioni e sospende la sua protesta nonviolenta a favore della liberazione anticipata di chi sta in carcere. Rita Bernardini, presidente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, ha sospeso oggi il suo sciopero della fame che proseguiva da 22 giorni, in segno di riconoscimento per l’intervento del presidente del Senato, Ignazio La Russa, il quale, durante un convegno sul sovraffollamento carcerario, ha espresso il suo sostegno a una proposta di legge sulla liberazione anticipata dei detenuti, un testo presentato dall’onorevole Roberto Giachetti, sostenuto da “Nessuno tocchi Caino”. La proposta intende affrontare il crescente problema del sovraffollamento nelle carceri italiane, che crea condizioni di vita disumane per i detenuti e difficoltà anche per chi lavora nel sistema penitenziario. La Russa ha confermato di aver chiesto un incontro con Giachetti per discutere ulteriormente della proposta, mentre il vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, ha espresso solidarietà alla stessa causa. Il gesto di Bernardini arriva dopo che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha sollevato più volte la questione del sovraffollamento, sottolineando l’urgenza di affrontare il problema. Nonostante la sospensione, Bernardini ha chiesto che le oltre 150 persone che hanno aderito allo sciopero della fame continuino la loro protesta per sostenere la riforma del sistema carcerario. “La mia sospensione dello sciopero della fame è un segno di riconoscimento per questa significativa apertura politica”, ha dichiarato Bernardini, esprimendo soddisfazione per il passo avanti nella lotta contro il sovraffollamento. Il caso De Maria, i detenuti che invece cambiano e quelle 50 vittime in meno di Glauco Giostra Avvenire, 16 maggio 2025 I progetti di riabilitazione e di reinserimento sociale funzionano nella stragrande maggioranza dei casi e fanno crollare la recidiva dei reati. Non è successo a Milano, ma generalizzare è un errore. La drammatica vicenda del condannato De Maria che, affidato da due anni al lavoro all’esterno, si è reso autore di un turpe omicidio e di una efferata aggressione, ha riacceso comprensibilmente un aspro confronto sulla opportunità di mantenere un sistema normativo che offre al condannato meritevole occasioni di graduale reinserimento sociale e lavorativo. A chi ricorda che ogni prognosi sconta purtroppo un inevitabile margine di fallibilità e che l’opportunità di progressivo rientro in società abbatte sensibilmente l’indice di recidiva, si obietta che queste considerazioni non leniscono naturalmente in nulla lo strazio delle vittime e dei loro cari. Ineccepibile, ma poco pertinente considerazione. Partiamo da un’ovvietà troppo spesso trascurata: fatta eccezione per coloro che scontano un ergastolo c.d. ostativo, i condannati prima o poi, espiata la pena, escono dal carcere. Sovente per tornare a delinquere. L’indice di recidiva si aggira intorno al 70% (in Italia, il 68%), con qualche sensibile oscillazione da Paese a Paese (ad es., in Brasile più dell’80%, in Inghilterra intorno al 50%); questa inclinazione a ri-delinquere scema fortemente (in Italia intorno al 17%) qualora il condannato sconti la pena in un regime carcerario che ne rispetti la dignità, lo responsabilizzi e gli offra la possibilità di guadagnarsi un progressivo e controllato reinserimento sociale. Pure in tal caso gli indici statistici oscillano sino a registrare ancor più vistosi e significativi abbattimenti della recidiva a seguito di particolari iniziative pilota. Sarebbe intellettualmente poco onesto non riconoscere che si tratta di percentuali non certo affidabili al decimale, essendo spesso frutto di metodiche diverse di rilevazione e di calcolo. Ma sarebbe intellettualmente disonesto negare l’esistenza di una forbice molto significativa tra i crimini commessi da ex condannati a seconda che questi abbiano subito una pena ciecamente segregativa, orfana di ogni speranza, o una pena pur severa, ma non insensibile alla loro effettiva partecipazione ad un progetto di riabilitazione che li abbia preparati a rientrare nella società civile, con l’intento e la capacità di viverci come avrebbero dovuto. Pertanto, quando lo Stato sa offrire una tale opportunità e il condannato sa meritarla, la collettività ne trae un beneficio molto significativo. Da un lato, perché recupera energie sociali: tornano in libertà soggetti in grado di svolgere un positivo ruolo nella collettività e, soprattutto, nelle loro famiglie, quasi sempre “condannate” di riflesso a condurre un’esistenza di precarietà economica e di stigmatizzazione sociale. Dall’altro, perché, modulando gradualmente la pena detentiva in impegnative misure da eseguire in comunità, la società sarà esposta a un minor numero di crimini. Ciò non significa, ovviamente, che la pena non debba conservare anche una funzione retributiva: per i reati più gravi non saranno comunque evitabili lunghi periodi di detenzione, quand’anche il condannato sin dall’inizio s’adoperi in un serio e fattivo percorso di riabilitazione. Profondi conoscitori dell’animo umano hanno da tempo spiegato che “Il carcere come camicia di forza, come immobilità per non far del male è pura follia, è antieducativo. Non appena viene tolto il gesso, c’è subito una voglia di correre e di correre contro la legge” (Vittorino Andreoli). Una verità che sembrerebbe non abbisognare di ulteriori dimostrazioni; eppure, come il tanto venerato, purtroppo soltanto a parole, Papa Francesco avvertiva, il compito di difendere “la sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative” è “particolarmente difficile, in tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società”. Riprendendo le considerazioni di apertura, allora, il problema va impostato diversamente. Se approssimiamo a venti su cento il numero di coloro che, pur avendo avuto opportunità di anticipato reinserimento sociale, tornano a delinquere e a settanta su cento il numero di coloro che, senza tale opportunità, recidivano nel delitto, la profonda partecipazione al dolore della vittima dei primi non va confrontata con un’astratta proficuità del sistema, ma con le cinquanta vittime in meno che si saranno registrate offrendo quelle opportunità (che in pochi, ma certo non meno dolorosi casi, non hanno sortito l’effetto sperato). Caso De Maria, Sisto: “Il giudice di sorveglianza deve usare cautela prima di concedere permessi” Il Dubbio, 16 maggio 2025 Il viceministro della giustizia Francesco Paolo Sisto ha commentato il caso di De Maria, il detenuto che, dopo aver ricevuto un permesso premio per lavorare come receptionist in un albergo, ha cercato di uccidere una donna con la quale aveva instaurato una relazione. Non riuscendo nell’omicidio, De Maria si è tolto la vita. In un’intervista a Radio Cusano, Sisto ha sottolineato come il caso sia particolarmente delicato e abbia messo in evidenza le problematiche psicologiche del detenuto. Sisto ha ribadito che la concessione di permessi premio a detenuti con precedenti penali gravi richiede un’accurata valutazione da parte del giudice di sorveglianza. Secondo il viceministro, il giudice deve agire con prudenza, soprattutto nei casi di detenuti come De Maria, che avevano precedenti di crimini efferati. Ha anche suggerito che sarebbe utile che il giudice di merito possa decidere direttamente sulla possibilità di concedere permessi premio, garantendo una maggiore sicurezza per i cittadini. “Il fatto che De Maria abbia ricevuto il permesso premio non deve distrarci dal problema principale, ovvero che bisogna evitare che condotte simili possano verificarsi in futuro. I giudici devono essere attenti e non superficiali”, ha concluso Sisto, sottolineando che, in situazioni come questa, potrebbe essere preferibile seguire un percorso all’interno del carcere, più controllato e sicuro, piuttosto che all’esterno. Se le toghe vengono prima di Gaza di Alessandro De Angelis La Stampa, 16 maggio 2025 Ci sono dei dettagli che davvero spiegano il tutto. Uno di questi è quel che è successo giovedì, a Palazzo Madama. In breve: si votava il calendario dei lavori, perché i gruppi non avevano trovato un accordo. Si sa, anche sul calendario c’è un gioco politico. Fa parte della dinamica parlamentare. Ebbene le opposizioni, tra varie questioni anche non urgenti, hanno chiesto di anticipare l’informativa del ministro degli Esteri su Gaza. E questa non è proprio una richiesta strumentale, visto quel che sta succedendo da quelle parti visto che, tra l’altro, da quando è iniziato il conflitto in Medioriente non è mai svolta una seria discussione in Parlamento. Lì è in atto, in queste settimane, una gigantesca catastrofe umanitaria che ha raggiunto un punto senza precedenti: l’uso della fame come arma di guerra, che miete vittime tra i civili. E lì è in atto un salto di qualità politico, con l’annuncio di una prossima occupazione dei territori che, anche in questo caso, crea uno scenario senza precedenti, in termini di destabilizzazione dell’area: profughi verso altri paesi arabi, conseguenze per il Mediterraneo allargato, potenziale minaccia terroristica. Ebbene la maggioranza ha detto di no alla richiesta. E certo c’entra la difficoltà a parlare di Gaza, tema su cui non è mai stata espressa una condanna compiuta ed è evidente un certo imbarazzo che ha a che fare con Israele e col timore di assumere una postura troppo autonoma con Trump. Ma, nello specifico del famoso calendario, c’entra ancor di più la riforma della giustizia. C’è poco da fare: neanche se cade il mondo, si può rallentare un iter a tappe forzate di una riforma, ad impatto simbolico, concepita come una storica resa dei conti con le toghe. L’obiettivo è farla approdare in Aula entro l’11 giugno, arrivare al voto finale entro fine mese anche tagliando i tempi di discussione sugli emendamenti. A quel punto si procede con la “doppia conforme” prevista per le leggi costituzionali (un passaggio alla Camera e al Senato per un sì o un no senza entrare più nel merito), dunque approvazione definitiva entro ottobre. A quel punto referendum confermativo. La fretta è tale che si è deciso di non mettere mano al testo, per non rallentare l’iter desiderato, neanche sui punti in odore di incostituzionalità, come il famoso “sorteggio” dei membri laici del Csm. I “ritocchi” si faranno con legge ordinaria in un secondo tempo. Insomma, è la priorità assoluta. E questo ci racconta la storia più grande. La riforma della Giustizia è una priorità perché è un “simbolo”, e i “simboli” sono quasi tutto nell’epoca della politica “social”, molto attenta ai propri follower più che al governo e alle sue realizzazioni. A maggior ragione per il populismo che si nutre di un racconto - Donald Trump in questo è un maestro - che agisce su ciò che viene percepito più che sul principio di realtà. Anzi, è un “simbolo” che tiene dentro più piani di racconto. Innanzitutto, quello di un governo che realizza le riforme. Con l’Autonomia che non si farà mai, dopo che è stata azzoppata dalla Corte, e il premierato inabissato (fino a fine legislatura) è l’unica riforma davvero a portata di mano. Anche perché è quella dove la ghirba è meno soggetta a pericoli: sul premierato si rischia, in un eventuale referendum, di fare la fine di Renzi, sull’Autonomia si rischiano i voti al Sud, questa riforma ha l’avversario più debole, visti i livelli di popolarità dei giudici nel paese (mica siamo ai tempi di Antonio Di Pietro e Francesco Saverio Borrelli). L’altro piano di racconto, appunto, ha a che fare con la cultura del “nemico”, che è un altro classico del populismo, che