Carceri, soluzione Nordio: un civilista a capo del Dap di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 12 maggio 2025 Il tam tam di via Arenula dà per imminente la nomina del nuovo direttore del Dap, il dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, ma non sarà la facente funzioni Lina Di Domenico, vice capo Dap fino alle dimissioni, 5 mesi fa, di Giovanni Russo. Il nome che circola, secondo quanto ci risulta, è quello di Stefano Carmine De Michele, attuale direttore generale delle risorse materiali e delle tecnologie del ministero della Giustizia. Scelta che, se confermata, lascia perplessi gli addetti ai lavori dato che non si conoscono sue esperienze legate al carcere. De Michele, prima di arrivare in via Arenula, nel 2024, è stato presidente del tribunale di Tivoli e prima ancora è stato presidente di sezione non penale, ma civile, del tribunale di Roma. Di Domenico è giudice di Sorveglianza ed è stata al Dap finora, ma sconta un gesto di analfabetismo istituzionale del ministro della Giustizia Carlo Nordio: scelta lei come successore di Russo, invece di informare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui spetta la firma del decreto di nomina, in quanto capo delle Forze Armate, Nordio ha investito direttamente il Csm, per la conferma del fuori ruolo della giudice. Uno sgarbo incredibile se si pensa che Nordio è stato magistrato per quarant’anni, come ama sempre ricordare, e la capa di Gabinetto, Giusi Bartolozzi, è una toga anche lei. È il 20 dicembre quando il ministro chiede al Csm il fuori ruolo come direttrice del Dap di Lina Di Domenico. L’8 gennaio il plenum approva la delibera, ma tutto si blocca perché c’è il no del Quirinale. Dopo l’affronto subito, il presidente Mattarella non firma e chiede di trovare un altro candidato. Che la misura sia colma lo fa capire da segnali sotto traccia, persino invisibili ai non addetti ai lavori, ma forti, inequivocabili per i destinatari. Mattarella a marzo non va alla festa della polizia penitenziaria in piazza del Popolo, a Roma. Non vuole sedere accanto al ministro Nordio e al sottosegretario, con delega al Dap, Andrea Del Mastro. Il presidente manda una lettera, che viene letta in apertura di cerimonia, in cui parla dell’importanza del lavoro degli agenti. Non solo, come rivelato dal Fatto Quotidiano, per la prima volta non c’è stata neppure la Guardia d’onore al Quirinale con agenti della polizia penitenziaria, nella giornata della festa del Corpo. C’era stato l’addestramento degli agenti prescelti, così come ogni anno, ma non è arrivato il via libera del Quirinale. Una mortificazione per la polizia penitenziaria che ha pagato - e di questo ne è consapevole - i modi di agire dei vertici del ministero. Ne paga le conseguenze anche Lina Di Domenico. Il ministro Nordio e il sottosegretario Del Mastro hanno puntato i piedi finora ma il Quirinale ha tenuto il punto. E dopo mesi di braccio di ferro è spuntato il nome interno a via Arenula di Stefano Carmine De Michele, non proprio un esperto di ordinamento penitenziario. Vedremo se sarà nominato ufficialmente. L’Italia è al terzo posto per sovraffollamento carcerario in Europa: a qualcuno interessa? di David Allegranti La Nazione, 12 maggio 2025 In un Paese in cui l’informazione è molto attenta al Vaticano e al Papa, con decine di pagine quotidiane dedicate alla morte di papa Francesco e alla scelta del suo successore, Leone XIV, ci sarà qualcuno che userà la stessa cura del Pontefice appena scomparso nei confronti dei detenuti? La domanda, invero retorica, andrebbe rivolta (anche) al Governo italiano. Specie dopo aver letto i dati recenti di Eurostat sul tasso di sovraffollamento delle carceri europee: l’Italia è l’Atalanta del sovraffollamento carcerario, al terzo posto. Nel 2023 il numero di detenuti presenti nelle carceri dell’Unione europea - in totale 499 mila persone - è aumentato del 3,2 per cento. C’erano 111 detenuti ogni 100.000 abitanti, leggermente di più rispetto al 2022, quando il tasso era di 108. Nel periodo tra il 1993 e il 2023, il numero più alto di detenuti è stato registrato nel 2012 (553.000 detenuti). Dopo un periodo di stabilità tra il 2017 e il 2019, si è verificata una diminuzione del 6,6% nel 2020 (463.000 detenuti), seguita da un aumento complessivo del 7,7% tra il 2021 e il 2023. Confrontando i Paesi dell’Ue, i tassi più alti di detenzione per 100.000 abitanti nel 2023 sono stati registrati in Polonia (203), seguita da Ungheria (187) e Repubblica Ceca (181). I tassi più bassi si sono avuti in Finlandia (53), nei Paesi Bassi (66) e in Slovenia (68). Sono 13 Paesi i dell’Ue ad avere carceri sovraffollate. Il sovraffollamento più elevato è stato osservato a Cipro, con un tasso di occupazione del 226,2%, seguito dalla Francia (122,9%) e dall’Italia (119,1%). I tassi di occupazione più bassi sono stati registrati in Estonia (56,2%), Lussemburgo (60,8%) e Bulgaria (67,7%). L’Italia dunque ha conquistato il podio delle carceri più sovraffollate. Un record che è stato rimarcato nei giorni scorsi dalla relazione della Corte dei conti su “Infrastrutture e digitalizzazione: Piano Carceri”. “A dieci anni dalla conclusione della gestione commissariale, l’analisi sullo stato di attuazione del “Piano Carceri” evidenzia situazioni critiche di sovraffollamento carcerario che - soprattutto in Lombardia, Puglia, Campania, Lazio, Veneto e Sicilia - assumono contorni ai limiti dell’emergenza, anche alla luce dei dati del ministero della Giustizia”, ha scritto la Corte dei Conti. Accanto alla necessità legata alla creazione di nuovi posti detentivi emergono la mancata realizzazione di numerosi interventi e l’urgenza di completare quelli di manutenzione straordinaria già avviati, per migliorare le condizioni ambientali, igienico-sanitarie e di trattamento all’interno degli istituti. Sono tutte questioni però che il Governo italiano non riesce ad affrontare, forse non vuole nemmeno risolvere fino in fondo. È una questione di cultura giuridica. Lo dimostra l’uso e l’abuso del diritto penale, certificato dal dl Sicurezza che introduce nuovi reati (come il delitto di rivolta in carcere, fortemente criticato dai giuristi). Lo dimostra la vicenda dell’esternalizzazione dei giovani detenuti presenti negli Istituti Penali per Minorenni (affollati, adesso, come il resto del carcere), nel carcere della Dozza. “Il Governo prosegue sulla ‘non soluzione’ dei trasferimenti alla sezione giovani adulti della Dozza: nei prossimi giorni sono previsti 25 nuovi ingressi”, ha detto il vicecapogruppo di Avs alla Camera, Marco Grimaldi, che ha presentato un’interrogazione sul tema: “Per noi la sezione giovani adulti va chiusa: dobbiamo tenere i ragazzi fuori dalle carceri, con tutte le misure alternative che abbiamo a disposizione”. Per la verità, la questione carceraria - in un Paese di politici molto attenti alle vicende vaticane - interessa poco anche l’opposizione. Basta vedere la scarsa attenzione ricevuta dalla proposta di legge “Zuncheddu e altri” promossa dal Partito Radicale. Ha firmato solo il 5 per cento e le firme necessarie sono 50mila. La proposta punta a garantire una provvisionale economica a chi alla fine di un processo è stato assolto. “Ci sono persone che si sono viste distruggere l’esistenza: la giustizia, in qualche modo, ha sottratto loro anni di vita e non solo perché sono state in carcere, ma a volte anche per poter sopravvivere dopo l’errore giudiziario o l’ingiusta detenzione. La proposta prevede un assegno che parta dal momento dell’assoluzione fino alla sentenza di risarcimento del danno”, dice il Partito Radicale presentando la proposta che porta il nome di Beniamino Zuncheddu, che ha trascorso quasi 33 anni in carcere da innocente: “Io che ho vissuto da vicino la storia e la vicenda di Beniamino”, ha spiegato Irene Testa, tesoriera del Partito Radicale e Garante dei diritti delle persone private della libertà personale in Sardegna, “mi sono resa conto che da quando è stato liberato, cioè un anno fa, per Beniamino non è cambiato niente. Sì, come dice lui, si è aperta la porta del carcere e quindi adesso è libero, ma fondamentalmente non c’è stata nessuna forma di sostegno da parte delle istituzioni. Quindi Beniamino, dopo 33 anni, è uscito dal carcere ma continua a dover chiedere alla famiglia un aiuto per poter andare avanti. Continua a umiliarsi”. Beniamino Zuncheddu è “una persona cui è stata sottratta e sequestrata la vita”, ha passato tanti anni di carcere da innocente, ma ora che è uscito “si ritrova costretto a dover pietire e chiedere aiuto per poter sopravvivere. Quindi questa proposta si inserisce in un vuoto normativo, nel quale il legislatore non ha proprio previsto niente: dal momento dell’assoluzione dell’imputato fino alla sentenza di risarcimento danni, non esiste una forma di sostentamento per chi è stato assolto”. Fra una notizia e l’altra sul soglio pontificio, si spera in una breve in cronaca. “Minori in carceri per adulti?”. Una nota della Società Italiana di Criminologia criminologiaitaliana.it, 12 maggio 2025 La Società Italiana di Criminologia rileva che è stata introdotta nella prassi dei collocamenti dei detenuti minorenni in carcere una rilevante eccezione al principio generale per cui i minori devono essere separati dagli adulti: una nota del Capo del Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità dello scorso 19 marzo 2025 suggerisce infatti, sfruttando il c.d. “decreto Caivano”, la recente modifica molto afflittiva del sistema della giustizia minorile, di trasferire soggetti detenuti in Istituto Penale Minorile presso Istituti penitenziari per adulti. La stessa sembra voler tranquillizzare sulle finalità di tali trasferimenti, sottolineandone la natura provvisoria e garantendo il rispetto dei principi fondamentali posti alla base dell’esecuzione penale minorile: la separazione dagli adulti, la gestione da parte di personale non in divisa o comunque afferente al Dipartimento della giustizia minorile e la centralità del trattamento. Tuttavia, una lettura attenta di tale documento e, più in generale, dei numeri dei minori in istituto penale, e degli accadimenti che caratterizzano l’attuale situazione, non può non mettere in luce il grave vulnus che il sistema penale minorile sta subendo: Istituti Minorili strapieni, e minori e giovani adulti etichettati come soggetti ormai irrecuperabili, per i quali le uniche soluzioni all’incapacità di gestione paiono essere il precoce inserimento negli istituti per adulti, la mancanza di prospettive trattamentali e, più di tutto, la mancanza di ascolto. Ascolto che potrebbe invece fare la differenza: parlandosi - autori di reato e operatori - potrebbero ragionare su come affrontare le difficoltà di un sistema ormai snaturato rispetto alla primigenia configurazione che l’aveva reso un modello a livello europeo; e questo potrebbe costituire un punto di partenza, comunque in grado di evitare irreversibili (soprattutto dal punto di vista delle conseguenze) spostamenti come quelli adesso progettati. Il provvedimento citato è ancor meno comprensibile se si considera che l’intransigenza degli adulti verso i più giovani non pare trovare giustificazione in un eclatante aumento delle denunce nei confronti di soggetti minori, come riferito dalle recenti relazioni delle Procure minorili e dal recente rapporto di Antigone. L’applicazione del decreto Caivano, consentendo di trasferire più facilmente giovani adulti in istituti per adulti sulla base di ritenute difficoltà gestionali di alcuni di essi da parte degli operatori penitenziari, rischia, in definitiva, di dare loro la patente di “cattivi”, di “criminali difficili da gestire”: siamo sicuri che questo sia quello di cui hanno bisogno? Senza scomodare palesi connessioni con le note teorie dell’etichettamento, a noi sembra evidente che attribuire amministrativamente il certificato di “duro” a un ragazzo che sta compiendo un percorso penale crei un concreto ostacolo a ogni sua eventuale decisione di modificare il proprio atteggiamento deviante. Non stiamo forse rinunciando, con questi interventi, all’idea che questi ragazzi possano davvero cambiare strada? Che il mondo dei giovani stia attraversando un momento particolarmente complesso, dentro e fuori le mura degli Istituti Penali Minorili, pare evidente; cercare una soluzione ricorrendo a un sistema che ha già dimostrato la propria assoluta fallacia, il sistema dell’esecuzione penale degli adulti, costituisce un grave errore. Si tratta, in sostanza, dell’ennesimo esempio di violazione, in questo momento storico, dell’art. 27 comma III della Costituzione da parte dello Stato italiano: la pena carceraria attuale è contraria al senso di umanità, e tende non alla rieducazione, ma alla neutralizzazione del condannato. Gli operatori del trattamento sono allo sbando, e i suicidi stanno aumentando anche quest’anno al di là di ogni previsione. Un Paese civile non può certo tollerare la violazione dei diritti dei detenuti e anche di chi presta servizio a diverso titolo negli istituti penitenziari. Se collochiamo anche i minori nelle carceri per adulti la situazione peggiorerà ancora: la Società Italiana di Criminologia si oppone fortemente a tale prospettiva, non degna del nostro Paese e delle nostre tradizioni. Contrordine: “Richiudete le celle” di Francesco De Masi Ristretti Orizzonti, 12 maggio 2025 Non mi arrendo, ma sono stanco. Il carcere non può tornare a essere un luogo di morte. Di fronte alla recente decisione del ministro della Giustizia Carlo Nordio, spinta con forza dall’onorevole Andrea Delmastro, di reintrodurre la chiusura generalizzata delle celle, mi sento in dovere di alzare ancora una volta la voce. Perché chi conosce il carcere dal di dentro - non da una poltrona o da una conferenza stampa - sa bene che ogni serratura chiusa in più può significare una vita in meno. Con questo provvedimento siamo tornati indietro di vent’anni. Anni in cui, con fatica e senza armi, ma solo con le parole e con il senso profondo di umanità, ho cercato di contribuire a rendere il carcere un luogo almeno vivibile, dove fosse possibile rieducarsi, lavorare su sé stessi, pensare a un dopo. Ho combattuto da detenuto, ma anche da uomo libero nel pensiero. Con altri, ho provato a far valere i principi della nostra Costituzione, quella che dice che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Oggi invece il segnale che arriva è chiaro: tornare a chiudere, isolare, soffocare. E chi conosce il carcere sa che così si muore. Letteralmente. Perché il carcere, quando viene trasformato in puro contenimento, diventa luogo di disperazione e di morte. Io le ho viste, quelle morti. Troppe. Ho provato a salvarne alcune. Qualcuna ci sono riuscito a strapparla al buio. Ma troppe altre no. E quel dolore non passa mai. Ora sono stanco. Dopo più di vent’anni vissuti là dentro, con le mie lotte, le mie delusioni e le mie speranze, mi sento consumato. Mi sento vecchio. Ma non vinto. Non posso più sopportare il peso delle promesse tradite, delle parole gettate al vento, delle vite spezzate