L’inciviltà va combattuta con la civiltà e l’odio con l’amore, anche in carcere a cura di Maria Corbi La Stampa, 11 maggio 2025 In che mondo vogliamo vivere? Asserragliati nella fortezza, terrorizzati anche dal nostro vicino di casa, armati fino ai denti per difendere i nostri beni, diffidenti e capaci di vedere negli altri solo un potenziale nemico: è questo il mondo in cui vogliamo vivere? Da circa 12 anni noi di Ristretti Orizzonti avevamo lanciato una sfida: smettiamola di dire che “i mafiosi non cambiano mai”, facciamo in modo invece che gli venga voglia di cambiare, per i loro figli, per i nipoti, per il desiderio di diventare persone “perbene”, una bella espressione che fa capire che essere “a favore del bene” ti fa vivere meglio, è già quella una ricchezza. E così, avevamo chiesto di fare una sperimentazione: far lavorare insieme nella nostra redazione detenuti comuni e detenuti di Alta Sicurezza. Se dovessi spiegare il senso di questa sperimentazione, preferirei farlo raccontando quello che ha detto ieri in redazione Salvatore: “Io sono nato nei quartieri Spagnoli di Napoli, non facevo parte di associazioni criminali, ma vivevo nell’illegalità, inseguivo i soldi facili, le rapine a portavalori erano la mia vita. Quando ho cominciato a frequentare la redazione di Ristretti, la cosa che mi ha colpito di più sono stati gli incontri con le scuole, e il vedere i miei compagni, alcuni che erano stati boss di organizzazioni criminali, parlare di sé, “mettere in piazza” i propri disastri, spiegare come avevano cercato in passato di attrarre le giovani generazioni e come alla fine avevano distrutto la propria vita e quella dei loro cari inseguendo il potere e il denaro. Per me, che ero cresciuto “a pane e malavita” guardando con rispetto ai boss criminali, è stato sconvolgente vedere proprio loro smontare i miti che mi ero costruito anch’io”. Ecco, in questi anni noi di Ristretti ci siamo impegnati a smontare tutti quei miti che rendono tante volte le carceri una scuola di criminalità, più che un luogo di rieducazione. Ma ora ci è arrivata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria la comunicazione che dobbiamo smantellare l’esperienza di condivisione del lavoro della redazione tra detenuti comuni e detenuti di Alta Sicurezza e tornare all’antico, i detenuti comuni da una parte, quelli dell’Alta Sicurezza asserragliati nei fortini delle loro sezioni, facendo a finta che si possa realizzare la rieducazione stando rinchiusi nelle sezioni, anzi nelle celle, e frequentando solo loro simili. Non invidio chi sta creando questo mondo fatto di isolamenti e chiusure. Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni di volontariato è che vive male chi intorno a sé vede solo dei nemici, e gli amici pensa di andarseli a cercare “nei piani alti della vita”, là dove si sta bene e si è tutti buoni. Agnese Moro, che ha avuto il padre ucciso negli anni della lotta armata, ci ha insegnato che nella vita “non bisogna buttare via nessuno”, Gino Cecchettin ci ha mostrato che, anche nella più grande delle sofferenze, si sta meglio a non coltivare l’odio... Non siamo degli ingenui, non pensiamo che sia facile, per le persone che sono cresciute nelle organizzazioni criminali, prenderne le distanze e sperimentare una cosa così poco di moda come “il piacere dell’onestà”. Ma ne abbiamo viste tante, di persone che sono cambiate, e la sfida vera è quella, non è costruire fortini per i “buoni” e stare lì dentro a difendersi dai “cattivi”. Ornella Favero, Direttrice di Ristretti Orizzonti e Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Risposta di Maria Corbi Cari lettori, pubblico questa lettera aperta di Ornella Favaro perché l’amore è un campo largo e non un’aiuola dedicata solo a due cuori. E penso che quando ci riempiamo la bocca di questa parola in realtà non ne conosciamo affatto il significato. Amore significa accogliere l’altro, dargli fiducia e anche raccoglierlo quando cade. Non è relegabile solo a una relazione passionale o familiare. Siamo un popolo cresciuto in un Paese cattolico, religione che mette al centro di tutto l’amore per il prossimo e il perdono. Ma anche chi va tutte le domeniche in chiesa, conoscendo le preghiere e la liturgia a memoria, si scorda spesso delle fondamenta della religione a cui si affida. Una lunga premessa per ragionare sul fatto che stiamo diventando persone che, come dice Favaro, vedono il nemico ovunque, con una rabbiosa propensione alla vendetta. Basta girare i canali della televisione, con tutti i talk show che parlano di casi dolorosi di cronaca, per rendersi conto di quello che sto dicendo. La frase più gettonata per i colpevoli, o presunti tali, è “metterli dentro e buttare la chiave”. Che sia difficile andare oltre la violenza, la brutalità, il dolore, lo capisco. Ma ci si deve arrivare con la testa e metterci anche il cuore. I nostri padri costituenti hanno pensato a pene riabilitative, perché deve essere questa la missione dello Stato, ossia di noi tutti, ed è l’unico modo per migliorare la società. Invece troppe persone pensano che la pena debba essere in fondo solo una forma di vendetta, una punizione e non invece uno spazio di redenzione, di costruzione. E così anche le carceri, non importa se siano luoghi infami, dove i detenuti si affastellano uno sull’altro, privi di qualsiasi dignità. Eppure già Fëdor Dostoevskij diceva che “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. L’inciviltà va combattuta con la civiltà, e l’odio con l’amore. Non è una strada facile e non è immediato comprenderne la necessità, ma sono certa che la lettera che abbiamo appena letta possa aiutarci a fare un salto, ad andare oltre, a capire che per estirpare il male occorre coltivare il bene, la pietà, l’umanità, l’amore. Sono entrato in carcere a 15 anni, ne ho 44 e ho scoperto da poco che esistono gli educatori di Costanzo Apice* L’Unità, 11 maggio 2025 C’è un momento della mia vita che ho percorso con il pensiero tante di quelle volte che mi sembra la scena di un film. Avevo 13 anni, io e mia sorella più piccola siamo davanti a mia madre che piange perché non ha i soldi per comprare da mangiare per noi. In preda alla rabbia non seppi fare altro che andare a rubare. Non avevo un padre, mia madre era iscritta all’ufficio di collocamento ma non ha mai avuto un lavoro, forse, se le cose fossero andate diversamente non sarei qui a raccontare la mia storia. Sono entrato in carcere a 15 anni e oggi ne ho 44. Solo pochi anni fa ho scoperto l’esistenza di educatori e psicologi, prima non sapevo nemmeno cos’era il percorso rieducativo. Per me il carcere significava punizione, e io ero sempre arrabbiato e ribelle. L’unica cosa che mi faceva stare bene erano i colloqui, giocare a pallone e imparare a cucinare. Oggi quando guardo indietro penso che se allora avessi incontrato una educatrice come la persona che mi segue attualmente sono sicuro che mi sarei risparmiato tanta galera, avrei risparmiato tante sofferenze ai miei parenti, e soprattutto non sarebbe stata mia la mano che ha impugnato l’arma che ha causato dolori e patimenti infiniti ad altre famiglie. Sono sposato e ho avuto tre figli, ma un anno e mezzo fa abbiamo perso Salvatore, il primogenito. Questo profondo dolore mi ha cambiato, mi ha aperto gli occhi, facendomi pensare a quanta sofferenza ho causato ad altre persone. Il resto lo ha fatto la mia educatrice, affiancandomi volontari e psicologa, e facendomi seguire dei corsi. Qualcuno dirà che ha fatto il suo lavoro, ma io dico che ha fatto di più, perché ha messo amore nel suo lavoro. Dopo tutto questo oggi io sono una persona diversa, e sono felice di esserlo. Quello che hanno fatto per me vorrei farlo io per gli altri, magari parlare a cuore aperto con i ragazzini del carcere minorile e cercare di salvarne quanti più possibile. Magari lo avessero fatto per me trent’anni fa! *Detenuto nel Carcere di Opera Il commento di Patrizia Ferragina* Nei Laboratori di Nessuno tocchi Caino che si svolgono ogni mese nel carcere di Opera, i nostri amici scendono dai Reparti inizialmente per reagire alla tentazione di rendersi immobili, “legati agli invisibili fili tenaci che li tengono inchiodati alle brandine delle celle… fino a pensare di essere divenuti di ferro” (Maria Teresa Di Lascia, Passaggio in ombra, Feltrinelli 1995), poi negli incontri la discussione e il confronto si animano e fanno sì che sia noi di “fuori” che loro di “dentro” semplicemente restiamo umani. Il momento più difficile è quello dei saluti. Lo scorso 12 aprile Roberto Rampi su queste pagine scriveva della “potenza liberatrice della cultura” e di come “gli strumenti culturali e la loro assenza sono un elemento costante della esperienza carceraria”. Non credo sia banale estendere il ragionamento ai quartieri disagiati delle nostre città, con l’obiettivo e la speranza di risparmiare l’esperienza del carcere alle persone che abitano le periferie e costituiscono inevitabilmente un esercito di riserva per la criminalità organizzata. Eraldo Affinati un anno fa su La Stampa, dopo uno dei tanti episodi incresciosi accaduti al Beccaria di Milano, ammoniva: “Se non ci prendiamo cura dei nostri ragazzi, specie i più fragili e inquieti, è come se avvelenassimo i pozzi della coscienza collettiva mettendo il piombo sulle ali del futuro. Nella mia vita di insegnante di Lettere negli istituti professionali delle borgate romane ho conosciuto tanti adolescenti, alcuni dei quali, si capiva subito, erano sempre sul punto di compiere reati: camminavano sul crinale, tra famiglie improponibili e amicizie pericolose, rischiando di precipitare nell’abisso.” A me sembra che il non prendersi cura è quello che si sta facendo da decenni, cercando di contrastare il fenomeno della devianza con “leggi speciali” e costruzioni di nuove carceri. Ed è proprio ciò che dice Costanzo Apice a conclusione del suo racconto: “vorrei parlare a cuore aperto con i ragazzini del carcere minorile e cercare di salvarne quanti più possibile. Magari lo avessero fatto per me trent’anni fa!” Le Istituzioni e la società civile avrebbero bisogno di ascoltare con maggiore attenzione chi ha sbagliato, e fare tesoro delle sue parole. * Iscritta a Nessuno tocchi