si nutre della retorica “contro”. Il populista non parla in positivo, non sorride, non invita a vedere il futuro con ottimismo. E non è questione di carattere. Il populista ha una postura marziale per definizione, promette rivoluzioni. C’è sempre un nemico da abbattere o lo spettro di chi trama nell’ombra per impedirle. E dunque il problema non è che l’Albania è un modello che non funziona, sono le toghe che lo rendono impraticabile. Il problema non è la gestione del caso Al-Masri, ma i giudici che “vogliono governare”. Insomma: non siamo noi che non riusciamo a governare, sono le perfide toghe che ce lo impediscono. Un nemico perfetto. E lo spartito è perfetto perché tiene insieme diverse “tradizioni”, antiche e nuove: il vecchio berlusconismo che praticava impunità e il nuovo trumpismo che, in nome dell’unzione popolare, si sente libero di scardinare qualunque vincolo istituzionale. E infatti è l’unico argomento della maggioranza dove sono convintamente tutti d’accordo. Ed è l’unico punto del programma elettorale non soggetto a variazioni in corso d’opera. Anche perché è a costo zero, non soggetto alle ristrettezze del nuovo patto di Stabilità. Perfetto pure questo. Nel Belpaese dei pm di Massimo Lugli Il Foglio, 16 maggio 2025 Il caso Garlasco, quello Resinovich, l’altro di Pierina. Cosa si agita dietro alle indagini diventate show televisivi montati ad arte da giornalisti-polemisti, incapaci di raccontare, ma solo di schierarsi. Siamo tutti pubblici ministeri. Potrebbe essere il titolo di un nuovo gioco di società e farebbe furore, altro che Monopoli reloaded. Tra processi mediatici, inchieste delle “Iene”, perquisizioni in diretta, interrogatori in differita, conduttori e conduttrici che giocano a Vostro Onore, avvocati, criminologi, criminalisti, psicologi, magistrati scodellati in tutti i tg, una ventata di giustizialismo sembra agitare le platee televisive e infiammare i social. Dal caso Garlasco a quello di Rimini, dall’omicidio di Nada Cella alla morte di Liliana Resinovich è un continuo di accuse, illazioni, veleni, gossip, teorie e contro teorie. C’è voluta la morte di un Papa e l’elezione di un altro per mettere a tacere, momentaneamente, questo continuo cicaleggio investigativo ma è durato pochi giorni. Una settimana al massimo senza il noir a colazione, pranzo e cena e poi si ricomincia peggio di prima. I grandi gialli, si sa, hanno sempre appassionato specie quando il nome della vittima finisce in “a” e c’è un presunto colpevole da assolvere o crocifiggere. I giornali formato lenzuolo degli anni 60, in pieno boom economico, con le pubblicità della Cinquecento e della Moplen, grondavano sangue: i coniugi Bebawy, Christa Wanninger, Wilma Montesi (un fatto di nera destinato a tracimare nella politica), Maria Martirano riempivano pagine su pagine con pezzi di cinque cartelle firmati da giganti della nera e della giudiziaria come Ugo Mannoni, Paolo Graldi, Giuseppe Rosselli, Paolo Zardo, Lino Canu… Una generazione di giornalisti cresciuta e formata da capicronisti carogna col mito delle tre “esse” che fanno vendere i quotidiani: sesso, sangue e soldi. Davanti ai palazzi di giustizia, in attesa della sentenza, si riunivano spesso folle paragonabili a quelle dei pellegrini in attesa della fumata bianca. E allora? Cos’è cambiato? Semplicemente tutto. Prendiamo il caso più recente, quello del delitto di Garlasco, tanto per fare un esempio. Sentenza definitiva dopo quattro processi: Alberto Stasi è colpevole, s’è beccato sedici anni, oggi è semilibero, in fondo non gli è andata neanche troppo male, pratica archiviata e stop. Neanche per sogno. Dopo aver tentato inutilmente di far riaprire il processo, gli avvocati del condannato s’improvvisano detective, puntano su un amico di famiglia che era stato lambito dalle indagini come gli altri, appena un testimone da ascoltare e tanti saluti, riescono a impossessarsi del suo Dna tramite una tazzina di caffè, lo fanno analizzare, spediscono i risultati in procura ma niente da fare… La magistratura risponde no grazie. Qualche anno dopo Andrea Sempio, un po’ appesantito e sballottato dappertutto, con un’espressione da agnello sacrificale, ormai trentasettenne, finisce di nuovo nel tritacarne: indagato per concorso in omicidio. Concorso con chi? Con Stasi che a malapena incontrava per strada? Forse, oppure con ignoti, vedremo. Sta di fatto che l’indagine riparte al galoppo: a ogni interrogatorio c’è un plotone d’esecuzione di telecamere e fotografi, ogni intercettazione viene sciorinata a “Storie Italiane” o “Quarto Grado”, le “Iene”, innocentiste da sempre, ci mettono il carico da undici, scovano supertestimoni rimasti in silenzio per diciotto anni “per paura” (di chi? perché?), riesumano storie già viste, personaggi già passati al setaccio e screditati tornano in auge come supereroi: l’operaio che puntò il dito contro una vicina per poi ammettere di essersi inventato tutto (testuale) o il maresciallo condannato a due anni e sei mesi per falsa testimonianza e depistaggio. Un bel colpo di spugna sul passato e di nuovo in pista mentre all’orizzonte si profila una nuova figura professionale: l’indagato a vita. E di Liliana Resinovich ne vogliamo parlare? La signora, 62 anni, fisico filiforme, frezza chiara nel caschetto castano, esce di casa il 14 dicembre 2021 e non torna più. La ritrovano morta il 5 gennaio nel parchetto dell’ex ospedale psichiatrico, un posto che conosceva e frequentava, infilata in due sacchi di plastica e soffocata con un sacchetto stretto al collo da un cordino. Suicidio, sentenziano gli esperti, anomalo quanto volete ma non ci sono dubbi. Motivo? Salta fuori una strana storia di amore clandestino con un ex fidanzato di 83 anni destinato a diventare più popolare di Gabriel Garko, una faccenda di messaggini in codice e visite domestiche per stirare le camicie mentre il marito, una specie di alpino con barbetta e coppola sempre in testa, giura che non ne sapeva nulla. La signora, arrivata al bivio drammatico della scelta tra i due uomini, avrebbe scelto la via d’uscita più drammatica. Ma i parenti, comprensibilmente, non ci stanno, respingono la richiesta di non luogo a procedere e l’indagine viene riaperta. Tre anni di chiacchiere e fuffa, una nuova perizia che smentisce la prima e attesta l’omicidio, il marito indagato trasformato nel presunto uxoricida più odiato d’Italia. Alluvioni di veleno, bombardamenti di insinuazioni mentre i protagonisti della telenovela di Trieste corrono affannosamente da uno studio televisivo all’altro e diventano figure familiari da chiamare, affettuosamente, per nome: Sebastiano, Claudio, Sergio, Gisella. In diretta da “Unomattina” a “Porta a Porta”, passando per tutte le trasmissioni immaginabili da Mediaset a La7. Se qualcuno ha ancora qualche dubbio sul suicidio, soprattutto in considerazione del fatto che la seconda perizia è stata fatta sulle carte, visto che il corpo non esisteva più e che un tecnico ha ammesso di aver provocato per errore una delle fratture analizzate è meglio che taccia: omicidio è politically correct, suicidio diffamazione. Querele a raffica. Altro giallo da prima pagina e prima visione: Pierina Paganelli, la signora Testimone di Geova pugnalata a morte nel suo garage di Rimini il 4 ottobre dello scorso anno. Un’altra storia di sesso e adulterio: il bel Louis Dassilva, operaio senegalese con un passato di ex militare e un fisico da atleta, sposato con Valeria, se la faceva con Manuela, una relazione di incontri frettolosi e sussurri lubrichi sul pianerottolo. Louis (attenzione, spettatori distratti, non confondiamolo con Loris, fratello di Manuela) finisce in galera e ci resta in attesa del processo. Le due matrone, entrambe con stazza da mediomassimo e sempre fresche di truccoparrucco, battibeccano, si insultano, si minacciano in tivù ma presto l’attenzione si sposta su quello che dovrebbe essere un personaggio secondario della saga: Davide Barzan, capelli pettinati con le bombe a mano, vago accento emiliano (“venghi in studio”), criminalista. Alzi la mano chi, prima di tutta ‘sta storia, sapeva cos’è un criminalista. Non un criminologo, che è un’altra cosa. Vabbè, per dirla in soldoni, è quello che analizza la scena del crimine e fa le sue deduzioni quasi sempre per una delle parti civili. Sta di fatto che Barzan, onnipresente, sorridente, caustico o accigliato, sfiora il record di gradimento di Mike Buongiorno ai bei tempi del “Rischiatutto”, qualcuno lo crede avvocato, qualcuno perito balistico o chissà che altre cose. Poi cade la mannaia delle “Iene” (una delle pochissime trasmissioni a cui si era rifiutato di partecipare, forse l’unica) che lo fanno, letteralmente a pezzi nel giro di due settimane. Sparito. Per sapere che fine ha fatto bisognerebbe rivolgersi alla Sciarelli. Louis il senegalese, intanto, prosciugato da uno sciopero della fame, resta in carcere. Ma torniamo al passato, anzi, rientriamoci di corsa visto che ormai, più che di cold case si sviscerano casi di preistoria criminale, si rivanga addirittura nei misteri degli Anni di piombo: Fausto e Iaio, i militanti del centro sociale Leoncavallo, assassinati nel 1978 o la sparatoria di Cascina Spiotta, 5 giugno 1975, in cui rimasero uccisi la brigatista rossa Mara Cagol, moglie di Renato Curcio e l’appuntato Giovanni D’alfonso. Fascicoli polverosi che quasi si sbriciolano in mano. Reperti conservati alla bell’e meglio, come si faceva allora, senza la minima attenzione a congelare la scena del crimine: ci ritrovi le impronte di poliziotti, magistrati, medici legali, giornalisti, tutti a mani nude a toccare, calpestare, inquinare. Funzionava semplicemente così. A indagare, spesso, magistrati che all’epoca dei fatti imparavano la tabellina del 3 sui banchi della scuola elementare. Ma allora, se la nera è sempre stata traino portante dei media, se è vero che in libreria si compra (poco) solo true crime, se non c’è una serie tv senza serial killer, femminicidio o delitto adolescenziale, la differenza rispetto a mezzo secolo fa in cosa consiste? In fondo il feuilletton non era che un giallo a puntate pubblicato sui giornali e le nobili origini del noir letterario risalgono niente meno che a Edgar Allan Poe con “I delitti della Rue Morgue” o a Fedor Dostoevskij con “Delitto e Castigo”, niente di nuovo sotto il sole. La differenza c’è ed è enorme: oggi non si racconta, si accusa o si difende. Imparzialità, equidistanza… che roba sono? Ci si schiera. Si partecipa. Si polemizza. Ci si arrabbia. L’ospite televisivo perfetto è quello con la bava alla bocca che digrigna i denti anche perché, come è noto, in televisione si parla per slogan: poche frasi assertive secche come schioppettate prima che ti tolgano la parola o ti interrompano. Provare ad articolare un ragionamento è come cercare di impilare una fila di bicchieri durante un terremoto. Impossibile. E intanto la diretta genera l’indotto: instant book, romanzi a tema, pay tv, produzioni che vendono alle emittenti interminabili trasmissioni a puntate sui grandi gialli, mancano solo i gadget tipo magliette e berrettini. Perfino la politica non disdegna di dare una mano: gettonatissime (in tutti i sensi) le commissioni parlamentari che si occupano di grandi casi irrisolti come Emanuela Orlandi e Simonetta Cesaroni da cui ci si aspettano soluzioni improbabili. Quella sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, tra l’altro, si chiuse con l’indicazione di una pista (il furto delle pizze del film “Salò”) che era stata esaminata e scartata quasi subito dagli investigatori. Farlocca. E allora? Il problema sono i media? O chi