nel silenzio delle celle. Una cosa però è certa: non mi arrenderò. Neanche se questa mia voce dovesse costarmi cara. Neanche se qualcuno pensasse di zittirmi riportandomi dentro. Perché oggi, più che mai, serve dire la verità: la giustizia sta diventando vendetta. E lo Stato sta venendo meno proprio là dove dovrebbe dare il suo esempio più alto: nel trattamento di chi ha sbagliato. Io non cerco scuse per gli errori. Ma chiedo giustizia, non vendetta. E continuerò a farlo, finché avrò fiato. Mamme detenute: oltre la libertà, manca la quotidianità con i figli di Roberta Barbi vaticannews.va, 12 maggio 2025 La Chiesa dedica il mese di maggio alla Madonna, la madre di tutte le madri; la seconda domenica del mese in tutto il mondo si celebra la Festa della mamma. Per le mamme ristrette la condanna è come se fosse doppia: oltre alla privazione della libertà, anche quella dell’amore più grande. La testimonianza di Bruna, ex detenuta: “Il distacco dai figli uccide”. I momenti di festa in carcere, per le persone private della libertà, sono i più difficili: l’assenza della famiglia, il vuoto degli affetti mentre il resto del mondo si ritrova per festeggiare, si fanno sentire ancora di più. Non fa eccezione la Festa della mamma, oggi ricordata anche da Papa Leone XIV nel Regina Caeli, in un contesto dove già per le donne ristrette la lontananza dai figli è un dramma che si rinnova quotidianamente: “In carcere il distacco è la quotidianità - racconta ai media vaticani Bruna Arceri, ex detenuta del carcere romano di Rebibbia - i genitori, i fratelli, tutti vengono a trovarti, d’accordo, ma la mancanza della quotidianità con i figli, l’impossibilità di vederli crescere un giorno dopo l’altro uccide”. “Ai figli va sempre detta la verità” - Bruna è arrivata a questa convinzione con il tempo, e sperimentando sulla propria pelle a cosa possano portare le bugie: “Quando sono entrata in carcere avevo promesso a me stessa che mai e poi mai mio figlio avrebbe messo piede in quel luogo - rivela - ma dopo un mese mi ha chiamato il padre dicendo che mio figlio doveva vedermi, doveva vedere che stavo bene e che c’ero ancora”. Bruna aveva detto a suo figlio, allora ancora piccolo, che doveva andare via perché stava male, ma nella mente di un bambino questo pensiero si è trasformato in paura: “Mamma muore e io non l’ho vista”, diceva. Ricostruire un rapporto - “In buona fede si fanno errori madornali, mentre ai figli bisogna sempre dire la verità, altrimenti poi se ne pagano le conseguenze”, afferma Bruna che a quel punto, sostenuta da un supporto psicologico esterno come pure suo figlio, inizia a incontrarlo tutte le settimane. “Per le mamme con figli che hanno meno di 14 anni - riferisce - una volta al mese c’è anche la possibilità di un incontro più lungo, perfino di quattro o sei ore, in cui si può cucinare e mangiare insieme; nella bella stagione lo si fa all’aperto, nell’area verde”. Ricostruire se stesse - In carcere Bruna fa il suo percorso che è fatto anche di teatro: entra a far parte delle Donne del Muro Alto, in cui recita ancora perché la compagnia include ex detenute e donne in esecuzione penale esterna. Le sue colleghe che sono ancora in reclusione il prossimo 16 maggio porteranno in scena a Rebibbia il nuovo spettacolo tratto dall’opera di William Shakespeare Bisbetica domata, ma non troppo, studio 1. Come sempre è un lavoro corale, che tra i tanti temi affronta anche quello della solidarietà femminile: “Nonostante le diversità linguistiche e culturali, quando si parla di figli, le mamme in carcere sono solidali tra loro, è un dolore comune che si condivide insieme”, ricorda Bruna. Considerare anche il dolore dei figli - Quando si parla del dolore della madri detenute, però, si deve ricordare che dall’altra parte c’è il dolore, uguale e contrario, del figlio che cresce da solo, senza la presenza costante più importante: “Mio figlio non mi diceva molto della sua sofferenza”, racconta Bruna del periodo di quando era detenuta, ma ci sono circostante in cui i gesti valgono più delle parole: “La prima volta che sono uscita in permesso premio e sono rimasta sei giorni a casa, mio figlio non si staccava più da me, non andava neppure a scuola”. Prima e dopo - “Quando sono arrivata al fine pena e sono tornata, abbiamo avuto uno scontro - racconta ancora Bruna - era come se mi rinfacciasse tutto il periodo in cui non c’ero stata. La prima cosa, quando sono uscita e l’ho visto, non è stata una comunicazione verbale, è stato un abbraccio”, a conferma che ci sono occasioni in cui i gesti valgono molto più delle parole. Oggi Bruna è una donna libera e suo figlio è grande, da qualche mese è diventato maggiorenne, ma la Festa della mamma la trascorrono ancora insieme: “Sto con lui in questa giornata, abbiamo un rapporto splendido…”, dice. E poi si commuove. Dl Sicurezza tra repressione e propaganda: cosa cambia per carceri e ordine pubblico di Simona Musco Il Dubbio, 12 maggio 2025 Il decreto (39 articoli) introduce nuovi reati, aggrava pene esistenti e prevede misure contro terrorismo, criminalità, occupazioni abusive e disordini pubblici. Il Governo ha approvato un nuovo decreto Sicurezza, scatenando forti polemiche per l’adozione della forma d’urgenza, considerata da molti una forzatura istituzionale. La premier Giorgia Meloni ha difeso la scelta come necessaria per onorare gli impegni presi con i cittadini e per rafforzare le tutele verso le forze dell’ordine. Il decreto (39 articoli) introduce nuovi reati, aggrava pene esistenti e prevede misure contro terrorismo, criminalità, occupazioni abusive e disordini pubblici. Le opposizioni e alcune associazioni parlano di norme sproporzionate, repressive e di dubbia efficacia, che rischiano di ledere diritti civili e aggravare il sovraffollamento carcerario. Modificate le condizioni di custodia cautelare per le donne incinte o con figli minori di un anno: non sarà più una possibilità ma un obbligo l’assegnazione agli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri), salvo gravi rischi per il minore. Tuttavia, il giudice potrà disporre misure diverse se ritiene che l’interesse del bambino sia compromesso da gravi condotte materne. Il Governo ha dichiarato che la norma vuole evitare l’abuso della maternità per eludere la giustizia, citando il caso delle borseggiatrici seriali. Le opposizioni e associazioni come Antigone denunciano però che la misura rischia di violare i diritti dei bambini e di non garantire condizioni adeguate nei pochi Icam disponibili, mettendo in discussione i principi di umanità e tutela dell’infanzia nel sistema penitenziario. Viene introdotto il reato di detenzione di materiale con finalità terroristiche (2-6 anni), punendo chi possiede istruzioni per costruire ordigni, armi, o tecniche per attentati. Inasprita anche la punibilità per la diffusione di questi materiali. Pene più severe per violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale, con aggravanti se le vittime sono agenti in servizio o se gli atti mirano a ostacolare opere pubbliche strategiche (come Tav e Ponte sullo Stretto). Istituito un nuovo reato per lesioni contro agenti durante il servizio. Introdotto l’uso delle bodycam in contesti sensibili (manifestazioni, stazioni), e consentito il porto d’armi private fuori servizio. Lo Stato potrà anticipare fino a 10.000 euro per fase processuale in favore di agenti, militari e vigili del fuoco indagati per fatti di servizio, salvo dolo o negligenza. Danneggiamento o imbrattamento di beni pubblici: pene da 6 mesi a 1,5 anni, più alte in caso di recidiva. Blocco stradale trasformato in reato (pena base: 1 mese e multa fino a 300 euro; se in gruppo, 6 mesi-2 anni). Patente sospesa da 15 a 30 giorni per chi viola prescrizioni della polizia stradale, in caso di recidiva. Il decreto introduce pene più severe per chi incita alla disobbedienza nelle carceri. Nasce il reato di “rivolta in istituto penitenziario”, applicabile a gruppi di almeno tre persone che usano violenza o resistenza contro l’autorità. Le pene aumentano se sono usate armi o vi sono lesioni o decessi. Una disposizione simile si applica anche ai Centri di permanenza per il rimpatrio dei migranti. Forti critiche sono arrivate per l’inclusione anche della resistenza passiva - come rifiutarsi di rientrare in cella o sedersi per terra durante una protesta - che, pur non implicando violenza fisica, viene punita alla stregua di atti più gravi. Secondo le associazioni per i diritti umani, questa equiparazione rischia di criminalizzare forme legittime e non violente di dissenso. Per l’occupazione abusiva di immobili, previste pene da 2 a 7 anni. È introdotta una procedura accelerata per lo sgombero se si tratta dell’unica abitazione del denunciante. Inserita anche una nuova fattispecie di truffa aggravata ai danni di anziani e persone vulnerabili (2-6 anni di reclusione), con possibilità di arresto in flagranza. Inasprite le pene per chi costringe minori sotto i 16 anni all’accattonaggio, soprattutto se con minacce o violenza. Il decreto promuove l’inclusione lavorativa dei detenuti, coinvolgendo anche enti del Terzo settore. Estesa la qualifica di “persona svantaggiata” anche a detenuti e ex degenti degli ospedali psichiatrici giudiziari. I cittadini extra-Ue potranno acquistare SIM mostrando un documento d’identità, senza necessità del permesso di soggiorno, semplificando così l’accesso ai servizi e favorendo una maggiore integrazione. Punito con per da uno a 3 anni il commercio di cannabis light con Thc oltre i limiti di legge. Rafforzati i controlli e introdotte sanzioni per i negozi non conformi: confisca della merce e multe severe. Adolescenti a mano armata di Riccardo Di Blasi orticalab.it, 12 maggio 2025 In un anno gli omicidi attribuiti a minori sono triplicati. In Campania il 72% dei delitti è commesso da under 18. Gli Ipm della regione sono sovraffollati come le carceri degli adulti: “Emerge il profilo di una criminalità minorile arrogante, aggressiva, senza regole e persino pronta a sfidare la delinquenza organizzata”. In Campania degli oltre 7.500 detenuti, quasi 1.800 sono tossicodipendenti, 900 stranieri, 350 donne. Poco meno di 400 invece sono stati i minori reclusi presso gli Ipm di Nisida e Airola. Le criticità denunciate sono sempre le stesse: oltre al sovraffollamento, la carenza di personale sanitario, di assistenza sanitaria e di personale di polizia penitenziaria. Criticità che sono spesso alla base di atti di autolesionismo, risse, aggressioni e rivolte. I dati relativi alla criminalità adolescenziale sono forse quelli più drammatici e preoccupanti. Il rapporto del Garante evidenzia che quella dei minori e degli adolescenti è una condizione che nel nostro Paese sta rapidamente mutando, purtroppo in negativo. La percentuale di minorenni autori di un omicidio in Italia è quasi triplicata in un anno. I dati delle forze dell’ordine indicano che nel 2024 l’incidenza di quelli commessi dai minori si attesta all’11% del totale degli omicidi rilevati, a fronte del 4% dell’anno precedente. Non solo: dai numeri emerge anche che è raddoppiata la percentuale di minorenni uccisi. Nel 2024 è stata del 7%, mentre nel 2023 era del 3%. Muta lo scenario di riferimento, muta il quadro dei reati e muta anche la condizione dei ragazzi negli Istituti Penali Minorili. Sovraffollamento, tensioni interne, proteste, uso smodato di psicofarmaci, trasferimenti punitivi: “Non avevamo mai visto nulla di simile nel sistema penitenziario minorile negli ultimi 30 anni”, scrive il Garante nel dossier. Drammatico il dato della Campania. Tra i principali reati commessi, si registra un aumento degli omicidi volontari che da 28 del 2023 salgono a 44 del 2024. Aumentano, inoltre, i reati connessi all’utilizzo di armi, passati da 38 a 68. In aumento anche i reati di lesioni personali che salgono a quota 506, di cui 325 interessano la fascia di età che va dai 14 ai 17 anni. Crescono, infine, i reati contro il patrimonio, in particolare le rapine, più che raddoppiate. A quelli finiti dietro le sbarre, vanno aggiunti gli adolescenti presi in carico dai Servizi Sociali Minorili. Sono oltre 2000, di cui il 9% stranieri, il 5% donne. Quello che desta maggiore preoccupazione è che in Campania, su un totale di 2692 delitti, il 72% sono stati perpetuati da minori. La conclusione del Garante dovrebbe interrogare tutti, società civile e istituzioni: “Emerge il profilo di una criminalità minorile arrogante, aggressiva, fuoriuscita da qualsiasi regola e contesto e che non si fa più alcuno scrupolo di sfidare persino il mondo della delinquenza degli adulti attraverso l’uso delle armi da sparo e degli omicidi. Sfidare sé stessi e il mondo degli adulti sembra essere il loro unico obiettivo e questo produce una criminalità minorile che fuoriesce dai canoni classici attraverso i quali eravamo soliti leggerla. L’utilizzo della rete ha fatto saltare ogni intermediazione sia istituzionale che delinquenziale, mettendo fuori ruolo sia la scuola che le famiglie”. “I ragazzi spesso non si rendono conto di quello che le loro azioni possono produrre” di Giuseppe Pollicelli La Verità, 12 maggio 2025 Lo scrittore Aurelio Picca: “Una volta anche i violenti avevano delle regole. Tra i duellanti c’era un reciproco riconoscimento, l’agguato era l’eccezione. Ora non ci si rende conto delle azioni”. “Quando ero ragazzo io, negli anni Settanta, ma direi ancora fino quando il mondo non si è definitivamente globalizzato, quindi intorno alla metà degli anni Novanta, non credo ci fosse meno violenza giovanile di quanta ve ne sia attualmente. Aveva però una qualità diversa”. Aurelio Picca, nato 68 anni fa a Velletri, cittadina nei pressi dei Castelli romani, è uno scrittore che nei suoi romanzi si è occupato molto di violenza, basti pensare a “Il più grande criminale di Roma è stato amico mio”, uscito nel 2020 per Bompiani, in cui si racconta l’apprendistato delinquenziale di un giovane che sceglie come propria guida e punto di riferimento Laudovino De Sanctis, detto Lallo lo zoppo, uno dei banditi più feroci (è morto in carcere a Torino, non ancora settantenne, nel 2004) nella storia criminale di Roma. “Bullismo e prepotenza erano pane quotidiano già allora, ci mancherebbe”, prosegue Picca, “ma costituivano un qualcosa rispetto a cui, tutti quanti, si era maggiormente preparati: come se si trattasse di una prova da affrontare e possibilmente superare per diventare grandi, per maturare”. Lei l’ha sperimentata anche direttamente, da giovane, la violenza? “Certo, ma ribadisco che vivere la violenza, allora, non significava necessariamente subirla o attuarla su di un piano fisico. Questo, anzi, avveniva abbastanza di rado. Ricordo che una volta, avrò avuto 16 anni, un tizio che faceva il musicista e girava a bordo di una moto Kawasaki 750 aveva preso a infastidire la mia ragazza dell’epoca. Io sono andato da lui e, a brutto muso, gli ho detto che doveva farla finita. Lì potevano succedere due cose: una è che mi gonfiasse di botte; l’altra, quella che è effettivamente capitata, è che percepisse