“I detenuti di Alta Sicurezza partecipino ai lavori di redazione di Ristretti Orizzonti” consiglioveneto.it, 13 maggio 2025 Baldin (M5S): “Politica e istituzioni raccolgano l’appello dei docenti universitari: i detenuti di Alta Sicurezza del carcere di Padova partecipino ai lavori di redazione di “Ristretti Orizzonti”, modello di reinserimento sociale”. “Da quasi trent’anni, nel carcere padovano Due Palazzi, la redazione della rivista Ristretti Orizzonti racconta dall’interno la vita tra le sbarre, impegnando quotidianamente una cinquantina di detenuti e contribuendo al loro futuro reinserimento nella società. Tra essi, circa dieci provengono dal circuito Alta Sicurezza e sono operativi dal 2013. Tuttavia, il 27 febbraio scorso, il direttore generale del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria che si occupa proprio delle persone ristrette, ha emanato una circolare che limita gli orari durante i quali costoro possono svolgere attività assieme ai detenuti comuni, mantenendoli invece in cella: in loro sostegno trentacinque docenti universitari italiani hanno sottoscritto un appello al DAP, affinché la situazione venga rimessa in pristino e i carcerati di Alta Sicurezza possano continuare a collaborare con la redazione”. Così la capogruppo del Movimento 5 Stelle in Consiglio regionale del Veneto Erika Baldin che aggiunge: “Mi unisco all’appello e lo faccio mio, rivolgendolo anche alla politica e alle istituzioni. Non solo perché Ristretti Orizzonti è un’eccellenza nazionale riconosciuta quale modello nel trattamento dei detenuti verso il reinserimento nella società, ma anche perché, se non sono stati commessi ulteriori illeciti, la regressione dei diritti può perfino essere impugnata”. “Secondo il dettato costituzionale - ricorda la consigliera - la pena ha anche un significato rieducativo, e tra le persone reinserite nel lavoro è molto basso il rischio di recidiva. Dietro la decisione dei vertici del DAP, secondo i docenti che hanno firmato l’appello, sta direttamente il governo: la materia è infatti in capo al sottosegretario Delmastro di Fratelli d’Italia, mentre l’omologo leghista Ostellari ha la delega al trattamento dei detenuti”. “Ritengo assurda - prosegue l’esponente del Movimento 5 Stelle - l’ulteriore restrizione degli orari di apertura delle cosiddette “camere di pernottamento”, che ha il solo scopo di mortificare la risocializzazione di coloro che pur si sono macchiati di gravi delitti, e mette in ulteriori difficoltà una realtà lavorativa che necessita, anzi, di risorse per andare avanti. Duemila visite giornaliere al sito, 48 pagine stampate ogni due mesi, un notiziario quotidiano seguitissimo nel settore, incontri con l’esterno e preziosi dossier non possono tramontare perché lo impone una visione calata dall’alto, inutilmente repressiva, assurdamente refrattaria alla realtà”. “Proprio al Due Palazzi - conclude Baldin - c’è chi, entrato con l’ergastolo ostativo, ne è uscito con due lauree conseguite studiando in carcere: perché ora negare ideologicamente alcuna chance di ravvedimento anche ad altri?”. Detenuto-killer, il permesso per il lavoro esterno diventa un caso. Indaga il Ministero di Cesare Giuzzi e Pierpaolo Lio Corriere della Sera, 13 maggio 2025 Anche il sindaco Beppe Sala si è detto “sgomento” per questa vicenda: “È difficile spiegare alla gente perché fosse fuori”. Emanuele De Maria aveva avuto accesso al lavoro esterno dopo aver scontato cinque dei 14 anni e 3 mesi di pena per omicidio, come prevedono le norme. Era stata la direzione del carcere di Bollate - il penitenziario con il più basso tasso di recidiva d’Italia - a chiedere al Tribunale di sorveglianza di Milano l’autorizzazione all’impiego nell’hotel “Berna” di via Napo Torriani. Un lavoro alla reception dell’albergo quattro stelle “particolarmente indicato”, a parere del datore di lavoro, per la sua conoscenza di cinque lingue. L’inizio il 29 novembre 2023 con contratto a tempo determinato, poi trasformato il 25 novembre dell’anno successivo in indeterminato. Un percorso carcerario immacolato, documentato dalle relazioni degli educatori e dai giudizi del datore di lavoro. Una storia modello di “reinserimento sociale”. Poi però ci sono le ultime 48 ore di De Maria che iniziano venerdì pomeriggio con l’omicidio della collega con cui aveva una relazione, la 50enne Chamila Wijesuriya, l’agguato quasi mortale all’altro collega 50enne egiziano di sabato mattina, e l’epilogo con il lancio nel vuoto dalla terrazza del Duomo nel primo pomeriggio di domenica. Queste le parole del marito di Chamila. Un caso che ha scatenato una rovente polemica politica con il ministero della Giustizia che sta svolgendo accertamenti sulle procedure che hanno portato alla concessione del lavoro esterno. E non è escluso che il Guardasigilli Carlo Nordio possa inviare gli ispettori a Milano. Dall’altro lato c’è il timore che il caso venga “strumentalizzato” dal governo per una stretta sul lavoro esterno e le misure alternative, con le carceri travolte dal sovraffollamento: 62.422 detenuti a fronte di una capienza di 51.281 posti. Ieri anche il sindaco di Milano Beppe Sala si è detto “sgomento” per questa vicenda: “È difficile spiegare alla gente perché fosse fuori”. “Non spetta al Dap concedere il permesso di lavorare all’esterno e dunque sulla vicenda l’amministrazione penitenziaria non c’entra nulla - la replica del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. È la magistratura ad aver fatto una scelta e credo che bisogna dunque chiedere a quest’ultima”. A invocare l’invio degli ispettori è anche il presidente dei senatori di Forza Italia Maurizio Gasparri: “Le valutazioni della magistratura sono state evidentemente sbagliate ed è necessario individuare le colpe e sanzionare chi ha commesso un errore così grave”. Il legale di De Maria, l’avvocato Daniele Tropea, ha confermato “l’ottimo percorso all’interno del carcere”, tanto che era pronto a chiedere la semilibertà: “La sua posizione era stata valutata dall’area educativa di Bollate e dal magistrato di Sorveglianza. Non mi sarei mai aspettato nulla di quanto accaduto”. Sul fronte delle indagini, squadra Mobile e Nucleo investigativo dei carabinieri, coordinati dal pm Francesco De Tommasi, lavorano per ricostruire le ultime ore di De Maria. Il 35enne ha acquistato il biglietto per accedere alla terrazza del Duomo sabato alle 12.30, sei ore dopo l’aggressione al collega, ma con l’ingresso programmato per domenica. Forse non c’era posto per quel giorno, ma per gli inquirenti è il segnale che De Maria avesse “pianificato” la sua azione. Verifiche su un suo possibile ritorno la mattina di domenica al Parco Nord dove venerdì aveva nascosto il corpo di Chamila (la donna aveva alcune foglie in bocca), anche se al momento le telecamere sembrano escluderlo. Allarme per il caso De Maria, ma i benefici penitenziari funzionano e i numeri lo dimostrano di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 maggio 2025 Dopo la vicenda del detenuto evaso che si è lanciato dal Duomo di Milano, si riapre il dibattito sulle misure alternative. I dati ufficiali però raccontano una realtà diversa: ogni anno decine di migliaia di detenuti ne usufruiscono senza mai violare la legge. La cronaca di Milano si è tinta di tragedia nei giorni scorsi, quando Manuele De Maria, 34 anni, detenuto in permesso premio dal carcere di Bollate per lavorare come receptionist all’hotel Berna, è evaso, ha accoltellato un collega all’alba e, dopo circa trenta ore di fuga, si è tolto la vita gettandosi dalle terrazze del Duomo. Quel venerdì 10 maggio, purtroppo, non era la prima volta che De Maria commetteva un gesto inaudito: già in precedenza aveva ucciso un’altra collaboratrice dell’albergo. Il caso è al vaglio del ministero della Giustizia e il sottosegretario Andrea Delmastro ha chiarito: “Cercheremo, per quanto possibile, di fare approfondimenti su una scelta che non dipende certamente dall’Amministrazione penitenziaria. Cercheremo capire come sia potuto accadere che venisse giudicato, evidentemente, non pericoloso socialmente”. Dietro al clamore di un caso così drammatico, però, si nasconde un quadro che pochi conoscono: ogni anno decine di migliaia di detenuti ottengono permessi premio o vivono in regime di semilibertà senza mai rendersi protagonisti di episodi criminali. Nel 2024, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha concesso 35.282 permessi premio: più di novanta al giorno, in media, distribuiti in tutte le regioni d’Italia, dalla Valle d’Aosta (50) alla Lombardia (14.840), fino alla Sicilia (2.205). La semilibertà, altra misura fondamentale nel percorso di reinserimento, secondo gli ultimi dati disponibili riguardava, al 30 aprile 2025, ben 1.340 persone, pari al 2,7% dei soggetti seguiti dagli Uffici di Esecuzione Penale Esterna (Uepe), su un totale di quasi 50.000 persone in misure alternative. Di queste, 424 erano nuovi incarichi emessi nel corso dei primi quattro mesi dell’anno, segno che - al netto delle emergenze che catturano l’attenzione dei media - la risposta del sistema penitenziario resta rivolta al reinserimento, e non esclusivamente alla detenzione in cella. Il percorso è tutt’altro che scontato: ogni richiesta di permesso o di semilibertà passa al vaglio del magistrato di sorveglianza, che valuta il profilo di rischio, il comportamento in carcere e i legami del detenuto con la società. Il fine, sancito dalla legge 354/1975, è “rieducativo”: anziché un’abitudine all’isolamento, il detenuto prova a riconquistare gradualmente autonomia, responsabilità e reputazione nel mondo esterno. Purtroppo, nei grandi numeri, possono accadere errori di valutazione. Il rischio zero non esiste in alcun ambito. Ma non per questo bisogna rinunciare. Basti pensare, solo a titolo esemplificativo, agli errori mortali che accadono durante le operazioni chirurgiche in ospedale. Accadono. Ma non per questo si smette di operare e salvare vite umane. Semilibertà e permessi premio non sono una concessione di gentilezza, ma un vero e proprio banco di prova: la legge sull’ordinamento penitenziario li inserisce come alternativa alla detenzione piena, con un chiaro scopo rieducativo. Mentre il carcere tende a isolare chi lo sconta, privandolo dell’idea stessa di un progetto di vita, aprire qualche ora al giorno o qualche giorno al mese significa testare la capacità di autonomia e di rispetto delle regole fuori dalle mura. Gli studi confermano che chi affronta la pena in regime di semilibertà o con permessi premio ha minori probabilità di tornare a delinquere rispetto a chi rimane chiuso fra quattro mura. Mantenere un legame con la famiglia, provare a rimettersi in gioco sul lavoro, ricevere un sostegno mirato dai servizi sociali: tutto questo costruisce percorsi di fiducia che difficilmente nascono dietro le sbarre. Nel marzo 2025, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della norma che prevedeva una preclusione biennale alla concessione di permessi premio per i detenuti imputati o condannati per reati commessi durante l’esecuzione della pena. Questa decisione rafforza l’importanza di valutare caso per caso, evitando automatismi che potrebbero ostacolare il percorso rieducativo del detenuto. Chiedersi se “buttar via” questi benefici dopo un episodio come quello di De Maria sarebbe una reazione d’istinto, non di ragione. Perché dietro ai numeri - migliaia di permessi, oltre mille semilibertà attive - ci sono vite che, una volta rimessi in libertà controllata, non infrangono più la legge. Negare a tutti i detenuti queste opportunità significherebbe rinunciare a quei segnali di fiducia che, quasi sempre, funzionano. I fatti di cronaca nera colpiscono e scuotono, ma non possono cancellare l’esperienza positiva di chi, dopo aver scontato parte della pena, è riuscito a riannodare i fili del proprio futuro. È lì che andrebbe puntata l’attenzione: non sull’eccezione, ma sulla regola che, ogni giorno, dimostra quanto il sistema penitenziario italiano sappia investire non solo in sicurezza, ma anche in speranza. Caso choc, ma i numeri premiano le misure alternative di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 13 maggio 2025 Torna a delinquere il 69% di chi sconta la pena tutta e solo in carcere, ma, siccome non “si vede”, neppure fa interrogare sul perché lo si accetti visto che nessun consumatore accetterebbe una fabbrica che rivendesse i suoi prodotti difettosi 7 su 10, o un ospedale che su cento malati dimessi ne rispedisse 70 di nuovo al Pronto soccorso. Non “si vede” anche che torni a delinquere solo il 17% di chi al contrario sconta parte della pena in misura alternativa al carcere, e addirittura solo il 5% di chi lavora all’esterno. E non “si vede” che solo l’1,2% in 5 anni abbia commesso un reato durante i benefici e se li sia perciò visti revocare. Invece “si vede”, eccome, il detenuto che la sera non torna in carcere dal lavoro esterno diurno, e si getta dalle terrazze del Duomo dopo aver ucciso una collega e quasi ucciso un collega nell’hotel che l’aveva assunto: specie se nel 2018, per l’assassinio nel 2016 di una 23enne tunisina, a Santa Maria Capua a Vetere aveva avuto 14 anni e 3 mesi grazie soprattutto alla riduzione del rito abbreviato, rito che oggi (per legge dal 2019) non gli sarebbe stato più possibile su un’accusa in teoria da ergastolo. Certo quell’1,2% è tutta la vita di persone che se la sono vista togliere; è carne delle famiglie stravolte; e ora è tarlo per chi a Bollate e in Tribunale aveva selezionato il detenuto per il lavoro esterno “art. 21”, beneficio concesso dal direttore del carcere Giorgio Leggieri su relazioni positive dell’equipe dell’istituto e programma approvato dal magistrato di sorveglianza Giulia Turri, nel 2013 presidente del collegio che in primo grado nel processo Ruby condannò a 7 anni il poi assolto premier Silvio Berlusconi. Ma l’empatia non deve eclissare i numeri. Su 153.723 affidamenti in prova/detenzioni domiciliari/semilibertà tra il 2018 e il 2022, le revoche sono state 14.586 in 5 anni, pari al 9,4%. Ma le due ragioni più frequenti, “andamento negativo” e “cambio di status giuridico”, significano che il sistema a fine misura ha ritenuto non superata la prova, o che sono nel frattempo maturate precedenti pendenze giudiziarie non più compatibili con i benefici. Invece le revoche per “commissione di altri reati” in 5 anni sono state un settimo di tutte le revoche: appunto solo l’1,2% del totale dei benefici. Carceri, 97.000 detenuti usufruiscono di misure alternative e solo l’1% torna a commettere reati di Alessandra Ziniti La Repubblica, 13 maggio 2025 Dopo il femminicidio di Milano commesso da Emanuele De Maria, l’associazione Antigone invita a non demonizzare uno strumento efficace e che incide sull’affollamento dei penitenziari. Novanta settemila detenuti che usufruiscono di misure alternative al carcere e misure di comunità e meno dell’1 per cento di recidiva. Nel giorno in cui il femminicidio di Milano di Chamila Wijesuriya uccisa da Emanuele De Maria, già condannato per un precedente omicidio di una donna e per un tentato omicidio e da due anni ammesso ad un permesso di lavoro, rilancia le polemiche sulla certezza della pena, dall’Associazione Antigone arrivano numeri assai significativi sull’efficacia e sulla sicurezza delle misure alternative alla detenzione in carcere e l’invito a non demonizzare l’unico strumento che oltre a rieducare incide sull’affollamento delle carceri. “Le misure alternative al carcere sono sicure e producono sicurezza. Sono meno dell’1% quelle che vengono revocate per la commissione di nuovi reati, mentre la recidiva è del 70% per chi sconta l’intera pena in carcere - dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - Mettere in discussione questi strumenti per un singolo caso di cronaca è sbagliato e anche pericoloso proprio per la sicurezza, specie se si considera che sono circa 100.000 le persone che oggi hanno stanno eseguendo una qualche misura di comunità”. I numeri nel dettaglio - Al 15 Marzo 2025 risultavano 97.009 le persone che stavano eseguendo una qualche misura di comunità nel nostro paese, un numero in crescita da molti anni . Del totale, l’89,1% erano uomini e il restante 10,9% donne. Le misure alternative alla detenzione possono essere revocate per una serie di motivi (la persona perde il lavoro, o resta senza casa, ma anche per comportamenti non corretti o per la commissione di nuovi reati). La media delle revoche è stata nel 2024 del 12,6% del totale delle misure, assai più bassa, dell’8,2%, se si guarda al solo lavoro all’esterno. Dai dati più recenti disponibili risulta che la percentuale di revoche dovuta alla commissione di nuovi reati si attesta sotto l’1%, e solo una parte minoritaria di questi riguarda reati contro la