Il grido dietro le sbarre di Gabriele Di Luca Corriere della Sera, 15 maggio 2025 Di recente i media hanno riportato una lettera, scritta dall’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, in cui si parlava di carceri. Con evidente cognizione di causa, visto che sta scontando una pena detentiva di un anno e dieci mesi a Rebibbia, il noto politico ha parlato di “celle fatiscenti, ognuna con sei brande a castello, un cesso che sta nella stessa stanza dove si cucina e un lavandino senza acqua calda”. Sono cose note a chiunque si occupi della situazione inerente lo stato miserevole in cui versano tali strutture, e c’è da dire che la descrizione fornita di Alemanno è persino eufemistica. Avrebbe infatti potuto (e forse dovuto) dire che il carcere non è solo un luogo in cui si sta male, sommando alla restrizione della libertà inaccettabili condizioni vessatorie, ma che si tratta di un dispositivo istituzionale votato alla tortura e persino alla soppressione di chi vi è recluso. Numeri desolanti. L’anno scorso, in Italia, i suicidi sono stati novantuno. Dall’inizio del 2025, secondo l’ultimo report del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, il conteggio complessivo è per adesso quello di settantotto decessi: ventidue suicidi, sedici morti per cause ancora da accertare e quaranta per cause naturali. Eppure di queste morti si parla poco. Non sembrano scuotere, come dovrebbero, l’opinione pubblica. C’è un motivo. Ha scritto il giornalista Alessandro Trocino, autore di un toccante libro intitolato “Morire di pena” (Laterza 2025): “I suicidi in carcere sono un tabù, non per ragioni etiche ma strutturali. “Carcer”, la parola latina da cui deriva, significa “recinto”. Il suo scopo è proprio espellere e recintare coloro che non riteniamo degni di appartenere alla nostra comunità o che consideriamo pericolosi. Li confiniamo in un mondo a parte, chiuso, dove non possono vedere altro che uno spicchio di cielo e la ferocia della solitudine. La loro sorte è quella di essere nascosti, dimenticati, seppelliti vivi. Fantasmi. Sono uomini e donne che sottraiamo volontariamente alla nostra vista. Il carcere è una realtà che non vediamo e che non vogliamo vedere”. Così stanno le cose. E per quanto ci ostiniamo a volgere lo sguardo o a tapparci le orecchie, il grido di disperazione che filtra da quelle mura non smetterà di ricordarci la disumanità che consiste proprio nel recintare la vita rendendola impossibile. Il problema, infatti, non è - come spesso si sente dire - quello di rendere le carceri più “accoglienti” o persino “comodi”. Certo, sovraffollamento, mancanza di personale, difficoltà di accedere a misure alternative aggiungono il carico da novanta a condizioni già insopportabili. Eppure il vero nodo non è quello di dotarsi di “nuovi carceri” - e parlando da Bolzano il tema della mancanza di un “nuovo carcere” è ormai un refrain che suscita un misto di nausea e ilarità - ma di superare il paradigma stesso che alimenta e cementifica il senso della loro discutibile ineluttabilità. È probabile ci vorranno forse secoli prima di capire che rinchiudere una persona isolandola dal mondo di relazioni che non siano quelle carcerarie (fatta salva la necessaria e non generalizzabile inibizione di quelle suscettibili a ricreare le condizioni di possibilità del crimine per il quale si è stati condannati) non ha nulla a che vedere con la costruzione di una società pienamente “civile”, perché, al contrario, ne è letteralmente la negazione iscritta nel quadro dell’illegalismo di Stato. Come ha scritto in modo impeccabile Michel Foucault: “La prigione non è lo strumento di cui il diritto penale si è dotato per lottare contro gli illegalismi; è stata uno strumento per risistemare il campo degli illegalismi, per ridistribuirne l’economia, per produrre una certa forma d’illegalismo professionale, la delinquenza, che da una parte doveva pesare sugli illegalismi popolari e ridurli e, dall’altra, doveva servire strumentalmente all’illegalismo della classe al potere. La prigione non è quindi un deterrente alla delinquenza o all’illegalismo, è un ridistributore d’illegalismo” (M. Foucault, Alternative alla prigione, Neri Pozza Editore 2020). Ci vorranno probabilmente secoli per capirlo, dicevo, ma forse un giorno avremo anche in questo ambito ciò che abbiamo raggiunto mediante la benemerita distruzione degli ospedali psichiatrici, un’altra istituzione totale e disumanizzante che ritenevamo ineluttabile. L’Articolo 27 della nostra Costituzione spiegato a Travaglio di Michele Passione* Il Dubbio, 15 maggio 2025 Sostiene Travaglio, e del resto non ci stupiamo, di “non essere mai riuscito a capire perché un condannato per gravi delitti a tot anni debba uscire con largo anticipo per questo o quel permesso; una grave lacuna”. La risposta è semplice; perché lo prevede la Costituzione (dice niente l’articolo 27/ 3?). Prima ancora, la legge ordinaria (ordinamento e regolamento penitenziario; del primo si “festeggiano” i cinquant’anni, ma il nostro eroe non l’ha mai letto, ha troppo da fare a guardarsi allo specchio). Per spiegare ai suoi lettori l’affaire De Maria (quello beneficiato da “certa magistratura buonista e di sinistra, troppo morbida nei confronti di alcuni carcerati che devono scontare le loro pene all’interno del carcere” - De Corato dixit), per il quale “quei magistrati hanno sbagliato e il loro errore va sanzionato (copyright Gasparri), herr direktor fornisce una speciale declinazione del concetto illuminista della certezza della pena, leggendo a modo suo Cesare Beccaria. Vediamo: “Vuol dire che la condanna scritta nella sentenza definitiva deve corrispondere a quella effettivamente espiata. E, se la pena è la reclusione, il condannato deve restare recluso fino all’ultimo giorno della sentenza”. Semplice; manca solo il corollario del marcire in galera, che qualche amico suo ai tempi del Conte uno (e ancora oggi) condivideva con la parte politica cui occhieggia il più puro dei puri. Peccato che per il marchese di Gualdrasco e Villareggio certezza della pena fosse intesa in questi termini: “Uno dei più grandi freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione, che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza della impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre più gli animi umani”. Certezza dunque come effettività ed efficacia. Nei tempi nostri, con le parole degli ultimi due ministri della Giustizia: “La certezza della pena non è la certezza del carcere, che per gli effetti desocializzanti che comporta deve essere invocato quale extrema ratio. Occorre valorizzare piuttosto le alternative al carcere” (Marta Cartabia). “Certezza e rapidità della pena non significano sempre e solo carcere”, perché “è meglio la concreta esecuzione di una pena alternativa, che faccia comprendere al condannato il disvalore della sua condotta, piuttosto che la platonica irrogazione di una pena detentiva cui faccia seguito la sua immediata liberazione” (Carlo Nordio, quando ogni tanto si scorda il numero di Delmastro). Certezza della pena come sinonimo di effettività ed efficacia, e non nella accezione galeotta che ispira la proposta di legge costituzionale secondo la quale l’art. 27/3 dovrebbe prevedere “stabiliti con legge i limiti della finalità rieducativa in rapporto con le altre finalità e con le esigenze di difesa sociale”. Ma siccome tra un talk e l’altro non si fa a tempo a studiare, e un po’ di nostalgia del Grand Guignol si comprende (bei tempi quelli!), nell’articolo non manca certo la descrizione del (F)atto, in tutto il suo splendore (del supplizio). Un bravo giornalista ieri ha dato i numeri, che come si dice hanno la testa dura; per chi fa il carcere per intero, come vorrebbe il direttore (un travaglio minore il suo), 7 su 10 tornano a delinquere (prodotti difettosi: carcere e fabbrica, come ci hanno insegnato Melossi e Pavarini). Però che fa? Anche il nostro dà i numeri, e siccome “il numero dei condannati non corrisponde a quello dei delitti, che in grandissima parte restano impuniti, nessuna statistica può dimostrare una tale sciocchezza”. Che le statistiche guardino alle persone recidivanti (è la persona che recidiva - libera o meno che sia) e non agli ignoti, forse è troppo complicato da spiegare, e la gente non lo capisce. Meglio il circo, dove il nostro la fa da padrone. Avesse tempo, tra fatti e misfatti, questo fine settimana a Firenze si parla di carcere e Costituzione. *Avvocato Perché un condannato come De Maria usciva dal carcere? di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2025 Do una risposta basata sul diritto e l’esperienza. Quel che è accaduto a Milano è una tragedia immane. Il dolore per la vittima è immenso. Annichilente. Una vita spezzata, l’ennesima donna, con modalità così truci da lasciare senza fiato. La tentazione di gettare al vento tanti principi che hanno guidato la nostra convivenza pubblica può essere forte. Ma credo tuttavia che il nostro compito sia invece quello di mantenere sempre alta la barra di tali principi, anche nei momenti più difficili quali quello attuale. Di fronte al dramma appena vissuto, in molti si stanno chiedendo: ma perché quell’uomo usciva dal carcere? Ma perché lavorava all’esterno? Ma la certezza della pena non significa che si debba stare in carcere fino all’ultimo giorno indicato nella sentenza di condanna? Cercherò di fornire una spiegazione utile a rispondere a queste domande, basandomi tanto sulla dottrina quanto sulla mia esperienza diretta. Chiedo al lettore lo sforzo di seguirmi nei ragionamenti senza pregiudizi, al di là dell’emotività del momento. Non è facile mettere da parte i sentimenti di fronte a quanto accaduto, ma il diritto penale, se davvero vuole essere uno strumento di regolamentazione del nostro vivere comune, non può che fondarsi su principi razionali e astratti. Cominciamo col dire che il modello di esecuzione penale adottato in Italia è quello che prevede la cosiddetta pena flessibile. Non si tratta di un errore del sistema, non si tratta di qualcosa che è andato storto nella prassi. Si tratta piuttosto di una scelta esplicita e consapevole operata a monte dal nostro legislatore. Le leggi italiane prevedono che alla fine del procedimento penale, qualora si giunga alla condanna, il giudice che ha valutato gli eventi e ha emesso la sentenza abbia concluso così il proprio compito e lasci il campo a un altro tipo di giudice. Quest’ultimo si chiama giudice di sorveglianza e ha tra i suoi compiti quello di gestire una pena già irrogata. Che vuol dire gestirla, nel caso della pena carceraria? Vuol dire che, qualora il condannato partecipi attivamente al processo di reintegrazione sociale, il magistrato può far sì che non sconti l’intera pena esclusivamente all’interno delle mura del carcere, bensì per alcuni pezzetti la esegua in modalità alternative. Ciò non significa non eseguire la pena: le modalità alternative non equivalgono alla libertà, sono comunque estremamente controllate, devono seguire un programma molto preciso valutato dal magistrato e sono sottoposte a vigilanza di polizia. Quando il legislatore italiano optò per il modello di pena flessibile, non lo fece per uno spirito buonista, bensì a seguito di valutazioni molto razionali. Due furono sostanzialmente i ragionamenti che lo guidarono. Il primo: se il detenuto sa che può riacquistare dei pezzettini di libertà anche prima del termine della pena, allora sarà spinto a tenere una buona condotta (un meccanismo che potrebbe essere criticato per tutt’altri motivi, nei quali qui non entriamo). La legge Gozzini fu approvata all’indomani della stagione delle grandi rivolte penitenziarie ed effettivamente vi pose fine. I detenuti, che adesso avevano qualcosa da perdere, smisero di salire sui tetti e mettere a soqquadro le carceri con le loro rivendicazioni (solo le condizioni indecenti di vita interna provocate dalle politiche di questo governo hanno fatto riemergere le proteste carcerarie). Il secondo motivo: se un detenuto sconta una pena, facciamo per dire, a dieci anni di carcere interamente dentro la propria cella e alla fine del decimo anno si apre il cancello e viene rimesso sulla strada con il sacchetto della spazzatura in mano contenente i suoi soli effetti personali di dieci anni prima, con molta probabilità si rifugerà nel suo ambiente criminale di un tempo, il solo che conosce, e tornerà a fare i reati come unico modo di sostenere la propria esistenza. Se invece l’istituzione lo aiuta piano piano a riannodare i legami sociali persi, lo inserisce gradualmente nel mondo del lavoro, della formazione professionale, gli fa riprendere i contatti con la famiglia che nel frattempo si è probabilmente richiusa dietro di lui, e via dicendo, le possibilità che non torni a delinquere sono ben più alte. Lo dicono le statistiche ma, per chi non credesse ai numeri, lo dice anche l’esperienza diretta dei tanti detenuti che Antigone ha seguito in oltre trent’anni di lavoro. Se è la sicurezza ciò a cui puntiamo, dovremmo capire che ci conviene enormemente puntare sulle misure alternative al carcere, perché fanno calare il numero dei reati commessi. Non è buonismo, è la nostra convenienza. Quando Beccaria affermava l’importanza della certezza della pena, voleva dire che la giustizia non doveva presentare lungaggini e inefficienze, né doveva presentare arbitrii (chi è simpatico al sovrano la fa franca). Ma qui non si tratta di scampare la pena, ma proprio di un modello di pena razionalmente pensato fin dal principio in questo modo, ossia un modello flessibile. “Certo, sei brava a parlare così, mica era tua sorella, tua madre, tua figlia, la tua amica del cuore quella che è stata ammazzata”. Vero. Non lo era. Questa frase si può sempre dire. Ma ha davvero senso? Cosa vuole significare, che quando tocca a noi allora dobbiamo mettere da parte la razionalità e non scegliere il modello che funziona meglio? L’essere umano non sarà mai prevedibile al cento per cento. Se anche la pena carceraria si scontasse sempre e comunque fino all’ultimo giorno all’interno del muro di cinta, un’ora dopo dell’ultimo giorno la persona potrebbe uccidere qualcuno. E quindi? Non facciamo mai più uscire di galera nessuno? Ma con questo ragionamento potremmo andare anche oltre: l’essere umano non è prevedibile al cento per cento e dunque chiunque di noi domani potrebbe fare un delitto. Dunque? Tutti in carcere preventivo? È evidente che non può essere questa la strada imboccata da un paese democratico. Quel che è accaduto a Milano è qualcosa di drammatico, che giustamente ci ha sconvolto come società. Ma dobbiamo avere la forza di tenere alti i principi razionali del nostro diritto penale. *Coordinatrice dell'Associazione Antigone Storia di un assassino che ho conosciuto di Giacomo Spinelli Il Manifesto, 15 maggio 2025 Emanuele De Maria era un amico, una persona complessa, indecifrabile, con un passato torbido ed un futuro ancora da scrivere. Amava la letteratura russa, più di tutti Dostoevskij di cui ammirava il modo in cui lo scrittore descriveva i caratteri psicologici dei suoi personaggi. Amava Delitto e Castigo più di ogni altro libro, poi Gogol, Turgenev e Tolstoj. In questa immensa tragedia c’è un particolare, un’immagine, che continua a tormentarmi: quando Emanuele si è lanciato nel vuoto dalle guglie del duomo le scarpe gli sono volate via. Lui, che era sempre così preciso e meticoloso, si era buttato con le scarpe slacciate. Chissà da quanto tempo le aveva slacciate senza che se ne potesse accorgere, senza capire niente, mentre vagava per Milano come uno zombie, con quei suoi occhi grandi e marroni, intensi, sempre vivi e curiosi, sul cui fondo scintillava sempre una vena di follia. Proprio come i suoi eroi dostoevskiani, Emanuele aveva perso la testa. Il mio amico era psicotico, ma lo nascondeva bene agli occhi di tutti. Solo una volta l’ho visto fuori di sé, quando un compagno di carcere voleva fare una prepotenza ad un altro ragazzo, Emanuele si era messo in mezzo per difendere il nuovo giunto. Non sopportava i soprusi, né il razzismo, “bisogna proteggere i più deboli” diceva sempre. Emanuele aveva bisogno d’aiuto, ma nessuno di noi lo sapeva perché non aveva mai esplicitamente mostrato il proposito di cedere e di aprirsi ad un dialogo doloroso con sé stesso. La logica criminale con cui era cresciuto non prevedeva ripensamenti né sentimentalismi. Quando mi raccontava delle sue origini napoletane, l’emigrazione, il minorile in Olanda, le rapine, i momenti di spensieratezza di quando era bambino, poi la violenza, la legione straniera e l’omicidio di una donna nel casertano, tragico epilogo di una giovinezza perduta; sembrava tutto troppo, per un ragazzo che aveva solo 35 anni. Eravamo insieme quando gli è arrivata la notizia che in Olanda il padre era morto. E noi eravamo lì, chiusi tra quattro mura, lontani e dentro il cuore del dolore. Emanuele mi aveva raccontato che l’illuminazione l’aveva avuta quando era in carcere a Secondigliano, dopo la condanna per omicidio, diceva: “sono stato graziato, ho capito che dio mi stava dando una seconda possibilità”. Tutto il passato sembrava una altra vita, lontana dal nuovo Emanuele. Si era messo a studiare per uscire dal carcere migliore di come era entrato, per poter tornare dalla bambina che lo aspettava. L’aveva fatto da solo questo processo, secondo quello che per lui era il modo