una mia qualche “autorevolezza” in grado di disinnescare il suo machismo da bulletto. E questo è stato possibile perché il tipo mi ha avvertito come un suo “simile”: ossia c’era tra di noi, pur con tutto quello che ci distingueva, un codice comune, una possibilità di comunicazione”. Una sorta di reciproco riconoscimento... “Proprio così. Ed era sottintesa l’idea che fra di noi potesse e dovesse svolgersi un duello, per quanto sublimato. Se si ragiona nei termini del duello, della sfida, è implicito che vengano accettate - e pertanto che si rispettino delle regole. Regole che, in qualche modo, hanno a che fare con il concetto di onore. Mettendo da parte certe degenerazioni che si verificavano quando subentrava l’alibi della politica, la modalità dell’agguato - specie se attuato da più persone - era sostanzialmente inconcepibile, diversamente da oggi. C’è poi un’altra differenza rilevante”. Quale? “La violenza era modellata anche da un rapporto che vorrei definire “muscolare” con la realtà. Ma, attenzione, parlo dei muscoli di chi non poteva esimersi dal mettere la fatica al centro della propria vita, come i macellai o i garzoni di bottega. Il fatto che una quota spesso non piccola di violenza fosse presente nel lavoro, consentiva una valida gestione e un controllo della propria forza e del proprio corpo. Pensiamo alla diversità dei fisici degli atleti di 50 o 40 anni fa rispetto a quelli odierni: dei calciatori, per esempio. Oggi i muscoli si sviluppano in palestra, facendo i pesi e magari con l’ausilio di estrogeni o altro, per cui la verità profonda della violenza e di tutto ciò che essa comporta è come evaporata. Un ragazzo che lavorava in una macelleria non si vedeva mica arrivare i quarti delle bestie già sezionati industrialmente, doveva compiere una violenza sulla carcassa dell’animale e per farlo doveva ricorrere, in modo sapiente, alle sue energie fisiche naturali. La mutazione fondamentale è stata proprio questa: il passaggio da una violenza per così dire naturale a una “perversa”, in quanto irreale”. I ragazzi che oggi aggrediscono un coetaneo, talvolta fino a ucciderlo, non sarebbero dunque in grado di rendersi conto di quello che le loro azioni possono produrre... “Precisamente. E la provenienza dei ragazzi non ha secondo me un grande peso: è chiaro che in ogni città vi sono zone più problematiche di altre, ma quest’attitudine alla violenza inconsapevole è trasversale e può riguardare tanto chi vive in periferia quanto chi vive nel cosiddetto centro. La distinzione fra centro e periferia, peraltro, ha perso quasi del tutto di significato, nel senso che da un punto di vista sociale - aspirazioni, gusti, modelli, comportamenti - centro e periferia si somigliano ormai in maniera impressionante, sono pressoché intercambiabili”. Vita da maranza a Milano: “Il sabato dormo e non giro con le lame, il lunedì lavoro in nero” di Andrea Galli Corriere della Sera, 12 maggio 2025 Dallo sport ai laboratori di arte, viaggio nella coop sociale della periferia di Milano che aiuta (anche) gli adolescenti in difficoltà: “Ma servono subito mediatori esperti della strada, le nozioni non bastano, le università lo capiscano”. Il presidente Silvio Tursi possiede un approccio realistica, laico ed entusiasta alla vita, di fatica, ma sì, insomma, di cazzimma & garra, altrimenti non governerebbe una struttura del genere e un programma di interventi che a sentirli elencare ci si perde, sul serio. Quante ne fanno, all’interno come all’esterno, il corso di italiano per stranieri organizzato in un bar all’angolo di via Padova e il corso di arabo per piccoli di origini arabe che non conoscono la lingua materna e i genitori vorrebbero che la imparassero, i laboratori di pittura e di scultura e le conseguenti mostre al Trotter compresa l’ultima organizzata da una tenace donna venezuelana, l’assistenza pediatrica nell’ambulatorio apposta creato con tre medici in pensione e di un quarto, un giovane in attività; e ancora la materna per le famiglie appena sbarcate in massima parte provenienti dalle nazioni del centro dell’Africa, la pet theraphy con le galline, certo, certo, certo, le galline. Ne parleremo ancora a breve, di tutto questo, prima avevamo un altro passaggio da fare. Sempre in periferia, nel parco Trevi, collocato nell’omonima via, dove la ferrovia sopraelevata sul terrapieno divide i quartieri di Dergano e Affori - adesso, di primo pomeriggio, transitano treni merci infiniti che portano container colorati attraverso i palazzi di Milano con un colossale fracasso. Dei residenti ci han segnalato bande di maranza che in questo parco intimidiscono, litigano con altri adolescenti, se le danno. Magari han ragione, magari esagerano, magari inventano, magari ce l’hanno a prescindere con gli stranieri, perché no, capita anche questo. Ciò premesso, proseguiamo. Ed eccoci. Il parco. Panchine sotto gli alberi numerosi e panchine intorno al perimetro del campo da pallacanestro, il fondo irregolare, ondulato, poi i vialetti e gli spiazzi d’erba, la cacca dei cani non raccolta e nascosta che si attacca alle scarpe, bici elettriche e monopattini elettrici di quelli a noleggio buttati per terra, vicino a una panchina c’è della carta stagnola che potrebbe esser servita per fumarsi un po’ di crack, intanto due giovani si accarezzano profittando del sole uscito d’improvviso, un altro ragazzo si vede un film sul cellulare seduto nell’erba, dal cellulare si sentono rumori di sparatorie. “Di domenica dormo” - Dopodiché, se la descrizione dei componenti delle presunte bande è esatta, allora coincide con questi tre ragazzini. La prima reazione è di fastidio pensando d’avere a che fare con degli sbirri; il biglietto da visita un po’ li convince, ma soltanto un po’. Uno è tunisino, gli altri due marocchini, il primo non studia, ha smesso dopo la terza media, i restanti due, che sono nati all’ospedale dei bambini Buzzi, frequentano un istituto tecnico del quartiere Niguarda. Il primo, che è l’unico che accetta di parlare, forse in quanto capetto, o portavoce, è nato nell’area di Tunisi, la geografia esatta si chiama Ettadhamen, si tratta di un luogo popolare, d’immigrazione interna; è venuto in Italia coi genitori quando aveva tre anni, ora abita con la mamma, il padre è tornato in Tunisia, ha messo su un’altra famiglia. Alto sul metro e ottanta, un filo di barba, occhiali da sole Armani, smunto. “Sono uno tranquillo, anche i miei amici sono tranquilli. Se senti gli adulti, i miei connazionali ti parlano male dei marocchini e viceversa. Noi ce ne freghiamo. Abito a Villapizzone. L’altra volta un’anziana ha dato la colpa a mia mamma, avevano buttato una bottiglia di vetro nei rifiuti della plastica: nemmeno usiamo le bottiglie di plastica, beviamo dal rubinetto. Mi sono arrabbiato con mia mamma, non ha protestato e non la ha urlato dietro. Vado a dare una mano a un signore che ripara le moto. Alla Bovisa, è un sudamericano. Vado d’accordo con tutti, l’ho detto. Non mi paga sempre, a volte mi dà soldi in contanti. Non fumo e neanche i miei amici fumano. No, il sabato non vado dove ci sono i grattacieli, il sabato dormo. E se non dormo, non vado in giro a fare le rapine. Sono gli egiziani che fanno casino”. Gli avvocati per i pusher - Gli adolescenti egiziani sono la nazionalità più presente nelle statistiche sui minori non accompagnati. In ogni modo, a detta del presidente Tursi, i temi generali sono due. Primo tema: “Le università riflettano su quali mediatori davvero servono a Milano; se devo dire la mia, io intendo i mediatori esperti, molto esperti, della strada, quelli che sanno stare dentro le dinamiche di una metropoli, e non soltanto dentro un’aula universitaria. Le nozioni servono, per carità, ma poi in questo nostro settore ci si deve misurare con le persone che spesso si portano dietro reale sofferenza, non hanno mai avuto nulla in regalo, e se la giocano ogni benedetto giorno, arrivano da lontano, da altri mondi, si sono dovuti adattare, adattare ogni giorno da capo. La maggior parte dei ragazzini dei quali parliamo, vive tantissimo la strada. E tu devi esserci, sapere come starci”. Il che introduce il secondo tema. “Ci sono adolescenti nella droga, che spacciano. A miei mediatori, questi ragazzi chiedono un avvocato per gestire i guai giudiziari che hanno avuto. Io faccio in modo di procurar loro un legale, mi pare un’azione logica, scontata, cerco avvocati che si possano occupare di loro. Per forza che faccio così, non ho altre soluzioni, cioè questo devo fare: fornisco risposte pratiche a un’urgenza, così è probabile che quei ragazzi inizino a fidarsi di me, non scappare se cerchiamo di agganciarli. E al proposito, se posso, le volevo dire anche questo: se in una data zona di Milano hanno messo fissa una camionetta dei carabinieri, e noi, attenzione, con le forze dell’ordine interagiamo in modo serio, professionale, di enorme rispetto reciproco, lavoriamo noi come lavorano loro ecco, i ragazzini che voglio raggiungere non si avvicineranno mai, quella camionetta li terrà distanti anche se non hanno commesso mai un micro-reato in vita loro. Mi pare evidente”. L’abuso d’ufficio è morto, ma il conflitto d’interessi è vivo e più urgente che mai di Daniela Mainenti* Il Fatto Quotidiano, 12 maggio 2025 “Non è incostituzionale l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio”. Con questa formula asciutta, la Corte Costituzionale ha chiuso una stagione e ne ha aperta un’altra. Nonostante i dubbi espressi da ben 14 autorità giudiziarie - tra cui la Corte di Cassazione - la Consulta ha confermato la piena legittimità della legge 114/2024, che ha cancellato dal Codice penale il reato di abuso d’ufficio. La motivazione arriverà tra qualche settimana, ma l’impianto del comunicato ufficiale è già chiaro: nessun obbligo internazionale (nemmeno dalla Convenzione di Merida delle Nazioni Unite contro la corruzione) impone allo Stato italiano di mantenere il reato. Ergo, nessuna violazione costituzionale. Punto. Eppure, quel punto non è un punto fermo. È un punto di domanda politico e giuridico che interpella la tenuta dello Stato di diritto. Perché il reato di abuso d’ufficio era sì imperfetto, forse addirittura tossico per l’eccessiva indeterminatezza. Ma era anche l’ultima soglia penale per sindacare comportamenti di cattiva amministrazione non riconducibili alla corruzione o al peculato. Era, nel bene e nel male, una sentinella dell’imparzialità. Adesso che quella sentinella è stata congedata, chi presidierà la frontiera della legalità amministrativa? Non la Corte dei Conti, che si vuole indebolire nei poteri di controllo. Non l’Anac, progressivamente spogliata di incisività. Non i pubblici ministeri, privati di uno strumento giuridico duttile (forse troppo) per far luce su favoritismi e abusi senza scambio. Tuttavia, un criterio guida esiste. E può, anzi deve, tornare al centro: il conflitto di interessi. Il conflitto d’interessi, però, non è un concetto morale. È una categoria giuridica precisa, scolpita nell’art. 6-bis della legge 241/1990: “Il responsabile del procedimento ha l’obbligo di astenersi in caso di conflitto di interessi, anche potenziale”. Lì dove l’abuso d’ufficio puniva l’atto arbitrario “in violazione di legge” con “intenzionale danno o vantaggio”, il conflitto di interessi intercetta il cuore dell’incompatibilità etica tra interesse personale e funzione pubblica. Non serve più dimostrare l’intenzione di danneggiare qualcuno o favorire qualcun altro. Basta che vi sia una sovrapposizione tra chi decide e chi può trarre vantaggio dalla decisione. ?Questa clausola è già azionabile in sede disciplinare, contabile e talvolta penale (quando si innesta in altri reati). Ma, dopo l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, essa può diventare una regola di giudizio trasversale, capace di sorreggere controlli pubblici e responsabilità individuali. Se un sindaco assegna appalti a una società legata al fratello, se un dirigente autorizza pratiche edilizie in una zona dove ha interessi patrimoniali, se un funzionario facilita una promozione in cambio di vantaggi personali (anche non patrimoniali), la rilevanza del conflitto d’interessi resta intatta. E non potrà essere archiviata con l’abolizione dell’art. 323 c.p. Insomma, dopo il penale, viene il sistema. O il vuoto. C’è chi esulta per la “liberazione” dell’amministrazione dall’abuso d’ufficio. E chi paventa un far west decisionale senza sanzioni. Entrambi hanno torto se pensano che tutto si giochi sul campo del penale. La vera sfida è ricostruire un sistema di responsabilità pubblica che non sia solo sanzionatorio ma anche preventivo, coerente, leggibile. L’architrave di questo sistema, oggi, non può che essere la trasparenza degli interessi. Solo se il cittadino può sapere chi decide, per conto di chi e con quali relazioni di contesto, allora si potrà parlare di buon andamento e imparzialità (art. 97 Cost.). Non è un’utopia. È una necessità democratica perché la responsabilità vive nei dettagli. In un Paese dove la criminalizzazione dell’amministrazione è stata spesso usata come alibi per l’inazione, è comprensibile l’intento di delimitare meglio i confini del penale. Ma se si toglie la sanzione, bisogna rafforzare la prevenzione. Se si abolisce un reato, bisogna costruire strumenti di vigilanza più raffinati. Se si rifiuta l’idea di “giudici contro la politica”, allora si deve accettare l’idea di politici sotto controllo. Anche solo da parte dell’opinione pubblica. Ecco perché il conflitto di interessi non è solo un concetto giuridico. È una lente: per giudicare l’etica del potere. Per capire chi fa cosa, per chi. E perché. Oggi più che mai, dopo la fine dell’abuso d’ufficio, è questa la domanda che dobbiamo imparare a porre. E a pretendere che qualcuno risponda. *Professore Straordinario in Diritto Processuale Penale Comparato Il “sacrificio” di Fulvio Croce, morto per i diritti dei suoi assassini di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 12 maggio 2025 Torino, 1977. Una primavera ancora lontana, una città gelida e ferita, dove le ombre si muovono veloci sotto i portici e le auto parcheggiate diventano trappole. Da tempo le Brigate Rosse colpiscono a cadenza regolare. Magistrati, giornalisti, agenti di polizia. In questo clima da guerra civile strisciante, un uomo distinto con la toga sulle spalle e l’etica come bussola, decide che la paura non può diventare legge. Si chiama Fulvio Croce, è presidente dell’Ordine degli Avvocati di Torino, classe 1901, piemontese fino al midollo: rigoroso, riservato, fedele a un codice d’onore che sembra uscito da un’altra epoca. Croce non cerca la ribalta e non sarà una carriera politica o mediatica a consacrarlo, ma il suo sacrificio. Nel 1976 si era aperto a Torino il processo al nucleo storico delle Brigate Rosse: tra gli imputati ci sono Renato Curcio, Alberto Franceschini, Prospero Gallinari e Paolo Maurizio Ferrari. Ma i leader della lotta armata non intendono difendersi, non riconoscono il tribunale dello “Stato borghese” che li deve giudicare e minacciano di rappresaglia qualsiasi avvocato accetti l’incarico: “Se i difensori accettano la nomina saranno ritenuti come collaborazionisti del regime, con le conseguenze che ne potranno derivare”, tuona in aula Ferrari. L’obiettivo è palese: trasformare l’aula di giustizia in un palcoscenico politico, farne un’arma di propaganda, ma soprattutto sabotare il processo. Il problema è giuridico, ma anche profondamente morale. Secondo l’articolo 24 della Costituzione italiana ogni imputato ha diritto “inviolabile” alla difesa anche se rifiuta ogni rappresentanza; come si può dunque celebrare il processo? Un corto circuito perfetto. A sciogliere il nodo è il presidente della Corte d’Assise Guido Barbaro che chiede al Consiglio dell’Ordine di nominare difensori d’ufficio. Ma chi accetterà di difendere i brigatisti a rischio della propria stessa vita? Il pericolo è altissimo e infatti tutti rinunciano. Ma c’è un modo per uscire dal vicolo cieco: secondo l’articolo 130 del codice di procedura penale qualora non sia possibile reperire difensori d’ufficio l’incarico passa nelle mani del presidente del Consiglio dell’Ordine, ovvero del civilista Fulvio Croce. Sarà a capo della piccola pattuglia di avvocati che accetta di rappresentare i brigatisti, non lo fa per simpatia umana, ma per difendere i principii fondamentali dello Stato di diritto e per non cedere al ricatto politico delle sedicenti avanguardie proletarie. La democrazia, ricorda, non è mai vendetta. È giustizia. Quel gruppo coraggioso si forma sotto la sua guida. Tra loro c’è anche Franzo Grande Stevens, legale della Fiat e uomo di fiducia di Gianni Agnelli che difende il fondatore delle Br Renato Curcio Il 28 aprile 1977, Fulvio Croce esce dal tribunale di Torino, ha appena terminato una riunione. Cammina verso la sua auto, da solo, come sempre. All’improvviso, un giovane in giacca scura si avvicina e dice ad alta voce: “Avvocato?!”