Carcere, la lettera di 35 accademici a sostegno di “Ristretti Orizzonti” di Ilaria Dioguardi vita.it, 14 maggio 2025 Intervista con Davide Galliani, professore di Diritto costituzionale all’Università di Milano. Trentacinque docenti universitari hanno firmato una lettera aperta indirizzata al Dap per supportare la testata dell’istituto padovano, dopo l’emanazione di una nota in cui si limitano gli orari in cui i detenuti di alta sicurezza possono uscire dalle celle. L’estensore Davide Galliani: “Non si può generalizzare e considerare tutte le persone di quelle sezioni problematiche perché ci sono stati eventi critici. Chiediamo un confronto con il Dipartimento”. Il 27 febbraio scorso il direttore generale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria-Dap ha emanato una nota, avente ad oggetto le modalità di custodia dei detenuti di alta sicurezza, in cui si impone una restrizione sugli orari di apertura delle “camere di pernottamento” e attività separate dai detenuti comuni. Preoccupati per le conseguenze, 35 docenti universitari italiani hanno scritto una Lettera aperta al Dap in sostegno di Ristretti Orizzonti, testata la cui redazione è da 28 anni nella Casa di reclusione Due Palazzi di Padova, impegnando quotidianamente una cinquantina di detenuti e contribuendo al loro futuro reinserimento nella società. Tra di loro, anche chi proviene dal circuito alta sicurezza. La lettera è stata redatta da Davide Galliani, professore di Diritto costituzionale all’Università di Milano. Galliani, perché lei e 34 suoi colleghi avete deciso di scrivere una lettera al Dap? Ci tengo a precisare che non è un appello, che viene fatto alla ricerca di firme, di sostegno, di legittimazione. Con questa lettera aperta chiediamo al Dap un momento di riflessione per comprendere se ci sono spazi per tornare sui propri passi su un tema molto importante. Ho chiesto l’adesione di un numero limitato di colleghi che si occupano di diritto penitenziario. Da quando la lettera è diventata pubblica, sto ricevendo la volontà di aderire di tanti altri colleghi. Ci fa piacere ma lo scopo non era fare massa critica. Siamo partiti da un caso specifico, quello della testata Ristretti Orizzonti, un giornale che esiste da quasi 30 anni e fa molte cose buone, che inizia a subire le ripercussioni della nota, che prevede un regime di custodia dei detenuti di alta sicurezza in cella chiusa. Cosa significa, per Ristretti Orizzonti? Significa che i detenuti di alta sicurezza non possono più uscire dalla loro sezione per andare nella redazione del Due Palazzi di Padova e fare le attività che ormai da tanti anni facevano. Sono tutte attività importanti perché hanno come scopo la rieducazione, la risocializzazione. Uno degli strumenti formidabili della testata è il Notiziario quotidiano dal carcere, che tutte le mattine la redazione invia agli iscritti alla newsletter e che pubblica sul proprio sito: una vera e propria rassegna stampa, a tappeto, precisa, delle notizie sul carcere del giorno precedente. Uno strumento indispensabile per gli studiosi, per gli addetti ai lavori, che vanno a scovare gli articoli anche delle testate più piccole, basta che parli di detenuti o di carcere. Questa nota del Dap rischia di portare negative ripercussioni su questo lavoro, che era collettivo. Quanto è importante che, in carcere, ci siano lavori collettivi? Una delle tante positività di Ristretti Orizzonti era quella di mettere insieme detenuti comuni e di alta sicurezza. Con questa nota, i detenuti di alta sicurezza devono avere una custodia a celle chiuse. Lo spunto di questa lettera aperta nasce dalla testata padovana come strumento importante e di conoscenza, da tutelare. Ma iniziano a esserci grossi problemi per diversi progetti in carcere, anche delle università. Il diritto allo studio vale per tutti i detenuti, dal primo all’ultimo. Anche i detenuti al 41 bis hanno il diritto di iscriversi all’università. Viste le esperienze passate di vita di molti detenuti, lo studio fino al livello universitario andrebbe incentivato: sono molto importanti per permettere la rieducazione. Crediamo che su una materia così delicata come quella riguardante i regimi di custodia, bisognerebbe rispettare la Costituzione, la quale dice che i modi della detenzione devono essere stabiliti con legge. Ci spieghi meglio... Una cosa è la nota del direttore generale della Direzione generale detenuti e trattamento del Dap (Ernesto Napolillo, ndr), un’altra è una legge, che implica dibattito parlamentare, scontro, dialogo tra maggioranza e opposizione, quindi una discussione della società, che in miniatura è il Parlamento. La Costituzione, non a caso, prevede una riserva di legge. Tecnicamente, quella del 27 febbraio scorso è una nota, di fatto è una circolare che è tutto tranne che una legge, approvata in un modo del tutto differente rispetto alla trasparenza, alla collegialità, a tutto quello che è il Parlamento. Sembra una questione di forma, ma in realtà non lo è affatto. È costituzionalmente necessario che ad esprimersi sia il Parlamento, e non il Governo, il Dap, il direttore generale. “Non possono essere consentite libertà di movimento e aggregazione tipiche del modello custodiale aperto - si legge nella circolare - poiché l’osservazione e la vigilanza devono essere sempre improntate alla massima attenzione”... Io e i miei colleghi universitari, che hanno firmato con me la lettera aperta, riteniamo che sia difficile trovare una qualche compatibilità tra una Costituzione che parla di sviluppo della persona e di eliminazione degli ostacoli che ne impediscono il pieno sviluppo, parla di responsabilità penale personale, di rieducazione, e le celle chiuse: quanto stanno dentro questo perimetro costituzionale? Immaginare che si possa fare più rieducazione chiudendo le persone per maggior tempo nelle celle, piuttosto che facendocele stare di meno, mi sembra abbastanza azzardato. Non è che la nota del Dap sia avulsa dal discorso della rieducazione. La nota del Dap dice anche che “l’amministrazione penitenziaria deve adoperarsi, sul piano organizzativo affinché le persone detenute e internate siano assegnate agli istituti, ovvero alle sezioni degli istituti, sulla base di un criterio di omogeneità” al fine di “meglio realizzare le azioni di osservazione scientifica della personalità e di trattamento individualizzato”... Sì, il Dap afferma che la migliore individualizzazione del trattamento la si ottiene con le celle chiuse perché, in questo modo, si evitano le promiscuità tra i detenuti, si trattano in modo più specifico. Per questo, i detenuti di alta sicurezza restano nell’alta sicurezza. Anzi: nelle celle di alta sicurezza. È un tornare indietro, un regredire da cella aperta a cella chiusa. Un aggravamento della condizione è comprensibile e ragionevole quando c’è alla base una motivazione. Se ci sono stati dei problemi legati ai detenuti di alta sicurezza, vanno affrontati caso per caso. Non si può partire da uno specifico caso, per il quale si potrebbe dire che era meglio aver avuto la cella chiusa, per chiudere tutti i detenuti di alta sicurezza, anche persone che non hanno mai dato problemi. Questo è quello che contestate, la generalizzazione? Il Dap dice che, chiudendo i detenuti di alta sicurezza nelle loro celle, si ottiene più individualizzazione. Noi diciamo che in realtà si cozza contro l’individualizzazione perché il miglior trattamento individualizzato, tendente alla rieducazione, si ha guardando la singola persona, non considerandole tutte uguali. Il Dap dice, nella nota, che sono successi degli eventi un po’ critici, problematici. Quello che non va bene è la generalizzazione nel considerare tutti i detenuti di alta sicurezza in modo critico poiché sono successe delle questioni critiche. Io in carcere vado da tantissimi anni occupandomi di ergastolo ostativo. Ho conosciuto tanti detenuti di alta sicurezza. È irragionevole presupporre che, perché sono in quella sezione, sono un pericolo per l’ordine e la sicurezza: questo fa purtroppo la nota del Dap. Cosa chiedete con la vostra lettera aperta? La nostra lettera vuole essere un invito a confrontarci con il Dap, vorremmo chiedergli se, forse, non ha preso un po’ troppo in fretta questo provvedimento e discuterne. A nostro avviso, ci sono delle questioni che vanno dibattute, partendo dallo stesso punto di vista. Se vogliamo garantire la sicurezza e l’ordine dentro gli istituti penitenziari, il modo migliore è trattare ogni persona in modo personalizzato, diversamente da come si trattano le altre. Se si trattano tutti allo stesso modo, non si garantiscono affatto perché, ripeto, ci sono persone che non hanno mai avuto a che fare con delle criticità. Nessuno nega che in carcere ci siano tanti problemi. Chiediamo una riflessione su quelle che possono essere le conseguenze più gravi di questa circolare, che è di quasi tre mesi fa. Ho scritto adesso questa lettera perché iniziano a vedersi gli effetti. Questa nota del Dap rappresenta un po’ l’andazzo del carcere. Qual è l’andazzo del carcere? Oltre ad essere un mondo conosciuto pochissimo dalle persone, ci sono una miriade di atti (come quello di cui stiamo parlando), circolari, note, linee guida, che rendono ancora tutto più oscuro, tutto poco trasparente. Però per un detenuto cambiano la vita, quindi bisogna incentivare la massima trasparenza. I dati sulle carceri, sul sito del ministero della Giustizia, ci sono, ma non tutti e, quelli che ci sono, non sono aggiornati come dovrebbero essere. Non bisogna nascondere le difficoltà e tantomeno i punti di forza. A tutti fa comodo non guardare dentro un carcere perché tanto pensiamo che là ci stiano delle persone che hanno sbagliato, che sono in colpa. Il killer di Milano, destra e Csm contro le toghe di Giulia Merlo Il Domani, 14 maggio 2025 I laici vicini al centrodestra chiedono una pratica sulla magistrata che ha ammesso al lavoro esterno De Maria. Sisto (isolato) invoca equilibrio. Le misure alternative funzionano. Serve “una pratica per eventuali profili di responsabilità del magistrato di sorveglianza che ha autorizzato il lavoro esterno” di Emanuele De Maria, che domenica ha ucciso Chamila Wijesuriya e poi si è suicidato gettandosi dal Duomo di Milano. A scriverlo al comitato di presidenza del Csm sono stati i cinque consiglieri laici del centrodestra, che chiedono un esame “sia sotto l’aspetto professionale e sia sotto quello eventualmente disciplinare” della magistrata milanese. De Maria era detenuto a Bollate dopo una condanna definitiva a 14 anni e 3 mesi per l’omicidio di una donna tunisina nel 2016 e da due anni lavorava come receptionist in un albergo. L’uomo era stato ammesso al lavoro esterno dopo aver scontato un terzo della pena ma, come hanno scritto i laici, “la concessione è subordinata” all’approvazione del magistrato di sorveglianza. Tuttavia, prima dell’omicidio, il suo profilo era quello di un detenuto che non aveva mai trasgredito alle regole, “dimostrando correttezza nello svolgimento dell’attività all’esterno del carcere” come precisato anche dal viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto (Forza Italia). Per questo l’iniziativa dei laici di maggioranza ha un peso anche politico, viste le dichiarazioni del centrodestra all’indomani dei fatti. “Quei magistrati hanno sbagliato e il loro errore va sanzionato”, è stato l’affondo del forzista Maurizio Gasparri. Cui ha fatto eco il sottosegretario della Giustizia, Andrea Delmastro (FdI), secondo cui “una riflessione su come sia potuto accadere che una persona che poi si è comportata così fosse stata giudicata non pericolosa socialmente va fatta”. A seguire un altro meloniano come Riccardo De Corato ha attaccato “certa magistratura buonista e di sinistra, troppo morbida nei confronti di alcuni carcerati che devono scontare le loro pene all’interno delle galere”. Il ministero della Giustizia sta approfondendo il dossier anche se servirebbe prudenza, come ha precisato (voce piuttosto isolata) Sisto: “Il ministro valuterà con attenzione atti e fatti prima di decidere se intervenire con un’ispezione. I dati che conosciamo non sono univoci” e “si tratta di un caso molto specifico”. I percorsi rieducativi - Eppure, nonostante le parole di Sisto ad analizzare il contesto, il fatto di cronaca è diventato una questione politica. E a poco sono servite le precisazioni sull’imprevedibilità di quanto accaduto. “Nulla poteva lasciare presagire l’imprevedibile e drammatico esito”, hanno scritto il presidente della Corte d’appello di Milano, Giuseppe Ondei, e la presidente facente funzioni del tribunale di Sorveglianza di Milano, Anna Maria Oddone. I giudici avevano acquisito le informazioni delle forze dell’ordine e il permesso di lavoro era stato concesso solo dopo un’istruttoria con l’amministrazione penitenziaria. A confermarlo è intervenuto anche il legale dell’uomo, che ha parlato di “relazioni completamente positive” e di “nessun segno di squilibrio” per un detenuto che stava scontando la pena in uno dei penitenziari considerati modello in Italia. Nulla di tutto questo ridimensiona la portata tragica del femminicidio, ma nulla lo lasciava nemmeno presagire, almeno sulla base dei dati a disposizione degli operatori. Il caso però rischia di diventare il pretesto per mettere in discussione l’istituto stesso dei percorsi rieducativi, oltre che riaccendere lo scontro tra centrodestra e magistratura. “Va valutato se, per certi tipi di reati, sia necessario un ripensamento riguardo alla possibilità di usufruire del lavoro all’esterno. Compito che spetta al parlamento, evitando scelte d’impeto”, ha spiegato Sisto, perché “la vicenda non deve sminuire la necessità dei percorsi rieducativi”. Altrimenti “avremmo un rimedio peggiore del male”. Del resto, numeri alla mano forniti dall’associazione Antigone, oggi sono 97mila i detenuti che stanno seguendo un percorso alternativo e meno dell’1 per cento delle misure viene revocata per la commissione di nuovi reati, mentre il 70 per cento di chi sconta tutta la pena in carcere poi torna a delinquere. “Mettere in discussione questi strumenti per un singolo caso di cronaca è sbagliato e anche pericoloso proprio per la sicurezza”, è stato il commento del presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. Eppure il tic contro la “magistratura rossa” è scattato subito - almeno in alcuni - dentro la maggioranza. Via Arenula cauta sull’ispezione, e ora le toghe difendono i benefici di Errico Novi Il Dubbio, 14 maggio 2025 Il viceministro Sisto assicura che Nordio valuterà con “attenzione” se “procedere” sui giudici di Milano. Zaccaro (Area) ricorda: “Il lavoro esterno riduce la recidiva”. Ancora una volta la dialettica fra magistrati e governo è sospesa a un filo sottile. Alla tragica eccezionalità del caso Emanuele De Maria, il receptionist che, da detenuto in lavoro esterno, si è tolto la vita domenica con un volo dal Duomo di Milano, dopo essersi reso con molte probabilità responsabile della morte di Chamila Wijesuriyauna, la collega trovata uccisa nel Parco Nord del capoluogo lombardo. Via Arenula, com’è noto, ha avviato accertamenti per valutare se sia il caso di sottoporre il Tribunale di sorveglianza milanese a una vera e propria ispezione. È una scelta delicata: deve fare i conti con un clima reso pesante, per esempio, dalla posizione del capogruppo di FI al Senato Maurizio Gasparri, il quale ha invocato già lunedì l’espulsione dalla magistratura per i giudici che avevano concesso il lavoro extramurario al 35enne. Una linea che nella maggioranza non trova molti riscontri, certo. Ma intanto la verifica preliminare del dicastero della Giustizia è in corso. Il vice del ministro Carlo Nordio, Francesco Paolo Sisto, anche lui di Forza Italia, ha una posizione - piuttosto diversa da quella di Gasaparri - che sembra riflettere le cautele dello stesso guardasigilli: “Sul caso De Maria, il ministro valuterà con attenzione atti e fatti prima di decidere se intervenire con un’ispezione. Il soggetto lavorava da due anni come receptionist in un albergo e non aveva mai dato nessun segnale di difficoltà, non aveva mai trasgredito, nello svolgimento dell’attività all’esterno del carcere”. Pare l’implicita legittimazione delle scelte compiute dai giudici di sorveglianza. Il viceministro della Giustizia prefigura casomai una più generale riflessione sulla “possibilità di usufruire del lavoro all’esterno” in casi di “femminicida acclarato”. Eppure per Sisto “la vicenda non deve sminuire la necessità dei percorsi rieducativi: se tragedie come questa fossero il pretesto per chiudere i rubinetti della rieducazione, avremmo un rimedio peggiore del male”. Una linea chiara, che d’altra parte non può ipotecare le scelte di Nordio. Ed è qui che si gioca una dialettica in parte inedita. Intanto la prudenza di Sisto trova un corrispettivo nella nota congiunta dei presidenti del Tribunale di Sorveglianza e della Corte d’appello di Milano, Anna Maria Oddone e Giuseppe Ondei: i due magistrati confermano che il provvedimento di ammissione al lavoro esterno era stato emesso “in ragione di un percorso carcerario che si è mantenuto sempre positivo anche durante i due anni di lavoro presso l’albergo Berna, senza che nulla potesse lasciare presagire l’imprevedibile e drammatico esito”. Dopodiché una difesa ancora più generale dei benefici penitenziari concessi dai magistrati arriva da Ciccio Zacccaro, segretario della corrente progressista delle toghe “Area”: “Serve rispetto per le vittime” e serve ricordare che “i detenuti ammessi a misure alternative o al lavoro esterno tornano a delinquere in percentuale di gran lunga più bassa di chi sconta la pena tutta in carcere”. Non serve invece, e anzi “fa male”, avverte Zaccaro, “che chi ha responsabilità istituzionali colga l’occasione per l’ennesima delegittimazione della giurisdizione e per tornare alla propaganda carcerocentrica”. Poi, certo, la Procura di Milano ha acquisito il fascicolo dei colleghi della Sorveglianza, ma la scelta, finalizzata a verificare “possibili sottovalutazioni”, porterà a valutare eventuali “episodi” emersi “sul luogo di lavoro”, cioè all’Hotel Berna, e