giusto di farlo. Aveva sotterrato le braci sotto la cenere, una nuova luce animava la vita di Emanuele ma l’oscurità non era stata sconfitta, era lì, pronta a tornare. Emanuele stava provando a cambiare vita, dopo anni di malavita ed un omicidio aveva intrapreso un percorso di cambiamento tutto in salita, che stava però percorrendo a grandi falcate. Il carcere di Bollate, gli educatori e lo staff penitenziario avevano puntato a un reinserimento sociale che ormai sembrava cosa fatta. Nell’albergo dove lavorava parlava cinque lingue fluentemente e sapeva sempre quello che i clienti volevano. Ma la vena di follia è tornata a pulsare e nessuno ha potuto fare più niente, aveva tenuto tutto dentro, qualcuno aveva provato a dirgli che quell’amore era patologico ed era meglio che lasciava perdere, che cercasse una donna della sua età perché la situazione in Hotel era troppo torbida e Chamila era sposata. Ma in carcere è difficile parlare con qualcuno; se entri con mezzo problema ne esci con tre: il trauma è parte integrante del percorso. Il ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone ci parla di carceri-manicomi, dove il 12% del totale delle persone detenute ha una diagnosi psichiatrica grave. Il rimedio a tale male sono gli psicofarmaci, “la terapia” che ti annichilisce talmente tanto che non capisci più neanche dove sei esattamente, come biasimare chi decide di tenersi il malessere piuttosto che essere narcotizzato. Quando vieni catapultato in un mondo dove vince sempre e solo chi è più forte, dove la sessualità è un tabù e il tempo una nebbia che non si dirada mai, capisci che l’istituzione carceraria crea gente disadattata che non sa più come fare i conti con un mondo che corre troppo veloce, ne sa più fare i conti con le proprie emozioni o le proprie sensibilità ormai sepolte sotto il cemento. Il carcere di Bollate per Emanuele ha fatto tantissimo, forse di più non poteva fare. Adesso è facile dire che Emanuele non doveva andare in permesso a lavorare. La verità è che bisogna fare di più, non di meno, creare più normalità e curare; non chiudere e voltare la testa dall’altra parte. Emanuele andava verso il traguardo, poi qualcosa si è inceppato, qualcosa è andato storto, nessuno di noi è del tutto innocente per quello che è successo e sarebbe ora di capire che la salute mentale viene prima di ogni cosa, al primo posto, sopra ogni cosa, prima che altri uomini ed altre donne vengano uccise, o si uccidono da soli. L’uccisione di Arachchilage Dona Chamila, vittima innocente della follia umana, a colpi di fendenti è una tragedia immensa. E non è la prima donna che Emanuele ha ucciso e nessun omicidio è giustificabile. Ma anche Emanuele è vittima di sé stesso e dal Duomo di Milano ha voluto mostrare a tutti la sua fine. Il fatto che la relazione del carcere avesse diagnosticato “un ragazzo totalmente equilibrato” significa solo una cosa: quando una persona è chiusa in una cella per sette anni l’equilibrio è una scommessa che nessuno è in grado di pronosticare. Non sono gli anni di carcere, da soli, a rendere equilibrati, altrimenti bisognerebbe farne sempre di più e più carcere non è mail la soluzione. Servono servizi psichiatrici efficienti e raramente ci sono. E poi la rieducazione passa necessariamente per il reinserimento. Non c’è altra strada, per quanto dolorosi e tragici possano essere i fallimenti e per quanta pietà noi tutti si possa provare per le vittime di questa storia, compreso l’assassino che era mio amico. “Sul caso di Emanuele De Maria e sul lavoro fuori dal carcere”, la lettera di una persona detenuta casadellacarita.org, 15 maggio 2025 Riceviamo e pubblichiamo la lettera di una persona detenuta, che è attualmente una volontaria della Casa della Carità in regime di Articolo 21 O.P., a proposito del dibattito nato sulle misure alternative e il lavoro fuori dal carcere, scaturito a seguito di un fatto di cronaca che ha coinvolto una persona che era detenuta nel carcere di Bollate. Credo sia giusto e doveroso, anche se a pochi interesserà la voce di una detenuta, dire qualcosa rispetto a quanto accaduto pochi giorni fa. La storia di Emanuele De Maria è ormai virale e non si parla d’altro. Si cerca una colpa, un errore e si mette in discussione un intero sistema, che però pochi conoscono a fondo. Capisco a pieno la rabbia e l’indignazione, e capisco anche che i familiari delle vittime se ne facciano poco di parole come le mie, ma è davvero giusto tutto questo accanimento? Si parla di cambiare leggi, di non far accedere a misure alternative chi si è macchiato di un delitto “di sangue”. È sicuramente una reazione umana ad un fatto tanto grave e allo stesso tempo incomprensibile, ma come si può pensare che possa essere davvero la soluzione ad un problema? Può essere davvero la cosa giusta “buttare via la chiave” senza dare una speranza ed una possibilità? Il nostro sistema penale è basato, secondo l’art. 27 della Costituzione, sulla rieducazione, eppure si pensa che solo alcuni possano essere meritevoli di tale beneficio. Perché questa distinzione? Perché non si riesce a vedere i detenuti come persone ma solo come reati? Il nostro sistema, non sarà sicuramente perfetto, così come non lo è ogni essere umano, gli errori purtroppo devono essere messi in conto, anche quelli più gravi, ma non per questo bisogna smettere di provare. Si è portati a credere che ci sia una sorta di facilità per uscire dal carcere a lavorare, oppure in permesso premio, ma non è così. L’essere nei termini che la legge impone, non significa che ci sia una sorta di automatismo. C’è un iter da rispettare, e non si tratta solo di buon comportamento. Vi faccio un esempio pratico su me stessa: sono entrata nei termini di legge per lavorare all’esterno nel 2018, ma sono realmente uscita nel 2022, passando 4 anni a lavorare all’interno delle mura di San Vittore, poi gradualmente ho iniziato una volta la settimana con il volontariato e poi dopo qualche mese ho iniziato un tirocinio che mi ha portato ad avere un lavoro a tempo indeterminato. Oltre a lavorare fuori, ho avuto la grande possibilità di ottenere anche i permessi premio, ma ci ho messo due anni per poter avere l’avallo del magistrato di poter girare liberamente a Milano, fino a qualche mese fa trascorrevo i miei permessi stando tutto il giorno in un appartamento messo a disposizione da un’associazione. Dopo aver dimostrato di essere meritevole di fiducia ho ottenuto un allargamento: i benefici devono essere guadagnati, ma ciò non significa che io o chiunque altro sia esente dallo sbagliare. Gli errori fanno parte del nostro essere, piccoli o grandi che siano, perché la perfezione non esiste. Chi ci osserva e scrive relazioni lo fa in un contesto ovattato, la vera osservazione arriva quando usciamo perché, seppur con delle regole da seguire, abbiamo un assaggio di libertà e ci scontriamo con tutta una serie di emozioni, alcune positive e alcune negative. Stringere “i cordoni della borsa” non può aiutare nessuno, né i detenuti, né tanto meno la società. Se la pena deve avere un senso ad un certo punto la società deve essere disposta a riaccoglierci, aiutandoci ad abituarci gradualmente ad uscire da una campana di vetro che ci contiene. E credetemi non è facile. Si vive di paure: paura di sbagliare, di non essere all’altezza, paura del giudizio degli altri, paura di non essere accettati. C’è chi come me queste paure le affronta, anche se con grande sofferenza e difficoltà, e c’è chi purtroppo non ce la fa e si lascia sopraffare. Io non posso e non voglio giudicare quanto è successo, non ho gli strumenti e non posso conoscere i retroscena che hanno portato alla tragedia, quello che so è che c’è sicuramente bisogno di un cambiamento di pensiero, ma che sia positivo e non giudicante. È scoraggiante vedere storie come questa date in pasto alla gogna mediatica, e che non si parli invece dei tanti percorsi postivi e di riscatto, perché il carcere è anche questo: non è solo un contenitore del peggio della società. Ci sono persone che ogni giorno escono per lavorare oppure in permesso premio e che con fatica si conquistano un briciolo di spazio e di dignità, ma nessuno ne parla. Nessuno parla di luoghi come Casa della Carità, che ogni giorno accoglie “persone” e non “detenuti”, tendendo loro la mano e creando le condizioni perché possano in un certo senso riscattarsi. Nessuno parla di giustizia riparativa per il reale significato che rappresenta, e cioè la possibilità di mettere a confronto chi ha commesso un reato, prima con se stesso e con ciò che ha fatto e poi con la sua vittima. Ci sono molti strumenti messi a disposizione del sistema, ma vengono valorizzati nel modo sbagliato, ed è scoraggiante. Se il sistema deve funzionare davvero ci vuole impegno e dignità. Non toglieteci la speranza, perché è una delle poche cose che in carcere fa sopravvivere. Fabrizio Benzoni (Azione): “Far lavorare i detenuti fuori dal carcere è indispensabile” di Valerio Salviani leggo.it, 15 maggio 2025 L'intervista del deputato: “Se un camorrista viene reintegrato e gli si trova un lavoro, ci sono meno possibilità che una volta uscito di galera torni a fare il camorrista”. Le misure alternative al carcere “funzionano e non vanno cambiate”. E chiunque dice il contrario “non ha idea di cosa parla”. Lo dice Fabrizio Benzoni, deputato di Azione vicecapogruppo alla Camera dei Deputati. Il caso che ha aperto il dibattito è quello di Emanuele De Maria, il detenuto di Bollate che ha ucciso la collega barista e ferito gravemente un altro collega all'hotel Berna a Milano. “Una tragedia - continua Benzoni, molto vicino a tutto ciò che riguarda il mondo dei penitenziari e i detenuti in Italia - che non può diventare però il pretesto per strumentalizzare la questione. Il gesto di un pazzo non può bloccare tutti gli altri detenuti”. E sta proprio qui il punto, secondo il deputato del partito di Carlo Calenda: “Lo strumento funziona e va incentivato, lo dimostrano i numeri. Un caso, contro migliaia che invece si reintegrano grazie al sistema”. “Detenuti liberi a seconda del reato? Un errore” - A chi parla di trattamento diverso a seconda del reato, Benzoni risponde: “È una str***ata, lo dico chiaramente per evitare fraintendimenti. Esistono dei percorsi che accompagnano ogni detenuto all'uscita dal carcere. Se fosse uscito a fine pena non avrebbe commesso quel reato? Se un camorrista viene reintegrato e gli si trova un lavoro, ci sono meno possibilità che una volta uscito di galera torni a fare il camorrista”. Emanuele De Maria era detenuto nel carcere di Bollate: “Quel penitenziario un esempio plastico di quello che difendo, di un sistema che funziona, perché sono oltre 200 i detenuti che ogni giorno escono da Bollate e vanno a lavorare. È corretto che si apra un'indagine interna per comprendere se si è fatto tutto il possibile per prevenire questa cosa, ma un grado di rischio ci sarà sempre”. Benzoni poi lancia un appello: “Mancano fondi per migliorare il sistema, ma strumentalizzare un singolo caso è la cosa più brutta che possiamo fare per ottenere il risultato. Tutti consideriamo il carcere una cosa lontana, ma quando poi i detenuti escono e non sono reintegrati in società, non hanno un lavoro, non hanno una rete che li accoglie, molto spesso tornano a delinquere. Ci riguarda molto più vicino di quanto pensiamo, in più se commettono reati, vengono ripresi, tornano in carcere e paghiamo noi, quindi il cittadino ha tutto l'interesse al fatto che durante la pena si possa cambiare”. Il Garante Anastasia: al cittadino si spiega così - Della questione ha parlato anche il Garante dei detenuti della Regione Lazio Stefano Anastasia. “?Bisogna fare i conti con chiunque abbia commesso un reato, poi tornerà nella società, secondo la nostra Costituzione deve tornarci attraverso un percorso di recupero e bisogna seguire questi percorsi di recupero perché è una garanzia innanzitutto per la collettività, perché è il modo migliore per produrre sicurezza. I dati ci dicono che è così, è effettivamente così, anche se ci può essere un caso contrario”, ha detto. Zanettin: “Il lavoro resti alternativa al carcere, dopo il caso De Maria nessuna stretta ai permessi” today.it, 15 maggio 2025 “Non vedo motivi per modificare l’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario sulla scorta di un’onda emozionale”, dice Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia al Senato. Ha suscitato polemiche la storia di Emanuele De Maria, il detenuto che ha accoltellato un collega nell'hotel in cui lavorava e ucciso Chamila Wijesuriyauna per poi lanciarsi dalle terrazze del duomo di Milano. Qualcuno si è domandato se il sistema delle misure alternative al carcere vada ripensato visto che il delitto è maturato mentre De Maria era fuori dal carcere per un permesso lavorativo. E il dibattito si è spostato anche nelle aule parlamentari. Come funzionano i permessi per i detenuti - A disciplinare il lavoro all'esterno del carcere per i detenuti è l'articolo 21 dell'ordinamento penitenziario. Lo scopo della norma è il reinserimento in società del detenuto: ogni caso però viene valutato tenendo conto della durata della pena già scontata e di quella residua. È infatti il magistrato di sorveglianza a decidere condizioni più stringenti per l'applicazione. “Le misure alternative funzionano” - “Non vedo motivi per modificare l’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario sulla scorta di un’onda emozionale” spiega a Today.it Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia al Senato. “Il lavoro fuori dal carcere è il modo migliore per ottenere la rieducazione del condannato” - “L’esperienza di tanti anni dimostra che le misure alternative alla detenzione funzionano molto bene e consentono una gestione della popolazione penitenziaria più efficiente, attenuando o evitando inutili tensioni negli istituti di pena”, afferma a Today.it Zanettin. Un incidente, “seppur grave come quello di Milano”, non deve “gettare alle ortiche consolidate esperienze positive”. Il senatore di Forza Italia ricorda come il governo abbia deciso di intervenire sul caso: “Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha già disposto accertamenti e capiremo meglio se ci sono state eventuali negligenze. Finora i giudizi sull’operato del De Maria da parte degli esperti che lo seguivano erano assai positivi”. Nelle ultime ore i temi legati alla giustizia rimangono caldi non soltanto per il caso De Maria. Gli ultimi sviluppi dell'inchiesta sul delitto di Garlasco aprono nuovi scenari e c'è chi parla di errori giudiziari sull'intera vicenda. I carabinieri di Milano stanno nuovamente indagando sull'omicidio di Chiara Poggi, per il cui delitto è stato condannato in via definitiva a 16 anni l'allora fidanzato Alberto Stasi. “È assai difficile esprimersi su un caso così complicato e controverso. Ricordo peraltro che Stasi era stato assolto sia in primo che in secondo grado, sentenze che poi vennero annullate dalla Cassazione”, spiega a Today.it Zanettin. Il senatore di Forza Italia ritiene “del tutto legittimo che la procura continui a investigare, se sono emersi nuovi indizi”. Basta minori in carcere: il progetto “Navigazioni” ci insegna che si può fare di Anna Spena vita.it, 15 maggio 2025 L'iniziativa ha sperimentato con successo un modello innovativo per il recupero di minori autori di reato in quattro regioni italiane. Attraverso percorsi individualizzati, coinvolgimento familiare e della comunità, mira a ridurre la recidiva e offrire nuove opportunità ai giovani. “Il decreto Caivano ha fallito”, dice Marco Gargiulo, presidente del Consorzio Idee in Rete, che ha sostenuto l'iniziativa. “I giovani hanno bisogno di approcci e attenzioni diverse”. Il 20 maggio a Savona la presentazione dei risultati e le proposte per il futuro, inclusa la creazione di “hub di legalità” permanenti sui territori. Che se si naviga bene, spesso, si attracca nel porto giusto. E in questa speranza ci ha creduto tantissimo il network di imprese sociali del Consorzio nazionale Idee in Rete che, con capofila il Consorzio Sociale il Sestante di Savona, il supporto del bando Cambio Rotta nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, promosso dall’Impresa Sociale con i Bambini, ha fatto nascere il progetto “Navigazioni - mappe, strumenti, esperienze con giovani a rischio devianza o autori di reati, famiglie, comunità”. Dopo tre anni di attività in Liguria, Piemonte, Lombardia e Veneto, il prossimo 20 maggio, a Savona, è in programma una restituzione pubblica dei risultati raggiunti. Un vero momento di incontro e scambio per dimostrare che un’altra strada, un’altra “rotta”, è una cosa possibile: lo dobbiamo, prima di tutto, ai giovani. “Il carcere e le comunità non possono più essere l’unica risposta per chi commette reato”, spiega Marco Gargiulo, il presidente del Consorzio Idee in Rete. “Impariamo a guardare i giovani, pensiamo per loro percorsi individualizzati che tengano davvero conto di chi sono. E soprattutto, sempre di più, impariamo a lavorare in rete: Terzo settore, amministrazione pubblica ed enti territoriali sono chiamati a collaborare. Non possiamo tirarci indietro”. Presidente ci racconta com’è nato e che cos’è il “Navigazioni”? Questo progetto triennale ha introdotto un modello innovativo e olistico per la presa in carico di minori autori di reato in diverse regioni italiane (Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto). Distinguendosi per aver superato la tradizionale frammentazione degli interventi pubblici e del Terzo settore, ha ampliato la rete di attori locali e implementato percorsi individualizzati basati su metodologie avanzate come il supporto psico-sociale con InFilm, il recupero familiare con il family group conference e il reinserimento sociale attraverso la co-progettazione digitale e la peer education. Navigazioni è un nome simbolico... Ci siamo in parte ispirati alla metafora del bando, inteso come un invito, un’opportunità di cambiamento radicale, proprio come suggerisce il titolo “Cambio rotta”. Questo titolo evocava in noi l’idea del viaggio e della navigazione. Abbiamo scelto il termine navigare per descrivere le nostre azioni perché racchiudeva una serie di interventi che volevamo realizzare su diversi territori, grazie al coinvolgimento delle cooperative partner. A chi si è rivolto l’intervento? Sono stati coinvolti 230 giovani segnalati dall’autorità giudiziaria, di età compresa tra i 14 e i 21 anni. Con loro, tra le altre cose, abbiamo realizzato attività di orientamento e avviamento al lavoro, tramite l’analisi delle competenze individuali e il matching con aziende locali. La sperimentazione è stata subordinata alla formazione di équipe locali multidisciplinari, opportunamente formate e in contatto costante tra loro. L’elemento distintivo del progetto? La volontà di porre al centro la storia e la vita di ogni singolo ragazzo. Di conseguenza, abbiamo costruito progetti personalizzati, evitando un approccio predefinito a cui i ragazzi avrebbero dovuto adattarsi rigidamente. Al contrario, l’offerta del progetto si è modellata in base ai bisogni e alle esigenze specifiche di ciascun ragazzo, tenendo conto del suo contesto, della sua storia e della sua situazione individuale. Come abbiamo realizzato tutto ciò? Attraverso uno strumento innovativo che abbiamo chiamato “dote educativa”. La dote educativa si fonda sulla collaborazione tra enti pubblici, Terzo settore e comunità locale. Sono state coinvolte anche 75 famiglie... Il tema del coinvolgimento familiare è stato centrale fin dall’inizio del nostro approccio, integrato attraverso lo strumento innovativo della Family Group Conference. Questo ci ha permesso di realizzare una presa in carico integrata, partendo dal minore per coinvolgere l’intero nucleo familiare in un percorso di rieducazione e riabilitazione che potesse avere un impatto positivo anche sulle storie individuali dei membri della famiglia del ragazzo coinvolto. Tuttavia, purtroppo, non sempre è possibile intervenire efficacemente sulle famiglie. Sappiamo che spesso i ragazzi che entrano nel circuito penale provengono da contesti familiari estremamente fragili, spesso con genitori a loro volta coinvolti in attività criminali. Di conseguenza, non sempre la famiglia è stata in grado di partecipare attivamente come risorsa all’interno del progetto. Come si supera questo ostacolo? Come Rete stiamo concentrando da diversi anni l’attenzione sul tema della legalità e della giustizia in senso ampio, con un’attenzione rivolta sia ai minori che agli adulti. Negli anni passati abbiamo osservato un arretramento significativo della cooperazione sociale nell’ambito dell’intervento carcerario, a causa delle crescenti complessità e difficoltà operative dentro istituti penitenziari. Nonostante ciò, noi abbiamo sempre cercato di mantenere una presenza costante attraverso le nostre cooperative, e il lavoro che stiamo portando avanti ne è una testimonianza. Inoltre, in questo periodo, il Cnel, in particolare ha svolto un lavoro molto interessante, dedicando una particolare attenzione alla valorizzazione dei processi di inserimento lavorativo e formazione per gli adulti e dei percorsi di reinserimento sociale per i minori coinvolti in reati. Questa attenzione da parte del Cnel deriva dalla constatazione che, laddove si riescono ad implementare azioni di questo tipo - inserimento lavorativo per gli adulti e percorsi educativi di reinserimento per i minori - si registra una drastica riduzione della recidiva. Qual è la domanda che tutti dovremmo porci per capire quanto oggi sia fondamentale sostenere iniziative come Navigazioni? “Qual è il costo sociale che il nostro Paese si assume per tutte le misure restrittive, dalla detenzione nelle carceri all’affidamento in comunità per i minori?”. Pensiamo a quanto inferiore potrebbe essere questo costo se si investisse in iniziative volte a diminuire il rischio di recidiva, o addirittura, come suggerisce una vasta letteratura, ad annullarlo completamente. Quello che abbiamo sperimentato, con Navigazioni, è che con una spesa di circa cinquemila euro a minore, su tre anni, si riesce a costruire un percorso individualizzato significativo e generativo per offrire una prospettiva di futuro diversa a questi ragazzi e a queste ragazze. Sollevo questa questione perché, in una prospettiva più ampia e generale, in linea con i principi sanciti dalla Costituzione, lo scopo della giustizia minorile dovrebbe essere quello di effettuare valutazioni basate su prognosi individualizzate. Ancora una volta, è fondamentale riportare al centro dei progetti la storia personale di ciascun individuo, affinché tali valutazioni possano adempiere al compito primario del recupero del minore che ha commesso reato. Come funziona la presa in carico del ragazzo? Abbiamo fatto un lavoro specifico su ogni singolo ragazzo. Bisogna considerare che in molti casi si tratta di minori che hanno già intrapreso percorsi di messa alla prova. L’idea è stata anche quella di dare continuità a questi percorsi, oppure si è cercato di intervenire anche nei confronti di quei minori che erano prossimi alla fine della pena. L’obiettivo era prenderli in carico prima della loro scarcerazione per poter agire tempestivamente, supportando i ragazzi e agevolando il loro inserimento in percorsi di reinserimento già nella fase di uscita dal carcere. Inizialmente arrivava la segnalazione da parte dei servizi sociali o delle autorità giudiziarie. A quel punto, all’interno del team multidisciplinare, si attivava un’équipe di lavoro con lo scopo di conoscere la storia del ragazzo e di elaborare un percorso personalizzato, centrato sui suoi bisogni specifici. Successivamente, una serie di operatori con il ruolo di case manager collaboravano con il ragazzo per definire concretamente il percorso che era stato precedentemente delineato all’interno del team multidisciplinare. Quali sono le principali caratteristiche dell’intervento? Si possono sintetizzare? Provo a farlo in sei punti. La dote educativa: un investimento economico che rappresenta la quantità di risorse necessarie per sostenere un progetto educativo personalizzato per il minore. Questa “dote” aiuta a fornire un contesto di apprendimento, socializzazione e reinserimento sociale e lavorativo, puntando su quattro aree fondamentali: Apprendimento, espressività e comunicazione: attività per lo sviluppo delle competenze non cognitive, cognitive e creative; Formazione e lavoro: percorsi di formazione professionale e inserimento nel mondo del lavoro; Socialità e affettività: supporto nelle relazioni sociali e affettive e Casa e habitat sociale: soluzioni abitative in forma singola o associata, anche attraverso il riutilizzo di beni confiscati alla criminalità organizzata. I percorsi personalizzati che tengono in conto delle inclinazioni del minore, del contesto sociale e delle sue potenzialità, promuovendo percorsi di reinserimento sociale e riduzione del rischio di recidiva. Il minore è al centro del processo educativo, considerato protagonista del proprio percorso di recupero e riabilitazione. Il coinvolgimento delle famiglie e della comunità di riferimento. La coprogettazione è un elemento chiave del modello e prevede il coinvolgimento attivo del Terzo settore nel definire e realizzare gli interventi attraverso la costruzione delle opportunità di recupero per i minori, contribuendo con risorse proprie e partecipando alla creazione di reti sociali che facilitano la rieducazione e il reinserimento. La figura del Case Manager, ogni progetto è supervisionato da una figura che si occupa di coordinare le azioni e monitorare il progresso del minore. Ma ora che il progetto è finito? È importante sottolineare un aspetto: gli operatori, le cooperative e gli educatori che lavorano sul territorio e sono coinvolti nelle vite di questi ragazzi, mantengono sempre un legame con loro e con le loro famiglie. Spesso, questi operatori ed educatori diventano, in alcuni casi, l’unico punto di riferimento positivo per certi ragazzi e per le loro famiglie. È quindi evidente che una relazione continua anche fuori dall’attività specifica del progetto. Al termine del progetto, chiaramente, vengono meno anche una serie di strumenti, primo fra tutti quello che abbiamo chiamato “dote educativa”. Durante il convegno di Savona sottolineeremo l’importanza di garantire una continuità a questo tipo di percorsi e iniziative. Le istituzioni devono farsi carico, devono attivarsi per creare, nei territori e nelle comunità, luoghi permanenti di confronto e di azione condivisa, coinvolgendo non solo i soggetti che operano all’interno o in prossimità del carcere e del sistema penale minorile, ma tutti gli attori della comunità locale, al fine di costruire interventi mirati e calibrati sulle storie e sulle caratteristiche specifiche dei ragazzi. Ci può anticipare una delle proposte che lancerete a Savona? Come dicevo la carenza di risorse e soprattutto la mancanza di una presenza stabile sul territorio rappresentano un tema centrale. Durante l’evento di Savona, tra le proposte che avanzeremo, c’è quella di istituire degli “hub di legalità” all’interno dei territori. Ce li immaginiamo come luoghi permanenti di confronto e di azioni condivise, dove il settore pubblico e quello privato potrebbero mantenere un’attenzione costante su queste tematiche e, soprattutto, garantire interventi di presa in carico continui e stabili. Tali interventi dovrebbero essere realizzati secondo la logica che ho esposto precedentemente, ovvero quella di focalizzare le risorse disponibili sul progetto di vita dei ragazzi, attraverso progetti individualizzati costruiti sui bisogni specifici di ciascuno. Tuttavia, è chiaro che la mancanza di risorse, o comunque la disponibilità intermittente di fondi, non agevola né facilita questo compito. Ma una valida e concreta alternativa potrebbe essere quella di riorganizzare la spesa pubblica già esistente per sostenere percorsi e processi di questo tipo. Come ho detto in precedenza, il costo sociale per attivare dei percorsi educativi individualizzati, fondati su una dote educativa, è di gran lunga inferiore al costo che lo Stato deve sostenere per attivare misure detentive o di affidamento in comunità. La nostra proposta è quella di istituire nuovi spazi e strumenti, rafforzati anche da meccanismi giuridici che ne consentano la realizzazione. Altri aspetti che riteniamo importanti, e su cui torneremo, sono la promozione di una co-progettazione tra enti pubblici ed enti del Terzo settore a livello territoriale, sempre nell’ottica di una sussidiarietà orizzontale. O ancora il tema della corresponsabilità è emerso con forza tra le diverse figure professionali coinvolte nei percorsi. Abbiamo constatato quanto sia importante, a volte, coinvolgere anche professionalità che magari non rientrano direttamente negli organici degli enti pubblici o delle cooperative sociali. Mi riferisco, ad esempio, all’importanza di aver introdotto strumenti legati alla creatività e allo sviluppo di competenze utili a permettere al ragazzo di raccontare la propria storia. Un approccio integrato di questo tipo può essere realizzato solo attraverso strumenti di programmazione supportati e sostenuti da un’azione normativa che promuova la non parcellizzazione degli interventi a livello socio-educativo e socio-sanitario. Perché avete scelto proprio Savona? Questa iniziativa nasce innanzitutto dalla necessità di dare un riscontro alla comunità. Abbiamo scelto Savona perché è lì che tutto ha avuto origine. Il progetto si è ispirato all’esperienza della cooperativa I.So. di Savona con il progetto “In Fiducia”. Quindi, ritorniamo a Savona perché è il punto di partenza. Ma soprattutto, l’evento di Savona si inserisce in un’azione più ampia del nostro consorzio, che è quella di fare advocacy. Per questo motivo, abbiamo invitato all’evento il presidente dell’Impresa Sociale Con i Bambini Marco Rossi Doria, che interverrà con una videointervista. Abbiamo invitato anche le figure istituzionali di riferimento del Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità, sia a livello ministeriale che territoriale, proprio perché riteniamo che questa attività di advocacy debba essere esercitata in un’ottica costruttiva e collaborativa con gli enti pubblici, sollecitando, al contempo, rispetto alle loro possibilità e responsabilità. Siamo consapevoli che questi processi possono avere un significato e una portata reali se supportati adeguatamente dal punto di vista economico-finanziario, ma anche in termini di procedure e strumenti normativi. Non dimentichiamoci, e lo afferma la nostra Costituzione, che l’istituto della Messa alla Prova, uno degli strumenti più importanti su cui l’Italia è diventata un modello in Europa, nasce come istituto di protezione dei giovani e ha lo scopo primario di favorire l’uscita del minore dal circuito penale. Un’uscita dalla situazione di disagio che sia la più rapida possibile passa anche attraverso una riflessione critica del giovane sul proprio vissuto e sulla propria condotta. Abbiamo visto e sperimentato che tutto questo porta alla costruzione di percorsi positivi, alla riduzione del rischio di recidiva e offre al giovane un’opportunità di cambiamento, la possibilità di vedere di fronte a sé una prospettiva di futuro diversa. Ma è chiaro che tutto ciò deve essere sostenuto e accompagnato da una forte volontà istituzionale. Permettetemi una breve parentesi sul cosiddetto decreto Caivano. Prego... È un nome forse infelice per quanto simbolico e riduttivo. Questo decreto ha sollevato diverse criticità rispetto a quanto detto finora. Sappiamo quanto il decreto Caivano abbia ulteriormente inasprito, soprattutto, lo strumento della misura detentiva nei confronti dei minori. Noi crediamo che il decreto rappresenti un passo indietro, un autogol in questo senso, rispetto a ciò che dicevo prima, cioè favorire il reinserimento e ridurre il rischio di recidiva. A tal proposito, l’associazione Antigone ha aperto un osservatorio sul decreto Caivano e ad oggi i dati non mostrano miglioramenti. Al contrario, si è osservato che dall’entrata in vigore del decreto la presenza di minori negli istituti penitenziari è aumentata di quasi il 50%. Quindi, se l’intenzione era quella di servire da deterrente e come strumento per migliorare l’impatto sul recupero dei ragazzi che possono commettere reati, al momento l’obiettivo è fallito. L’appello di Zuncheddu ai sindaci: “Sostenete la legge a favore delle vittime di ingiustizie” sardiniapost.it, 15 maggio 2025 Un appello che arriva da chi ha vissuto l’ingiustizia sulla propria pelle. Beniamino Zuncheddu, recentemente riconosciuto innocente dopo aver scontato ingiustamente quasi 33 anni di carcere, si rivolge direttamente ai sindaci sardi per chiedere il loro sostegno nella raccolta delle 50mila firme necessarie a portare in Parlamento la proposta di legge di iniziativa popolare nota come “Zuncheddu e altri”. “Ringrazio i sindaci che si sono già attivati per la raccolta firme - afferma Zuncheddu in un messaggio pubblico - ma abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti. Chiedo a tutti i sindaci della Sardegna di consentire ai cittadini di poter firmare in ogni Comune dell’Isola”. L’obiettivo della proposta è chiaro: garantire un sostegno economico immediato a chi, come lui, è vittima di errori giudiziari, nell’attesa dell’esito del lungo processo di risarcimento. Una legge, spiega Zuncheddu, che punta a evitare che altri debbano subire la stessa sorte: anni di carcere ingiusto, seguiti da un presente segnato da precarietà, silenzi istituzionali e mancanza di tutele. “A me è stata rubata la vita, ma anche la dignità - dice -. Non auguro a nessuno di vivere quello che è capitato a me. Non solo sono stato privato degli anni migliori, ma anche il dopo è difficile, faticoso, ingiusto”. La proposta è sostenuta da un ampio fronte civico e ha già visto la mobilitazione in numerosi Comuni e realtà associative. La legge chiede il riconoscimento di un assegno di sostentamento per chi è stato ingiustamente detenuto, in modo da offrire una rete di protezione fino all’erogazione del risarcimento da parte dello Stato. Zuncheddu, diventato simbolo di una battaglia per la giustizia e per la riforma del sistema, conclude con parole di speranza: “So di poter contare sull’aiuto di tutti. Grazie di cuore”. Blindato il Decreto Sicurezza, al voto l’11 giugno di Liana Milella Il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2025 Sulla custodia cautelare vince Nordio, l’emendamento Costa diventa odg. Tempi strettissimi alla Camera e poi al Senato perché il provvedimento scade l’11 giugno: sarà approvato anche qualora non sia stato chiuso in commissione e quindi senza il relatore. Vincono l’urgenza