. Croce si volta, l’uomo estrae la pistola e spara cinque colpi in rapida successione. Fulvio Croce cade sull’asfalto senza vita. Il killer fugge in moto. Le Brigate Rosse rivendicano l’omicidio con un volantino raggelante, burocratico e intriso di fanatismo: Croce è accusato di essere “uno strumento della repressione”, “un collaborazionista del regime borghese”. Per loro lo Stato di diritto e il sistema giudiziario sono solo un altro travestimento del potere servo del capitale. L’avvocato non è più un garante: è un nemico di classe. Il funerale di Croce si celebra tra il dolore e la paura. Torino si ferma. Avvocati in toga, cittadini comuni, magistrati e studenti affollano la Chiesa della Gran Madre. Il presidente della Repubblica, Giovanni Leone, lo insignisce alla memoria della Medaglia d’oro al valore civile. Una scelta rara, quasi senza precedenti per un civile in tempo di pace. Ma più delle onorificenze e delle targhette, restano le parole che Croce lascia scritte in un memoriale scritto pochi giorni prima della morte: “Chi accetta la toga, accetta anche il dovere di difendere il diritto, sempre e comunque. Anche quando il diritto è impopolare. Anche quando costa la vita”. Oggi, a quasi cinquant’anni dalla morte, il nome di Fulvio Croce è inciso nelle aule di giustizia, a lui sono dedicati premi giuridici, biblioteche forensi e la sua lezione è tanto più attuale quanto più invisibile in un tempo in cui il diritto è strumentalizzato da interessi politici e processi mediatici, in cui l’avvocato è spesso dipinto come sodale dei “criminali”, Croce ci ricorda che la giustizia non è una scelta ideologica, ma un atto di fede civile. Era un uomo mite, Fulvio Croce. Non aveva la voce stentorea dei tribuni, né il carisma narcisista degli eroi cinematografici. Possedeva però la forza silenziosa della coerenza. E in quell’aprile torinese, segnato da piombo e paura, ha mostrato che si può morire per la legge. Ma soprattutto che si può vivere per essa. Sardegna. È la Festa di tutte le mamme (anche quelle che sbagliano) di Marzia Piga sassaritoday.it, 12 maggio 2025 La Garante dei detenuti della Sardegna, Irene Testa, ci racconta la situazione delle madri detenute con figli piccoli: poche, ma trascurate. Le Icam, istituti “di custodia attenuata”, uno è a Senorbì inaugurato e mai utilizzato. Che sia una celebrazione cattolica, una festa pop, un evento commerciale o correlato a iniziative solidali, la Festa della mamma (ogni seconda domenica di maggio) è la giornata dedicata a tutte le donne che sono anche madri. Delle lavoratrici che fanno surf tra carriera e cura dei figli, di quelle che hanno scelto o sono costrette a dedicarsi solo alla famiglia. E di quelle che hanno sbagliato. Quelle i cui errori hanno portato dietro le sbarre di una cella. Madri di bimbi piccoli in carcere per reati minori - Sono il due per cento della popolazione carceraria isolana, sono madri di bimbi piccoli che in gran parte hanno commesso reati minori, così dicono le statistiche. Madri che sono costrette a tenere i propri piccoli con sé tra le quattro mura di un istituto di sicurezza. “In questo momento, fortunatamente, non ci sono bambini negli istituti penitenziari sardi - racconta Irene Testa, Garante regionale dei detenuti in Sardegna - anche se nell’ultimo anno ne sono transitati un paio, anche di un anno. Poi ha prevalso il buonsenso e queste madri sono state collocate in comunità o in altri luoghi fuori dal carcere. Anche perché tenere i bambini all’interno del penitenziario, soprattutto i piccolissimi sotto i tre anni, non è una cosa accettabile, non è umano”, sostiene. Uno era nella struttura di Uta e una bimba più piccola, di appena un anno, a Sassari, a Bancali: “Girava per la cella con un girello che le avevano recuperato, è stata una scena proprio brutta da vedere”, aggiunge sconsolata. Negli istituti sardi non ci sono nidi, come in altre strutture del Continente: è una questione di numeri. E sono i numeri delle detenute madri sarde il motivo per cui, per esempio, alla Garante dei detenuti non piace l’idea di una Icam in Sardegna. Si tratta di una struttura creata apposta per le madri detenute con bimbi piccoli: istituto di custodia attenuata per detenute madri. Al momento sono quattro in tutta Italia (Milano, Venezia, Lauro e Torino). Una è stata realizzata anche in Sardegna, a Senorbì, in uno stabile concesso dal Comune (quattro camere con bagno più ludoteca, cucina e cortile), inaugurata nel 2014 e mai utilizzata. In teoria un faro di civiltà per consentire alle donne di scontare la pena senza separarsi dai figli piccoli e senza obbligarli all’orrore di una vita in cella. “Ora l’amministrazione penitenziaria vuole riprenderlo in mano e attivarlo - spiega Testa -, ma se già in generale metà della popolazione carceraria sarda arriva dal resto d’Italia, anche questo farebbe la stessa fine”. Se sono poche le madri e neo madri che delinquono “e per la maggior parte di loro il reato principale è quello di atti di violenza contro il patrimonio”, però “la detenzione femminile è molto trascurata rispetto agli istituti maschili - spiega la Garante sarda -. Ci sono poche attività, quelle che ci sono vengono realizzate grazie alle associazioni di volontariato che operano all’interno, sia a Uta sia a Bancali, però per il resto c’è molto poco, non c’è nemmeno un’infermeria dedicata”. “Molte di queste giovani mamme spesso sono finite a usare sostanze, quindi si trovavano in situazioni di disagio psichiatrico, per la maggior parte sono donne fragili che non hanno trovato supporto all’esterno, nelle istituzioni e quindi una volta in carcere magari sperano di farcela. Anche se molte continuano a perdersi perché poi non hanno dei sostegni da parte delle famiglie, arrivano da contesti molto difficili”. Poi ci sono quelle, tante, “che proprio per i loro figli chiedono di andare in comunità per riprendersi, per riuscire a riprendere in mano la propria vita e quella dei loro figli”, racconta. “Donne fragili che vogliono riprendersi la loro vita” - Irene Testa ha visitato più volte gli istituti sardi e ha raccolto le testimonianze anche delle donne che stanno scontando pene: “Raccontano spesso le loro storie, le vedo preoccupate per i loro bambini che stanno fuori dal carcere, affidati a famiglie o servizi. Spesso non vedono i loro figli perché raccontano di essere in viaggio e quindi si rifiutano persino di andare ai colloqui nelle visite, per evitare ai bambini l’esperienza del carcere”. “Potevano pensarci prima ai loro figli’, è la frase che spesso si sente dire - commenta Testa. Ma sono mamme. Sono persone che hanno sbagliato, ma sono pur sempre persone ed è questo il dato che solitamente non viene mai sottolineato”. Milano. Detenuto in fuga si toglie la vita. Trovato in un laghetto il corpo della collega scomparsa di Annalisa Grandi La Ragione, 12 maggio 2025 Le tracce di Emanuele De Maria si erano perse. Il detenuto in fuga, ricercato ovunque, si è ucciso. Il cadavere della collega scomparsa è stato ritrovato al Parco Nord di Milano. Era finito in carcere per aver ucciso una 23enne, e dopo l’omicidio era scappato in Germania. Da due anni aveva dei permessi per lavorare in un hotel, a Milano. Poi, dopo il lavoro, doveva rientrare in carcere. Qui l’inizio della vicenda surreale e tragica che ha visto coinvolto un 35enne, Emanuele De Maria, che dopo aver accoltellato un collega che lavorava nello stesso hotel aveva fatto perdere le sue tracce. Fino a oggi. Perché De Maria, il detenuto in fuga che era ricercato ovunque, si è ucciso. Si è buttato dal Duomo di Milano. È stato riconosciuto dai tatuaggi. Ma non solo. È stata trovata morta la sua collega 50enne che risultava sparita e di cui i familiari avevano denunciato la scomparsa. Il cadavere è stato ritrovato al Parco Nord di Milano. Una storia che sembra un film e che invece è avvenuta realmente, una storia incredibile e che non può che far riflettere. De Maria viene descritto come un detenuto modello, ma anche come un dipendente modello, visto che l’hotel in cui lavorava quando era in permesso lo aveva assunto a tempo indeterminato. Eppure ha accoltellato un collega, presumibilmente ha ucciso una collega, e poi si è tolto la vita. Il detenuto in fuga e l’annosa questione della funzione rieducativa del carcere - Una vicenda che riapre l’annosa questione della funzione rieducativa del carcere, che va oltre quella punitiva, ma che di certo non può che far sorgere interrogativi inquietanti sui metodi di valutazione dei detenuti. Certo i raptus sono tali perché imprevedibili ma qua stiamo parlando di una persona che aveva già ucciso, e che aveva pure tentato la fuga all’estero. Di certo se ci sono stati degli errori andranno accertati, intanto questa vicenda ha avuto il peggiore e più tragico degli epiloghi. Milano. Quando la reintegrazione fallisce: tra utopia e abbandono di Cristina Volpe Rinonapoli italia-informa.com, 12 maggio 2025 La crepa nel sistema del carcere aperto. La tragedia di Milano, con il suicidio spettacolare di un detenuto evaso e l’assassinio della donna che lo accompagnava, non è soltanto un episodio da consegnare alla cronaca nera. È piuttosto il punto di rottura di un’idea di carcere che, da anni, viene raccontata come avanzata, umanizzata, orientata alla rieducazione. Il “modello Bollate”, fino a oggi considerato uno dei fiori all’occhiello del sistema penitenziario italiano, si ritrova adesso al centro di un interrogativo più profondo: può esistere una vera giustizia rieducativa senza un tessuto sociale che accompagni, vigili, protegga? La crepa nel sistema del carcere aperto. Quando la reintegrazione fallisce - La figura di Emanuele De Maria, condannato per omicidio ma ammesso al lavoro esterno come receptionist in un hotel, emerge come emblematica. Non tanto per il gesto finale - il suicidio sulla terrazza del Duomo - quanto per il vuoto istituzionale e relazionale dentro cui si è consumata la sua parabola. Era un soggetto fragile, che avrebbe richiesto monitoraggio, ascolto, orientamento costante. Ma il suo tragitto, come quello di molti altri, si è snodato in un limbo senza rete: fuori dal carcere, ma non ancora dentro la società. La solitudine come dispositivo di esclusione - La storia di Chamila Wijesuriyauna, ritrovata morta in un laghetto con evidenti ferite da arma da taglio, è l’altra metà di questa vicenda. Donna migrante, lavoratrice silenziosa nel medesimo hotel, anch’essa immersa in quella zona grigia che è il lavoro povero e invisibile. La sua morte, più nascosta e meno simbolica del suicidio in piazza, rivela un’altra dimensione della crepa: la solitudine sociale, l’assenza di protezione, la fragilità delle relazioni dentro ambienti che mettono insieme disagio, precariato e assenza di strumenti di cura. La reintegrazione, per funzionare, dovrebbe essere un processo continuo e comunitario, e invece in Italia è quasi sempre un esercizio burocratico. I percorsi di rientro non sono accompagnati da servizi pubblici di qualità, né da un monitoraggio psicologico adeguato. Non ci sono equipe multidisciplinari, né percorsi integrati con il territorio. L’accesso al lavoro, quando c’è, è spesso solitario, privo di mediazione, affidato a imprese poco formate o a contesti in cui la marginalità esplode in silenzio. La politica penitenziaria tra mito e realtà - Il carcere aperto funziona solo in una società aperta. Ma l’Italia è ancora un Paese dove il carcere resta un contenitore d’eccezione: opaco, residuale, privo di controllo pubblico. Le misure alternative - domiciliari, lavoro esterno, affidamento in prova - sono previste dalla legge, ma applicate senza risorse, con personale ridotto all’osso, in assenza di una visione complessiva. L’idea stessa di “rieducazione” è spesso lasciata alla buona volontà di singoli direttori o operatori, e non sorretta da una vera politica pubblica. Bollate, in questo senso, è stata più un’eccezione che un modello. Ma anche l’eccezione, quando isolata, rischia di crollare sotto il peso delle aspettative. Il caso di Milano dimostra che un carcere che si apre al mondo non può prescindere dal fatto che il mondo fuori è pieno di disuguaglianze, traumi non curati, relazioni di potere. E che senza un supporto reale - clinico, sociale, culturale - il rischio di fallimento non solo aumenta, ma esplode in forme tragiche. Il diritto all’errore e il dovere della vigilanza - Reinserire non significa solo concedere fiducia: significa assumerne la responsabilità. Il diritto all’errore deve camminare con il dovere della vigilanza. In Italia, però, il sistema è concepito per ridurre i danni più che per prevenire i disastri. E ogni volta che una misura alternativa sfocia nella violenza, la reazione è riflessa: sospendere, punire, chiudere. Ma la soluzione non sta nel ritorno al carcere duro, né nel restringere le maglie. Sta nel riconoscere che reintegrare non è una scorciatoia penale, ma un investimento sociale a lungo termine. Serve una politica penitenziaria che non sia solo emergenziale, ma strutturale. Che sappia costruire relazioni tra giustizia, sanità, formazione, lavoro e cittadinanza. Che sappia ascoltare i silenzi prima che diventino