già si sa che, da novembre 2023, era filato tutto liscio. Stavolta insomma i garantisti sono in toga, e a dover misurare colpi che potrebbero scivolare in una logica “vendicativa” sono il governo e via Arenula in particolare. Come funzionano i permessi di lavoro per i detenuti, e chi li decide di Paolo Foschini Corriere della Sera, 14 maggio 2025 Misure alternative alla detenzione, benefici, affidamento, permessi, lavoro esterno. Sono diverse le modalità di esecuzione di una pena che consentono di non scontarla tutta e soltanto in galera. E a prescindere dalla loro diversità e tipologia è bene aver chiari due concetti che le accomunano. Il primo è che il legislatore, nel prevederle, non fu mosso da benevolenza buonista verso i condannati ma dall’aver compreso prima di tutti gli altri che in realtà quella era la strada per ridurre il ritorno al crimine quindi aumentare la sicurezza generale (e i dati reali gli hanno sempre dato ragione, al netto dei singoli “fallimenti” che poi conquistano la cronaca mentre le migliaia di “successi” no). “A distanza di mezzo secolo dalla legge del 1975 che ha introdotto queste possibilità - sottolinea Roberta Cossia, giudice di sorveglianza del Tribunale di Milano - ci sono tutti i i numeri per poter fare delle valutazioni concrete: scontare una condanna chiusi in carcere dal primo all’ultimo giorno non significa certezza della pena ma, nella maggior parte dei casi, solo certezza di ritorno al crimine”. Il secondo punto è che nessun “beneficio” viene concesso in automatico: c’è sempre una valutazione preliminare da parte di un giudice o di una autorità. Che si tratti della magistratura o della direzione del carcere. Tali valutazioni si basano sul percorso fatto fino a quel momento dalla persona da cui quel beneficio è richiesto e ovviamente non possono “garantire” nulla sul suo comportamento futuro: così come il rilascio della patente di guida al signor Rossi anche dopo un esame perfetto non garantisce che egli non si metterà un giorno al volante ubriaco investendo una mamma col passeggino sulle strisce. Ma vediamo quali sono questi “benefici” e come funzionano. La competenza a decidere sulla concessione di misure alternative alla detenzione (disciplinate dalla Legge. n. 354/1975) è affidata al Tribunale di Sorveglianza. Possono accedervi i detenuti che hanno evidenziato progressi nel processo di risocializzazione e devono scontare un residuo di pena che rientri nei limiti fissati dalla Legge. L’affidamento in prova ai servizi sociali (art. 47 dell’Ordinamento Penitenziario) prevede la possibilità per chi ha una pena inferiore ai tre anni di essere affidato ai servizi sociali fuori dell’istituto per un periodo uguale a quello della pena da espiare. Il provvedimento viene adottato sulla base dei risultati della osservazione della personalità, condotta per almeno un mese in istituto. Le prescrizioni relative all’affidamento in prova sono modificabili nel tempo da parte del Magistrato di Sorveglianza. La semilibertà (artt. 48 e seguenti dell’Ordinamento Penitenziario) consiste nella possibilità per il condannato di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto; possono essere espiate in regime di semilibertà la pena dell’arresto e della reclusione non superiore a sei mesi, se il condannato non è affidato in prova al servizio sociale. In certi casi il condannato può essere ammesso al regime di semilibertà anche dopo l’espiazione di almeno metà o due terzi della pena, a seconda dei reati commessi. L’ammissione al regime di semilibertà è disposta in relazione ai progressi compiuti nel corso della detenzione, quando vi siano le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società. La detenzione domiciliare (art. 47 ter dell’Ordinamento penitenziario) - possibilità prevista per molti reati ma non per tutti - può essere espiata dal condannato nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza e accoglienza per chi aveva già compiuto settanta anni all’inizio della pena (purché non sia stato dichiarato “delinquente abituale” o recidivo). Può accedere alla detenzione domiciliare anche chi abbia una pena residua inferiore ai quattro anni, o a tre, o a due, a seconda dei tipi di reati o della situazione familiare. E poi c’è l’autorizzazione al lavoro esterno (art. 21), che tecnicamente non rappresenta un “beneficio” ma semplicemente una delle modalità per tradurre in pratica quanto previsto dall’articolo 15 dello stesso Ordinamento penitenziario: cioè il fatto che la pena deve favorire (e questo invece è la Costituzione a dirlo, con l’articolo 27) un cambio di vita del condannato e il suo reinserimento nella società. I tempi cambiano a seconda dei reati commessi: in generale prima di accedere al lavoro esterno bisogna aver scontato almeno un terzo della pena, o almeno dieci anni in caso di ergastolo. A valutare e decidere sull’ammissione della persona al programma di lavoro è in questo caso l’amministrazione penitenziaria, in definitiva la direzione del carcere, mentre la magistratura ha il compito di fare una valutazione successiva: motivandone le ragioni in caso negativo. I detenuti assegnati al lavoro all’esterno sono avviati a prestare la loro opera senza scorta, salvo che essa sia ritenuta necessaria per motivi di sicurezza: uscita dal carcere in tempo utile per raggiungere il luogo di lavoro, rientro in carcere al termine del lavoro svolto. Le stesse disposizioni si applicano anche ai detenuti ammessi a frequentare corsi di formazione professionale all’esterno degli istituti penitenziari. Il modello Bollate funziona eccome: il caso De Maria era imprevedibile di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 14 maggio 2025 Lo studio, il teatro e soprattutto il lavoro sono stati l’apriscatole per combattere la recidiva, che nell’istituto milanese vanta il tasso più basso. “Criminalizzare” quel modello sarebbe un pessimo segnale. L’intervento più sbagliato e controproducente, dopo la tragedia di Milano e del detenuto Emanuele De Maria omicida-suicida, sarebbe quello del ministero. Sarebbe un errore qualunque sanzione nei confronti dei giudici o della direzione del carcere di Bollate, l’istituto di pena che vanta il più basso tasso di recidiva di reati d’Italia. Sarebbe un pessimo segnale perché, come hanno detto, affranti nel partecipare “al dolore delle vittime e dei familiari”, il presidente della Corte d’appello di Milano Giuseppe Ondei e la presidente facente funzioni del tribunale di sorveglianza Anna Maria Oddone, tutta la vicenda ha avuto un esito che nessuno avrebbe potuto prevedere. Perché tutto il percorso carcerario di Emanuele De Maria è stato perfetto e impeccabile, tanto da meritare relazioni positive di ogni operatore penitenziario, dallo psicologo all’educatore, fino alla direzione del carcere e ai giudici del tribunale di sorveglianza. Un percorso tipico dei migliori risultati del carcere di Bollate, l’istituto di pena nato venticinque anni fa su iniziativa di un gruppo di riformatori, tra cui il direttore del carcere di San Vittore, Luigi Pagano, sulla base di un principio fondamentale, quello della dignità della persona. E di conseguenza con la decisione di tenere le celle aperte per tutta la giornata e di considerarle solo luoghi dove andare a dormire. Lo studio, il teatro e soprattutto il lavoro sono stati, e tuttora sono, l’apriscatole per combattere la recidiva. Un modello riuscito, se si pensa che, mentre i detenuti usciti da altri istituti di pena hanno il 60-70% di probabilità di commettere di nuovo qualche reato, la recidiva media di Bollate si attesta al 7%. Impegnare i detenuti nel lavoro è l’intuizione più fortunata. Lo avevano ben compreso i rappresentanti di governi di sinistra, quando l’istituto di pena-modello fu inaugurato dal ministro Piero Fassino, e lo aveva condiviso Silvio Berlusconi che inviò a una seconda inaugurazione il suo guardasigilli Roberto Castelli. Ora non si può pensare, come qualcuno sta già facendo, di buttare a mare un esperimento che funziona e che sarebbe invece opportuno estendere il più possibile a tutta Italia. Non dimentichiamo mai quante condanne il nostro Paese ha portato a casa dai vari organismi europei proprio per le condizioni delle nostre carceri, sovraffollate fino a “ospitare” ben 11.000 detenuti in più rispetto alla capienza. Per non parlare della fatiscenza e degli spazi angusti delle celle. Certo, Emanuele De Maria pareva un frutto benigno dell’albero modello di Bollate, e apparentemente non lo era. In realtà lo era. Una volta scontato in carcere un terzo della pena, nel novembre del 2023 aveva ottenuto l’applicazione dell’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario sul lavoro esterno, con un contratto a tempo determinato, che un anno dopo era stato trasformato in indeterminato. Era stato mandato a lavorare in un albergo di Milano, l’hotel Berna di via Napo Torriani, nella zona di Piazza della Repubblica, anche perché conosceva cinque lingue. Il suo datore di lavoro era più che soddisfatto del risultato. Che cosa dunque non ha funzionato in questo ingranaggio perfetto? Semplicemente l’imprevisto, l’imprevedibile. Sarà anche vero, come sospettano i magistrati della procura che stanno indagando su quel che è successo tra venerdì 9 maggio, con l’uccisione di Chamila Wijesuriya, e poi sabato con il ferimento del collega egiziano e il finale della tragedia con il volo del detenuto da una terrazza del Duomo di Milano, che tutto era premeditato. Ma forse non è andata così. Forse è scattato all’improvviso nella mente dell’omicida-suicida qualche cosa che ha funzionato come sassolino che ha rotto un ingranaggio fino a quel momento perfetto. Ed è inutile, come ci è parso di capire dalle parole del sindaco di Milano, Beppe Sala, domandarsi su come “spiegare alla gente perché fosse fuori”. Emanuele De Maria era “fuori” dal carcere, perché nei suoi confronti la legge aveva funzionato. Il processo di dieci anni fa per l’omicidio di una prostituta, aveva avuto come conclusione la condanna a 14 anni perché i giudici non avevano ritenuto di applicare nessuna delle aggravanti che portano poi all’ergastolo. E altri giudici, quelli dell’appello, avevano ridotto la pena a 12 anni. Il che pare quasi un miracolo, in tempi in cui il carcere a vita viene invocato ogni giorno per qualunque reato. Se poi De Maria era a un certo punto sbarcato a Bollate, il suo era stato una sorta di premio in quanto, nelle altre carceri in cui aveva soggiornato, aveva mostrato sensibilità nei confronti degli altri detenuti e dei loro problemi. Il suo difensore Francesco De Tommasi era intenzionato a chiedere per lui la semi-libertà. Anche lui non riesce a spiegare l’inspiegabile. Non c’è molto da dire ai cittadini quindi, Sindaco Sala, se non queste poche parole. Se De Maria fosse rimasto in vita, sarebbe stata materia di uno psichiatra, la spiegazione per il suo comportamento. Certamente non della politica, men che meno del ministero. Che potrebbe mobilitare i propri ispettori per altro, per comportamenti che nulla hanno a che fare con quello che è successo nello scorso fine settimana a Milano. Questa volta i giudici del tribunale di sorveglianza che hanno concesso a De Maria il permesso di lavoro esterno al carcere, così come la direzione che lo aveva chiesto, sono innocenti. Hanno svolto il proprio dovere. Al di là dell’imprevisto e imprevedibile. E il “metodo Bollate” andrebbe comunque e sempre premiato ed esteso, non criminalizzato. De Maria si era arruolato nella Legione Straniera, allo psicologo disse: “Da giovane non pensavo alle mie vittime” di Davide Milosa Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2025 Sono solo due le relazioni dell’amministrazione penitenziaria sulle quali si è basato il Tribunale di Sorveglianza per concedere il lavoro esterno. Emanuele De Maria, il 36enne che in meno di 48 ore ha ucciso la 51enne Chamila Wljesuriya, ha ferito quasi mortalmente un suo collega di lavoro e alla fine si è suicidato lanciandosi dal Duomo di Milano con il volto coperto da una kefiah, per circa sei mesi si era arruolato nella Legione Straniera. “Avevo bisogno di sentirmi parte di qualcosa, di un gruppo”, dirà l’uomo alla psicologa del carcere di Bollate. L’ingresso nel corpo militare d’élite dell’esercito francese avviene nel 2015. Un anno dopo a Castel Volturno in un hotel abbandonato sgozza una prostituta di origini tunisine. La notizia dell’arruolamento nella Legione straniera è contenuta nella relazione di “osservazione psicologica” del 23 febbraio 2023. Tre mesi dopo e cioè il 22 maggio 2023 il Tribunale di sorveglianza di Milano dà il via libera all’accesso al lavoro esterno come receptionist all’hotel Berna di via Napo Torriani a Milano, il 29 maggio De Maria inizia il suo primo giorno di lavoro. Non solo: a partire dal 9 novembre 2024 usufruirà anche di alcuni permessi premio presso l’associazione Sesta Opera San Fedele. A Bollate ci arriva però il 30 novembre 2021. E da allora e fino al tragico epilogo della scorsa settimana sono solo due le relazioni dell’amministrazione penitenziaria sulle quali si è basato il Tribunale di Sorveglianza. Tutti atti acquisiti dalla Procura di Milano che ora ha aperto un fascicolo autonomo rispetto a quello sull’omicidio e il ferimento per vagliare eventuali responsabilità non solo dell’amministrazione penitenziaria. Nella serata di ieri poi gli inquirenti hanno perquisito l’hotel aprendo gli armadietti di De Maria e di Chamila. La prima relazione del carcere di Bollate, quella appunto del febbraio 2023, ripercorre la storia personale dell’uomo. Poi ve ne sarà una di aggiornamento del 3 maggio 2024 e un’ultima tragicamente datata 12 maggio, e cioè il giorno dopo il suicidio dell’uomo e la scoperta del corpo di Chamila, barista 51enne impiegata anche lei presso l’hotel Berna, come il collega che De Maria ha ferito gravemente. “All’età di tre anni - si legge nel documento del 2023 - De Maria si trasferì con tutta la famiglia in Olanda”. Qui la zia materna aiuta la madre a trovare un lavoro. Il padre, invece, fatica a integrarsi. Tanto che “egli descrive un contesto familiare caratterizzato da tensioni e litigi violenti tra i genitori (…). Nel 1999 a seguito dell’ennesimo litigio in cui il padre aveva picchiato la moglie, si giunse alla separazione e si attivò la Tutela Minori”. A quel punto il padre torna a Napoli e De Maria assieme ai suoi tre fratelli resta in Olanda e va a vivere con la madre che però è sempre fuori casa per lavoro. “Emanuele e gli altri fratelli - prosegue la relazione agli atti del Tribunale di Sorveglianza - venivano lasciati alle cure della sorella che comunque era piccola”. In questo contesto De Maria inizia “a sviluppare una sempre maggiore ammirazione per il fratello maggiore”, che già da minore inizia a fare reati. Dirà Emanuele De Maria: “Ciò che mi interessava in quel momento era solo ricevere rispetto da mio fratello, all’epoca non mi interessavano le conseguenze dei nostri comportamenti, non pensavo né a mia madre né alle vittime”. Parole queste che risuonano macabre alla luce dei fatti dello scorso fine settimana. Dopo diverse rapine, a 16 anni finisce in carcere. Scontata la pena, i fratelli vengono espulsi dall’Olanda. De Maria torna dal padre a Napoli e “qui si sente fin da subito disorientato, fuori contesto”. Decide di arruolarsi nella Legione Straniera”. Ma sei mesi dopo sarà cacciato perché giudicato non idoneo. Siamo a novembre del 2015. Al suo primo femminicidio mancano pochi mesi. La relazione del carcere prosegue: “Il vissuto dell’essere stato rifiutato, accompagnato da un sentimento di delusione lo gettò nello sconforto. A Napoli non riusciva a trovare lavoro e presto cadde nell’uso di sostanze”. Dirà allo psicologo: “So che era solo il modo più facile per non pensare ai miei problemi”. Il 31 gennaio 2016 nell’ex hotel Zagarella lungo il litorale Domizio, mentre tenta di acquistare droga, uccide a coltellate una prostituta che, dirà, aveva tentato di derubarlo. Agli psicologi che ne tracciano un profilo positivo ammette in pieno la sua responsabilità nel primo omicidio: “Io sono l’unico responsabile, ed è giusto che paghi (…). Io ho il lusso di sentire queste emozioni, sia belle che brutte, ma io so che da qualche parte ci sono una madre e un padre che piangono la figlia”. Anche per questo “oggi - si legge in un quel primo report del 2023 - appare cresciuto e maturato (…) affidabile e collaborativo (…). In conclusione non si ravvedono controindicazioni affinché egli possa iniziare gradualmente un inserimento socio-lavorativo anche esterno al carcere”. In tutto questo emerge poi che De Maria non ha alcun rapporto affettivo con il tessuto sociale milanese. I parenti sono quasi tutti all’estero, come anche la sua ex compagna dalla quale ha avuto una figlia. Un dato che avrebbe potuto far ipotizzare un pericolo di fuga, visto che dopo l’omicidio del 2016 De Maria si darà latitante per due anni prima di essere catturato. Quella del febbraio 2023 è l’unica relazione approfondita, la seconda del 2024 sarà solo di “aggiornamento”. E poi c’è quella del 12 maggio che porta tragicamente il titolo: “Relazione comportamentale di aggiornamento” e che non rileva nemmeno il dato che De Maria il giorno prima si è suicidato. In queste tre pagine si spiega il suo impiego all’hotel Berna: “A fronte della collaborazione con una grande impresa nel settore turistico alberghiero (…) De Maria veniva selezionato”. Tutto procede bene. Il 3 febbraio 2024 durante una perquisizione ordinaria “nella camera di pernottamento veniva rinvenuta una lampada con cavetto per la ricarica, depositata presso l’ufficio del casellario senza conseguenze disciplinari”. Da novembre poi inizia a usufruire di permessi premio. Dopodiché nella relazione del 12 maggio si segnala che “a marzo 2025 si confrontava con l’educatore circa la possibilità di seguire un corso di Hospitality Management per ‘guardare con maggiore fiducia al futuro’”. Nello stesso mese ottiene il permesso per andare a trovare il fratello che vive fuori dalla Lombardia. Dirà De Maria allo psicologo del carcere di Bollate: “In questo periodo di lavoro esterno ho avuto modo