di convertire il decreto Sicurezza in versione super blindata e il Guardasigilli Nordio che vuole per se stesso “vanto e merito” di aver ristretto le regole della custodia cautelare. Così l’emendamento Costa al dl Sicurezza, che blocca l’arresto per il rischio che lo stesso reato venga ripetuto, viene sì riammesso, ma politicamente è già “morto”. Un vertice di maggioranza l’ha derubricato a semplice ordine del giorno. Una sorta di “suggerimento politico” al ministro della Giustizia che in tempi rapidi, con il suo fido viceministro, l’avvocato barese Francesco Paolo Sisto, porterà a Palazzo Chigi quella che già chiama “la mia storica riforma della custodia cautelare”. Il Fatto quotidiano ha prima scoperto e poi fornito i dettagli dell’operazione Costa. Togliere alle regole della custodia cautelare un pezzo forte, via il rischio di ricadere nello stesso delitto, mentre restano il pericolo di fuga e l’inquinamento delle prove. Per Nordio è il coronamento di una linea politico-giudiziaria perseguita da sempre. C’era lui al vertice del Comitato promotore per i referendum radical-leghisti che, tra gli altri, già proponeva a giugno del 2022, quando l’attuale ministro della Giustizia era solo un ex procuratore aggiunto di Venezia in pensione, di sopprimere l’ipotesi della reiterazione per mandare un imputato in custodia cautelare. Ma che succede adesso? Innanzitutto c’è la scelta politica. Un vertice di maggioranza intorno alle 12, dove per Forza Italia è presente il vicepresidente della commissione Giustizia della Camera Pietro Pittalis, decide che il decreto dovrà andare blindato al voto. Niente emendamenti. Anche se per tenere buoni i leghisti ne vengono riammessi alcuni, come quello del capogruppo Riccardo Molinari che aumenta le pene sui furti in casa e a strappo. Non solo, ecco quelli del capogruppo forzista in commissione Giustizia Tommaso Calderone, come quello che introduce una nuova circostanza attenuante per i reati di rapina. Ma tutta l’attenzione ormai è puntata sull’emendamento Costa sulla custodia cautelare. Anche questo viene riammesso, ma il suo destino politico viene contemporaneamente segnato. Diventerà un ordine del giorno. Forza Italia mugugna e obbedisce di malumore. Ma deve piegare la testa al volere di Nordio e di Sisto. La decisione è ormai irrevocabile. Il decreto andrà al voto dal 26 maggio e subito dopo, ovviamente blindato, passerà a palazzo Madama, dove la capigruppo ha già fissato l’aula per l’11 giugno, anche qualora il provvedimento non sia stato chiuso in commissione e quindi senza il relatore. ?Per tenere buone le opposizioni, tra gli emendamenti riammessi c’è quello di Valentina D’Orso del M5s che modifica il delitto di sequestro di persona abrogando la disposizione che ne subordina la punibilità alla querela della persona offesa. E ancora quello che abroga il reato di invasione di terreni o edifici con pericoli per la salute e l’incolumità pubblica. Rientra anche un emendamento della responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani per il reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute. Parliamo, nel complesso, di una decina di emendamenti rispetto ai 400 che sono stati falcidiati. E che comunque sono di fatto già “morti” prim’ancora di essere discussi. Proprio Valentina D’Orso, mentre li scorre, sussurra una battuta ironica: “Hanno fatto rientrare anche alcuni dei nostri emendamenti, in quanto ritenuti meritevoli di disciplina penale, ma evidentemente il ripristino dell’abuso d’ufficio, che pure avevamo chiesto, non era meritevole della medesima disciplina”. La partita si chiude così. Ancora una volta finisce con un uno a zero per Nordio, lo “scippatore di emendamenti”, in particolare quelli succosi di Costa. E ci sono ancora gli avvocati di Forza Italia repressi nel loro spirito garantista (salvo che Gasparri non parli dei magistrati…). Vince la voglia di repressione a tutti i costi dei meloniani e della Lega, contenuta nel decreto Sicurezza con i suoi 14 nuovi reati, le nove circostanze aggravanti, nonché tutte le misure che ampliano a dismisura i poteri delle polizie. Dl Sicurezza, il Csm dice no: “Rischi per la democrazia” di Simona Musco Il Dubbio, 15 maggio 2025 “L’ampia discrezionalità di cui gode il legislatore non equivale ad arbitrio” e il dl Sicurezza rischia di “incentivare”, anziché scongiurare, “il ricorso a forme di disobbedienza e contestazioni”. Ma non solo: il ricorso accentuato allo strumento penale, “declinato nelle due forme dell’inasprimento delle pene attualmente previste e dell’introduzione di nuove fattispecie di reato”, rischia di avere un impatto “sul carico di lavoro e sull’assetto organizzativo degli uffici” che “non è del tutto prevedibile” e il “sistema giudiziario non potrà non risentirne”, dal momento che solo la depenalizzazione può alleggerire il peso degli uffici. Il Csm ha approvato con 4 voti contrari (i laici di centrodestra, Eccher, Bertolini, Aimi e Bianchini) e un astenuto (l’altro laico Giuffrè) il parere della Sesta Commissione sul dl Sicurezza, anticipato ieri dal Dubbio. Un dibattito che, ancora una volta, ha avuto un sapore politico, dati i riferimenti non solo al merito del decreto, ma anche allo strumento stesso e alla scelta del Csm di dare un “parere non richiesto e nemmeno dovuto”, come sottolineato dal laico di centrodestra Felice Giuffrè. Che ha deciso di astenersi e non di votare contro, avendo apprezzato il “lavoro dialettico” svolto in Commissione, dove “alcuni dei miei rilievi critici sono stati recepiti”. Tuttavia ha giudicato l’intervento del Csm fuori luogo: “Il superamento dei confini fissati dall’articolo 10 della legge n. 195 del 1958”, ha detto, “rischia di trasformare questo Consiglio, da organo di autogoverno, in un organo che si pone quasi come una “terza Camera”“. Secondo Giuffrè, sul piano dei presupposti del decreto- legge “è necessario evitare valutazioni che non ci spettano”, dal momento che “già svolte da altre istituzioni”. Paradossale, ha osservato, che nel parere si affermi che “il Consiglio non può intervenire”, ma poi “il Consiglio interviene”. A suo avviso, il decreto risponde comunque a esigenze reali: “La sicurezza è il primo diritto fondamentale in uno Stato costituzionale e democratico - ha sottolineato - ed è considerata il presupposto per l’effettivo godimento dei diritti e delle libertà. E, spesso, questi diritti non riguardano noi che siamo attorno a questo tavolo, ma i cittadini più marginalizzati”. Di tono opposto il giudizio di Michele Papa, laico in quota 5 Stelle, secondo cui “l'espansione incontrollata del diritto penale simbolico finisca per snaturare la funzione stessa della legislazione, trasformandola in un mero veicolo di comunicazione mediatica incapace di incidere realmente sui fenomeni criminali e, soprattutto, di garantire il cittadino dai rischi di arbitrari interventi punitivi”. Una posizione condivisa anche dall'Associazione italiana dei professori di diritto penale e da altri membri del Consiglio. La togata Bernadette Nicotra (Mi) ha sollevato dubbi sull’uso sistematico della decretazione d’urgenza in materia penale, sottolineando che “non solo da parte di questo governo” ma anche in passato, restano aperti interrogativi sull’effettiva necessità e urgenza degli interventi. “Che Paese stiamo diventando?”, si è chiesto retoricamente il togato di Area Tullio Morello, domanda alla quale ha risposto Giuffré: “Un Paese migliore”, ha ironizzato. Nel dibattito è intervenuta anche Margherita Cassano, prima presidente della Corte di Cassazione, che ha richiamato la necessità di una maggiore coordinazione normativa. “Se continuano a essere emanate una pluralità di leggi spesso sullo stesso ambito di materia, in un breve arco di tempo, senza risolvere preventivamente a livello legislativo il tema del coordinamento”, ha detto, si rischiano “ricadute con effetti dirompenti sul sistema giudiziario”. Questo, secondo Cassano, potrebbe portare a una “inflazione del sistema” con l'introduzione di “decine e decine di nuovi reati”, generando “aspettative di giustizia” che il sistema non è in grado di soddisfare. Ma l’inasprimento delle pene, ha sottolineato l’indipendente Andrea Mirenda, non produce risultati: “Pene più lunghe non necessariamente dissuadono dal recidivare”, ha detto, mentre le misure alternative, come la detenzione domiciliare, mostrano un tasso di recidiva più basso. “Ha un senso criminalizzare le manifestazioni di dissenso aumentando le pene?”, si è chiesto. La risposta, secondo Mirenda, è negativa: “Spesso si tratta di scelte simboliche, mirate solo alla captazione del consenso di una parte del corpo sociale, con rischi seri per la democrazia. Funziona come deterrente? No, o molto poco”. Ha poi aggiunto che “l’inasprimento delle pene può addirittura radicalizzare il conflitto sociale, rafforzando la determinazione dei movimenti; che esso può spingere verso forme più clandestine o violente ed aumenta inutilmente il carico giudiziario e la pressione carceraria; che, infine, può colpire anche manifestanti pacifici se le norme su cui si fonda sono vaghe o applicate in modo estensivo”. Marco Bisogni (Unicost) ha infine richiamato l’attenzione sulle conseguenze organizzative per gli uffici giudiziari: il Csm, ha detto, ha “il dovere di analizzare le ricadute organizzative del sistema penale”, osservando che l'introduzione continua di nuove fattispecie rende difficile pianificare la gestione delle risorse e ostacola gli obiettivi di stabilità normativa richiesti dal Pnrr. A chiudere il confronto è stata Isabella Bertolini (centrodestra), che ha scelto di votare contro, abbandonando l’ipotesi di astensione: “Pensavo di astenermi - ha esordito - ma dopo questo dibattito voterò contro, perché ritengo che questo parere non fosse assolutamente necessario, non dovuto e non porta assolutamente niente di utile a quello che è un dibattito che comunque esiste anche nel Paese”. Bertolini definito la discussione “stucchevole”, dominata da un eccesso di allarmismo: “Ogni volta che c'è un'iniziativa si parla di panpenalismo e degli uffici che non ce la fanno. C'è solo carnevale e drammatizzazione. Non diamo mai risposte positive, utili al sistema, utili ai cittadini”. Infine, ha lanciato un appello a recuperare “un ruolo che ci è dato dalla Costituzione e che dovrebbe essere di un’interlocuzione utile e necessaria in questo momento così complesso”, concludendo: “Su questo parere sono state spese energie che potevamo spendere meglio, perché non serve assolutamente a niente”. Anche il Csm boccia il decreto sicurezza: “Ricadute pesanti” di Mario Di Vito Il Manifesto, 15 maggio 2025 Il plenum approva un parere critico, che però non è vincolante: “Nessuna invasione di campo”. E i laici di destra si spaccano. La riforma della giustizia arriverà in Senato l’11 giugno. Anche senza relatore. L’impatto che avrà il decreto sicurezza sui tribunali “non è prevedibile”, ma di sicuro ci saranno ripercussioni “sul carico di lavoro e sull’assetto organizzativo degli uffici”. Lo dice il Consiglio superiore della magistratura in un parere approvato ieri dal plenum. Al di là dei numeri con cui è passato il documento (19 favorevoli, 4 contrari e un astenuto) la discussione è stata di quelle pesanti. L’opinione dell’organo di governo autonomo delle toghe, infatti, non era richiesta, né ha un valore vincolante. E però ha indubbiamente un suo ruolo nel dibattito che circonda le nuove disposizioni in materia di ordine pubblico e sicurezza, da un anno e mezzo ormai in parlamento. Dove, nonostante il testo sia sempre stato blindatissimo e nessuno sia mai riuscito a emendarlo davvero, continua a languire in attesa di approvazione. Il problema che più si evidenzia nel “parere critico” verso il decreto è il ricorso quasi indiscriminato al codice penale. Si rileva infatti che è “acclarato” il fatto che “in linea di principio” sono solo gli “interventi ispirati alla logica opposta della depenalizzazione” a “favorire una migliore efficacia dell’organizzazione”, mentre nel decreto sicurezza “è presente un ricorso accentuato allo strumento penale” in termini di inasprimento delle pene e introduzione di nuove fattispecie di reato. Il discorso è semplice: più sono i reati da perseguire e più gli organi inquirenti vedono aumentare la quantità di carte sulle loro scrivanie. Il risultato finale non è difficile da immaginare. “Senza nessuna pretesa di invadere l’ambito riservato esclusivamente al legislatore - ha detto durante il plenum la prima presidente della Cassazione Margherita Cassano - penso sia doveroso da parte del Csm, in un’ottica di leale collaborazione tra autorità dello Stato, richiamare l’attenzione in sede di conversione sulle ricadute che rischiano di avere pesanti effetti per gli uffici giudiziari”. Il problema, per Cassano, è che “se continuano a essere emanate una pluralità di leggi spesso sullo stesso ambito di materia, in un breve arco di tempo, senza risolvere preventivamente a livello legislativo il tema, non solo del coordinamento di queste disposizioni, ma su quale deve essere l’ambito effettivo dell’intervento penale, si provocano ricadute con effetti dirompenti sul sistema giudiziario”. Un concetto simile l’ha espresso anche il consigliere laico Michele Papa: “L’espansione incontrollata del diritto penale simbolico finisce per snaturare la funzione stessa della legislazione, trasformandola in un mero veicolo di comunicazione mediatica incapace di incidere realmente sui fenomeni criminali e, soprattutto, di garantire il cittadino dai rischi di arbitrari interventi punitivi”. Perplessità sono arrivate anche dalla destra togata. La consigliera di Magistratura indipendente Bernadette Nicotra ha infatti espresso forti perplessità “sul metodo” della “decretazione d’urgenza in materia penale, non solo da parte di questo governo. Mi chiedo se effettivamente ci fosse necessità e urgenza per questo intervento”. Tullio Morello di Area pure ha affondato il colpo. “Che paese stiamo diventando - ha detto -. A queste parole si può aggiungere un punto esclamativo, un punto interrogativo o i puntini di sospensione. Io penso che siamo un paese molto diviso e il paese invece ha bisogno di unirsi”. I consiglieri laici della destra hanno votato contro. Ma non in maniera compatta, perché Felice Giuffré, eletto in quota Fratelli d’Italia, si è astenuto. Per il resto, la tristemente consueta difesa del governo al Csm si è limitata a sottolineare come il documento partorito dal plenum non abbia in realtà un peso formale. “Questo parere non serve a nulla - ha detto Bertolini annunciando il suo voto contrario - potevamo spendere meglio le nostre energia”. Magari, cioè, evitando proprio l’argomento. Il Csm ricuce lo strappo con i pm antimafia: lunedì il vertice di Ermes Antonucci Il Foglio, 15 maggio 2025 Il 19 maggio il Consiglio superiore della magistratura e i procuratori di tutta Italia si incontreranno per fare il punto sui primi mesi di applicazione della nuova circolare sulle procure. Superate le tensioni dei giorni scorsi. L'intermediazione di Pinelli. Si svolgerà lunedì 19 maggio il vertice tra il Consiglio superiore della magistratura e i procuratori di tutta Italia, per fare il punto sui primi mesi di applicazione della nuova circolare sulle procure, adottata a luglio. Lo ha appreso il Foglio da fonti qualificate del Csm. La riunione, inizialmente fissata per martedì 13, era stata annullata dalla Settima commissione del Csm, competente sull’organizzazione delle procure, in seguito all’irritazione provocata da una missiva inviata proprio al Csm dal procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo e dai procuratori distrettuali antimafia prima dell’appuntamento e ritenuta inopportuna per i toni e i contenuti, fortemente critici sui primi mesi di applicazione della circolare. L’annullamento dell’incontro aveva rappresentato un momento di scontro senza precedenti tra il Csm e i pm antimafia. A spingere ora la Settima commissione a riprogrammare l’incontro e a ricucire così lo strappo è stato soprattutto il vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, in accordo con il comitato di presidenza e il Quirinale, nella convinzione che lo spirito di leale collaborazione debba prevalere sempre nei rapporti tra le istituzioni. Fonti di Palazzo Bachelet riferiscono che Pinelli (seppur anch’egli critico sui contenuti della circolare) sarebbe stato molto chiaro con i consiglieri sul ruolo che il Csm dovrebbe svolgere nei suoi rapporti con gli uffici giudiziari: un ruolo servente, fatto di ascolto e confronto, e non un ruolo di comando dall’alto dell’organizzazione giudiziaria o, peggio ancora, di mero “nominificio”. Per queste ragioni dall’inizio della nuova consiliatura il vicepresidente del Csm ha svolto decine di visite presso gli uffici giudiziari sparsi per il paese, soprattutto quelli più periferici, tentando di trasmettere il concetto che il Csm è sensibile alle esigenze dei territori e cerca di andare incontro a queste ultime. Chissà se questo sforzo sarà avvertito all’incontro di lunedì, o se le tensioni tra il Csm e i pm antimafia resteranno irrisolte. La separazione delle carriere serve solo a indebolire la magistratura: è la rivalsa della politica sulle toghe di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2025 La Camera ha approvato, in prima lettura, la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati, che