urla. Perché in fondo, nel suicidio di De Maria e nella morte di Chamila, c’è un grido muto che riguarda tutti noi: il nostro modo di intendere la pena, il perdono, la sicurezza. E soprattutto il nostro grado di civiltà. Ivrea (To). Il Garante: “Pochi volontari, sovraffollamento e scarsi interventi” primailcanavese.it, 12 maggio 2025 Il garante dei diritti delle persone private delle libertà, Raffaele Orso Giacone, traccia un quadro della situazione del carcere di Ivrea: pochi psicologi, medici e infermieri e, a volte, con scarsa preparazione. Carenza di volontari, sovraffollamento, poca o nessuna manutenzione dell’edificio e magistratura assente. Ma vi sono anche miglioramenti. La gestione e le figure apicali - “Il carcere è sempre sovraffollato con 270 detenuti, ma i numeri non possono più aumentare - spiega il garante - la situazione un po’ è migliorata perché da un anno c’è lo stesso direttore. È una presenza significativa e importante perché oggi c’è chi prende delle decisioni e lavora affinché la struttura funzioni. Da un paio di mesi c’è anche un comandante della polizia penitenziaria designato. Tutto questo è positivo perché le figure apicali sono importanti” spiega. Carenza di volontari e attività - Ma mancano i volontari: attualmente sono solo 4 e non ci sono molte attività educative che funzionano, tranne la scuola. “Questo è un problema grosso per i detenuti - prosegue Orso Giacone - La sanità in questo momento è un’incognita perché a fine maggio scade la convenzione con la cooperativa che fornisce medici e infermieri. L’Asl vorrebbe occuparsi del personale ma sembra che medici e infermieri siano poco motivati a venire a lavorare nel carcere e quelli che potrebbero accettare sono poco formati. Gli psicologi sono pochi e hanno poche ore di lavoro all’interno del carcere. Quello che funziona sono le attività del Serd che si fa carico dei detenuti tossicodipendenti”. Progetti e ostacoli - Poi evidenzia la necessità di attivare dei campi di lavoro fuori dal penitenziario: “C’è un bando regionale che li finanzierebbe, purtroppo abbiamo fatto una riunione invitando tutti i Comuni del circondario me se ne sono presentati solo un paio e il bando scade fra non molto. Si fa molta fatica ad organizzare questi cantieri perché esistono tanti problemi con la magistratura di sorveglianza poiché non viene a Ivrea da più di un anno, probabilmente perché sono in pochi. Scrivo ma nessuno mi risponde, non abbiamo più contatti - afferma Orso Giacone - ci sono anche due cooperative che hanno partecipato e vinto dei bandi per il carcere, una che si occupa di documenti è attiva e lavora bene, l’altra che avrebbe dovuto occuparsi delle offerte di lavoro per i detenuti è latitante. Non si sa quale lavoro abbia fatto, ad oggi non sono ancora riuscito ad avere informazioni. Ci stiamo attivando con il garante regionale per chiarire la questione”. Le richieste ancora disattese - In conclusione le richieste del garante per migliorare le condizioni di vita dei reclusi sono sempre le stesse: il silenzio dei magistrati di sorveglianza, la qualità del cibo, le telefonate (poche e corte), le code per la soluzione dei problemi di salute, l’invivibilità delle celle con freddo, caldo, umidità, buio, la tv rotta. Sono da rifare le aree di passeggio sia per la sezione collaboratori che per l’isolamento. “Occorrono nuove soluzioni per separare l’area di osservazione da quella dell’isolamento - conclude - e separare l’infermeria dall’area di isolamento, creando una zona per le attività sportive indoor e il rifacimento del campo di calcio e quello da tennis”. Roma. Quei bambini “prigionieri” con le madri dietro le sbarre di Rebibbia di Eleonora Mattia: La Repubblica, 12 maggio 2025 Entrare in un carcere femminile e ascoltare le storie delle detenute madri, che scontano la pena assieme alle loro bambine e bambini, significa passare al setaccio tutte le carenze e difficoltà della nostra società. È quello che ho provato visitando la casa circondariale femminile di Rebibbia, che ospita circa 380 detenute, 100 in più del numero previsto. Lungo questo percorso fatto di cigolii e serrature la prima tappa è il tema drammatico del sovraffollamento delle carceri, che nel Lazio raggiunge il 145%, a fronte di un dato nazionale del 132,4%, con picchi del 185% a Regina Coeli, a Civitavecchia (178), a Rieti (174) e Latina (171). Ma per la Festa della Mamma sono qui per le 3 detenute e i loro figli, rispettivamente due bimbi di 3 e 2 anni e un neonato. Sono 3 dei 26 bambini che in Italia vivono in carcere con 23 detenute madri, scontando una pena che non appartiene a loro. Molti bambini entrano in carcere come “invisibili”: senza vaccini e senza essere registrati all’anagrafe. Ecco un’altra falla: le mamme con figli al di sotto di un anno dovrebbero stare negli “Istituti a custodia attenuata per detenute madri” (ICAM). Sono solo 5 in Italia, zero nel Lazio. Un’ingiustizia destinata a peggiorare con il dl Sicurezza, che prevede misure come la possibilità del carcere per le donne incinte e sanzioni disciplinari atroci come quella di sottrarre alla detenuta il figlio per affidarlo ai servizi sociali. Una deriva autoritaria che ci riporta indietro di anni luce sul piano dei diritti civili e delle donne. A Rebibbia per me ha avuto senso entrare, in punta di piedi, per rispondere all’appello contro il dl Sicurezza lanciato dalla campagna “Madri Fuori” dell’associazione La Società della Ragione. Qui l’età media delle donne è scesa, molte le detenute di appena 18 anni. La gran parte arriva con alle spalle storie di tossicodipendenza, abusi, costrette a prostituirsi da madri a loro volta tossicodipendenti. Allora per fare pace col proprio corpo, ci si aiuta con sport, yoga e altre attività. Ci sono poi le detenute con disagi psichici, rimpallate tra carceri e Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems). Nel silenzio di questo microcosmo, intanto, esplode una canzone di tanti auguri cantata da una marea di voci dietro le sbarre per il compleanno di una detenuta e ci ricorda che ognuno di noi può restare umano. *Vicepresidente Pd Commissione Affari Costituzionali in Regione Lazio Torino. Dietro le sbarre del carcere c’è un bimbo di 21 mesi, senza il diritto di crescere di Giada Lo Porto La Repubblica, 12 maggio 2025 Una delegazione guidata dalla senatrice Rossomando ha visitato la sezione femminile del Lorusso e Cutugno con 115 detenute: “Gli spazi non sono adeguati per dei bambini così piccoli”. Dove s’infrange il diritto di restare bambini quando la mamma perde la libertà? Al Lorusso e Cutugno di Torino c’è un piccino di 21 mesi che corre incontro a chi viene da fuori. Non parla, osserva, scruta gli estranei, probabilmente si chiede da dove vengano quelle persone che adesso vogliono sapere come sta, cosa fa, se mangia, se dorme, se continua a restare bambino o se ha perso la capacità di giocare. Lui è con la madre detenuta che di anni ne ha 31, dentro le mura del carcere, in uno dei tre istituti a custodia attenuata per madri (Icam) attivi in Italia: a Torino a oggi è il solo bambino recluso con la madre. In teoria dovrebbe somigliare il meno possibile a un carcere. In realtà resta una prigione, con sbarre di ferro tutto intorno, il bimbo può uscire per andare all’asilo soltanto passando i numerosi controlli, una detenuta si occupa di preparare i pasti. Lo spazio di libertà di questo bambino è un piccolo giardino accanto alla struttura. Sono sorvegliati da due agenti in borghese per tutto il tempo e lui non sa che quella non è la normalità: è lì da quando ne ha memoria. Poco distante da quella madre che stringe a sé un bambino a cui non sa come dire che quello non è il posto per lui, ce n’è un’altra reclusa per truffa che ha perso la genitorialità. Ha 35 anni e quattro figli, tre li ha già persi, affidati ad altre famiglie, nove mesi fa ne ha partorito un quarto agli arresti domiciliari, dopo poco è tornata in carcere. A luglio ci sarà la sentenza del tribunale per capire se perderà anche lui: non lo vede da due mesi (ogni situazione è differente), il bimbo è in una comunità protetta. Ieri in carcere per la festa della mamma sono entrate la vicepresidente del Senato Anna Rossomando, le consigliere del Pd Gianna Pentenero, Simona Paonessa e Laura Pompeo, la capogruppo di Avs Alice Ravinale, Elena Ferro della segreteria Cgil Torino e Davide Mattiello, già deputato Pd. L’iniziativa rientra nella campagna “Madri Fuori”, contro il decreto sicurezza del governo Meloni. Una donna che deve far crescere, accudire un figlio, sotto stretta sorveglianza, perde l’intimità con il proprio bambino. “Riteniamo gli Icam insufficienti per garantire la relazione madre-figlio - dice Ferro - non è una struttura adeguata per bambini così piccoli soprattutto per reati della povertà, della marginalizzazione. Questo è il fallimento di un progetto sociale. Si possono gestire queste situazioni attraverso misure alternative come le case territoriali. Inoltre il dl sicurezza prevede la sottrazione dei figli a madri che protestino in carcere anche in modo non violento. Che è il senso della nostra contrarietà: la repressione del dissenso”. Nella sezione femminile si trovano 115 detenute. L’80% sono madri: quasi tutte hanno perso la genitorialità. Sono mamme “orfane”: non vedono i loro figli da un tempo che a loro sembra infinito, alcune non li vedranno forse mai più perché sono diventati figli di altre madri. Perugia. Detenuto allergico al nichel aspetta da sei mesi padelle e bollitore per cucinare in cella di Umberto Maiorca perugiatoday.it, 12 maggio 2025 Ricorso per Cassazione contro la decisione del magistrato di Sorveglianza. Detenuto allergico al nichel chiede dei tegami speciali per cucinare in cella, ma la ditta fornitrice è in ritardo per le consegne e il magistrato di sorveglianza respinge le istanze di reclamo dell’uomo. La Cassazione annulla tutto e dispone un nuovo giudizio sulla richiesta del detenuto. A rivolgersi alla Corte di Cassazione è stato un uomo di 41 anni, detenuto in Umbria, dopo che il magistrato di sorveglianza di Perugia aveva respinto il suo reclamo sul fatto che era “in attesa da circa sei mesi di ricevere dei tegami per cucinare, e, nonostante vari solleciti”, continuava “a sentirsi dire di dover aspettare perché l’impresa fornitrice” era “in ritardo nelle consegne”. Nel ricorso il detenuto contestava “che il magistrato di sorveglianza non poteva provvedere de plano in materia in cui erano in gioco diritti soggettivi”, che “la decisione del magistrato di sorveglianza è stata scritta a mano in calce al reclamo del detenuto, il che la rende non intellegibile” e “che sul medesimo oggetto sono già stati celebrati procedimenti innanzi al Tribunale di sorveglianza ma questo non è ostativo all’accoglimento anche di questa nuova richiesta, perché il bollilatte e la pentola da 24 cm oggetto dell’istanza si sono resi necessari perché il condannato è risultato, successivamente alle precedenti istanze, allergico al nichel”. Secondo i giudici di Cassazione il ricorso è fondato in quanto “il magistrato di sorveglianza ha respinto il reclamo ritenendo che sulle doglianze del detenuto si fossero pronunciate già due precedenti ordinanze del Tribunale, di cui ha citato gli estremi”, ma senza indicarne il contenuto, impedendo “di seguire adeguatamente il percorso logico del provvedimento impugnato e di comprendere, in particolare, perché esse siano state ritenute satisfattive, nonostante il ricorrente sostenesse, invece, di non essere per niente soddisfatto”. Per questo è stato deciso per l’annullamento del decreto impugnato, con rinvio per nuovo giudizio al magistrato di sorveglianza. Lucca. Progetto “Dietro le sbarre”: gli studenti scoprono la realtà carceraria versiliapost.it, 12 maggio 2025 Le classi VH e VG del Liceo Scientifico “Barsanti e Matteucci” in visita alla casa circondariale San Giorgio di Lucca. Dopo un percorso durato diverse ore in classe, legato al progetto Caritas “Dietro le sbarre”, i giovani sono entrati in contatto con le storie di detenzione a partire dal proprio vissuto e le proprie emozioni. Andare al di là delle sbarre significa comprendere meglio i dati che si leggono e il senso dei percorsi di detenzione, tra difficoltà e risorse. I temi che sono emersi durante gli incontri con Rachele Franceschi, esperta esterna di Caritas, sono stati: il senso della detenzione, i percorsi alternativi al carcere, le attività riabilitative, la vita in una cella, il sovraffollamento, le opportunità post scarcerazione, volontariato in carcere e il ruolo della comunità. “Ma l’aspetto più forte ed emozionante di questo progetto - commentano gli studenti - è stato la visita in carcere, dove oltre ad aver dialogato con la direttrice della Casa circondariale, Santina Savoca, la polizia penitenziaria, il medico del carcere e le educatrici, abbiamo potuto ascoltare le storie dei detenuti e vedere le celle in cui vivono. Emozioni forti che spalancano un mondo per noi nuovo e soprattutto distorto dalle fiction televisive”. “Affrontare il tema del carcere in classe è un passo importante per educare i ragazzi sulla realtà del sistema penitenziario e sulle conseguenze del comportamento criminoso - spiega la professoressa Eleonora Prayer, referente del progetto -. Sfidando le rappresentazioni distorte del carcere presenti nei media, è stato possibile aiutare i giovani a sviluppare una visione più complessa e realistica della vita dietro le sbarre. Comprendere il carcere in modo approfondito ha favorito l’empatia, la responsabilizzazione e la consapevolezza delle scelte che ciascun individuo compie nella propria vita”. I docenti che hanno accompagnato le classi VG e VH alla casa circondariale sono stati: Annalisa Bacherotti, Alessandro Dati, Nicolò Zambuto ed Eleonora Prayer. Catanzaro. Al via il progetto “Le ali della libertà” di Viola Mancuso* gnewsonline.it, 12 maggio 2025 Nasce dall’idea di un gruppo di detenuti che hanno preso spunto dall’omonimo film del 1994, in cui il protagonista, recluso in un carcere americano, si impegna a restaurare la biblioteca trasformandola in un luogo di scambio culturale e di riflessione. Così nella Casa circondariale di Catanzaro ha preso il via il progetto “Le Ali della Libertà”, una nuova occasione di crescita per i detenuti che passa attraverso l’opportunità di sviluppare capacità culturali, artistiche e relazionali fondamentali al loro reinserimento nella società una volta terminato il periodo di detenzione. Uno spazio di confronto e di svago che, grazie all’Area Educativa e al supporto della Polizia penitenziaria e dei volontari, intende creare un ponte verso la società esterna, abbattendo le barriere e le tensioni legate alla vita carceraria e favorendo così il miglioramento del clima detentivo. Nel progetto, oltre al detenuto bibliotecario che ha il compito di catalogare i libri, sono stati coinvolti altri 50 detenuti che parteciperanno a incontri tematici e riflessioni su temi sociali e culturali significativi, attraverso la proiezione di film, la lettura di romanzi e di