li usa? Forse un ripasso generale di norme deontologiche ci starebbe tutto? E l’ordine dei giornalisti? Se c’è batta un colpo. E’ possibile raccontare l’interrogatorio della mamma di Sempio senza infliggerle un assalto mediatico tale da farle venire un coccolone? Si può sorvolare su certi dettagli intimi che, prima ancora della privacy offendono il buon senso e la reputazione della vittima? Chi ne approfitta? Avvocati furbastri, esperti e periti a tassametro, conduttori in fregola per l’audience? Beh, una risposta non ce l’ho… I giornalisti hanno il privilegio di illustrare un problema senza proporre una soluzione e lo rivendico ma, a questo punto, mi tocca buttarla sul personale. Probabile obiezione di chi (grazie di cuore) è arrivato fino a questo punto nella lettura: ma, scusi, lei non è quel tizio che vediamo spesso da Eleonora Daniele o Bruno Vespa e che ha scritto brutti romanzi sul giallo di via Poma, sul Canaro della Magliana, su Mafia capitale, su Emanuela Orlandi? Predica bene e razzola male? Sì. No. Parliamone. Verissimo, chi scrive è un autore true crime. Ma i romanzi sono opere di fantasia, ispirate dalla realtà certamente, ma sempre di fantasia come è scritto in copertina a caratteri cubitali. La cronaca è una cosa, la letteratura un’altra… o almeno così dovrebbe essere. Ma chi se lo ricorda? È la tivù, bellezza. È possibile raccontare l’interrogatorio della mamma di Sempio senza infliggerle un assalto mediatico? La lezione della Cassazione: ostatività superata, ma i paletti sono saldi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 maggio 2025 La prima Sezione Penale della Cassazione ha annullato con rinvio l’ordinanza col quale il Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila aveva concesso la semilibertà a Giuseppe Guglielmino, condannato all’ergastolo sin dal 1996 per plurimi reati di stampo mafioso, sei omicidi, soppressione di cadavere e detenzione illegale di armi. Questa sentenza dimostra che, anche dopo la caduta dell’ostatività, i paletti per la concessione dei benefici restano stringenti. Una dimostrazione di come furono strumentali gli allarmismi contro la Consulta che dichiarò incostituzionale il divieto assoluto dei benefici a chi non collabora con la giustizia. Così come, è un fatto, che le concessioni di tali benefici passano sempre a un vaglio accurato. Guglielmino, ritenuto al vertice del clan Laudani (Mussi ri ficurinia), egemone del territorio nella provincia di Catania e su parte della provincia di Messina, aveva visto accogliere dal Tribunale aquilano la sua richiesta di semilibertà sulla base di buona condotta carceraria, percorso rieducativo regolare e disponibilità a svolgere attività socialmente utili. Il Procuratore Generale aveva però impugnato quei rilievi, segnalando come fossero stati ignorati i pareri negativi della Direzione Distrettuale Antimafia di Catania (26 settembre 2023 e 13 agosto 2024) e la relazione del Nucleo investigativo dei Carabinieri di Catania del 13 febbraio 2023, in cui si evidenziava la persistenza dei collegamenti mafiosi e un tenore di vita familiare sproporzionato rispetto alle fonti lecite. Sul piano normativo, la Corte ricorda l’intervento del decreto legge 162/ 2022, convertito nella legge 199/ 2022, che separa nettamente i detenuti collaboranti da quelli non collaboranti: per questi ultimi, col reato di associazione mafiosa, è scattato un onere di “istruttoria rafforzata” per dimostrare non solo il ravvedimento e l’impegno civile, ma soprattutto l’assenza di collegamenti attuali e di ogni rischio di ripristino dei legami criminali. Chi, come Guglielmino, ha commesso i fatti prima della data di entrata in vigore del decreto - e perciò non rientra nelle nuove modalità più gravose - beneficia tuttavia di taluni alleggerimenti procedurali, a patto che il giudice ne verifichi compiutamente le condizioni. La Cassazione punta il dito contro la formulazione sintetica e “apodittica” adottata dal Tribunale di Sorveglianza: le motivazioni sulla mancata valutazione degli elementi negativi (pareri Dda e relazione Carabinieri), sulla carenza di prove di definitiva dissociazione mafiosa e sul rischio di riattivazione di contatti criminosi sono giudicate insufficienti. Al medesimo modo vengono bollati come “programmi solo prospettati” i progetti di risarcimento alle vittime e di giustizia riparativa, non sostenuti da concreti atti di impegno. Inoltre, la Corte sottolinea come, per la concessione della semilibertà, non basti la buona condotta in carcere, ma occorra anche la “presa di coscienza” attraverso un’analisi critica del passato e un concreto ravvedimento, elementi richiamati dalla giurisprudenza di legittimità sin dal 1993. La decisione di revocare il regime di alta sicurezza (41bis) nel 2010 e l’assenza di carichi pendenti non possono compensare l’omessa istruttoria su queste premesse fondamentali. Per queste ragioni la Cassazione ha annullato l’ordinanza impugnata e ha disposto il rinvio per un nuovo giudizio al Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila, invitando il giudice di secondo grado a integrare la motivazione sui punti segnalati, in particolare a verificare in modo puntuale l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata e il reale percorso di ravvedimento dell’interessato. Firenze. Sollicciano, sospensione annullata all’ex direttrice “Ma io lì non ci torno” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 16 maggio 2025 L’ex direttrice punita: “Il Tar è stato chiaro, degrado del carcere non per colpa mia”. Era stata sanzionata e sospesa dall’incarico di direttrice di Sollicciano dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a causa delle condizioni degradanti del carcere fiorentino. Adesso però, il Tar della Toscana ha accolto il ricorso dell’ex dirigente, Antonella Tuoni contro il provvedimento disciplinare, sostenendo di fatto che le drammatiche condizioni in cui versa il penitenziario non sono da imputare a lei, bensì proprio al Dap. Il tribunale amministrativo, come anticipato ieri da La Nazione, condanna il ministero alla restituzione delle somme trattenute sullo stipendio di Tuoni. Sarà poi calcolato il risarcimento del danno, che si attesterà sui 30 mila euro. “La sentenza si commenta da sola - dice Tuoni - è scritto in maniera chiara e incontrovertibile che c’è stato un comportamento colpevole in spregio dei principi di imparzialità, correttezza e buona amministrazione da parte di chi si è reso responsabile dell’applicazione del provvedimento disciplinare nei miei confronti”. Tuoni ha affrontato mesi difficili: “A livello umano non è stato semplice perché, come hanno sempre ripetuto i miei avvocati, sono stata vittima di una grave ingiustizia, è grave che succedano certe cose in un apparato statale, il principio di buona amministrazione è stato disatteso”. Quanto a un possibile reintegro nel carcere di Sollicciano, ha le idee chiarissime: “Non sono interessata a ritornare, quel carcere è una bomba a orologeria viste le condizioni in cui versa. Aldilà delle dichiarazioni non mi risulta che ci siano miglioramenti, mi auguro soltanto che il nuovo direttore o la nuova direttrice arrivi presto”. Adesso il Dap potrebbe fare appello al Consiglio di Stato, che potrebbe confermare o ribaltare il pronunciamento del Tar. Sul caso è intervenuta anche la sindaca di Scandicci Claudia Sereni: “Troviamo davvero grave il provvedimento disciplinare emesso verso la ex direttrice Tuoni, come se lo Stato cercasse capri espiatori e avesse tentato di nascondere le proprie responsabilità. Le vittime di tutto questo sono la società intera, i detenuti e i lavoratori che in quel carcere operano ogni giorno”. E poi annuncia una visita a Sollicciano: “Torneremo nel carcere il 22 maggio, questa volta per visitare le zone detentive e renderci personalmente conto dello stato delle cose e delle esigenze più urgenti, insieme ad una delegazione politica del consiglio comunale”. E infine: “Il sottosegretario Delmastro ha assicurato che i fondi per Sollicciano, già previsti da tempo, arriveranno, come anche un direttore, noi nel frattempo teniamo la luce accesa”. Soddisfazione per la sentenza del Tar viene espressa anche da Eros Cruccolini, garante dei detenuti del Comune di Firenze: “In questi mesi - dice - abbiamo visto snocciolare solo impegni di milioni per ristrutturare il carcere facendo confusione anche sulle risorse messe dalla Regione”. Il governo, dopo la visita di Dalmastro nel carcere, ha annunciato lo stanziamento di 7,5 milioni anche per progetti di ristrutturazione, che però ancora non sono stati spiegati nel dettaglio. Genova. Niente metal detector e cani antidroga per i bambini che vanno a trovare il papà detenuto di Michela Bompani La Repubblica, 16 maggio 2025 Entrano da un accesso riservato, nello Spazio Barchetta, progetto unico in Italia: un pool di operatori e educatori aiuta i minori figli di detenuti, che lo Stato non riconosce come soggetti fragili, e supporta anche mamme e papà. Un bambino tiene la mamma per mano: va a trovare papà. Con lei passa attraverso il metal detector, davanti al cane antidroga, sente il frastuono dei cancelli a sbarre che si aprono e chiudono. E poi arriva allo spazio colloqui, nel carcere. Nonostante questo, lo Stato non lo riconosce come soggetto fragile. A Genova, però, c’è un percorso diverso, e unico in Italia, che i minori figli di detenuti fanno per incontrare il proprio papà. Ha appena concluso la sperimentazione e sta per essere diffuso nelle altre case circondariali della Liguria. All’ingresso, mentre la mamma fa tutte le procedure dei “grandi”, i bambini che entrano nel carcere maschile di Marassi passano in uno spazio tutto per loro, che non solo ha le pareti colorate e giochi e libri e pennarelli, ma dove trovano sempre, 255 giorni all’anno, due operatori di un pool di undici specialisti composto da educatori, assistenti sociali e psicologhe, che li accolgono, giocano con loro, li ascoltano. Parlano anche con le mamme e le aiutano ad accedere alla rete dei servizi, perché è difficile essere genitori soli. E parlano con i papà, perché è complesso continuare a essere genitore in assenza di libertà. Ispirato allo Spazio giallo di Bollate, precedente italiano che però non prevede attività con educatrici e per gli adulti, “con lo Spazio Barchetta abbiamo voluto costruire un modello d’intervento per i minori figli di detenuti, perché non siano più soli a gestire un processo complicato e traumatico come l’ingresso in carcere - spiega Vanessa Niri, Arci Genova, coordinatrice e ideatrice dello spazio - lo abbiamo fatto in una stanza adiacente all’ingresso di Marassi, con una porta sulla strada, così i bambini entrano direttamente, evitando il trauma degli oltre 40 minuti di procedure di ingresso e creando uno spazio in cui qualcuno pensa ai bambini. Dove ci sono persone preparate che li aspettano, hanno voglia di giocare e stare con loro”. Ogni mese nel carcere maschile di Genova si registrano circa 130 ingressi di minori. Il progetto, nato prima del Covid, poi interrotto dalla pandemia, ora si fa più grande, germogliando nelle altre case circondariali della Liguria, ed è al centro del seminario “Figli e genitori oltre la detenzione. Modelli d’intervento per aiutare a trasformare la relazione tra famiglie, carceri e territorio”, che da questa mattina alle 9 si svolgerà alla Biblioteca universitaria di Genova, in via Balbi 40. Lo Spazio Barchetta, proprio per essere efficace con i bambini, lavora moltissimo anche con i genitori: “Gli educatori ascoltano e aiutano le mamme, su problematiche emotive o