è stata demagogicamente blindata con una procedura che non ha precedenti: si decide di modificare la Carta costituzionale respingendo a priori qualsiasi emendamento, qualsiasi modifica, così dimostrando quale concezione della democrazia e dello Stato di diritto abbia l’attuale maggioranza parlamentare. I sostenitori della riforma - e in primis Carlo Nordio, il peggiore ministro di Giustizia dell’era repubblicana e che ritiene la separazione delle carriere la madre di tutte le riforme e, come tale, la panacea di tutti i mali della giustizia - pongono a base della riforma i seguenti argomenti: garantisce la “terzietà” del giudice e il “giusto processo” e renderà la giustizia più efficiente; esiste in quasi tutti i Paesi europei; evita quella sorta di consuetudine, di frequentazione e di commistione tra giudici e pm che potrebbe influenzare il giudizio e l’esito stesso del processo. Dirò subito che si tratta di una riforma inutile e dannosa. È inutile per un duplice ordine di motivi: il primo è che essa non serve assolutamente a nulla e che non porterà alcun beneficio, alcun miglioramento rispetto a quello che è il male endemico della giustizia e, cioè, la scandalosa durata dei processi, (con la rilevante, altrettanto scandalosa, ecatombe dei processi per prescrizione), che impone un serio intervento su un farraginoso, inceppato, perverso funzionamento del processo penale e sulla ormai secolare, strutturale, carenza di organico dei magistrati e del personale di cancelleria e ausiliario. La riforma è, altresì, inutile perché una separazione delle funzioni giudicanti e requirenti è già in atto da tempo: infatti, oltre il 95% dei magistrati che assumono le funzioni di pm continuano, nel corso della carriera, ad esercitare le medesime funzioni sia perché l’incarico di pm è più appetibile e prestigioso, sia per le restrizioni imposte al cambio di funzioni dalle norme susseguitesi dal 2006 al 2022 che hanno irresponsabilmente limitato i passaggi da una funzione all’altra a uno soltanto nel corso della carriera. Già oggi, quindi, il passaggio di funzioni riguarda un numero estremamente esiguo di magistrati tale da rendere superflua una modifica della Costituzione: nell’arco di cinque anni la percentuale di pm passati alle funzioni giudicanti è stata dello 0,83%, mentre dello 0,21% è la percentuale dei giudici divenuti pm, con una percentuale complessiva, pertanto, dell’1%, il che significa venti passaggi all’anno su circa diecimila magistrati. Ma la riforma è anche dannosa perché porta al definitivo appiattimento - già in atto - delle funzioni del pm su logiche prossime a quelle di polizia (e che ha già provocato criticità). Si dà, in tal modo, vita ad un corpo, da un lato, compatto, monolitico, autoreferenziale di circa tremila pm, dall’altro separato, a sé stante all’interno del ruolo funzionale del pm, saldamente e pienamente integrato con l’intero apparato della polizia giudiziaria (Polizia, Carabinieri, Guardia di finanza che strutturalmente sono alle dipendenze dell’esecutivo) con il concreto pericolo di una mentalità propensa ad appiattirsi sullo schema mentale della polizia giudiziaria, vale a dire un accusatore di professione che finirà, inevitabilmente, prima o poi, ad essere inglobato nel ministero della Giustizia, così passando sotto il controllo dell’esecutivo, come avviene in tutti i sistemi che prevedono il pm separato dai come avviene in tutti i sistemi che prevedono il pm separato dai giudici Ora, tutto ciò trova conferma proprio nelle parole del ministro Nordio il quale, nell’aula del Senato della Repubblica, ha così affermato: “Quanto al timore che il pm diventi un super poliziotto la risposta è assai semplice: nel sistema attuale esso è già un super poliziotto, con l’aggravante che godendo delle stesse garanzie del giudice egli esercita un potere immenso senza alcuna reale responsabilità. Oggi infatti il pm non solo dirige le indagini, ma addirittura le crea attraverso la clonazione del fascicolo, svincolata da qualsiasi parametro e da qualsiasi controllo che può sottoporre una persona ad indagini occulte, eterne, che creano disastri finanziari irreparabili, pensiamo a quante inchieste sono state inventate nel vero senso della parola”. Ed, allora, se per Nordio il pm è già, oggi, un “superpoliziotto”, lo sarà ancora di più con la separazione delle carriere che lo svincola completamente dalla giurisdizione; ma questo non sembra preoccupare il ministro perché egli, nella sua prospettiva della separazione delle carriere e nel possibile prossimo avvento del “premierato forte”, forse ritiene che, prima o poi, la soluzione ineludibile sarà quella della previsione di un organo superiore che dovrà esercitare quel controllo - della cui mancanza oggi si duole il ministro - tale da impedire o bloccare quelle pericolose inchieste così poco gradite al potere esecutivo e a quella classe politica, inchieste che, inveritieramente e pretestuosamente, il Nordio definisce occulte, inventate, veri e propri abusi e disastri dei “super poliziotti”. Ma la riforma è dannosa anche perché porta all’abbandono definito della “cultura della giurisdizione” - (che ha formato i migliori magistrati) - che, anzi, andava nuovamente sviluppata in aderenza a direttive europee (Carta di Roma del 17/12/2014) che auspicano l’intercambiabilità delle funzioni. Il ministro Nordio ha ironizzato sul concetto di “cultura della giurisdizione”, probabilmente non sa neanche in che cosa consista; la cultura della giurisdizione significa la valutazione rigorosa delle prove; confronto, discussione, dibattito nelle camere di consiglio; continuo e costante aggiornamento ed approfondimento giurisprudenziale e dottrinale, e, con specifico riferimento alle funzioni di legittimità, significa forgiare i principi di diritto che saranno applicati dai giudici di merito. Tutto questo rende il magistrato incline alla ponderazione, alla valutazione approfondita delle prove, a discernere gli indizi dalle prove, alla discussione, alla continua ricerca della verità, impedendo, così, che il magistrato diventi un pm a forte vocazione colpevolista. Si è detto che negli altri Stati europei le carriere sono separate e si sono portati gli esempi della Francia, della Germania, dell’Inghilterra, della Spagna e del Portogallo. Ma la comparazione non aiuta i sostenitori della riforma se non nel senso opposto di rendere evidente che, laddove le carriere sono separate, il pm è sottoposto a potere esecutivo, con modalità e misure diverse, ma, comunque, in modo ineluttabile. In sostanza nei Paesi in cui esiste una separazione o, comunque, una netta distinzione dei ruoli tra giudici e pm, questi ultimi sono sempre sottoposti al controllo politico. Per quanto riguarda specificamente la Francia, i sostenitori si sono dimenticati di dire che in tale nazione il corpo giudiziario è, comunque, unico e frequenti sono i passaggi di ruolo nel corso della carriera e che in Francia esiste la figura del giudice istruttore, titolare delle inchieste e che gode di grande autonomia e indipendenza. Non solo, quindi, non serve la comparazione tra Stati, quanto non serve neanche il riferimento alla “terzietà” del giudice e al “giusto processo” che sarebbero garantiti dalla riforma. In realtà, la “terzietà” del giudice e il “giusto processo”, come è noto, sono previsti dall’articolo 111 della Costituzione a seguito della riforma costituzionale del 1999 e non è stata, sinora, avvertita la particolare esigenza costituzionale delle modifiche ordinamentali, oggi prospettate con la riforma. Si è, infine, addotto il pericolo che la frequentazione e commistione tra giudici e pm potrebbe influenzare le inchieste ed il giudizio. Si è parlato, in proposito, di frequentazioni improprie (soprattutto tra pm e gip), di rapporti amicali, di incontri nel comune edificio, al bar, negli ascensori, eccetera. A parte la risibilità di tali argomenti, sarebbe veramente paradossale riformare, per tale motivo, addirittura, la Costituzione e separare le carriere. Per evitare queste frequentazioni, ritenute strumentalmente improprie, nel comune edificio, basterebbe la semplice soluzione di allocare gli uffici dei pm in edifici diversi e distanti da quelli dei giudici, evitando così qualsiasi possibilità di incontro tra di loro. Nessuna, quindi, delle ragioni poste a sostegno della separazione regge ad una critica serena e obiettiva. La verità è che la riforma intende separare la magistratura, spaccarla in due e, dunque, indebolirla, così portando a termine quel tentativo di rivalsa nei confronti della magistratura da parte del potere politico che, da anni, insofferente al controllo di legalità, sostiene la supremazia del primato della politica sul primato della legge. Quali, dunque, le conclusioni? La maggioranza parlamentare, unita alla blindatura del testo normativo, porterà alla sicura approvazione della riforma che potrà essere bloccata solo dalla vittoria del “no” nel successivo referendum confermativo. Se ciò accadrà, il nuovo legislatore dovrà percorrere una strada totalmente opposta: mantenere l’attuale assetto della magistratura, così come previsto dalla Costituzione, adottando, però, una normativa che non solo elimini i paletti che ostacolano o impediscono il passaggio tra le funzioni, quanto obblighi tutti i magistrati a svolgere, per almeno dieci anni, funzioni giurisdizionali. Come ipotesi del tutto subordinata, si può pensare all’adozione del sistema francese ove, come si è detto, il corpo giudiziario è unico, i magistrati si distinguono tra giudicanti e requirenti, con possibilità di passaggi di ruolo nel corso della carriera. I pm dipendono dal ministro della Giustizia rispetto al quale sono gerarchicamente subordinati e “rappresentano gli agenti del potere esecutivo presso le giurisdizioni”. Viceversa, i magistrati giudicanti godono, come in Italia, della garanzia della inamovibilità e non possono essere trasferiti senza il loro consenso. L’adozione di tale sistema, rende, però, necessario prevedere, come in Francia, la figura del giudice istruttore, titolare delle indagini e delle inchieste, dotato di grande autonomia e della prerogativa della inamovibilità che lo mette al riparo da impropri e scorretti tentativi dell’esecutivo di interferire nelle indagini al fine di ostacolarle o bloccarle. Con la previsione del giudice istruttore vengono fortemente limitati i poteri investigativi del pm, da circoscrivere ai soli atti urgenti (che, peraltro, in buona parte possono o debbono essere svolti dalla polizia giudiziaria), riconducendo, così, la funzione del pm a quella propria insita nella sua stessa denominazione: “Procuratore della Repubblica presso il Tribunale”, “Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello e presso la Corte di Cassazione”, e, cioè, funzioni requirenti presso la magistratura giudicante. Questo sistema presuppone, ancora, un altro dato imprescindibile e, cioè, che, a differenza della Francia, venga mantenuto l’attuale principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, in maniera che la sua discrezionalità non sia affidata all’esecutivo, sì che si possa continuare a consentire che essa venga esercitata nei confronti di chiunque (ivi compresi esponenti politici, e i potenti di turno) e ciò in attuazione dell’articolo 3 della Costituzione, secondo cui “tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge”. *Ex giudice della Corte di Cassazione Dal delitto di Garlasco all’Ilva di Taranto, una giustizia lenta produce ingiustizia di Antonio Polito Corriere della Sera, 15 maggio 2025 La giustizia italiana è lenta ma inesorabile, oppure è solo inesorabilmente lenta? Quando 18 anni dopo un delitto, si comincia a cercare nei campi l'arma con cui è stato commesso e che non era mai stata trovata, la domanda è legittima. Stiamo parlando ovviamente del delitto di Garlasco, l'omicidio di Chiara Poggi per il quale, ricordiamolo, è già stato condannato in via definitiva dopo un lungo iter processuale, dunque oltre ogni ragionevole dubbio secondo quanto prescrive la legge, l'allora fidanzato di Chiara, della vittima, e cioè Alberto Stasi. Si vede che qualcosa ha convinto oggi la Procura di Pavia a seguire una pista investigativa che invece essa stessa con altri dirigenti aveva espressamente deliberatamente scartato tempo fa. Ora al centro delle indagini c'è un amico del fratello maggiore di Chiara che frequentava la casa insieme a un altro gruppo di ragazzi uno dei quali nel frattempo è diventato un frate francescano. Intendiamoci, la ricerca della verità è sempre il fine ultimo della giustizia e dunque noi non possiamo che augurarci che i magistrati trovino quello che sembrano certi di poter trovare. Però delle due l'una: o stanno sbagliando adesso sotto una pressione mediatica oppure hanno sbagliato i loro colleghi al tempo della condanna di Stasi, evidentemente non corredata dalla completezza necessaria delle prove Ma c'è un altro caso giudiziario di questi giorni che desta molte perplessità. I commissari straordinari dell'Ilva di Taranto hanno infatti dichiarato che a causa del ritardo con cui la Procura ha consentito l'avvio dei lavori di manutenzione in un altoforno che ha sequestrato e chiuso dopo un incidente l'impianto è compromesso e dunque hanno chiesto la cassa integrazione per circa 4000 lavoratori. La Procura ha risposto, si è difesa con un comunicato che però non sembra aver risolto, fugato tutti i dubbi, sulla rapidità sul suo operato. Ecco due casi in campi molto diversi l'uno e l'altro però entrambi ci ricordano che una giustizia lenta produce ingiustizia e questo è uno dei mali. Vietato parlare di mafia-appalti. E se il “depistaggio” fosse grillino? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 maggio 2025 “Possiamo parlare di depistaggio istituzionale e si sta addirittura imboccando la strada verso una relazione finale focalizzata su un'unica pista che stravolge la verità dei fatti”, tuona Giuseppe Conte, capo del M5S, durante la conferenza stampa. L'accusa riguarda la scelta della presidente della commissione antimafia di approfondire sia la pista mafia- appalti come causa dell'accelerazione della strage di Via D'Amelio, che di come sia stato gestito quel procedimento. Quest'ultimo, dopo stralci e rinvii a giudizio di alcuni soggetti, fu archiviato nell'agosto del 1992. Si decise poi di riaprire ex novo un altro procedimento che però ha avuto un lungo travaglio: prima nel ' 93 con un relativo processo attraversato da patteggiamenti e scarcerazioni, poi nel 1997 con un secondo processo, in cui vennero ripescati personaggi come Buscemi e Filippo Salamone, infine condannati, e ulteriori procedimenti annessi dopo il 2000. L’attacco è diretto nei confronti della presidente Chiara Colosimo. Quello che lei avrebbe fatto sarebbe un caso unico e vergognoso, addirittura depistante, denuncia il M5S durante la conferenza stampa indetta da Giuseppe Conte con la presenza del deputato Cafiero De Raho e il senatore Roberto Scarpinato, ex magistrati. Una posizione che definiscono autoritaria e senza precedenti. La presidente della commissione nazionale, poi, viene stigmatizzata perché ha snobbato la memoria dei commissari contiani, sottoscritta ovviamente anche dall’ex capo procuratore Scarpinato. Ma cosa indica questa memoria? Una sfilza di piste e tesi che, in realtà - ad esempio Gladio e le presunte donne bionde presenti nelle stragi - sono state già attenzionate, soprattutto dalla commissione precedente presieduta dall’ex grillino Nicola Morra. Tesi, tra l’altro, che nel frattempo vengono man mano sconfessate da alcuni provvedimenti di archiviazione. Pensiamo alle ultime archiviazioni sulla pista nera che vede il coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie o Paolo Bellini, oppure a Catania, per quanto riguarda l’ennesima denuncia contro l’ex Ros Mario Mori da parte del colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Un metodo che si ripropone anche nella relazione preliminare dei commissari pentastellati, che controbattono analiticamente l’audizione di Mori e De Donno e, più in particolare, la memoria depositata, praticamente ritirando fuori la relazione del 1998 sottoscritta dall’allora procuratore di Palermo, Giancarlo Caselli, e da tutti i suoi sostituti. La relazione, che ha certamente una sua dignità, non è un provvedimento giudiziario, quindi non è la Bibbia, ma una loro ricostruzione di come hanno svolto il procedimento mafia- appalti. Quindi testimoni di loro stessi. In realtà non è tuttora chiaro nulla visto il continuo emergere di nuovi elementi mai vagliati seriamente prima. Quindi far credere che il M5S è custode della verità, mentre gli altri sono depistatori, non è un’operazione intellettualmente onesta. Mafia-appalti - Il punto è che si è creato un paradosso. Il discorso mafia- appalti che non solo è cristallizzato in tutte le sentenze riguardanti le stragi di Capaci e Via D'Amelio come concausa preventiva, ma è anche attualmente sotto l'attenzione giudiziaria della procura nissena, viene tacciato come depistante. Nel contempo, invece si pretende di valorizzare le tesi piene di suggestioni che ciclicamente riemergono, sia a livello giudiziario che mediatico. Qualcosa, quindi, non torna nella denuncia del partito di Conte. E non torna ancora di più quando, durante la commissione antimafia presieduta da Giuseppe Pisanu, del centrodestra, si dedicò un’intera