giornali. Il calendario è fitto di appuntamenti, fra incontri con giornalisti locali e scrittori della regione, momenti ricreativi e giornate karaoke. Previsto inoltre uno sportello di supporto didattico per la preparazione degli esami di Stato e per la redazione di testi per chi partecipa a concorsi letterari. L’obiettivo è che questo sportello, aperto dal lunedì al venerdì, dalle 13:30 alle 15:30, diventi non solo un punto-informazioni per aggiornare la popolazione detenuta sulle attività trattamentali in corso e sul regolamento d’istituto, ma un vero e proprio punto di riferimento socio-culturale che aiuti i reclusi a migliorare la conoscenza e la consapevolezza dei propri diritti e doveri e il senso di autodeterminazione. Oltre alla biblioteca del reparto dell’alta sicurezza, che ha in dotazione 500 opere tra testi scolastici, romanzi letterari ed enciclopedie, da marzo sono iniziati i lavori nel reparto reclusione della media sicurezza per rendere fruibile uno spazio in cui catalogare e consultare i libri: coinvolti cinque detenuti lavoranti in un’attività di rifacimento e pitturazione di murales. L’impegno nella cura di questi spazi polivalenti non solo migliorerà la qualità della vita all’interno del carcere, aumentando la partecipazione di tutti alla vita comunitaria, ma contribuirà a sviluppare anche un processo di riflessione fondamentale per il percorso di riabilitazione sociale. Un esempio di come il cambiamento possa partire dall’impegno in attività artistiche, culturali e musicali e alimentare un momento di speranza che può rendere liberi, al di là delle sbarre. *Funzionario giuridico-pedagogico Taranto. “Siamo tutte Antigone”, spettacolo delle detenute nel teatro del carcere blunote.it, 12 maggio 2025 Il 14 maggio a Taranto detenute in scena con “Siamo tutte Antigone”, frutto di un laboratorio teatrale. Mercoledì 14 maggio 2025, alle ore 15, l’aula teatro della sezione maschile della Casa Circondariale “Carmelo Magli” di Taranto ospiterà lo spettacolo “Siamo tutte Antigone”, messo in scena dal collettivo Citte Citte. La rappresentazione è il risultato di un laboratorio teatrale avviato nella sezione femminile del carcere, dove alcune detenute hanno partecipato a un percorso settimanale di drammaturgia collettiva. Al centro del lavoro, la figura di Antigone, eroina tragica della mitologia greca, riletta in chiave contemporanea anche attraverso il testo di Valeria Parrella. Nel mito, Antigone sfida il potere costituito pur di dare degna sepoltura al fratello Polinice, disobbedendo al decreto del re di Tebe. Un gesto di ribellione e dignità che ha trasformato il personaggio in un emblema della libertà di coscienza e dell’autodeterminazione femminile. “Siamo tutte Antigone” rappresenta non solo un momento artistico, ma anche una testimonianza del valore educativo e sociale della cultura in contesti di marginalità. I costumi utilizzati sono stati realizzati grazie a un laboratorio di sartoria teatrale sociale, promosso in collaborazione con l’Associazione Alzaia Onlus, Formare Puglia e il Banco di Napoli. A confezionarli sono state donne che hanno vissuto situazioni di violenza maschile e che oggi, attraverso percorsi di reinserimento e crescita personale, partecipano attivamente a progetti culturali. Al termine dello spettacolo, alle ore 18, è prevista un’assemblea pubblica negli spazi di Palazzo Ulmo, in via Duomo (Città Vecchia di Taranto). L’incontro, aperto alla cittadinanza, sarà l’occasione per riflettere collettivamente sul percorso intrapreso e per presentare il materiale fotografico e video prodotto durante le attività laboratoriali. “Crediamo che questo progetto sia un esempio concreto di come l’arte, la cultura e le reti territoriali possano favorire processi di riscatto e inclusione”, afferma il collettivo Citte Citte ODV - ETS. “La città esclusa”: la questione carceraria a Brescia nel XIX secolo di Roberto Bonzi bresciasilegge.it, 12 maggio 2025 Nuova edizione del saggio di Giancarlo Zappa. Come si potesse uscire ravveduti dalle carceri dell’epoca, costituisce un problema ed una domanda inquietante, che purtroppo ottiene una risposta negativa. La fiducia in un carcere “utile” è alla base del pensiero di Giancarlo Zappa, “il padre dell’ordinamento penitenziario”. Così lo definisce Monica Calli, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Brescia, nell’introduzione alla nuova edizione de “La città esclusa” (Vannini Editrice, 2023), volume pubblicato in origine nel 2000 per la casa editrice La Quadra, in cui il magistrato analizza il rapporto tra comunità bresciana e questione carceraria nel XIX secolo, tracciando la propria visione del sistema penitenziario. “Il carcere tradizionale, isolato, demonizzato, rifiutato era ed è l’università del crimine e rende così un pessimo servizio alla società”, sostiene Zappa che, dal 1987 al 1997, è stato responsabile della magistratura di Sorveglianza a Brescia. Per l’ordinamento erano anni di grande sperimentazione. Solo a partire dal 1975, infatti, l’esecuzione delle pene detentive iniziò a essere sottoposta alla vigilanza di un magistrato a tempo pieno, con una prima apertura concreta alle misure alternative al carcere. La ristampa de “La città esclusa”, curata da Silvana Bini e Claudio Cambedda, riporta all’attenzione che merita il pensiero di Giancarlo Zappa, a testimonianza di una fase storica in cui la piena attuazione all’articolo 27 della Costituzione era un obiettivo condiviso da ampi segmenti della magistratura e delle istituzioni. La pena, intesa come “fatto sociale” e finalizzata alla rieducazione, appariva un traguardo possibile, da rivendicare nell’interesse dell’intera comunità. A distanza di anni, quella stagione sembra irrimediabilmente conclusa. Eppure le esigenze che la muovevano rimangono intatte anche nell’Italia di oggi, così come le criticità umanitarie e logistiche del sistema carcerario. Il problema penitenziario nella Brescia del XIX secolo - Nel corso del XIX secolo a Brescia esistevano cinque strutture destinate a soddisfare le esigenze del settore penal-penitenziario, nessuna delle quali realizzata per tale scopo. Si trattava di edifici di proprietà pubblica già adibiti ad altri usi e poi adattati alla meglio, immersi nel centro storico: esistevano tutte le premesse per creare una situazione negativa fin dall’origine in fatto di sicurezza e d’igiene. Giancarlo Zappa nasce il 2 gennaio 1930 a Tavernole sul Mella, in Valtrompia. Dopo la maturità classica al liceo Bagatta di Desenzano, si laurea in giurisprudenza all’Università Cattolica di Milano. In magistratura dal 1957, ricopre, tra le altre, le cariche di Giudice del Tribunale di Bergamo (1957-58), Sostituto Procuratore della Repubblica a Brescia (1967), Consigliere di Corte d’Appello (1976), Magistrato di Sorveglianza (1978), Magistrato di Corte di Cassazione (1986), Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Brescia (1987-1997). Oltre a collaborare con numerose riviste giuridiche, partecipa ai lavori a supporto della “Legge Gozzini” (legge n. 663 del 1986), una delle riforme orientate a valorizzare l’aspetto rieducativo della carcerazione rispetto a quello punitivo. Giancarlo Zappa muore a Brescia il 10 febbraio 2004. Nel giugno del 2015 gli viene intitolata un’aula del Palazzo di Giustizia di Brescia, mentre dall’anno successivo il suo nome è inserito nel Monumento ai Cittadini Illustri di Brescia presso il Famedio, nel Pantheon del Campo Santo Vantini. “La città esclusa” è il frutto di anni di ricerche e riflessioni. Il saggio offre una disamina puntuale e documentata di come la comunità bresciana del XIX secolo ha gestito il problema carcerario. L’analisi parte dall’organizzazione penitenziaria del Regno d’Italia. Fin dal primo regolamento generale del 1861, il nuovo stato unitario si diede l’obiettivo di uniformare i modelli dei vari Stati preunitari, ispirandosi a quello sardo-piemontese. Zappa analizza l’evoluzione della struttura organizzativa, dal peso effettivo dei direttori alla gestione del personale di servizio, dall’assistenza sanitaria al ruolo dei cappellani carcerari. Nell’impostazione ottocentesca, il carcere è visto come luogo di isolamento estremo. Ogni comunicazione con l’esterno veniva limitata allo stretto indispensabile: due lettere a settimana e un solo colloquio di mezz’ora con i parenti. L’assenza di contatti umani era concepita come parte essenziale della pena. Un tema chiave è quello della vigilanza. Viene ricostruito nel dettaglio l’operato delle prime commissioni visitatrici che segnalavano a Sindaco e Prefetto gli inconvenienti rilevati nelle strutture carcerarie. Gli stralci di verbale e gli scambi epistolari citati nel volume sono una lettura molto istruttiva per comprendere le condizioni di vita all’interno delle carceri e le difficoltà che incontra da sempre chi tenta di portarle alla luce. Il sostegno a “carcerati e liberati dal carcere” era affidato alla filantropia e al volontariato. Le ricerche di Zappa documentano il ruolo delle società di patronato, realtà laiche che, anche a Brescia, si affiancano alle opere pie della Chiesa con l’obiettivo di “raccogliere gli infelici uscenti dal carcere, di riformarne il morale, di restituirli alla società ed alla Patria, procacciando loro un’occupazione onorata”. Il volume ricostruisce nel dettaglio l’evoluzione delle strutture penitenziarie a Brescia, dalle carceri ricavate in edifici del centro storico tra cui Palazzo Broletto (lato sud) a quelle del Castello, fino ad arrivare alla costruzione del Carcere di Canton Mombello, inaugurato nel 1914 al termine di un tortuoso iter politico e burocratico. Non a caso Zappa sceglie di concludere il saggio con un resoconto delle numerose sedute del Consiglio comunale di Brescia dedicate al progetto del nuovo edificio. L’osmosi tra carcere e territorio - Per Giancarlo Zappa la criminalità è, nella sua essenza, un problema sociale. L’azione repressiva deve quindi accompagnarsi a quella preventiva. La difesa della sicurezza passa anche dalla tutela dei bisogni, attraverso un’offerta di servizi efficienti e il ruolo attivo del Terzo settore. Anche l’esecuzione della pena deve essere considerata un “fatto sociale”. Ridotto a mero strumento punitivo e luogo di espiazione, il carcere fallisce tutti i suoi obiettivi: il recupero delle persone condannate, ma anche la reale sicurezza della società. “Il diritto penale deve trovare il coraggio per sperimentare strade nuove”, scrive Zappa. La suggestiva immagine che utilizza è quella di una sorta di osmosi tra carcere e territorio. Tra le strutture penitenziarie e le comunità dove sorgono può nascere un rapporto di vero e proprio scambio, da sviluppare nell’interesse reciproco: da una parte, avere una occasione vera di reinserimento nella società; dall’altra, affrontare alla radice il fenomeno criminale. Un patrimonio di nuovi principi - A più di vent’anni dalla prima edizione, “La città esclusa” interroga più che mai la società di oggi. Una prima risposta è nei numeri. Nel 2024 i suicidi nelle carceri italiane sono stati 83, il dato più alto di sempre (Fonte: Ministero della Giustizia), mentre le persone detenute sono 62mila, a fronte di una capienza effettiva di 47mila. Nell’Italia di oggi, tornare a ragionare senza preconcetti sulla realtà delle carceri è un’operazione ostica e impopolare, ma quanto mai necessaria. Vale a maggior ragione per una città come Brescia, tra le poche a ospitare una struttura penitenziaria al limitare del centro storico. Nel 2002, in occasione del conferimento del Premio Bulloni, dedicato dalla città di Brescia alle persone che si siano distinte per gesti di bontà verso la comunità, non potendo intervenire alla premiazione, Giancarlo Zappa inviò una lettera. “Bisogna dare tempo alla compagine civile di inserire nel proprio patrimonio genetico i nuovi principi”, scriveva. “Questo richiede l’impegno di più generazioni”. Anche per quelle di oggi, “La città esclusa” è un indispensabile punto di partenza. Etnografie del carcere tra Sud e Nord globale di Gioacchino Toni carmillaonline.com, 12 maggio 2025 Francesca Cerbini, “Prison lives matter. Etnografie del carcere tra Sud e Nord globale”, Elèuthera, Milano 2025, pp. 208, € 18.00. “Prison lives matter” di Francesca Cerbini mette in luce l’importanza della ricerca etnografica nell’affrontare il carcere e chi si trova a viverlo. Il luogo di prigionia viene indagato come manifestazione di repressione per eccellenza e laboratorio “in cui la creazione ad hoc di utili nemici più o meno immaginari, persone deprivate della benché minima umanità in nome della nostra sicurezza e libertà, fomenta la costruzione di una società militarizzata, sotto controllo e marcatamente diseguale” (p. 8). Gli uomini e le donne che si ritrovano reclusi in tali strutture sono presi in considerazione dall’autrice come soggetti reali, tra Sud e Nord globale, non di rado espressione “di quelle frange della popolazione per lo più razzializzate, escluse dai benefici del sistema produttivo e finanziario legale e dall’esercizio di una cittadinanza spendibile per l’acquisizione di diritti” (p. 8). L’approccio etnologico con cui Cerbini guarda all’universo carcerario, focalizzato, come detto, sulle esperienze dei soggetti che lo vivono e sulla loro visione del mondo, la induce a ritenere che il concetto di istituzione totale, a cui si è fatto a lungo riferimento, non si riveli oggi utile a definire tale universo anche alla luce del fatto che sembra essersi dissolta la distinzione netta tra ghetto urbano e prigione, tanto da presentare inedite forme ibride di autogestione o co-gestione fra Stato e detenuti. A partire dalle etnografie condotte nell’ultimo decennio negli istituti di pena del Sud e del Nord globale, Cerbini propone un radicale cambio di prospettiva che, scardinando l’univocità del “penitenziario ideale”, sinonimo di ordine e disciplina, consente di individuare connessioni ed elementi di continuità tra “dentro” e “fuori”, tra carcere e società, manifestando le tante forme di violenza con cui si attua la governance nei confronti dei soggetti sottoposti, in un modo o nell’altro, a restrizioni di libertà. Diversi studi etnografici condotti nelle carceri del Nord hanno mostrato come i penitenziari, con i loro piccoli e grandi aggiustamenti e adattamenti all’ambiente circoscritto e circostante, attraversati da resistenze e addomesticazioni, finiscano per scardinare l’idea di carcere come sinonimo di ordine e disciplina, come “istituzione governata esclusivamente dalle autorità statali con un controllo chiaro, se non assoluto, sui confini dell’istituzione, sui suoi flussi, sull’irreggimentazione di tempo, spazio e popolazione” (p. 174). Ad essere scardinato è il concetto stesso di “ordine come prodotto della razionalità statale e disordine come risultato del governo dei reclusi”, e con esso l’assunto “occidentalista, di stampo evoluzionista, che vede nell’agire autonomo dei reclusi (e ancor più delle recluse, costrette da modelli di genere molto più vincolanti e regolatori della loro esperienza