di crescere anche interiormente. L’esperienza in albergo mi ha dato tanto, ho scoperto lati di me che forse non conoscevo”. Del resto conclude la relazione: “I colloqui di monitoraggio degli ultimi mesi, oltre ai contatti telefonici erano pressoché rivolti al futuro e all’analisi del percorso svolto”. Poi quelle ultime 48 ore che hanno fatto ritornare De Maria al suo tragico passato. Lavoro fuori dal carcere: perché sì di Eleonora Lorusso donnamoderna.com, 14 maggio 2025 Il caso di Emanuele De Maria, il detenuto che aveva un lavoro a Milano fuori dal carcere e che ha ucciso una donna e ferito un uomo, ha parecchi punti oscuri. Il rischio però è di “vanificare sforzi e risultati ottenuti finora nella riabilitazione e reinserimento sociale di chi ha commesso reati”, spiega l’esperta. Da un lato il dolore per le vittime, dall’altro lo sconcerto per quanto accaduto. Nel mezzo qualche dubbio e una domanda ricorrente: si poteva prevedere che un “detenuto modello” come era stato definito Emanuele De Maria, con un lavoro fuori dal carcere, potesse commettere un nuovo reato, dello stesso tipo e con le stesse modalità, cioè l’uccisione di una donna a coltellate? Quanto può essere utile (e sicuro) il lavoro fuori dal carcere? “Il rischio è proprio questo: che dopo questa vicenda e un prevedibile giro di vite, molti si vedano negata la messa in prova e dunque un percorso di reinserimento sociale”, commenta Elena Lepre, avvocata penalista, cassazionista, consigliera fondatrice dell’associazione “Carcere Possibile O.N.L.U.S”, con lo scopo di offrire solidarietà sociale, civile e culturale alla popolazione detenuta. Lavoro fuori dal carcere: gli interrogativi sul caso De Maria - De Maria aveva sempre tenuto un comportamento corretto “anche durante i due anni di lavoro” come receptionist all’Hotel Berna e “senza che nulla potesse lasciare presagire l’imprevedibile e drammatico esito”, scrive il presidente della Corte d’appello di Milano, Giuseppe Ondei a due giorni dal drammatico epilogo della vicenda. Anna Maria Oddone, presidente facente funzioni del Tribunale di Sorveglianza di Milano, in una nota parla invece di “tragici eventi”. Molto più duro il marito di Arachchilage Dona Chamila Wijesuriya, la 50enne italo-cingalese uccisa da De Maria e trovata morta al Parco Nord. “Mi chiedo, e questa sarà la domanda che continuerò a porre, perché a questa persona non sono state fatte delle perizie? Perché era in giro?”, ha detto Himanshu al Corriere della Sera. Qualcosa non ha funzionato - La Corte d’appello e il Tribunale stanno valutando eventuali “iniziative”, ma l’avvocata Lepre ammette: “Qualcosa non ha funzionato. Al detenuto era applicato l’articolo 21 dell’ordinamento penale, cioè la possibilità di lavoro all’estero. Questo beneficio si può avere dopo aver espiato un terzo della pena. Questo programma parte dall’Amministrazione penitenziaria e poi è approvato, qualora vi siano i requisiti, dal magistrato di sorveglianza”. L’obiettivo, come scrivono ancora dal Tribunale di Milano, è quello di provare a “garantire la rieducazione sotto il vigile controllo degli operatori”, concludono Ondei e Oddone. Il lavoro fuori dal carcere riduce le recidive - In effetti i dati Cnel-Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro mostrano che il lavoro esterno dei detenuti consente di abbassare le recidive, quindi il rischio di reiterare i reati, che altrimenti è molto elevato: 6 condannati su 10 hanno un precedente che li ha portati in cella almeno una volta, ma le probabilità di tornare a delinquere si stima che possano calare fino ad arrivare al 2% per chi viene reinserito lavorativamente. Per questo lo stesso Cnel ha attivato il programma “Recidiva Zero” in collaborazione con il ministero della Giustizia, con lo scopo di incentivare studio, formazione e lavoro negli istituti di pena. L’esempio virtuoso di Bollate - Sono sempre le rilevazioni ufficiali a dire che quello di Bollate è il penitenziario con il più basso tasso di recidiva Italia, dove in media solo il 17% di chi sconta parte della pena in misura alternativa al carcere torna a commettere reati, dato che arriva al 5% per chi ha la possibilità di lavorare all’esterno delle case circondariali. “De Maria stesso tornava in cella a Bollate alla sera ed era descritto come un detenuto modello. Ora speriamo di non tornare indietro con i programmi di reinserimento dei detenuti, perché sarebbe una sconfitta”, aggiunge Lepre, che sta lavorando a un aggiornamento della Guida per i diritti dei detenuti, realizzata con il tribunale di sorveglianza: “Un libro che spiega diritti e doveri, tradotto in inglese, francese, spagnolo, arabo, perché molti detenuti sono stranieri”. Il lavoro fuori dal carcere riabilita - Incentivare il lavoro, dunque, aiuta a riabilitare e finora si è andati in questa direzione, come testimoniano i dati del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale: da giugno 2022 allo stesso mese del 2024 le persone detenute con un impiego esterno sono cresciute dell’11,3%, passando da 17.957 a 20.240. Di queste il 7,4% lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, mentre il +32,2% in ditte esterne. Ad aumentare è anche la formazione, con un +140% di corsi di istruzione e formazione professionale. Cosa può non funzionare - “C’è il rischio che si enfatizzi il singolo caso”, ammette dalle pagine di Avvenire Luciano Pantarotto, di Confcooperative - Federsolidarietà, a cui fa eco Patrizio Gonnella dell’Associazione Antigone: “Mettere in discussione le misure alternative al carcere per un singolo caso di cronaca è sbagliato e anche pericoloso”. “Sicuramente qualcosa non ha funzionato: il magistrato forse non ha neppure potuto incontrare De Maria, ma avrà letto certamente le carte, dalle quali sarà risultato che il detenuto aveva i requisiti per ottenere il beneficio del lavoro esterno al carcere. Quindi forse all’interno dell’istituto di pena si sono sottovalutati alcuni aspetti, magari perché non c’è stata la possibilità di analizzare a fondo il soggetto”, ipotizza Lepre. Come e quando si ottiene il lavoro esterno - “Se ci sono le condizioni previste, come l’aver scontato il minimo di pena contemplato dalla legge e l’aver trovato un possibile lavoro, viene presentata richiesta, ma è il detenuto che deve cercarsi una possibile occupazione, tramite amici, parenti o conoscenti. Come si può immaginare non è facile, perché il datore di lavoro può non gradire di avere un detenuto o di dover subire controlli da parte delle autorità - spiega Lepre - Poi sta al magistrato di sorveglianza concedere o meno l’affidamento in prova: io stessa ho procurato un lavoro a un detenuto pochi giorni fa, ma doveva consegnare i pasti a una mensa e dunque non era controllabile, quindi il magistrato ha inizialmente detto no. Solo dopo aver rimodulato la tipologia di lavoro con il confezionamento dei pasti stessi, è arrivato il parere positivo, perché il detenuto lavora in un posto fisso e a orari predeterminati”. Il percorso prima del lavoro esterno - “Dietro a un beneficio come il lavoro esterno c’è un percorso che precede l’autorizzazione e che accompagna il programma stesso. Per esempio, di solito le condizioni sono che il detenuto non frequenti esternamente altri detenuti, o che non esca di casa al mattino prima delle 7 e non rincasi dopo le 9 di sera - spiega ancora Lepre - Ma perché il progetto funzioni occorrono controlli, sia da parte degli organi di polizia, che accertino la presenza fisica del soggetto nel luogo di lavoro, sia da parte di operatori come psicologi e assistenti, che osservino eventuali problematiche. Ciò che può essere accaduto nel caso di De Maria è che non si siano colti segnali di questo tipo”. La sicurezza per i cittadini - Nella vicenda di Milano, però, De Maria appariva come persona dal comportamento corretto: “Ci sono molti esempi analoghi nel passato: Angelo Izzo, dopo aver ottenuto la semilibertà, mise in atto la strage del Circeo. Alcuni soggetti possono essere in grado di manipolare l’interlocutore con comportamenti ritenuti socialmente accettabili. Possono sembrare socialmente inseriti e, nel caso di De Maria, il fatto che l’hotel lo avesse assunto a tempo indeterminato dimostrerebbe che l’uomo fosse in grado di nascondere molto bene la sua personalità. È accaduto anche con Alessandro Impagnatiello (in carcere per l’omicidio della compagna Giulia Tramontano, NdR)”, spiega Roberta Catania, Psicologa Psicodiagnosta Clinica e Forense. Dove occorre intervenire - “De Maria aveva commesso lo stesso tipo di reato in precedenza, un omicidio brutale ai danni di una donna, quindi è chiaro che ci fosse una disfunzionalità nella personalità che andava mesa sotto attenzione. Inserirlo in un contesto come quello di una reception di un hotel, che favorisce le relazioni, forse avrebbe necessitato di maggiori controlli. Non significa negare le concessioni, come la possibilità di un reinserimento sociale, di sconti di pena o permessi, ma certamente accompagnarlo con le dovute valutazioni che sia garanzia di sicurezza per tutti i cittadini”, sottolinea Catania. “Purtroppo il Governo ha puntato sullo stanziamento di fondi per aumentare l’organico della polizia penitenzia, ma non altrettanto degli operatori all’interno delle carceri, come gli psicologi, ecc. A Napoli, per esempio, possono passare anche 6 mesi tra un colloquio e l’altro con lo psicologo: occorrerebbe mettere gli operatori nelle condizioni di lavorare meglio nelle carceri, altrimenti tutti gli sforzi rischiano di venire vanificati”, conclude Lepre. Dentro, cioè fuori di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2025 Devo confessare una grave lacuna: non sono mai riuscito a capire perché un condannato per gravi delitti a tot anni debba uscire con largo anticipo per questo o quel permesso. “Certezza della pena” non è un’invenzione dei giustizialisti forcaioli, ma del padre del garantismo Cesare Beccaria. Vuol dire che la condanna scritta nella sentenza definitiva deve corrispondere a quella effettivamente espiata. E, se la pena è la “reclusione”, il condannato deve restare recluso fino all’ultimo giorno previsto dalla sentenza. Solo così la pena ha effetto deterrente: dissuadere il condannato dal riprovarci e tutti gli altri cittadini dal provarci. Altrimenti non solo non scoraggia nessuno dal delinquere, ma incoraggia tutti a farlo, e diventa financo criminogena. L’ultimo caso è quello di Emanuele De Maria. Nel 2016, a Castel Volturno, taglia la gola a una ragazza tunisina di 23 anni e la uccide. Poi fugge all’estero e resta due anni latitante nei Paesi Bassi, fino all’arresto in Germania nel 2018. Siccome siamo il Paese di Bengodi, neppure un omicidio volontario così efferato basta per l’ergastolo: nel 2021 la Cassazione lo condanna a 14 anni e 3 mesi. Ma, se li scontasse tutti, sarebbe già grasso che cola. Invece nel 2023, a cinque anni dall’arresto e a due dalla sentenza definitiva, è già fuori in permesso diurno di lavoro. Su richiesta del generoso carcere di Bollate, il Tribunale di sorveglianza lo manda a lavorare come receptionist in un hotel, visto il curriculum di “detenuto modello” (in cella non ha ammazzato nessun altro). Il tempo di ambientarsi, e De Maria sgozza una collega con la solita tecnica, più altre coltellate ai polsi, uccidendola; poi taglia la gola pure a un collega, che non muore solo per miracolo; infine si suicida. Seguono le solite geremiadi dei politici che hanno approvato o ampliato o mantenuto i demenziali benefici penitenziari (pensando a se stessi) e ora strillano contro i giudici che li applicano. Questi ribattono che hanno applicato le leggi e non potevano certo prevedere la recidiva di De Maria, tanto più che Bollate vanta il più basso tasso di ricadute d’Italia. I “garantisti” temono una stretta ai permessi e citano le solite statistiche come prova che chi esce di galera in anticipo torna a delinquere molto meno di chi sconta la pena per intero. Naturalmente nessuna statistica può dimostrare una tale sciocchezza: il numero dei condannati non corrisponde a quello dei delitti, che in grandissima parte restano impuniti. Però le statistiche sono una bella consolazione per le vittime dei delinquenti a spasso: “Caro, ci dispiace tanto, ma tranquillo: quello che ha tagliato la gola a te o a tua figlia è una rarità che rientra nel solo 17% dei tagliagole in pena alternativa al carcere. Ora non ti senti già meglio?”. Decreto sicurezza, mettiamoci in gioco di Caterina Pozzi Il Manifesto, 14 maggio 2025 Quest’ultimo Decreto del governo Meloni ha esteso la logica repressiva anche al diritto di protestare, portando a un controllo “militare” dei territori. Accogliendo l’invito di Don Ciotti a digiunare contro le leggi ingiuste e raccogliendo l’iniziativa lanciata da Franco Corleone, come Cnca assieme ad altre associazioni (A Buon Diritto, Acli, Antigone, Arci, Cgil, Forum Droghe, L’Altro Diritto, La Società della Ragione, Ristretti Orizzonti) abbiamo lanciato il 29 aprile uno sciopero della fame a staffetta contro il Decreto sicurezza. Chiunque può partecipare segnalando il giorno del digiuno; ad oggi quasi 300 persone hanno già aderito al digiuno per uno, due o tre giorni ed altre reti lo hanno rilanciato. La staffetta terminerà il 30 maggio, vigilia della grande manifestazione nazionale che si terrà a Roma e che ci vedrà coinvolti. Il digiuno è un gesto simbolico che ha due scopi principali: aumentare la sensibilizzazione sulla portata antidemocratica di questo Decreto Legge, allargando al massimo il fronte della dell’attenzione ai diritti civili, umani e democratici che questo decreto e denunciando evidenti profili di incostituzionalità. Allo stesso tempo vogliamo solidarizzare con tutte e tutti coloro che ne stanno già subendo le conseguenze violente. Digiunare è un modo per richiamare l’attenzione degli altri mettendo in gioco il nostro corpo. È una forma di protesta, ma anche una forma di condivisione e solidarietà. In Italia, la Costituzione con gli articoli 17 e 21 garantisce il diritto di riunirsi pacificamente e la libertà di manifestare il proprio pensiero. Tuttavia, negli ultimi anni, le politiche di sicurezza adottate dai governi hanno spesso messo in discussione questi principi. I cosiddetti decreti sicurezza, approvati nel 2018 e nel 2019 sotto il governo gialloverde, hanno riguardato principalmente le politiche migratorie e hanno colpito gli stranieri, smantellando il sistema di accoglienza e penalizzando le organizzazioni non governative impegnate in operazioni di soccorso in mare. Questo ultimo Decreto del governo Meloni ha esteso questa logica repressiva anche al diritto di protestare, portando a un controllo “militare” dei territori (le cosiddette zone rosse) che si traduce in fogli di via, obblighi di firma, Daspo e divieti di manifestare. Le forze dell’ordine intervengono con sempre maggiore frequenza e durezza contro manifestazioni e proteste, segnando un vero e proprio salto di qualità in termini di repressione. Il testo mira a colpire le forme di lotta più efficaci, come blocchi stradali, occupazioni di case sfitte o proteste nelle carceri e nei centri di detenzione di immigrati senza permesso. Introduce nuovi reati arrivando a criminalizzare un intero settore produttivo come quello della canapa senza effetti psicoattivi a soli fini di propaganda. Anche se molte parti di questa legge potrebbero essere bocciate dalla Corte costituzionale è evidente che nel frattempo molte fasce sociali vulnerabili saranno criminalizzate. Come non pensare alle donne detenute con i propri figli e figlie: il Codice penale disponeva all’art. 146 il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per una donna incinta o madre di un bambino di meno di un anno di età. Ora il rinvio dell’esecuzione della pena diviene facoltativo e la pena dovrà in ogni caso essere eseguita presso un Istituto a Custodia Attenuata per Detenute Madri (ICAM) che sono comunque carceri (e ad oggi già pieni) con la minaccia di separare i bambini dalle madri come sanzione disciplinare. Mi viene in mente Don Milani quando diceva ai suoi ragazzi che quando vedranno che le leggi non sono giuste, cioè quando non sanzionano il sopruso del forte, essi dovranno battersi perché siano cambiate, mettendosi in gioco di persona; non possiamo rimanere in silenzio e soprattutto non possiamo restare inerti. Oggi alle 13 presso il Senato della Repubblica, e in diretta su Fuoriluogo.it ci troveremo in una conferenza stampa per rilanciare con ancora più forza la nostra resistenza civile. Le perplessità del Csm su impianto e misure del Decreto Sicurezza di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 maggio 2025 La bozza di parere inviata al plenum elenca le criticità del provvedimento. Con cautela e rispetto istituzionale, ma senza nascondere dubbi e perplessità. Sia di ordine generale sia specifici. Il plenum del Csm in calendario per oggi voterà il parere sul decreto sicurezza tuttora in discussione in Parlamento (ieri sono stati giudicati inammissibili molti emendamenti, tra i quali quelli di Forza Italia sui limiti alla custodia cautelare per gli incensurati). Così, da una parte il testo approvato in commissione ricorda che se è prerogativa del legislatore l’individuazione delle condotte illecite colpite da sanzione penale, è la Corte costituzionale a sottolineare come la discrezionalità non può equivalere ad arbitrio; dall’altra va osservato che da accademia e avvocatura sono stati espressi “argomentati dubbi” sulle scelte incriminatrici e sull’inasprimento sanzionatorio che caratterizzata tutto il decreto. Quanto all’impatto per gli uffici giudiziari, questi non potranno che risentirne visto che “una migliore efficacia dell’organizzazione” è semmai conseguenza di interventi di depenalizzazione che, peraltro, in questa legislatura hanno investito solo il settore dei reati contro la pubblica amministrazione con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Nel dettaglio, la previsione dell’obbligatorio arresto in flagranza per la truffa aggravata dalla minorata difesa rischia di restare inefficace considerate le modalità di consumazione del reato, difficilmente