Caino, volontaria nel Carcere di Opera Delmastro: “Carceri, dal nostro Governo un investimento senza eguali” di Manuela Galletta giustizianews24.it, 11 maggio 2025 Un “investimento sulle carceri che non ha eguali e precedenti nella storia repubblicana”, una “riforma organica” della magistratura onoraria che “finalmente conferisce diritti e dignità” a “questi nobili servitori dello Stato” che “erano trattati come servi da chi ci ha preceduto”, e infine la volontà di procedere “all’arruolamento dei giudici onorari” per cercare di colmare le pesanti scoperture di organico. Dal Maschio Angioino a Napoli, dove giunge per partecipare al convegno dal titolo “La formazione specialistica per la Polizia penitenziaria: strumento di crescita e sicurezza nel sistema detentivo” organizzato dal Campus Città del Sapere (Polo di Napoli dell’università degli studi di Roma Unitelma Sapienza, presidente Bruno Pinti), il sottosegretario di Stato al ministero della Giustizia Andrea Delmastro delle Vedove si ferma a parlare di temi caldi nel mondo della Giustizia. A cominciare dalle carceri, sulle quali ha posto l’accento un recente report della Corte dei Conti, sottolineando ritardi nello stato di attuazione del “Piano carceri” ed evidenziando problemi legati alla piaga, ormai strutturale, del sovraffollamento all’interno di numerosi penitenziari in diverse regioni italiane, inclusa la Campania. “La Corte dei Conti ha precisato che l’arco temporale dei suoi rilievi è Bonafede, Cartabia, Orlando. Non è, quindi, il governo Meloni”, premette Delmastro. Il Governo Meloni, invece, “sta ponendo mano al problema del sovraffollamento carcerario con un investimento che non ha eguali e precedenti nella storia repubblicana: oltre 250 milioni di euro, la nomina di un commissario per atterrare 7mila dei 10mila posti mancanti”. Un intervento che, evidenzia il sottosegretario, vuole archiviare una pagina di storia ultradecennale. “Cinquant’anni fa, quando sono nato, c’era il sovraffollamento carcerario e mancavano 10mila posti detentivi, oggi c’è il sovraffollamento carcerario e mancano 10mila posti detentivi. Le ricette messe in campo da coloro che ci hanno proceduto - aggiunge Delmastro - erano svuotacarceri che erodevano la certezza della pena e rendevano insicure le nostre città. Mi pare che sia evidente la fotografia di un fallimento apocalittico”. A fronte di questo sfascio, Delmastro spiega che “noi abbiamo scelto banalmente di fare un piano di edilizia penitenziaria congruo rispetto al fabbisogno italiano, recuperando buona parte dei posti detentivi che proprio la Corte dei Conti dice che manchino”. Quindi l’auspicio: “In due anni e mezzo di Governo abbiamo trovato risorse straordinarie per recuperarne settemila posti detentivi sui 10 mila che mancano. Posso verosimilmente credere negli ulteriori due anni e mezzo troveremo i soldi anche per quegli ulteriori posti mancanti”. E, l’attenzione sulle carceri, resterà alta anche per quanto riguarda la vita che si sviluppa al suo interno: “Con il Governo Meloni e con Andrea Delmastro dentro gli istituti penitenziari non cresce la camorra. Continueremo ad incalzare la criminalità organizzata e a non lasciarle tregua”, assicura. In questo scenario un ruolo fondamentale lo gioca la Polizia penitenziaria, un corpo - dice Delmastro - “fatto di eroi invisibili perché sono meno percepiti dai cittadini ma non sono meno strategici per la sicurezza e l’ordine pubblico italiano”. “All’interno del nostro corpo secerniamo gruppi speciali nel trattamento di detenuti particolari, quali i 41 bis - ricorda Delmastro. Abbiamo un reparto specializzato nelle investigazioni che è il Nic, che proprio qui mi ha dato una gioia straordinaria concorrendo assieme al procuratore Gratteri ad arrestare 18 camorristi e sequestrare milioni e milioni di euro”. Figure altamente specializzate, ha aggiunto Delmastro, che dimostrano come “ancora oggi l’istituto penitenziaria sia essenziale per la sicurezza nazionale perché negli istituti penitenziari i cartelli mafiosi possono ibridarsi se non vengono tenuti in un certo modo e dagli istituti possono comandare: non dimentichiamo che la storia ci racconta della Nuova camorra organizzata di Cutolo che è cresciuta dentro gli istituti”. La formazione, dunque, diventa - come sottolinea Delmastro - “fondamentale e strategica”. Sulla stessa linea Bruno Pinti, presidente della Città del Sapere, polo di Napoli dell’università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza, che ha organizzato il convegno tenutosi ieri al Maschio Angioino: “La formazione è molto importante in ogni settore, noi abbiamo dei percorsi ad hoc riservati alla Polizia penitenziaria - spiega Pinti - e ogni anno facciamo delle modifiche a seconda di quello che viene chiesto nell’ordinario”. Delmastro assicura poi, rispondendo a una nostra domanda, che il Governo adotterà provvedimenti anche sul fronte della carenza di organico nella categoria dei giudici ordinari per dare una boccata di ossigeno all’ufficio del giudice di pace che arranca. “Dobbiamo provvedere a degli arruolamenti - dice Delmastro - Ora abbiamo terminato gli arruolamenti dei giudici togati, passeremo all’arruolamento dei giudici onorari che, sono tra l’altro, coloro che si interfacciano con il cittadino, sia per i reati che per quanto riguarda la giustizia civile per i casi che più quotidianamente flagellano la vita nei casi dei reati del cittadino o costituiscono interessi economici rilevanti. Non è una giustizia minore, è una giustizia di prossimità e per me la giustizia di prossimità, forse, è anche più importante”. Questo intervento rientrerebbe nel solco della legge di aprile in favore della magistratura onoraria, una legge che Delmastro rivendica con orgoglio. “Si tratta di una riforma organica che finalmente stabilizza i giudici onorari e non li rende precari a vita - dice il sottosegretario -. È una riforma che finalmente conferisce loro diritti giuslavoristici: dalla pensione, alle ferie, alla maternità, alla malattia. Sono diritti che prima non avevano perché questi nobili servitori dello Stato sono trattati come servi da chi ci ha preceduto. La riforma organica - conclude sul punto - garantisce tutto questo, dopodiché eventuali piccole ulteriori richieste fanno parte del normale dialogo. Il salto della specie è stato dare una riforma organica alla magistratura ordinaria e far affiorare i diritti dei molti contro i privilegi dei pochi”. L’abuso d’ufficio e i principi della Corte di Raffaele Cantone* e Gian Luigi Gatta** La Repubblica, 11 maggio 2025 Giovedì scorso la Corte costituzionale ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale della legge Nordio, che ha abolito il reato di abuso d’ufficio. In attesa delle motivazioni, proviamo a fare qualche considerazione sul significato della sentenza. Non si tratta di una decisione che appone il bollino verde su una legge, negandone il carattere problematico. La Corte non ha questa funzione: quando non dichiara l’incostituzionalità, esclude soltanto la violazione di un principio costituzionale ma non avalla scelte politiche, la cui responsabilità rimane del Parlamento. Se si guardano, del resto, i fatti oggetto dei procedimenti penali rimessi alla Corte emerge un campionario di problemi che parla da sé. Si va dai concorsi universitari pilotati, al tentativo di truccare il concorso per magistratura, al magistrato accusato di avere adottato un provvedimento per danneggiare alcuni imprenditori favorendone altri, all’illegittima destituzione di un consigliere comunale, all’abusivo affidamento di un incarico dirigenziale in un ente pubblico, all’abusiva autorizzazione a costruire un parcheggio a pagamento, concessa a un amico, al dirigente di una azienda sanitaria che, per evitare concorrenza al figlio veterinario, ostacola il rilascio di autorizzazioni ad altri veterinari. Ecco perché tredici tribunali e la Cassazione hanno dubitato della legittimità costituzionale della legge Nordio, rispetto a svariati principi costituzionali, compresi il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione. Ed ecco perché non viene meno l’esigenza che il Parlamento torni sui suoi passi: dopo l’abolizione dell’abuso d’ufficio, in non pochi casi, fatti dall’evidente disvalore hanno preso rilevanza penale perché non sono applicabili altre norme. Oggi non esiste più in Italia, infatti, una norma che, fuori dai casi di corruzione, sanzioni prevaricazioni, favoritismi, familismi e conflitti di interessi. Ed allora potrebbe venire spontanea la domanda: perché la Consulta non ha dichiarato l’incostituzionalità? Perché in materia penale la Costituzione riserva al Parlamento la scelta di quali fatti punire o non punire più e la Corte violerebbe la riserva di legge se, con una sua decisione, reintroducesse un reato abolito. È il c.d. divieto di sindacato delle leggi penali con effetti in malam partem, che la Consulta ammette eccezionalmente in pochi casi. Tra questi vi è quello in cui esista nel diritto europeo o internazionale un obbligo di introdurre un certo reato. Il dubbio che si sono posti i giudici nel ricorrere alla Consulta è che un simile obbligo, con riguardo all’abuso d’ufficio, fosse previsto dalla Convenzione Onu contro la corruzione. La Corte ha ritenuto questo dubbio non peregrino: ha infatti ritenuto ammissibili le questioni, le ha esaminate ma ha concluso escludendo, nel merito, l’esistenza di un obbligo di mantenere l’abuso d’ufficio e, quindi, l’incostituzionalità della legge che lo ha abolito. Non deve sfuggire che la Corte ha in tal modo ribadito il principio secondo cui una legge che abolisce un reato può essere dichiarata incostituzionale quando contrasta con un obbligo internazionale di incriminazione, responsabilmente assunto dal nostro Paese. Col diritto internazionale, insomma, si fa sul serio. L’abolizione dell’abuso d’ufficio non è incostituzionale perché tale obbligo non esiste, essendovi, invece, a oggi, sul piano internazionale, una mera facoltà. I problemi legati all’abolizione dell’abuso d’ufficio però restano e la Corte non ha potuto far valere il contrasto con altri principi, quali l’imparzialità della pubblica amministrazione. Aveva le mani legate. Piaccia o