persona. Carcere, con il lavoro la recidiva scende di oltre 10 volte di Ilaria Dioguardi vita.it, 13 maggio 2025 Un detenuto del carcere di Bollate, in permesso di lavoro, ha ucciso una donna e ferito gravemente un collega. Poi si è suicidato lanciandosi dal Duomo di Milano. Luciano Pantarotto (Confcooperative - Federsolidarietà): “C’è il rischio che si enfatizzi il singolo caso: il lavoro abbatte la percentuale di chi torna a commettere reati”. Patrizio Gonnella (Antigone): “Mettere in discussione le misure alternative al carcere per un singolo caso di cronaca è sbagliato e anche pericoloso”. Era in carcere per aver ucciso una ragazza nel 2016. Emanuele De Maria, 35 anni, detenuto nel carcere di Bollate ha prima ammazzato a coltellate un’amica, poi ha ferito un collega di lavoro nell’hotel Berna, vicino alla stazione Centrale. Infine, si è ucciso gettandosi dal Duomo di Milano. L’uomo era assunto a tempo indeterminato nell’albergo, venerdì scorso non era rientrato in carcere. “Un fatto come questo comporta il rischio che si possa generalizzare e che, in nome della sicurezza, passi in secondo piano il diritto dei detenuti al lavoro”, dice Luciano Pantarotto, coordinatore del tavolo “Giustizia” di Confcooperative-Federsolidarietà. Recidiva tra il 3% e il 7% per i detenuti che lavorano - Secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sono 21.235 i detenuti lavoranti, il 32,92% del totale dei presenti. Di coloro che hanno un impiego, solo il 15,53% (3.172) lavora con imprese e cooperative, mentre l’84,47% di chi lavora è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (dati al 31 dicembre 2024). “Per tutte quelle persone che hanno avuto, in fase di detenzione, dei percorsi di trattamento, dai dati che sono in possesso dell’amministrazione penitenziaria, si stima una recidiva dal 3% al 7%”, prosegue Pantarotto. Un abbattimento notevole, rispetto ai detenuti che non hanno seguito dei percorsi trattamentali (intesi anche come permessi premio, articolo 21, attività culturali all’interno del percorso detentivo), nelle quali si attesta intorno al 70%. I detenuti che lavorano fuori devono avere un accompagnamento - Sul fatto che è successo a Milano, c’è un’indagine in corso “ma è di tutta evidenza che ci sono dei fallimenti. Ho letto che questa persona era stata inserita nell’ambiente di lavoro, ma senza prevedere un accompagnamento. Se così fosse, mi chiedo, se aveva un disagio psicologico chi poteva accorgersene? Con chi poteva parlare? Un detenuto che lavora all’esterno deve essere monitorato”, continua Pantarotto. “Gli Uffici di esecuzione penale esterna - Uepe hanno difficoltà nel seguire il personale fuori dalle carceri, De Maria era un semilibero e doveva essere osservato. Tutti quei soggetti che non vengono accompagnati potrebbero ricadere nella reiterazione del reato. Questa persona aveva trovato lavoro, ma se non veniva seguita questa mancanza potrebbe aver influito”. Il lavoro: un pezzo importante della rieducazione - “Quando penso a chi entra in un istituto di pena, mi viene sempre in mente l’immagine di un malato che fa il suo ingresso dentro l’ospedale, che è il carcere. In molti casi si riesce a fare il trattamento e funziona, in qualcuno no”, dice Pantarotto. “A volte si fa il trattamento ma c’è una recidiva della “malattia” e, purtroppo, non si ha un esito positivo. Può darsi che De Maria avesse problemi relazionali che, probabilmente, durante la detenzione non sono mai stati risolti. Quando si commette un reato che può essere associato alle condizioni di vita, al contesto culturale, alle proprie patologie e dipendenze, bisogna “curare” durante la detenzione ciò che ha portato a commettere il reato. E se non viene “curata” in carcere, la persona esce peggio di prima o con i conflitti irrisolti. Il lavoro è di certo un pezzo importante della rieducazione”. Il rischio della generalizzazione - Un fatto come quello che è successo a Milano “comporta grandi rischi. In primis, la generalizzazione. Il pericolo è che, in nome della sicurezza, passi in secondo piano il diritto dei detenuti al lavoro. Per una persona in carcere che ha un impiego all’esterno e si rende autore di reati gravissimi, durante il permesso di lavoro, ce ne sono migliaia che fanno un percorso lavorativo all’esterno, nella correttezza e con successo”. Pantarotto prosegue dicendo che, nei media “è stato molto enfatizzato il fatto che l’uomo fosse un evaso. Qualche fallimento non può assolutamente implicare che non si facciano percorsi lavorativi per i detenuti all’esterno, o che si possa pensare ad un provvedimento, ad una stretta nei percorsi lavorativi”. La non misurazione della recidiva - Il lavoro abbatte moltissimo la recidiva “di cui purtroppo in Italia, a differenza di molti altri Paesi europei, non viene fatta un’analisi, una misurazione. Non ci sono dati statistici, ma stime e qualche pubblicazione. Ad esempio, uno studio fatto su qualche centinaio di detenuti in tre istituti condotto da Fondazione Zancan, Compagnia di San Paolo, Fondazione Con Il Sud e Fondazione Cariparo”, conclude Pantarotto. La revoca delle misure alternative al carcere per nuovi reati sono meno dell’1% - “Le misure alternative al carcere sono sicure e producono sicurezza. Sono meno dell’1% quelle che vengono revocate per la commissione di nuovi reati, mentre la recidiva è del 70% per chi sconta l’intera pena in carcere”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Mettere in discussione questi strumenti per un singolo caso di cronaca è sbagliato e anche pericoloso proprio per la sicurezza, specie se si considera che sono circa 100mila le persone che oggi stanno eseguendo una qualche misura di comunità”. Misure di comunità per 97mila persone - Al 15 marzo scorso “risultavano 97.009 le persone che stavano eseguendo una qualche misura di comunità in Italia, un numero in crescita da molti anni e senza il quale le carceri italiane sarebbero esplose da tempo”, si legge nella nota di Antigone. Del totale, l’89,1% erano uomini e il restante 10,9% donne. Nel corso del loro svolgimento queste misure possono essere revocate per una serie di motivi (la persona perde il lavoro, o resta senza casa, ma anche per comportamenti non corretti o per la commissione di nuovi reati). “La media delle revoche è stata nel 2024 del 12,6% del totale delle misure, assai più bassa, dell’8,2%, se si guarda al solo lavoro all’esterno (articolo 21 dell’ordinamento penitenziario). Dai dati più recenti disponibili risulta che la percentuale di revoche dovuta alla commissione di nuovi reati si attesta sotto l’1%”, conclude Antigone, “solo una parte minoritaria di questi riguarda reati contro la persona”. Da Bollate ogni giorno escono 200 detenuti per lavorare: “De Maria aveva tutti i requisiti” di Ilaria Carra e Carmine R. Guarino La Repubblica, 13 maggio 2025 Emanuele De Maria da un anno e mezzo poteva entrare e uscire da Bollate per lavorare. “Lui aveva i requisiti per poterlo fare visto l’ottimo percorso che aveva fatto all’interno del carcere. E posso assicurare che non era emersa alcuna spia che avrebbe potuto compiere quello che ha fatto”. È ancora “sconvolto” dall’accaduto il suo avvocato, Daniele Tropea, che lo seguiva da tre anni, dalla condanna definitiva nel 2021 per il femminicidio commesso nel 2016, quando aveva ucciso a coltellate una 23enne tunisina a Castel Volturno. Poi l’ha rifatto, venerdì scorso, ammazzando Chamila Wijesuriya, la collega barista con cui aveva una relazione. Sempre accoltellata, sempre alla gola. Poi il lancio nel vuoto, domenica a pranzo, dalle terrazze del Duomo. Il carcere di Bollate è una struttura ritenuta molto attenta al tema della rieducazione dei detenuti. Più della metà ha un impiego, in un’ottica di reinserimento sociale e affrancamento economico in vista della scarcerazione. Su 1.380 carcerati, poco più di 700 sono difatti occupati in attività lavorative. Di questi circa 200 godono del regime previsto dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario: sono i cosiddetti “ventunisti”, come De Maria, che vanno e vengono dal carcere per lavorare all’esterno. Il carcere lo propone, il magistrato di sorveglianza approva. E si monitora nel tempo con le relazioni inviate dal posto di lavoro e l’osservazione di educatori e psicologi. C’è poi una quarantina di detenuti in semilibertà, che quindi possono uscire non solo per lavorare e circa 180 sono alle dipendenze di datori di lavoro esterni ma lavorano all’interno dell’istituto (è previsto dall’articolo 20). L’avvocato bresciano, che De Maria scelse su suggerimento di un compagno di cella, ricorda che “aveva ottenuto il parere positivo degli educatori e degli psicologi che lo seguivano per il permesso di lavorare all’esterno, oltre all’approvazione del magistrato di sorveglianza. Non aveva mai sgarrato e a breve avrebbe potuto chiedere di accedere allo step successivo, la semilibertà. E dall’hotel i feedback erano più che positivi. Ripeto, è sempre stato rigoroso”. Il suo fascicolo è ora al vaglio del ministero della Giustizia che ha chiesto gli atti al carcere sul suo percorso per studiarlo e valutare un’eventuale ispezione. Di pari passo prosegue l’indagine per ricostruire cos’abbia fatto De Maria in quelle 48 ore durante le quali - uscito dal carcere ma mai arrivato al lavoro - ha prima ammazzato Chamila e ha poi quasi ucciso il collega Hani Nasr, ritenuto un ostacolo alla sua relazione con la vittima. Il primo passaggio del killer sotto una telecamera di videosorveglianza è delle 14,40 di venerdì: sta entrando nel metrò lilla, a Ponale, mano nella mano con la 50enne che ucciderà un’ora dopo con due fendenti alla gola. I due restano una decina di minuti sulla banchina, ma non salgono a bordo e risalgono. Alle 15,13 la coppia entra nel Parco nord da via Gorki, a Cinisello Balsamo, a pochi metri dalla casa in cui la donna viveva con marito e figlio. È lì che morirà, con l’assassino che la lascerà con le mani giunte sul petto e alcune foglie in bocca, lì tra gli alberi. De Maria porta via borsa e telefono della barista e riappare alle 17,36 sulle scale, a Bignami. È al cellulare di lei, sta chiedendo perdono a sua madre: “Ho fatto una cazzata”. Poi lo getta in un cestino. La sera e la notte successiva il 35enne sparisce. Ricompare alle 5,20 di sabato in piazzale Bacone. Venti minuti dopo è in via Napo Torriani, appostato. Qui alle 6,19 si scaglia contro Hani Nasr. La telecamera riprende la fuga dell’aggressore, con in mano un sacchetto di plastica bianco, verso piazza San Camillo de Lellis e via Tenca dove le telecamere lo perdono. Sei ore dopo, alle 12,30, De Maria è in Duomo: acquista il biglietto per salire sulle terrazze, da dove il giorno dopo alle 13,42 si ucciderà. E forse alle 6 di domenica mattina, prima di quel volo nel vuoto, passa di nuovo al Parco nord: somiglia al receptionist l’ombra che transita nella stessa zona dove nel pomeriggio verrà trovato il cadavere di Chamila. L’ex direttore di San Vittore: “Farli lavorare fuori è necessario” di Andrea Gianni Il Giorno, 13 maggio 2025 Luigi Pagano ha guidato anche il Dap: i permessi sono un istituto importante per il reinserimento “È una scommessa, ma neanche tra gli incensurati abbiamo la certezza che nessuno delinquerà”. I permessi per il lavoro esterno, così come tutte le altre iniziative finalizzate a un reinserimento del detenuto nella società, non sono misure “buoniste” ma necessarie e fondamentali per abbattere il tasso di recidiva e “prevenire” quindi altri reati: “Quello che è accaduto a Milano dovrebbe indurre piuttosto a potenziare l’accompagnamento sul territorio”. Luigi Pagano, ora in pensione, conosce il mondo delle carceri per averci trascorso una vita professionale. Per 15 anni è stato direttore del carcere milanese di San Vittore, uno dei penitenziari con il peggior tasso di sovraffollamento. È stato provveditore per la Lombardia, vice capo del Dap nazionale, ha varato sperimentazioni e progetti innovativi. Il ministro Nordio ha avviato verifiche, il permesso concesso a De Maria ha sollevato polemiche e interrogazioni parlamentari. Qual è la sua riflessione? “Non ho una conoscenza diretta su questo caso, ma posso dire che i permessi per il lavoro esterno sono una delle misure che l’ordinamento prevede e che le case di reclusione utilizzano. Il reinserimento sociale dei detenuti è un obiettivo fissato dalla Costituzione, e questo passa anche attraverso il lavoro esterno”. È un istituto diffuso? “Il ricorso al lavoro esterno è ancora limitato, mentre invece sono molto più diffuse le misure alternative al carcere. In Italia ci sono circa 100mila persone che scontano la pena con l’affidamento in prova, ai domiciliari o in semilibertà, altre 100mila hanno chiesto di ottenere misure alternative e nel frattempo si trovano in libertà. I detenuti nelle carceri, invece, sono 61mila. Gravissimi episodi come quello di Milano sono casi isolati, e per capire l’importanza di questi percorsi basta guardare i dati”. Che cosa ci raccontano? “Tra i detenuti che escono dal carcere direttamente, senza un percorso, il tasso di recidiva è di circa il 70-80%. Il carcere desocializza, questi percorsi andrebbero potenziati seguendo anche gli obiettivi della riforma Cartabia. Il problema è che resta nelle carceri chi non ha risorse - tossicodipendenti, irregolari, persone con problemi psichici - allargando sempre di più la forbice”. Esistono, a suo avviso, carenze nei controlli? “I controlli ci sono, ma quello che andrebbe potenziato è l’accompagnamento, perché i detenuti vanno seguiti sul territorio. Servirebbero, per questo, più risorse”. L’episodio avvenuto a Milano si poteva, secondo lei, prevedere e prevenire? “Temo di no, nessuno può avere la certezza che una persona non commetta dei reati, e questo vale anche nel mondo “normale”. I progetti per il reinserimento nella società sono una scommessa sull’uomo, che a volte si perde. Non mi sembra che i Paesi dove è in vigore la pena di morte abbiano sconfitto il crimine”. Le sono capitati, nella sua esperienza, casi analoghi? “Un caso così grave non l’ho mai vissuto ma ci sono state evasioni, detenuti in permesso che hanno commesso rapine o altri reati”. Si torna a parlare di una responsabilità dei magistrati. Che cosa ne pensa? “Un magistrato che approva un percorso, sulla base di relazioni positive, che responsabilità può avere? Scaricare sul magistrato, o sul direttore del carcere, la responsabilità quando un detenuto delinque avrebbe un solo effetto: non verrebbero più concesse misure alternative o permessi. Anche chi sconta l’ergastolo prima o poi esce, e va reinserito”. La criminologa: “Ci sono stati errori nel dargli il permesso di lavoro” di Francesca Del Vecchio La Stampa, 13 maggio 2025 Isabella Merzagora: “I segnali per capire se in carcere si mente ci sono, la certezza no”. Concessione di misure alternative e ho capito che si può sbagliare: un leone in gabbia e un leone nella savana sono due cose molto diverse”. Per la professoressa Isabella Merzagora, già docente di Criminologia alla Statale di Milano, “non si può avere la certezza al 100%” che il detenuto a cui viene concessa la misura alternativa, come la semi-libertà per lavoro, non commetta un nuovo reato. Ma attenzione a semplificare: “Esistono procedure, tempi. Sono permessi che vengono concessi dopo lunghe valutazioni”. Professoressa, quando si concede una misura alternativa? “Innanzitutto dipende dai tempi della condanna. La semi-libertà, per esempio, si può avere dopo aver scontato una parte della pena. E la pena dipende anche dalle circostanze del reato. Poi, esiste un’équipe di osservazione e trattamento che fa una relazione basata sul percorso rieducativo e su quello di revisione di quanto il soggetto ha fatto”. Cioè, se si è “pentito”? “Esatto. E qualora la valutazione sia positiva, allora si possono dare le misure alternative alla detenzione”. Si può sbagliare una valutazione? “Purtroppo sì, ed è evidente che nel caso di Emanuele De Maria sia stato commesso qualche errore, purtroppo sulla pelle delle vittime. Ma è sbagliato demonizzare la commissione di valutazione. Ho fatto l’esperto in carcere quando ero giovane e ho imparato che il leone in gabbia e il leone nella savana non sono la stessa cosa”. Cosa intende? “È difficile valutare una persona che è in vincoli, che non può fare più di tanto. Nonostante i lunghi colloqui e il percorso di rieducazione, i detenuti cercano di presentarsi al meglio per poter avere dei benefici. Gli operatori giudicano con tutti gli strumenti che hanno ha disposizione”. Come si fa a riconoscere un pentimento non sincero? “Ci sono dei segnali che fanno capire se un detenuto sta mentendo. E se lo fa è per poter uscire, quindi deve farlo “bene”, deve essere attento. Questo gli operatori lo sanno. Ma la certezza non c’è mai”. L’episodio