compatibili con il requisito della flagranza (meglio sarebbe stato puntare allora sulla flagranza differita). L’innalzamento dei limiti di età, da 14 a 16 anni, per l’impiego di minori nell’accattonaggio appare poi alla bozza di parere, poco coerente con precedenti interventi, come il decreto Caivano, che invece hanno valorizzato profili di responsabilità di soggetti legalmente minorenni, ma sempre più precoci sul piano psico-fisico e relazionale. Le misure di contrasto all’occupazione abusiva di immobili fanno emergere criticità sia sul versante dell’indeterminatezza della nozione di violenza sia sull’identificazione dei soggetti puniti al di fuori delle ipotesi di concorso, ma oscura è anche la procedura da seguire per la reintegrazione nel possesso. Molto problematica emerge poi la risposta penale prevista per le forme di resistenza passiva all’interno delle carceri: infatti “si tratterebbe di una novità pressoché assoluta per il nostro ordinamento, sin qui solidamente ancorato al principio della irrilevanza penale delle condotte di mera inazione rispetto all’ordine impartito dall’autorità”. Inoltre, l’equiparazione tra le condotte di resistenza passiva e quelle caratterizzate da violenza e minaccia potrebbe prestare il fianco a rilievi di irragionevolezza. Colpiscono poi le manifestazioni del dissenso (per questo passato oggetto sia di depenalizzazione sia di amnistia e indulto) gli inasprimenti di pena per le condotte di blocco stradale. Molto ha fatto e fa discutere la decisione di sopprimere la presunzione assoluta di divieto di carcerazione per donne incinte o madri di figli minori di un anno; il parere sul punto mette in evidenza come, nei fatti, le ricadute in termini di afflittività potrebbero essere eccessivamente afflittive, tenuto conto che gli istituti a custodia attenuata per detenute madri sono solo quattro e la distanza tra l’istituto di destinazione e il contesto familiare di provenienza della detenuta incinta o madre conduce a un significativo aggravamento della pena. Dl Sicurezza, i dubbi del Csm: “A rischio i diritti fondamentali dei cittadini” di Simona Musco Il Dubbio, 14 maggio 2025 “L’individuazione dei comportamenti illeciti che richiedono il ricorso alla sanzione penale e la quantificazione (in astratto) di quest’ultima rappresentano un terreno nell’ambito del quale la discrezionalità legislativa si manifesta al massimo grado”. Un fatto ribadito dalla Consulta nella sentenza 46 del 2024, nella quale, però, viene anche chiarito che “l’ampia discrezionalità di cui gode il legislatore “non equivale ad arbitrio”, giacché “qualsiasi legge dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona deve potersi razionalmente giustificare in relazione a una o più finalità legittime perseguite dal legislatore” e “i mezzi prescelti dal legislatore non devono risultare manifestamente sproporzionati rispetto a quelle pur legittime finalità”“. Sono queste le premesse dalle quali parte la Sesta Commissione del Csm nel suo parere sul dl Sicurezza, che verrà discusso oggi in plenum. Un parere con il quale i consiglieri segnalano al governo una serie di criticità: la sproporzione sanzionatoria in alcune aggravanti (come la resistenza passiva punita come resistenza violenta); l’anticipazione della soglia di punibilità in materia di terrorismo; una certa ambiguità lessicale e interpretativa; il rischio di attrazione in sede penale di vicende civili e una possibile limitazione eccessiva delle libertà fondamentali, come quella di manifestazione. Motivo per cui il Csm, pur riconoscendo la discrezionalità legislativa, esprime dubbi e perplessità su diverse previsioni del decreto, evidenziando il rischio di conflitti con i principi costituzionali sanciti dall’articolo 3 (principio di uguaglianza) e dall’articolo 27 (finalità rieducativa), possibili effetti disorganizzativi per il sistema giudiziario e la necessità di un approccio più equilibrato e razionale in materia penale, a favore della depenalizzazione e non del suo opposto. La Sesta Commissione ha sottolineato come da più parti - tanto in ambito accademico quanto in ambito forense - “siano stati espressi argomentati dubbi sulla conformità di alcune delle scelte incriminatrici o di inasprimento sanzionatorio contenute nell’odierno decreto-legge (e, prima di esso, nel disegno di legge approvato dalla Camera) rispetto ai principi costituzionali in materia penale”. Un decreto che contiene un ricorso accentuato allo strumento penale, “declinato nelle due forme dell’inasprimento delle pene attualmente previste e dell’introduzione di nuove fattispecie di reato”, ovvero la detenzione di materiali a fini terroristici, anche in fase molto preparatoria; il reato di occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui, con pene severe e il reato di rivolta carceraria, anche per resistenza passiva, con estensione simile ai centri per migranti. “L’impatto complessivo che le nuove disposizioni potranno avere sul carico di lavoro e sull’assetto organizzativo degli uffici non è del tutto prevedibile - si legge nel parere -. È però evidente che il sistema giudiziario non potrà non risentirne”, dal momento che solo la depenalizzazione può alleggerire il peso degli uffici. Viene segnalato un aumento delle sanzioni penali, spesso senza giustificazione concreta, come l’ampliamento delle aggravanti per reati vicino a luoghi sensibili, che rischiano di rendere vaghe le fattispecie penali. A titolo esemplificativo, critiche vengono espresse sul nuovo reato di “rivolta carceraria” che punisce la resistenza passiva senza distinguere tra ordini legittimi e illegittimi e ampliando l’ambito del penalmente rilevante in modo ambiguo. Inoltre, la disobbedienza passiva viene equiparata alla violenza, un’analogia ritenuta irragionevole. La modifica delle pene per donne incinte o madri di bambini piccoli, infine, introduce una facoltatività nel rinvio dell’esecuzione della pena, creando incertezze, soprattutto per la scarsità di strutture adeguate. Industria, immigrazione, lavoro, segreti di Stato. Le esondazioni delle procure non sono atti dovuti di Claudio Cerasa I Foglio, 14 maggio 2025 Parte della magistratura italiana oltrepassa i confini del proprio ruolo in nome di una presunta tutela della democrazia. I casi Ilva, Firenze, Milano e Anm. In difesa del primato della politica. In Italia, si sa, la politica più disinvolta tenta da anni di giocare con le leve della magistratura per provare a combattere per via giudiziaria i propri avversari politici utilizzando spesso e volentieri la chiave di lettura della lotta per la salvezza della democrazia per nascondere le invasioni di campo delle procure. In Italia, si sa, la politica più disinvolta tende da tempo a far coincidere l’impegno della magistratura contro l’immoralità della politica a una grande battaglia così detta di civiltà, volta a tutelare le istituzioni dall’irresponsabilità della politica. E seguendo questo schema di gioco, la politica, per anni, ha scelto di chiudere gli occhi di fronte a un fenomeno che, negli ultimi tempi, ha assunto delle dimensioni mostruose, tali da suggerire agli osservatori che hanno costruito una carriera travestendosi da buca delle lettere delle procure di riflettere su cosa significhi per uno stato sovrano avere una magistratura che ha trasformato il primato della politica in una fattispecie di reato. I segnali a volte sono impercettibili, a volte sono più evidenti, a volte sono più clamorosi, a volte sono più sottili ma sono sempre lì, tutti, ogni giorno di fronte a noi. E scegliere di non vederli, girandosi dall’altra parte, non è sinonimo di equilibrio: è sinonimo di complicità. L’ultimo caso della saga è avvenuto la scorsa settimana, a Taranto, quando la procura, dopo un incidente avvenuto all’interno dell’ex Ilva, prima ha scelto di sequestrare l’unico altoforno rimasto in attività, poi ha deciso di ignorare la preghiera dei commissari dell’impianto che avevano avvertito che chiudere l’altoforno per più di 48 ore avrebbe compromesso l’attività dello stesso altoforno e infine ha accettato di consentire la manutenzione dell’altoforno fuori tempo massimo compromettendo l’attività già ampiamente ridotta di Ilva. Ci sono esondazioni che riguardano le politiche industriali del nostro paese. E ci sono procure che hanno cercato di appropriarsi della discrezionalità dell’azione politica, arrivando a diventare a loro volta degli attori politici in purezza. È stato il caso dei molti tribunali che hanno scelto di combattere una battaglia orgogliosa per dimostrare che sulle politiche migratorie l’ultima parola deve essere quella delle procure e non quella dei governi. È stato il caso della procura di Roma che utilizzando la formula dell’atto dovuto ha scelto di non archiviare una denuncia contro il governo sul caso Almasri considerando forse il perimetro del segreto di stato come un affare riguardante più il potere giudiziario che quello esecutivo. È stato il caso della procura di Milano che negli ultimi mesi, come raccontato sul Foglio da Ermes Antonucci, con le sue inchieste creative ha usato i sequestri preventivi per indurre molte aziende ad assumere migliaia di lavoratori sulla base di un’acrobazia giuridica attraverso la quale ha imputato alle imprese che stipulano i contratti di appalto gli eventuali reati commessi dalle società alle quali si sono affidate. È stato il caso della procura di Firenze che in più occasioni ha cercato di scavalcare il potere legislativo acquisendo la corrispondenza dell’ex premier Matteo Renzi senza chiedere la preventiva autorizzazione del Senato. Ed è stato il caso dell’Anm che prima di essere schiaffeggiata dalla Corte costituzionale per mesi ha evocato un allarme democratico per via di una legge voluta dal governo per rivedere il reato di abuso d’ufficio. Difendere la magistratura da chi sogna di sostituirla con una falange di signor sì pronti a fare della giustizia italiana un enorme porto delle nebbie è sacrosanto. Ma difendere l’Italia da una magistratura che scegliendo di trasformare il mestiere della politica in un reato si è ritrovata a esondare su ogni campo da gioco è una battaglia di civiltà che dovrebbe appassionare chiunque sogni di avere una magistratura interessata a occuparsi di reati e non una magistratura interessata a essere un attore politico spacciando le proprie esondazioni irresponsabili come responsibilissimi atti dovuti. Anche basta, grazie. Commissione antimafia Pd e 5S “processano” gli uomini di Falcone di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 maggio 2025 In Commissione Antimafia, Mario Mori e Giuseppe De Donno - ex ufficiali del Ros, convocati per proseguire l’audizione sul controverso procedimento nato dal dossier “Mafia Appalti” - hanno subito un nuovo atteggiamento ostilite da parte del Movimento Cinque Stelle e del Partito Democratico. All’avvio delle domande, il pentastellato Luigi Nave ha sollevato un singolare rilievo, prontamente respinto dalla presidente Chiara Colosimo, mentre il deputato Verini evidentemente era “distratto”. Il clima, in pratica, resta ancorato alle vecchie accuse mosse dagli ex procuratori di Palermo, tra cui il senatore Roberto Scarpinato, oggi componente della Commissione. Facciamo chiarezza. Dopo l’intervento conclusivo di Mario Mori, che ha spiegato come - secondo la sua testimonianza - il dossier “Mafia Appalti” abbia subito ostacoli dall’allora procuratore Pietro Giammanco, è intervenuto il senatore Nave del M5S. Questi ha accusato Giuseppe De Donno di aver presentato, durante la scorsa audizione, una memoria piena di inesattezze e mistificazioni, chiedendo il rinvio per consentire ai commissari di studiare un documento di 86 pagine depositato mezz’ora prima della convocazione. La presidente Chiara Colosimo ha respinto l’istanza: non c’erano i tempi tecnici per esaminare un testo arrivato all’ultimo momento. Eppure, dalla prima audizione erano passate settimane: avrebbero potuto consegnarlo prima. Un fatto senza precedenti, poiché mai prima d’ora un gruppo di minoranza aveva chiesto lo slittamento di un’audizione basandosi su una ricostruzione “avversa” depositata all’ultimo minuto. È prassi, in Commissione Antimafia, ascoltare tutte le versioni ritenute utili: prima degli appartenenti ai Ros, magistrati come Gioacchino Natoli e Luigi Patronaggio avevano già esposto le loro ricostruzioni, con criticità segnalate da Il Dubbio in articoli precedenti, senza che alcuno - né Fratelli d’Italia né Partito Democratico - invocasse rinvii o memorie contrapposte. Di norma, al termine dei lavori si redigono una relazione di maggioranza e una di minoranza. Perché allora il M5S ha voluto fare un’eccezione proprio per gli ex Ros? Questo episodio dimostra che contro di loro non è bastato l’accanimento giudiziario (e mediatico) - puntualmente naufragato - ma si è arrivati a strumentalizzazioni in ambito politico. Ma la politica è cosa seria, fatta però da persone che possono “sbagliare”. Basterebbe l’esempio del senatore Verini per capire quanto alcuni commissari rimangano ostinatamente ciechi di fronte alla versione degli ex Ros. Nonostante la memoria depositata e l’intervento conclusivo di Mario Mori, che aveva già chiarito quel punto, Verini ha chiesto perché l’incontro riservato su “Mafia Appalti” tra Borsellino e gli ex Ros sia emerso solo anni dopo. Una domanda che getta ombre su Mori e De Donno, alimentando le stesse illazioni ospitate da Il Fatto Quotidiano che, evidentemente, ha voce sulla linea anche del Partito Democratico. In realtà, come ricordato nella memoria e sottolineato da Mori in Commissione, De Donno riferì dell’episodio già nel 1992 davanti ai pubblici ministeri di Caltanissetta, allora incaricati dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio. Quei magistrati già disponevano dunque di elementi solidi sull’interesse di Borsellino al dossier e sul suo scetticismo verso alcuni colleghi. È invece legittimo chiedersi come mai quel versante di indagine sia stato approfondito solo nei processi successivi, e perfino in modo parziale: grazie all’azione di desecretazione di Chiara Colosimo e soprattutto delle indagini attuali dei pm nisseni guidati da Salvatore De Luca, oggi emergono manoscritti e documenti che Borsellino custodiva nel suo ufficio. Non si tratta certo di un’invenzione degli ex Ros, né - come ha sostenuto il pentastellato Nave - di fumo per nascondere cose “indicibili”. Tutte le sentenze, del resto, riconoscono nel dossier un fattore decisivo nella scelta dei corleonesi di eliminare Borsellino e, in precedenza, Falcone stesso. Su questo tema abbiamo già scritto ampiamente: ora ci si augura che l’inchiesta della procura di Caltanissetta faccia finalmente luce su quel patrimonio documentale occultato da trentennali teorie giudiziarie (quelle sì, fumose) - dalla trattativa alla pista nera, fino a Gladio. La memoria depositata dagli ex Ros presenta sicuramente diverse imprecisioni, ma parliamo di dettagli trascurabili. Sono passati oltre 30 anni ed è comprensibile commettere errori. Quello che conta non dovrebbe essere la memoria in sé, ma le carte. Almeno dal comunicato del M5S, si stigmatizza Mori per aver detto, falsamente, che Falcone accusò la procura di Palermo di aver insabbiato alcune indagini relative al dossier “Mafia Appalti”. Ma non è un’invenzione di Mori. Tocca ripeterlo. Due verbali di assunzione di informazioni sono significativi. Uno, il numero 271/ 97: la giornalista Liana Milella riferisce di un colloquio avvenuto con Falcone nell’estate del ‘ 91, quando ci furono solo le cinque richieste di arresto scaturite dal dossier: “Falcone, in più occasioni, e in particolare dopo gli arresti, aveva commentato con grande delusione gli sviluppi di quell’inchiesta, dicendomi che riteneva riduttiva la scelta di arrestare solo certe persone”. C’è anche il verbale numero 490/ 94, dove l’ex ministro Claudio Martelli riferisce del singolare episodio in cui, nell’estate del 1991, la procura di Palermo inviò il dossier “Mafia Appalti” al ministero, trasgredendo il segreto istruttorio: “Quel che ricordo è che Falcone osservò che Giammanco aveva trascurato o insabbiato quell’indagine”. Quindi, forse, ci vorrebbe maggior rispetto per la memoria di Giovanni Falcone. Non si comprende perché il M5S citi anche Mutolo. In realtà, sul versante appalti, fondamentale per Borsellino era il pentito Leonardo Messina, colui che - tra le altre cose - corroborò il fatto che la Calcestruzzi della Ferruzzi Gardini fosse in mano a Totò Riina. Lo stesso suo interrogatorio verrà utilizzato nelle indagini successive all’archiviazione. Peccato non prima. Singolare anche la domanda posta dal deputato dem Giuseppe Provenzano, il quale, riallacciandosi alla questione sollevata dal collega Verini, ha chiesto a Mori una sua valutazione su esponenti politici come Dell’Utri o D’Alì. Magari non era il suo intento, ma sembra quasi che fossero in qualche modo collegati alle stragi. Il che è chiaramente un falso. Mori ha risposto di voler parlare solo di ciò di cui si è occupato direttamente, di ciò che ha “toccato con mano”, non di questioni che conosce tramite i giornali. In realtà, è un comportamento che dovrebbero avere tutti: da investigatori, magistrati e politici ci si aspetta questo, ossia riferire ciò che si conosce personalmente attraverso studi e approfondimenti. Altrimenti si rischiano “incidenti”, come accaduto allo stesso Provenzano, quando pose la domanda all’avvocato Fabio Trizzino, genero di Borsellino, sulla pista nera, citando un documento sponsorizzato da giornali come Il Fatto ma che nella realtà è “carta straccia”. Detto questo, anche De Donno e Mori un errore lo hanno commesso: dare importanza alle parole di Vito Ciancimino, il quale in realtà aveva tutto l’interesse di allontanare la mafia dalle responsabilità e accusare altri soggetti esterni. Di tutto si può accusare l’allora procura di Palermo, ma non di non aver indagato sui “terzi livelli”. Ed è proprio quello il punto: è l’opposto della visione di Falcone e Borsellino. Loro hanno pagato con la vita il fatto di aver indagato nella profondità della mafia e toccare quegli interessi convergenti con il