meno, queste sono le regole del gioco e così sono regolati i rapporti tra poteri dello Stato. Ciò non toglie che, in futuro, si possano presentare scenari diversi se, a esempio, dovesse essere abolito, anche in parte, il reato di tortura, oggetto di un esplicito obbligo internazionale di incriminazione, o quando, nei prossimi mesi, la Corte dovrà giudicare la legittimità costituzionale del traffico di influenze illecite, un altro reato contro la pubblica amministrazione parzialmente abolito dalla legge Nordio. Essendo questo reato imposto dalla Convenzione del Consiglio d’Europa contro la corruzione, l’esito del giudizio davanti alla Consulta potrebbe essere diverso. *Procuratore della Repubblica di Perugia **Ordinario di Diritto penale all’Università Statale di Milano Friuli Venezia Giulia. Massolino (Pat-Civ): “Il Decreto Sicurezza è lesivo dei diritti” consiglio.regione.fvg.it, 11 maggio 2025 “La situazione nelle carceri sul nostro territorio è drammatica, e il decreto sicurezza non fa che peggiorarla. Oggi per la festa della mamma entriamo nella sezione femminile per porre l’attenzione su un aspetto particolarmente crudele della nuova norma: la detenzione per le madri e le donne incinte. Lunedì 12 parteciperò anche alla staffetta di digiuno promossa dal Garante di Udine”. Così, in una nota, la consigliera regionale del Patto per l’Autonomia-Civica Fvg Giulia Massolino che ha partecipato, oggi, a un incontro organizzato dalla Garante del Comune di Trieste avvocata Elisabetta Burla presso la Casa circondariale di via del Coroneo, con le detenute e l’associazione Nati per Leggere, nell’ambito della campagna Madri fuori della Società della Ragione. “Un anno fa - ricorda Massolino - ho chiesto un’audizione in Commissione consiliare sulla situazione delle carceri. Da regolamento, l’audizione si sarebbe dovuta tenere entro dieci giorni. Nonostante tre solleciti formali, oltre a quelli verbali in sede di Ufficio di presidenza, la Commissione non è mai stata convocata. Nel frattempo ci sono stati i noti disordini della scorsa estate, e sono morte due persone. La Regione non può stare a guardare: se è vero che gran parte della competenza è ministeriale, è altrettanto vero che Fedriga ha un canale privilegiato in qualità di presidente della Conferenza delle Regioni, e che la competenza della salute delle persone detenute, così come il diritto all’abitare, sono responsabilità regionale, e molti altri sono gli interventi che potrebbe portare avanti. In questi anni ho presentato diversi emendamenti al bilancio proprio per dare sollievo all’intollerabile situazione delle carceri. Sono tutti stati bocciati da una Maggioranza insensibile alla disperazione delle persone private della libertà. A Gorizia non è mai stato nominato il Garante dei detenuti, e proprio lo scorso sabato un giovane è morto nel carcere isontino”. “Gli incontri con il personale e con la nuova Direttrice della Casa circondariale di Trieste, con cui ho avuto un colloquio la scorsa settimana, hanno confermato le diverse problematiche già denunciate in questi anni - sottolinea l’esponente autonomista -. Sicuramente la principale è il sovraffollamento, che si ripercuote sia sulle condizioni di vita all’interno del carcere che sulle opportunità di formazione. Banalmente, non ci sono spazi a sufficienza per intraprendere le attività trattamentali, e non vi è personale penitenziario sufficiente per il loro svolgimento, a fronte di un territorio che invece offre numerose opportunità. I 50 nuovi agenti di Polizia penitenziaria annunciati per Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia sono insufficienti a colmare carenze croniche e sottodimensionate rispetto ai reali numeri di ospiti, che sono quasi il doppio rispetto ai posti disponibili. Ribadiamo che la mancanza di spazi non si risolve costruendo carceri più grandi, bensì avendo meno persone in carcere. E per farlo servono percorsi di uscita, a partire dalla disponibilità di domicilio presso alloggi sociali, in quanto numerose persone detenute avrebbero la possibilità di scontare pene alternative. Uno degli emendamenti che avevo presentato lo scorso dicembre, tutti bocciati dalla Giunta regionale, chiedeva proprio un finanziamento straordinario alle Ater per trovare delle soluzioni abitative”. “Questa situazione è vergognosamente peggiorata dal decreto sicurezza approvato dal Consiglio dei ministri il 4 aprile - incalza la consigliera delle Opposizioni -, che non fa che aumentare le persone soggette a detenzione, introducendo ben 14 nuovi reati e numerose circostanti aggravanti, imprimendo una svolta autoritaria tanto nei metodi quanto nei contenuti, già duramente criticati dall’Osce in un parere dell’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani, dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa e da sei Special rapporteurs delle Nazioni unite”. “Particolarmente crudele è la norma che colpisce le donne incinte e le madri con bambini piccoli: il decreto elimina l’obbligo di rinvio dell’esecuzione della pena per le detenute in gravidanza o con figli minori di un anno, aprendo così le porte del carcere anche a neonati e madri. Inoltre, introduce misure che prevedono la separazione tra madre e figlio in caso di presunta evasione o turbativa dell’ordine in un Icam, infliggendo un danno gravissimo e ingiustificabile ai diritti dell’infanzia. Condividiamo e sosteniamo con forza la campagna Madri fuori, promossa dalla Società della Ragione, perché nessun bambino dovrebbe mai crescere dietro le sbarre. La tutela della maternità, della salute psicofisica e del diritto dei minori a un’infanzia libera e serena deve essere una priorità assoluta in uno Stato che si definisce civile. La sicurezza non si costruisce calpestando i diritti umani”, conclude Massolino. Bologna. Carceri, mafie, corruzione: il menù indigesto servito da Libera di Chiara Caravelli La Repubblica, 11 maggio 2025 Il flash mob itinerante dell’associazione fondata da don Ciotti “Fame di verità e giustizia” è partito da Bologna. In città il primato dei reati spia in regione, il 29% del totale: 290 estorsioni, 19 casi di riciclaggio, 6.147 truffe e frodi informatiche e 859 delitti informatici. Un’osteria, pochi tavoli e un menù speciale di 12 portate “difficili da digerire”. Dall’antipasto con il gioco d’azzardo ai primi con la privatizzazione dei beni confiscati alle mafie, per poi proseguire con i secondi dove si trovano la legge bavaglio e il sovraffollamento delle carceri. È il flash mob itinerante chiamato “Fame di verità e giustizia”, organizzato da Libera e portato sabato mattina in piazza de’ Celestini. Il primo menù sotto le Due Torri, poi il tour attraverserà l’Italia in cento tappe per animare il dibattito pubblico con l’obiettivo di riscrivere l’agenda in tema di mafie e corruzione. Un tema molto presente in Emilia-Romagna dove nel 2024 sono stati quasi 25mila i reati spia, pari all’otto per cento di quelli a livello nazionale. La regione è al quinto posto dopo Lombardia, Piemonte, Veneto e Campania. In particolare sono state 967 le estorsioni, 60 casi di riciclaggio e quattro di usura. Ma il picco è stato raggiunto sulle truffe e le frodi informatiche (21.299) e sui delitti informatici (2.536). A Bologna va il primato dei reati spia in regione, il 29% del totale con 7.315 reati: di questi si contano 290 estorsioni, 19 casi di riciclaggio, 6.147 truffe e frodi informatiche e 859 delitti informatici. “Abbiamo fame - così Sofia Nardacchione di Libera - di diritti, di giustizia, di legalità democratica, di tutti quei presidi che troppo spesso vengono indeboliti e frammentati contro mafie e corruzione. I dati ci dicono che è fondamentale continuare a lavorare in una direzione chiara e netta nella lotta alle organizzazioni criminali”. Tanti i temi che saranno messi al centro dell’iniziativa di Libera: dal riutilizzo dei beni confiscati, ai diritti per le vittime innocenti delle mafie, dal contrasto alla corruzione alla preoccupazione per il dl sicurezza. Obiettivo di “Fame di verità e giustizia” sarà anche promuovere l’educazione come strumento di emancipazione dalle mafie, ma anche le questioni che riguardano ambiente, libertà di informazione e un carcere che rieduchi. Tante e chiare le richieste alle istituzioni: tra queste ci sono, ad esempio, norme più efficaci su confisca e riutilizzo sociale dei beni mafiosi e l’approvazione di una regolazione stringente delle situazioni di conflitto d’interesse. Bolzano. Stranieri in carcere, un progetto per ritrovare affetti e identità di Antonella Barone gnewsonline.it, 11 maggio 2025 Arrivano senza un bagaglio, senza una lingua per comunicare, spesso senza un passato. A volte sono sporchi e malati. I viaggi su barconi o la fuga su altri mezzi di fortuna, la vita in strada, ma spesso anche la guerra e l’estrema povertà li hanno privati di un’identità, non solo giuridica. Erano o sono diventati irregolari, non possono essere reinseriti ma neanche espulsi, perché non hanno documenti, e sono quindi destinati al limbo criminogeno della clandestinità. È il ritratto, non penale ma umano, di gran parte dei detenuti stranieri che popolano le nostre carceri. Da qui l’iniziativa di Giovanni Monti, direttore della casa circondariale di Bolzano, di coinvolgere Croce Rossa Italiana e Mezzaluna Rossa per tentare di rintracciare i congiunti e ricostruire almeno le relazioni affettive di questi detenuti. “A Bolzano 88 reclusi su 122 sono stranieri - spiega Monti. Provengono non solo dal Nord Africa ma anche da Afghanistan e Siria, e a volte i parenti sono dispersi. Per questo abbiamo pensato a una collaborazione con Croce Rossa e Mezzaluna Rossa per estendere agli stranieri in carcere il servizio di Rfl, Restoring Family Links, di ricerca e assistenza delle persone che provengono da zone di guerra o da crisi umanitarie”. I contenuti della collaborazione sono stati definiti da un protocollo d’intesa firmato il 5 maggio scorso dal direttore della casa circondariale di Bolzano e dal presidente del Comitato della provincia autonoma di Trento e Bolzano Manuel Pallua. L’accordo prevede che volontari della Croce rossa e operatori Rfl incontrino in locali dedicati e in una dimensione di