di Milano mette in discussione la bontà delle misure alternative alla detenzione? “Quanti casi abbiamo visto in cui le misure alternative, invece, sono andate bene? Quelle non fanno notizia. Ma sono sicuramente di più di quelle che vanno male. Come sempre, non bisogna generalizzare”. Il penalista: “Misure alternative solo dopo iter riabilitativi e perizie psichiatriche” di Valeria Di Corrado Il Messaggero, 13 maggio 2025 “Andrebbe rafforzato, prima di concedere misure alternative alla detenzione, il controllo psichiatrico con visite periodiche su chi è stato condannato per reati gravi ed efferati come il femminicidio. E poi servirebbe un percorso riabilitativo presso centri anti violenza, dove si verifichi la effettiva resipiscenza”. Ne è convinto l’avvocato penalista del Foro di Roma Francesco Caroleo Grimaldi, alla luce della scia di sangue innescata a Milano da Emanuele De Maria. Qual è l’iter per ottenere benefici come i permessi di lavoro? “Normalmente servono relazioni di assistenti sociali, psicologi, educatori, direzione del carcere. Ci sono tutta una serie di filtri che dovrebbero essere attendibili. Ma evidentemente in alcuni casi non sono sufficiente. E manca una valutazione di ordine psichiatrico e per certi tipi di reati è necessaria. Credo che debba essere rafforzato anche il sistema di controllo degli ambienti frequentati dal detenuto che ha la possibilità di lavorare all’esterno”. Serve una selezione sul tipo di lavoro? “Specie all’inizio, sarebbe meglio scegliere un lavoro che non sia a contatto con terze persone, perché si possono ricreare le stesse condizioni che hanno portato al precedente reato. Il rischio è la reiterazione. Le leggi ci sono ma a volte è il sistema - con le sue pastoie burocratiche - che non è adeguato alle leggi”. Come tempistica è normale che De Maria, a 9 anni dall’uccisione di un’altra donna, abbia beneficiato di una misura alternativa? “Teoricamente si può fare, se la condanna - come nel suo caso - era a 14 anni di reclusione. La sensazione è che questa pena sia bassa per un femminicidio. Inoltre per questi tipi di reati occorrerebbe spostare in avanti i termini per concedere misure alternative e premiali previste dall’ordinamento penitenziario”. L’associazione Antigone ha sottolineato che sono meno dell’1% i casi in cui vengono revocate per la commissione di nuovi reati... “Sì, ma anche quell’1% si può evitare”. Il diktat di via Arenula: tornate tutti nelle gabbie! di Frank Cimini L’Unità, 13 maggio 2025 “No alla libertà di movimento”, il Ministero bacchetta i direttori sulle celle aperte nel circuito alta sicurezza. Insomma, lo vogliono più simile al 41bis. Ci sono troppe celle aperte nel circuito di alta sicurezza e troppi detenuti che circolano liberamente nei corridoi. La necessità di mettere fine a tale situazione è il contenuto di una circolare del ministero della Giustizia firmata dal direttore generale Ernesto Napolillo che rimprovera e neanche bonariamente i direttori degli istituti di pena. Si tratta di un provvedimento che fa pendant con il decreto sicurezza. La logica è la stessa: quella di una ulteriore stretta repressiva dopo che il decreto si era già occupato di reprimere non solo le proteste in prigione ma anche la resistenza passiva. “Non possono essere consentite libertà di movimento e aggregazione tipiche del modello custodiale aperto - si legge nella circolare - poiché l’osservazione è la vigilanza devono essere sempre improntate alla massima attenzione. L’apertura delle celle detentive nei circuiti di alta sicurezza assumerà sempre la connotazione di mezzo e non di fine con la logica conseguenza che tutti gli operatori penitenziari dovranno porre ogni sforzo esigibile per evitare che le celle rimangano aperte. Non è prevista la libertà di movimento e di stazionamento dei ristrettì all’interno della sezione”. La mancata adozione di un modello “chiuso” secondo il ministero da un lato incoraggerebbe contatti e aggregazione tra la popolazione carceraria aumentando il rischio dell’espandersi della supremazia criminale dei detenuti con maggiore caratura criminale dall’altro limiterebbe l’azione di vigilanza del personale preposto al controllo vanificando la possibilità di comprendere e analizzare la portata dei fenomeni criminali all’interno delle carceri. Il rischio sarebbe quello di favorire solo episodi devianti dall’attuazione e del principio della rigorosa e netta separazione logistica dei detenuti. La circolare parla anche del pericolo di proselitismo e consolidamento di accordi illeciti. Infine il ministero ricorda che già in passato le direzioni degli istituti erano state invitate ad adeguarsi con solerzia evitando adottare modelli organizzativi di apertura inconciliabili con il principio dell’alta sicurezza. Il ministero denuncia che in passato ci sono stati solo adempimenti formali “e tale situazione appare francamente singolare”. Insomma l’obiettivo che traspare dalla circolare è quello di avvicinare il circuito dell’alta sicurezza a quello del 41bis. La galera dunque sia sempre più galera. I detenuti devono stare chiusi il più possibile. E non vengo risparmiati neppure i provveditori regionali che devono verificare l’attuazione delle modalità di custodia. “Icam di Lauro, vuoto ma non chiuso”. A Torino recluso un bimbo di 21 mesi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 maggio 2025 Il ministro Carlo Nordio ha chiarito che non esiste alcun “decreto di chiusura o di diversa destinazione” per l’Istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam) di Lauro, dopo il recente trasferimento delle ultime ospiti. La precisazione arriva in risposta all’interrogazione della senatrice Cinque Stelle Ada Lopreiato, preoccupata per il futuro dell’unico Icam del Mezzogiorno. Secondo Nordio, il dipartimento competente conferma che l’Icam di Lauro è stato istituito con decreto ministeriale del 3 ottobre 2016 come sezione distaccata della casa circondariale di Avellino, con 20 camere per un totale di 50 posti regolamentari. Al 9 marzo 2025, nell’istituto non risultano più detenute, ma nessun atto ministeriale ne ha disposto la chiusura o la trasformazione in altra struttura. Le ultime tre madri, insieme ai loro figli, avevano richiesto al magistrato di sorveglianza di Avellino la detenzione domiciliare ex art. 47-quinquies o.p. In attesa di una decisione, la Direzione generale dei detenuti e del trattamento ha provveduto, il 6 febbraio 2025, al trasferimento extra-distretto verso gli Icamdi Venezia Giudecca e di Milano San Vittore, con esecuzione avvenuta il 24 febbraio. Agli spostamenti non è seguita alcuna interruzione dei contatti familiari: per le due detenute straniere, le visite si svolgono via Skype. Nordio ricorda che strutture dedicate a madri con figli fino a 3 anni esistono anche a Foggia, Lecce, Castrovillari, Reggio Calabria “Panzera”, Messina, Agrigento, Cagliari e Sassari. Altre tre Icam sono attivi nelle carceri di Milano San Vittore, Venezia Giudecca e Torino “Lorusso e Cutugno”. Proprio a Torino, durante una visita effettuata domenica 11 maggio, in occasione della Festa della Mamma, alla quale ha preso parte la vicepresidente del Senato Anna Rossomando, c’è un bambino di 21 mesi vive attualmente recluso con la madre detenuta nell’area Icam. Si tratta dell’unico caso attualmente presente nella struttura. La madre ha 31 anni. Il piccolo è nato mentre la donna si trovava già in regime di detenzione. Durante la visita è stato riportato anche il caso di un’altra detenuta, 35 anni, reclusa per truffa. Ha quattro figli: tre sono già stati affidati a famiglie esterne, il quarto è nato nove mesi fa durante un periodo di arresti domiciliari. Dopo il parto la donna è tornata in carcere e non vede il neonato da due mesi. La senatrice Rossomando ha sottolineato come “le norme del Dl Sicurezza sono peggiorative, in particolare per le detenute madri”. Con la legge 62/ 2011 è nato l’articolo 285- bis del codice di procedura penale, che permette al giudice di disporre la custodia attenuata per donne incinte o madri di figli fino a 6 anni, ove “esigenze cautelari di eccezionale rilevanza” lo giustifichino. Una norma pensata per tutelare il rapporto madri- figli, ma finora applicata in numero limitato di casi. Il nodo resta la capillarità sul territorio. L’Icam di Lauro rappresentava un presidio prezioso al Sud, lontano dagli spazi più angusti delle carceri convenzionali. Il vuoto di presenze non equivale però a un passo formale verso la chiusura: si attende il pronunciamento sul ricorso alla detenzione domiciliare, che potrebbe lasciare di nuovo le celle vacanti. “Rinchiuso con la mamma a 21 mesi: le sbarre sono la sua normalità” di Angela Stella L’Unità, 13 maggio 2025 “È il solo bambino presente nella struttura, la mattina va all’asilo ma poi torna in un posto che non dovrebbe appartenere a nessun fanciullo”. Domenica, in occasione della festa della mamma la vicepresidente del Senato in quota Partito democratico, Anna Rossomando, ha visitato sia la sezione femminile che l’Icam dell’istituto di pena Lorusso e Cutugno di Torino. L’iniziativa rientra nella campagna “Madri Fuori”, contro il decreto sicurezza del governo Meloni. Che bilancio può fare della visita? È chiaro che la situazione delle detenute madri, a prescindere dall’età della prole, è molto complessa. C’era una donna, reclusa nel carcere per truffa che a soli 35anni ha perso la genitorialità di tre figli, affidati ad altre famiglie. Nove mesi fa ne ha partorito un quarto agli arresti domiciliari, dopo poco è tornata in carcere. Poi nell’Icam c’era un bambino di 21 mesi. Sua madre ha 31 anni. Questa circostanza non può che commuovere. Si tratta del solo bambino presente in struttura, la mattina esce per andare all’asilo ma poi torna e si ritrova a vivere un’infanzia che non dovrebbe appartenere a nessun fanciullo. Comunque ci sono sbarre di ferro intorno a tutta la struttura carceraria, il piccolo per uscire deve superare diversi controlli, può muoversi solo all’interno di un piccolo giardino. Gli mancano gli spazi, la vista, la compagnia di bambini che alla sua stessa età vivono la normalità, mentre lui non sa cosa sia. Quindi è chiaramente una situazione che non dovrebbe esistere. I bambini non devono stare in carcere, mai. Per il Governo e la maggioranza però sì, queste situazioni non fanno scandalo... Adesso, a causa del dl sicurezza, si introducono norme peggiorative. E non dimentichiamo che sono solo tre gli Icam in tutto il territorio: quindi questo vuol dire che eventualmente una donna viene rinchiusa in una struttura lontana dalla famiglia. Si svilisce così il principio di territorialità della pena. Noi eravamo riusciti a far approvare nel maggio 2022 la legge Siani, che prevedeva tra l’altro, la sospensione della pena alle donne incinta e alle madri di bambini fino a tre anni in caso di custodia cautelare. Poi tutto è saltato con la nuova maggioranza. Adesso però si discute di indulto o meglio di indultino: Nessuno Tocchi Caino sta lavorando ad una proposta di legge a cui al momento hanno aderito esponenti del suo partito, di Iv, Azione, e anche di Forza Italia. Secondo lei si arriverà ad una approvazione? È chiaro che nella situazione drammatica attuale delle nostre carceri, sovraffollate e teatro di drammatici suicidi, questa soluzione emergenziale darebbe un po’ di respiro. Ma bisognerebbe mettersi nell’ottica di risolvere i problemi in maniera strutturale. Noi, come Pd, abbiamo proposto diverse strade da percorrere soprattutto per valorizzare una esecuzione alternativa al carcere e contemporaneamente risocializzante. Tuttavia, questa maggioranza le ha tutte bocciate. Ha fiducia che Forza Italia questa volta mantenga il punto e non si tiri indietro come in passato? Forza Italia lancia dei segnali ma puntualmente poi si tira indietro. Se davvero si considera un partito più ispirato a una tradizione liberale che a quella forcaiola dei suoi alleati allora lo dimostri. Io sinceramente mi aspetterei anche dal Ministro Nordio una presa di posizione che vada in una direzione opposta a quella di una visione carcerocentrica della pena. Prima di sedere a via Arenula, ma anche nei primi mesi di nomina, aveva professato una cultura liberale della pena, per poi rimangiarsi tutto con il dl carceri, il dl sicurezza, la bocciatura delle nostre proposte e il solo puntare sull’edilizia carceraria, che è sì importante, ma non la soluzione per risolvere l’emergenza e affrontare il tema dell’esecuzione della pena. Tra le prime dichiarazioni di Nordio quale Guardasigilli c’erano quelle a favore di una serie depenalizzazioni, ora appone la firma su un decreto - quello sicurezza - che introduce quattordici nuovi reati e nove nuove aggravanti. Perché secondo lei il ministro si è snaturato? Dovrebbe chiederlo a lui. Credo che comunque a via Arenula prevalga l’impostazione del suo sottosegretario Delmastro che si onora quasi di dirsi “giustizialista” sull’esecuzione della pena e non ha problemi, anzi, se i detenuti non respirano nei blindi della polizia penitenziaria. Il caso di Emanuele de Maria, il detenuto in permesso di lavoro che però prima ha ucciso una donna e poi si è tolto la vita, potrebbe spingere la maggioranza a fare un provvedimento ad hoc per limitare le misure alternative? In attesa di tutti gli accertamenti del caso, a prescindere un legislatore serio non fa norme basandosi sul singolo caso di cronaca. Quello che invece bisogna avere il coraggio di dire è che le misure alternative abbattono drasticamente la recidiva. Sono proprio queste a garantire la sicurezza dei cittadini e non detenuti restituiti, dopo l’espiazione della pena, alla società senza aver avuto la possibilità di reinserirsi già da prima nella nostra comunità. Rita Bernardini: “30 suicidi e 71 morti di carcere, ecco perché sto facendo lo sciopero della fame” di Vincenzo Di Nanna certastampa.it, 13 maggio 2025 Mentre il governo Meloni favoleggia la costruzione di nuovi istituti penitenziari, prosegue la strage infinita nelle nostre carceri dove, solo quest’anno, si sono verificati ben 30 suicidi e 71 morti per altre cause. Una strage che si consuma ormai da decenni, in piena violazione della legalità costituzionale, con la costante e reiterata violazione di diritti umani fondamentali. Per una rappresentazione qualificata del desolante quadro, ho intervistato Rita Bernardini, nota per l’instancabile e coerente impegno nel denunciare la situazione di conclamata illegalità in cui versa il sistema penitenziario italiano. L’On. Bernardini è giunta al diciannovesimo giorno di sciopero della fame, nel più assordante silenzio dell’informazione “mainstream”. Tanti anni sono vanamente trascorsi da quando, con Marco Pannella, abbiamo denunciato la deprecabile condizione delle nostre carceri, proponendo l’amnistia come l’unica soluzione realmente efficace per superare lo stato di conclamata illegalità in cui versano; forse troppi, se si considera l’immobilismo irresponsabile di tutti i governi? “Vanamente” non direi, Marco Pannella ci ha lasciato un patrimonio di lotte nonviolente del quale occorre farsi forti e, anche se da 33 anni non viene concessa un’amnistia e da 19 anni un indulto, qualche piccolo provvedimento deflattivo è stato varato grazie alle sue e nostre lotte. Ricordo la liberazione anticipata speciale approvata all’indomani della sentenza CEDU cosiddetta Torreggiani, che consentì a circa ottomila detenuti di lasciate il carcere prima del tempo. Eppure, nonostante le difficoltà, non ti sei mai arresa e con coerenza hai intrapreso un nuovo sciopero della fame. Quale lo scopo? “Far rientrare il nostro Paese nella legalità costituzionale. Marco Pannella coniò lo slogan “Amnistia per la Repubblica” proprio per sottolineare che è soprattutto lo Stato a dover uscire dalla condizione di “delinquente professionale”. Ci sono crimini che uno Stato democratico non può commettere e riguardano la salvaguardia dei diritti umani fondamentali. E nelle nostre carceri, innanzitutto per il sovraffollamento, si praticano costantemente “trattamenti inumani e degradanti” certificati ogni anno dai magistrati di sorveglianza per almeno 5.000 detenuti. Con il mio sciopero della fame (oggi sono al 19° giorno), che porto avanti insieme a un centinaio di cittadini, sostengo l’appello di Nessuno Tocchi Caino ai parlamentari per un anno di clemenza per tutti i detenuti e per espungere dal cosiddetto decreto sicurezza le parti più ignobili e incostituzionali che riguardano le detenute madri e l’introduzione del nuovo reato che punisce la resistenza passiva, quindi la nonviolenza, nelle carceri”. Quale la condizione attuale del sistema carcerario? “Siamo al 133% di sovraffollamento con punte del 200% in diversi istituti penitenziari. A questo va aggiunto che il personale è scarso: mancano 