mondo imprenditoriale che conta, e di riflesso la politica. Borsellino, in una intervista reperibile su raiplay, quando era procuratore a Marsala e indagava sugli appalti locali affermò: “Da tempo è chiaro che è la mafia a servirsi dei politici, non viceversa”. E ciò fa il paio con la visione di Falcone cristallizzata nei suoi libri e ordinanze. Ma a chi interessa? Firenze. “Annunci roboanti ma nessuna novità. Per i detenuti situazione sempre più drammatica” novaradio.info, 14 maggio 2025 Scetticismo sulla possibilità che i lavori annunciati per Sollicciano possano cambiare la situazione, denuncia per i ritardi della politica nell’affrontare le questioni relative al penitenziario - a partire dalla nomina del direttore, forte preoccupazione per le condizioni effettive dei detenuti in vista del caldo estivo. Ad esprimerla l’associazione Pantagruel, che da anni ogni settimana entra nel carcere per i colloqui con detenuti, fornendo assistenza psicologica e materiale, e coinvolgendoli nei laboratori e attività. E questo nonostante le dichiarazioni del sottosegretario alla Giustizia Del Mastro, che ha annunciato la nomina del nuovo direttore entro fine mese, e l’avvio di lavori per 10 milioni di euro per la coibentazione dei tetti e il rifacimento delle docce nelle celle. “I lavori annunciati sono gli stessi già appaltati nel 2023 e poi interrotti - commenta amaro a Novaradio Stefano Cecconi dell’associazione - al di là delle cose roboanti annunciate, siamo sempre al solito punto”. E nel frattempo a Sollicciano la situazione peggiora sempre più: “A Sollicciano manca l’aria, non funzionano le docce, può mancare perfino lo shampoo e il bagnoschiuma perché il carcere non dà niente” Senza contare le infestazioni di cimici, topi e insetti: “Di disinfestazioni non ne abbiamo viste - dice ancora Cecconi - e essendo terreno paludoso, potete immaginare le zanzare d’estate: l’ambiente è malsano”. E gli inviti alla demolizione e ricostruzione? “se ne parla almeno da 5 anni, ma finora nessuno ha fatto mai nulla. L’unica proposta finora arrivata da Nordio è aggiungere dei container accanto alle carceri” taglia corto Cecconi. Intanto, ricorda, a Sollicciano manca un direttore da 9 mesi, e manca anche il garante dei detenuti, la cui nomina spetta del Consiglio Comunale a seguito del bando pubblicato a gennaio: “I tempi della politica appaiono un po’ lunghini…” In attesa della politica, l’associazione continua con la sua consueta attività: i colloqui settimanali con i detenuti in cui raccolgono sfoghi e segnalazioni, fornitura di vestiti ai reclusi, i laboratori per la realizzazione delle bambole, e le attività svolte con l’asinello di proprietà dell’associazione. Giovedì prossimo 15 maggio l’associazione organizza la tradizionale cena di autofinanziamento: dalle 10 presso l’area feste di viale Tanini del Galluzzo (Firenze). I fondi raccolti andranno all’acquisto di occhiali da vista, indumenti, medicine e piccoli sussidi economici per i detenuti indigenti del carcere di Sollicciano e “Gozzini” di Firenze. Per info e prenotazioni: 055-473070 oppure segreteria@pantagruel.org. Viterbo. Andrea Di Nino morto in cella, a “Le Iene” parla il supertestimone viterbonews24.it, 14 maggio 2025 Cosa è successo esattamente nella cella di isolamento dell’istituto penitenziario Mammagialla di Viterbo il 21 maggio 2018? Andrea Di Nino si è suicidato oppure è stato ucciso? Ieri sera, in prima serata, su Italia 1, nuove e importanti rivelazioni nell’inchiesta di Alessandro Sortino e Veronica Di Benedetto Montaccini. Nel servizio le voci di ex detenuti, le dichiarazioni di agenti penitenziari che lavorano tutt’oggi nel carcere di Viterbo e un’intervista esclusiva al supertestimone che racconta cosa avrebbe visto e sentito quel maledetto giorno. “Non si è impiccato. L’hanno ucciso. L’ho visto io, ero lì”. Queste le parole di Roberto Toselli - ex detenuto e vicino di cella di Andrea Di Nino - ai microfoni della trasmissione. Toselli avrebbe riconosciuto e individuato cinque agenti penitenziari attraverso i soprannomi che utilizzavano in carcere: “Ispettore, Caramella, Bomboletta, Terminator e Sceriffo. Erano la squadretta della morte”. “Ho potuto scorgere tutto con uno specchietto - dichiara il supertestimone - e ho sentito urla disumane. Andrea gridava ‘Mamma, mamma’ e piangeva. Poi sono usciti portando il corpo di Andrea in orizzontale. E dicevano ‘Aò, questo è morto, è morto’”. L’uomo aveva già rilasciato una deposizione presso lo studio dell’avvocato di parte, messa agli atti della Procura di Viterbo che ora ha aperto un fascicolo per ‘omicidio’. Molti sarebbero i punti oscuri di questa vicenda, alcuni riguarderebbero l’autopsia: “L’autopsia è fortemente contraddittoria - spiega il medico legale Pasquale Bacco - perché nella conclusione si parla di morte da asfissia per impiccamento, mentre all’interno sono i consulenti stessi a porre dei dubbi. Innanzitutto, non esiste un vero e proprio solco che corrisponderebbe al lenzuolo attorno al collo. Nelle foto vediamo solo due lesioni laterali, laterocervicali. Poi l’osso ioide risulta intatto ed è una cosa rarissima negli impiccamenti, è fragilissimo e si frantuma in 9 casi su 10”. “Il volto del ragazzo - continua il dottor Bacco - è roseo, mentre gli impiccati sono tipicamente cianotici. E nel corpo di Andrea non sono presenti neanche i segni del guanto e del calzino, ovvero del sangue che dovrebbe confluire nelle estremità”. Quello di Andrea Di Nino sarebbe un episodio isolato, oppure le morti misteriose e le violenze risulterebbero sistematiche in quegli anni? Le grida di aiuto dei detenuti arrivano sotto forma di decine di lettere: “Qua menano tutti. Pugni, calci. Ho problemi con la milza, con gli organi interni dopo le botte. Sono pieno di cicatrici”, si legge negli scritti arrivati all’associazione Antigone, intervistata da Sortino. E anche il Consiglio d’Europa fa rapporto all’Italia nel 2019, citando proprio il carcere di Viterbo e denunciando l’esistenza di una “squadretta punitiva”. Proprio la stessa citata dal supertestimone. Alessandro Sortino ha incontrato anche uno degli agenti presenti nel reparto di isolamento di Mammagialla nel giorno della morte di Andrea Di Nino, che dichiara: “L’ho trovato a terra, era già deceduto. Ho fatto il mio lavoro, ho fatto del mio meglio”. Poi aggiunge: “Di Nino non doveva stare lì, questo è vero”. Esiste, infatti, un certificato medico in cui il detenuto viene dichiarato non idoneo all’isolamento per le sue condizioni di salute mentale e fisica e per i precedenti episodi di epilessia. Per il decesso di Andrea Di Nino è già in aula un procedimento per “omicidio colposo” a carico dell’allora responsabile dell’Uos Medicina penitenziaria territoriale dell’Asl di Viterbo, di un assistente capo della polizia penitenziaria, del medico di guardia e del direttore della casa circondariale (quest’ultimo assolto in primo e secondo grado dalle accuse, ndr.). La famiglia - difesa dall’avvocato Nicola Trisciuoglio - non ha mai creduto alla versione del suicidio: “Amava troppo la vita - raccontano all’inviato - non vedeva l’ora di tornare dai suoi cinque figli”. E ricordano l’ultima visita ad Andrea: “Era agitato, disse che gli agenti lo avevano minacciato ‘Non esci vivo di qui, gli dissero. Come possiamo convincerci dell’impiccamento?”. Infine, l’appello: “Indagate, cercate. Perché nostro fratello non si è ammazzato. Lotteremo finché non arriveremo alla verità. Finché non otterremo giustizia”. Roma. “Per l’amnistia”, sit-in davanti al Ministero della Giustizia Il Manifesto, 14 maggio 2025 Parlamentari, amministratori locali e società civile insieme per i diritti dei detenuti e il reinserimento sociale. Mercoledì 14 maggio dalle 17 al giardino di via Arenula, vicino al ministero della giustizia, parlamentari, amministratori locali ed esponenti della società civile si ritrovano per chiedere “l’amnistia e il reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute”. “In un paese che si vuole fondato sulla dignità della persona e sul rispetto dei diritti fondamentali non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla disumanità delle nostre carceri - dice tra le altre cose l’appello firmato tra gli altri dalla parlamentare europea Ilaria Salis, dalla deputata Avs Francesca Ghirra, dalla senatrice Avs Ilaria Cucchi e dal responsabile Giubileo delle persone di Roma Capitale Andrea Catarci - L’emergenza carceraria è una ferita aperta che interpella la coscienza civile e morale dell’intero paese. È tempo di affrontarla con strumenti straordinari: l’amnistia, il lavoro esterno in misura massiccia, l’attuazione concreta e diffusa di percorsi di reinserimento sociale e lavorativo”. Di seguito, il testo completo dell’appello e le adesioni. Per l’amnistia e il reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute In un paese che si vuole fondato sulla dignità della persona e sul rispetto dei diritti fondamentali non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla disumanità delle nostre carceri. Serve il coraggio di ascoltare davvero il messaggio di attenzione e umanità di Papa Francesco, che ha voluto aprire una porta santa a Rebibbia, per affrontare una drammatica realtà fatta di sovraffollamento, assistenza sanitaria inadeguata, strutture fatiscenti, crescente numero di suicidi e autolesionismo, mancanza di azioni significative di reinserimento sociale e lavorativo. Alle persone detenute (circa 62.500) che scontano pene e spesso attendono in cella di essere giudicate in via definitiva, in condizioni che violano la Costituzione e i trattati internazionali sui diritti umani, si nega nei fatti la speranza di una seconda opportunità, diffondendo rassegnazione e disperazione che producono violenze e conflitti, con sé stessi, il resto della popolazione detenuta, il personale impiegato. Con cecità e cinismo il governo Meloni, approvando il decreto Caivano, è riuscito a rendere sovraffollati persino gli Istituti Penali Minorili, dove attualmente ci sono circa 570 giovani. E con il dl Sicurezza che attenta alla libertà di manifestazione e alla dignità umana promette di fare ancora peggio. L’emergenza carceraria è una ferita aperta che interpella la coscienza civile e morale dell’intero Paese. È tempo di affrontarla con strumenti straordinari: l’amnistia, il lavoro esterno in misura massiccia, l’attuazione concreta e diffusa di percorsi di reinserimento sociale e lavorativo. Per una giustizia che non esclude ma risana; che non si compiace di infliggere punizioni ma rieduca; che non condanna per sempre ma offre una seconda possibilità, ci ritroveremo mercoledì 14 maggio alle ore 17, pochi giorni dopo il 48esimo anniversario dell’uccisione di Giorgiana Masi, vicino al Ministero della Giustizia, al giardino di via Arenula. Ilaria Salis, Parlamentare europea Francesca Ghirra, Deputata Ilaria Cucchi, Senatrice Andrea Catarci, Responsabile Giubileo delle Persone di Roma Capitale Alessandro Luparelli, Consigliere Roma Capitale Michela Cicculli, Consigliera Roma Capitale Claudio Marotta, Consigliere Regione Lazio Amedeo Ciaccheri, Presidente Municipio Roma VIII Roberto Eufemia Consigliere Città Metropolitana Roma Francesca Malara, Presidente CNCA Lazio Paola Bevere Avvocata Luigi Ficarra, Avvocato Rino Fabiano, Assessore Municipio Roma II Daniela Marianello, Consigliera Municipio Roma XI Luciano Ummarino, Assessore Cultura Municipio VIII Carla Corciulo, Consigliera Municipio Roma IV Lorenzo Giardinetti, Consigliere Municipio Roma VIII Carla Baiocchi, Casa dei Diritti sociali Cesare Antetomaso, Giuristi Democratici Danilo Borrelli, Consigliere Municipio Roma IX Capodarco Roma Formazione Coop Il Trattore Coop Programma Integra Coop Be Free Movi Lazio Coop Il Cammino Coop Eureka Primo Roma. Domani al Senato si parla di indulto con La Russa e Pinelli di Angela Stella L’Unità, 14 maggio 2025 Domani alle 11 presso la Sala Zuccari di Palazzo Madama si terrà un convegno dal titolo ‘Per un gesto di clemenza nelle carceri’. Interverranno Mons. Rino Fisichella, pro-prefetto del dicastero per l’evangelizzazione, Fabio Pinelli, vice presidente del Csm, Alessia Villa, presidente della commissione carceri della regione Lombardia. Sarà presente anche il presidente del Senato Ignazio La Russa. Le conclusioni saranno affidate a Don David Maria Riboldi, cappellano della casa circondariale di Busto Arsizio, fondatore de La Valle di Ezechiele, cooperativa che assume persone carcerate, e organizzatore dell’evento che ci dice: “Questo momento di confronto nasce dalla consapevolezza della sempre più drammatica emergenza carceraria, tra sovraffollamento e suicidi. Nel nostro Paese nessuno è riuscito ancora a dare una risposta a quanto vediamo quotidianamente”. Invece “l’anno scorso il governo britannico ha deciso di rilasciare alcune migliaia di detenuti rinchiusi per reati meno gravi e che avessero scontato il 40 per cento della pena. Si parlava di circa 5500 detenuti per contrastare l’overcrowding”. Secondo don David il principio è semplice: “se la sala di un cinema ha una capienza di 200 persone ma il gestore ne fa entrare 220 viene sanzionato sul piano della sicurezza. Invece qui dinanzi a quello che succede nelle nostre carceri si resta indifferenti. E quando si prospetta una soluzione come quella della liberazione anticipata speciale dell’onorevole Giachetti, la maggioranza non la approva”. E però, secondo il cappellano, “così facendo si impedisce anche il fine rieducativo della pena in quando gli operatori all’interno degli istituti di pena invece di occuparsi dei processi di risocializzazione dei detenuti sono costretti ad affrontare le emergenze, come atti di autolesionismo, resistenze, risse che sono spia di un malessere generale sempre più crescente”. “Nel carcere dove sono io - prosegue don David - c’è un detenuto di nome Ernesto (nome di fantasia) che tra quattro mesi ha il fine pena. Si trova qui da due anni ma ad oggi non siamo ancora riusciti a costruire un suo futuro fuori: paradossalmente perché è bravo, non dà problemi e quindi viene sempre dopo”. Spiega ancora così le ragioni del convegno: “il 26 ottobre papa Francesco ha aperto la porta santa a Rebibbia: è stato un gesto molto importante che ha spinto tutta la politica a riflettere. Tra i primi ci fu proprio il presidente La Russa che in una intervista al Giornale si disse favorevole a provvedimenti di amnistia o piccoli indulti qualora in carcere non si riuscisse a rieducare i detenuti. Anche il numero due di Palazzo Bachelet in una intervista ad Avvenire chiese a tutte le forze politiche di ragionare su un indulto parziale”. Ecco, “tutto questo - conclude don David - spero possa produrre una discussione seria su come affrontare la situazione all’interno della maggioranza che sarà presente al convegno grazie agli ospiti che interverranno e mi auguro davvero che proprio la seconda carica dello Stato possa affidarci le sue parole durante il dibattito”. Bologna. Pietro Grasso sorprende sulla Dozza di Camilla De Meis incronaca.unibo.it, 14 maggio 2025 “Bisogna dare ai giovani la possibilità di vivere il carcere in maniera diversa, in modo che non diventi una palestra per il crimine”. Pietro Grasso esprime un’opinione in controtendenza sul recente trasferimento dei detenuti giovanissimi nel carcere della Dozza. Un provvedimento che ha suscitato molte polemiche. L’accento è sulla gestione del sovraffollamento dei penitenziari minorili. La legalità è il tema dell’incontro di questa mattina al Modernissimo dove il magistrato siciliano ha risposto alle domande degli studenti delle scuole secondarie di Bologna. Le mani alzate sono state tantissime e il cinema nel cuore del capoluogo emiliano-romagnolo era gremito. Sono ormai due anni che Grasso porta avanti il lavoro con i futuri cittadini d’Italia insieme alla sua Fondazione “Scintille di Futuro”. “La mia prima vita l’ho dedicata alla giustizia, la seconda alla politica, la terza ai ragazzi”, ha spiegato il magistrato che punta a costruire un ponte per radicare nei giovanissimi il senso di giustizia. Tanti i riferimenti ai colleghi e amici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, impegnati testa e cuore nella lotta alla mafia. Mafia che continua a esistere nonostante se ne parli di meno. “Sembra che sia scomparsa, in realtà è una strategia. I suoi atti non sono eclatanti, perché si è resa conto che, alla lunga, lo scontro l’avrebbe perso. Oggi si muove sottoterra, s’infiltra nella società e, al massimo, fa affari”, ha argomentato meglio il magistrato agli studenti che sono più di ottocento. “L’obiettivo della Fondazione “Scintille di Futuro” è di creare un dialogo con gli studenti in modo da costruire insieme un mondo migliore. Bisogna avere la forza di reagire alle avversità, fuggendo dalla fragilità che, spesso, porta i ragazzi a esercitare violenza nei confronti degli altri”. La violenza è la stessa che, da piccolo, lo spinse a scegliere di dedicarsi al mestiere del magistrato. “Sono cresciuto in un contesto di soprusi, dove le uccisioni di bambini innocenti erano frequentissime. Le leggevo sui giornali insieme a mio padre”. Ma, insieme alle notizie delle stragi commesse dal sistema mafioso, c’erano anche le storie di chi combatteva strenuamente puntava a diventare uno di quelli. Dopo qualche anno, sarebbe stato scelto come uno dei giudici del Maxi processo e si sarebbe ritrovato a varcare una stanza che ospitava circa 400 mila pagine di faldoni che contenevano tutto il materiale su quell’udienza. Qui il magistrato si è abbandonato ai ricordi di due amici e ha precisato: “Non erano supereroi, ma persone dotate di un grande senso del dovere”. Ancora: “Quando si entrava nei loro studi, sembrava di star in val padana con la nebbia, tanto fumavano. Porto ancora con me l’accendino di Falcone. Borsellino? Scherzava con tutti”. A riprova che una vita passata a lottare contro la criminalità non esclude tutto il resto. “Certo, si tratta di scelte. Noi abbiamo fatto una scelta”, conclude Grasso la sua mattinata al Modernissimo, tra foto con gli studenti, cartelloni colorati e un po’ di speranza in più grazie al lavoro con le scuole di Bologna. Fossano (Cn). Il