legislatura al teorema trattativa Stato- Mafia, addirittura avallandola. In quel caso andava bene l’approfondimento di una unica pista? Nessuno ha avuto nulla da ridire, nonostante si sia rivelata una tesi completamente priva di fondamento. Anche se - ed è interessante - nella relazione preliminare dei commissari contiani, per controbattere l’audizione di Mori e De Donno, hanno praticamente riproposto la stessa identica tesi dell’accusa del processo trattativa. Quell’accusa che è stata portata avanti in appello, come procuratore generale, dall’attuale senatore Scarpinato. E perse. Durante la conferenza si è ricostruita una narrazione data per dato oggettivo. E ciò non va bene. Quando Scarpinato, ad esempio, afferma che è accertato il fatto che subito dopo l'attentato delle persone - tipo 'man in black' - si sarebbero aggirate nell'auto di Borsellino ancora in fiamme per trovare la borsa e magari far sparire l'agenda rossa, è un racconto che va contestualizzato. Seppur menzionato nel Borsellino Quater, nei procedimenti successivi, in particolare il Mario Bo + altri, chiamato anche Borsellino Quinques, emerge che tale episodio non solo non è dimostrato, ma appare singolare: come è possibile che solo dopo vent'anni, due poliziotti, uno in particolare Francesco Maggi, si sia ricordato di questo, addirittura affermando che alcuni di loro li ha riconosciuti perché lavoravano nei servizi segreti? Parliamo dello stesso Maggi che, quando parla di aver preso lui la borsa dall'auto di Borsellino, cozza con i verbali di tutti i poliziotti che erano sul luogo, dove emerge un ' passaggio di consegna' totalmente diverso. Quindi, altro che chiaro. Una prova la si può trovare nel primo verbale dell'unico superstite della scorta di Borsellino - parliamo di Antonio Vullo - il quale dice chiaramente che dopo qualche minuto è arrivata una prima volante e subito dopo i vigili del fuoco. Non parla di alcun oscuro agente in giacca e cravatta che rovistava nell'auto in fiamme. Quindi, forse, certe ricostruzioni andrebbero vagliate con più accuratezza e magari romanzando il meno possibile. Però funziona così. Nonostante ciò, il M5S può presentarsi come il baluardo della verità. La pista di Borsellino - Eppure, nessuno di loro ha chiesto che venga reso pubblico il materiale sequestrato dall’ufficio di Borsellino, utile per trovare una chiave di lettura. Sappiamo che Borsellino stava indagando sulla strage di Capaci e aveva individuato il movente. Allora elenchiamo qualche elemento dove sicuramente i commissari pentastellati stessi chiederanno alla presidente Colosimo di aiutarli a tirare fuori. Sarebbe una collaborazione attiva per la ricerca della verità. Borsellino, tra le tante carte, aveva: appunto dattiloscritto, in fotocopia, di 4 pagine, con foglietto adesivo recante la scritta a “Scarpinato (Contorno)”; missiva numero 340822/ 40554 del 29.05.1992 del ministero della Giustizia, diretta al Dr. Borsellino, con allegato tabulato; copertina colore verde contenente diversi suoi manoscritti e dattiloscritti, comprese diverse note; fascicoli riservati, note dell’alto commissario, deleghe e varie intercettazioni della procura di Palermo. Ed è solo la punta dell’iceberg. Però già sarebbe utile per una ricostruzione priva di suggestioni e leggende metropolitane. Da via D’Amelio a Capaci - Approfondire Via D’Amelio deve portare inevitabilmente anche ad approfondire Capaci. Così come bisognerebbe partire dalla riunione del 1991, dove Totò Riina ottenne la delibera da tutto il gotha della mafia ad avviare la strategia stragista, comprese quelle continentali. Un dato certo è che i sopralluoghi a Firenze sono stati effettuati a maggio del ' 92, qualche giorno prima della strage dove persero la vita Giovanni Falcone, la sua compagna e collega Francesca Morvillo e la scorta. Non solo è confermato dall’ex pentito Maurizio Avola, e c’è un riscontro della DIA, ma anche da altri pentiti come Gioacchino La Barbera. Basterebbe ascoltare i processi, come quello “Orsa maggiore” svolto a Catania. A proposito della delibera della strategia mafioso - terroristica, siamo nell’anno in cui Falcone, anche pubblicamente, annunciò la necessità di un coordinamento tra procure per colpire il monopolio mafioso degli appalti pubblici, dove la grande imprenditoria che conta non si è sottratta. I delitti eccellenti - in particolare quello del carabiniere Giuliano Guazzelli e l’allora parlamentare democristiano Salvo Lima - e la strage di Capaci erano una questione da ritrovare negli appalti: non lo dicono gli ex ROS, che forse nemmeno ne sono a conoscenza (anche loro non conosco tutte le carte), ma lo ha affermato Paolo Borsellino allo scrittore Luca Rossi e riportato sul corriere della sera. Sarà un depistatore anche il giudice ucciso a Via D’Amelio? Cuneo. Torture sui detenuti: chiesto il rinvio a giudizio per 14 agenti e operatori del Cerialdo di Barbara Morra La Stampa, 15 maggio 2025 Tra le accuse anche lesioni, favoreggiamento e falso in relazione a diversi episodi. Il pubblico ministero di Cuneo Mario Pesucci ha chiesto il rinvio a giudizio per 14 dei 35 agenti della polizia penitenziaria e operatori del carcere di Cuneo indagati a vario titolo per torture. Per 21 poliziotti, accertati meglio i fatti, la Procura ha chiesto l’archiviazione. L’indagine ha preso avvio nell’ottobre dello scorso anno a carico inizialmente di 23 agenti della Casa circondariale, indagati a vario titolo per torture (6 persone), lesioni, favoreggiamento e falso in relazione a diversi episodi. Il caso più grave - Il più grave è quello che sarebbe avvenuto nella notte tra il 20 e il 21 giugno dell’anno scorso, quando diversi poliziotti, in quel momento fuori servizio, si sarebbero introdotti nella cella 417 del padiglione “Gesso” nel corso di una vera e propria spedizione punitiva. Vittime del pestaggio cinque detenuti di origine pakistana, colpiti con calci e pugni al volto: la loro colpa era quella di aver protestato, battendo sui blindi, perché un altro recluso nella vicina cella 416 lamentava forti dolori alla gamba e aveva chiesto più volte, senza risultato, di essere visitato in infermeria. Negli atti della Procura si parla di un “trattamento inumano e degradante per la persona”, tale da causare anche un “verificabile trauma psichico” ai detenuti aggrediti. L’udienza preliminare si terrà il prossimo 20 giugno. Pisa. Il no al Decreto sicurezza. Nella Rete 15 associazioni di Carlo Venturini La Nazione Il 23 maggio alla parrocchia di San Frediano incontro con Emilio Santoro “Il dl colpisce le persone in situazione di marginalità e senza la casa”. Anche Pisa con una quindicina di associazioni entra nella rete nazionale “No Dl sicurezza- A pieno regime”. Due gli appuntamenti uno pisano e l’altro romano. Quello in città è il 23 maggio alla parrocchia di San Frediano, per un momento di discussione con Emilio Santoro, professore ordinario di filosofia del diritto Unifi - L’Altro Diritto, e Letizia Bertolucci, avvocata penalista. L’appuntamento romano è per il 31 maggio alla manifestazione nazionale. Esponenti della nuova rete pisana si sono ritrovati davanti alla prefettura. Luca Guerrini di Unione giovani di sinistra dice: “Un vero golpe burocratico che va a colpire intere categorie che vivono in situazione di fragilità”. Moreno Pierobon di Una città in Comune aggiunge: “Siamo realtà che quotidianamente lavorano per il diritto alla casa, che operano con le comunità straniere, con le persone migranti, con chi è detenuto e con le varie forme di povertà e marginalità che verranno criminalizzate dal decreto. Basti pensare all’introduzione dei nuovi reati legati all’occupazione di case e al sostegno a chi lotta per avere un tetto, all’inasprimento dei reati di accattonaggio”. Giulia Contini di Unione inquilini aggiunge: “Si colpisce il diritto alla protesta e si aumentano le pene per chi occupa anche temporaneamente case senza un titolo solo perché sotto sfratto per morosità incolpevole”. Ketty De Pasquale presidente della Casa della Donna, dice: “Si mette la parola sicurezza in un decreto che nasconde la polvere sotto il tappeto. Non c’è un rigo sulla prevenzione e repressione dei femminicidi, non c’è nulla sull’educare e formare al rispetto della donna”. Aderiscono alla rete pisana: Africa Insieme, Amnesty Pisa, Arci Pisa e Alta Val di Cecina, “Il Chicco di Senape”, Casa della Donna Pisa, Cgil, Cobas, Coordinamento provinciale Libera Pisa, Fiom Pisa, Giovani Comunisti Pisa, Greenpeace Pisa, Legambiente Pisa, Pinkriot Arcigay Pisa, Rifondazione Comunista Pisa, Sinistra Italiana Pisa, Sinistra Per, Una città In Comune, Unione Giovani di Sinistra Pisa, Unione Inquilini Pisa, Comitato toscano di Un Ponte Per. Udine. Hub di giustizia di comunità, una struttura che aiuta i detenuti di Timothy Dissegna Messaggero Veneto, 15 maggio 2025 Non è solo un luogo di ascolto ma, anche e soprattutto, di inclusione e riparazione, come ha precisato Annarita De Nardo, referente della Caritas di Udine, che ha illustrato i primi numeri del progetto del nuovo hub di giustizia di comunità di via Treppo a Udine. Aperta a settembre 2024, la struttura è stata ufficialmente inaugurata mercoledì 14 maggio e ha già ospitato 194 colloqui a favore di 84 uomini reclusi nella casa circondariale di via Spalato. Realizzato grazie al sostegno del ministero della Giustizia, grazie al lavoro della Regione e agli spazi messi a disposizione dall’ateneo friulano, il servizio punta ad aiutare i detenuti nella fase di dimissione per comprendere se ci sono le condizioni di reinserimento sociale. Il garante dei detenuti, Andrea Sandra, ha sottolineato il valore umano e sociale dell'iniziativa: “La giustizia di comunità aiuta chi ha commesso reati a prendere consapevolezza, anche psicologicamente, e a entrare in empatia con le vittime. È un passo concreto per ridurre la recidiva”. Uno sportello, inoltre, è dedicato anche alle vittime di ogni tipologia di reato. Giustizia di comunità, un centro all’Università di Udine (lavitacattolica.it) Realizzare percorsi di inclusione socio-lavorativa a favore di persone sottoposte a misura penale, costruire una rete di sostegno alle vittime di ogni tipo di reato, promuovere interventi di giustizia riparativa e mediazione penale. Sono gli obiettivi dell’hub sperimentale multiservizio di “Giustizia di comunità” di Udine, uno spazio fisico e simbolico di connessione tra carcere, territorio e cittadini inaugurato oggi all’Università di Udine. Il progetto è sostenuto dalla Cassa delle ammende del Ministero della giustizia e dalla Regione Friuli Venezia Giulia con partner capofila la Caritas di Udine. L’operatività - L’hub ha sede in alcuni locali dell’Ateneo, nella sede udinese di via Treppo 18, messi a disposizione della Caritas in comodato d’uso gratuito. Sarà aperto almeno tre giorni a settimana, garantendo supporto sia durante l’orario di apertura al pubblico, sia attraverso attività di back office, per assicurare continuità nell’assistenza e nella realizzazione delle attività previste. Le attività previste - Tre le attività previste nell’hub udinese. L’attivazione, con le altre agenzie territoriali competenti, di percorsi di accompagnamento e facilitazione all’accesso ai servizi di inclusione per persone in misura penale per prevenire recidive e comportamenti devianti. Al contempo, promuovere la loro reintegrazione sociale, lavorativa e relazionale, valorizzando le reti territoriali e costruendo azioni di comunità. Il contesto - L’apertura dell’hub “Giustizia di comunità” di Udine si inserisce in un ampio processo di rinnovamento delle politiche penali e sociali. In particolare, per rafforzare l’attenzione verso le vittime di reato, affinché non siano più soggetti passivi del sistema, ma possano ricevere ascolto, supporto e adeguate tutele. Contemporaneamente, per agire in modo più efficace nei percorsi di reinserimento delle persone sottoposte a misure penali, riducendo il rischio di recidiva e favorendo l’accesso a opportunità di inclusione sociale e lavorativa. Collaborazioni allargate - In questo contesto, una risposta concreta e innovativa viene dalla co-progettazione tra istituzioni pubbliche: Regione Fvg - Direzione centrale salute politiche sociali e disabilità, Servizi sociali del Comune di Udine, Ufficio esecuzione penale esterna, Amministrazione penitenziaria e Centro per giustizia minorile, enti del terzo settore e mondo universitario. La riforma - Un modello di intervento che valorizza l’integrazione delle risorse e il coinvolgimento attivo della comunità. L’hub “Giustizia di comunità” di Udine nasce proprio per dare forma a questa visione. L’iniziativa si inserisce nell’ambito dei progetti “Ripar(t)amo” e “Inclusione, confronto, trattamento”. in linea con i principi della Riforma Cartabia che pone l’accento sulla giustizia riparativa, come alternativa alla pena e come strumento di reintegrazione, riconciliazione e responsabilizzazione. Gli interventi - All’inaugurazione dell’hub hanno portato i saluti il rettore dell’Ateneo friulano, Roberto Pinton; l’assessore regionale alla salute, politiche sociali e disabilità, Riccardo Riccardi, e l’arcivescovo di Udine, Riccardo Lamba. Sono quindi intervenuti, fra gli altri: la direttrice centrale della Direzione centrale salute, politiche sociali e disabilità della Regione Friuli Venezia Giulia, Gianna Zamaro; Paola Ziccone del Centro per la giustizia minorile per il Veneto, il Friuli Venezia Giulia e le Province autonome di Trento e Bolzano; Tiziana Paolini del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria per il Veneto, il Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia; Sara Arata dell’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna per il Veneto, il Friuli Venezia Giulia e il Trentino Alto Adige/Südtirol. A illustrare lo stato dell’arte dell’hub sono stati, per la Caritas di Udine, il direttore don Luigi Gloazzo e Annarita De Nardo. Erano presenti, fra gli altri, il direttore generale dell’Azienda sanitaria universitaria Friuli centrale, Asufc, Denis Caporale, e il garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Andrea Sandra. “Siamo responsabilmente partecipi di questo ambizioso e meritevole progetto - ha detto il rettore Roberto Pinton - fedeli a uno dei principi guida della nascita del nostro Ateneo e cioè di essere agente e promotore, dello sviluppo del nostro territorio, che quindi comprende anche una particolare attenzione verso l’ambito sociale”. L’arcivescovo di Udine, Riccardo Lamba, ha detto che “la Chiesa e la diocesi di Udine sono molto sensibili al tema delle persone che vivono queste esperienze temporanee di sofferenza e che devono essere prese in considerazione anche per un recupero”. L’assessore regionale alla salute, politiche sociali e disabilità, Riccardo Riccardi, ha sottolineato “la soddisfazione e l’orgoglio della Regione per questo lavoro intrapreso. Quello che stiamo facendo è uno sforzo anche culturale perché - ha detto Riccardi - la società non può fare sconti, ma neanche può produrre scarti. I percorsi di vita delle persone non possono essere accantonati”. Catanzaro. Progetto “La cultura rende liberi”, Stefania Romito porta Cesare Pavese nelle carceri catanzaroinforma.it, 15 maggio 2025 Parte ufficialmente il prossimo 16 maggio il progetto culturale-educativo “La cultura rende liberi”, ideato e curato da Stefania Romito, giornalista, scrittrice e presidente dell’Associazione Ophelia’s friends Cultural Projects. Un’iniziativa di grande spessore umano e civile, rivolta ai detenuti e nata con l’obiettivo di offrire strumenti di riflessione, crescita personale e reintegrazione sociale attraverso la cultura e la letteratura. Il primo incontro si svolgerà all’interno della Casa Circondariale “Ugo Caridi” a Catanzaro e sarà dedicato a Cesare Pavese, autore simbolo dell’inquietudine esistenziale e della ricerca interiore. Romito accompagnerà i detenuti in un viaggio nella poetica e nella tormentata interiorità dello scrittore piemontese, utilizzando la sua produzione letteraria come stimolo per un confronto aperto su temi universali quali la solitudine, la speranza, la memoria e il riscatto. Il progetto si articola in tre aree principali: interviste, laboratori di scrittura creativa e incontri letterari. “Voci dal carcere” darà spazio alle testimonianze di direttori, agenti penitenziari, educatori e detenuti, offrendo un ritratto autentico della vita dietro le sbarre. “Parole liberate” sarà invece un percorso laboratoriale volto a favorire l’espressione personale e la rielaborazione emotiva attraverso la scrittura. “Libri oltre le sbarre”, il format in cui rientra l’incontro su Pavese, rappresenta l’anima più letteraria del progetto: incontri mensili incentrati su grandi autori italiani, con discussioni guidate e momenti di riflessione collettiva. L’iniziativa intende dimostrare come la cultura, anche nei contesti più difficili, possa essere una leva di libertà interiore, educazione emotiva e consapevolezza. Il carcere, da luogo di esclusione, può così trasformarsi in uno spazio di rinascita e rigenerazione, dove le parole diventano ponti per riconnettersi con sé stessi e con la società. “Attraverso i libri - afferma Stefania Romito - offriamo la possibilità di ritrovare una voce, di riscoprirsi capaci di raccontarsi e di cambiare. Cesare Pavese è un autore che parla a tutti coloro che cercano un senso nelle proprie ferite, e