6.000 agenti e il numero delle professionalità che dovrebbero aiutare il detenuto a riabilitarsi è semplicemente risibile, sia per quel che riguarda gli educatori, gli psicologi, gli assistenti sociali, i mediatori culturali e i magistrati di sorveglianza i quali, oltre che alla popolazione detenuta e alle pene alternative di chi sta fuori, dovrebbero occuparsi anche di oltre centomila “liberi sospesi”. Inoltre, la sanità penitenziaria è al collasso. In questi primi mesi dell’anno ci sono stati già stati 30 suicidi ma anche 71 detenuti morti per altre cause. Nel carcere di Teramo, per esempio, quest’anno ci sono stati già tre detenuti morti, la cui causa di decesso deve ancora essere accertata. A Teramo il sovraffollamento è del 181% mentre a Pescara, che ha un sovraffollamento del 158%, quest’anno si è già registrato un suicidio”. Reputi valida la solita “idea” del governo Meloni di costruire nuove carceri per risolvere il problema del sovraffollamento? “È la solita scadente e stantia ricetta che viene riproposta da tutti i governi con tanto di Commissario straordinario all’edilizia penitenziaria: tanti soldi, tanti anni per scarsissimi risultati. Nelle more di tutto ciò, la comunità penitenziaria tutta (detenuti e detenenti) è gettata nella disperazione. Questa volta si sono inventati -per fare un po’ di scena- le carceri “prefabbricate”. Si tratta di moduli di cemento che a fine 2025 dovrebbero portare 384 posti detentivi in più per una spesa complessiva di ben 32 milioni di euro. 384 posti mentre ne mancano 16.000: di che parliamo?” Dap senza capo, ora è De Michele il favorito per la nomina di Giuliano Foschini La Repubblica, 13 maggio 2025 Il governo accelera sul dipartimento di amministrazione penitenziaria su cui dura da settimane il braccio di ferro col Colle. Non dovrebbe toccare all’attuale reggente Lina di Domenico ma al magistrato Stefano Carmine De Michele. La reggenza, durante il periodo di Andrea Orlando in via Arenula, era arrivata a durare fino a 8 mesi. Per non superare quel “record” ed evitare che l’imbarazzo istituzionale continui ancora a lungo con il Colle, il governo potrebbe ora sbloccare la situazione del Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, nominando un nuovo capo al posto della reggente Lina di Domenico. “La dottoressa sta dando prova di grande competenza e affidabilità” aveva detto non meno di una settimana fa Carlo Nordio, dando l’impressione dunque che non era previsto un cambio. Qualcosa però si è mosso. E ora il ministro della Giustizia si sarebbe persuaso che il muro contro muro con il Quirinale non può continuare all’infinito. Da qui una soluzione di mezzo, con l’accordo del sottosegretario Andrea Delmastro e del capo di gabinetto Giusi Bartolozzi: individuare cioè una figura tecnica da affiancare a Di Domenico. Il nome che sarebbe stato individuato, raccontava ieri il Fatto Quotidiano, è quello di Stefano Carmine De Michele, magistrato di lungo corso, ex presidente del tribunale di Tivoli, nessuna esperienza nel mondo delle carceri ma da un anno al ministero della Giustizia come direttore degli affari civili, un filo diretto con Bartolozzi. E sarebbe questo proprio il suo valore aggiunto nella scelta che comunque non convince tutti a via Arenula anche se viene letta come la maniera migliore per uscire da “una brutta situazione istituzionale”, come spiega una fonte del ministero. È ormai noto che il Quirinale si sia assai irritato per il metodo usato per la scelta di Di Domenico: prima la comunicazione, seppur informale, alla stampa. Poi, addirittura, una delibera del Consiglio superiore della magistratura che dava per certa la nomina che invece tocca, essendo il capo del Dap anche il vertice della Penitenziaria, al capo dello Stato. Da qui il muro contro muro con una moral suasion per convincere il Quirinale su Di Domenico (“è molto brava, è una donna, anche la premier è convinta” per dire, sono alcuni dei ragionamenti che fanno i suoi sponsor) che fino a questo momento non ha avuto presa anche perchè il problema è di metodo, non di merito. Ecco perché ora si dovrebbe virare su una soluzione di mezzo: Di Domenico al Dap, sì, ma con un altro vertice. Almeno sulla carta. Fermiamo il Decreto “Sicurezza” di Denise Amerini sinistrasindacale.it, 13 maggio 2025 Digiuno a staffetta, campagna “Madri fuori”, manifestazione nazionale il 31 maggio. Il governo, con un atto assolutamente antidemocratico, ha sottratto alla discussione parlamentare il disegno di legge sicurezza, convertito in decreto legge, senza che ricorressero i presupposti di necessità e urgenza, indispensabili a motivare una tale decisione. Il decreto legge è entrato in vigore il 12 aprile scorso, e, nonostante quanto affermato dalla maggioranza di governo, non recepisce i rilievi che erano stati mossi da molti esponenti del mondo accademico, della magistratura, della società civile, anche dal Quirinale, né, ovviamente, nessuno dei numerosissimi emendamenti presentati in Parlamento. Presenta evidenti profili di incostituzionalità, oltre a contenuti che si inseriscono a pieno titolo nel percorso giustizialista, panpenalista, populista, che ha caratterizzato tutti i provvedimenti del governo. Continua a declinare la sicurezza solo in termini securitari, mai sociali, evocando paure finalizzate a raccogliere facili ed immediati consensi. Un provvedimento del tutto illiberale. Persino l’Onu si è pronunciato in tal senso, del tutto inascoltata. Gli esperti di diritti umani delle Nazioni Unite ne hanno chiesto il ritiro, “preoccupati dal modo in cui il governo ha trasformato un disegno di legge in decreto legge, e da come quest’ultimo è stato frettolosamente approvato dal Consiglio dei ministri, aggirando così la discussione parlamentare e il dibattito pubblico”. Già nel dicembre del 2024 l’Onu spiegava piuttosto chiaramente che, se l’allora ddl “sicurezza” fosse stato approvato così com’era, la legislazione italiana non sarebbe più stata coerente con gli obblighi sottoscritti dal nostro Paese in materia di diritti umani. Nel percorso di mobilitazione attivato fin dalla presentazione del disegno di legge, proseguito con ulteriore forza dopo la pubblicazione del dl in Gazzetta Ufficiale, si inserisce il digiuno a staffetta, che dal 29 aprile prosegue fino al 30 maggio, vigilia della manifestazione nazionale a Roma, iniziativa promossa dalla Cgil insieme a A Buon Diritto, Acli, Antigone, Cnca, Forum Droghe, L’Altro Diritto, La Società della Ragione e Ristretti Orizzonti, con un appello per una grande azione collettiva. Accogliendo l’invito di don Ciotti a digiunare contro le leggi ingiuste, e raccogliendo l’iniziativa lanciata da Franco Corleone, le organizzazioni promotrici intendono denunciare l’approvazione di un provvedimento che limita gravemente lo spazio civico, criminalizza il dissenso pacifico e mette a rischio i diritti fondamentali di cittadine e cittadini. Al digiuno è possibile aderire tramite il link: https://bit.ly/no-dl-sicurezza-digiuno-a-staffetta. Contatti per adesioni e informazioni: campagne.sociali.2025@gmail.com. Al contempo prosegue la campagna “Madri fuori”, di cui già in queste pagine abbiamo parlato, promossa fin dal 2023 dalla Società della Ragione. In occasione della festa della mamma (11 maggio) sono state organizzate iniziative in varie città (www.societadellaragione.it), per continuare con forza a denunciare i contenuti profondamente discriminatori nei confronti delle donne autrici di reato o presunte tali. Anche in questo caso, nonostante quanto si vuol far credere, il decreto non accoglie nessuno dei rilievi presentati. Anzi, per quanto riguarda l’articolo 15, che prevede la soppressione dell’obbligo al differimento della pena per le donne incinta o madri di bambin? fino a un anno di età, già previsto dal codice Rocco, arriva a peggiorare persino quello. Le donne non verranno recluse in carcere ma negli Icam, istituti a custodia attenuata per madri, istituti di reclusione a tutti gli effetti, carceri camuffati, abbelliti. I bambini continueranno a vivere in ambienti separati, in istituzioni totali. In Italia sono presenti quattro Icam, tutti al nord, e questo inoltre fa sì che si contravvenga al principio della territorialità della pena: costringerà le donne in luoghi lontani dalla residenza, privandole del rapporto con i familiari, che dovranno affrontare viaggi lunghi e costosi, se potranno permetterselo, per poterle incontrare. Ma c’è di più: è stata inserita la possibilità di sottrarre il figlio alla madre nel caso di proteste, di qualsiasi tipo, o di qualsiasi conflitto con la custodia, prevedendone l’affidamento ai servizi sociali. Usare la sottrazione dei figli come arma disciplinare è un atto feroce, oltre che sessista. È una norma - come si legge nel comunicato che promuove le iniziative dell’11 maggio - che aggiunge l’autoritarismo e la violenza patriarcale a quella che affligge tutti i ristretti, punendoli con pene aggiuntive, fino ad otto anni di carcere, per proteste anche non violente. Non ci fermeremo: la mobilitazione continua, fino alla manifestazione nazionale del 31 maggio, data in cui il dl dovrebbe diventare legge, chiedendone il ritiro. Pronti a proseguire in tutte le sedi, anche sovranazionali, per il rispetto dei principi costituzionali, della democrazia, dei diritti di tutti e tutte. Decreto sicurezza, il Csm: “I nuovi reati peseranno sul sistema” di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 13 maggio 2025 Il parere sul provvedimento licenziato dalla Sesta Commissione: “Si attribuisce rilevanza penale a condotte riconducibili all’attività di manifestazione del dissenso”. “L’impatto complessivo che le nuove disposizioni potranno avere sul carico di lavoro e sull’assetto organizzativo degli uffici non è del tutto prevedibile. È però evidente che il sistema giudiziario non potrà non risentirne”. Lo si legge nella proposta di parere approvata dalla Sesta Commissione del Consiglio superiore della magistratura - presieduta da Roberto D’Auria, togato del gruppo “moderato” di Unità per la Costituzione - sul decreto Sicurezza, varato a inizio aprile dal Consiglio dei ministri e ora in fase di conversione alla Camera. Il provvedimento del governo introduce 14 nuovi reati, nove aggravanti e innumerevoli aumenti di pena: una scelta, sottolinea la Commissione, che non potrà certo aiutare a velocizzare i tempi della giustizia penale. È “acclarato”, infatti - scrivono i consiglieri - che “a favorire una migliore efficacia dell’organizzazione” non sia la moltiplicazione dei reati, ma piuttosto “interventi ispirati alla logica, opposta, della depenalizzazione”: una logica, però, finora seguita dalla maggioranza “unicamente con riferimento ad alcune ipotesi di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”, cioè “essenzialmente l’abuso d’ufficio”, cancellato dalla legge Nordio entrata in vigore lo scorso agosto. Per il resto, invece, il ministro della Giustizia - pur avendo promesso depenalizzazioni a inizio mandato - finora non ha fatto altro che inventare nuove fattispecie penali, a partire dall’ormai leggendario “reato di rave” infilato nel primo decreto legge del governo. La proposta della Sesta Commissione sarà votata dal plenum (l’organo al completo) nella seduta di mercoledì: oltre al presidente D’Auria, a firmarla sono i consiglieri Roberto Romboli, Antonello Cosentino, Roberto Fontana ed Eligio Paolini, mentre si è astenuto Felice Giuffrè, laico in quota Fratelli d’Italia. Rispettando il ruolo del Csm, il parere omette “ogni considerazione relativa” alla dubbia necessità e urgenza del provvedimento, che ha assorbito con un blitz il testo del contestatissimo ddl Sicurezza, in discussione in Parlamento da oltre un anno. Ma sottolinea “come da più parti - tanto in ambito accademico quanto in ambito forense - siano stati espressi argomentati dubbi sulla conformità di alcune delle scelte incriminatrici rispetto ai principi costituzionali in materia penale”. In particolare, il decreto attribuisce “rilevanza penale a condotte che non solo vengono solitamente realizzate con atti di resistenza passiva, ma sono anche tipicamente riconducibili all’attività di pubblica manifestazione del dissenso”: il riferimento è in particolare al nuovo reato di blocco stradale, che punisce con il carcere fino a due anni chi “impedisce la libera circolazione su strada ostruendo la stessa con il proprio corpo”. Una condotta, ricorda il parere, depenalizzata nel 1999 e ancora prima “oggetto di reiterati provvedimenti di amnistia e indulto” proprio per la sua rilevanza costituzionale. Due aggravanti previste dal decreto, poi, “stigmatizzano in modo più accentuato” comportamenti già vietati “ove gli stessi siano sorretti da finalità di manifestazione del dissenso”: la cosiddetta norma “anti-no Ponte”, che aggrava la resistenza a pubblico ufficiale se commessa “al fine di impedire la realizzazione di infrastrutture”, e quella contro gli attivisti climatici, che punisce più severamente il deturpamento e imbrattamento attuati “con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro” delle istituzioni. Giudizio critico anche sul nuovo reato di rivolta in carcere, che punisce anche le condotte di resistenza passiva: “Si tratterebbe di una novità pressoché assoluta per il nostro ordinamento, sin qui solidamente ancorato al principio della irrilevanza penale delle condotte di mera inazione rispetto all’ordine impartito dall’autorità”, si legge. Inoltre, “l’equiparazione tra le condotte di mera resistenza passiva e quelle caratterizzate da violenza e minaccia potrebbe prestarsi a rilievi di irragionevolezza e avere effetti contrari a quelli presumibilmente attesi, finendo paradossalmente per incentivare il ricorso a forme di contestazione o disobbedienza dotate di maggiore pericolosità e carica offensiva”. Bergamo. “Difficile gestione di detenuti con problemi psichiatrici o di dipendenza” Corriere della Sera, 13 maggio 2025 “Si apra un tavolo di confronto”. I penalisti intervengono sulla situazione della Casa circondariale: “Svilita la funzione costituzionale della pena. Condizioni drammatiche e carenza di personale”. Sulle tensioni in carcere, con episodi di aggressioni agli agenti e di autolesionismo dei detenuti, gli avvocati penalisti di Berg sono spesso intervenuti. Pubblichiamo integralmente un nuovo intervento, nel giorno in cui è diventata pubblica la notizia che un detenuto ha appiccato fuoco nella sua cella, con un comunicato che pubblichiamo integralmente. Nell’unico articolo della nostra Costituzione in cui si parla di carcere, l’articolo 27, i padri costituenti sentirono l’esigenza di individuare due soli canoni: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’attuale situazione delle carceri italiane, a causa di molteplici fattori e dell’inerzia del legislatore negli ultimi vent’anni, è ormai lontanissima dalla realizzazione di tali nobilissimi principi, peraltro ripresi e rilanciati anche dalla stessa Legge sull’Ordinamento Penitenziario (L. 26 luglio 1975, n. 354) che quest’anno festeggia (tristemente, dato che i “suoi” alti principi sono nelle realtà disattesi) i 50 anni dalla sua entrata in vigore. Anche le condizioni del carcere cittadino destano grande preoccupazione, come recentemente segnalato anche dall’Associazione Carcere e Territorio, da sempre molto attiva e sensibile, come noi, su questi temi. Con un tasso di sovraffollamento prossimo al 200%, la vita quotidiana dei detenuti è quanto mai difficile e gravosa perché si riduce nell’infinita attesa del fine pena senza svolgere attività lavorative o formative, costretti a vivere la maggior parte del tempo in spazi angusti, spesso insalubri, condivisi con persone sconosciute che hanno culture se non lingue diverse. A ciò si aggiunge la difficile convivenza e gestione delle persone affette da problematiche psichiatriche e/o dipendenze che in gran numero si trovano reclusi in carcere anziché essere curati in idonee strutture detentive e di cura (REMS e Comunità terapeutiche). Tutto questo, svilisce la funzione costituzionale della pena aumentando al contempo - dati statistici alla mano - il tasso di recidiva di coloro che usciranno dal carcere dopo essere stati costretti a scontare la propria pena in queste condizioni (più volte ritenute disumane e degradanti dalla CEDU, in passato) e con limitatissimi accessi alle pene alternative alla detenzione, anche laddove giuridicamente ne sussisterebbero tutti i requisiti. Lo stesso numero di suicidi in carcere - in costante e allarmante aumento (già 30 da inizio 2025, dopo il numero “record” di 90 nell’anno passato) - depone chiaramente in tal senso, pur non avendo ancora toccato la locale Casa Circondariale. Queste drammatiche condizioni, unitamente all’endemica carenza di personale e di risorse, si riverbera