Contro le celle chiuse e per il diritto all’informazione di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi La Repubblica, 10 maggio 2025 Una circolare del Dap limita l’apertura delle celle, mettendo a rischio il lavoro di Ristretti Orizzonti e il percorso di cambiamento di molti detenuti. L’appello di 35 docenti universitari. “A volte penso che il sole sia particolarmente affezionato alla nostra sezione, altrimenti non si spiegherebbe come mai ci faccia visita per ben due volte al giorno, soffermandosi a lungo. In realtà è il corridoio che, avendo alle sue estremità una finestra orientata verso est e l’altra verso ovest, accoglie volentieri i raggi solari, e su questo ha tutta la nostra comprensione dato che anche noi, silenziosi abitanti della sezione “studenti” del carcere, preferiamo di gran lunga restare in corridoio, approfittando di una concessione della direzione del carcere che lascia le porte delle celle aperte, dalle otto del mattino fino alle otto di sera. In realtà, la presenza del sole in corridoio non è tanto costante durante l’inverno. Il freddo invade presto queste parti d’Italia, ed essendo in pianura la nebbia campeggia trionfante per tutta la stagione. E poi, il sole con la sua pigrizia invernale usa sollevarsi tardi. E anche nel caso in cui abbia voglia di estendere i suoi raggi infreddoliti nel nostro corridoio, lo fa quando ormai noi abbiamo già lasciato la sezione per andare da un’altra parte del carcere, dove c’è una redazione e facciamo un giornale”. Questa testimonianza, firmata da Elton Kalica, si trova accanto a migliaia di altri frammenti di vita carceraria che è possibile leggere grazie al sito e all’archivio di Ristretti Orizzonti, che è anche una rivista bimestrale. Dal 1998 - anno di nascita della redazione - al 2024 sono stati pubblicati 188 numeri, tutti realizzati grazie alla redazione interna al carcere I due Palazzi di Padova e al lavoro collettivo di persone detenute, operatori e volontari. Oltre alla rivista, Ristretti Orizzonti è un osservatorio indipendente sui morti in carcere e un punto di riferimento per coloro che, iscrivendosi alla newsletter, hanno accesso ogni giorno a notizie, testimonianze e iniziative sull’universo penitenziario italiano e internazionale. Ed è proprio in difesa di questa realtà che recentemente è stato pubblicato l’appello firmato da 35 docenti di varie università italiane e indirizzato al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, a seguito di una circolare del 27 febbraio 2025 che limita in modo significativo l’apertura delle celle e la conseguente agibilità e possibilità di movimento dei detenuti in Alta Sicurezza. Molti dei quali, da anni, partecipavano alle attività della rivista. Vi si legge: “Ci domandiamo quanto possa essere costituzionalmente legittima la scelta delle “celle chiuse” quale modalità di custodia dei detenuti di Alta Sicurezza. Non convincono le motivazioni a favore delle “celle chiuse”, laddove si dice che solo in questo modo si rende possibile la individualizzazione del trattamento. Allo stesso modo, non pare opportuno fare discendere conseguenze così gravose sulla generalità dei detenuti in AS. Laddove si sono verificate criticità è giusto intervenire, non lo è farlo in modo indistinto, a tutto detrimento proprio della individualizzazione. Chiediamo pertanto che il Dap intervenga in modo rapido e solerte per rimediare a questa scelta sbagliata e fuori dal perimetro costituzionale”. Ornella Favero, Direttrice di Ristretti Orizzonti, racconta che l’esperienza della redazione mista, con detenuti comuni e detenuti dell’Alta Sicurezza ebbe inizio nel 2013. “Tutto è nato perché volevamo uscire dalla logica che il detenuto mafioso non avesse alcun diritto al cambiamento. La sfida è quella, la stessa Costituzione ce la suggerisce quando non fa distinzioni: il punto è supportare il cambiamento proprio di coloro che sembrano più immutabili”. Oltre al lavoro redazionale, Favero ricorda che ogni settimana in carcere grazie a Ristretti entrano scolaresche, spesso per la prima volta, garantendo così uno scambio continuo fra il dentro e il fuori. Ma lo scambio, chiarisce la direttrice di Ristretti, non c’è solo tra coloro che non hanno mai avuto esperienza del carcere e chi, invece, è detenuto. La possibilità di lavorare insieme, a prescindere dall’entità della pena e quindi della natura del reato, fa sì che lo scambio avvenga tra gli stessi detenuti: “Ricordo le parole di Salvatore - continua Favero - quando diceva: io non sono un mafioso ma venendo da un paesino del meridione subivo il fascino di quel mondo, eppure sentire l’esperienza di queste persone, vederle, parlarci e scoprire cosa si