organizzative, come una banale iscrizione al nido - prosegue Niri - abbiamo coinvolto una rete di oltre dieci realtà del terzo settore per estendere le possibilità di supporto. Non esistono iscrizioni né prenotazioni: chi entra è accolto”. Poi ci sono i papà detenuti, per cui il progetto organizza incontri e gruppi di parola: “E ogni due mesi quello spazio si sposta dentro il carcere, per le giornate genitori-figli, nel campetto o nel teatro interni, per alcune ore di “genitorialità normale”, ogni volta coinvolgiamo cento persone”. L’ampliamento dello Spazio Barchetta si chiama “La semina dei sogni”, ha come capofila il Cerchio delle relazioni: “Questo progetto rappresenta un’evoluzione importante del lavoro avviato - dice Elisabetta Corbucci, psicologa e coordinatrice del Cerchio delle Relazioni - la nostra azione continuerà a mettere al centro i bambini, troppo spesso invisibili perché non dichiarati o non riconosciuti nei contesti detentivi. Lo faremo su due assi: quello interno al carcere e quello della comunità esterna, coinvolgendo le figure adulte significative, genitori, educatori per riconoscere bisogni e diritti dei bambini”. La nuova fase del progetto durerà 4 anni, coinvolgendo 500 minori e 400 famiglie liguri. E punta a cambiare pelle: “Crediamo che dopo dieci anni di sperimentazione con i figli dei detenuti sia necessario condividere una metodologia di lavoro sulla genitorialità che consideri i bambini i beneficiari diretti del progetto - sottolinea Niri - avere assistito all’arresto del papà o avere il papà in carcere è una bomba atomica nella loro vita, ma non sono riconosciuti come soggetti fragili in quanto figli di detenuti. Dobbiamo darci strumenti per farlo, come privato sociale e pubblico, dobbiamo riuscire a strutturare un intervento uniforme a supporto della loro situazione traumatica”. Arienzo (Ce). I Garanti Ciambriello e don Saggiomo incontrano i detenuti della casa circondariale Il Mattino, 16 maggio 2025 “Ci hanno chiesto più misure alternative e più permessi premio per il diritto all’affettività”. Oggi il garante campano dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, insieme al neo-garante della provincia di Caserta, don Salvatore Saggiomo, hanno fatto visita al carcere di Arienzo dove sono stati accolti dalla direttrice Annalaura De Fusco e dal comandante Michele Mitti. Nella Casa di Reclusione i garanti hanno incontrato una delegazione di detenuti, una buona parte di loro partecipano al progetto di scrittura creativa e comunicativa, promosso dall’associazione Seven Half Lab, alla visita era presente anche il presidente Paola Ortolani. La Casa di Reclusione di Arienzo oggi ospita 97 detenuti, più 4 impegnati in lavori di pubblica utilità presso il comune di Arienzo e di San Felice a Cancello. Attualmente nel carcere è stato avviato un laboratorio teatrale dell’associazione Ciak Teatro Azione promosso dal garante campano dei detenuti. All’uscita del carcere i garanti Ciambriello e Saggiomo hanno dichiarato: “È stato importante ascoltare congiuntamente una delegazione di detenuti insieme alla Direttrice, al Comandante, all’Educatrice e agli esperti, in un dialogo franco e costruttivo. I detenuti si sono soffermati su due questioni importanti, la prima riguarda come far aumentare in questa casa di reclusione le misure alternative al carcere e l’altra su come intensificare permessi premi anche per rendere proficuo la sentenza 10/2024 sull’affettività della Corte Costituzionale e la recente circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che fa riferimento alle linee guida sull’applicazione, in tutti i 190 Istituti dell’Italia, della sentenza anche attraverso l’intensificazione dei permessi premio per garantire questo diritto. Foggia. “Il tempo di cambiare” al carcere uno spettacolo teatrale interpretato dai detenuti foggiacittaaperta.it, 16 maggio 2025 Giovedì 22 maggio alle 10 e alle 15 presso il teatro del Carcere di Foggia andrà in scena lo spettacolo “Il tempo di cambiare”, interpretato proprio detenuti del penitenziario. È frutto del progetto “La liberazione interiore attraverso il teatro” sostenuto dalla Fondazione dei Monti Uniti, dalla Camera Penale di Capitanata, dall’Ordine degli Avvocati di Foggia, dal Rotary Club Foggia e Foggia Capitanata, e dall’Inner Wheel di Foggia. È il risultato di un progetto coinvolgente, iniziato a settembre 2024, in cui i detenuti hanno partecipato attivamente a tutte le fasi della creazione, dalla scrittura alla messa in scena, passando per la scenografia e i costumi. Accolto con entusiasmo dalla direttrice della cc di Foggia, dott.ssa Giulia Magliulo e dall’aerea trattamentale dell’istituto di pena. Sotto la regia e la sceneggiatura di Daniela d’Elia, con le coreografie e l’aiuto regia di Fausta Maiorino, lo spettacolo si propone di esplorare le sfide e le speranze di uomini in cerca di redenzione. Attraverso una potente combinazione di recitazione e movimenti corporei, i protagonisti condividono storie di lotta interiore, rifiuto e accettazione, affrontando il dilemma tra rimanere prigionieri delle proprie scelte o abbracciare la possibilità di un nuovo inizio. Ogni scena rappresenta un viaggio emotivo che invita il pubblico a riflettere sulla lotta per la libertà e sulla forza di ricostruire la propria identità. Con linguaggio evocativo e coreografie coinvolgenti, “Il tempo di cambiare” mira a ispirare non solo i partecipanti, ma anche gli spettatori, dimostrando che anche nei momenti più bui, speranza e trasformazione sono sempre possibili. L’iniziativa ha suscitato l’interesse dell’assessore alla sicurezza e alla legalità del Comune di Foggia, Giulio De Santis, che ha inserito lo spettacolo nella programmazione ufficiale della manifestazione “La città che vorrei. Una bussola per la legalità”, promossa dall’Università degli Studi di Foggia. Treviso. Parole oltre le sbarre: la voce di Jamel dall’Ipm di Catia Paluzzi gnewsonline.it, 16 maggio 2025 Il testo è stato scelto tra i tanti realizzati dai ragazzi nelle attività del laboratorio di scrittura che si è tenuto nell’Istituto Penale per i Minorenni di Treviso, nell’ambito di un percorso educativo e riabilitativo che vuole promuovere nei giovani detenuti la riflessione critica su sé stessi e sulle proprie esperienze di vita. A firmarlo è Jamel, un giovane detenuto che ha deciso di raccontarsi con coraggio e sincerità, offrendo una testimonianza autentica e personale e ponendo al centro il tema dell’identità e del cambiamento. Il testo scritto con un linguaggio diretto ed essenziale rappresenta il tentativo di esprimere la complessità del vissuto individuale e la volontà di riscatto. Questo racconto si inserisce in un più ampio processo di responsabilizzazione e consapevolezza, che trova nella scrittura uno strumento educativo capace di favorire introspezione, confronto e possibilità di rielaborare la propria storia. In un contesto caratterizzato da fragilità, marginalità e condizionamenti sociali, la voce dell’autore si configura come testimonianza di un percorso in divenire, segnato dal riconoscimento degli errori e dal desiderio di cambiamento. “Io non sono quello che pensi”; nel titolo una dichiarazione forte, quasi un grido che rompe il silenzio spesso imposto dallo stigma e dal pregiudizio. Attraverso parole dirette e autentiche, ci invita a guardare oltre l’etichetta del reato, a riconoscere la complessità delle storie individuali, segnate da solitudini, errori e mancanze, ma anche da desiderio di rinascita. Jamel non accampa giustificazioni né chiede pietà: chiede ascolto e lo fa con la forza di chi ha scelto di mettersi in gioco, di riconoscere i propri sbagli e di cercare una nuova strada. Leggere il suo testo significa compiere un gesto semplice ma potente, offrire a un giovane una possibilità, quella che tutti - come lui stesso scrive - meritano almeno una volta nella vita. L’elaborato, pur nella sua dimensione personale, sollecita una riflessione più ampia sul ruolo dell’istituzione penale minorile, sull’importanza delle opportunità educative e sull’urgenza di uno sguardo capace di andare oltre l’apparenza. Torino. Il teatro di chi a teatro non ci va di Elisabetta Cibinel secondowelfare.it, 16 maggio 2025 Lo spettacolo “Ottantaquattro pagine”, scritto dai detenuti del carcere di Torino, racconta la lettera di un giovane assassino che 100 anni fa ha cercato riscatto e perdono. Un’opera profonda e coinvolgente, dietro la quale c’è molto lavoro che merita di essere raccontato. Lo scorso 14 dicembre a Torino è stata una giornata particolarmente fredda, probabilmente la più fredda dell’autunno fino a quel momento. Chi verso le 20 di quel sabato sera fosse capitato dalle parti di corso Massimo avrebbe assistito a una scena insolita: decine di persone in coda - ognuna con la sua nuvoletta di vapore - davanti alla porta d’accesso di una sede dell’Università di Torino, evidentemente fuori orario. A poco a poco la fila si è accorciata e le persone hanno trovato posto sulle panche di legno della vecchia aula magna di anatomia. Eravamo tutti lì per assistere a uno spettacolo di teatro. A metà dicembre è andato in scena per la prima volta Ottantaquattro pagine, la più recente opera della compagnia teatrale “Teatro e Società” che - tra le sue molte attività - lavora nella Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino (chiamata dai torinesi semplicemente: le Vallette). Ottantaquattro pagine è uno spettacolo scritto a partire da una lettera lunga 84 pagine, datata 4 maggio 1919 e conservata nell’archivio del Museo di Antropologia criminale Cesare Lombroso. Il documento raccoglie il pentimento e l’autobiografia di un giovane colpevole di aver ucciso una donna ed è rivolto proprio ai parenti della sua vittima. L’archivio conserva solo la lettera: non si sa se sia effettivamente arrivata ai suoi destinatari o se abbia mai ricevuto risposta. Su quella lettera si sono basate le attività dei laboratori di Teatro e Società all’interno delle Vallette, che fanno parte del progetto nazionale Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza1. Abbiamo parlato di Ottantaquattro pagine e, più in generale, del fare teatro in carcere con Claudio Montagna, regista e direttore artistico di Teatro e Società. Da sempre Montagna lavora con attori e in contesti particolari perché - racconta - “mi è sempre piaciuto occuparmi del teatro di chi a teatro non ci va. E quindi di una teatralità diffusa, ecco, potremmo dire popolare. O, forse, universale”. Lo spettacolo è davvero unico e straordinariamente efficace nella sua capacità di comunicare e trasmettere emozioni e vissuti. I vissuti dell’autore della lettera, ma anche quelli delle persone detenute che prendono parte alle attività di Teatro e Società. I partecipanti dei laboratori hanno concorso attivamente alla costruzione dello spettacolo. Praticamente “non c’è una parola di quello che diciamo nello spettacolo che non sia stata scritta, autentica, da questo ragazzo (l’autore della lettera, ndr)”, sottolinea Montagna. Tra le poche eccezioni vi sono per esempio degli haiku2, composti dai detenuti nell’ambito dei laboratori. Sebbene il testo fosse in buona parte già scritto, inoltre, è stato necessario immaginare la sceneggiatura e la regia per adattarle alle peculiarità di questa compagnia teatrale: “per esempio bisognava trovare il modo di creare un protagonista. Il protagonista è un ragazzo (l’autore della lettera, ndr). Mentre qui abbiamo uomini adulti”. Per aggirare questo ostacolo l’opera si appoggia a diversi formati e media (per esempio componimenti musicali e proiezioni foto e video) ed