negativamente anche sulle condizioni di lavoro della Polizia Penitenziaria, del personale amministrativo e dei sanitari che operano in carcere, tutti costretti a misurarsi con numeri troppo grandi per riuscire, nonostante il costante impegno, a dare effettiva risposta ai bisogni dei detenuti (basti pensare che nel nostro carcere ci sono 4 educatori per oltre 600 detenuti…). Di fronte a questa drammatica situazione di disagio, come Camera Penale di Bergamo non possiamo rimanere indifferenti e sentiamo il dovere, da un lato, di denunciare la politica (di ieri e di oggi) che chiaramente non ha inteso affrontare il problema “Carcere”, voltando lo sguardo altrove e relegando la Casa Circondariale - anziché a parte integrante della comunità-città, quale dovrebbe essere - a una sorta di “discarica sociale” ove relegare quei cittadini che non si ha modo di aiutare sul territorio; dall’altro, proprio a fronte dell’indifferenza di chi avrebbe la responsabilità di intervenire, di invitare tutti gli attori che operano in e attorno al Carcere (Magistratura di Sorveglianza, Direzione del Carcere, Area trattamentale, UEPE, SERD, personale sanitario, Comunità terapeutiche, Terzo settore, società civile) ad aprire un tavolo di confronto per cercare insieme soluzioni concrete e condivise, prassi operative, iniziative che possano quantomeno mitigare il problema, decongestionando il Carcere di Bergamo. Ad esempio prevedere corsie preferenziali per i detenuti che non hanno richiesto la misura alternativa nei termini di legge; ridurre i tempi di evasione delle 199; definire un protocollo con SERD e Comunità terapeutiche per l’accesso in via provvisoria dei detenuti con dipendenze; creare canali di comunicazione diretti che consentano un rapido scambio delle informazioni tra i soggetti interessati; attivare nuove risorse rivolgendosi alle associazioni di categoria e alla Camera di Commercio. Confidando in un positivo e celere riscontro da parte degli “addetti ai lavori”, confidiamo altresì che gli organi di stampa vorranno aiutarci a sensibilizzare la cittadinanza tutta circa la drammatica situazione delle carceri, tema sul quale convengono tutti - Magistratura, Amministrazione Penitenziaria, Avvocatura, Terzo Settore, etc. - benché storicamente divisi su altri temi tecnici, a riprova di come non vi sia davvero più tempo da perdere. E non allarmino i recenti fatti di cronaca, stando ai quali un detenuto autorizzato al lavoro esterno, non avrebbe fatto ritorno in carcere, suicidandosi, dopo aver commesso alcuni reati tra i quali, forse, un omicidio; statistiche alla mano le revoche di misure alternative alla detenzione o permessi e autorizzazioni particolari rappresentano una percentuale infinitesimale rispetto agli esiti positivi, benché ottengano una notevole eco sui media e vengano cavalcati dai “soliti noti”, secondo i quali il carcere dovrebbe essere un luogo di vendetta, tortura e perdizione anziché di rieducazione, come vuole la nostra (splendida) Carta Costituzionale. Novara, Il sottosegretario Delmastro promuove il carcere: “Situazione serena” di Fabio Albanese La Stampa, 13 maggio 2025 L’esponente del governo ieri in vista alla struttura di via Sforzesca Nuovo direttore del carcere, nuovo comandante della polizia penitenziaria, lavori di ristrutturazione nella casa circondariale. La visita di ieri al carcere di via Sforzesca, per il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro con i maggiorenti locali del suo partito, FdI, dev’essere andata molto bene, a sentire l’applauso degli agenti penitenziari arrivare dalle stanze dove i giornalisti non possono entrare: “Capita spesso con gli uomini e le donne della polizia penitenziaria - sottolinea soddisfatto Delmastro. Quando in due anni e mezzo di governo finanzi 10.250 assunzioni di allievi agenti mentre gli scienziati che mi hanno preceduto manco garantivano il turnover per i pensionamenti, e distribuisci l’attrezzatura antisommossa, kit di ordine pubblico per affrontare eventuali emergenze, destini 250 milioni di risorse per l’edilizia penitenziaria, nomini il commissario straordinario per il sovraffollamento, e istituisci il reato di rivolta penitenziaria con pene draconiane, è difficile immaginare che qualche applauso non ci sia”. Accanto a lui, davanti al cancello principale del carcere, da una parte ci sono alcuni agenti di polizia penitenziaria, dall’altra gli esponenti di FdI che l’hanno accompagnato nella visita, a cominciare dal vice sindaco Ivan De Grandis. Alle spalle, il vecchio supercarcere da dove sono passati alcuni dei più pericolosi detenuti della storia criminale italiana e che all’11 maggio, stando ai dati del ministero, ospitava 162 detenuti contro una capienza di 156. “Ho trovato, pur con qualche carenza di organico, una situazione di grande serenità - ha premesso il sottosegretario -. Il corpo di polizia penitenziaria qui a Novara sa mantenere ordine e sicurezza e sa trattare il 41bis. La struttura regge benissimo rispetto ad altre, a breve verrà interessata da una piccola rivoluzione edilizia di cui non possiamo ancora parlare perché in fase di perfezionamento, per questo ci rivediamo a dicembre”. Servirà ad aumentare la capienza? “Anche, indirettamente”. Capitolo personale, Delmastro è iperbolico quando scandisce: “Per la prima volta nella storia della Repubblica ho raggiunto il traguardo epocale di saturare la pianta organica dei funzionari giuridico-pedagogici, quelli che si occupano di trattamento e rieducazione dei detenuti. Prima di me si andava al Maurizio Costanzo show a ricordare l’articolo 27 della Costituzione; sono laureato in giurisprudenza e lo conosco pure io, senza andare nei salotti preferisco assumere i funzionari e curare la pianta organica. La rieducazione dei detenuti si assicura con chi è preposto e non con i discorsi da salotto o, peggio mi sento, da ztl, è un’altra Italia quella lì”. E a Novara? “In arrivo a giorni due comandanti, tra loro due l’amministrazione penitenziaria, osservandoli, presceglierà chi dovrà essere il comandante titolare della polizia penitenziaria. A breve, inoltre, sgraveremo la dottoressa Annamaria Dello Preite dall’incarico “a scavalco” di direttore del carcere, e di nuovo parlo di giorni, in modo che qui si abbiano un direttore e un comandante titolari. A livello nazionale abbiamo già coperto il 98% dei vuoti d’organico, a luglio completeremo quel 2% mancante”. Poi la foto di gruppo, il selfie chiamato con il poliziotto penitenziario “che con gli occhi mi sa dire cosa fare”, e fine della visita. Torino. 850 scritti per il concorso letterario in memoria di don Domenico “Meco” Ricca ansa.it, 13 maggio 2025 In memoria del salesiano don Ricca, cappellano Ferrante Aporti. Sono 850 gli elaborati scritti, composti da persone di età differenti e da tutta Italia, tra cui anche detenuti, per la prima edizione del concorso letterario istituito in memoria di don Domenico “Meco” Ricca, il sacerdote salesiano storico cappellano del carcere minorile Ferrante Aporti di Torino scomparso nel marzo dello scorso anno. Sessanta sono stati selezionati dalla giuria, presieduta dalla giornalista Marina Lomunno e di cui fanno parte gli scrittori Margherita Oggero e Younis Tawfik, l’ex magistrato Ennio Tomaselli, Claudio Sarzotti, docente di sociologia e direttore della rivista Antigone, la garante dei detenuti della Città di Torino, Monica Cristina Gallo. Tra questi verranno scelti i vincitori, da premiare al Salone del libro alle 18 del 16 maggio per ognuna delle tre categorie in cui è articolato il concorso: giovani e adulti (dai 19 anni in su), adolescenti (dai 14 ai 18 anni), la sezione per i giovani ristretti all’Ipm Ferrante Aporti e per i due premi speciali riservati a persone con disabilità. I migliori elaborati del concorso letterario in memoria di don Domenico “Meco” Ricca saranno inoltre raccolti in una pubblicazione. Il ricavato dalle vendite sarà interamente devoluto alla Comunità Harambée di Casale Monferrato, che accoglie e sostiene minori fragili e dove don Domenico era di casa. “Quando il lavoro degli operatori negli istituti di pena è svolto con sensibilità e attenzione, i risultati positivi - sottolineano dal Forum Terzo settore - non tardano ad arrivare proprio attraverso le attività finalizzate alla cura e alla rieducazione dei detenuti”. Taranto. L’oasi culturale del “Libro sospeso” di Federica Pompamea Corriere di Taranto, 13 maggio 2025 Un ponte di carta e parole tra la città di Taranto e la Casa Circondariale. È questo l’obiettivo dell’iniziativa “Un Libro Sospeso”. Il progetto, nasce dalla sinergia tra la Biblioteca Civica Pietro Acclavio, l’istituzione penitenziaria e le librerie locali, tra cui Libreria Dickens, Libreria Feltrinelli, Libreria Mandese, Libreria Mondadori Porte dello Ionio e Libreria Mondadori Bookstore via De Cesare con lo scopo d connettere due mondi apparentemente lontani. “Per la prima volta collaboriamo tra operatori culturali e lo facciamo con uno strumento potentissimo, il libro” - spiega Federica Mandese, Libreria Mandese - “Un oggetto capace di far crescere il fruitore, di farlo uscire dalla solitudine che lo circonda”. La cittadinanza, avrà un ruolo fondamentale all’interno di questa rete solidale e culturale. L’iniziativa, infatti, prevede l’acquisto di un libro che sarà poi donato alla biblioteca della Casa Circondariale, un gesto semplice ma potente destinato ad arricchire il patrimonio librario a disposizione delle persone detenute. “Il nostro compito sarà anche quello di consigliare i cittadini durante l’acquisto - racconta Tonino De Giorgi, Libreria Dickens - “In questo modo il lettore potrà godere a pieno di una lettura capace di dare leggerezza e allo stesso tempo far riflettere su una prospettiva futura diversa da quella che conoscono”. L’obiettivo primario è quello di offrire ai detenuti maggiori opportunità di formazione, di ampliare i propri orizzonti culturali e di favorire un più efficace reinserimento nel tessuto sociale. Un processo di inclusione che deve coinvolgere anche la società, per preparare i cittadini ad accogliere nuovamente tutte le persone detenute una volta che il loro percorso all’interno della Casa Circondariale volgerà al termine. “L’iniziativa cercherà anche di innalzare il livello di civiltà del territorio - ha sottolineato il Sub Commissario Eliseo Nicolì - “Questo grazie alla partecipazione attiva dei cittadini all’iniziativa che sarà sinonimo di fiducia nei confronti dei detenuti”. Un servizio essenziale per la rieducazione della persona privata della libertà, come ha sottolineato la responsabile dell’area rieducativa della Casa Circondariale, Gabriella Acireale. “Il carcere è realtà territoriale a tutti gli effetti. Le difficoltà, le criticità della nostra città si riflettono all’interno della struttura. Queste azioni sono essenziali per donare una seconda opportunità ai detenuti e per abbattere pregiudizi e gli stereotipi della comunità”. Firenze. “Madri fuori”, la campagna per la dignità e per i diritti delle donne condannate nove.firenze.it, 13 maggio 2025 Collesei (Commissione Diritti dei minori): “Per la dignità e i diritti delle donne condannate, dei lori figli e figlie”. “È da un po’ di tempo - ha detto la presidente della Commissione pari opportunità, pace, diritti umani, relazioni internazionali Stefania Collesei - che ci stiamo occupando delle condizioni di vita delle persone detenute all’interno delle carceri, in particolare, col presidente della Commissione politiche sociali Edoardo Amato, delle condizioni dei detenuti nel carcere di Sollicciano. Come città ci sta a cuore tutto quello che si muove intorno alla vita delle persone detenute. Ieri mattina si è svolto un presidio, alla presenza di diverse associazioni e parlamentari dal titolo: “Madri fuori” perché c’è una campagna per la dignità e per i diritti delle donne condannate, dei lori figli e delle loro figlie. Un presidio dove ci siamo chiesti quanta utilità possa avere la nuova norma inserita nel decreto sicurezza, sottratto al confronto ed al dibattito in Parlamento, che introduce nuovamente la possibilità di carcerazione per le donne incinte o con figli con età inferiore ad un anno. È una norma che chiamare illiberale è poco perché persino durante il periodo fascista una norma del genere non era stata adottata perché c’è un piccolo particolare: la donna incinta poi partorisce ed i figli vengono reclusi in carcere senza aver commesso nessun reato. Se si pensa che col decreto sicurezza si riesca a migliorare la vivibilità del Paese mettendo in galera dei neonati, penso che si sia perso, veramente, il lume della società della ragione. Per questo motivo - ha concluso la presidente della Commissione pari opportunità, pace, diritti umani, relazioni internazionali Stefania Collesei - cittadini, associazioni, istituzioni stanno premendo perché venga rivisto e soppresso questo articolo così illiberale. I bambini non sono degli effetti collaterali. Esistono e vivono di vita propria e dobbiamo a loro rispetto e rispetto alle loro madri”. L’Aquila. Verso la riapertura del carcere minorile: formazione e diritti al centro di un convegno radiolaquila1.it, 13 maggio 2025 Rendere il carcere un luogo abilitante al cambiamento: è questo l’obiettivo del convegno “Formazione minorile carceraria in Abruzzo - Analisi e prospettive”, in programma venerdì 23 maggio 2025 nella Sala Convegni dell’Ordine degli Avvocati dell’Aquila (Tribunale, in via XX Settembre, n. 68). Una giornata di riflessione e confronto su istruzione, reinserimento e diritti nel contesto della detenzione minorile. Il punto di partenza è chiaro: il sapere deve poter raggiungere ogni persona, anche in situazioni estreme. In questa prospettiva, la scuola diventa spazio di relazione, strumento per costruire legami e promuovere consapevolezza. L’incontro, promosso dal Cpia L’Aquila e l’Ordine degli Avvocati, intende fare il punto sul ruolo dell’istruzione nei percorsi rieducativi rivolti ai minori detenuti, con particolare riferimento alla prossima apertura del nuovo Istituto Penale per i Minorenni del capoluogo abruzzese. L’obiettivo è favorire progettualità educative integrate e a lungo termine, capaci di rispondere alla complessità di un contesto che richiede interventi mirati, delicati e innovativi. Ad aprire i lavori saranno i saluti istituzionali del presidente dell’Ordine degli Avvocati Maurizio Capri, del sindaco dell’Aquila Pierluigi Biondi, dell’assessore regionale Roberto Santangelo, del procuratore generale Alessandro Mancini e del direttore dell’Ufficio scolastico regionale Massimiliano Nardocci. Subito dopo, Alessandra De Cecchis, dirigente scolastica del Cpia L’Aquila, presenterà la relazione introduttiva dal titolo “Educare nei luoghi della fragilità”. Il convegno si articolerà in due momenti: una sessione mattutina sul ruolo dell’istruzione e della giustizia, e nonché una pomeridiana con una tavola rotonda dedicata alle pratiche, con contributi da Università, Inapp, Ministero dell’Istruzione, Ministero della Giustizia, associazione Antigone, Ordini professionali, garanti regionali e rappresentanti del terzo settore. A concludere i lavori sarà Ada Maurizio, dell’Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa (Indire). Il coordinamento sarà affidato a Francesca Bafile. È prevista la pubblicazione degli atti del convegno. L’evento è accreditato con 7 Cfp per gli avvocati (4 al mattino, 3 al pomeriggio) e sarà fruibile anche in modalità webinar: https://t.ly/S7Vkv. Contatti e organizzazione: Cpia L’Aquila - Ordine Distrettuale degli Avvocati della Provincia dell’Aquila. Udine. In preghiera per le persone detenute, le loro famiglie e per i morti in carcere di Bruno Temil lavitacattolica.it, 13 maggio 2025 In preghiera per le persone detenute, le loro famiglie e per i morti in carcere. Nella cappella della comunità dei Padri Vincenziani di Udine, in via Marangoni, si è rinnovato lunedì 12 maggio il mensile appuntamento di preghiera dedicato ai fratelli detenuti e alle loro famiglie, un gesto di vicinanza e speranza in questo Anno Giubilare promosso dall’Arcidiocesi e dalla Cappellania penitenziaria. La celebrazione eucaristica è stata presieduta da mons. Angelo Zanello, parroco di Tolmezzo - la cui Parrocchia include la locale casa circondariale - che ha accolto l’invito di padre Claudio Santangelo, cappellano del carcere di Tolmezzo. All’inizio della liturgia, arricchita nel finale da un momento di adorazione eucaristica, parte Santangelo ha espresso la sua gratitudine a mons. Zanello per la disponibilità e ha rivolto un pensiero commosso alle vittime dei numerosi suicidi che hanno segnato le carceri italiane in questo inizio d’anno, già una trentina, sottolineando come la Santa Messa fosse offerta anche in loro suffragio. Particolarmente intensa e