riservatezza i detenuti che abbiano chiesto, tramite la direzione dell’Istituto, di rintracciare i propri familiari. “Il nostro obiettivo - aggiunge il direttore - è quello di arrivare almeno a una videochiamata e in questo gli operatori Cri e Rfl possono essere molto utili per rintracciare documenti ufficiali che attestino i legami di parentela, indispensabili per autorizzare le telefonate. In tal modo, da una parte cerchiamo di assicurare anche agli stranieri il mantenimento delle relazioni familiari - che sono un elemento del trattamento - ma anche avviare i primi passi per sostenere con più forza un tentativo di regolarizzazione”. Giovanni Monti è uno nei nuovi direttori penitenziari entrati in servizio nel 2023. Per un decennio ha lavorato come cancelliere nel Tribunale penale di Roma. Un’esperienza che definisce “formativa, perché il carcere è l’anello terminale di un processo in cui l’autorità giudiziaria svolge un ruolo determinante e mi ha fatto comprendere l’importanza e il rilievo di tutte le interconnessioni in questo ambito”. Pur essendo un circondariale, l’istituto di Bolzano ospita perlopiù condannati definitivi. Si tratta di un edificio austro-asburgico, non funzionale, e al centro di un contenzioso tra istituzioni che intendono riqualificarlo e altre che vorrebbero costruire un nuovo carcere in una zona più periferica. Nel frattempo, sia pure con tutte le criticità che caratterizzano l’attuale struttura, la direzione riesce ad assicurare corsi di cucina professionalizzanti, corsi di alfabetizzazione e una ciclo-officina che offre un servizio di riparazione bici anche ai cittadini. “Riconosco - conclude Monti - che dirigere un istituto piccolo, anche se problematico, ha il vantaggio per il direttore di essere presente in tutte le aree, di favorire il lavoro di rete. Solo collaborando si può riuscire a semplificare la complessità di una realtà come questa e mettere in grado tutti gli operatori di svolgere al meglio il proprio ruolo”. Treviso. Bullismo, la riposta del questore: “Corsi sociali come per gli stalker” di Nicola Rotari Corriere del Veneto, 11 maggio 2025 Il progetto di Alessandra Simone: prima l’ammonimento, poi rieducazione nelle associazioni. In prima linea che quindi non rovina il ragazzo sotto il profilo della fedina penale e del curriculum penale. È un provvedimento amministrativo, snello, agevole, che il questore può erogare per chiamarsi il ragazzo, che, essendo minorenne, verrà coi genitori, e dirgli: “Basta, c’è uno stop: questo è un comportamento che non devi attuare”. Questo è importante”. Oltre la rieducazione c’è il recupero del ragazzo: come? “Il percorso di rieducazione che dobbiamo fare verso penali”. Nel centro storico di Treviso ci sono state varie risse. Come state gestendo le criticità? “Grazie ai controlli serrati, non si sono più verificate risse o scontri, che erano ormai abituali nei fine settimana”. Gli ultimi episodi di violenza sono relativi alle risse avvenuta al Kebab di via Roma tra titolare. In quell’occasione avete chiuso anche il locale e il titolare del kebab ha protestato dicendo di essere la vittima. Perché avete chiuso il locale? “Perché c’è stata una reazione violenta da parte dei dipendenti del locale. Nei loro confronti c’è il massimo rispetto e la massima apertura, ma quello che si deve capire è che l’Italia non è un far west: non ci si deve fare giustizia da sé: se succede una cosa chiamateci”. Ultima questione. Si è tornati a parlare, proprio in questi giorni, di “zona rossa” per quell’area. Come valuta l’ipotesi? “Diciamo che dobbiamo essere attenti al territorio e calibrare giorno dopo giorno quello che succede. In questo momento io direi che la situazione è abbastanza sotto controllo”. Chieti. “La doppia pena delle donne in carcere”, convegno in Provincia di Luca Pompei rete8.it, 11 maggio 2025 Interessante incontro nei giorni scorsi alla Sala Consiliare della Provincia di Chieti sul delicato tema della detenzione femminile negli Istituti di pena, con il Patrocinio di Provincia e Comune, Consiglio degli Ordini degli avvocati di Chieti e dell’Università “d’Annunzio” con la compartecipazione dell’Ordine dei Giornalisti d’Abruzzo. La condizione carceraria è una delle più dolorose piaghe del nostro Paese. Sovraffollamento, esiguità del personale di custodia, strutture fatiscenti, tutti elementi che sono costate all’Italia una lunga serie di ammonimenti da parte di organizzazioni di diritto civile e Unione Europea. In questo difficile contesto ancora più drammatica la situazione per le detenute che non costituiscono una percentuale elevata, ma che, a maggior ragione, sono costrette a scontare le proprie pene in un contesto tutto al maschile come racconta Claudio Bottan, ex detenuto e vice direttore della rivista “Le Voci di dentro”: “Celle anguste dove si fa fatica, pefino, ad avere una dignitosa cura della persona sotto il profilo dell’igiene, spesso non si ha nemmeno la possibilità di utilizzare un water o un bidet perché ci sono solo bagni turchi. C’è poi il tema delld etenute mamme, al momento in Italia, pensate, ci sono 21 bambini che vivono con le loro madri dietro le sbarre. Si era pensato a soluzioni detentive alternative ma con la riforma recente praticamente non è più possibile.” “In Abruzzo sono un centinaio le detenute tra Chieti, Teramo e Pescara - spiega Francesco Lo Piccolo direttore della rivista “Le Voci di Dentro” - fortunatamente non si registra la presenza di bambini, ma non ci sarebbero nemmeno le minime condizioni per accoglierli. È necessario rivedere da zero la condizione detentiva per le donne costrette a vivere in prigioni per uomini”. “Le misure detentive alternative per le donne o le donne madri sono previste con forme specifiche di tutela - spiega Gianmarco Cifaldi docente presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche e Sociologia dell’Università “d’Annunzio” di Chieti - tuttavia, nel quadro generale di un sistema carcerario in Italia non proprio all’avanguardia quella delle donne in carcere è un problema nel problema”. All’incontro è intervenuta anche Monia Scalera, Garante dei detenuti per la Regione Abruzzo, che ha colto l’occasione per fare il punto sulla vicenda della detenuta 42enne deceduta nei giorni scorsi a Teramo: “Vengo da un sopralluogo nel carcere di Castrogno insieme alla Garante nazionale dei detenuti - dice la Scalera - ho avuto un lungo colloquio con il personale sanitario, ci sono delle indagini in corso e sono convinta che sarà fatta piena luce su quanto accaduto. A non resta che mantenere alta la guardia affinché episodi come questo non accadano mai più”. Volterra (Pi). L’affettività in carcere. Convegno con il Garante regionale: “È un diritto di tutti” di Ilenia Pistolesi La Nazione, 11 maggio 2025 Appuntamento alle ore 10 del 16 maggio al centro studi della Fondazione Crv. “C’è un forte divario tra la sentenza della Corte Costituzionale e il Dap”. Il 16 maggio alle 10 al centro studi della Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra arriva un convegno sul tema dell’affettività in carcere. Nell’evento, organizzato dal Garante dei detenuti del Comune di Volterra, avvocato Ezio Menzione, e dal garante dei detenuti della Toscana, avvocato Giuseppe Fanfani, si discuterà di come far sì che venga data attuazione alla sentenza della Corte Costituzionale del gennaio 2024, che riconosce il diritto di tutti i detenuti a fruire di colloqui intimi, senza controllo né auditivo né visivo, con la propria moglie o convivente. Il ministero competente solo di recente ha emanato una circolare che prende in considerazione gli adempimenti necessari per attuare il dettato della Corte. “Si dimentica spesso - sottolinea il Garante Ezio Menzione - che avere una vita affettiva compiuta e che comprenda anche la possibilità di avere rapporti sessuali è un diritto di tutti, compreso i detenuti, ma che per costoro è anche un potente mezzo per aiutare la risocializzazione e il reinserimento”. Ecco l’analisi del Garante Menzione. “C’è un forte divario tra la sentenza della Corte Costituzionale numero 10 del febbraio 2024, che riconosceva il diritto dei detenuti ad esercitare la propria affettività, e la circolare del Dap, a oltre un anno di distanza, che invece limita e compromette l’attuazione di tale diritto. La sentenza - scrive il Garante - sottolineava l’urgenza di mettere in pratica i diritti riconosciuti, senza tempi di attesa, mentre la circolare si limita a dichiarare che tali diritti non possono essere introdotti tramite regolamenti o circolari, lasciando quindi molte questioni irrisolte. Nonostante il fatto che alcuni magistrati abbiano già chiesto alle carceri di rispettare questi diritti, l’approccio del Dap appare insufficiente e poco incisivo rispetto alla chiarezza e all’urgenza della sentenza”. Rovigo. Carcere minorile, volontari cercansi La Vice di Rovigo, 11 maggio 2025 Obiettivo: “Creare un gruppo di operatori volontari per incontrare i ragazzi reclusi e alimentare con loro un percorso di ascolto”. Il Centro francescano di ascolto cerca volontari per il nuovo carcere minorile. L’apertura dell’Ipm (Istituto penale per minorenni) a Rovigo, annunciato per il prossimo anno, considerata la storia del Centro francescano di ascolto, vedrà impegnati i volontari nell’obiettivo di mettere insieme una rete con altre organizzazioni e “creare un gruppo di operatori volontari per incontrare i ragazzi reclusi e alimentare con loro un percorso di ascolto, per il recupero del senso di legalità e individuare le possibilità del loro reinserimento nella vita libera”. La scelta dei volontari si determinerà attraverso un colloquio attitudinale, a fronte di una specifica richiesta, che si potrà scaricare dal sito www.centrofrancescanodiascolto.it o ritirare presso la sede dell’associazione, da far pervenire entro il 31 maggio 2025 attraverso mail (info@centrofrancescanodiascolto.it o centroascolto@tiscali.it) o per posta all’indirizzo di via Mure Soccorso n. 5 - 45100 Rovigo. Per coloro che saranno ritenuti idonei sarà organizzato un corso di formazione pensato per lo più attraverso una scissione tra teoria e pratica, ossia tra l’acquisizione di conoscenze teoriche e la capacità di rielaborarle