è composta da molte voci e lettori fuori campo che danno voce all’autore della lettera senza dargli un viso. Per rendere concreta la storia, però, si è pensato anche a un altro stratagemma: “abbiamo inventato di recuperare questo ragazzo da vecchio, con un profondo senso di colpa irrisolta. Il ragazzo, ora diventato vecchio, viene minacciato da un ragazzino e, nel confronto con questo giovane, ha la possibilità redimersi”. Un palcoscenico insolito - Probabilmente lo spettacolo è risultato ancora più suggestivo grazie al particolarissimo luogo in cui è stato rappresentato: l’aula magna di autonomia dell’Università degli Studi di Torino. È un palcoscenico evocativo di per sé, ma lo è ancor di più sapendo che si trova nello stesso edificio del Museo di Antropologia criminale Cesare Lombroso, dal cui archivio proviene la lettera. Questa ampia raccolta contiene decine e decine di “scritture non comuni”, ovvero lettere e autobiografie di persone arrestate, detenute o ricoverate in manicomio. Come racconta il sito web del Museo “la scienza dell’epoca riteneva che lo studio di questi elaborati assolvesse funzioni diverse: determinare l’autenticità di una testimonianza; rivelare i sintomi di una malattia mentale; stabilire il grado di responsabilità penale di un imputato”. L’aula magna di questo edificio è diventata il palcoscenico perfetto per rappresentare questa vicenda, eppure l’opera non era stata concepita per questa modalità: solitamente la compagnia Teatro e Società propone i suoi spettacoli all’interno delle Vallette. Il motivo è ben sintetizzato da Montagna: “noi abbiamo sempre concepito il nostro teatro come occasione di incontro tra la città e il carcere”, dunque è importante che la città possa entrare nel carcere per partecipare alle rappresentazioni. Come vedremo oltre, però, per Ottantaquattro pagine questo genere di rappresentazione non è stato possibile (almeno finora). Tutte le iniziative di teatro in carcere fanno i conti con questa complessità e incertezza, come ci ha raccontato tempo fa il regista e drammaturgo Armando Punzo3. Quando l’abbiamo intervistato per Intrecci ci ha spiegato che il lavoro quotidiano di chi fa teatro in carcere è di fatto una costante negoziazione. Tanto che, quando le 16 compagnie coinvolte in Per Aspera ad Astra si incontrano nella masterclass di alta formazione che si tiene ogni anno, una parte significativa dei confronti e delle formazioni si concentra proprio su aspetti pratici come la gestione del pubblico esterno o i rapporti con l’autorità carceraria. Come racconta nel podcast Punzo: “ognuno deve discutere col direttore, deve avere rapporti col proprio commissario, con i propri attori, con la propria città, col proprio sindaco, le proprie associazioni. (…) E ognuno poi riesce a ottenere quello che riesce a ottenere”. La prima di Ottantaquattro pagine avrebbe dovuto andare in scena nell’ottobre 2024 alle Vallette ma, con pochissimi giorni di preavviso, le autorità hanno ritenuto che non ci fossero le condizioni di sicurezza per poter aprire le porte del carcere alla città (per quanto a un numero molto limitato di spettatori, preventivamente controllati). “Quando entra pubblico esterno in carcere - racconta Montagna - il comandante deve mobilitare un alto numero di agenti perché garantiscano la sorveglianza”. Pertanto la decisione di far accedere esterni al carcere rientra nella discrezionalità dell’amministrazione, che può decidere di revocarla in qualsiasi momento. La situazione è cambiata solo di recente: per la settimana prossima sono previste 4 rappresentazioni di Ottantaquattro pagine presso le Vallette, tra il 19 e il 22 maggio. Lavorare insieme - Il 2024 è stato segnato da proteste nelle carceri di tutta Italia. Questi episodi hanno radici oggettive nel sistema carcerario italiano, contraddistinto da problemi cronici di sovraffollamento e da una profonda inadeguatezza delle condizioni di vita all’interno (specialmente nel corso dell’estate). La realtà torinese è particolarmente complessa: nel suo ultimo sopralluogo (novembre 2024) l’associazione Antigone ha certificato un tasso di sovraffollamento del 137,4%. Secondo i dati del Ministero della Giustizia (aggiornati al 13/05/2025) la Casa Circondariale ha 1.117 posti regolamentari, di cui 30 non disponibili, e ospita in totale 1.412 detenuti. A fronte di 762 agenti di polizia penitenziaria previsti il personale effettivamente presente è pari a 695 unità. “Non so quali possano essere le soluzioni” - riflette Montagna - “ma onestamente credo che si tratti di un problema politico” più ampio, che dovrebbe essere affrontato a livello nazionale una volta per tutte. E su cui anche la società non deve tirarsi indietro: “quando i cittadini vanno in carcere a vedere lo spettacolo piangono e si trasformano in persone assolutorie. Ma poi - prosegue Montagna - quando succede qualcosa sembra che la soluzione sia sempre ‘ti sbatto dentro e butto la chiave’”. Nell’autunno del 2024 l’amministrazione carceraria ha ritenuto che non ci fossero le condizioni per poter aprire a un pubblico esterno le porte del carcere (per il teatro, ma anche per attività sportive e di altro genere che solitamente si svolgono all’interno). Alla luce di questa situazione la disponibilità del Museo Lombroso a ospitare alcune rappresentazioni a dicembre è parsa davvero provvidenziale. Ma questo ha comportato la necessità di adattare lo spettacolo perché non avrebbero potuto prendervi parte gli attori detenuti per cui e da cui era stato scritto, visto che non avevano il permesso di uscire dal carcere: nella rappresentazione sono stati coinvolti dei volontari ex detenuti o beneficiari di misure alternative alla detenzione. Non è facile immaginare quanto possa essere complicato e frustrante lavorare in un contesto in cui gli imprevisti sono talmente probabili da essere considerati ordinari, e talmente rilevanti da comportare la necessità di riadattare nel giro di pochi giorni uno spettacolo che è stato costruito nell’arco di un anno. O anche l’eventualità che uno spettacolo preparato con impegno e professionalità alla fine non venga mai messo in scena. Per chi è abituato a fare questo lavoro, però, le cose funzionano così: le attività di Teatro e Società non si sono fermate e, pur non avendo ancora messo in scena lo spettacolo dell’annualità precedente, la compagnia ha già iniziato a lavorare a un nuovo spettacolo. In una situazione così complicata avere una solida rete di relazioni territoriali può davvero fare la differenza: la collaborazione con enti come il Museo Lombroso ha reso possibile la nascita stessa dello spettacolo. D’altra parte Teatro e Società collabora con numerose altre realtà, prima fra tutte la Fondazione Compagnia di San Paolo, che garantisce da decenni un sostegno economico. La compagnia teatrale collabora strettamente anche con il Fondo Musy, un’iniziativa molto nota e apprezzata a Torino, nata a seguito dell’omicidio del politico torinese Alberto Musy. “Per dare una dimensione costruttiva al ricordo dopo la tragica scomparsa di Alberto”, si legge sul sito, il Fondo promuove progetti di vario genere dedicati al reinserimento sociale delle persone detenute. L’attività del Fondo è sostenuta dalle donazioni di cittadini, enti privati e dalla Fondazione Compagnia di San Paolo (che ogni anno raddoppia l’ammontare delle donazioni ricevute). Il Fondo Musy è costituito presso la Fondazione Ufficio Pio4, che garantisce le competenze professionali per l’accompagnamento dei beneficiari. Imparare un mestiere? La decennale relazione con la Fondazione Compagnia di San Paolo si è ulteriormente sviluppata quando è nato il progetto Per Aspera ad Astra, attivo in 16 carceri italiane nella promozione di percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro. L’iniziativa, come abbiamo approfondito qui, è promossa dal 2018 da Acri (l’Associazione delle Fondazioni di origine bancaria) e sostenuta da 12 Fondazioni di origine bancaria. Sebbene le attività di Teatro e Società siano iniziate decenni prima che nascesse Per Aspera ad Astra, lo spirito che anima le due iniziative è lo stesso: “condividiamo l’idea che il teatro sia la liberazione attraverso la bellezza. Ma anche la formazione attraverso la bellezza”, sintetizza Montagna. Per Aspera ad Astra ha una fortissima vocazione alla formazione professionale: l’idea è che attraverso i mestieri del teatro si possano formare i detenuti in modo che acquisiscano competenze che potranno poi spendere una volta liberi. Non solo nel campo della recitazione, ma nella sartoria, nella falegnameria, nella cura del suono e delle luci, ecc. Secondo Montagna l’ingresso della compagnia in Per Aspera ad Astra, per esempio, ha comportato una sistematizzazione dei molti insegnamenti che già erano previsti nei laboratori: “ora i partecipanti hanno coscienza del fatto che seguono delle discipline scolastiche, e alla fine della frequenza c’è un attestato di partecipazione al corso”. L’impatto dei laboratori di Teatro e Società sul percorso di vita del singolo non può che essere limitato. Anche questo rientra nei vincoli del fare teatro in carcere: le Vallette sono una Casa Circondariale, cioè un istituto in cui sono detenute le persone in attesa di giudizio o quelle condannate a pene inferiori ai 5 anni (o con un residuo di pena inferiore ai 5 anni). “Noi lavoriamo con detenuti di passaggio, che restano qui magari per un anno, due o tre al massimo. Non ci possiamo porre nella prospettiva di insegnare la professione di attore”. L’esperienza di Teatro e Società - e di Per Aspera ad Astra - va però molto oltre le competenze formalmente certificate grazie ai corsi. Per esempio “chi lavora con noi impara a parlare, impara a improvvisare, impara a volte perfino a leggere letture complesse”. La portata del teatro in carcere è però ancora più grande: “il carcere è una realtà cittadina, ma in fondo, anche solo geograficamente e topograficamente, è a margine (il carcere di Torino è nella periferia nord della città, ndr). E il teatro può essere quel linguaggio che favorisce la comprensione degli uni rispetto agli altri”. Una cosa che Ottantaquattro pagine fa straordinariamente bene. Referendum, il dovere civico (non l’obbligo) di partecipare di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 16 maggio 2025 La consultazione dell’8 e 9 giugno: l’astensione è contemplata e legittima. Ma segna un’ulteriore avanzata del disinteresse verso lo stato del Paese. Si è parlato parecchio di consigli su come impiegare i prossimi 8 e 9 giugno: stare a casa, passare il tempo con i figli per chi li ha, concedersi una vacanzina. Si è discusso pochissimo, al limite del niente, delle materie per cui saremo chiamati ad esprimerci proprio quell’8 e 9 giugno. Eppure sono temi tutt’altro che marginali. Quattro riguardano il lavoro, con questioni relative a sicurezza, licenziamenti, contratti a termine, appalti. Uno, la cittadinanza per gli stranieri, che prevedrebbe la riduzione da 10 a 5 gli anni per ottenerla, in linea con Francia, Germania, Paesi Bassi e tanti altri. Sono referendum abrogativi, come quasi tutti quelli tenuti in Italia dal 1946, e quindi hanno necessità di raggiungere il 50 per cento degli aventi diritto per essere validi. Il modo da sempre più rapido per disarmare gli effetti di un referendum, salvo disattenderne a posteriori gli esiti, è che si spenga da solo, cancellato dall’agenda per assenza di quorum. A parte la parentesi ad alto tasso di partecipazione tra il 1974 e il 1995 (divorzio, aborto, finanziamento pubblico ai partiti), da allora solo 4 su 29 sono riusciti