ricca di spunti di riflessione è stata l’omelia di mons. Angelo Zanello. Muovendo dal Vangelo del giorno, che presenta Gesù come il “Buon Pastore sulla terra”, il presule ha citato un grande scrittore per poi attualizzarne il monito: “Le pecore affamate alzano la testa e non vengono nutrite”. Un’esortazione rivolta ai pastori di ogni tempo, ma che oggi risuona con particolare urgenza. “Preghiamo - ha invocato mons. Zanello - Signore, dona il tuo nutrimento a queste pecore affamate di amore, di verità, di volontà. Offri loro quella finezza di vita che hanno cercato anche attraversando il dolore, i fallimenti, l’estremo smarrimento”. Un nutrimento che giunge, ha proseguito il sacerdote, dall’offerta del sacrificio di Cristo e dalla preghiera della comunità. Riferendosi al Salmo meditato durante la celebrazione, mons. Zanello ha evidenziato la figura del “vero Pastore che illumina, guida, ridona speranza, che ci riconduce sempre al volto tenero di Dio, il volto del Padre”. Una consolazione profonda per le “anime assetate di Consolazione” che possono contemplare un Padre così, il Padre di Gesù Cristo, nella certezza che un giorno potranno vederne il volto misericordioso. Il Vangelo odierno, ha ricordato mons. Zanello, proclama con forza: “Io sono il Buon Pastore”. È Gesù, la cui vocazione “rischiosa” implica il dono della vita, offerta in piena libertà per la salvezza dell’umanità. La sua unica preoccupazione è “custodirci, salvarci, condurci alla vita”. Mons. Zanello ha poi richiamato l’esempio vivo di Papa Francesco, un “Buon Pastore” che va alla ricerca delle pecore ferite e smarrite, ricordando come le opere di misericordia debbano essere al centro della vita e della testimonianza cristiana: “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”. Il Pastore buono, ha sottolineato, raggiunge i luoghi più nascosti della condizione umana per ricordare a chi si sente dimenticato di non esserlo. “I più abbandonati sono al centro del cuore di Cristo. E se stanno al centro del suo cuore, allora anche ciascuno di noi vi sta”. “Io sto a cuore al Signore Gesù. Tu stai a cuore al Signore Gesù. Accogli questa certezza”, ha esortato mons. Zanello, invitando a meditare e amare questa verità profonda. “Gesù ti conosce profondamente, molto più di quanto tu conosca te stesso”. Un amore incondizionato che non dipende dal valore attribuito dal mondo, ma che abbraccia ogni aspetto dell’essere umano. Riprendendo una riflessione sulle difficoltà nel percorso di fede con le famiglie condivisa da don Alessio Geretti, che presta servizio in Carnia al suo fianco, mons. Zanell ha tratto un insegnamento di speranza: “Guarda avanti. Non restare fermo a ciò che non c’è più. Lavora con chi c’è, anche se fossero pochi”. L’esempio di Gesù con i suoi pochi apostoli è illuminante: il Signore non chiede numeri, ma fedeltà. La via indicata è dunque quella di “abitare con amore il presente, anche se imperfetto, e valorizzare ogni disponibilità, ogni apertura, perché proprio lì, anche nei frammenti, lo Spirito può operare”. Una certezza che infonde forza per affrontare ogni fatica e sfida: “Siamo amati, così come siamo”. Un amore universale che chiama a non ostacolare l’opera di Dio, ma a collaborare con Lui, in questo “tempo di fede, tempo di Spirito, tempo di nuova vita”. In conclusione, in vista della festa della Madonna di Fatima, mons. Zanello ha invitato a riflettere sull’esempio dei tre pastorelli e a chiedersi cosa si è disposti a offrire per la salvezza degli altri, affidandosi all’intercessione di Maria. Napoli. Regata dei Tre Golfi 2025, anche quest’anno Jonathan c’è di Vincenzo Morgera e Silvia Ricciardi* Ristretti Orizzonti, 13 maggio 2025 Anche quest’anno, per il sedicesimo anno consecutivo, l’Associazione Jonathan, nell’ambito del Progetto Jonathan - Vela “Tutti a bordo”, parteciperà alla prestigiosa “Regata dei Tre Golfi” che si terrà nei giorni 16-17-18 maggio. Quattro ragazzi dell’area penale collocati presso le nostre comunità “Jonathan” e “Oliver” faranno equipaggio con skipper professionisti e saranno presenti ai nastri di partenza insieme ai grandi equipaggi della vela italiana. Un progetto che negli anni, grazie ad una rete stabile e strutturata, è diventato un modello di buone pratiche educative, formative e di inclusione che abbatte i muri dei pregiudizi e propone ponti per favorire partecipazione e condivisione e consentire a tutti una cittadinanza attiva e responsabile In questa esperienza educativa e formativa che i ragazzi fanno con il Progetto Jonathan - Vela si evidenziano le potenzialità di una innovazione che è diventata una realtà consolidata, all’interno della quale la Regata dei Tre Golfi rappresenta concretamente e simbolicamente un traguardo che restituisce ai ragazzi una percezione di “normalità” su cui costruire le basi di un cambiamento possibile. La presenza dei nostri ragazzi ad una regata, inserita nel campionato internazionale di vela d’altura che vede la presenza di imbarcazioni e velisti campioni del mondo, rappresenterà per loro non solo una sfida, ma gli offrirà la possibilità di sperimentare, attraverso una competizione sportiva, il significato della responsabilità e il valore della condivisione. Una vera rivoluzione: l’incontro tra due mondi, quello dei ragazzi in conflitto con la giustizia e quello della società civile. I nostri ragazzi gareggeranno a bordo di Blue Marlin II “Le Principesse”, l’imbarcazione di 14 metri confiscata alla criminalità organizzata e assegnata all’Associazione Jonathan. Un progetto che in questi anni si è costruito e sviluppato grazie a una sinergia e a un lavoro di rete che vede, insieme alla nostra Associazione, la Giustizia Minorile della Campania, la Marina Militare Napoli, la Lega Navale di Napoli, il Circolo del Remo e della Vela Italia e la GIVOVA, azienda che anche quest’anno donerà l’abbigliamento sportivo all’equipaggio. Quello di avere una divisa ha un forte significato simbolico che ha ricadute pratiche perché rafforza l ‘identità di squadra e il senso di appartenenza al gruppo e li gratifica nel confronto con gli altri equipaggi. La scoperta che il mare bagna Napoli fatta con la partecipazione alla “Regata dei Tre Golfi” che è una prestigiosa competizione sportiva per gli appassionati e gli sportivi di vela d’altura ha aperto strade nuove nella costruzione di percorsi di recupero e di inclusione per i nostri ragazzi come è testimoniato anche dalla collaborazione con il Dipartimento di Farmacia dell’Università degli Studi di Napoli Federico II che vede i nostri ragazzi partecipare al Progetto transnazionale per iniziative di alta formazione Sulieia della Federico II. Una collaborazione formalizzata con un Protocollo d’Intesa sottoscritto anche dal Centro per la Giustizia Minorile della Campania e la Manfrotto - Videndum Media Solutions. I nostri ragazzi, in collaborazione con i dottorandi della Facoltà di Farmacia, saranno impegnati - con uno scambio di conoscenze e competenze - in attività di studio e ricerca sulle coste del golfo di Napoli, nella raccolta di campioni di acqua per verificare l’inquinamento delle acque (presenza di cianobatteri) e realizzare fotografie anche subacquee per “raccontare” il luogo del campionamento. La nostra partecipazione ha anche un grande valore simbolico: l’equipaggio di Jonathan, con la bandiera Arcobaleno e quella della Comunità Europea issate a bordo, sarà anche “messaggero” dei valori di pace e legalità. *Associazione Jonathan I volti in bianco e nero delle detenute della Giudecca di Maria Ducoli Il Mattino di Padova, 13 maggio 2025 Valerio Bispuri ha fotografato le donne nel carcere femminile veneziano: “Sono stato con loro cinque giorni, mangiavamo insieme, parlavamo. Avevo chiesto loro di essere naturali e mi hanno mostrato la loro vita interiore”. Non ci sono colori negli scatti di Valerio Bispuri, perché è come se dietro le sbarre tutto assumesse un’unica tonalità; come se il mondo si riducesse a una sola gradazione di grigio. Anche perché, come si fa a vedere i colori nello spazio asfissiante di una cella in cui i tre metri quadrati calpestabili per persona sono spesso un miraggio? Anche di questo parlano le fotografie di Bispuri, fotoreporter di fama internazionale che ha raccontato la vita quotidiana dei detenuti in dieci carceri italiane nella mostra “Prigionieri”, che si è appena conclusa a Pisa. L’esperienza alla Giudecca - Nel suo viaggio nel mondo parallelo delle strutture detentive, a un passo da noi e al tempo stesso eternamente distanti, Bispuri nel 2018 è arrivato anche nella casa di reclusione femminile della Giudecca. “Credo sia una delle carceri più belle che abbia visitato” commenta, “non si è trattato solo di scattare foto, sono stato con loro cinque giorni, mangiavamo insieme, parlavamo. Avevo chiesto loro di essere naturali e mi hanno mostrato la loro vita interiore”. Così, storie spesso complesse, cicatrici difficili da rimarginare, sono venute a galla e sono state catturate dall’obiettivo della macchina fotografica. A prevalere, però, è l’aspetto comunitario: lo spazio ristretto che diventa spazio condiviso, il cortile da cui guardare - insieme - un ritaglio di cielo. “Ciò che mi ha colpito è stato il legame affettivo delle detenute, che non si trova spesso” conferma. Il racconto fotografico di Bispuri è il sequel italiano di Encerrados, viaggio in 74 strutture detentive del Sud America. Nelle realtà più difficili - Così, il fotoreporter è entrato in alcune delle realtà più difficili, dal Regina Coeli di Roma a San Vittore di Milano. “Quella delle carceri italiane è una situazione drammatica”, dice, “tra sovraffollamento e disagio mentale, sembra che i nostri detenuti non abbiano speranze e questo si riflette nell’alto numero di suicidi. Questo modello di carcere è ancora pressoché punitivo, sono poche le realtà che hanno superato questa logica” fa presente. Se la casa di reclusione della Giudecca è un piccolo mondo a sé, considerando le tante attività di inserimento lavorativo e di formazione per le detenute e il loro numero ancora contenuto, non è così in altre carceri italiane. “Le più problematiche sicuramente sono Poggioreale a Napoli e Regina Coeli a Roma” commenta, aggiungendo che la realtà che l’ha colpito più positivamente è Isili in Sardegna, una colonia penale in cui buona parte dei detenuti lavora fuori, a contatto con la comunità. La prima volta in Ecuador - Bispuri, che è entrato per la prima volta a visitare un carcere in Equador nel 2001 e da allora ha sempre continuato il suo viaggio a stretto contatto con gli ultimi degli ultimi, non ha dubbi: “Il modello del carcere si può superare, ma serve un’adeguata politica riabilitativa. Bisogna dare la possibilità ai detenuti di studiare e lavorare, nell’ottica di un reinserimento nella società”. Serve, a suo dire, più apertura verso il problema della detenzione. “Eppure, se oggi o se soprattutto oggi ancora manca, è perché non fa comodo a nessuno, né alla politica né ai cittadini. Bisogna fare un salto di qualità” conclude. Referendum, le opposizioni contro la Rai di Andrea Carugati Il Manifesto, 13 maggio 2025 “La tv pubblica non informa, è megafono del centrodestra”. Magi annuncia azioni legali. Landini chiama i leader a Roma il 19 maggio. Natale (cda viale Mazzini): “Abbiamo chiesto un calendario degli spazi tv dedicati al voto, c’è un grave ritardo”. Maurizio Landini e Riccardo Magi, i due principali promotori dei referendum su lavoro e cittadinanza dell’8 e 9 giugno, stanno battendo l’Italia palmo a palmo per informare i cittadini sul voto. Giovedì 15 a Bologna il segretario della Cgil e quello di +Europa si ritroveranno in piazza Santo Stefano per dare il via allo sprint finale. Pochi giorni dopo, probabilmente il 19, Landini sarà a Roma con i leader dei partiti che sostengono il sì e i vertici delle associazioni che hanno partecipato alla raccolta delle firme. Prevista anche la presenza di esponenti del mondo della cultura e dello spettacolo che si sono già spesi o intendono spendersi per spingere i cittadini al voto. Sono stati invitai tutti i leader del centrosinistra, da Schlein a Conte, Bonelli e Fratoianni. L’elettorato giallorosso è quello più propenso al voto, come ha evidenziato un recente sondaggio Ipsos, ma questi confini si possono abbattere. A un mese dalle urne l’istituto di Nando Pagnoncelli ha fotografato una propensione al voto tra il 32 e il 38%. In un contesto in cui solo il 62% degli italiani si dice informato sull’appuntamento. Si tratta già di numeri importanti visto il deserto informativo che si è finora registrato: una previsione di circa 16 milioni di elettori già orientati al voto; numeri che dimostrano come l’obiettivo del quorum del 50% dei votanti sia difficile ma possibile. Numeri che registrano il sorpasso sui voti ottenuti dal centrodestra alle politiche del 2022: 12,3 milioni. Un primo risultato, quello di mobilitare una “massa critica” di elettori in grado di competere con Meloni e soci, che si può già considerare acquisito. E che allontana lo spettro del flop. Ma ai promotori non basta. E infatti le opposizioni stanno bombardando il quartier generale Rai di viale Mazzini chiedendo più informazione sui referendum. Il Pd ha presentato un’interrogazione in Vigilanza: “Nessuna trasmissione, nessun confronto: un blackout informativo che non è casuale. La Rai sembra aver scelto la linea di Palazzo Chigi e del presidente del Senato: far finta di niente, scoraggiare la partecipazione. Il servizio pubblico non può trasformarsi nello strumento di propaganda della maggioranza di governo”. “TeleMeloni ha spento il servizio pubblico”, dice Sandro Ruotolo, responsabile informazione dem. Francesco Verducci del Pd definisce la Rai “avara di notizie, priva di approfondimenti reali e di spazi di confronto sui quesiti referendari”. E Angelo Bonelli di Avs: “I quesiti referendari sono stati praticamente cancellati dal dibattito pubblico e televisivo, come se non esistessero”. “L’unica cosa certa è che hanno paura che i cittadini vadano a votare”, l’affondo di Giuseppe Conte. Magi pensa ad azioni legali contro la tv pubblica: “Le tribune elettorali referendarie, poche e a orari con pochi ascolti, inizieranno nella seconda metà di maggio. Stiamo preparando delle azioni legali contro questo oscuramento che il governo, per mezzo dell’informazione pubblica, sta operando”. Roberto Natale, Consigliere Rai in quota opposizioni, ricorda come su suo impulso, già da settimane il cda abbia chiesto alle testate di coprire il referendum in modo più approfondito. A marzo l’ad Giampaolo Rossi ha incontrato Magi e Landini. “Ho parlato di nuovo con Rossi la settimana scorsa”, spiega al manifesto. “Siamo in attesa di un calendario con gli spazi dedicati ai referendum nelle trasmissioni di approfondimento e nei tg. Le tribune di Raiparlamento e i messaggi autogestititi non sono sufficienti. Sui programmi con maggiore ascolto c’è ancora un forte ritardo. Il tema non è la par condicio tra sostenitori del Sì e del No, è dare una informazione ampia oltre che equilibrata. Mi auguro che l’ad risponda in tempi rapidissimi con i fatti”. c’è poi il caso Cucciari. La conduttrice sabato scorso, durante la trasmissione “Amici” su Canale 5 ha lanciato un appello ai giovani a votare. “Sotto la bandiera tricolore è come se ci fosse il nostro vero motto, fatti i ca**i tuoi. Se te li fai sempre e comunque, prima o poi qualcuno deciderà al posto tuo su cose piccole, medie, grandi. Dite la vostra, senza paura. Anche solo per affermare che ne avete diritto”, le parole di Cucciari, che ha poi ricevuto insulti volgari e sessisti sui social. “Fa paura vedere quanto possa dare fastidio un invito a votare”, ha detto la presidente della Vigilanza Rai Barbara Floridia, del M5s. “È avvilente e grave che né Giorgia Meloni né nessuno tra governo e maggioranza abbia sentito il dovere di prendere le sue difese”. Solidarietà anche dal Pd. Migranti. La Consulta ammette Anastasìa e Calderone come “amici curiae” nei giudizi sui Cpr garantedetenutilazio.it, 13 maggio 2025 In assenza di un’effettiva tutela giurisdizionale, risultano compromessi i diritti fondamentali dei trattenuti, in violazione dei principi di uguaglianza e di diritto di difesa. Il 5 maggio scorso, la Corte costituzionale ha esaminato e ammesso le opinioni scritte formulate dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, e dalla Garante di Roma Capitale, Valentina Calderone, in qualità di “amici curiae” (“amici della corte”), nell’ambito dei giudizi di legittimità costituzionale iscritti ai nn. 209, 210, 211 e 212 del registro ordinanze 2024, riguardanti l’art. 14, secondo comma, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”. Con l’espressione “amicus curiae” si fa generalmente riferimento all’intervento in giudizio di un soggetto terzo (o anche di una pluralità di soggetti), non parte in causa, qualificato a fornire un parere o informazioni per assistere una corte. La Corte costituzionale, dal gennaio 2020 ammette le opinioni degli “amici curiae”, vale a dire “le formazioni sociali senza scopo di lucro e i soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità” (art. 4 ter delle “Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale”). Gli “amici curiae” “possono presentare alla Corte costituzionale un’opinione scritta” e “con decreto del Presidente, sentito il giudice relatore, sono ammesse le opinioni che offrono elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso, anche in ragione della sua complessità”. Nelle opinioni scritte depositate alla Corte lo scorso 10 dicembre, le questioni principali sollevate da Anastasìa e Calderone riguardano la possibile violazione dell’art. 13, secondo comma, della Costituzione, in relazione alla riserva di legge assoluta sui modi di restrizione della libertà personale, e degli artt. 3 e 24, per la mancata previsione di un giudice competente e di procedure di tutela giurisdizionale effettive per le persone trattenute nei Cpr (Centri di permanenza per i rimpatri). I Garanti sottolineano come l’attuale normativa, in assenza di un’effettiva tutela giurisdizionale, possa compromettere i diritti fondamentali dei trattenuti, violando i principi di uguaglianza e di diritto di difesa, e chiedono un intervento legislativo volto a garantire pienamente il diritto a un giudice competente e procedure di tutela efficaci, conformi ai principi dello stato di diritto. Attualmente, infatti, è il Giudice di pace a pronunciarsi sulla destinazione di una persona in un Cpr, ma successivamente tale giudice non ha più competenza, lasciandosi così le persone trattenute senza una figura equivalente a quella del magistrato di sorveglianza per i detenuti negli istituti penitenziari. Agli stranieri trattenuti nei Cpr non resta che rivolgersi ai Garanti, ai sensi dell’articolo 14, comma 2bis, del citato testo unico sull’immigrazione: “lo straniero trattenuto può rivolgere istanze o reclami, orali o scritti, anche in busta chiusa, al Garante nazionale e ai Garanti regionali o locali dei diritti delle persone private della libertà personale”. “Ritengono gli scriventi - si legge nella missiva dei Garanti alla Corte costituzionale - che la mancata previsione di un giudice ad hoc che valuti la lesione dei diritti fondamentali dello straniero trattenuto nei Cpr sia un vulnus intollerabile in uno Stato di diritto, in aperta violazione dei principi desumibili dal combinato disposto degli artt. 3 e 24 Cost. Dunque, mentre nei penitenziari italiani al dovere di dare o di facere dell’amministrazione in tema di diritti fondamentali dei detenuti corrispondono diritti da far valere dinanzi ad un magistrato, al contrario, nei Cpr non sono previsti meccanismi di reclamo idonei a far valere diritti fondamentali e finanche a far cessare eventuali trattamenti degradanti o contrari al senso di umanità”. In vista dei giudizi ricordati, fissati alla Camera di consiglio del giugno prossimo, il giudice relatore Stefano Petitti, oltre alle opinioni presentate da Anastasìa e Calderone, ha ammesso anche le opinioni scritte di Antigone onlus, dell’Accademia di diritto e migrazioni (Adim), del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, della Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm), dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi - Aps), dell’Arci Aps e della Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild). Migranti. Quei due bambini morti sul barcone che qualcuno considera “invasori” di Antonio Maria Mira Avvenire, 13 maggio 2025 Parole sbagliate nel giorno sbagliato. Mentre domenica da Lampedusa arrivava la notizia dell’ennesimo dramma delle migrazioni, i due bimbi ghanesi di due anni morti in mare di sete e di fame, il vicepremier Matteo Salvini tornava a ripetere che “oggi serve difendere i confini dell’Italia perché la nostra emergenza oggi è una invasione clandestina”. “Clandestini” come quei due bimbi, un maschietto e una femminuccia, e i loro giovani genitori che volevano “invadere” il nostro Paese. E invece sono sbarcati cadaverini. Morti tra le braccia delle loro mamme proprio nel giorno della festa della mamma. Morti su un insicuro gommone strapieno di più 60 persone, insicuro per degli adulti, ancor di più per dei bambini. Con poca benzina, poca acqua e poco cibo. Gli ultimi di più di 500 morti nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno, 32mila in dieci anni. Un mare che Papa Francesco aveva ribattezzato “mare mortuum” e non più “mare nostrum”. Ma l’”invasione” dei “clandestini” non si ferma. Non la fermano i più che discutibili accordi coi governi di Libia, Tunisia e Turchia, non la fermano le azioni criminali di milizie più o meno regolari, spesso equipaggiate dal nostro Paese. Non la fermano i rischi di finire nei centri, ora Cpr, in Albania. Altro che effetto deterrente rivendicato dal Governo. Gli sbarchi quest’anno sono aumentati, e non di poco, rispetto al 2024, in gran parte arrivi dalla Libia, come i due piccoli. Ma non se ne parla. Perché è un evidente fallimento della linea del Governo che intendeva rallentare le partenze. Invece si continua a partire, anzi si parte di più. E si muore. Nei tanti naufragi, spesso senza testimoni, senza corpi da piangere. E si muore, in modo terribile, di fame e di sete. Come i due piccoli “clandestini” che non hanno neanche avuto la possibilità di “invadere”. “Invadere” le nostre città e i nostri paesi sempre con meno bambini, le nostre scuole con tanti banchi vuoti. Avrebbero riempito di vita le nostre comunità, la loro nuova vita ancora tutta da vivere. E invece no. Solo morte per loro. Come tanti altri bambini. Troppi. E allora mentre si torna a parlare di “difendere i confini”, altre parole ci invitano ad altri comportamenti. Sono quelle di Papa Leone XIV nel suo primo messaggio Urbi et orbi quando ha detto che “dobbiamo cercare insieme come essere una Chiesa missionaria, una Chiesa che costruisce i ponti, il dialogo, sempre aperta ad accogliere con le braccia aperte tutti, tutti coloro che hanno bisogno della nostra carità, della nostra presenza, del dialogo e dell’amore”. Accoglienza, ponti, braccia aperte, come quelle degli operatori delle Ong che in queste settimane di primavera stanno soccorrendo e salvando ogni giorno centinaia di migranti. Per poi essere costretti ad altri lunghi viaggi verso porti lontani per sbarcare questi “invasori”. Ma questa volta le braccia aperte dei volontari della Nadir hanno dovuto accogliere, abbracciare, i cadaveri dei due piccoli “invasori” e i loro genitori, che oggi piangono disperati. Già, “invasori” disperati. Migranti. Quando salvare vite in mare significa salvare anche i propri connazionali di Alice Dominese Il Domani, 13 maggio 2025 La storia di Richard. Parla il membro dell’equipaggio di Humanity 1, la nave con cui l’Ong tedesca Sos Humanity dal 2022 ha soccorso più di quattromila naufraghi. “L’Europa è vista come un luogo dove tutto è possibile”. Quando Richard ha deciso di unirsi alle Ong che si occupano di soccorrere i migranti nel Mediterraneo non immaginava che ci fossero così tante persone disposte a rischiare la vita per raggiungere l’Europa. Nato e cresciuto in Ghana, Richard è un marinaio con una lunga esperienza sulle navi cargo alle spalle. Da quasi 10 anni ha cambiato vita e attualmente lavora come membro specializzato dell’equipaggio sulla Humanity 1, la nave con cui l’Ong tedesca Sos Humanity dal 2022 ha soccorso più di quattromila naufraghi. “La prima missione a cui ho partecipato era anche la mia prima volta in Europa. Era inverno e tremavo per il freddo. Non ero abituato a quelle temperature e ciò che ho visto è stato spaventoso - racconta Richard - Avevamo salvato centinaia di persone in pericolo su barchini instabili e alla deriva, alcune sono morte. Mi ero detto che non sarei più tornato a bordo, invece non ho più smesso. Sono diventato un attivista e amo il mio lavoro”. Prima di unirsi a Sos Humanity, Richard ha lavorato con altre tre Ong per i diritti umani, attraversando il Mediterraneo centrale anche a bordo dell’Alan Kurdi, la nave dell’Ong tedesca Sea-Eye intitolata al bambino siriano ritrovato 10 anni fa senza vita su una spiaggia turca, a seguito di un naufragio. Tra il 2016 e il 2018, sulla nave Aquarius delle organizzazioni Sos Méditerranée e Medici senza frontiere, ha collaborato al salvataggio di quasi 30mila persone. Quando poi nel 2023 il tribunale di Vibo Valentia ha dichiarato illegittimo il fermo amministrativo imposto alla Sea-Eye 4, riconoscendo la legittimità del soccorso svolto dalla nave su cui aveva prestato servizio, Richard ha tirato un sospiro di sollievo. Ogni operazione umanitaria in mare è imprevedibile. In questi anni di navigazione ha assistito a operazioni di salvataggio critiche con decine di persone cadute in mare: “Vedevo solo le loro mani agitarsi in superficie, alcuni sono affogati. Una persona che avevamo portato a bordo ancora viva, invece, l’abbiamo ritrovata morta il giorno dopo”. Richard scandaglia uno dopo l’altro i ricordi dei soccorsi a cui ha partecipato, dove storie di morte e speranza si intrecciano: “Una volta da una barca siamo riusciti a salvare una donna e un bambino di due anni, tra le persone che erano morte durante il viaggio c’era anche sua madre. Lui la cercava di continuo senza smettere di piangere, così l’unica donna sopravvissuta l’ha preso in braccio e da quel momento non l’ha più lasciato. Sono sbarcati insieme e ora vivono in Italia come madre e figlio”. Dopo i salvataggi la vita a bordo per i naufraghi può essere difficile. “Persone provenienti da paesi diversi e con abitudini diverse tendono a litigare più facilmente, anche solo per la condivisione degli spazi o per avere una coperta in più con cui dormire meglio la notte”, spiega Richard. In altri casi le tensioni sociali e religiose richiedono una mediazione immediata per garantire la coesistenza pacifica, almeno fino al porto di sbarco. Ma sono soprattutto i vissuti personali e le violenze subite durante il viaggio a provocare situazioni critiche. Come quando vittime e carnefici soccorsi dalla stessa nave si incontrano di nuovo: “Senza che lo sapessimo, un ragazzo sudanese aveva riconosciuto l’uomo da cui aveva subito le torture in Libia alcuni mesi prima. Mentre entrambi erano in coda per ricevere il pranzo, gli ha lanciato il piatto addosso - ricorda Richard - Si sono messi a lottare furiosamente, ma dopo averli divisi il ragazzo ha iniziato a raccontare cosa gli era successo e la rabbia ha lasciato il posto alla ricerca di supporto”. Durante i salvataggi a Richard è successo più volte di incontrare suoi connazionali partiti dal Ghana per fuggire dalla povertà o per ricongiungersi con i loro parenti in Europa. Come una ragazza intenzionata a raggiungere la madre in Belgio, a cui però era stato negato il visto per anni. Quando restare in Ghana per lei era diventato troppo difficile, ha deciso di partire per la Libia e lasciare l’Africa su una barca. Con lei, così come con tanti altri, Richard è rimasto in contatto. “Mi colpisce sempre come siano disposti a sacrificare tutti i loro risparmi per andarsene. Anche se il mio è un paese democratico e più ricco rispetto ad altri paesi africani, per tante persone lasciarlo è davvero l’unico modo per cercare una vita migliore e un lavoro stabile”. In Ghana, circa il 24 per cento della popolazione vive in condizioni di povertà estrema al di sotto della soglia nazionale, mentre i disastri ambientali, legati soprattutto allo smaltimento della plastica e dei vestiti in arrivo dall’Europa, provocano gravi problemi di salute pubblica. Il costo medio della vita si aggira sui 200 euro al mese; per lasciare il paese legalmente ne servono almeno 10mila. Anche per questo ci sono giovani che vendono l’eredità ricevuta dai genitori per riuscire a partire, ma non sempre il denaro è sufficiente. Gli imbrogli dei trafficanti sono dietro l’angolo, così come il rischio di finire nei circuiti di tratta e sfruttamento. “L’Europa è vista come un luogo dove tutto è possibile, dove piovono soldi e dove la vita è più facile, ma è importante rendere consapevoli le persone che non è tutto facile come sembra - dice Richard - Anche spiegare a chi vuole partire la pericolosità del viaggio che dovrà affrontare, prima nel deserto e nelle prigioni libiche, poi via mare, è fondamentale. Il governo ghanese cerca di farlo attraverso dei servizi tv, ma molte persone non hanno comunque altra scelta”. Raccontare il dolore, la cura che serve di Monica Perosino La Stampa, 13 maggio 2025 Tra i molti paradossi e le innumerevoli contraddizioni in cui la guerra costringe gli esseri umani ce n’è uno, in particolare, sorprendente. Un effetto secondario che solo chi ha il privilegio di averla vissuta, e di essere sopravvissuto, può sperimentare: le parole, anche quelle fruste, retoriche e abusate, ritrovano l’originaria purezza, tornano a scintillare. Proprio nel mezzo dell’orrore, parole come “libertà”, “odio”, “paura”, “amore”, “vita”, “morte”, ritrovano la corrispondenza necessaria tra reale e pensiero. Il primo discorso ufficiale ai media mondiali di Papa Leone XIV è stato potente e preciso - “agostiniano” direbbero i vaticanisti -, ci ha spinto a riflettere sul potere delle parole e sulla responsabilità che ciascuno di noi ha quando le usa. In un mondo segnato dai conflitti, “disarmiamo le parole e contribuiremo a disarmare la Terra”, dice il Papa. Ma chiede anche di non cedere alla mediocrità, di rimanere dentro il tempo e dentro la Storia, di purificare i discorsi da pregiudizio, rancore, fanatismo e odio. Non dice di non parlare di guerra, di violenza e male, anzi, ma di farlo con precisione, con l’ascolto, con la condivisione e con il coraggio e, soprattutto, con autenticità. In modo da far coincidere la realtà alle parole e così contribuire a costruire una società più giusta, qualsiasi cosa significhi “giustizia”. Comunicare, parlare, scrivere sono un atto etico. Come etico e responsabile deve essere l’uso di strumenti in grado di ferire, uccidere ma anche avvicinare alla pace e all’amore. Come quando si riesce a raccontare il dolore degli altri, sentendolo, facendocene carico come fosse il nostro. Chiunque abbia vissuto la violenza di un conflitto armato conosce il disagio di vedere la guerra raccontata come un videogioco, o di ascoltare un commentatore in tv che esalta le prodezze di un calciatore mentre “sfonda le linee nemiche”. Abitare le nostre parole, farne esperienza, è l’unico antidoto all’inautenticità. La parola ci rende umani, anzi, è la caratteristica nucleare che ci rende essere umani, dice Chomsky. Eppure, siccome la lingua ce l’abbiamo da sempre, da quando nasciamo, finisce che non ci pensiamo più, non ce ne occupiamo più, la trascuriamo. Così il nostro Occidente fortunatamente assopito da ottant’anni di pace e di conflitti visti solo in tv, tradisce le parole di cui non riconosce più il potere, ne fraintende il peso. Ma le parole e il pensiero sono vasi comunicanti, per pensare ci vogliono le parole, ché puoi pensare limitatamente ai termini che conosci. “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”, diceva il filosofo Wittgenstein, inchiodando la nostra capacità di comprendere la realtà alle parole che conosciamo. Nessuno, naturalmente, crede che basti un linguaggio buono per costruire un mondo buono, ma se è vero che le parole “abitano” non solo le cose, ma anche il soggetto stesso quando le pronuncia, l’appello di Leone XIV arriva ben oltre l’invito a scegliere con consapevolezza “la strada di una comunicazione di pace”, mentre sembra richiamare il concetto filosofico di “logos”, il discorso razionale, contrapposto al “mythos” che può alimentare conflitti. Non ci sono parole cattive, o brutte, solo parole usate in modo orribile e impreciso. Il nostro dovere e fare di tutto affinché ritrovino la pace. Le guerre non difendono la democrazia. Per questo cresce chi si rifiuta di farle di Marco Bascetta Il Manifesto, 13 maggio 2025 In Ucraina si espande il fenomeno dei renitenti e disertori. In Russia anche una tiepida critica conduce in galera. In Israele aumentano i riservisti che non si presentano. Proviamo a mettere insieme alcuni fatti, con caratteristiche ben distinte, proporzioni e pesi incomparabili, che si sono manifestati nei due principali teatri di guerra del momento: la striscia di Gaza e l’Ucraina. Distinti dunque, ma che riconducono alla contraddizione tra governanti e governati, ossia tra chi la guerra la decide e chi la combatte sul campo. In alcuni casi si tratta di crepe e fratture allo stato iniziale, in altri di fenomeni imponenti che possono anche