creativamente nel proprio agire educativo e professionale. Alla base vi è la convinzione “che non può esserci contrapposizione tra ruolo e persona, in quanto in tutte le professioni in cui è richiesta la gestione della relazione educativa, è necessario intervenire sia con le risorse derivanti dalla padronanza delle tecniche e dei saperi, sia mettendo in gioco contemporaneamente la propria personalità”. Attraverso un preciso disegno formativo viene proposta un’operatività pratica basata sul coinvolgimento attivo dei partecipanti, attraverso un lavoro sia individuale che di gruppo, ancorato alle proprie esperienze personali e professionali, di cui ogni partecipante è portatore. Firenze. “Abolire il carcere”. Immaginare un futuro senza prigioni, presentazione del libro librerialornitorinco.it, 11 maggio 2025 Tra sovraffollamento, rivolte, trattamenti disumanizzanti, torture, abusi ed emergenza suicidi, la situazione delle carceri italiane è tra le peggiori in Europa. Nel momento in cui qualcun? finisce in carcere, non perde unicamente la sua libertà di movimento: spesso, a quella si aggiungono la sua dignità di essere umano, la possibilità di un futuro diverso, l’aspirazione a un cambiamento. È scritto che la funzione della pena è rieducativa e riabilitativa; sulla carta, ma di certo non nei fatti, non in queste condizioni. Davvero pensiamo che rinchiudere fisicamente gli individui che commettono un crimine, escludendoli dalla società e relegandoli ai margini, sia il modo migliore per prevenire quei reati e costruire un mondo migliore e sicuro per tutt?? Noi pensiamo di no, che c’è un sistema intero che va ripensato. L’abolizione del carcere è un progetto concreto. Giulia De Rocco ce lo racconta immaginando un futuro prossimo in cui si è realizzato. Mescola saggistica e narrazione, concentrandosi sui passaggi individuali e collettivi che hanno tracciato le tappe di questa trasformazione. Non si parla solo del superamento degli istituti di detenzione: è un processo che parte dalla nostra intimità, dalle nostre relazioni e dalle nostre comunità per stravolgere quegli assunti che ci sembrano irrinunciabili come i binomi vittima/carnefice, innocente/colpevole. Assunti che sottendono la logica punitiva che guarda solo alla violenza privata, interpersonale, soggettiva, senza guardare a contesto, cause, strutture di potere di cui istituzioni e mercati hanno bisogno per sopravvivere. “Abolire il carcere” significa lavorare per il superamento delle oppressioni e la decostruzione dei sistemi di potere. Significa abbandonare la punizione per una giustizia che trasforma e guarisce basata su benessere e cura. Soprattutto bisogna iniziare dall’alleanza tra chi è dentro e chi sta fuori. Per rendere quei muri sempre più permeabili sino a farli sparire. Lunedì 12 maggio alle 19:00 ne parliamo con l’autrice e con Alessia Dulbecco. Per immaginare davvero un futuro migliore. San Benedetto del Tronto. “Carcere: punizione o recupero?”, incontro alla biblioteca comunale di Sandro Benigni viveresanbenedetto.it, 11 maggio 2025 L’incontro è aperto a tutti ed è a ingresso libero. Lunedì 12 maggio dalle ore 11, con un confronto sul carcere, entra nel vivo la ricca programmazione della biblioteca comunale “G. Lesca” di San Benedetto dedicata agli adolescenti. Il progetto “Bella Bro! Un anno di cultura vietato ai maggiori” prosegue con il Debate “Il carcere deve educare o punire?”. Dalle 11 alle 13 il piano terra della “Lesca” ospiterà un’ottantina di studenti dell’Iis “Antonio Guastaferro” di San Benedetto che si confronteranno sul tema del carcere come luogo di privazione delle libertà personali e ne argomenteranno le finalità rieducative e sanzionatorie. Il lavoro preparatorio è stato coordinato nei mesi scorsi dalla docente Nicoletta Troiani. Numerosi e di prestigio gli ospiti chiamati ad affiancare i ragazzi nel confronto: Patrizio Gonnella e Susanna Marietti, rispettivamente presidente e coordinatrice nazionale dell’associazione “Antigone” e autori del libro “Jailhouse Rap. Storie di barre e di sbarre” di Arcana Edizioni. Saranno letti e commentati anche alcuni passi da “Fine Pena: Ora” di Elvio Fassone, edito da Sellerio. Partecipano inoltre Mario Di Vito, scrittore e giornalista de “Il Manifesto” e Lorenzo Cameli, avvocato penalista e vice-presidente dell’associazione “Extrema Ratio”. L’evento è organizzato dalla Biblioteca multimediale Giuseppe Lesca di San Benedetto, mentre il coordinamento dell’iniziativa è curato dalla libreria Nave Cervo. Finalità dell’evento è fornire ai giovani coinvolti le tecniche e le strategie per gestire un dibattito formale, parlare in pubblico, difendere le proprie opinioni, rispondere alla controparte, sapersi documentare, lavorare in gruppo, sviluppare il pensiero critico e la comunicazione efficace. Il “Debate” sul carcere è stato inserito anche nel calendario de “Il Maggio dei Libri”, la campagna nazionale del Cepell (Centro per il libro e la lettura) che sostiene il valore sociale dei libri come elemento chiave della crescita personale, culturale e civile. Per info: biblioteca@comunesbt.it. Reggio Emilia. La lezione sul carcere: “Chi sbaglia può rinascere come un vaso ricostruito” di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 11 maggio 2025 Gli studenti hanno buttato piatti e vasi d’argilla per terra, frantumandoli. Poi hanno preso i cocci e li hanno riattaccati usando la pistola a caldo. “Così si può ricostruire una situazione che si è rotta, come avviene dopo un reato: riunendo i pezzi da cui nascerà qualcosa che sarà per sempre diverso da prima, ma nuovo. Dire “buttare via la chiave” per un detenuto equivale a “buttare via i cocci”: così ha spiegato loro il senso della giustizia riparativa Davide Orlandini, mediatore del centro ‘Anfora’ (cooperativa L’Ovile), che promuove la risoluzione dei conflitti attraverso il dialogo tra vittima e colpevole. È stata solo una delle tante iniziative organizzate ieri mattina in tribunale per ottanta ragazzi delle superiori: due classi dell’istituto Scaruffi-Levi-Tricolore di Reggio (terza I e terza B) e altrettante del Convitto Corso di Correggio (seconda H seconda Q), coinvolte quest’anno nei ‘Percorsi di legalità’ promossi dalla sottosezione reggiana dell’Anm (Associazione nazionale magistrati). I giovani hanno partecipato ad attività preparate per loro da diverse istituzioni, presenti nel piazzale interno con rappresentanti in divisa e stand. Dopo il saluto iniziale del giudice Silvia Guareschi - referente dell’Anm insieme al pm Stefano Finocchiaro e al giudice Matteo Gambarati - i ragazzi hanno potuto incontrare le forze dell’ordine: carabinieri, carabinieri forestali e Ris dell’Arma; guardia di finanza; polizia di Stato con Scientifica, divisione Anticrimine e polizia stradale; polizia locale; polizia penitenziaria e quest’anno anche vigili del fuoco; in più le unità cinofile delle varie appartenenze hanno dato saggio delle loro abilità. I ragazzi hanno dialogato con i professionisti delle attività di indagine (forze dell’ordine e magistratura requirente) e anche di quelle dopo il processo, su cui è incentrato il focus dell’evento di quest’anno, ovvero la cura e il recupero dei condannati sia dentro il carcere sia fuori. C’era l’Uepe (Ufficio di esecuzione penale esterna) con la referente Laura Torre, di recente approdato in tribunale con uno sportello: si occupa di messa alla prova e di lavori di pubblica utilità, con enti e associazioni disponibili ad attuare le sanzioni di comunità, che prevedono l’inclusione delle persone soggette a pena nella società. Attraverso post-it, foglietti con storie particolari e video, il personale ha invitato i giovani a riflettere sulle alternative al carcere. Accanto a loro, gli operatori di ‘Anfora’ e di ‘Nuovamentè, progetto della Caritas reggiana che opera nella messa alla prova. Presenti la presidente del tribunale Cristina Beretti e il procuratore capo Calogero Gaetano Paci. Hanno contribuito l’Ordine degli avvocati e la Camera penale Bigi, oltre ai Comuni di San Polo e di Albinea (che hanno la convenzione sia per messa alla prova sia per lavori di pubblica autorità). Di grande impatto l’iniziativa finale, quando le detenute trans-attrici del reparto Orione del carcere della Pulce hanno proposto lo spettacolo ‘Cuciture. I sogni non hanno pareti’, una produzione del centro teatrale MaMiMo. Su un palco, davanti agli studenti e a una folta platea istituzionale, sono andate in scena Bianca e Laryssa - una delle quali uscita ieri per la prima volta dal carcere - accompagnate dall’attrice Jeane Dias, per la regia di Cecilia Di Donato (insegnante di teatro nella casa circondariale) e Lara Sassi. Il testo parte dal dramma di Henrik Ibsen, ‘Casa di bambola’, che lascia il posto ai sogni di Bianca e Laryssa: amano il teatro e sperano di continuare anche fuori dal carcere. Sono state omaggiate con applausi e un mazzo di fiori; loro si sono commosse: “Siamo molto emozionate”. Il magistrato di sorveglianza Marco Bedini ha spiegato che portare lo spettacolo in tribunale ha comportato un’attività preparatoria di un mese e mezzo. “La sottosezione dell’Anm intende ringraziare tutti coloro che hanno partecipato a quest’iniziativa - dichiara giudice Silvia Guareschi - volta a sensibilizzare i giovani sui percorsi di legalità e giustizia rivolti al futuro di ogni persona, nessuno escluso”. Ragusa. “Galeotto fu il racconto”, presentazione della raccolta di testi di scrittori ai domiciliari agi.it, 11 maggio 2025 Un titolo evocativo “Galeotto fu il racconto”, una raccolta di testi di autori vari che hanno un dato comune: sono detenuti in regime di arresti domiciliari. È il frutto di un corso di scrittura creativa a cui ha partecipato una ventina di persone agli arresti domiciliari: è stato organizzato dalla Caritas diocesana di Ragusa con la collaborazione dell’Uepe - Ufficio per l’esecuzione penale esterna. Il corso è stato strutturato in due classi, corrispondenti alle due macro aree territoriali di Ragusa e Vittoria, in 10 incontri a cadenza settimanale e di due ore e mezza ciascuno tra ottobre e dicembre dello scorso anno; uno scrittore e grafico Emanuele Cavarra come docente e una tutor psicologa, Barbara Buscemi. Il