nell’impresa. E tutto lascia intendere che la tornata che tra poco ci attende non alzerà la media, con sobria soddisfazione della maggioranza di governo che avrà così mandato a vuoto un disturbo proposto in parte dalla Cgil (i quesiti sul lavoro) e in parte da una composita alleanza di forze politiche e sociali (tra cui +Europa, Possibile, i Radicali). Non è la prima volta che i potenti di turno sbeffeggiano i tentativi di riforme dal basso. Nel 1991 Bettino Craxi, figura allora centrale non solo del governo Andreotti, invitò gli italiani ad andare al mare davanti alla proposta di una modifica del sistema elettorale avanzata da Mario Segni, che cominciava col ridurre le preferenze. Finì con un 62,5 di votanti, un plebiscito di sì e di fatto rappresentò l’inizio della crisi della Prima Repubblica. Vent’anni dopo, nel 2011, Berlusconi premier spinse per l’astensione su nucleare e acqua pubblica: 27 milioni e mezzo di italiani votarono invece a favore, quasi il 55 per cento. Anche Matteo Renzi definì una bufala il referendum sulle trivelle, appellandosi anche a un giudizio più argomentato dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Vinse Renzi con ampio margine, e qui lo ricordiamo soltanto perché il parere di Napolitano è stato tirato in ballo in questi giorni come esempio che anche le Alte Cariche possono dire la loro su referendum e dintorni. Si potrebbe obiettare che Napolitano stava parlando da ex Presidente, e non da capo dello Stato. E che le parole che consegnò allora a Repubblica erano state un po’ forzate allo scopo: “Se la Costituzione prevede che la non partecipazione della maggioranza degli aventi diritto è causa di nullità, non andare a votare è un modo di esprimersi sull’inconsistenza dell’iniziativa referendaria”. La libertà di voto è un diritto così fondamentale e così esteso che contempla anche il suo contrario: il diritto a non votare, con tutte le conseguenze di caso in caso. Trattandosi di referendum con quorum la conseguenza è totale e, da come si prospetta, letale. Ne sarà pago Ignazio La Russa, presidente del Senato in carica, che per primo e dalla postazione più alta ha inaugurato il fronte, ormai sempre più affollato, del “meglio non votare”. E non c’è niente di incostituzionale a sostenerlo, a parte un paio di considerazioni. La prima è proprio relativa alla Carta e alla sua lungimiranza. Articolo 48: “L’esercizio del voto è un dovere civico”. Non un obbligo, si badi bene, ma un impegno che i cittadini sono invitati a rispettare nello spirito di contribuire alla costruzione di quell’Italia che proprio la Costituzione immagina come un progetto in divenire, da migliorare per tenere il passo con le sfide che la modernità avrebbe proposto. La seconda considerazione è più contingente. Non è mistero, tantomeno per chi governa e comanda, che la curva della partecipazione somiglia al grafico di un’azienda in crisi. Alle Europee del 2024, per la prima volta nella storia della nostra Repubblica ha votato meno del 50 per cento, record assoluto (per adesso). E le Politiche del 2022 hanno registrato l’affluenza più bassa tra tutte le elezioni dei grandi Paesi dell’Unione europea: 64 per cento, con il partito che ha vinto, Fratelli d’Italia, che ha ottenuto il 26 per cento di quel 64 (16 italiani su 100, più o meno). Che la deriva sia questa, e non solo da noi, non è un dato ineluttabile ma un problema con cui misurarsi, specchio di una sfiducia sempre più diffusa nella politica, forse anche nelle istituzioni, sfiducia nella possibilità che il proprio voto abbia un qualche effetto rispetto ai cambiamenti ritenuti necessari o indispensabili. E allora sto a casa, come sbrigativamente mi consigliano. Ecco, l’8 e 9 giugno rischia di succedere un’altra volta proprio questo: un ulteriore invito a lasciare fare a chi se ne intende, a non preoccuparsi di cose che vanno gestite in altro modo e in altri luoghi. È una discesa a balzi verso una democrazia prosciugata della sua linfa vitale, cioè la partecipazione attiva, tornare a votare, disturbare il manovratore ogni volta che lo si ritenga necessario. Si profila invece una vittoria fasulla: l’astensione è contemplata, pienamente legittima, ma segna un’ulteriore avanzata del disinteresse verso lo stato del Paese e il suo futuro prossimo. Meglio sarebbe consigliare altro: chi non è d’accordo con i 5 quesiti referendari, vada ai seggi e scriva 5 no. Magari informandosi un po’ prima di che cosa si tratta, che è un diritto saperlo, non una irrispettosa pretesa. Il Servizio Pubblico, cioè la Rai, sarebbe lì anche per quello. I referendum abrogativi e gli appelli all’astensione che sviliscono la democrazia di Vitalba Azzollini* Il Domani, 16 maggio 2025 L’invito al non voto, pur legittimo, svilisce la sovranità popolare, che si esprime anche attraverso uno strumento che rende protagonisti i cittadini, qual è il referendum abrogativo. Chi fa propaganda per l’astensione, inoltre, evita di entrare nel merito dei quesiti. Ma il popolo può ritenersi costituzionalmente “sovrano” in quanto pienamente informato. Come può essere giudicata l’astensione in occasione di un referendum abrogativo, per la cui validità è necessario il raggiungimento del quorum del 50 per cento più uno degli aventi diritto? È legittimo non votare, come lo è anche il mero invito a non recarsi alle urne, e in questi anni lo hanno fatto politici di diversi partiti. È inopportuna, se pur lecita, la propaganda per l’astensione se proviene da un esponente delle istituzioni, che così dimostra di non tenere in nessun conto il “dovere civico” del voto, e dunque l’articolo 48 della Costituzione. Non per questo, tuttavia, la democrazia ne risulta compromessa: se il cittadino decide di non votare a seguito di meri inviti, non si può dire che la sua volontà sia stata coartata. Certo, in un paese con un tasso di astensionismo sempre più alto, soggetti istituzionali dovrebbero fare di tutto per incentivare la partecipazione, e non scoraggiarla. Lo svilimento della democrazia diretta - Ciò premesso, il richiamo all’astensione sembra svilire la sovranità popolare, principio fondamentale ai sensi dell’articolo 1 della Costituzione. In una democrazia rappresentativa il popolo si esprime attraverso gli eletti, ma in determinati casi può farlo senza intermediazioni. Il referendum abrogativo, strumento di democrazia diretta, consente ai cittadini di essere protagonisti e vincola il legislatore al rispetto della loro volontà. L’invito di alcuni politici a non recarsi alle urne sembra svilire tutto questo, perché chiede al popolo di esprimersi senza esprimersi, di esercitare un potere attraverso l’indifferenza. Una contraddizione rispetto alla ratio dell’istituto. Inoltre, pur essendo legittima - lo si ribadisce - l’astensione non è contemplata dalle disposizioni in materia di referendum. Pertanto, anche se essa produce lo stesso risultato del voto negativo, giuridicamente non è corretto equipararla a quest’ultimo. Sovranità popolare poco informata - Chi fa propaganda per l’astensione di solito evita di entrare nel merito dei quesiti referendari, reputando evidentemente superfluo che le persone si formino un’opinione motivata su temi per i quali non voteranno. La conseguenza è che l’astensione stessa diviene espressione di una posizione politica cui si aderisce per fede o tifo, più che per effettiva cognizione delle argomentazioni sottostanti. Anche per questo motivo l’invito a non votare pare uno svilimento del dettato costituzionale, oltre che delle capacità cognitive dei cittadini. Il popolo può ritenersi costituzionalmente “sovrano” in quanto sia pienamente informato, quindi consapevole. Pertanto, chiedere ai cittadini di esercitare la sovranità attraverso l’astensione, affinché la loro scelta di non recarsi al seggio renda impossibile il raggiungimento del quorum, appare un espediente poco rispettoso del “conoscere per deliberare” di einaudiana memoria. Espediente che, tra l’altro, finisce per ricomprendere nelle fila del No anche quelli che non vanno alle urne per disinteresse o pigrizia. Referendum e risorse pubbliche - Qualcuno afferma che il referendum sia solo espressione di una faida interna al Partito democratico - la linea del Pd è il Si anche ai quesiti contro il Jobs act voluto dallo stesso Pd, allora guidato da Matteo Renzi, ma una minoranza del partito si asterrà su quei quesiti - e che, pertanto, esso rappresenterebbe uno spreco di denaro pubblico. L’argomentazione non regge. Dopo il vaglio dell’Ufficio centrale e della Corte costituzionale, la richiesta di referendum abrogativo - qualunque ne sia il motivo politico - diviene pienamente legittima, quindi meritevole di essere sottoposta al giudizio del popolo, e ad essa vanno destinate le risorse necessarie. È, comunque, singolare che sia considerato uno spreco quanto serve all’esercizio di un diritto costituzionalmente previsto, e non ad esempio il trasferimento di migranti in Albania, a un costo di circa dieci volte superiore rispetto a quello dei Cpr in Italia. Il doppiopesismo, insomma, non è solo quello di chi in passato invitava all’astensione, e ora la demonizza. Zan: “La situazione dello stato di diritto in Italia è disastrosa. Sta diventando una democratura” di Marta Di Donfrancesco L’Espresso, 16 maggio 2025 L’eurodeputato del Pd dopo la riunione del gruppo di lavoro della commissione Libe del Parlamento europeo: “C’è un governo che a tappe forzate sta cercando di comprimere le libertà fondamentali”. Diritti che arretrano per la comunità Lgbtqia+, spyware nei cellulari dei giornalisti, dl sicurezza, continui attacchi della classe politica ai magistrati, controllo della Rai da parte del governo. Tutti elementi che, secondo l’eurodeputato Pd Alessandro Zan, membro della commissione Libe del Parlamento europeo sullo stato di diritto, fanno sì che “l’Italia stia diventando una democratura”. Le conclusioni, appunto, sono state tratte dalla riunione del gruppo di lavoro della commissione Libe. “È emerso un quadro non solo preoccupante, ma disastroso dell’Italia. C’è un governo che a tappe forzate sta cercando di comprimere le libertà fondamentali attraverso querele temerarie nei confronti dei cronisti, giornalisti che vengono spiati da spyware come Paragon, magistrati attaccati nella loro indipendenza, la comunità Lgbtqia+ che arretra nei diritti, lo abbiamo visto oggi nella road map di Ilga dove l’Italia al 35º posto: è l’ultimo Paese fondatore dell’Unione europea in quanto a discriminazione nei confronti della comunità Lgbtqia+”. Il rischio paventato da Zan è che si possa diventare come la “democrazia illiberale” che è l’Ungheria sotto la guida di Viktor Orbán. L’Italia, ha rincarato, “non è più una democrazia liberale come l’abbiamo conosciuta finora. Mi aspetto che il governo Meloni tra un po’ vieterà i Pride anche in Italia”. E ha poi attaccato la vicinanza della premier all’omologo magiaro: “Giorgia Meloni non si fa i selfie con Orbán solo per simpatia, ma soprattutto per un patto politico, quello di indebolire l’Europa”. Di fronte agli esiti dell’audizione a porte chiuse sulla situazione dello stato di diritto in Italia del Gruppo di monitoraggio (Drfmg), “l’Europa non può stare a guardare, ma deve introdurre delle condizionalità anche economiche perché non ci può essere nessun accordo quando vengono violati i diritti fondamentali e viene violato lo stato di diritto”, ha affermato Zan. All’incontro hanno partecipato anche anche il direttore di Fanpage, Francesco Cancellato, spiato dal software di Paragon, Graphite, il giornalista e conduttore di Report Sigfrido Ranucci, Alessia Crocini, presidente