calcio oltre le mura del carcere: torneo fra detenuti, avvocati e studenti cuneodice.it, 14 maggio 2025 L’Atletico Forense si è aggiudicato il quadrangolare organizzato dall’amministrazione penitenziaria: battuti ai rigori gli alunni dello Scientifico Sportivo di Cuneo. È la squadra degli avvocati dell’Atletico Forense Cuneo ad aggiudicarsi il I° quadrangolare di calcetto, tenutosi sabato 10 maggio presso la Casa di Reclusione di Fossano. Il torneo, organizzato dall’amministrazione penitenziaria, ha visto sfidarsi in partite di 20 minuti ciascuno, con girone all’italiana, due squadre della Rappresentativa detenuti (una in maglia bianca, l’altra in maglia blu), la Rappresentativa degli studenti del Liceo Scientifico-Sportivo Peano di Cuneo e quella degli avvocati. La finalissima tra i “togati” e i giovani della rappresentativa degli studenti ha visto prevalere i primi ai calci di rigore, dopo che il tempo regolamentare si era chiuso con il risultato di 2-2. La manifestazione si è giovata del contributo del direttore della casa di reclusione, la dottoressa Assuntina Di Rienzo, del sostituto commissario Marino Spinardi (comandante della Polizia Penitenziaria) e delle funzionarie giuridico pedagogiche del carcere Antonella Aragno (capo area), Michela Manzone e Cinzia Sannelli. Erano presenti al torneo anche il sindaco di Fossano Dario Tallone, il garante dei diritti dei detenuti della Regione Piemonte Bruno Mellano e del Comune di Fossano Michela Revelli, il presidente dell’ordine degli avvocati di Cuneo avv. Alessandro Ferrero. Al termine degli incontri e dopo i ringraziamenti di rito della dott.ssa Di Rienzo e delle altre autorità intervenute si sono svolte le premiazioni, con la consegna del trofeo alla squadra vincitrice. Durante la giornata tutti gli atleti hanno potuto beneficiare del pranzo, offerto dall’amministrazione penitenziaria, preparato e servito dai detenuti. “Come presidente dell’Atletico Forense Cuneo non posso che ringraziare gli organizzatori del torneo per averci offerto la possibilità di partecipare a questa bellissima iniziativa” commenta l’avvocato Francesco Ieriti: “L’organizzazione è stata impeccabile e a loro va il mio e nostro più sentito ringraziamento. L’augurio è quello di ripetere l’iniziativa anche nei prossimi anni”. Pavia. I detenuti del carcere potranno svolgere un’attività sportiva ilticino.it, 14 maggio 2025 Presentato il progetto che avrà una durata di 18 mesi. Inizia il progetto “Sport di Tutti-Carceri”, promosso dal Ministro per lo Sport e i Giovani, tramite il Dipartimento per lo Sport e realizzato in collaborazione con Sport e Salute. “I destinatari del progetto sono i detenuti del carcere di Pavia - ha spiegato l’assessore comunale allo sport Angela Gregorini -: credo che questa iniziativa sia un’opportunità concreta per riscoprire i valori positivi come il rispetto delle regole, la collaborazione, l’impegno e la resilienza attraverso lo sport”. “L’attività sportiva è uno degli elementi previsto dalla legge per il recupero delle persone - ha sottolineato la direttrice della casa circondariale di Pavia, Stefania Musso -: è importante proporre modelli comportamentali nuovi creando così momenti di aggregazione e favorendo la reintegrazione sociale”. Il progetto si svilupperà per una durata complessiva di 18 mesi, con un appuntamento settimanale in cui i detenuti potranno svolgere diverse attività. Sogni e Cavalli APS-ASD, come spiegato da Elena Rondi, attraverso “Attivi verso il futuro” propone attività di atletica leggera, calcio a 7, calcio balilla, ginnastica per tutti, pallacanestro 3×3 e tennis tavolo, coinvolgendo la popolazione carceraria con attività dedicate anche ai diversamente abili. “Lo sport rappresenta un’alternativa concreta - ha concluso l’assessore Gregorini: i detenuti devono essere messi in condizione di ricostruirsi una vita, e credo che questa attività possa aiutare i soggetti a riscattarsi e a migliorare la propria salute psico-fisica; per questo motivo la nostra Amministrazione tiene molto a questo genere di iniziative”. Torino. Alla Casa Circondariale Lorusso e Cutugno lo spettacolo “Ottantaquattro pagine” Ristretti Orizzonti, 14 maggio 2025 La rappresentazione ispirata a una lettera di richiesta di perdono del 1919, dal 19 al 22 maggio presso la Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino. Parole e musica, suoni ed effetti speciali per accompagnare una storia di dolore e riscatto. Protagonisti e autori sono un gruppo di detenuti-attori, guidati dalla regia di Claudio Montagna, in scena con Ottantaquattro Pagine, in programma nel teatro della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” dal 19 al 22 maggio. Dopo l’anteprima a Torino nel dicembre dello scorso anno, la rappresentazione ritorna in carcere dove testi e scenografie hanno preso vita nel laboratorio teatrale che ha coinvolto in tutto 37 detenuti, nell’ambito del progetto “Per aspera ad astra” supportato da ACRI e dalla Fondazione Compagnia di San Paolo, realizzato da Teatro e Società con la collaborazione del Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale e della Direzione e degli operatori della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno”. Quattro serate aperte al pubblico esterno (tutte sold out), con un’importante presenza delle istituzioni per proporre, attraverso il teatro, una riflessione più ampia sul ruolo del carcere all’interno della comunità. “E’ molto importante mantenere vivo il legame espressivo che la Città di Torino offre costantemente al Carcere attraverso le iniziative teatrali. Sono momenti in cui si sperimenta una condivisione emotiva che rende tutti i presenti ugualmente partecipi - sottolinea Elena Lombardi Vallauri, Direttore Casa Circondariale Lorusso e Cutugno Torino - Il carcere ha bisogno di essere conosciuto e la cittadinanza ha bisogno di conoscere davvero chi sono le persone che abitano l’Istituto penitenziario. Chi si mette in gioco nella realizzazione di uno spettacolo teatrale offre al pubblico un’autentica opportunità di incontro. Per i singoli partecipare alla realizzazione di uno spettacolo teatrale, spesso esperienza inedita, avvia riflessioni e ricerche interiori fondamentali. La costruzione di uno spettacolo teatrale permette anche di coinvolgere molteplici progetti attivi nel carcere attivando una virtuosa collaborazione delle scuole e dei laboratori di formazione anche artigianale ed offre quindi un’opportunità didattica in più legata ai mestieri del teatro. La coesione e la collaborazione tra le diverse agenzie che portano il proprio contributo formativo, culturale ed educativo negli Istituti Penitenziari è un elemento indispensabile per la migliore riuscita di ciascun progetto”. Ottantaquattro Pagine trae ispirazione dalla richiesta di perdono scritta in un mese di cella da un giovane detenuto ai figli della donna uccisa. A più di cent’anni di distanza la lettera è riemersa dall’archivio del Museo Lombroso dell’Università di Torino per giungere all’attenzione del regista Claudio Montagna: “La lettera di 84 pagine termina con la data 4 maggio 1919, non si sa se sia servita al suo scopo. Del ragazzo non si hanno altre notizie - spiega Montagna - ma quella testimonianza di cui ci siamo appropriati senza poter chiedere l’autorizzazione, ha ispirato la rappresentazione. Con un salto temporale di sessant’anni un vecchio che vive il tormento di non poter rimediare a un’antica colpa, perché chiedere perdono non basta, trova un’occasione. Nella rappresentazione immaginiamo così che l’esile filo di un gesto oggi possa ancora opporre una traccia di vita all’irreparabile”. Dalla lettera emergono il dolore, il pentimento, il desiderio di spiegare la sfortunata china di un giovane che, fragile, si era perso nel buio della disonestà. Infine, il desiderio di essere perdonato, per poi scontare tutta intera la sua pena. La testimonianza è diventata terreno di confronto per i partecipanti del laboratorio teatrale condotto da Franco Carapelle, Elisabetta Baro e Diego Coscia e ha dato vita a pensieri e proposte, molte delle quali trasformate in poesia, da restituire al pubblico in forma di haiku, insieme a brani della lettera e video proiezioni. In scena, insieme al gruppo di detenuti-attori, gli attori Claudio Montagna e Margherita Data-Blin, con l’accompagnamento musicale di Alberto Occhiena e Paolo Morella e la suggestiva scenografia creata da cinque macchine teatrali per riprodurre gli eventi atmosferici: il tuono, la pioggia, la neve, il vento e il mare. Le macchine sono state realizzate dagli studenti del Padiglione B (IPIA Plana - Casa Circondariale di Torino) per ricreare una scena teatrale d’altri tempi, seguendo le indicazioni dei classici manuali di scenotecnica, sotto la guida del responsabile della parte scenotecnica Claudio Cantele per il Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale e con la collaborazione del Primo Liceo Artistico di Torino e dell’IIS Giulio. Le parole nel contesto carcerario sono diventate anche strumento di formazione e studio per il tirocinio su “teatro e carcere” che ha coinvolto alcuni studenti del Corso di tecniche d’insegnamento dell’italiano per stranieri, sotto la guida di Silvia Sordella, prof.ssa del Dipartimento di Culture, Politica e società dell’Università degli Studi di Torino. Con “Per aspera ad astra come ricon?gurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, la Fondazione Compagnia di San Paolo sostiene il teatro in carcere come strumento di crescita personale e reinserimento sociale. Il progetto ha dato vita a una rete nazionale di 14 compagnie teatrali attive in 16 istituti di pena, che lavorano per valorizzare il teatro sia nel suo ruolo culturale ed estetico sia nella sua funzione trattamentale. L’iniziativa non solo favorisce il riscatto individuale attraverso l’arte, ma contribuisce anche a una più ampia riflessione sul sistema penitenziario, promuovendo un dialogo tra istituzioni, detenuti e comunità nel rispetto dei principi sanciti dall’articolo 27 della Costituzione italiana. È possibile seguire lo spettacolo del laboratorio “Per Aspera ad Astra” nelle serate del 21 e 22 maggio, date in cui la Direzione del Carcere ha previsto l’accesso degli operatori dei media. Per partecipare è necessario inviarmi all’indirizzo press@kamiweb.it nominativo e dati (documento d’identità +codice fiscale +n.ro di tessera dell’OdG) del giornalista partecipante e, nel caso di troupe, degli operatori. Invitandovi calorosamente a partecipare, rimango a disposizione per chiarimenti, grazie per l’attenzione. Info: Roberta Dho - ufficio stampa mob. 339 6076861. Castrovillari (Cs). Il progetto “Un lungo silenzio si fece udire. Viaggio nel mondo di Beckett” ecodellojonio.it, 14 maggio 2025 È stato un percorso umano e artistico intenso, dove la potenza espressiva del teatro ha incontrato le fragilità e le speranze di chi vive recluso. Un teatro gremito e un auditorium carcerario trasformato in palcoscenico. Così si è concluso a Castrovillari il progetto “Un lungo silenzio si fece udire. Viaggio nel mondo di Beckett”, con la messa in scena di Finale di partita di Samuel Beckett, realizzata grazie all’impegno dell’Associazione Culturale Aprustum insieme ai detenuti della Casa Circondariale “Rosetta Sisca”. L’iniziativa, durata quasi un anno, ha rappresentato molto più di un laboratorio teatrale. È stato un percorso umano e artistico intenso, dove la potenza espressiva del teatro ha incontrato le fragilità e le speranze di chi vive recluso. Beckett, con i suoi riti ripetitivi, le attese infinite, le giornate immobili e sospese, ha offerto lo specchio perfetto di un universo chiuso come quello carcerario. Un confronto intimo e sincero con la condizione dell’uomo, dentro e fuori le mura. Il saggio finale, allestito dapprima al Teatro Sybaris e successivamente nell’auditorium dell’istituto penitenziario, ha visto protagonisti due attori professionisti dell’Associazione Aprustum, Katia Sartore e Fedele Battipede, insieme a due detenuti. Diretti dal regista Casimiro Gatto, hanno saputo trasformare l’iniziale diffidenza in partecipazione attiva e commossa, regalando al pubblico un’esperienza emotiva forte e autentica. Il progetto ha mostrato come il carcere possa diventare anche un luogo di riflessione e rinascita. Non solo spazio di pena e isolamento, ma contesto in cui è possibile rielaborare esperienze dolorose e scorgere nuovi orizzonti. Emozioni, confronto, possibilità: elementi che il teatro ha saputo accendere anche in un luogo segnato dalla privazione. Tutto ciò è stato possibile grazie alla sensibilità del Direttore dell’Istituto, Giuseppe Carrà, al supporto dei responsabili dell’area educativa, Luigi Bloise ed Elisabetta Grisolia, e alla collaborazione attenta del personale di polizia penitenziaria e del comandante Carmine Di Giacomo. Fondamentale, inoltre, il sostegno economico della Fondazione Carical, che ha reso concretamente possibile questo viaggio teatrale e umano. Il teatro, ancora una volta, ha abbattuto muri e costruito ponti. Bologna e Torino. La vita è come una partita di rugby. Fare meta in carcere è riscattarsi di Giorgio Paolucci Avvenire, 14 maggio 2025 L’esperienza delle squadre di “palla ovale” nei penitenziari di Bologna e Torino: il gioco educa al rispetto delle regole e dell’avversario, alla gestione della forza fisica e al sacrificio. “Per una testa calda come me, l’incontro con il rugby è stato un grande aiuto per mettere un po’ di ordine nell’esistenza. Ho imparato che il rispetto delle regole è fondamentale per vivere insieme, e che lo spirito di squadra, il sentirsi parte di un gruppo ti educa a capire che nello sport come nella vita non puoi fare a meno dell’altro”. Quando Armando è arrivato in Italia dall’Albania era un adolescente, dopo essere stato ospitato in una comunità per minori ha percorso strade sbagliate che gli sono costate una condanna pesante. Il rugby l’ha scoperto cinque anni fa osservando dalla finestra della cella gli allenamenti della Giallo Dozza, la squadra formata da persone detenute che unisce il nome del carcere di Bologna con il provvedimento disciplinare di temporanea sospensione: nel rugby l’atleta che riceve dall’arbitro il cartellino giallo deve stare fuori dal gioco per dieci minuti, un tempo nel quale può meditare sui propri errori e prepararsi a tornare in campo per riprendere la partita. È una metafora della detenzione e del valore rieducativo che dovrebbe avere la pena. Dopo avere superato le selezioni per entrare nella squadra, Armando ha cominciato un percorso sportivo e umano che l’ha portato a giocare per tre anni come mediano di mischia sul campo di rugby del carcere bolognese. Ora lo aspetta una nuova sfida: sabato 17 maggio sarà il direttore di gara della partita tra la Giallo Dozza e i Cinghiali del Setta, una squadra attiva da vent’anni nella periferia della città. Infatti l’anno scorso Armando ha preso il patentino di primo livello da arbitro: è il paradosso (solo apparente) di un uomo che ha infranto le regole della convivenza e ora si trova a farle rispettare su un campo sportivo. “Come è accaduto a lui, per molti detenuti il rugby è stato un momento importante di ripartenza umana - ragiona Francesco Dell’Aera, team manager della squadra. I nostri atleti vivono in una sezione “dedicata” del carcere, fanno tre allenamenti alla settimana sul campo e uno teorico gestito dal capo allenatore. Per undici anni abbiamo partecipato al campionato federale di serie C, l’unico a cui è possibile accedere, e le partite si giocano ovviamente tutte sul nostro campo. I giocatori delle altre compagini sono contenti di farlo: per loro è la scoperta di un mondo, per i nostri è motivo di orgoglio e di gratitudine. Si mettono alla prova: lo scopo non è fare gli All Black in carcere, ma vivere il rugby come strumento educativo”. In questa prospettiva c’è un momento molto significativo che corona le partite: il terzo tempo, il tradizionale incontro tra i giocatori delle due squadre alla fine del match. “Dopo 80 minuti di agonismo, è un momento conviviale che testimonia l’autentico spirito del rugby e offre agli atleti l’opportunità di capire che gli avversari vanno onorati e rispettati. Dopo averli placcati in partita, ti siedi a tavola con loro”. L’idea di portare la palla ovale in carcere è venuta a un uomo che ha fatto del rugby la passione della vita: Walter Rista ha iniziato a giocare a 14 anni, ha militato in serie B nel Cus Torino e a 22 è stato selezionato nella Nazionale come un vero enfant prodige, poi un giorno - aveva 46 anni - partecipando a un torneo per seniores in Argentina con la rappresentanza italiana è accaduto l’incontro che ha cambiato la sua vita. “Il pullman su cui viaggiavamo si è fermato dopo avere urtato contro un altro, siamo scesi in strada per aiutare l’autista ma gli occupanti dell’altro mezzo rimanevano immobili: erano tutti carcerati, mi colpì il fatto che pur essendo molto giovani avevano un’espressione da vecchi, con il volto segnato dalla sofferenza. Quel giorno decisi che avrei fatto qualcosa per far entrare il rugby nei penitenziari italiani, lo sport a cui avevo dedicato tanti anni della mia vita”. Era un azzardo ma ci è riuscito, aprendo una strada che sta portando molto frutto. Grazie alla disponibilità di Pietro Buffa, all’epoca direttore del carcere Lorusso Cutugno di Torino, nel 2010 è nata la Drola (una parola che in dialetto piemontese indica qualcosa di strano, di bizzarro), prima compagine in Italia formata interamente da detenuti. Da allora in 200 hanno indossato la maglia della squadra, seguiti con passione da Rista e dagli allenatori che si sono avvicendati. Alcuni hanno pure fatto carriera, come il moldavo Serghei che ha disputato 150 partite con la Drola e dopo avere saldato i conti con la giustizia ha militato in serie A nel Colorno come terza linea. Oggi la palla ovale è entrata in 19 istituti penali e in 2 case-famiglia, grazie a un protocollo tra Federazione Italiana Rugby e Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che comprende anche corsi per diventare allenatori o arbitri. Rista spiega che “viene così riconosciuto il valore