determinare l’esito dello scontro. In Ucraina più ancora che la penuria di armi, ripetutamente lamentata dal governo di Kiev, incide una penuria di uomini e motivazioni. Ma se ne parla assai meno perché è un tema imbarazzante che tocca direttamente la legittimazione del potere statale. Una inchiesta condotta per conto di Al Jazeera da Peter Korotaev e Volodymyr Išcenko e pubblicata in Italia da Internazionale rivela dati impressionanti sulla renitenza alla leva, sulle diserzioni e più in generale sulla disponibilità a mobilitarsi per la difesa del paese. Nel 2024, riferisce l’articolo, ben sei milioni di persone chiamate a trasmettere i propri dati ai centri di reclutamento non lo hanno fatto, mezzo milione di procedimenti sono in corso per il reato di renitenza alla leva, prospera il mercato delle esenzioni e i disertori non si contano. Inoltre, gran parte dei soldati schierati al fronte ci sono stati trascinati con la forza e brutalmente trattenuti. Nella maggior parte prevale sfiducia e risentimento nei confronti del governo e non solo per la guerra, ma anche per la politica oligarchica e impopolare che la ha preceduta. Neanche in Russia il fenomeno della renitenza, dell’espatrio e della diserzione è insignificante, ma le enormi dimensioni del paese, la censura e le misure repressive rendono difficile quantificarlo e metterne in luce le diverse motivazioni. Qualunque critica, neanche troppo radicale, dell’invasione russa conduce direttamente in galera. Figuriamoci un’indagine su renitenti e disertori. In Israele è invece in visibile crescita il numero dei riservisti che non si presentano per il servizio militare, quello dei renitenti, e alcune voci, anche dall’interno dell’esercito, in esplicito dissenso con la conduzione della guerra a Gaza. Potrebbe riprendere piede con l’escalation espansionista israeliana un movimento di rifiuto della propria partecipazione alla guerra, analogo a quello dei refusenik esploso durante la guerra in Libano nel 1982. Infine le manifestazioni per la fine della guerra e contro Hamas all’interno della striscia di Gaza nello scorso marzo, proteste che esprimevano tutta la rabbia di una popolazione stremata per le scelte politico-militari senza sbocchi ma dalle prevedibili conseguenze, che hanno determinato l’attuale catastrofe umanitaria. Le motivazioni e le forme di queste resistenze, che muovono del resto da condizioni non paragonabili, sono molto diverse. E va subito chiarito che quelle di natura etica o di indignazione per gli orrori di cui si è stati testimoni non sono prevalenti. Più diffusa è la sensazione di essere manipolati dalle forze politiche dominanti, di essere asserviti a interessi particolari senza trarre per sé alcun beneficio, oppure la sfiducia e il risentimento nei confronti di governi che chiedono continuamente sacrifici senza offrire nulla in cambio. Infine, ma non in ultimo, il desiderio di salvaguardare la propria vita e integrità. Il rifiuto della guerra, insomma, è sempre anche rifiuto del proprio governo, che sia aggredito o aggressore, democratico o autoritario. All’incompatibilità tra guerra e democrazia ci introduceva già un celebre testo classico, il passo forse più citato della Guerra del Peloponneso di Tucidide: il dialogo tra i Meli e gli Ateniesi. Il brano viene solitamente citato per mettere a confronto le ragioni della giustizia (i Meli che rivendicano la loro pacifica neutralità) con quelle della forza (la politica di assoggettamento) degli Ateniesi. I quali tagliano corto affermando che la giustizia può intervenire solo tra contendenti dotati di potere più o meno equivalente, mentre dove vi sia sproporzione conta solo la forza. La geopolitica contemporanea ha poco da aggiungere. Ma merita invece attenzione una piccola premessa al dialogo con gli ambasciatori ateniesi: “I Meli non li introdussero dinanzi all’assemblea, ma li invitarono ad esporre le ragioni per le quali erano venuti dinanzi ai magistrati e ai maggiorenti”. Gli Ateniesi capiscono al volo che “le trattative non si svolgono dinanzi al popolo, evidentemente per evitare che i più si lascino da noi ingannare” ma in fondo condividono la logica di questa esclusione, che è poi quella del potere sovrano. La resistenza decisa dai maggiorenti finirà malissimo. Un episodio riportato nel Libro dei re rafforza questa esclusione della volontà popolare dalle questioni della pace e della guerra. Nel 701 a.C. Gerusalemme è assediata dagli Assiri. Eliakim, portavoce degli assediati, così si rivolge al comandante nemico: “Ti prego, parla in aramaico, perché noi intendiamo la tua lingua, ma non ci parlare in lingua giudaica, poiché il popolo, che è sopra le mura, ascolta”. Ma l’assiro, che intuisce la possibile distanza tra l’interesse popolare e quello del regnante, parla in giudaico proprio per approfittarne. Lunga è dunque la storia che sottrae al demos la decisione sulla pace e sulla guerra. Dichiarazioni di guerra e trattati di pace non procedono per via democratica e non possono essere sottoposti a referendum. Anche il programma di riarmo della Ue, come abbiamo visto, è stato sottratto al normale iter parlamentare. Perché già la preparazione bellica è incompatibile con la trasparenza e la democrazia. La guerra in Ucraina, intanto, rinvia sine die le elezioni politiche e il giudizio su Zelenskyj. Quella di Gaza, alla quale altre già vanno aggiungendosi in Libano e Siria, eternizza e rafforza il potere personale di Benjamin Netanyahu e della sua conventicola. Grazie alla guerra i caratteri democratici e il residuo di laicità dello stato di Israele vengono smontati pezzo dopo pezzo, le opposizioni messe a tacere, l’impunità garantita a criminali di guerra e politici profittatori. L’emergenza, assai spesso artificiosa e interessata, è lo strumento meglio collaudato per restringere o cancellare del tutto diritti e democrazia. La guerra, come emergenza estrema, il più radicale ed efficace di tutti. Le guerre sono dunque sempre contro la democrazia, anche quando vengono dichiarate con il pretesto di difenderla. Probabilmente è questo che obiettori, renitenti e disertori hanno ben compreso, sottraendosi al sacrificio per qualcosa che in nessun modo li rappresenta. Poiché nella guerra non vi è alcuna rappresentanza se non quella di entità astratte, ideologiche o integralmente ostili alla vita reale. Colombia. Nuovi elementi sulla morte di Mario Paciolla di Gianpaolo Contestabile e Simone Ferrari Il Manifesto, 13 maggio 2025 Gli ultimi giorni di vita del cooperante Onu in una video-inchiesta che verrà presentata questa sera a Napoli. Per la prima volta emergono dettagli sulla riunione della Missione Onu che precedette la sua scomparsa nel 10 luglio 2020. Nella serata di martedì 13 maggio, la fondazione Foqus di Napoli ospiterà la proiezione in anteprima della video inchiesta di Fanpage dedicata agli ultimi giorni di vita di Mario Paciolla, giornalista e cooperante Onu trovato morto a San Vicente del Caguán (Colombia) il 15 luglio del 2020. La presentazione del documentario vedrà la partecipazione di Anna Motta e Pino Paciolla, genitori di Mario, che da cinque anni portano avanti una battaglia per ricostruire la verità sulla morte del figlio. Il documentario ricostruisce per la prima volta uno degli episodi più oscuri legati alla morte di Paciolla: la riunione della Missione Onu del 10 luglio 2020, in seguito alla quale il cooperante italiano dichiara sentirsi in pericolo di vita e si affretta a comprare un volo di ritorno per l’Italia, anticipando la fine della sua attività lavorativa in Colombia. “Da quella riunione in poi Mario ha capito di essere in pericolo di vita. Noi abbiamo indagato su quella riunione e mostreremo elementi importanti che ci restituiscono un quadro molto più chiaro sulla pericolosità del luogo in cui lavorava Mario e sulle informazioni di cui era in possesso”, racconta il giornalista di Fanpage Antonio Musella, autore del reportage. La video inchiesta mette in dubbio, inoltre, la versione delle Nazioni Unite e delle autorità colombiane rispetto alla morte di Paciolla: “Abbiamo ricostruito la dinamica del presunto suicidio utilizzando l’intelligenza artificiale, basandoci sugli atti del procedimento giudiziario: basterà vederlo per capire come la tesi del suicidio non sta in piedi”, riferisce Musella. Il lavoro di Fanpage aggiunge ulteriori tasselli negli articolati sforzi di ricerca della verità sulle cause della morte di Mario Paciolla. Negli ultimi anni, alcune inchieste hanno messo in luce le azioni sospette di Christian Thompson, responsabile della sicurezza della Missione Onu a San Vicente del Caguán,dopo aver comunicato il ritrovamento del corpo di Paciolla nella mattina del 15 luglio 2020, Thompson si è premurato di pulire con candeggina l’appartamento dove l’italiano è stato trovato morto, impedendo alla polizia colombiana di accedere all’abitazione. Il comportamento di Thompson rappresenta la più eclatante di una serie di ambiguità che hanno caratterizzato i comportamenti dell’Onu in relazione alla vicenda di Mario Paciolla. La Missione per la verifica degli accordi di pace tra governo colombiano e Farc, di cui Paciolla faceva parte dal 2018, ha scelto fin da subito la via del silenzio, alimentando i sospetti sulle effettive cause del presunto suicidio del cooperante. Altri dubbi sono scaturiti dalle inchieste sul responsabile della Missione Carlos Ruiz Massieu: proveniente da una potente famiglia messicana invischiata in scandali di narcotraffico e corruzione politica, Ruiz Massieu è stato accusato di occultare denunce interne alla Missione e di non rispettare l’imparzialità politica dell’ONU a favore di una vicinanza con il governo conservatore di Iván Duque (2018-2022). Le rivelazioni e gli aggiornamenti sulla vicenda arrivano in un periodo di stallo dell’inchiesta giudiziaria in Italia: dopo due richieste di archiviazione da parte della procura lo scorso 19 marzo il gip di Roma si è riservato di decidere prima di prendere una decisione definitiva. A battersi contro l’archiviazione è stata in primis la famiglia Paciolla spalleggiata dalle consulenti legali, l’associazione di amici e solidali, la federazione nazionale della stampa italiana, le istituzioni locali insieme a scuole, associazioni sportive e alle inchieste giornalistiche indipendenti sia in Italia che in Colombia. Contro il tentativo di derubricare la morte di Mario a un caso di suicidio si è creata una comunità civica capitanata dai genitori Anna e Pino, i quali percorrono lo stivale in lungo e in largo portando avanti la battaglia per la verità e la giustizia La prossima tappa sarà la presentazione del volume Mario Paciolla (Coppola Editore) in programma il 16 maggio al Salone del libro di Torino. Il volume ricostruisce la biografia del cooperante e giornalista e fa parte della collana “Pizzini della Legalità” nata per riciclare le parole rubate dalle organizzazioni criminali. L’impegno civico della famiglia Paciolla ricorda il coraggio delle madri argentine dei desaparecidos e delle buscadoras centroamericane. Come loro, anche Anna e Pino, chiedono verità e giustizia non solo per loro figlio ma appoggiano anche le battaglie di altre famiglie, come quella del ricercatore Giulio Regeni ucciso in Egitto e del cooperante Alberto Trentini detenuto in Venezuela da più di 5 mesi. Turchia. Il Pkk si scioglie. “Erdogan non ha più scuse, risolva la questione curda” di Davide Lerner Il Domani, 13 maggio 2025 La svolta arriva nell’ambito di una trattativa le cui modalità e i cui termini sono ancora avvolti nel mistero: il congresso straordinario della formazione, tenutosi nel quartier generale nel nord dell’Iraq, ha ufficializzato l’epilogo della sua battaglia. La ricercatrice curda Berfin Cockun: “Dopo la caduta di Assad in Siria, c’è un vuoto nella regione che la Turchia deve colmare all’interno dei suoi confini”. “Il dodicesimo congresso del Pkk ha deciso di sciogliere la struttura organizzativa del Pkk... e di porre fine alla lotta armata”. Con questa dichiarazione il movimento lunedì ha annunciato il proprio scioglimento dopo circa 40 anni di conflitto con la Turchia che ha provocato un numero di vittime stimato attorno alle 40mila. La svolta avviene nell’ambito di una trattativa con le autorità di Ankara i cui termini e modalità di applicazione rimangono avvolti nel mistero. Abdullah Öcalan, il leader della formazione armata che ha storicamente propugnato l’indipendenza o la maggiore autonomia regionale curda nel paese, aveva annunciato un cessate il fuoco unilaterale lo scorso 27 febbraio dall’isola di Imrali, dove è rinchiuso in prigione dal 1999. L’iniziativa prendeva le mosse da un appello dell’alleato nazionalista di Erdogan, Devlet Bahçeli. Una nuova fase - “Siamo entrati in una nuova fase degli sforzi per una Turchia libera dal terrorismo”, aveva commentato il presidente turco Erdogan, osservando che “lo spazio democratico” si sarebbe “naturalmente ampliato con la scomparsa della pressione delle armi e del terrorismo”. Ora il congresso straordinario del Pkk, tenutosi nel quartier generale nel nord dell’Iraq, ha ufficializzato l’epilogo della battaglia del movimento. Considerato terrorista da Ue, Stati Uniti e Turchia, il Pkk ha tuttavia trovato sostenitori delle proprie istanze nelle frange progressiste dell’opinione pubblica internazionale e presso svariate cancellerie occidentali. Berfin Coskun, 27 anni, una ricercatrice curda del Kurdish Studies center di Diyarbakir, il capoluogo della regione curda di Turchia, racconta come gli sviluppi abbiano colto alla sprovvista i suoi coetanei nella regione. “Ci aspettavamo l’annuncio di un processo di pace simile a quello del 2013, non un semplice appello al disarmo, questo ci ha lasciato un po’ delusi”, dice alludendo a trattative che, dieci anni fa, sfociarono in una nuova esplosione di violenza. “Per quanto riguarda la mia famiglia, avremmo voluto un gesto forte da parte della Turchia per poterci fidare della buona fede del governo di Ankara. Come la liberazione del leader politico curdo Selahattin Demirta?, in carcere dal 2016”. Diversi analisti hanno rilevato una spaccatura fra, da una parte, i quadri del partito turco filo-curdo Dem, principale tramite fra Erdogan e il Pkk e promotore del processo in corso. E dall’altra la generazione di curdi più giovani che sono perplessi rispetto alla mancanza di una chiara contropartita per la combattiva minoranza che reclama un maggiore riconoscimento nella regione. Malgrado chi sia cresciuto negli ultimi decenni in Turchia si sia assimilato più dei propri genitori e nonni, spesso perdendo la padronanza della lingua curda, il senso di appartenenza identitario rimane molto forte. Da ricercatrice Coskun traccia una divisione tripartita delle reazioni della compagine curda di Turchia, che conta circa 20 milioni di persone. “Secondo i nostri sondaggi un terzo dei curdi è favorevole a un disarmo incondizionato del Pkk, un terzo è favorevole ma soltanto a fronte di un riconoscimento dei diritti linguistici, culturali e politici dei curdi, e infine un terzo pensa che la lotta armata possa ancora portare benefici”, spiega. Secondo Ceylan Akça Cupolo, 39 anni e parlamentare del Dem, il processo potrebbe portare nuove prospettive di riconoscimento per i curdi di Turchia. “Per più di 40 anni, i blocchi politici al potere in Turchia hanno usato il movimento armato come scusa per non avviare alcuna trattativa di pace o dare pari diritti alla comunità curda nel sistema legale e nella costituzione. Lanciando questo appello credo Öcalan li abbia privati di questo pretesto”, dice. Secondo Cupolo chi sostiene non ci sia sufficiente chiarezza sulle concessioni ai curdi sottovaluta il prezzo della continuazione del conflitto”. Quel vuoto da colmare - Sui prossimi passi rimangono svariate incognite. La Turchia considera il Ypg siriano - la formazione curda sostenuta in passato dagli Stati Uniti che si è scontrata duramente con Ankara negli ultimi anni - alla stregua di una diretta emanazione del Pkk. Ma non è chiaro se il disarmo riguardi anche l’appendice siriana, rientrando nell’ambito della riunificazione delle milizie del paese in un esercito nazionale sotto il governo del premier Al-Jolani, o soltanto la compagine turca. Non è chiaro nemmeno se dopo un quarto di secolo in prigione Ocalan sia ancora in grado di imporre la propria volontà sui militanti attivi sul terreno in Turchia. Gli sviluppi in Siria, con la caduta del regime di Bashar Al-Assad lo scorso dicembre, sono considerati il principale fattore ad aver provocato i negoziati fra Pkk e Turchia. “In questo momento c’è un vuoto di potere nella regione che la Turchia vuole colmare”, dice la ricercatrice Coskun. “Per poterlo fare però deve fare i conti con la questione curda, ancora irrisolta, all’interno dei propri confini”.