di Famiglie Arcobaleno, l’avvocata Roberta Parigiani, la Procura europea (Eppo), Libera e l’Associazione nazionale magistrati. I vari episodi di limitazione delle libertà fondamentali fanno temere che il Paese stia virando verso una “recessione democratica”, ha commentato ancora Zan, poiché la maggioranza di centrodestra le comprimerebbe “attraverso denunce e querele temerarie nei confronti dei giornalisti”. La loro limitazione passerebbe anche dall’operato di Palazzo Chigi, in particolare con il decreto sicurezza “che costruisce dei reati ad hoc contro gli attivisti climatici e contro i lavoratori che non potranno più riunirsi e aggregarsi per manifestare”. Anche la gestione della tv pubblica è peggiorata, secondo quanto dichiarato da Zan in un’intervista a Fanpage: “La Rai, che dovrebbe essere servizio pubblico, è ridotta a megafono del governo. Non è neanche più TeleMeloni, oramai siamo all’Istituto Luce. È un segnale di quanto temano il confronto e l’informazione libera”. Nel mese di ottobre 2024, la commissione per le Libertà civili, la giustizia e gli affari interni (Libe) del Parlamento europeo aveva deciso di rinnovare il mandato del suo Gruppo di monitoraggio sulla democrazia, lo stato di diritto e i diritti fondamentali (Drfmg). È presieduto dalla vicepresidente del Parlamento europeo di origine belga, Sophie Wilmès, del gruppo Renew. Il Gruppo può intervenire su situazioni specifiche se ritenuto necessario dalla maggioranza dei suoi membri, ponderata in base al numero di membri effettivi del loro gruppo politico all’interno della Commissione Libe. Il suo lavoro resta fondamentale per garantire il rispetto dei principi democratici dell’Unione europea. Durante questa legislatura, il gruppo si è occupato della situazione dello stato di diritto a Malta, in Slovacchia e in Ungheria. Dopo l’Italia, sarà il turno della Bulgaria e poi della Grecia. Migranti, i Governi non incidono sui giudici di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 16 maggio 2025 Il governo danese, con l’appoggio di quello italiano, starebbe preparando una protesta contro l’orientamento adottato dalla Corte europea dei diritti umani nella decisione dei ricorsi presentati da migranti. È uscita la notizia che il governo danese, con l’appoggio di quello italiano, starebbe preparando una protesta contro l’orientamento adottato dalla Corte europea dei diritti umani nella decisione dei ricorsi presentati da migranti contro i governi per provvedimenti di espulsione. La notizia è ancora molto preliminare e generica. Come sarà redatta la protesta? Quali altri governi la condivideranno? A quale istituzione verrà indirizzata? Alla Corte o al Consiglio d’Europa di cui la Corte è espressione? Al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa o alla sua Assemblea parlamentare? Vi sono precedenti che possono essere richiamati e che hanno portato alla riforma della Convenzione europea dei diritti umani. Per esempio, con la introduzione nel suo Preambolo del principio di sussidiarietà dell’intervento della Corte e il riconoscimento del margine di apprezzamento nazionale nelle modalità di tutela dei diritti e libertà previsti dalla Convenzione. Si tratta di un principio già elaborato dalla Corte, ma gli Stati parte della Convenzione hanno voluto rafforzarlo enunciandolo espressamente. La Corte europea tiene conto del c. d. consenso europeo, in funzione dell’essenziale armonia complessiva nella protezione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione. Ma lo scopo essenziale della Convenzione, fin dalla sua approvazione nel 1950, è quello di escludere da parte degli Stati interpretazioni unilaterali. Ed è per questo che la Convenzione assegna alla Corte la competenza per “tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione”. E la Corte, essendo un giudice, è indipendente ed esterna rispetto agli ordinamenti degli Stati. Essa applica i principi del diritto internazionale, esplicitati dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. Tra essi, il criterio dell’oggetto e dello scopo della Convenzione, identificato nella protezione concreta ed effettiva dei diritti fondamentali, mediante un sistema collettivo di tutela. Protetto è ciascun individuo, quando venga a trovarsi nel territorio di giurisdizione di uno Stato europeo. Fondamentale è il principio che la Convenzione, con i suoi diritti e libertà, riguarda anche gli stranieri. Accade quindi che l’essere oggetto di un provvedimento di espulsione dal territorio dello Stato, sia in conflitto con uno dei diritti della Convenzione. E la Corte da tempo ha espresso criteri che la orientano nel valutare la giustificazione e la proporzione del provvedimento di espulsione del singolo straniero ricorrente. Si tratta di criteri che considerano la differenza esistente tra provvedimenti conseguenti alla condotta dello straniero (in particolare la commissione di reati più o meno gravi) oppure decisioni che derivano da generali politiche migratorie assunte dagli Stati. Ma sempre la decisione della Corte è motivata dalla valutazione della specifica situazione del ricorrente. Particolarmente significativa è la sentenza, che sarebbe all’origine della reazione danese rispetto all’orientamento della Corte. Si tratta della recente (unanime) sentenza nella causa di Zana Sharafane contro la Danimarca. Il ricorrente era oggetto di espulsione, decisa dai giudici danesi con divieto di rientrare in Danimarca per sei anni. L’espulsione accompagnava una condanna a due anni e sei mesi di reclusione per spaccio di droghe. La Corte ha ritenuto che nel caso concreto il divieto di rientro fosse senza termine, per effetto della legislazione danese per chi si trovi nelle condizioni del ricorrente. E, per quella mancanza di termine, ha ritenuto che l’espulsione fosse sproporzionata. Il ricorrente, curdo irakeno nato e cresciuto in Danimarca ove viveva con genitori e parenti, parlava danese e anche curdo, ma non era mai andato in Irak, paese con cui non aveva alcun legame. La sentenza della Corte europea ha riconosciuto la violazione del diritto del ricorrente al rispetto della vita privata e familiare radicatasi in Danimarca (senza però alcun indennizzo), per la sproporzione del divieto di rientro, sostanzialmente senza termine dopo l’espulsione. Il caso mette bene in evidenza il carattere “casistico” della giurisprudenza della Corte europea. Le sue sentenze valgono per il caso specifico: quella del Sharafane è evidentemente legata al dettaglio della posizione individuale. La Corte è stata istituita per proteggere “diritti concreti e effettivi, non teorici e illusori”. Certo, quando si tratta di valutare la proporzione di una interferenza statale in un diritto della Convenzione la decisione può essere discutibile. Salvo i casi estremi, lo è in ogni specifica vicenda. Ma il principio della proporzione è centrale in ogni aspetto della Convenzione. L’iniziativa danese riguarda la giurisprudenza della Corte in materia migratoria. Essa renderebbe impossibile o difficile la messa in opera delle politiche proprie dei governi. E sarebbe inadeguata rispetto all’attuale realtà delle migrazioni. In realtà la Corte è stata istituita per tutelare singoli individui in relazione a specifiche vicende. I governi si occupano di altra cosa, come sono le politiche generali, in questo caso quella migratoria. La prospettiva è diversa, anche se evidentemente vi sono connessioni. Un fenomeno come quello migratorio è fatto di tanti individui migranti, ma gli strumenti che i governi e i giudici sono chiamati ad utilizzare sono diversi. Ineliminabili gli uni e gli altri, così come gli effetti che ne derivano. Il rispetto per le persone e per i loro diritti, anche quando entra in conflitto con le leggi o le politiche degli Stati, è uno specifico carattere dell’Europa. Identità che la caratterizza e differenzia da ogni altra parte del mondo. Singole sentenze o l’orientamento generale adottato dai giudici europei sono certo oggetto di legittime critiche e proposte di modifica. In fin dei conti sono gli Stati che hanno redatto e approvato la Convenzione europea dei diritti umani. Così gli Stati possono modificarla. Purché il risultato non finisca con l’escludere il significato della titolarità dei diritti e libertà fondamentali da parte di ciascuna persona, anche nei confronti degli Stati. La Corte Penale Internazionale alla Libia: “Arrestate e consegnateci Almasri” Il Domani, 16 maggio 2025 Il procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha chiesto al procuratore generale libico di arrestare Osama Najim Almasri e autorizzare il suo trasferimento all’Aia per consentirne il giudizio. Svolta inattesa nel caso Almasri. Karim Khan, procuratore della Corte penale internazionale, ha chiesto ufficialmente al procuratore generale della Libia, Siddiq Al Sour, di procedere all’arresto di Osama Najim Almasri e autorizzare il suo trasferimento all’Aia per consentirne il giudizio. Il 19 gennaio 2025 era stato arrestato a Torino su mandato proprio della Cpi, che lo accusa di crimini di guerra e contro l’umanità. Ma il 21 gennaio, la Corte d’appello di Roma lo aveva rilasciato per un vizio procedurale permettendo la sua fuga in Libia. La richiesta - La richiesta del procuratore internazionale è avvenuta nel corso della sua relazione semestrale al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite sulla situazione in Libia. Khan ha denunciato le gravi violazioni dei diritti umani commesse nei centri di detenzione in Libia, definiti una vera e propria “scatola nera della sofferenza” sul Mediterraneo. Durante il suo intervento, il procuratore ha poi dichiarato che la Corte dispone di testimonianze e prove documentali raccolte da fonti eterogenee, tra cui testimonianze della società civile e contenuti provenienti dai social media, che attestano le condizioni disumane in cui versano migliaia di detenuti. In particolare, il procuratore ha puntato il dito contro le strutture di detenzione controllate da milizie armate, attive sia nella Libia occidentale che in quella orientale, dove sarebbero praticate torture sistematiche, detenzioni arbitrarie e sparizioni forzate. Secondo Khan, l’attenzione della Corte si concentra su diversi comandanti di milizia sospettati di essere direttamente coinvolti in questi crimini. Il procuratore ha inoltre riferito che sono in corso iniziative concrete per colpire economicamente i responsabili, attraverso il sequestro dei beni e il congelamento dei fondi detenuti all’estero. Tali misure, ha precisato, si inseriscono in una strategia più ampia volta a garantire giustizia alle vittime e a porre fine all’impunità diffusa nel paese nordafricano. La vicenda - Lo scorso 19 gennaio il generale libico Almasri, su cui pendeva un mandato d’arresto della Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità, è stato arrestato a Torino - dove era arrivato il giorno prima dalla Germania con un’auto presa a noleggio su mandato della Corte dell’Aja. Due giorni dopo la Corte d’Appello di Roma non ha convalidato l’arresto a causa di un cavillo giuridico che il ministro della Giustizia Carlo Nordio, avvisato sin da subito dell’arresto, poteva sanare. Un vizio di forma che, pertanto, è rimasto: lo stesso giorno del rilascio Almasri viene ricondotto in Libia sul volo gestito dai servizi segreti. Sul caso indaga anche la Corte penale internazionale. Medio Oriente. Accettare una sconfitta parziale, unica via per arrivare alla pace di Gabriele Segre La Stampa, 16 maggio 2025 Israele vince sul campo e perde in termini di immagine, per Hamas è il contrario. Le due