carceraria) l’inesorabile sopravanzare della giungla nel “giardino ordinato” del penitenziario classico” (p. 174). Diversi studi, debitamente riportati dall’autrice, “non si sono limitati a mettere in discussione la netta distinzione tra pubblico (lo Stato) e privato (autogoverno), formale e informale, dentro e fuori, legale e illegale; a denunciare i colpevoli - i reclusi - o un colpevole - lo Stato - pur mostrando i limiti strutturali di un sistema, la sua violenza inaudita e la disuguaglianza sociale che il carcere incarna a partire dalla selezione iniqua di coloro che vi soggiornano” (p. 174). Da tali studi non deriva una visione edulcorata di ciò che accade nelle prigioni, “post-coloniali” e non - l’autogoverno carcerario lungi dal rappresentare una sorta di “riscatto” degli ultimi -, bensì emerge come i gruppi umani che le vivono abbiano trovato modalità efficaci di sopravvivenza, si siano dotati di regole in maniera da evitare per forza di cose massacrarsi tra loro. L’apporto più importante delle etnografie esplorate dall’autrice “è consistito proprio nella restituzione di un ventaglio di pratiche di governo del penitenziario difficilmente ascrivibili a formule univoche e cristallizzate”. Tale restituzione, sottolinea Cerbini, “è stata possibile operando un passaggio preciso: dal pensare il carcere come un’istituzione con le sue luci e ombre al pensarne il funzionamento partendo dai soggetti che lo vivono, o meglio dalla loro “visione del mondo” (p. 176). L’approccio etnografico, nel suo tentativo di comprendere “le dimensioni trans-locali e trans-carcerarie”, si è rilevato utile a “pensare l’incarcerazione al di là della retorica ufficiale autolegittimante e delle semplicistiche narrazioni post-coloniali che considerano le prigioni del Sud globale sfrenate e barbariche in contrapposizione alle prigioni (in teoria) ordinate e controllate del Nord globale, sia per sovvertire i concetti binari, assolutisti che ne fanno da corollario” (p. 177). Ciò che è emerso, puntualizza Francesca Cerbini, è “un carcere diverso non in ragione delle discrepanze, delle mancanze del carcere del Sud globale a beneficio implicito (o esplicito) delle carceri del Nord. Tale cambio di prospettiva è stato possibile ripercorrendo all’inverso il cammino della deumanizzazione di carcerati e carcerate, riconoscendo che colonia, post-colonia, “razza”, e povertà hanno un legame profondissimo che conforma un continuum della violenza dalle molteplici varianti spazio-temporali” (p. 178). Con l’approccio etnografico si sono aperte inedite possibilità comparative in cui le differenze mostrano “come localmente si declinino le spinte globali universalizzanti che dall’economia finiscono per influenzare la politica, l’attività legislativa, e con essa la mobilità e l’immobilità a cui le persone sono costrette”, mentre le similitudini permettono di sottrarre ““unicità”, “peculiarità” e sensazionalismo a quelle realtà penitenziarie che si discostano in modo più o meno eclatante dal carcere “ideale”“ (p. 179). Le ricerche etnologiche evidenziano, dunque, “cosa accade nell’antipanottico, ossia mostrano contesti, relazioni, poteri che a uno sguardo poco allenato alle alternative teoriche decentrate sembrano alludere soltanto all’indisciplinatezza di un modello penitenziario. Certe caratteristiche invece non sono “esotismo” né una brutta copia, né una situazione sfuggita di mano, quanto più probabilmente conformano un complesso di pratiche, esperienze e circostanze che rimettono in discussione il concetto di ordine e caos, o meglio tutto ciò che sappiamo sul carcere” (p. 179). C’è bisogno di speranza: impariamo a coltivarla di Cristina Dell’Acqua Corriere della Sera, 12 maggio 2025 Papa Francesco l’aveva definita la più piccola delle virtù ma la più potente, capace di modificare le dinamiche della nostra vita quotidiana. Nel mito, Pandora, aprendo il vaso che non avrebbe dovuto aprire, fa fuoriuscire tutte le sciagure e i mali perché si abbattano sull’umanità. Solo Speranza, come in una casa indistruttibile, ci racconta Esiodo (Le opere e i giorni) non vola fuori, Pandora richiude in tempo il malefico vaso. Per volere di Zeus. Un tipo di vaso che non è un’invenzione di Esiodo, già nell’Iliade (XXIV) ne troviamo due sospesi agli stipiti della porta di Zeus: uno è colmo di beni e l’altro di mali. A ben guardare allora, nel vaso aperto da Pandora c’erano solo i mali? E allora perché c’era la Speranza? È forse un simbolo della radice della nostra duplicità umana, sempre in bilico tra sofferenza e felicità? La nostra fragilità e finitezza. È lì che si annida un seme di quella Spes contra spem di cui parlerà San Paolo nella Lettera ai Romani? La speranza contro ogni speranza, che persiste contro ogni dubbio e che è d’aiuto anche a chi non ne ha. In greco elpís, aspettativa, può anche essere delusa. Una speranza che sembra contenere qualcosa del suo contrario, la dis-perazione. In latino è Spes, da cui deriva la nostra parola italiana e più vicina a quello che anche per noi rappresenta: un senso di aspirazione, fiducia e tensione verso una meta. Nel mondo romano veniva venerata, le dedicavano templi e a lei gli imperatori si rivolgevano perché fosse di buon auspicio nelle loro imprese. Ma dipende da noi quale volto darle. La speranza è uno sguardo sull’esistenza, occorre alimentarlo, soprattutto quello dei giovani. E non è neppure vero che sia una prerogativa esclusivamente cristiana. Ci viene incontro una frase molto bella di Norberto Bobbio e spesso citata dal cardinale Martini: “la vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa”. Allora educhiamo i nostri giovani a pensare. Zeus, oltre che al vaso di Pandora, ha dato vita anche alle Muse, insieme a Mnemosyne, dea della memoria. Sono nove divinità protettrici delle arti, della scienza e della musica. I Greci ci dicono che la Bellezza è anch’essa un dono divino e se ci prendiamo l’impegno di insegnarla, i giovani sapranno riconoscerla e farne fonte di speranza: un futuro in cui ne saranno artefici. Mi ha colpita che Papa Francesco l’avesse definita la più piccola delle virtù ma la più potente, capace di modificare le dinamiche della nostra vita quotidiana. Una virtù saggia e visionaria, capace di farci sperare l’insperabile D’altro canto, sosteneva Eraclito, se l’uomo non spera l’insperabile, non lo troverà. Fine vita, Zaia: “Se il Governo rivendica la sua competenza, faccia una legge” Il Dubbio, 12 maggio 2025 Il governatore leghista dopo la decisione dell’esecutivo di impugnare la legge toscana sul suicidio assistito: “Basta ipocrisie, è un tema etico, non politico”. “Lo dico come premessa: bisogna uscire da questa ipocrisia, tutta italiana, di far finta che il tema del suicidio assistito - o come preferisco chiamarlo, la gestione del fine vita - non esista. Esiste eccome. Il governo ascolti le Regioni che di questo argomento, loro malgrado, si devono occupare quotidianamente per poter dare risposte adeguate”. Così il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, in una intervista al Corriere della Sera, “risponde” alla decisione del governo di impugnare la legge della Toscana, prima regione in Italia a dotarsi di una norma sulla morte volontaria medicalmente assistita. “Ne prendiamo atto. E che sia competenza dello Stato - osserva Zaia - è ciò che ha detto anche la Corte sollecitando il Parlamento. Con coerenza il governo impugna una legge per rivendicare la propria competenza, con altrettanta coerenza dovrebbe fare questa legge di propria competenza. Perché non è un problema politico. Si convochino le Regioni per affrontare il tema. Altrimenti finirà per accadere di nuovo ciò che è successo a Eluana Englaro: un padre che ottiene la sospensione dell’alimentazione artificiale con una sentenza di Tribunale. Un Paese civile non dovrebbe gestirla così”. Per Zaia si tratta di “un tema etico, non di destra o sinistra. C’è un mantra: che chi è contro il fine vita è di destra. Beh, io non sono di sinistra, e sappiamo che a sinistra ci sono sacche importanti di persone che non sono d’accordo con la gestione del fine vita. Proprio che ci siano favorevoli e contrari in entrambi gli schieramenti è la prova che è un tema etico e non politico. È il momento di trovarci attorno a un tavolo, ascoltando le istanze di tutti. Se non arriveremo alla legge in maniera programmata e per scelta, la subiremo per necessità”. Il governatore leghista, da sempre aperto al tema sul fine vita “da destra”, si era fatto promotore di una legge anche nel suo Veneto, che però non ha superato il voto in consiglio regionale. Anche in quel caso, come in Toscana, si trattava della legge lanciata dall’Associazione Luca Coscioni con la campagna “Liberi subito”, che si limita a fissare tempi e procedure certe secondo i requisiti stabiliti dalla Corte Costituzionale con la sentenza 242 del 2019. Migranti. Morire di sete e fame a due anni, l’ennesima tragedia a Lampedusa di Davide Vari Il Dubbio, 12 maggio 2025 Il racconto drammatico della ong tedesca Resqship, che ha recuperato i corpi di due bambini e un trentenne a bordo di un gommone alla deriva nel Mediterraneo per giorni. Ancora una tragedia a Lampedusa. Le vittime dell’ennesima traversata disperata sono due bambini e un trentenne, i cui corpi sono stati recuperati dal veliero nadir della ong tedesca Resqship, insieme ad altre 57 persone tratte in salvo, tra cui due minori. A bordo del gommone soccorso nella notte, secondo quanto riferisce la stessa ong, c’erano 62 migranti tra cui 17 donne, due neonati e quattro bambini piccoli. Dopo tre giorni di difficoltà nel Mediterraneo, l’equipaggio ha preso in carico i numerosi feriti e prestato i primi soccorsi ai sopravvissuti. Troppo tardi, invece, per i piccoli di due anni, che sarebbero morti di stenti, di sete e di fame. I corpi sono stati trasferiti a Lampedusa, nel cimitero di Cala Pisana. E ci sarebbe anche un disperso secondo i racconti di alcuni testimoni: un uomo che sarebbe finito in acqua, forse volontariamente per trovare sollievo alle ustioni, e che poi non sarebbe più riuscito a risalire a causa del mare agitato. Tutti sarebbero partiti mercoledì notte con un gommone, dalla Libia, pagando ai trafficanti 1.500 dollari a testa. Secondo il racconto drammatico dell’equipaggio dell’ong tedesca, i due bimbi erano morti “il giorno prima del soccorso”, avvenuto ieri, “a causa della sete”; mentre il trentenne è deceduto “nonostante gli sforzi per rianimarlo”. Il team aveva ascoltato un messaggio radio da un aereo di Frontex su un’imbarcazione in difficoltà nella zona di ricerca Sar maltese. Il gommone era partito da Zawiyah (Libia) tre giorni prima, racconta la ong. Con il motore che si era guastato due giorni prima, le persone erano esposte al vento e alle intemperie. Quando il Nadir ha raggiunto il gommone intorno alle 16.30, “era troppo tardi per aiutare alcune persone”. “Quando abbiamo iniziato i soccorsi, ci sono stati consegnati due corpicini senza vita”, racconta Rania, un operatore medico a bordo del Nadir. “Erano morti il giorno prima, probabilmente di sete”. Secondo i sopravvissuti, una persona era già caduta in mare ed era annegata il giorno prima. Durante l’evacuazione di tutte le persone sul Nadir, è stato trovato anche un uomo privo di sensi che si è tentato invano di rianimare per 30 minuti dopo essere andato in arresto cardiaco. La Guardia costiera italiana, interpellata in soccorso, è arrivata intorno alle 20.45 con un’imbarcazione già piena di migranti salvati in precedenti operazioni. La nave è riuscita a prendere in carico dal Nadir solo i due bambini con le loro madri e altre due persone gravemente ferite per portarli a Lampedusa. Le condizioni dei due bambini e degli adulti erano critiche. Molti dei sopravvissuti rimasti a bordo del Nadir avevano subito gravi ustioni chimiche: “Molti avevano ustioni estese a causa della miscela tossica di acqua salata e carburante”, riferisce il medico di bordo Hannah. Le donne sono state particolarmente colpite perché si trovavano all’interno della zona dove si accumula il carburante. L’equipaggio per ore ha fornito cure mediche, stabilizzato il più possibile le persone mentre faceva rotta verso il porto assegnato di Lampedusa. Alle 4 del mattino, Nadir ha raggiunto l’isola. I cadaveri sono stati consegnati alle autorità. “Questa tragedia avrebbe potuto essere evitata. E’ l’ennesimo esempio - conclude la ong tedesca - del fallimento delle politiche migratorie europee. Invece di fornire protezione, costringe sistematicamente e illegalmente le persone a spostarsi e spesso a tornare in luoghi dove subiscono torture, violenze sessuali e sfruttamento. Invece di coordinare il sostegno e facilitare passaggi sicuri, l’Europa sta abbandonando persone indifese, con conseguenze mortali. I bambini che muoiono di sete sono un fallimento politico imperdonabile”. La democrazia non è infallibile: fino a che punto il voto popolare può coprire crimini contro l’umanità? di Simone Millimaggi Il Fatto Quotidiano, 12 maggio 2025 La libertà e la dignità umana devono occupare un posto centrale in tutte le azioni che si compiono in nome della democrazia. Nella teoria politica moderna, il concetto di legittimità democratica è spesso inteso come un sigillo di approvazione morale. Se un leader viene scelto dalla maggioranza, le sue azioni godono di una presunzione di giustizia. Eppure, la storia ci impone di rivedere questa equazione semplicistica. L’elezione popolare, infatti, non è un’assoluzione preventiva dalle colpe del potere, ma piuttosto un mandato condizionato dalla ragione, dall’etica e dal diritto. Il principio secondo cui “il popolo non sbaglia” è una finzione pericolosa. La democrazia non è un algoritmo infallibile, ma un processo umano, soggetto a manipolazioni, paure collettive e derive autoritarie. L’analisi di tale dilemma ci induce a rivisitare figure storiche emblematiche, tra cui Adolf Hitler. La sua ascesa, infatti, e la conseguente nascita del Terzo Reich non sono ascrivibili a un colpo di Stato militare, ma al prodotto inquietante di una macchina politica che sfruttò il malcontento, la propaganda e la crisi istituzionale per ottenere il sostegno delle masse, servendosi, in effetti, proprio di elezioni e plebisciti. Eppure, nessuna maggioranza può giustificare lo sterminio di milioni di persone. Allo stesso modo, oggi, Benjamin Netanyahu, sostenuto da una coalizione di governo votata democraticamente, guida politiche che, secondo numerose organizzazioni internazionali, violano sistematicamente i diritti umani dei palestinesi. L’assedio di Gaza, gli insediamenti coloniali in Cisgiordania e le operazioni militari che hanno causato migliaia di vittime civili pongono una domanda scomoda: fino a che punto il voto popolare può coprire crimini contro l’umanità? Hans Kelsen, giurista e filosofo del diritto, sosteneva che la validità di una norma non dipende dalla sua giustizia intrinseca, ma dalla sua conformità a un sistema legale riconosciuto. Eppure, questa visione positivista entra in crisi di fronte a regimi che, pur essendo formalmente legittimi, commettono atrocità. Il processo di Norimberga stabilì un principio rivoluzionario. Esistono leggi morali superiori a quelle dello Stato, e nessun governo, neppure eletto, può violarle impunemente. Netanyahu, come Hitler, potrebbe affermare di agire in nome della sicurezza nazionale, della volontà popolare o persino di un “destino storico”. Ma la domanda filosofica rimane: “può una democrazia diventare tirannica?”