trattamentale di alcuni aspetti tipici del nostro sport, uno sport che è palestra di vita: educa al rispetto delle regole e dell’avversario, alla gestione della forza fisica e al sacrificio, crea spirito di squadra. In partita se vuoi andare avanti devi passare la palla a un compagno dietro di te. Non si vince con i grandi solisti, si vince grazie alla compattezza della squadra. E poi ci sono risultati importanti sotto il profilo civile: la recidiva tra quelli che partecipano alle nostre attività si abbassa vertiginosamente, alla società arriva il messaggio che queste persone non sono vuoti a perdere ma gente che vuole dimostrare la propria volontà di riscatto. Hanno perso per strada le regole del buon vivere, noi li aiutiamo a ritrovarle. Non dimentichiamo il guadagno personale degli atleti delle squadre che vengono in carcere a giocare con i nostri ragazzi: scoprono un mondo che non conoscevano o che era avvolto dai pregiudizi, incontrano persone che testimoniano la loro voglia di ripartire”. In questo momento la Drola si limita agli allenamenti perché la squadra ha subito una drastica riduzione dopo che nelle urine di alcuni atleti sono state trovate tracce di sostanze stupefacenti (ma come hanno fatto ad entrare in carcere?). Rista ammette la parziale sconfitta, però rilancia con convinzione: “Qualche mela marcia non mette in discussione il valore di un’iniziativa che ha aiutato tante persone a cambiare strada”. Come sta accadendo a Davide e Mohammed, due detenuti-atleti della Drola. Il primo attualmente è l’unico italiano in una squadra “dove la nazionalità e il colore della pelle non contano, ciò che conta è la voglia di riscatto che ci anima. Qui, dopo anni passati con gente sbagliata, ho trovato chi scommette sulla mia voglia di cambiamento. Dare un ritmo alla giornata, partecipare agli allenamenti, sacrificarsi, combattere insieme ai compagni di squadra, sentire l’odore dell’erba e della terra dopo tanto tempo passato tra ferro e cemento: sono sensazioni e soddisfazioni che non puoi capire se non hai vissuto qua dentro”. Mohammed è arrivato in Italia dall’Egitto, si trovava in carcere a Cosenza quando è venuto a conoscenza dell’esperienza della Drola, si è candidato e ha ottenuto il trasferimento a Torino. “Qui la mia esistenza è ripartita, ho ripreso gli studi, ho incontrato gente come Walter che non mi giudica per il mio passato ma mi offre una seconda possibilità, e in questa squadra si diventa compagni di cammino. La vita è come una partita di rugby: da solo non ce la fai, hai bisogno dei compagni per arrivare a meta”. Terapie di “conversione” anti-lgbt: l’Ue le vieta, il Governo le ignora di Simone Alliva Il Domani, 14 maggio 2025 Il divieto ai tentativi di “riparare” gli omosessuali, pratiche dannose e senza base scientifica, entra nella legislazione Ue grazie a due emendamenti di Alessandro Zan (Pd, S&D). Ma in Italia manca ancora una legge che le vieti, mentre il governo continua a legittimare posizioni che rifiutano l’autodeterminazione della comunità arcobaleno. Ci sono parole che sembrano fantasmi del passato. “Terapie di conversione”, per esempio. Cioè interventi mirati a modificare l’orientamento sessuale o l’identità di genere. “Sei una persona gay o trans? Stenditi sul lettino”. “L’invito” sembra arrivare da un altro secolo ma è in realtà una pratica riscoperta nel nostro continente, quasi in sintonia con una destra che parla di gender e demonizza le persone Lgbt proiettando paure antiche sulla società. Una madre che porta la figlia dal parroco per “metterla a posto”, un padre che accompagna il figlio da uno “psichiatra” e per anni subisce un lento tentativo di rieducazione: cambiare modo di camminare, parlare, persino tagliarsi i capelli per apparire “più maschile”. In Italia queste pratiche non sono vietate. Ci pensa l’Europa a farlo. La Commissione LIBE (Libertà civili, giustizia e affari interni) del Parlamento europeo ha approvato una revisione della direttiva contro gli abusi sessuali sui minori. All’interno del testo sono stati inseriti due emendamenti presentati dall’eurodeputato italiano Alessandro Zan (Partito Democratico, gruppo S&D), che rappresentano un potenziale punto di svolta per la tutela dei diritti delle persone Lgbt in Europa. L’emendamento approvato inserisce nel testo legislativo una definizione ufficiale delle pratiche di conversione e le riconosce come potenzialmente dannose. Inoltre, introduce un’aggravante per i reati sessuali compiuti su minori per motivi discriminatori legati all’orientamento sessuale o all’identità di genere. “Si tratta di un passo storico per i diritti Lgbt in Europa”, ha dichiarato Zan. “In un momento in cui i diritti delle persone Lgbt sono sotto attacco in molti paesi, l’Europa manda un messaggio chiaro: siamo dalla parte della libertà e dell’autodeterminazione”, ha aggiunto. L’aggravante europea - La direttiva, inclusiva degli emendamenti Zan, non è ancora legge. Per ora, la definizione delle pratiche di conversione sarà inserita nella direttiva come parte interpretativa: non obbliga ancora gli Stati membri a vietarle, ma crea una base legale su cui l’UE potrà costruire nuove norme più vincolanti in futuro. Diverso il discorso sull’aggravante per gli abusi a sfondo discriminatorio: quella, se approvata, dovrà essere recepita direttamente nei codici penali dei singoli Stati. I prossimi passaggi cerchiati in rosso sul calendario: il 18 giugno il Parlamento europeo voterà in plenaria il testo completo. Poi si aprirà una trattativa tra Parlamento, Commissione e Consiglio per arrivare alla versione definitiva. Il voto finale è atteso entro fine anno. Se la direttiva passerà, gli Stati avranno circa due anni per adeguare le proprie leggi. In Italia, dove ancora manca una norma contro le pratiche di conversione, sarà il momento della verità. La battaglia politica - Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le terapie di conversione non hanno alcuna base scientifica e possono causare: ansia, depressione, disturbi post-traumatici e, in alcuni casi, tendenze suicide. Anche l’ONU e la World Medical Association hanno definito queste pratiche “lesive della dignità umana”. In Italia nonostante l’opinione contraria di gran parte del mondo medico e scientifico, non esiste una norma che vieti esplicitamente queste pratiche. Nel 2016 il senatore dem Sergio Lo Giudice depositò una legge sul tema, ignorata. Tentativi come il ddl Zan, sono stati osteggiati politicamente, in particolare dalle forze di centrodestra. Nel 2023, il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi ha ribadito l’illegittimità professionale delle terapie riparative e ha ricordato ai suoi iscritti che tali pratiche violano il codice deontologico. Tuttavia, la mancanza di una legge penale lascia aperta la possibilità che soggetti non regolamentati possano continuare a proporle, spesso nell’ambito religioso o pseudoscientifico. Massimo Gandolfini, molto vicino al sottosegretario Alfredo Mantovano e consulente del dipartimento Antidroga per la Presidenza del Consiglio, passò alle cronache perché nell’aprile 2015 durante un convegno organizzato da Comitato Articolo 26, definì l’omosessualità non come una variante naturale - come affermano Oms e Onu - ma un “disagio identitario”, da correggere “indirizzando il soggetto verso l’eterosessualità”. Sostenendo che un bambino con un “disagio identitario” vada educato “nella coerenza del suo psichismo”, cioè riportato nella “normalità” dell’eterosessualità. “Mi auguro che il governo italiano sia coerente e prenda posizione contro queste barbarie”, ha commentato Zan raggiunto da Domani: “Purtroppo, finora ha dimostrato, anche scegliendo figure come Gandolfini, di voler legittimare una visione discriminatoria e illiberale. È un atteggiamento pericoloso che alimenta l’odio per meri fini elettorali: un fatto deplorevole”. In Italia la frattura è destinata a crescere. Da una parte chi difende l’autodeterminazione, la salute mentale, la libertà dei giovani. Dall’altra chi, in nome di un ordine morale o religioso, pretende di “rieducare” ciò che non rientra nei binari tradizionali. La politica, ancora una volta, è specchio del Paese. Migranti. “Per far funzionare i Centri albanesi il Governo ha distorto il sistema giudiziario” di Giansandro Merli Il Manifesto, 14 maggio 2025 L’avvocato Guido Savio, tra i soci più noti dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), ha criticato sul sito questionegiustizia.it le recenti decisioni della Cassazione sui trattenimenti dei richiedenti asilo. In meno di venti giorni dalla prima sezione penale della Cassazione sono arrivate tre sentenze che aiutano il governo sull’Albania. Perché si esprime un giudice penale se il resto della materia è sul civile? Perché alla fine del 2024 una legge ha spostato la competenza sui ricorsi contro la convalida dei trattenimenti dalla Cassazione civile alla Cassazione penale. Ma nelle Corti di appello continuano a decidere i giudici civili... Se la convalida del trattenimento è finalizzata all’espulsione di un migrante irregolare decide il giudice di pace secondo le regole del processo civile. Se questa riguarda un richiedente asilo decide la Corte d’appello, sulla base delle stesse norme. Ma per il ricorso ora è competente la Cassazione penale. La Corte d’appello di Lecce ha sollevato alla Consulta una questione di legittimità. Ritiene ci sia un’infrazione “del carattere unitario inscindibile delle questioni attinenti al diritto d’asilo”. Quali sono gli effetti sul diritto di difesa? Quando la competenza era della Cassazione civile i termini per il ricorso erano di 60 giorni o sei mesi. Attribuendo la competenza alla Cassazione penale e applicando la normativa sul mandato d’arresto europeo non consensuale, come da modifica della Consulta, il termine è di cinque giorni. Inoltre sono limitati i motivi di ricorso. La ratio è ridurre le possibilità di ricorso e l’impatto che le sentenze della Cassazione civile, in particolare della prima sezione civile, hanno avuto in materia. Quindi la Cassazione penale sta andando contro quella civile. C’è un rischio di riscrittura della materia? Sì, e in una direzione assolutamente più restrittiva. Sempre la Corte d’Appello di Lecce sostiene che il governo non ha motivato il riordino della materia tra i vari tribunali. Qual è la ragione di questa scelta che il giudice ritiene “illogica”? È evidentemente politica. Per il centro di Gjader il riferimento era la sezione specializzata del tribunale di Roma. Quando questa ha bocciato le convalide, il governo le ha trasferite alla Corte d’appello, che non è specializzata, sperando in un giudice più compiacente. Perché il sistema Albania deve funzionare a ogni costo, come dice Meloni. Ma così ha creato un’alterazione totale nel sistema. Basta un dato: in questi casi la Corte d’appello giudica in primo grado. Non c’è nessun senso logico o giustificazione normativa. Se non quella che si vede tra le righe: vogliono giudici meno rompiscatole. Ma anche in Appello gli è andata male. L’attribuzione dei ricorsi alla prima sezione penale della Cassazione rientra nella logica di scegliersi i giudici? La prima sezione è stata indicata dalla presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano. Il governo ha soprattutto deciso che, attraverso la normativa sul mandato d’arresto europeo, andavano limitati casi e tempi del ricorso. Ha perfettamente ragione il giudice di Lecce a sollevare la questione di legittimità costituzionale: hanno creato un’aporia nel sistema senza alcun senso. A parte quello degli interessi politici. Il governo italiano, con quello danese, ora se la prende anche con la Cedu, accusandola di essere troppo garantista sui diritti dei migranti. Che significa? È indice della stessa volontà politica che ormai pervade tutta l’Ue. Il rischio è che prevalga un diverso orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, meno attento alle garanzie rispetto al passato. Vogliono giudici che obbediscano al potere esecutivo. Provano ad addomesticarli. Se non funziona li cambiano finché non trovano uno che dà loro ragione. 567 operatori dell’informazione, di cui 532 giornalisti, si trovano ora imprigionati nel mondo di Azzurra Rachelli ultimavoce.it, 14 maggio 2025 Dal Barometro di Reporter senza frontiere (Rsf) risultano detenuti 567 operatori dell’informazione, dei quali 532 giornalisti attualmente nel mondo: in testa la Cina, seguita da Birmania e Russia. In un momento storico in cui la libertà di stampa vive un preoccupante declino in molte parti del mondo, evidente dallo stesso report RSF World Index 2025 pubblicato da Reporters Sans Frontiers nei giorni scorsi, che vede l’Italia al 49 posto per libertà di stampa, questa ha subito un deterioramento a livello globale con un numero allarmante di giornalisti e operatori dell’informazione colpiti da repressione, violenza e incarcerazioni arbitrarie. Al primo posto la Cina con 114 casi, di cui 11 donne, seguita dalla Birmania (Myanmar) con 62 e la Russia con 52. Segue la Bielorussia, dove sono 49 il numero di operatori in carcere, il Vietnam con 38, Israele, Iran e Azerbaigian, tutti a quota 26. Sono numerose le giornaliste attualmente detenute nel mondo: 11 in Cina, 12 in Russia, 11 in Bielorussia e Azerbaigian, 8 in Birmania solo considerando i Paesi in testa alla classifica. Nei primi dieci posti della classifica di Reporter senza frontiere, la Siria con 21 casi cronisti finiti dietro le sbarre, a cui segue l’Egitto con 20 e l’Arabia Saudita con 19. Hong Kong con 11 giornalisti imprigionati e in doppia cifra anche il Tagikistan con dove sono 10. In ostaggio, stando a Rsf, sono 55 i giornalisti, di cui 38 in Siria, 9 in Iraq, 4 in Yemen, 2 in Mali e un 1 in Messico e Camerun. I giornalisti uccisi dall’inizio del 2025 sarebbero 15. Di questi: 3 in Messico, 3 in Palestina, e 1 in Colombia, Perù, Congo, Ecuador, Guatemala, India, Sierra Leone, Uzbekistan e Zimbabwe. All’interno del Barometro sono presentati i nomi di direttori, redattori, freelance, giornalisti investigativi, blogger, interpreti, documentaristi, attivisti per i diritti umani, rappresentanti di associazioni di scrittori detenuti nelle varie parti del mondo. La libertà di stampa nel mondo - Come già citato, dall’ultima classifica della libertà di stampa del 2 maggio, Rsf ha annunciato l’allarme su una situazione globale difficile, che vede un indice della libertà di stampa ad un minimo storico e un inquietante peggioramento degli Stati Uniti, vista la presidenza di Donald Trump. Una situazione grave e un ulteriore colpo per una libertà di stampa già in crisi, che evidenzia un contesto sempre più ostile all’esercizio del giornalismo indipendente, non solo nei paesi governati da regimi autoritari, dove l’informazione libera non piace a nessuno, ma un inasprimento della repressione della stampa è rilevabile anche nei paesi considerati a livello globale più “democratici”. Dietro ogni arresto si cela un tentativo di silenziare deliberatamente voci critiche, limitare la trasparenza e ridurre la possibilità di un’informazione veritiera e che mette in discussione i principi e le scelte che vengono fatte dai nostri governi, dalle principali multinazionali e in generali dai luoghi di potere. Garantire libertà di stampa significa garantire a tutti la possibilità di essere informati, al contrario di quello che avviene oggi in molti casi (ricordiamo che la Rai non sta nemmeno provando ad informare i cittadini riguardo al referendum dell’8/9 giugno), dalle televisioni nazionali ai social, dove ogni informazione finisce in un calderone di fake news e distinguere ciò che è vero dalla finzione risulta quasi impossibile. L’organizzazione non governativa e no profit con sede a Parigi, consulente dell’Onu, monitora, aggiorna e segnala costantemente attacchi contro la libertà di informazione. Reporter Senza Frontiere ha due sfere di attività: da un lato si concentra sulla censura nei nuovi media e dall’altro fornisce assistenza materiale, economica e psicologica a giornalisti che coprono servizi in zone pericolose. Da parte di questa ONG vengono costantemente monitorati gli attacchi alla libertà di informazione a livello mondiale, viene denunciata ogni forma di attacco ai media. L’organizzazione collabora con i governi per combattere la censura e per evitare la promulgazione di leggi volte a restringe la libertà di stampa. Inoltre, offre aiuto materiale ai corrispondenti di guerra per aumentarne la sicurezza. Francia. La vittima e il terrorista: quel dialogo tra i due padri che restituisce pace di Antonella Mariani Avvenire, 14 maggio 2025 Ci sono volute 18 ore perché Georges Salines sapesse se sua figlia Lola era tra i sommersi o i salvati. E ci sono voluti 3 giorni perché Azdyne Amimour uscisse dalla prigione dove è stato torchiato: suo figlio Samy era uno dei tre terroristi che hanno seminato orrore al Bataclan. Entrambi, Lola e Samy, avevano 28 anni. Entrambi sono morti in quel teatro parigino. Due padri, due lutti. Non uguali però: Azdyne aveva sulle proprie spalle anche il peso della colpa. Due padri che si sono incontrati, hanno voluto conoscersi e percorrere insieme il sentiero stretto e doloroso del perché. Perché Samy, ragazzo educato, obbediente, intelligente, quel 13 novembre 2015 ha scelto di uccidere altri ragazzi come lui, altre ragazze come Lola? La risposta la stanno cercando insieme, come insieme sono arrivati ieri a Milano a parlare agli studenti dell’Università Cattolica in un incontro dal titolo profetico: “Sperare contro ogni speranza. Il coraggio del dialogo dopo il terrorismo”. “Non volevo lasciarmi sopraffare dall’odio”, ha esordito Georges Salines, medico condotto che poche settimane dopo gli attentati di Parigi ha creato una associazione di familiari di vittime. “Alla fine ho capito che ero una vittima anch’io”, ha rincalzato Azdyne. E nella sala gremita di studenti sono riecheggiate le parole di papa Leone XIV nell’udienza ai giornalisti, lunedì. Trovare un senso a quello che è successo è un’impresa ardua eppure l’amicizia tra Georges e Azdyne è la testimonianza evidente che “la pace disarmata e disarmante” non è solo un impegno