parti devono capire che non possono cogliere una vittoria su ogni fronte. Che si occupi di Ucraina o attraversi il Medio Oriente, come ha fatto questa settimana, dovremmo ormai aver imparato che le promesse visionarie e le minacce altisonanti di Donald Trump vanno accolte con la massima prudenza. Non sono dichiarazioni di principio, ma l’espressione di una convinzione tanto profonda quanto carica di rischi: anche le ideologie più rigide e le identità più radicate possano essere piegate alla logica della trattativa, purché sostenuta da sufficiente pressione e determinazione. Nel caso del conflitto tra Israele e Hamas, tuttavia, potrebbe non bastare, né a conseguire una tregua duratura, né, tanto meno, a costruire una pace. Perché ciò accada, serve un atto di coraggio estremo, che finora nessuno degli attori coinvolti si è mostrato disposto a compiere: una riflessione lucida, da entrambe le parti, su che cosa voglia dire davvero vincere - e soprattutto perdere - la guerra. Capire cosa significhi subire una sconfitta è meno scontato che interrogarsi sulla vittoria. Tra i generali a quattro stelle circola un detto: “La guerra finisce quando le mie truppe si accampano nel tuo palazzo presidenziale”. Ma cosa accade quando quel palazzo non esiste e nessuno è disposto a firmare una resa? In quei casi, perdere non è un evento, ma ancor prima una sensazione. Non riguarda soltanto l’esito militare, ma un’erosione profonda, che scava nella società, nell’identità, nella storia. Nel drammatico quadrante del Mediterraneo sud-orientale, si può dire che, oggi, israeliani e palestinesi abbiano perso entrambi, seppur in modo diverso. Certo, in Israele, le opinioni sulla guerra restano radicalmente divise. Per alcuni, è un fallimento strategico e politico che non giustifica l’enorme prezzo pagato in termini di dolore, vite spezzate e isolamento internazionale. Per altri, proprio quel prezzo rende impossibile fermarsi ora: occorre andare fino in fondo, per non rendere vano il sacrificio. In ogni caso, è diffusa l’idea che una parte degli obiettivi militari sia stata raggiunta: la liberazione di parte degli ostaggi, l’indebolimento di Hamas, e i colpi inferti all’asse iraniano con la riduzione della minaccia di Hezbollah in Libano e la caduta di Assad in Siria. Tuttavia, accanto alle valutazioni sui risultati militari, si fa strada anche un’altra amara consapevolezza: Israele non ha perso solo vite umane, ma una parte essenziale di se stesso. Ai successi sul terreno corrisponde infatti una perdita simbolica e ideale: lo spirito originario del progetto sionista - basato su solidarietà, giustizia e legittimità internazionale - è stato eroso e le divisioni interne, la frattura con l’opinione pubblica globale, la solitudine politica pesano quanto una sconfitta. Per i palestinesi, è invece la perdita materiale ad essere sotto gli occhi di tutti: una sconfitta gridata dalle macerie di Gaza, dalle case rase al suolo a Jenin, dalle decine di migliaia di morti e dalla condizione, rinnovata, di popolo profugo. Eppure, c’è chi ha considerato questa devastazione umana e materiale come il prezzo per un trionfo ideale: il rilancio di un progetto politico radicale e il ritorno della causa palestinese, a lungo dimenticata, al centro del dibattito mondiale. Così, in un paradosso quasi speculare, Israele vince militarmente, ma sperimenta il senso della sconfitta che paralizza ogni visione di futuro in pace; Hamas perde sul campo, ma rivendica una vittoria simbolica. Gaza è stata sacrificata dal movimento islamista per dimostrare la propria forza ideale; Israele, nel tentativo di distruggerlo, ha finito per incrinare il proprio progetto fondativo. L’errore delle leadership di entrambe le parti è credere che una vittoria parziale possa tradursi in trionfo complessivo. Netanyahu e i suoi alleati pensano di ritrovare lo spirito nazionale grazie alle conquiste sul terreno. Hamas scommette che il consenso ottenuto a livello globale si tradurrà, prima o poi, in successo strategico. Si tratta, in entrambi i casi, di illusioni. Perché vincere a metà non permette di cancellare la sconfitta. Il conflitto potrà davvero finire solo quando tutte le parti avranno il coraggio di riconoscere anche ciò che hanno perso. Ed è questo il compito cruciale a cui è chiamata la comunità internazionale - in particolare l’Europa, che ha fatto dell’elaborazione della sconfitta una parte essenziale della propria identità: far capire a tutti che questa guerra non potrà concludersi con alcuna parata della vittoria. Israele potrà davvero vincere la sua battaglia solo se saprà abbracciare la “cultura della perdita”, trovando in quella consapevolezza la forza per ricostruire i valori alla radice della sua identità politica collettiva. Dal lato palestinese, riconoscere la propria sconfitta significherà poter avviare una ricostruzione reale: delle case, delle vite, di un popolo travolto dalla storia. Viviamo però in un mondo in cui, nostro malgrado, la forza domina ancora la relazione con l’altro, e in cui essere gli unici ad aver perso equivale a un’umiliazione inaccettabile. Perché la logica della sconfitta possa avere un senso, essa non può essere unilaterale: solo se entrambe le parti, allo stesso tempo, sapranno riconoscere ciò che hanno perso, si potrà davvero sperare, un giorno, di ritrovarsi. Medio Oriente. A Gaza non c’è più tempo di Martina Marchiò* La Stampa, 16 maggio 2025 La guerra cambia i lineamenti delle persone. Forse perché ne modifica lo sguardo, lo rende perso, forse un po’ più spento, rendendo gli occhi più piccoli e cerchiati. Le persone che hanno visto la guerra le riconosci dallo sguardo che qualche volta si perde e dalla capacità di tendere l’orecchio per ascoltare cosa accade lontano. Qui a Gaza le persone iniziano ad avere gli occhi cerchiati, molte si trascinano per la strada, alcune mi guardano facendo con la mano il gesto di portare qualcosa alla bocca per indicare che hanno bisogno di cibo. Spesso abbasso lo sguardo sentendomi colpevole, poi rivolgo un sorriso: “Sorry! Scusa non ho niente da darti” dico con la voce bassa. Quasi sempre la persona comprende e mi sorride. Come si fa a restare occhi negli occhi con chi ha fame e vorrebbe solo mangiare. Nel mondo normale, quello fuori dal muro, c’è un’infinita quantità di cibo. È strano pensare che un semplice muro possa essere decisivo rispetto a chi vive e a chi muore, a chi ha la pancia piena e a chi viene affamato. La maggior parte delle cucine comunitarie ha chiuso, così come i forni. Nelle ultime due settimane nelle cliniche di Medici Senza Frontiere (MSF) a Gaza City abbiamo registrato un aumento del 32% di pazienti che soffre di malnutrizione. Che cos’è la dignità di un essere umano quando neanche i bisogni primari dell’uomo vengono rispettati? Mi sembra impossibile che questo stia accadendo nel 2025 nell’impunità più assoluta. Sono giorni di limbo questi, che mi ricordano ciò che accadde un anno fa mentre ero nel sud della Striscia, durante la mia prima missione a Gaza con MSF, in attesa di scoprire che Rafah sarebbe stata invasa. Nell’aria c’è la stessa sensazione di ineluttabilità e false promesse, con un barlume di speranza che ci spinge ad andare avanti. Nessuno, però, ha più la forza di un anno fa, né le persone né gli ospedali, e tutti vanno avanti stanchi trascinandosi verso un futuro che si spera possa essere migliore. Qualcuno oggi mi ha detto: “Non importa quello che accadrà, qui siamo abituati a rialzarci sempre. Lo abbiamo fatto per decenni e lo faremo ancora”. Parole di resilienza e di forza che per un istante mi hanno dato speranza. Nessuno può sapere ciò che accadrà, ci si prepara a vari scenari possibili sperando che finalmente si possa scrivere la parola fine a questo orrore che va avanti da troppo tempo. Nella notte, dopo gli attacchi, c’è un silenzio surreale, neanche una luce negli edifici e nelle tende intorno a noi. Il silenzio fa paura, soprattutto quando viene spezzato dal boato di un’esplosione un po’ più vicina. Allora quel barlume di speranza sembra lasciarci e ci si ritrova persi. Non c’è più tempo, Gaza non ha più tempo e il mondo deve rendersene conto. *Responsabile medica di Medici Senza Frontiere (MSF) a Gaza Sei mesi senza Alberto Trentini, inghiottito in una cella venezuelana: “Vive per aiutare gli altri” di Laura Berlinghieri La Stampa, 16 maggio 2025 Appelli, petizioni e cortei. Ma il cooperante veneziano, accusato di cospirazione, resta detenuto nel carcere alla periferia di Caracas. Sei mesi senza Alberto Trentini. Sei mesi senza il cooperante 45enne del Lido di Venezia, detenuto senza alcuna spiegazione plausibile in un carcere a trenta chilometri da Caracas. Era il 15 novembre scorso, quando l’uomo è stato fermato a un posto di blocco insieme al suo autista, lungo la strada tra la capitale e Guasdualito, al confine con la Colombia. Aveva sentito la madre poco prima: è stata l’ultima volta in cui questa donna è riuscita a parlare, anche se solo via messaggio, con suo figlio. Da allora si sono susseguiti appelli, petizioni, cortei, giorni e giorni di sciopero della fame. L’Italia ha celebrato la liberazione di Cecilia Sala, tornata a casa proprio nel periodo in cui la famiglia rendeva nota la vicenda di Trentini, dopo il lavoro sottotraccia della diplomazia italiana. Ma Alberto è ancora lì. Detenuto nel carcere El Rodeo I, a Miranda, nella periferia di Caracas: circostanza, peraltro, confermata soltanto di recente. A inizio febbraio, il Venezuela ha dato prova al governo italiano che, in quel momento, Alberto era ancora in vita. Soltanto un paio di settimane fa, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano ha ricevuto, a Roma, la madre di Trentini, Armanda Colusso, e l’avvocata Alessandra Ballerini, che affianca anche la famiglia di Giulio Regeni. Ha assicurato il massimo impegno da parte del governo, perché Alberto possa tornare presto a casa. O, quantomeno, perché vi siano rassicurazioni sulle sue condizioni di salute e siano esplicitati i motivi della sua detenzione. Ma è un enorme groviglio internazionale, che al momento non vede una soluzione. Nelle parole degli amici, Alberto Trentini vive per aiutare gli altri. Con una laurea in Storia moderna e contemporanea all’Università di Venezia, da subito decide di accogliere la sua vocazione, diplomandosi prima in assistenza umanitaria a Liverpool e, poi, conseguendo il master in Water, sanitation and health engineering a Leeds. Come cooperante, gira il mondo: va in Ecuador, poi in Bosnia, quindi in Etiopia, in Paraguay, in Nepal, in Grecia e infine in Perù. Sempre mosso dal desiderio di aiutare chi ha meno di lui. Parte per il Venezuela il 17 ottobre 2024, per conto della ong francese Humanity & Inclusion, per portare aiuti umanitari alle persone con disabilità. Ma l’accoglienza, da parte delle autorità locali, è subito ostile: a farlo presente è lo stesso Alberto, in alcuni messaggi alla fidanzata. È a lei che, il giorno prima dell’arresto, confida l’intenzione di dimettersi dalla ong, per sfuggire a questo clima di tensione. La compagna è una ragazza del posto. E sarebbe proprio lei l’unico, vero legame dell’uomo con il Paese, e non un improbabile disegno cospiratorio contro il regime di Nicolas Maduro, né alcun collegamento con l’intelligence. Eppure, è proprio di cospirazione che il governo venezuelano accusa il cooperante veneziano. Accuse che, in Italia, sono giudicate strumentali. Il 45enne viene fermato il 15 novembre e la sua famiglia viene avvertita la sera del giorno dopo. Centottanta giorni dopo, ancora non ci sono notizie di Alberto Trentini.