sono convinta che le sue parole sapranno toccare corde profonde anche nei cuori più segnati”. Il progetto prevede una durata iniziale di sei mesi, con incontri mensili replicabili anche in altre strutture carcerarie. “La cultura rende liberi” è un’iniziativa coraggiosa, che mette al centro la persona prima del reato, e che dimostra quanto la letteratura, più di ogni altra disciplina, possa accendere luci anche nei luoghi più bui. Un plauso alla Direttrice della Casa Circondariale “Ugo Caridi” dott.ssa Patrizia Delfino per aver creduto nell’importanza di questo Progetto. Roma. Giovani Mcl, con l’iniziativa “Sulle ali della libertà” un Caf a Rebibbia agensir.it, 15 maggio 2025 I giovani del “Movimento cristiano lavoratori” di Roma hanno dato vita ad una nuova esperienza di condivisione e di conoscenza con il mondo del carcere e in particolare con quello di Rebibbia, grazie alla collaborazione con l’associazione “Nessuno Tocchi Caino”. L’iniziativa si chiama “Sulle ali della libertà” e ha come obiettivo prima di tutto di comprendere le reali necessità di chi si trova in stato di detenzione. Infatti, in questi mesi ci sono state diverse visite a Rebibbia per un confronto e il dialogo per con gli operatori e con i detenuti. “Un approccio aperto - come spiega Francesco Spizzirri, responsabile dei giovani Mcl - per metterci prima di tutto in ascolto di un mondo che si trova in grande emergenza: dal sovraffollamento, la necessità di nuovi programmi di riabilitazione ed anche da non sottovalutare il disagio psicologico”. “In futuro - aggiunge Spizzirri - la nostra idea è quella di potere realizzare all’interno dell’istituto di detenzione un Caf Mcl che possa aiutare i detenuti e le detenute non solo a svolgere le pratiche amministrative di base, ma anche nell’accompagnamento nell’esigibilità dei diritti e nel sostegno alle loro famiglie”. “Un segno concreto di speranza - conclude Spizziri - proprio per il Giubileo voluto da Papa Francesco in una delle periferie esistenziali più difficili e dove lui ha voluto aprire la Porta Santa”. Perugia. Spettacolo con i detenuti in scena a Capanne e Morlacchi umbriajournal.com, 15 maggio 2025 Tutto pronto per “Destinati al vento”, lo spettacolo con protagonisti i detenuti della Casa Circondariale di Perugia Capanne, che andrà in scena il 15 maggio alle 18 presso l’istituto penitenziario e il 19 maggio alle 19.30 al Teatro Morlacchi di Perugia. Entrambe le repliche risultano già esaurite. La regia è affidata a Vittoria Corallo, nell’ambito della settima edizione del progetto “Per Aspera ad Astra - riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, promosso da Acri con il sostegno della Fondazione Perugia e la produzione del Teatro Stabile dell’Umbria. Il progetto, attivo dal 2018 in quindici carceri italiane, ha coinvolto oltre mille detenuti in percorsi professionali legati al teatro. L’edizione perugina ha previsto corsi di recitazione, drammaturgia, illuminotecnica e fonica teatrale, realizzati all’interno della Casa Circondariale. Al percorso hanno partecipato anche studenti dei licei G. Alessi, G. Galilei, B. di Betto e A. Pieralli. Lo spettacolo rappresenta l’esito del lavoro condiviso tra professionisti e detenuti, all’interno di un cammino artistico e formativo che prosegue da sette anni. Pescara. Incontro della rassegna “Sulla scena del crimine. Riflessioni su carcere e dintorni” ilpescara.it, 15 maggio 2025 Si terrà giovedì 15 maggio il sesto appuntamento di “Sulla scena del crimine - Riflessioni su carcere e dintorni”, rassegna patrocinata dalla Provincia di Pescara e il Museo delle Genti d’Abruzzo e ideata da Francesco Lo Piccolo, Presidente di Voci di dentro, e Luigi Di Fabio, gestore del Caffè Letterario Cinquesensi. Nei locali ricavati nell’antica fortezza di Pescara, in via delle Caserme 64, e che nell'Ottocento fu il Bagno Penale dei Borboni dove vennero imprigionati i protagonisti del Risorgimento, il tema della giornata ha per titolo “Affamati”, titolo perfetto per due ospiti d‘eccezione come Rita Bernardini e Gabriella Stramaccioni che da sempre si battono per affermare diritti, giustizia e verità. Rita Bernardini, già deputata, presidente di Nessuno tocchi Caino e per una vita accanto a Marco Pannella in difesa dei diritti umani, è in sciopero della fame dal 23 aprile per 1) dare forza all’Appello di Nessuno tocchi Caino per un anno di riduzione di pena per tutti i detenuti, in memoria di Papa Francesco e MarcoPannella; 2) eliminare dal Decreto-legge “Sicurezza” tutte le parti incostituzionali e, in particolare, sia il nuovo reato di resistenza passiva nelle carceri e nei Cpr, sia la nuova normativa sulle detenute madri. Gabriella Stramaccioni, già Garante per i diritti delle persone private della libertà di Roma Capitale, precedentemente coordinatrice nazionale dell’associazione Libera di don Ciotti. Tra le molteplici attività, ha sollevato la questione del cibo nelle carceri di Lazio, Abruzzo e Molise poi sfociata in una inchiesta che attualmente vede a processo l’azienda fornitrice di vitto e sopravvitto per sfamare (o affamare) i carcerati. Al termine dell’incontro sarà possibile cenare e dialogare a tu per tu con i nostri ospiti. Si consiglia la prenotazione del tavolo telefonando a numeri 331 4957258 o 380 7320277. Forlì. Il convegno “L’utopia di don Dario: il carcere, un’opportunità per rinascere alla vita” live.it, 15 maggio 2025 Si svolgerà venerdì 16 maggio alle 20,45 alla Sala Zambelli della Camera di Commercio della Romagna a Forlì in piazza Saffi 5, il convegno sul tema “L’utopia di don Dario: il carcere, un’opportunità per rinascere alla vita”, promosso dall’associazione Amici di don Dario, con il patrocinio del Comune di Forlì, della Camera di Commercio della Romagna e della Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì. L’iniziativa è la prima di una serie promossa dall’associazione per celebrare i 30 anni di attività e i 10 anni dalla scomparsa di don Dario Ciani e si pone l’obiettivo di favorire una riflessione sul carcere e sul ruolo di tale istituzione, al fine di promuovere azioni rieducative e lavorative nei confronti detenuti in grado di ricostruire personalità fragili, mettere le basi per una vita futura dignitosa e sfuggire dal rischio di recidiva. Don Dario Ciani, nei suoi 22 anni di presenza come cappellano presso la Casa Circondariale di Forlì e nella sua veste di fondatore della comunità di Sadurano, è stato un costante punto di riferimento in questa direzione, incarnando pienamente sia il richiamo evangelico alla vicinanza alle persone detenute (“…ero in carcere e siete venuti a visitarmi… - Mt. 25,35) sia quanto prescrive la Costituzione italiana all’art. 27: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’associazione Amici di don Dario, costituita nel 1995 con la denominazione Amici di Sadurano, nacque per svolgere attività di supporto alla comunità fondata dal sacerdote forlivese, facendo propri i valori solidali verso le persone emarginate e fragili, compreso i detenuti. Dal 2015, anno della scomparsa di don Dario, l’associazione si pone il compito di promuovere i valori di inclusione sociale e solidarietà diffusa all’interno della comunità, che furono del proprio fondatore, con iniziative di sensibilizzazione e progetti sociali specifici, molti dei quali all’interno della Casa Circondariale di Forlì, in collaborazione con altre realtà sociali, in accordo con la direzione della struttura e con don Enzo Zannoni, attuale cappellano del carcere, successore di don Dario in questo delicato ruolo. Nel corso dell’evento, dopo i saluti istituzionali di Alberto Bravi presidente dell’associazione Amici di don Dario, di Gian Luca Zattini sindaco di Forlì, di mons. Livio Corazza vescovo di Forlì-Bertinoro e di Rosaria Tassinari deputato, interverrà Maurizio Gardini presidente nazionale di Confcooperative e della Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì sul tema “Memoria ed eredità di don Dario”, forte della sua personale amicizia giovanile con il sacerdote scomparso. Seguiranno testimonianze di esperienze educative rivolte ai detenuti in carcere e fuori dal carcere illustrate da don Daniele Simonazzi cappellano della casa circondariale di Reggio Emilia, di Daniele Versari presidente dell’impresa sociale Altremani di Forlì e di Giorgio Pieri responsabile del servizio carcere dell’Associazione Papa Giovanni XXIII. Concluderà l’evento, in qualità di ospite d’onore, il vice-ministro alla Giustizia onorevole Francesco Paolo Sisto. “Desideriamo con questa iniziativa - spiega Alberto Bravi - valorizzare l’eredità di don Dario, che è stato un innovatore, un cooperatore sociale della prima ora, un inquieto di fronte alle ingiustizie verso i più deboli, un instancabile promotore di umanità e un prete che ha dimostrato con la sua vita una dedizione totale ai valori evangelici, che lo hanno portato a vivere il sacerdozio in maniera piena, entusiasmante e, in certi casi, anche scomoda proprio per la radicalità del suo agire. Nello stesso tempo, ponendo l’attenzione sulle tematiche inerenti il carcere, intendiamo ribadire quanto sia importante una sinergia costruttiva fra volontariato, cooperazione sociale, imprese profit e istituzioni penitenziarie, per consolidare una progettualità rieducativa nei confronti dei detenuti che abbracci vari ambiti, quali la formazione, il lavoro, la cultura e la socializzazione”. Dal mare alla cella, l’Odissea dei detenuti di Valeria Costa zetaluiss.it, 15 maggio 2025 L’artista Tommaso Spazzini Villa ha raccolto in un libro i brani dell’Odissea commentati dai prigionieri di tutta Italia. Pensando all’Odissea, l’opera di Omero, vengono in mente Itaca, Circe e Calipso, Ulisse che resiste alle sirene, mare aperto e naufragi. Mai la prigione. Eppure, il viaggio per antonomasia per tornare a casa di Odisseo è anche il viaggio interiore dei detenuti. Nel 2018 l’artista milanese Tommaso Spazzini Villa ha voluto prendere estratti di quel testo e a partire dal carcere di Bollate ha coinvolto 361 detenuti da tutta Italia, affidando ad ognuno una pagina diversa sui cui fare annotazioni, sottolineature, e commenti. Ne sono usciti 361 autoritratti e le parole di Omero, con le loro aggiunte, come un’opera collaborativa sono diventate le parole della reclusione, del loro stato d’animo, dello stigma e dell’estremo disagio che i detenuti vivono nelle nostre carceri. “La prima volta che ho letto i testi ho pianto parecchio e ho pensato che il progetto aveva passato di molto ciò che speravo e che a quel punto l’unica cosa da fare era portarlo in giro il più possibile” ha detto Spazzini Villa a Zeta. Il 13 maggio 2025 il deputato di Azione, Fabrizio Benzoni, ha presentato l’opera “Autoritratti” alla Camera dei deputati, insieme alle associazioni: Nessuno tocchi Caino, Il Carcere possibile, Antigone e Amnesty International e al deputato di Italia Viva Roberto Giachetti. “Autoritratti è un caleidoscopio emotivo di chi è privato della libertà fisica e rimane aggrappato alla vita solo attraverso la forza del pensiero, del ricordo, della speranza” ha detto il deputato di Iv. È un’opera dentro l’opera “come se l’Odissea fosse il blocco di marmo che Michelangelo scolpiva creando il capolavoro, la statua, che però era già lì nella pietra” ha aggiunto Susanna Mariotti di “Antigone”. L’idea a Spazzini Villa è venuta quasi da sola: “Cercare le parole all’interno dei testi è un lavoro che già facevo io, poi ho conosciuto la direttrice del carcere di Bollate e ho chiesto di poterlo fare anche lì” ha continuato l’artista milanese. I detenuti non sono però solo quelli di Bollate, che si distingue in Italia come modello veramente improntato alla rieducazione e al reinserimento come previsto dalla Costituzione e la differenza tra loro si nota, dai secondi è emerso “più frustrazione e senso di privazione di dignità”. E come potrebbe essere altrimenti se gli episodi all’ordine del giorno sono come quelli che ha raccontato Susanna Mariotti: “l’altro giorno, in un istituto di cui non dirò il nome, tutti i prigionieri si sono affacciati alle loro celle per farmi vedere le loro forchette di plastica, alcune con due dentelli, alcune con uno solo. Quelle forchette gliele avevano dette un mese fa, erano ormai tre settimane che mangiavano con le mani”. Secondo quanto ha riferito il deputato Benzoni a Zeta “oggi il carcere non fa null’altro dal giorno in cui si entra al giorno in cui si esce, non prepara l’uscita, non prepara una nuova vita, invece è la nostra Costituzione che dice che il carcere deve essere educativo, quindi serve lavoro in carcere, formazione, servono più psicologi, più progetti che permettono alle persone di crearsi una rete che quando esce sia d’aiuto”. La strada per la rieducazione non ha nulla a che fare con la riduzione allo stato quasi animale, con la bruttezza che i prigionieri hanno attorno ogni giorno, con la scarsità di servizi: “A Poggio Reale ci sono solo quattro educatori su duemila cento detenuti - ha detto Sergio Schlitzer, ex direttore de “Il carcere possibile” - come il mare è l’ostacolo ma anche l’unica via di ritorno per Ulisse, così la prigione lo è per i detenuti, ma il nostro sistema vuole fiaccare la speranza del ritorno”. Si pensa sempre che in carcere ci sia tanto tempo per meditare, su se stessi, sulla pena e il delitto ma non è così “con il sovraffollamento che c’è nessuno ha la possibilità di pensare” ha ricordato Schlitzer. La situazione del sistema carcerario - In Italia le strutture ospitano il 120% della loro capienza regolamentare con un sovraffollamento del 20% a livello nazionale, a dirlo è il rapporto del 18 aprile 2025 redatto dalla Corte dei Conti. Nell’analizzare lo stato di attuazione del “Piano Carceri” la Corte evidenzia i ritardi nella costruzione delle nuove strutture detentive che sarebbero invece utili a contrastare il sovraffollamento, ma non dimentica che il problema non è solo questo: “La realizzazione di nuovi posti non è l’unica strategia da perseguire per il complessivo miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti. Si intende sottolineare con necessità e urgenza che giungano a conclusione gli ulteriori interventi di manutenzione straordinaria già programmati per il miglioramento delle condizioni ambientali, igienico-sanitarie e trattamentali all’interno degli Istituti”. Dai dati della Corte sono stati 83 i suicidi nel 204 e nel 2023 sono stati decisi ottomila ricorsi relativi alla condizione detentiva. Nelle note a piè di pagina della relazione si legge che “più della metà dei ricorsi promossi per violazione dell’art. 3 della Cedu sono stati accolti perché riconosciuti come inumani e degradanti, a causa della scarsa dignità della qualità della vita, i trattamenti cui sono stati sottoposti i soggetti detenuti in carcere in situazioni di grave sovraffollamento”. Dal carcere di Monza al Teatro Parioli: i detenuti-attori vincono il Premio Maurizio Costanzo mbnews.it, 15 maggio 2025 Un’opera intensa nata dietro le sbarre conquista il palco del Teatro Parioli. Ci sono storie che, pur nascendo nel silenzio, riescono a farsi sentire forte. È il caso di “Senza Parole”, l’opera teatrale realizzata all’interno della Casa Circondariale Sanquirico di Monza dal gruppo i Geniattori, che ha vinto il 1° Premio Maurizio Costanzo - Teatro in Carcere. Un riconoscimento prestigioso, promosso dall’associazione omonima fondata da Camilla Costanzo, che premia l’impegno culturale tra le mura carcerarie. Teatro in carcere Monza: il laboratorio che diventa percorso di umanità - Il progetto è partito alcuni mesi fa nella sezione Luce del carcere, coinvolgendo una decina di detenuti. A guidarli in questo viaggio non solo artistico, ma profondamente umano, la compagnia teatrale monzese i Geniattori. “Vista la mia esperienza nelle carceri, sono stato coinvolto sin dall’inizio per occuparmi della parte più educativa e relazionale con i ragazzi,” racconta Paolo Piffer, anima sociale del progetto. “Per molti di loro, il teatro è terapeutico: si esercitano a riconoscere, governare e rappresentare le emozioni.” Una vera e propria palestra emotiva, dove il palcoscenico diventa spazio di elaborazione interiore e consapevolezza. Il prossimo 20 maggio, i Geniattori e i detenuti-attori avranno il privilegio di salire sul palco del Teatro Parioli di Roma, uno dei luoghi simbolo della scena culturale italiana. Un debutto che vale come un riscatto. “Un premio inaspettato che ci riempie di orgoglio,” afferma Mauro Sironi, regista e guida artistica del gruppo. “Sono state ben 26 le compagnie partecipanti. In scena rappresentiamo le diverse fasi di una giornata tipo in carcere: si sorride, ci si commuove. È un’opera che fa riflettere e che accende un faro su un tema delicatissimo.” Il successo di “Senza Parole” è anche merito di una rete di sostegno che ha creduto nel potere trasformativo della cultura: la direttrice del carcere Dott.ssa Buccoliero, la Dott.ssa Saccone, l’intera area educativa, i magistrati di sorveglianza e gli agenti penitenziari. Tutti hanno contribuito a rendere possibile non solo il laboratorio, ma anche la trasferta romana. Una giuria d’eccezione per un premio speciale A confermare il valore del lavoro dei Geniattori, una giuria prestigiosa composta da: Pino Strabioli (presidente), regista e conduttore; Camilla Costanzo, scrittrice e sceneggiatrice; Valerio Mastandrea, attore e regista; Brunilde Di Giovanni, presidente