risultato, a distanza di qualche mese, è diventato ora tangibile ed è racchiuso in un volumetto illustrato della piccola casa editrice Kreativa Mente e verrà presentato il 12 maggio alle 18.30 alla sala Fondo antico di via Roma 109, sede del Vescovado, a Ragusa. Una esperienza in parte liberatoria e in parte riflessiva; tra i 20 partecipanti, otto sono riusciti a elaborare dei racconti che sono stati pubblicati nel libricino illustrato. In alcuni dei racconti, quasi una cronaca fedele di quanto accaduto e che ha portato al loro regime di detenzione domiciliare, in altri pur nella fantasia, emerge comunque il vissuto di ognuno. Alla presentazione del volume alla quale parteciperanno anche gli autori, nel colloquio tra Emanuele Cavarra e Vincenzo La Monica (Caritas), interverranno don Giuseppe Di Corrado direttore della biblioteca “Mons. Pennisi”, Rosaria Ruggieri, direttrice dell’ufficio locale Uepe di Ragusa e le conclusioni sono affidate a Domenico Leggio, direttore della Caritas di Ragusa. Lecco. Una “palestra diffusa” presso il carcere di Pescarenico valsassinaoggi.it, 11 maggio 2025 Prende il via il “Progetto Belli Dentro” con la realizzazione di una “palestra diffusa” all’interno della Casa Circondariale di Lecco. Il Rotary Club Lecco da tempo collabora con la Fondazione Comunitaria del Lecchese e un suo rappresentante è componente del Fondo Aiutiamoci all’interno del quale è stato sviluppato e realizzato un ampio ed articolato progetto a sostegno della Casa Circondariale di Lecco. Uno di questi progetti riguarda la realizzazione di una “palestra diffusa” interna all’Istituto; per concretizzare questo progetto, oltre alla indispensabile raccolta fondi, è stato necessario risolvere una serie di questioni tecniche e organizzative, più ampie e diverse rispetto a quelle normalmente richieste per realizzare una palestra. Le finalità della realizzazione della palestra, all’interno del “Progetto Belli Dentro” coincidono con gli ideali e gli obiettivi del Rotary Club Lecco e del Panathlon Club Lecco che, pertanto, hanno deciso di collaborare alla realizzazione del progetto stesso insieme alla Banca della Valsassina, al Comune di Lecco, alla Fondazione Scola, al Distretto Lecco e, naturalmente, al Fondo Aiutiamoci. Il progetto è stato presentato ai soci di Rotary e Panathlon durante l’ultima conviviale di maggio alla presenza della direttrice della Casa Circondariale di Lecco dottoressa Luisa Mattina con il sostituto Commissario e coordinatore Vincenzo Spagnuolo, la presidente della Fondazione Lecchese Maria Grazia Nasazzi e Roberto Butta imprenditore dello sport e mental coaching che ha di fatto realizzato la palestra in stretto contatto con la Direzione della Casa Circondariale, individuando le attrezzature che potevano essere collocate nella palestra e il loro layout. Erano inoltre presenti l’assessore allo sport e all’istruzione del Comune di Lecco Emanuele Torri, il prevosto di Lecco monsignor Bortolo Uberti, il coordinatore distrettuale per Progetto carceri del Distretto Rotary 2042 Enrico Cavallini, il Governatore dell’Area 2 Lombardia del Panathlon International Attilio Belloli, Giovanni Combi presidente della Banca della Valsassina, l’assistente del governatore Distretto Rotary 2042 Raniero Spaterna e i presidente del Rotary Club Lecco Le Grigne e Rotary Club Lecco Manzoni, rispettivamente Mauro Piatti e Antonia Benedetti. Il tema nello specifico è stato poi esposto ai presenti da Maria Venturini che ha seguito l’evolversi del progetto passo dopo passo sottolineando l’importanza di questa esperienza definita “forte” a livello emotivo e dai contenuti importanti. Particolarmente seguita la relazione della dottoressa Luisa Mattina con riflessioni profonde sul ruolo del carcere: “Il carcere - ha tra l’altro detto - è uno spaccato della nostra società ed è parte integrante della comunità in cui viviamo. Per questo è giusto essere sensibili alle tematiche delle carceri anche con attività come questa, sportiva, utili a creare inclusione sociale”. Successivamente ha preso la parola il comandante Vincenzo Spagnuolo che ha spiegato il ruolo della Polizia Penitenziaria all’interno della Casa Circondariale di Lecco. Infine, si è entrati nel pratico con l’intervento di Roberto Butta che di fatto ha creato dal nulla la realizzazione di tre piccole palestre (una per piano) - nell’ambito della sfida “Voglio i meglio di me” - con gli attrezzi specifici e ad hoc per il luogo preposto. Per realizzare la palestra si sono resi necessari diversi incontri fra i sostenitori del progetto e la direttrice e, grazie a questi ulteriori contatti, è stato percepito l’interesse di organizzare anche due incontri di Mental Coaching, grazie alla disponibilità e alla specifica competenza di Roberto Butta. Giulia di Barolo, dalla parte delle prigioniere di Luisa Taliento iodonna.it, 11 maggio 2025 Giulia di Barolo all’incoronazione di Napoleone conobbe l’uomo che avrebbe amato tutta la vita (e per cui lasciò la Francia per il Piemonte e i suoi vigneti). Ma fu la sorte delle meno fortunate a segnare il suo percorso, come racconta un nuovo libro. “Tancredi accennò un inchino e Juliette si tirò in piedi, guardandolo incuriosita. “Non ho mai conosciuto nessuno con un nome così evocativo, da poema cavalleresco” gli disse, sincera. “Sono Juliette Colbert di Maulévrier”. Sorrise di nuovo e lui batté le palpebre, come se un raggio di sole lo avesse abbagliato”. I due giovani si conobbero così, a Parigi, durante un’occasione speciale, quella dell’incoronazione dell’imperatore Napoleone Bonaparte. Fu quello che si dice un classico colpo di fulmine, raccontato da Marina Marazza nel libro Sangue delle Langhe. La saga dei Barolo, che ripercorre in modo storico e romanzato le tappe più importanti, gioiose e sofferte, della vita di Juliette Colbert, poi diventata Giulia di Barolo. Giulia di Barolo, da Parigi a Torino - Le icone della Storia spesso coincidono con vite vissute intensamente. Proprio come in questo caso. Juliette nacque il 26 giugno 1786 a Maulévrier, in Vandea, venne battezzata Juliette Françoise Victurnie Colbert, secondogenita dei conti Colbert e discendente del famoso Jean-Baptiste Colbert che fu ministro delle Finanze del Re Sole, Luigi XIV. La sua fami glia fu travolta dal furore della Rivoluzione francese durante la quale persero la vita parecchi componenti, tra cui la nonna paterna (che venne ghigliottinata). Fu quindi costretta a scappare e visse tra la Germania e l’Olanda. Il conte Edouard Colbert, rimasto vedovo con quattro figli, tornò in Francia nel 1799, sotto il nuovo governo di Napoleone Bonaparte, recuperò una buona parte dei suoi beni e delle sue proprietà ed entrò a far parte della corte dell’Imperatore. Fu così che Juliette, allora diciottenne, diventò una delle dame di compagnia dell’imperatrice Giuseppina Beauharnais, cosa che le permise di conoscere il suo futuro consorte, il marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo, appartenente a una delle più importanti famiglie aristocratiche del Piemonte, nominato ciambellano e conte dell’Impero. L’evento che le cambiò la vita - I biografi sono concordi nell’affermare che formavano una coppia ideale. Erano uniti dall’amore, da una grande cultura, dalla fede religiosa, la pratica di carità verso i poveri, la sensibilità ai problemi sociali. Basta dire che lui le regalò prima delle nozze un libro “proibito”: la traduzione francese di Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, con una prefazione di Voltaire, pubblicato a Livorno in forma anonima nel 1764. Si sposarono il 20 agosto 1807 a Parigi e nel 1814 stabilirono definitivamente la loro dimora a Torino, a palazzo Barolo, in via delle Orfane. Qui Juliette, ormai Giulia, incontrò due aspetti differenti della stessa città. Da un lato, Cavour, D’Azeglio, le passeggiate sotto i portici, gli edifici eleganti, i caffè alla moda, come il San Carlo, il Vassallo o il Madera, illuminati a gas e forniti di servizi di porcellana. Dall’altro, i quartieri malfamati, come quello del Moschino, lungo le sponde del Po, con le case fatiscenti in cui vivevano lavoratori, lavandai, barcaioli, le persone arrivate alla ricerca di lavoro e fortuna. E al confine tra questi due mondi ci fu un evento che le cambiò la vita. La seconda domenica di Pasqua, il 17 aprile del 1814, era inginocchiata al passaggio della processione, quando sentì urlare: “Non il viatico vorrei, ma la minestra”. Colpita dall’accaduto volle raggiungere il luogo da cui arrivavano le grida e scoprì le sbarre carcerarie del Senato. In seguito, nel suo scritto Con gli occhi nel cuore. Memoria sulle carceri, annoterà: “Il loro stato di degradazione mi provocò dolore e vergogna. Quelle povere donne e io eravamo della stessa specie, figlie dello stesso Padre, anch’esse erano una pianta dei Cieli, avevano avuto un’età dell’innocenza ed erano chiamate alla stessa eredità celeste”. L’apostola delle donne in carcere - Giulia e Tancredi non potevano avere figli ma la loro indole caritatevole li spinse ad avere un motto: “Nessun figlio, tutti figli”, e così “adottarono” la causa delle donne in carcere. A Giulia venne concessa l’autorizzazione di visitare le galere e lei capì subito che le cose dovevano e potevano cambiare. Fu la prima donna a sollevare in Italia il problema dei penitenziari femminili. Intraprese così la sua attività entrando nella Confraternita della Misericordia per servire le minestre e fornire il vestiario, insegnare a leggere e scrivere. Poi il suo programma divenne più articolato, le carcerate dovevano comprendere che avevano commesso un reato, dovevano pentirsi per avere la ricompensa cristiana, che avveniva sotto forma di piccoli premi da distribuire a chi si fosse distinta nel taglio, nel cucito, e avesse seguito con costanza la preghiera comune e l’insegnamento religioso. Con questa forma molto particolare di ora et labora, riorganizzò il carcere delle “Forzate”, di cui ottenne la gestione dal governo piemontese, nel 1821. Fece trasferire qui le detenute di altre carceri torinesi, introdusse nelle strutture le suore di San Giuseppe di Chambery, riuscì a discutere il regolamento con le stesse detenute. Nel marzo del 1823, aprì una casa