ideale a cui tutti siamo chiamati, ma anche una realtà che si può vivere. Una pietra angolare su cui si può costruire un modo nuovo di vivere. Dove non è l’odio e la volontà di vendetta a guidare le menti e le azioni, ma il desiderio di riconciliarsi, con se stessi e con gli altri. E di capire. Non sempre ci si riesce. Azdyne Aminour, 78 anni, combattente nella guerra d’Algeria, mille lavori, da pilota a produttore cinematografico, non ha ancora capito perché suo figlio Samy a un certo punto ha iniziato a vestirsi alla foggia islamica, frequentare assiduamente la moschea, diventare rigido e inflessibile, partire per combattere con il Daesh e infine sbarcare a Parigi imbracciando il kalashnikov. Il padre non l’ha mai abbandonato, è andato perigliosamente in Siria, ha cercato di convincerlo a tornare in Europa. Oggi - racconta - si sente un fallito. Non ha salvato Samy, non ha salvato Lola e gli altri del Bataclan. Ma ha imparato a essere più indulgente con se stesso, a sentirsi anche lui una vittima del terrorismo. Per la moglie non è stato così: la madre di Samy non parla mai del figlio, non conserva sue foto nell’appartamento, è sprofondata nel dolore e nella vergogna. Azdyne Amimour no. Insieme a Georges entra nelle carceri di Francia e Belgio per parlare con i jihadisti lì rinchiusi, con l’obiettivo di intercettare la radicalizzazione. Insieme Georges e Azdyne promuovono incontri tra le famiglie delle vittime del terrorismo e gli attentatori o le loro famiglie. Si chiama giustizia riparativa, ricuce le ferite, allarga le relazioni, crea una pace vivente nei cuori. “Sono felice quando grazie al nostro impegno qualcuno si libera dalla rabbia, dal dolore e dall’odio”, ha detto ieri Georges Salines. Non è un percorso facile, ma i due padri del Bataclan, che nel 2020 hanno pubblicato insieme il libro “Il nous reste le mots” (a noi restano le parole), tradotto in Italia nel 2024 per Giunti, non sono gli unici. In Francia è appena uscito il memoir “Soeurs de Douleur” (Sorelle nel dolore), la storia dell’amicizia tra la sorella di padre Jacques Hamel, Roseline, e Nassera Kemiche, madre di Adel, uno dei due giovanissimi jihadisti che il 26 luglio 2016 assassinarono l’anziano sacerdote mentre diceva Messa. Disarmare le parole, chiedeva papa Francesco e ha ribadito il suo successore. Georges, Azdyne, Roseline, Nassera e tanti altri l’hanno fatto, consegnandoci un dolore fecondo perché purificato dalla rabbia e dall’odio. Non è stato facile né lo è tuttora, perché le sirene dell’intolleranza e dell’islamofobia risuonano forti in Francia e altrove, e gli attacchi non hanno risparmiato né Georges né Azdyne. Se fosse ancora vivo, vorrebbe incontrare Samy, hanno chiesto gli studenti al padre di Lola? “Sì, lo vorrei. Gli direi: mia figlia aveva la tua età, pubblicava libri per bambini, rideva e aveva sogni. E poi gli chiederei: perché l’hai uccisa? Che senso ha tutto questo?”. Un senso, se ce l’ha, i due padri lo stanno cercando camminando l’uno accanto all’altro. Guerra in Ucraina, le parole armate e la verità come vittima di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 14 maggio 2025 In questi giorni i resoconti non veritieri di molti media sono arrivati nello stesso giorno in cui il nuovo Papa incontrando la stampa del mondo ha chiesto di disarmare l’informazione. Mentre scriviamo ancora non sappiamo cosa accadrà domani, giovedì 15, se Putin e Zelensky si incontreranno o meno a Istanbul e se parteciperà da “mediatore” Trump. Sappiamo solo con certezza che la prima vittima di ogni guerra è la verità. Basta vedere come gran parte dei media sta informando su come è nato l’evento. “Tregua, Trump convoca Putin”, “…Se Putin dovesse accettare l’invito del leader ucraino ad incontrarsi…”, “…Rimane il tema del cessate il fuoco, condizione ineludibile da Zelensky e dei leader europei…”, “Gelo da Mosca”: titoli e aperture di quotidiani e di tg tutt’altro che veritieri. Che dire poi delle dichiarazioni di Giorgia Meloni, volenterosa ma trumpiana: “L’Ucraina ha accettato subito di incontrare Putin a Istanbul giovedì, chiarendo in pochi minuti, rispetto a certa propaganda, quale tra le parti coinvolte nel conflitto sia certamente a favore della pace…”. In realtà - come il manifesto ha scritto - i fatti stanno diversamente: in sequenza temporale, è stato Putin che ha sparigliato il campo del vertice dei Volenterosi a Kiev, proponendo, con inusitato annuncio in tardissima serata da Mosca domenica sera, l’incontro diretto tra lui e Zelensky, “con il sostegno dei leader mondiali dei Brics”; ne è seguita dal presidente ucraino, con il sostegno della coalizione dei Volenterosi, una “accettazione riluttante” condizionata ad un cessate il fuoco prima di trenta giorni, e per questo subito dopo c’è stato l’intervento a gamba tesa di Donald Trump su Zelensky perché accettasse l’invito immediatamente anche senza la condizione della tregua di un mese. Si parla ora di “gelo da Mosca”. Ma se lo stesso racconto degli avvenimenti è capovolto, il “gelo” è inevitabile e il fallimento annunciato, come quello provocato per i negoziati russo-ucraini di Istanbul dell’aprile 2022. Una ricostruzione necessaria che non vuole far premio di una presunta volontà di pace di Putin, primo responsabile con l’invasione del febbraio 2022 - il secondo è l’allargamento a Est della Nato - ma sottolineare la sequenza degli accadimenti. Perché purtroppo alla vista non ci pare ci sia nessuna pace “giusta e duratura” e nemmeno una tregua. Perché? Perché intanto la guerra inutile continua, e perché i governi europei, la cui politica estera è surrogata dall’Alleanza atlantica, che avrebbero dovuto avanzare proposte diplomatiche di mediazione in questi tre anni, continuano ad inviare armi “per la vittoria” - impossibile secondo gli stessi generali del Pentagono contro la potenza militar-nucleare russa, per arrivare all’ammissione recente di Zelensky: “Per noi è impossibile riconquistare i territori occupati”; intanto alimentando odio e una litania sanguinosa di giovani vittime. Il fatto più grave è che da questa emergenza di guerra l’Unione europea ha tratto la nuova ragione di esistenza: il riarmo generalizzato. Con una quantità di investimenti miliardari che segnano una svolta epocale dal welfare al warfare. Investimenti che dovranno essere doppi, per ogni singolo paese, verso inediti quanto pericolosi nazionalismi armati magari bipartisan o protofascisti, e anche per la Nato che batte cassa con Trump. Questo “riarmo” rappresentano i Volenterosi: la richiesta di una tregua serve a legittimare l’idea di una loro missione militare di “sicurezza” dentro l’Ucraina - la Nato, che è il casus belli di questa guerra, ma così senza la Nato - per il controllo “super partes” del cessate il fuoco che dovrebbe essere fatto paradossalmente da chi ha inviato armi per sostenere un fronte contro l’altro, e alla prima verifica di violazione del cessate il fuoco ecco l’intervento in guerra stavolta diretto; intanto trasformando l’Ucraina nel nuovo arsenale di armi d’Europa. Eppure le Nazioni unite, anche se bombardate da Netanyahu, esistono ancora e se sarà auspicabilmente tregua o congelamento dello stallo nel conflitto, sarà inevitabile il coinvolgimento del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Fatto da sottolineare, le parole non veritiere e per l’occasione “armate” della maggior parte dei media giungono nello stesso giorno in cui il nuovo papa Leone XIV incontrando la stampa del mondo in Vaticano ha chiesto di “disarmare le parole” come condizione di un’epoca “disarmata e disarmante”. Il papa che viene tirato per la tonaca per la diversa visione delle guerre - è un agostiniano - e che non ha esitato a bollare l’invasione russa come “imperialista”: come non essere d’accordo sulla vocazione zarista di Putin che mettendo in discussione la storica sovranità dell’Ucraina non ha trovato di meglio con veemenza anticomunista che prendersela con Lenin e con la Rivoluzione d’Ottobre. Ma altresì come non essere d’accordo con papa Francesco che non solo per essere gesuita ma per avere sperimentato sulla sua pelle la guerra dei militari golpisti all’interno della sua Chiesa argentina negli Anni Settanta, considerava la guerra “sempre come “sconfitta” e “sempre guerra civile” e, riflettendo sulle origini del conflitto, non esitava a parlare per l’invasione dell’Ucraina dell’”abbaiare della Nato ai confini” dichiarando di “vedere uno scontro tra imperialismi” per il quale è difficile ragionare come “la favola di Cappuccetto rosso, tra buoni e cattivi”. I due papi, nella continuità del cristianesimo che deve “dare a Cesare quel che è di Cesare”, si compenetrano a vicenda e questo papa, per ora, ripete ad libitum le parole di Bergoglio: “Una pace giusta e duratura”. Noi dovremmo cominciare, costruendo un movimento terreno, a diffidare del “pacifismo” imperiale di Trump e a non avere più bisogno delle parole di un papa per affermare il rifiuto della guerra e la priorità della pace. Tribunale speciale del Consiglio d’Europa indagherà per il crimine di aggressione russa all’Ucraina di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 14 maggio 2025 Nella “Giornata d’Europa”, è stata definita l’istituzione, che avrà come base un accordo tra il Governo di Kiev e il Consiglio d’Europa. La nascita di un Tribunale speciale per il crimine di aggressione contro l’Ucraina è sempre più vicina. Durante i lavori preparatori, svoltisi a Leopoli nella “Giornata dell’Europa”, è stata definita l’istituzione, che avrà come base un accordo tra l’Ucraina e il Consiglio d’Europa. A suggellare l’importante iniziativa è stata la “Dichiarazione di Leopoli” di qualche giorno fa, che ha impegnato la Commissione europea, il Consiglio d’Europa e alcuni Stati - una quarantina - della coalizione internazionale che sostiene Kyiv. Il Tribunale speciale avrà il potere di indagare, perseguire e processare i leader politici e militari russi responsabili del crimine di aggressione contro l’Ucraina. Sarà il Consiglio d’Europa a predisporre il quadro necessario per istituire l’organo giudicante, con giurisdizione detenuta dall’Ucraina. Le autorità nazionali ucraine potranno deferire le indagini e i procedimenti penali nazionali in corso, relativi al crimine di aggressione, al procuratore del Tribunale speciale. Anche le prove raccolte dall’Icpa (International centre for the prosecution of the crime of aggression), ospitato presso Eurojust, saranno trasmesse, se opportuno, al procuratore del Tribunale. È inoltre prevista la presenza di giudici internazionali per assicurare il rispetto delle garanzie procedurali e del diritto internazionale nei procedimenti che si instaureranno. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha parlato di un passo necessario per assicurare alla giustizia i responsabili della guerra di aggressione scatenata dalla Russia nel febbraio di tre anni fa. “Celebrando la Giornata dell’Europa - ha affermato -, ci avviciniamo alla giustizia per il popolo ucraino. Sosteniamo pienamente il Tribunale speciale, affinché chiami a rispondere i responsabili dell’atroce crimine di aggressione contro l’Ucraina. Il popolo ucraino merita giustizia e faremo tutto il possibile per garantirla. L’Unione europea è impegnata a garantire la piena responsabilità per il crimine di aggressione commesso dalla leadership russa, nonché per tutti i crimini e le atrocità internazionali commessi in Ucraina”. Va ricordato che una serie di attività furono avviate neanche un mese dopo l’operazione militare speciale ai danni dell’Ucraina. Eurojust ha supportato la creazione di una squadra investigativa comune attualmente composta dall’Ucraina, da sei Stati dell’Ue, dalla Corte penale internazionale e da Europol. Nel novembre 2022, la Commissione europea aveva presentato agli Stati membri diverse opzioni per garantire l’accertamento delle responsabilità per il crimine di aggressione contro l’Ucraina. Silvana Arbia, già Prosecutor del Tribunale penale internazionale per il Ruanda, riflette su alcuni aspetti legati all’istituendo Tribunale speciale, che avrà il mandato di perseguire e punire il crimine di aggressione. “I processi che riguarderanno imputati con ruoli di leader - dice al Dubbio Arbia -, possono svolgersi in contumacia con facoltà degli imputati di chiedere, all’atto della loro comparizione, la riapertura del processo. Gli individui che godono delle immunità nel loro Paese non sono perseguibili fino a quando rimangono in carica. Si prevede la conclusione di una convenzione con la Corte penale internazionale per definire la cooperazione tra le due giurisdizioni, riconoscendosi il primato della Cpi, nei casi in cui quest’ultima proceda contro individui sui quali opera anche il Tribunale speciale”. Arbia si sofferma sul pragmatismo del Consiglio d’Europa: “Credo che, al di là del risultato politico sulla creazione di un Tribunale speciale per perseguire e punire l’aggressione della Russia, l’entrata del Consiglio d’Europa in questioni cruciali sia di particolare importanza e dovrebbe essere valorizzata al massimo. Il Consiglio d’Europa rivela una strategia che manca nei programmi dell’Ue e pragmaticamente tratta la crisi in Ucraina innanzitutto come una crisi europea per la soluzione della quale non bisogna attendere l’intervento di organizzazioni e meccanismi internazionali agenti a livello mondiale come l’Onu”. Attenzione però a non svilire quanto già esistente. “Trattandosi di politica criminale internazionale e del crimine di aggressione in particolare - aggiunge l’ex Prosecutor del TPIR -, non si può facilmente creare un sistema di giustizia penale internazionale per uno Stato europeo senza cercare di rafforzare l’operatività, l’efficienza e l’efficacia delle istituzioni internazionali come l’Onu e il suo organo giurisdizionale, la Corte internazionale di giustizia, e la Corte penale internazionale. Quest’ultima è sottoposta a tentativi di grave discredito da parte di Paesi influenti, a partire dagli Stati Uniti”. Silvana Arbia riflette sul ruolo della Corte penale internazionale negli scenari che potrebbero delinearsi. “L’esercizio - conclude - della giurisdizione della Cpi sul crimine di aggressione può e deve essere semplificato e gli Stati parte dello Statuto di Roma devono attivarsi a tal fine. La repressione del crimine di aggressione, che trova il suo fondamento giuridico nella Carta delle Nazioni Unite, non può essere attuata selettivamente, perché ogni aggressione, in ogni parte del mondo, minaccia la pace e la sicurezza a livello globale. Diversamente si alimenta la critica rivolta all’Occidente di usare un doppio standard nell’affrontare il problema dell’impunità di crimini gravissimi di rilevanza internazionale. E questo è un rischio da non ignorare”. Gran Bretagna. Innocente in cella per 38 anni: è il più grave errore giudiziario di sempre di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 14 maggio 2025 È stato definito, non a torto, il più grande errore giudiziario della storia giudiziaria britannica quello che ha avuto come tragico protagonista Peter Sullivan. L’uomo infatti ha scontato ben trentotto anni in carcere perché condannato per l’omicidio di una donna avvenuto nel 1986, la barista 21enne Diane Sindall, vittima di una violenta aggressione sessuale a Birkenhead, nel Merseyside, mentre tornava a casa da un turno di lavoro. La Corte d’Appello, dopo che sono emerse nuove prove del DNA, ha ribaltato la sentenza. La Criminal Cases Review Commission (CCRC), l’organo statutario istituito per indagare su potenziali errori giudiziari, aveva rinviato il caso di Sullivan ai giudici. Ciò, perché l’anno scorso nuovi test avevano trovato un profilo genetico che indicava un aggressore sconosciuto rispetto ai campioni di sperma trovati all’epoca sulla scena del crimine. Sullivan, che ora ha sessantotto anni, è apparso in collegamento video da Wakefield, e non appena ha appreso la notizia che sarebbe stato rilasciato, riferiscono le cronache, è scoppiato in un pianto singhiozzante tenendosi la mano sulla bocca. Nonostante l’evidente emozione, Sullivan ha rilasciato una dichiarazione letta dal suo avvocato, nella quale ha detto di: “non essere arrabbiato. Quello che mi è accaduto è stato molto sbagliato, ma non toglie che quello che è successo è stata una perdita di vite umane atroce e terribile”. Le stesse autorità hanno riconosciuto che la condanna era stata minata da un errore. Lo dimostrano anche le parole di Duncan Atkinson KC, che rappresenta il Crown Prosecution Service, secondo il quale non ci sarebbe stata alcuna richiesta di chiedere un nuovo processo. Il giudice Holroyde, con il giudice Goss e Bryan presso la Royal Courts of Justice di Londra, hanno annullato la condanna affermando di non avere “alcun dubbio che sia necessario e opportuno nell’interesse della giustizia” ritenere ammissibile la nuova prova del DNA: “Alla luce di tali prove, è impossibile considerare la condanna del ricorrente come sicura. Non ci sono prove che suggeriscano che più di un uomo sia stato coinvolto nell’omicidio, e nessuna prova che suggerisca che lo sperma possa essersi depositato nel processo di attività sessuale consensuale”. Il ribaltamento della precedente sentenza dunque è stato possibile perché la Corte si è avvalsa della tecnologia sviluppata solo di recente la quale ha consentito che il campione di sperma, recuperato dall’addome della signorina Sindall, abbia potuto essere esaminato. Ma alla luce delle nuove prove rimane il mistero sull’identità del vero assassino. La polizia del Merseyside ha riaperto le indagini sull’omicidio, ma le ricerche nel database nazionale del DNA non hanno trovato alcuna corrispondenza. Il detective Karen Jaundrill ha affermato che più di 260 uomini sono stati esaminati ed eliminati dalla nuova inchiesta fin dal 2023: “Abbiamo arruolato competenze specialistiche dalla National Crime Agency, e con il loro supporto stiamo cercando di identificare la persona a cui appartiene il profilo genetico, e sono in corso indagini approfondite e scrupolose”. L’unica certezza è che non è coinvolto nessun membro della famiglia della ragazza, né il fidanzato dell’epoca.