dell’associazione “Voglia di Teatro”; Paolo Conti, editorialista del Corriere della Sera. Cultura e inclusione: quando il teatro rompe le catene - Il successo di “Senza Parole” dimostra come il teatro in carcere possa essere molto più di una semplice attività ricreativa: è un ponte tra mondi, uno strumento di espressione e riconciliazione. Un faro acceso su vite spesso invisibili, ma piene di storie che meritano di essere raccontate. Che cosa dà un peso ai referendum di Serena Sileoni La Stampa, 15 maggio 2025 L’invito improvvido del presidente La Russa, seconda carica dello Stato, a non votare i referendum di giugno è l’occasione per guardare all’astensione come una foto in scala di grigio, anziché come una realtà in bianco e nero. Tutti i primi referendum abrogativi, tra gli anni 70 e 80, raggiunsero il quorum. Si trattava di quesiti importanti come il divorzio, il finanziamento dei partiti, l’aborto, l’ergastolo, il possesso di armi, la scala mobile, il nucleare, la responsabilità civile dei magistrati. Nel 1990, le consultazioni su caccia e pesticidi per la prima volta non raggiunsero la maggioranza dei votanti, ma già nel 1991 l’esito del referendum in materia elettorale cambiò, come noto, la natura politica della repubblica italiana. Ad esso seguirono una serie di referendum del 1993 che raggiunsero il quorum perché trainati, in unica consultazione, da questioni che continuavano a toccare il cuore dell’organizzazione politica e di governo, scossa da Mani pulite e dalla crisi dei partiti della prima repubblica. Gli italiani dovevano votare, infatti, sul sistema elettorale per il Senato, sul finanziamento pubblico dei partiti, sull’abrogazione del ministero delle partecipazioni statali. Stesse considerazioni valgono per i dodici quesiti del 1995, che avevano tra loro tematiche particolarmente sentite dall’opinione pubblica negli anni di nascita del berlusconismo, a partire dalla privatizzazione della Rai e dal sistema delle concessioni televisive. Si aprì poi un lungo periodo di fallimenti referendari, in parte per la natura delle questioni, troppo lontane o di difficile lettura per gli elettori (abolizione dell’ordine dei giornalisti, incarichi extragiudiziali dei magistrati, caccia, poteri di governo nelle aziende private, ordinamento giudiziario, trattenute associative e sindacali in busta paga), in parte per una vera e propria strategia di voto, come nel caso dell’art. 18 e della procreazione assistita. Anche il nuovo quesito in materia elettorale del 1999 non raggiunse il quorum, ma per pochissime migliaia di voti. Si dovette attendere un altro tema fortemente sentito e propagandato, quello sul nucleare e sull’acqua come bene comune, per una partecipazione consistente a favore del sì. Pochi anni fa, infine, l’organizzazione della magistratura ha confermato di essere un argomento per il quale le persone non vanno a votare. I referendum costituzionali, che non hanno un quorum di validità e per i quali l’astensione non può essere una modalità di voto negativo, mostrano un aumento di affluenza dal 34% nel 2001 a più del 50% per i successivi, con un picco di oltre il 65% per quello sulla riforma Renzi-Boschi. Non è vero, quindi, che l’astensione è ormai una deriva della partecipazione politica in tempi di irreversibile crisi democratica. Piuttosto, è una combinazione di fattori, specie nel caso di referendum abrogativo, che rende un po’ più sfumata la realtà del voto come dovere civico. Le persone sembrano ancora disposte a recarsi alle urne referendarie quando capiscono bene (o pensano di capire bene) l’oggetto ma soprattutto gli effetti diretti e indiretti del loro voto, quando si sentono coinvolte nelle cose che ritengono importanti e alla loro portata e vogliono cambiarle. Viceversa, l’astensione non è solo disimpegno, ma anzi - come è consentito dalle stesse regole di voto - può essere una manifestazione di dissenso sull’oggetto, o di sfiducia o distanza più generale verso decisioni e processi democratici in cui ritengono di essere inutilmente o capziosamente chiamati in causa. Quando Einaudi diceva che “nessun partito, grande o piccolo, vorrà procurarsi l’odiosità presso gli elettori di disturbarli continuamente per fare un referendum” stava dicendo una cosa molto semplice: le persone hanno i loro problemi, le loro vite, le loro preoccupazioni e per questo delegano un ridotto numero di eletti a occuparsi di ciò che non vogliono, non possono e non devono gestire direttamente. L’astensionismo, nelle votazioni referendarie ma anche in quelle politiche, non è né un’onta né un vanto. Più semplicemente è una possibilità politica e costituzionale che va interpretata e capita, caso per caso, senza semplificazioni. Gli estensori della Costituzione ne avevano piena consapevolezza, tanto da richiedere un quorum di validità per i referendum abrogativi e non per quelli costituzionali. Sapevano bene che l’astensione ha un valore politico su cui i partiti per primi avrebbero, nel caso, dovuto riflettere. Si illusero, però, sull’utilizzo accorto di questo strumento. Il PD, ad esempio, ha deciso di usare i quesiti di giugno su Jobs Act e lavoro per una conta interna. Ed è un peccato, perché nella convocazione c’è anche un referendum sulla cittadinanza che merita, invece, tutta la serietà dell’informazione e l’attenzione degli elettori. C’è da augurarsi che le prossime settimane siano più dedicate a questo quesito che non alle inutili provocazioni e polemiche. Referendum sulla cittadinanza, quale domani immaginiamo di Maurizio Ambrosini Avvenire, 15 maggio 2025 Il quesito referendario dell’8-9 giugno relativo alla durata della residenza richiesta per acquisire la cittadinanza italiana (da 10 a 5 anni) è l’occasione per una riflessione sul significato di questo fondamentale istituto delle democrazie moderne, centrale nella regolazione dei rapporti dello Stato con gli individui. Grazie alla cittadinanza, questi si emancipano dalla condizione pre-moderna di sudditi: possono concorrere alle decisioni con il voto, ricevendo un incentivo importante a identificarsi con la comunità nazionale e ad assumere i doveri relativi. La cittadinanza diventa così il perno dell’appartenenza e della solidarietà nazionale: il collante che tiene insieme i membri della nazione, li fa sentire solidali fra loro, e li distingue dai non-cittadini. Di qui deriva anche l’ambiguità della cittadinanza, che funziona come un confine interno: include chi fa parte della nazione, mentre esclude chi non ne fa parte. L’adozione di una lingua comune e propria, l’educazione obbligatoria, a cui si sono aggiunti nel ’900 l’espansione del welfare e i programmi radiotelevisivi che hanno diffuso la lingua comune: tutto questo ha contribuito a consolidare il legame tra lo Stato-nazione e i suoi cittadini. Gli immigrati pongono una sfida a questa architettura sociopolitica. Pur risiedendo sul territorio stabilmente e concorrendo all’economia nazionale (2,4 milioni gli occupati regolari in Italia), appartengono a un altro Stato. Prima o poi ricongiungono le famiglie o ne formano di nuove, generano dei figli, li mandano a scuola. Peggio ancora, dal punto di vista dei propugnatori di un’identità nazionale nitida e indiscussa: possono unirsi con persone del luogo, dando vita a delle famiglie miste. Avanza la mescolanza, si offusca la distinzione tra cittadini non cittadini. Inevitabilmente, almeno sotto regimi democratici, gli immigrati accedono a diversi diritti: in primo luogo quelli sociali, derivanti dal lavoro dipendente. Poi quelli civili, come il diritto di culto e di associazione. Rimangono invece esclusi dai diritti politici, finché non riescono a ottenere quella che con un termine curioso si definisce “naturalizzazione”. La mancanza dei diritti politici pone un problema, che sotto regimi democratici è diventato piuttosto ingombrante: sul territorio nazionale vivono insieme, soggetti alle stesse leggi ed esposti - fra l’altro - allo stesso prelievo fiscale, individui che hanno un diverso grado di potere nei confronti di quelle leggi e di quelle norme fiscali: gli uni, grazie alla cittadinanza nazionale, possono modificare con il voto le leggi a cui devono sottostare, gli altri possono solo subirle, o eventualmente trasferirsi altrove. Secondo Michael Walzer, si tratta della più comune forma di tirannia: quella per cui alcuni decidono per tutti. Gli Stati hanno elaborato condizioni e procedure più o meno inclusive per regolare questo squilibrio. Persiste il primato della regolazione nazionale, anche nell’ambito dell’Ue. Ma nell’accesso alla cittadinanza si è diffusa nella maggioranza dei paesi dell’Ue a 15 la condizione dei cinque anni di residenza, su cui si è recentemente allineata la Germania, raggiungendo Francia, Portogallo, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Svezia, Irlanda. Appena più restrittive sono Austria e Finlandia, che richiedono sei anni. Fuori dall’Ue, la regola dei cinque anni vale nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Anche laddove i tempi sono superiori - come in Spagna, Danimarca e Grecia -, vigono significative eccezioni. Si applicano inoltre pressoché ovunque condizioni più favorevoli per i minori, specialmente quando sono nati sul territorio. La disuguaglianza sul piano politico tra cittadini nazionali e immigrati è poi mitigata in diversi paesi dall’accesso al voto locale. Il referendum al fondo è una domanda che poniamo a noi stessi: se vogliamo rinchiuderci in un’identità nazionale rivolta al passato, oppure declinarla al futuro, aperta a una società multietnica che chiede di essere ricomposta in un orizzonte condiviso. Migranti. “Venduti dalla Tunisia per un barile di carburante” di Michele Gambirasi Il Manifesto, 15 maggio 2025 A Palazzo Madama le testimonianze delle vittime della tratta di esseri umani, scambiati tra Tunisia e Libia. Emergono nuove testimonianze della tratta di esseri umani al confine tra Tunisia e Libia, già documentate e denunciate dal rapporto State trafficking pubblicato a fine gennaio e presentato al Parlamento europeo. Ieri due testimonianze dirette sono state rese al Senato, nel corso della conferenza stampa organizzata da Ilaria Cucchi (Avs) per denunciare il fenomeno e le compromissioni del governo italiano attraverso gli accordi con i due paesi nordafricani; altre tre invece sono state pubblicate dalla Ong Sos Mediterranèe, dopo averle raccolte a bordo della nave Ocean Viking a fine gennaio nel corso di una missione di salvataggio. I racconti sono la controprova di quanto riportato nello studio, preparato da un gruppo di ricercatori anonimi attraverso trenta testimonianze dirette, con il supporto di Asgi, Border Forsensics e OnBorders, e denunciano un sistema di traffico di esseri umani tra i due paesi venduti molto spesso per poche decine di euro. “Ad aprile 2024 ho provato per la prima volta a prendere il mare dalla Tunisia, ma siamo stati fermati e riportati indietro dalla Garde nationale” ha raccontato Rose C. al Senato. “Da lì ci hanno trasferito nel deserto vicino al confine, dove siamo rimasti per ventuno giorni in una gabbia mangiando pochissimo. La mattina del ventiduesimo giorno ci hanno portato al confine con la Libia e ci hanno scambiato per nulla: un uomo è stato venduto per un barile di carburante” ha proseguito. Testimonianza analoga a quella di Charly - nome di fantasia - raccolta a bordo della Ocean Viking: “La polizia tunisina ci ha venduti a banditi libici, il prezzo era di 150 dinari, circa 25 euro, meno di quello di una capra”. Altri racconti testimoniano l’aumento, nelle prigioni libiche, della pratica del traffico di organi. “Sono emerse nuove prove. La responsabilità delle autorità tunisine è sempre più evidente. E il legame con il sistema di respingimenti, detenzione e sfruttamento in Libia rivela un disegno criminale. Finanziato, anche indirettamente, da fondi europei e italiani. Il nostro paese deve controllare che i fondi dati alla Tunisia non finiscano per sostenere appalti militari e di polizia nel traffico di esseri umani, e bisogna creare dei corridoi umanitari per proteggere questi testimoni” ha detto Ilaria Cucchi. Migranti. L’Italia e la Gomorra di Libia di Alberto Negri Il Manifesto, 15 maggio 2025 L’Italia e l’Europa hanno fatto in Libia una scelta comprensibile nel breve periodo - soprattutto a scopi propagandistici presso l’opinione pubblica - ma miope. Regolamenti di conti mortali e scontri tra le fazioni in Tripolitania, avanzata delle truppe del generale Khalifa Haftar da Bengasi alla Sirte: la Libia sfugge a ogni controllo e soprattutto a quello del governo di Giorgia Meloni, che ieri a un certo punto stava valutando persino l’evacuazione degli italiani. Questa confusione e l’essere sempre in balìa delle fazioni e dei clan libici è dovuta essenzialmente alla scelta italiana ed europea di rinunciare a ogni strategia politica, tanto è vero che l’influenza militare maggiore è quella della Turchia e Ovest e della Russia di Putin, padrino del generale Haftar, a Est, in Cirenaica. Ma mentre Erdogan e Putin si parlano, anche a distanza, noi riceviamo informazioni di seconda mano, e accuratamente “masticate” dal sultano turco, e nessuna ovviamente da Mosca che ha appena ricevuto Haftar in pompa magna: oggi il generale riceve sostegno militare non solo da Mosca ma anche dalla Turchia che un tempo lo osteggiava apertamente e nel 2019 era intervenuta a difesa del governo Sarraj di Tripoli. Come cambia il mondo… e qui ce ne accorgiamo sempre con un leggero ma fatale ritardo. L’Italia e l’Europa hanno fatto in Libia una scelta comprensibile nel breve periodo - soprattutto a scopi propagandistici presso l’opinione pubblica - ma miope. Ammantato e imbellettato da accordi internazionali che dovrebbero fornire una copertura di legalità, l’Italia ha impiantato il “sistema libico”, ovvero un meccanismo di corruzione che prevede il versamento ai libici di somme di denaro da parte dell’Italia e dell’Europa in cambio della repressione violenta dei flussi migratori. Così ci siamo trovati in mano non a uno stato, sia pure in ricostruzione e dotato di ingenti risorse energetiche che da sempre interessano l’Eni, ma siamo precipitati nelle cronache della malavita libica. Per contenere i flussi migratori ci siamo affidati a dei criminali. Esemplare il caso del generale Almasry che fa parte a pieno titolo di questo sistema. L’uomo, noto come il torturatore dei migranti e il capo del carcere di Mitiga, un criminale che aveva costruito la sua fama con un regime del terrore fatto di abusi, stupri e omicidi, è un ricercato dalla corte penale internazionale dell’Aja che avevamo arrestato a Torino e poi abbiamo rilasciato con un cavillo e il silenzio farisaico del ministro della Giustizia. In Libia siamo talmente in buone mani che lunedì a Tripoli hanno fatto fuori, in circostanze poco chiare, un altro nostro “amico” del sistema di repressione libico. Si tratta di Abdulghani al Kikli, noto come “Ghnewa”, capo della potente Ssa, l’Apparato di Supporto alla Stabilizzazione. Anche Al Kikli, come Almasry, è stato più volte avvistato in Italia dove andava e veniva indisturbato ospite. Alle sue milizie era affidata in parte la gestione delle carceri dove vengono rinchiusi i migranti. E infatti il suo nome è apparso in diversi dossier dell’Onu in cui si parla di abusi e torture nelle carceri di quello che veniva chiamato il “signore di Abu Salim”, la vecchia e famigerata prigione di Gheddafi che non ha mai smesso di inghiottire le sue vittime anche dopo la caduta del raìs. A cosa si deve questo caos in Tripolitania? Siamo di fronte a lotte di potere e di soldi in cui il governo del premier Dbeibah è intervenuto appoggiandosi ad altre milizie, in particolare la Brigata 444, formata da combattenti provenienti da Misurata e ritenuta vicina al primo ministro, ovvero colui che firma gli accordi con l’Italia e l’Europa. Chi oltrepassa certe “linee rosse” viene eliminato. È stato il caso di Bija, il noto trafficante di Zawiya, ucciso vicino a Tripoli nell’estate scorsa. E come l’eliminazione, tentata ma non riuscita, del ministro dell’Interno Adel Juma il 12 febbraio scorso. Ricoverato per diversi mesi a Roma fu visitato in marzo proprio da Al Kikli. Nella girandola di alleanze e rivalità tripoline chi comanda ha la pistola in tasca e noi come Paese ci siamo in mezzo. L’assenza di una vera strategia politica libica ha portato all’ascesa del generale Haftar, ex ufficiale di Gheddafi che nei suoi vent’anni di esilio in Usa è anche diventato cittadino americano. Il feldmaresciallo, che tiene in pugno la Cirenaica e l’Esercito Nazionale Libico (Lna), è sbarcato a Mosca, invitato il 9 alla parata della vittoria. Lui gioca una partita geopolitica che può disegnare nuovi equilibri nel caos libico. La Russia, dopo il parziale ritiro dalla Siria, ha scelto la Libia come nuovo avamposto africano e mediterraneo. Ma la vera sorpresa è un’altra. Haftar ha mandato il figlio Saddam ad Ankara lo scorso aprile, ricucendo con la Turchia che nel 2020 lo aveva bloccato alle porte di Tripoli. Haftar ha ottenuto forniture di droni turchi, addestramento per 1.500 uomini dell’Lna ed esercitazioni navali congiunte. In sintesi la Turchia, che mantiene basi in Tripolitania, si propone come mediatore per unificare le forze armate libiche. Il sultano di Ankara ha delle strategie, a noi, a quanto pare, resta soltanto la Gomorra libica.