di lavoro e ricovero per ex carcerate o donne pentite della propria vita, chiamata “Il Rifugio”, e in seguito, proprio accanto al Rifugio, fondò “Il Rifugino”, rivolto alle ragazze minori di 15 anni. L’omeopatia e i vigneti - Pochi anni dopo portò a compimento il progetto dell’ospedaletto di Santa Filomena, destinato a garantire cure a bambine malate provenienti da ceti sociali bassi. Una delle particolarità dell’ospedaletto fu la suddivisione, specificatamente voluta da Giulia, della sezione medica in due reparti: uno dedicato alle cure cosiddette allopatiche e uno per la medicina omeopatica. Amava raccogliere fiori, catalogarli e possedeva una piccola farmacia portatile, in cui conservava oltre 100 rimedi omeopatici per la propria cura personale. Dopo la morte del marito, avvenuta per un incidente il 4 settembre 1838 (quando Tancredi aveva solo 44 anni), Giulia decise di dedicarsi ancora di più alla carità. Morì il 19 gennaio 1864,ma fece in tempo a perfezionare anche il progetto di rimettere a reddito le vaste proprietà vinicole, nelle Langhe e nel Monferrato. Fu grazie a un’intuizione di Giulia che il vino Barolo assunse il corpo, la stabilità e la nobiltà di oggi. Fu sua, infatti, la volontà di costruire nuove cantine dove vinificare l’uva all’interno di grandi botti, in un luogo protetto dalle rigide temperature tardo-autunnali. Ancora oggi, in cinque di queste botti di rovere ormai pluricentenarie, grazie a una costante e attenta manutenzione il Barolo rinnova ogni anno la sua storia. Ma la “presenza”di Giulia continua a esistere, non solo nelle cantine. Non avendo figli lasciò come erede universale l’Opera Pia Barolo, che ancora oggi, come Opera Barolo, porta avanti la sua eredità sostenendo e promuovendo cultura, educazione e solidarietà verso le fasce più bisognose. La storia di Giulia di Barolo in esclusiva - La storia di Giulia di Barolo, dall’amore con Carlo Tancredi all’impegno per la riforma delle carceri femminili del Piemonte fino al successo del Barolo, viene raccontata nel romanzo Sangue delle Langhe. La saga dei Barolo (Solferino, 384 pagine, 21 euro). L’autrice è la firma di iO Donna Marina Marazza, storica e scrittrice che si occupa di tematiche di storia, società, costume che ci ha regalato in esclusiva le prime 34 pagine. Marina Marazza: “Giulia di Barolo, nata Juliette Colbert tra i fasti della nobiltà francese, avrebbe potuto limitarsi a brillare nei salotti europei. Il libro sarà presentato a Torino alla Libreria Edit il 16 maggio alle 17.30 (nell’ambito delle iniziative del Salone del libro di Torino, Salone off) e il 21 maggio alla Libreria Luxemburg, alle 17.30; a Novara, il 17 maggio alle 18, Libreria Ubik; ad Alessandria, il 23 maggio alle 17, Libreria Ubik; a Sesto San Giovanni, il 12 giugno alle 18, Libreria della famiglia; al Festival di Lodi, il 13 giugno alle 19, piazza della Vittoria. Liliana Segre ai giovani: “L’Europa costruitela voi, anche quando la vita è in salita” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 11 maggio 2025 “L’impulso verso una Europa unita, tra Stati che una volta erano stati in guerra, è così forte e più forte che mai proprio tra noi pochi, ancora vivi, che quella guerra l’abbiamo vissuta”. Così Liliana Segre alla folla di ragazzi venuti ad ascoltarla nella seconda giornata di Milano Civil Week. “Ho 95 anni e come tutte le persone anziane posso dimenticare le cose recenti, ma ricordo molto bene gli anni della mia giovinezza”. Comincia così il racconto che Liliana Segre, come centinaia e forse ormai migliaia di altre volte, ha condiviso anche davanti alla folla di studenti venuti ad ascoltarla nella seconda giornata di Milano Civil Week. L’arresto, il treno, la marcia della morte, l’essere sopravvissuta “continuando a camminare, una gamba davanti all’altra, anche in salita”. Fino a dire oggi che “l’impulso verso una Europa unita, tra Stati che una volta si erano combattuti, è così forte e più forte che mai proprio tra noi pochi, ancora vivi, che quella guerra l’abbiamo vissuta”. Intervistata da Alessia Rastelli - curatrice del libro dedicato e scritto con la senatrice a vita Non posso e non voglio tacere, nel giorno della pubblicazione per Solferino - Liliana Segre è entrata nel tema “L’Europa siamo noi” di questa Civil Week partendo proprio da quel viaggio in treno che portò milioni di “persone senza alcuna colpa” verso i campi di sterminio in Germania: “Un ricordo che mi torna in mente - ha detto - ogni volta in cui oggi invece l’Europa la attraverso liberamente per portare la mia testimonianza su quell’orrore, perché non si ripeta mai più”. Ai ragazzi che la ascoltano rapiti tra un applauso e l’altro ripete l’immagine del numero “che mi fu impresso sul braccio sinistro e che non ha niente a che vedere con la moda dei tatuaggi di oggi, ma che io porto ancora e lo porto con onore”. Alessia Rastelli le ricorda l’accoglienza ricevuta al Parlamento europeo, dove intervenne su invito dell’allora presidente David Sassoli: “E io non potrò mai dimenticare - risponde lei - l’emozione provata nel vedere garrire al vento in quella giornata limpida tutte le bandiere degli Stati dell’Unione, gli stessi che tanti anni avevano combattuto la guerra di cui io ero stata tra le vittime. Mi ero preparata un discorso che poi non lessi, per esprimere invece a braccio quello che sentivo nel cuore. Ricordo di essermi rivolta ai giovani e di avere detto loro di essere sempre forti, che ciascuno è responsabile di se stesso, e di continuare a camminare sempre, una gamba davanti all’altra, anche in salita, come avevo fatto io”. E poi la pace: “Sarò sempre contro la violenza, proprio perché la guerra l’ho vissuta. Contro la vendetta. Sono quella della Costituzione italiana che la guerra la ripudia perché mi fa ribrezzo, come essere umano, come nonna e bisnonna pensando ai bambini che ne sono le prime vittime. E mi amareggia vedere elemosinare la pace da parte di persone disperate. Come se noi vecchi fossimo vissuti invano”. La conclusione è tra gli studenti di due tra le scuole vincitrici del concorso “Viaggio nella memoria” promosso da Regione Lombardia, l’istituto Puecher Olivetti di Rho e la Mandelli Rodari di Dergano. C’è speranza?, le chiedono. “Quella sempre”, risponde lei. Aggiungendo: “Studiate la storia. Se si dice che è maestra di vita c’è un motivo”. Referendum, la rivolta contro La Russa che spinge l’astensione DI Michele Gambirasi Il Manifesto, 11 maggio 2025 I partiti del sì: “La seconda carica dello Stato invita a disertare il voto, hanno paura”. Magi (+Europa): “Un’onda democratica li sommergerà”. Conte annuncia il proprio sì al quesito sulla cittadinanza, ma rimane la libertà di voto per i 5S. Invoca un’”effetto sobrietà” l’opposizione dopo l’uscita del presidente del Senato La Russa che venerdì sera ha detto che farà propaganda per l’astensionismo. Se la proclamazione del lutto nazionale (dopo la morte del papa) in concomitanza con il 25 aprile non ha sgonfiato le piazze della Liberazione, l’auspicio delle minoranze è che la campagna astensionista del governo si tramuti un boomerang utile a raggiungere l’agognato quorum. Campagna che ha prodotto i primi piccoli smottamenti anche nel fronte delle opposizioni. L’opportunità delle affermazioni di La Russa è il primo bersaglio degli attacchi alla dichiarazione di non-voto. Trattandosi della seconda carica dello Stato, fatto di cui La Russa stesso ammette “di ricordarsi”, stride l’ambiguità con cui veste i panni di presidente del Senato e militante di partito a momenti alterni. Ambiguità tramutata in linea difensiva ieri a mezzo del suo portavoce, Emiliano Arrigo, che ha ritenuto “lecito e quasi doveroso” da parte di La Russa seguire la linea del proprio partito durante un’iniziativa di Fratelli d’Italia, ricordando che in ogni caso il presidente del Senato ha confermato di essere personalmente orientato ad andare al voto. “La migliore risposta a questo punto è invadere le urne” ha ribattuto da Terni la segreteria Pd Elly Schlein, bollando come un “tradimento a un principio costituzionale” le affermazioni di La Russa. “Dalle dichiarazioni della seconda carica dello Stato che invita a disertare il voto si capisce bene che a destra hanno paura dei referendum e vogliono evitare che se ne parli” ribadisce il segretario di Sinistra italiana Fratoianni. “Non fate come La Russa, andiamo a votare in massa” è l’esortazione del leader Cinque Stelle Giuseppe Conte, che ribadisce la linea del proprio partito: quattro sì ai quesiti sul lavoro della Cgil, libertà di voto sulla cittadinanza su cui i 5S insistono con la proposta dello ius scholae. Ma, dopo il clamore suscitato dalle uscite a destra, decide di sbilanciarsi e ammette che lui personalmente voterà sì. Lo stesso fa anche Riccardo Ricciardi, capogruppo M5S alla Camera, in un video sui social: “Quattro sì per ridare dignità al mondo del lavoro. Poi ci sarà un altro quesito sul tema della cittadinanza a cui io personalmente voterò sì”. Affermazioni che vengono subito riprese da Riccardo Magi, segretario di PiùEuropa e presidente del comitato promotore del referendum cittadinanza, che si rivolge anche a Forza Italia: “Rivolgo un appello a coloro che da liberali avevano assicurato sulla cittadinanza di fare sul serio: gettate il cuore oltre l’ostacolo e annunciate il vostro sì”. E, in merito alle posizioni astensioniste, sentenzia: “Peggio per loro, un’onda democratica li sommergerà”. La maggioranza rivendica la liceità del non voto e attacca i referendum della Cgil presentandoli come un regolamento di conti interno al Pd, che cerca di superare la fase renziana del Jobs Act. Ma è un’accusa che non può essere indirizzata al quesito sulla cittadinanza. E i sostenitori attaccano la destra. “Se siete contrari, se pensate che l’Italia non abbia bisogno di questo, ditelo e andate a votare no. Perché so sulla mia pelle cosa significa non avere diritto al voto” dice al manifesto Navneet Kaur, coordinatrice del comitato padovano. “Ho ottenuto la cittadinanza a 23 anni. Se gli anni di residenza fossero stati 5, come sarebbe con una vittoria del sì, già da minorenne sarei stata riconosciuta” spiega. “Ci sono tanti ostacoli, oltre a quello temporale relativo alla