. La risposta di pensatori come Karl Popper e Hannah Arendt è chiara: “sì, se svuota i suoi stessi principi fondativi”. Una democrazia che nega diritti fondamentali a una parte della popolazione, sia essa ebrea, palestinese o di qualsiasi altro gruppo, tradisce se stessa. Un altro nodo cruciale è il ruolo della società che sostiene tali governanti. Il popolo tedesco non fu solo vittima del nazismo, ma anche suo complice, attraverso l’indifferenza, il consenso passivo o l’entusiasmo nazionalista. Oggi, molti israeliani criticano Netanyahu, ma una parte significativa continua a sostenerlo, giustificando la violenza come necessaria. Qui entra in gioco il concetto di “colpa morale della maggioranza”. Se un governo eletto commette crimini, chi lo ha votato ha una responsabilità indiretta? La filosofia politica risponde di sì. Poiché, invero, la democrazia non si esaurisce in un semplice atto di voto. Ma si erge come un valore che richiede un costante impegno alla vigilanza e alla partecipazione attiva dei suoi cittadini. Essa trova la sua essenza nel dialogo aperto e nella critica costruttiva, elementi fondamentali per garantire giustizia ed equità. Piero Calamandrei, con grande saggezza, affermava che il potere deve essere continuamente interrogato e mai accettato supinamente. Questo principio ci ricorda che la libertà e la dignità umana devono occupare un posto centrale in tutte le azioni che si compiono in nome della democrazia. Mai dovremmo rinunciare al sapere critico. Botte e roghi per i migranti: l’inferno del deserto tunisino di Mosè Vernetti Il Domani, 12 maggio 2025 Due recenti uccisioni hanno scosso la comunità subsahariana, da tempo sotto attacco delle autorità. Nel paese ci si organizza per fornire assistenza sanitaria. Mentre attivisti e ong vengono perseguitati. Anche la Tunisia è un paese sicuro nel quale le persone migranti non correranno rischi se respinti o deportati: parola di Commissione Europea. Una notizia che arriva a poco più di una settimana dalla barbara uccisione - per mano della polizia tunisina - dei giovani Mustapha Tarawallie e Alseny Togbodoun, rispettivamente del Mali e della Guinea Conakry. È accaduto nei campi informali che da ormai diversi anni ospitano circa 20mila persone in viaggio verso l’Europa, sparse tra gli uliveti di Al Amra e Jebeiana, a una trentina di chilometri da Sfax, città portuale del paese nordafricano. Dallo scorso 4 aprile gli uliveti continuano a essere teatro di violenze sistematiche, incendi, deportazioni. “Una vera e propria caccia all’uomo nero, fomentata da una campagna governativa di odio xenofobo”, dice a Domani l’attivista tunisino Majdi Karbai. Caccia che stava per degenerare lo scorso 18 aprile, con l’ultimo raid della guardia nazionale al km 33 che ha bruciato la tenda del neonato di tre mesi Fatoumata Camara rischiando di ucciderlo. La scorsa settimana le violenze erano culminate con la morte dei due giovani che erano stati portati, il primo il 7 e il secondo il 9 aprile, nella tenda dove Patricia - infermiera guineana di 26 anni - svolge instancabilmente da due anni un servizio di primo soccorso fondamentale per le comunità dei campi, al km 33. “Quando Mustapha è arrivato aveva un proiettile nel collo e la pelle lacerata, ho chiamato i soccorsi ma dopo ore di attesa sono arrivate tre auto della polizia: sono stata costretta a lasciarlo a loro. Poi è scomparso”, confida in lacrime a Domani. Sono a centinaia le persone sequestrate dalla polizia che scompaiono. “Si fingono operatori dell’Iom - continua Patricia - promettendo di riportare le persone che lo vogliono a casa. Poi li abbandonano in mezzo al deserto, subito dopo averli tolto cibo, telefono e scarpe”. Adesso anche la sua tenda-infermeria è stata distrutta, per la quarta volta nell’ultimo anno. “Dicono di smantellare le tende per spostarci in sistemazioni di accoglienza più consone, ma non è così. Vogliono che molliamo, che torniamo indietro”, racconta Bairo, gambiano ventiseienne che vive al km 25 da due anni. “Vivevamo come animali già prima di queste rappresaglie”, spiega invece Lamine, anche lui del km 25. “Beviamo l’acqua che usano per irrigare il suolo. È tossica, causa malattie cutanee e dobbiamo anche pagarla. Quella imbottigliata è troppo cara”, aggiunge. Il Mou con l’Europa - Sono gli efficaci risultati del memorandum d’intesa siglato nel luglio del 2023 tra l’Ue e la Tunisia di Kais Saied. Contenimento dei flussi migratori - senza remore sui metodi - in cambio di investimenti per lo sviluppo del paese. “Oltre a essere brutali, sono operazioni che non serviranno a nulla. Ricostruiranno sempre nuovi campi perché non hanno dove altro andare”, riferisce Romdhane Ben Amor, del Forum tunisino per i Diritti economici e sociali. Ed è proprio quello che racconta Ibrahima, dottore - anche lui migrante, vive al km 30 - che insieme a Patricia e altri operatori sanitari ha fondato il Medical emergency network for refugees in Tunisia. Sono pochi medici volontari, bloccati nel limbo tunisino, chi da un anno, chi da tre: grazie a loro la comunità sopravvive. L’infermiera Fatima, una di loro, è stata catturata dalla polizia e deportata nel deserto lo scorso 28 aprile mentre si dirigeva verso la tenda di un paziente malato. Ora si trova in Niger. Mentre pochi giorni fa Ibrahima è stato intercettato dalla polizia e pestato a sangue. In videochiamata ci mostra tutte le tende ricostruite negli ultimi giorni. “Abbiamo appena finito di ricostruire quello che adesso è l’unico ospedale in tutti i campi, l’unico per 20mila persone”, esordisce Ibrahima mentre invia in chat video di alcuni recenti interventi di sutura. “Avevamo due tende ospedale anche in altri punti del campo, ma sono state distrutte nei giorni scorsi. Ora i soldi ci servono per le medicine più importanti, che spesso neanche ci vendono perché siamo migranti. Farle arrivare qui dall’Europa è impossibile”, continua. Ibrahima è stremato, ma la sua resistenza garantisce la sopravvivenza alle persone determinate a continuare il loro viaggio. “Cerco di tenere in piedi il minimo indispensabile affinché i miei compagni rimangano vivi. Se li portiamo all’ospedale tunisino spesso non li vediamo più”, continua. Stanno partendo raccolte fondi informali e qualche associazione si è già adoperata per aiutare alcune persone a ricostruire le tende. Non ci sono operatori umanitari sul posto, è troppo pericoloso. La solidarietà della società civile internazionale rimane ad oggi l’unico supporto su cui Ibrahima e Patricia possono contare. Nella Tunisia di Saied la repressione è totale. Da quando ha preso il potere per i migranti la vita è diventata un inferno. “Ormai aiutare le persone sub-sahariane è diventato reato. Le Ong tunisine che supportavano i migranti sono chiuse. Ma molte persone son dalla sua parte: ormai i discorsi xenofobi sul rischio di sostituzione etnica hanno fatto breccia. E la repressione di Saied è troppo dura”, confida a Domani un artista di Tunisi, anche lui vuole rimanere anonimo. “Sono già dieci le persone in galera per il supporto offerto alle persone migranti”, dice Majdi Karmai. “Primi tra tutti Sherifa Ryahi e Mohamed Jouau ex presidente e tesoriere dell’associazione Tunisie terre d’Asile, perché, grazie all’aiuto di Mohamed Ikbel Khaled e Imen Ouardani - sindaco e vice-sindaco della città di Sousse - anche loro in carcere - avevano adibito una struttura pubblica per ospitare al sicuro diversi migranti”. Sono giorni duri per la libertà più in generale in Tunisia: è da poco concluso un maxi processo che ha sentenziato centinaia di oppositori politici a condanne tra i 13 e i 66 anni di carcere, con l’accusa di cospirazione contro lo stato. Iran. La mamma di Mahsa Jina Amini: “Vi racconto mia figlia, simbolo di una rivoluzione” di Greta Privitera Corriere della Sera, 12 maggio 2025 Parla per la prima volta Mozhgan Eftekhari: “Mia figlia non era politicizzata. Era molto credente e studiava con me la religione. Senza di lei non vivo più, si stava affacciando alla vita”. È una ragazza Mozhgan Eftekhari quando scopre di essere incinta della sua primogenita. Ha poco più di vent’anni e da sempre sogna di diventare madre. Mentre la pancia cresce veloce, si domanda che occhi avrà quella bambina tanto desiderata. Che cosa amerà, sognerà, chi diventerà. “Quando aspetti un figlio, non puoi immaginare chi accoglierai. Non ne conosci i tratti del volto, il carattere, il destino”, racconta. Il 21 settembre 1999, nel giorno in cui l’estate si congeda, Mozhgan dà al mondo Mahsa Jina Amini. “La mia amata bimba è nata con gli occhi neri come il cielo di notte senza Luna, ed è diventata una delle donne più influenti d’Iran, il simbolo di una rivoluzione. La prima volta che ho stretto la sua piccola mano nella mia, ricordo di aver sentito quanto fosse speciale”. Proviamo più volte a metterci in contatto con Mozhgan. Fino a oggi aveva rifiutato di risponderci per paura delle conseguenze che le sue parole d’amore avrebbero avuto sulla famiglia. Sul marito Amjad, e sul figlio Ashkan. “Nemmeno ora abbiamo pace. Viviamo sotto una lente d’ingrandimento, siamo controllati”, dice. Nell’anniversario della morte e nel giorno del compleanno gli è vietato avvicinarsi alla tomba della figlia. Alcuni familiari sono finiti in carcere a causa di quel cognome, Amini. Mozhgan non ha mai parlato con nessun giornale. Decide di farlo “perché il ricordo è l’unica cosa che mi tiene in vita”. Mahsa Jina Amini per sua madre e per le persone con cui siamo in contatto è solo “Jina”, il nome curdo: “Quando fai parte di una minoranza etnica devi adeguarti alla maggioranza. Ai nostri figli aggiungiamo un nome iraniano per avere meno problemi”, spiega un parente. Mozhgan racconta di Jina al presente, come se la ragazza non fosse mai stata uccisa. I familiari dicono che ogni tanto parla da sola. “Mi rivolgo alla mia bambina”, risponde lei, felicemente impigliata in una realtà parallela a tratti disperata, a tratti poetica. “A volte, nel silenzio della notte, sento il suo respiro. Si prende cura di me più di tante persone vive”, racconta. E avverte: “Oggi parlo, ma non dirò nulla di politico”. Non pronuncerà una parola sui negoziati in corso tra la Repubblica islamica e gli Stati Uniti. Nemmeno sul popolo iraniano stremato dalla repressione degli ayatollah e da un’economia a pezzi. “Noi Amini non siamo interessati agli affari pubblici. È un paradosso, ma mia figlia non pensava minimamente ai giochi del potere. Il nostro percorso è quello dell’amore e della spiritualità”. Mahsa Jina Amini è la ragazza di 22 anni nata a Saqqez, nel Kurdistan iraniano, e morta a Teheran, il 16 settembre 2022, dopo tre giorni di coma. È in vacanza con la famiglia nella capitale quando la polizia della morale la ferma all’uscita della metro e la carica su una camionetta già gremita di altre “peccatrici”, perché una ciocca di capelli le sfugge dall’hijab che lei porta sempre, per scelta. Un parente racconta che stando alle dichiarazioni delle compagne di camionetta, una volta rinchiusa in quel furgone bianco, la ragazza va in panico. Mentre le ragazze di Teheran sono abituate alle ronde della polizia della morale, in Kurdistan è inusuale vederli per le strade, il popolo curdo non lo accetterebbe. Allora, Jina, terrorizzata, urla, si dimena finché le agenti la colpiscono. In un video di una telecamera fissa della stazione di polizia si vedrà il momento in cui la ragazza sviene. Le autorità diranno che ha un attacco di cuore. Una versione a cui nessuno crede, e la famiglia ripete: era in ottima salute. Di quei giorni concitati, rimane una foto costata il carcere alla giornalista che l’ha scattata, dove si vedono Mozhgan e il marito mentre si stringono in un abbraccio disperato, nel corridoio dell’ospedale. La sua uccisione così ingiusta e arbitraria porta migliaia di giovani per le strade d’Iran. Alla protesta si uniscono i commercianti e i professori. Poi i pensionati e le casalinghe. Per la prima volta, in testa a questi cortei pacifici e coraggiosi ci sono le ragazze. Sono molto diverse da Jina quelle che guidano la rivolta - bruciano i veli sui tetti delle macchine, non sono religiose - ma nel suo nome fondano Donna, Vita, Libertà, il più potente tentativo di rivoluzione dal 1979, dalla fondazione della Repubblica islamica che, anche questa volta, incarcererà, ucciderà, reprimerà. “Come madre di Jina, sarò per sempre grata al popolo onorevole della città di Saqqez e a tutta la gente libera del Kurdistan e del nostro amato Iran. Mi inchino davanti al loro coraggio”, continua Mozhgan. Ma la rivoluzione di un popolo coincide anche con la fine di una madre. “La prima a crollare sono stata io. Ho perso mia figlia, la mia amica, il mio sostegno. Giuro su Dio che non avrei mai immaginato che mi avrebbe lasciato proprio quando si stava affacciando alla vita”. Il mese dopo la sua uccisione, avrebbe dovuto iniziare microbiologia, all’università. “Amava la medicina. Sognava di guarire sia il corpo che l’anima delle persone. Mi diceva sempre: “Mamma, bisogna curare anche il cuore”“. Il padre lavora in ufficio statale e per sua figlia ha aperto un negozio di vestiti alla moda. Si trova nel centro di Saqqez e si doveva chiamare “Best boutique”. “Ora il nome è stato cambiato in “Jina” e lo gestisce un’amica. Su Instagram si possono ancora vedere i primi video girati da lei, la sua voce allegra, le sue mani che scorrono sui tessuti”, racconta sempre un parente. “Mia figlia era buona e gentile. Leggevamo libri, studiavamo e pregavamo insieme. La sua morte ha portato via tutto e ancora non lo accetto”. Jina era molto religiosa, è cresciuta secondo i valori tradizionali. Era timida e adorava prendersi cura dei bambini. Che cosa desiderava per il futuro? “Aveva tanti sogni - dice Moghzam - era piena di vita. Non mi va di raccontarli al mondo. Posso però condividere che sposarsi non era nei suoi pensieri. Diceva: “Mamma, il matrimonio mi allontana dalla conoscenza di me e di Dio”. Mozhgan ha paura che queste parole siano troppo pericolose per la sua famiglia, ma la preoccupa ancora di più che non siano all’altezza di sua figlia “perché era immensa, non so darle giusta dignità”. Racconta che sognava di vederla diventare grande: “Da bambina le parlavo come fosse stata adulta. Volevo che crescesse fiera e con una grande autostima. La chiamavo la mia “lady”, vivevo per lei”. Nei giorni più difficili, quando la mancanza le divora i pensieri, c’è un ricordo che la calma: “Dicevo sempre ai miei figli: “Ricordatevi che non siete nati solo per voi stessi. Cercate di diventare persone profonde, giuste: cambiate il mondo”. Alla fine, Jina ce l’ha fatta”.