residenza, come dimostrare di avere un reddito di almeno 8mila euro. O non avere procedimenti penali. Il referendum non è il punto finale ma il momento in cui fare il primo passo” dice. “Senza ragazzi stranieri le nostre classi sarebbero chiuse da anni - commenta Fabio Signoretta, sindaco dei radicali del comune calabrese di Jonadi - come tante realtà subiamo lo spopolamento, per questo abbiamo lavorato su una campagna di informazione per i fuorisede, ovviamente senza dare indicazioni di voto. Da sindaco le parole di La Russa mi preoccupano da un punto di vista istituzionale prima ancora che politico”. Migranti. Una sentenza della Cassazione che cambia un po’ le cose per i trattenuti in Albania di Luca Sofri ilpost.it, 11 maggio 2025 Per la Corte non devono essere riportati in Italia se fanno domanda d’asilo dopo essere arrivati nel CPR di Gjader. Secondo la Corte di Cassazione la detenzione di un migrante nel centro di permanenza per il rimpatrio (CPR) costruito dall’Italia a Gjader, in Albania, è legittima anche se la persona fa domanda di richiesta d’asilo. Questo principio giuridico contenuto in una sentenza della Corte, di cui ha dato notizia il Corriere della Sera sull’edizione cartacea di sabato e che non è ancora pubblicata sul sito della Cassazione, cambia un po’ le cose per i migranti portati in Albania. Ad aprile infatti la Corte d’appello di Roma, organo competente su questo tipo di procedimenti, non aveva convalidato il trattenimento di alcuni migranti perché avevano presentato la domanda d’asilo una volta arrivati in Albania: secondo i giudici la nuova condizione giuridica di “richiedenti asilo” comportava il loro rientro in Italia. Adesso invece la Cassazione ha detto che i migranti possono restare detenuti nel CPR di Gjader anche se chiedono la protezione internazionale, perché il CPR albanese va equiparato a un qualsiasi altro CPR italiano. La sentenza riguarda un caso specifico: la Cassazione ha accolto il ricorso presentato dal ministero dell’Interno e dalla questura di Roma contro uno dei 14 decreti con cui la Corte d’appello di Roma non ha convalidato il trattenimento di altrettanti migranti a Gjader. Il caso riguarda un trentenne del Marocco, che era arrivato a Lampedusa nel 2021: era stato poi espulso dalla prefettura di Napoli e portato nel centro in Albania. Lì avrebbe presentato una domanda di protezione internazionale, che secondo la questura di Roma sarebbe stata solo strumentale per farsi riportare in Italia, scrive il Corriere. Da qui la sentenza della Corte, che ha rinviato il caso alla Corte d’appello di Roma affinché lo valuti di nuovo. Il centro di Gjader, così come l’hotspot della vicina Shengjin, erano stati fatti costruire dal governo di Giorgia Meloni per portarci i migranti soccorsi in mare. A Shengjin c’è solo un centro di prima identificazione dei migranti trasferiti, mentre il centro di Gjader nei progetti iniziali era diviso in tre parti: la più grande adibita a centro di trattenimento, quella adibita a CPR e un carcere (il centro di trattenimento e il carcere al momento sono vuoti). I centri erano stati resi operativi alla fine del 2024, ma da quel momento fino a poche settimane fa il governo aveva tentato per mesi di utilizzarli senza riuscirci, visto che i vari tribunali competenti non convalidavano i trattenimenti dei migranti, ritenendoli in contrasto con le norme europee. A fine marzo il governo ha approvato un decreto in cui si stabiliva che il centro di Gjader potesse essere usato come un qualsiasi altro CPR italiano, rinunciando così a usare i centri in Albania per i migranti soccorsi in mare. A quel punto il governo ha potuto trasferire i primi 41 migranti che si trovavano già nei CPR italiani (ora sono 25). Migranti. Dopo la Cassazione Piantedosi si promuove per i rimpatri: “Adesso si va avanti” di Luciana Cimino Il Manifesto, 11 maggio 2025 I richiedenti asilo possono essere trattenuti a Gjader. Nella notte 83 persone, tra cui 16 minori, soccorse dalle ong, due cadaveri. Matteo Piantedosi è un uomo fortunato. Ieri, alla scuola politica della Lega, davanti a Matteo Salvini che non fa mistero di volergli scippare il Viminale, il ministro dell’Interno è arrivato con un grosso scudo: una sentenza della Corte di Cassazione che stabilisce che anche i richiedenti asilo potranno essere trattenuti nei centri per migranti in Albania. Un punto a favore della linea seguita da Giorgia Meloni che solo mercoledì scorso, durante il premier time al Senato, esultava per aver “rimpatriato il 25% dei migranti dall’Albania” (in tutto 9). Percentuali considerate “assurde” dall’opposizione. Nel corso dell’ultimo anno il governo ha intrapreso una feroce campagna contro i giudici (come quelli della Corte d’appello di Roma) che non avevano convalidato i trattenimenti dei richiedenti asilo. Adesso la propaganda del governo trova parziale soddisfazione: “La Suprema Corte ha chiarito che il Cpr in Albania va equiparato, a tutti gli effetti, ai centri italiani - ha scritto Piantedosi sui social -. Un pronunciamento che pone fine a una serie di ostacoli alla politica del governo italiano che, con lungimiranza, ha posto le basi per un modello di contrasto all’immigrazione irregolare apprezzato in tutta Europa”. A ruota, nel giubilo, lo segue l’intero centrodestra, tutti con il claim: “La Cassazione conferma che avevamo ragione”. La sentenza della Corte si basa sul ricorso del Viminale e della questura di Roma in cui veniva contestato il rilascio di un marocchino con un decreto di espulsione che, una volta deportato in Albania, ha presentato la domanda di protezione internazionale. La Cassazione ha rinviato il caso alla Corte d’appello di Roma affinché lo valuti di nuovo. Il legale del migrante, Salvatore Fachile, ha già annunciato il ricorso in Corte d’appello: “la Cassazione ha accolto la tesi del Viminale che però sarà sottoposta a nuovi vagli. Questo pronunciamento è un grave errore, ci batteremo affinché vengano riconosciuti i diritti di queste persone”. Per Piantedosi, in ogni caso, la giornata di ieri è stata fonte di soddisfazione: “Altri 32 cittadini stranieri, irregolari in Italia, sono stati espulsi e rimpatriati. Di questi, 27 da Cpr nazionali mentre 5 dal centro di Gjader” ha annunciato, sempre sui social, il ministro dell’Interno attribuendosene poi il successo alla scuola della Lega. “La faccia dura funziona bene quando si mettono insieme una serie di iniziative e lo si fa capire alle organizzazioni criminali”. E promette: “I centri in Albania fanno parte di quelle soluzioni che stanno prendendo corpo nella discussione a livello internazionale ed europea ed andremo avanti perché ci sono i risultati”. Risultati contestabili: i centri albanesi sono “cattedrali nel deserto che nell’arco di 5 anni costeranno quasi un miliardo di euro alle casse dello Stato - ha spiegato il deputato dem Fabio Porta, di ritorno ieri da una ispezione a Gjader -. Uno spreco di denaro pubblico motivato solo da esigenze propagandistiche, un’operazione squallida fatta sulla pelle di immigrati che il più delle volte hanno solo reati di tipo amministrativo e che spesso si trovavano in Italia da dieci o venti anni”. Piantedosi, ricordando la sua “stagione felice” come vice di Salvini all’Interno, ha anche rivendicato la riduzione del numero degli sbarchi, “in parte con numeri diversi sta succedendo anche adesso”, ha detto, forse ignorando la cronaca delle ultime ore. Ottantatré persone, tra cui 16 minori, sono state soccorse nel canale di Sicilia dalla ong Sea Punk1. Ai soccorritori hanno riferito di essere egiziani, eritrei e sudanesi. Mentre il veliero Nadir di ResQship, ha recuperato un gruppo di migranti e due cadaveri. Stati Uniti. Trasferimenti forzati dei migranti in Libia dove sono detenuti in condizioni orribili La Repubblica, 11 maggio 2025 La denuncia di Human Rights Watch. Sulla base di numerosi resoconti dei media che citano funzionari statunitensi, l’amministrazione Trump pronta a deportare un numero imprecisato di migranti reclusi in USA. Il governo degli Stati Uniti trasferisce con la forza i migranti in Libia, dove le condizioni di detenzione disumane sono ormai note e ben documentate, tra torture, maltrattamenti, aggressioni sessuali e uccisioni. Lo denuncia Human Rights Watch. Sulla base di numerosi resoconti dei media che citano funzionari statunitensi, l’amministrazione Trump potrebbe essere pronta a deportare a breve in Libia un numero imprecisato di migranti, detenuti negli USA. Il pronunciamento di un giudice. Un giudice statunitense ha stabilito che il governo non può procedere immediatamente alla deportazione di persone in Libia. Il governo di unità nazionale (GNU) con sede a Tripoli e il suo ministero degli Esteri hanno rilasciato dichiarazioni che negano le notizie di un accordo con l’amministrazione Trump. In molti confutano un probabile accordo. Anche i suoi rivali, le Forze armate arabe libiche (LAAF) con sede nell’Est, e il ministero degli Esteri affiliato hanno rilasciato dichiarazioni che confutano le affermazioni di un accordo. Alla domanda sui piani, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha detto: “Non lo so - ha detto Hanan Salah, direttore associato per il Medio Oriente e il Nord Africa di Human Rights Watch - è distopico. Imporre a un Paese fratturato come la Libia una storia ben documentata di condizioni orribili di detenzione”. Sapendo benissimo - c’è da aggiungere - dell’esistenza di bande armate di criminali, finora impuniti, che accolgono e svolgono il ruolo di secondini sfruttatori dei detenuti. I maltrattamenti dei migranti in Libia sono noti. I centri di detenzione libici sono fosse infernali dove i rifugiati non hanno nessun diritto e nessuno cui rivolgersi per avere un minimo di tutela e protezione. I documenti del Tribunale dicono che i funzionari dell’amministrazione Trump hanno dato ai detenuti detenuti in un centro in Texas un avviso orale e, in almeno un caso, documenti da firmare per notificarli della loro espulsione in Libia. Includono cittadini delle Filippine, Vietnam, Laos e Messico.Human Rights Watch ha documentato per due decenni condizioni disumane e gravi abusi nei centri di detenzione per migranti e nelle carceri in Libia.