nascondesse dietro l’alone del grande boss mi ha aiutato, ci ha aiutato”. Questo incontro dava loro la possibilità di mettersi in gioco. E questo significava mettere in discussione il rigido assunto che, per alcuni, non ci fosse trasformazione possibile e possibile emancipazione e salvezza. Con l’attuazione di questa circolare, le persone in Alta Sicurezza non solo non possono più partecipare ai lavori di redazione, ma hanno dovuto sospendere gli incontri con gli studenti e, per la prima volta, è stato loro impedito di partecipare alla Giornata di studi annuale promossa da Ristretti. “Contro tutto ciò vale ancora ciò che per noi rappresenta una stella polare. Ovvero le parole di Agnese Moro: non voglio buttare via nessuno”. Sovraffollamento, il grande balzo: 20% in più in 5 anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 maggio 2025 Nei corridoi umidi delle carceri si respira un’aria di tensione che parla più di ogni parola: quante persone stanno lì dentro? E quanti posti ci sarebbero, in teoria? Secondo gli ultimi dati risalenti al 30 aprile 2025 il conteggio è implacabile: 62.456 detenuti a fronte di 46.776 posti realmente utilizzabili, un sovraffollamento del133,52% secondo l’ultimo report del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Un terzo degli spazi che “manca” sotto il profilo logistico. Sulla carta risultano 51.280 posti regolamentari, ma il dato reale scende: restano fuori gioco 4.504 posti, tra camere inagibili e intere sezioni chiuse, e l’ingombro umano non trova sosta. I dati riportati sul ministero della giustizia sono chiari. Non è un’emergenza isolata: 157 istituti su 188 (l’83,5%) superano la soglia consentita e in 60 di questi - quasi un terzo - l’indice di affollamento varca il 150%. I numeri non lasciano alibi, né margini di ottimismo. Le mappe regionali confermano uno squilibrio profondo. In Puglia un detenuto su due non trova neppure mezzo spazio personale: l’indice tocca il 170,22%. A seguire, Friuli Venezia Giulia 156,33%, Lombardia 153,58%, Molise 149,60%, Veneto 148,54% e Basilicata 147,83%, mentre nel Lazio si arriva al 146,92%. Solo tre regioni restano sotto la linea di galleggiamento: Valle d’Aosta 79,31%, Sardegna 96,24% e Trentino Alto Adige 97,65%. Le celle si riducono a veri e propri stanzoni polverosi, dove la pressione umana supera ogni codice: a Milano “San Vittore” l’indice tocca il 219,17%, come in un bollettino di guerra; un passo indietro e si trova Foggia al 211,58%, poi Canton Mombello (Brescia) al 200%, Lucca al 197,37%, Varese al 194,34%, Taranto al 194,21%, Como al 190,27%, Udine al 188,30%, Busto Arsizio al 187,89% e infine Roma “Regina Coeli”, un vero e proprio carcere infernale, al 187,24%. Seguendo l’ultimo report del Garante Nazionale curato da Giovanni Suriano, la tabella sui Provveditorati disegna un’escalation senza sosta. Puglia e Basilicata, dal 139,45% del 2020, balzano al 168,23% del 2025, conservando il primato negativo; seguono Lombardia (da 131,49% a 153,58%), il raggruppamento Lazio Abruzzo Molise (da 116,35% a 139,36%), il Triveneto (da 118,07% a 140,77%), la Campania (da 108,83% a 136,1%), Emilia Romagna e Marche (da 115,63% a 135,2%), Toscana Umbria (da 114,16% a 126,66%) e Piemonte Valle d’Aosta Liguria (da 116,98% a 120%). Persino regioni che nel 2020 erano sotto soglia, come Sicilia (da 97,01% a 122,15%) e Calabria (da 92% a 115,04%), registrano ora un balzo drastico. Il dato è senza equivoci di sorta: a livello nazionale si passa dal 113,18% del 2020 al 133,52% del 2025. Un balzo enorme. Ma non è tutto: il report segnala 14 detenuti allocati in spazi inferiori ai 3m ², contravvenendo ai parametri minimi sindacali della Corte europea dei diritti dell’uomo. Mentre ben 15.643 detenuti vivono in celle comprese tra i 3 e i 4m ². Sono numeri oggettivamente drammatici. Nel frattempo, sulle tracce di quei numeri e di quelle celle affollate, a Roma Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino ha deciso di mettere in gioco il suo corpo: dallo scoccare della mezzanotte del 23aprile è in sciopero della fame. Il suo gesto vuole dare vigore all’Appello rivolto ai parlamentari per concedere a tutti i detenuti un anno di riduzione di pena, in memoria di Papa Francesco e di Marco Pannella. L’appello richiama le parole del precedente Pontefice all’interno del Giubileo e del Giovedì Santo, esasperate dal dramma quotidiano del carcere: chiede ai parlamentari, al di là di calcoli organizzativi o numerici, un gesto di carità cristiana. In nome del messaggio di redenzione - quello rivolto al ladrone in Croce e incarnato dalla trasformazione simbolica del carcere in Basilica - si sollecita l’inserimento, nel primo provvedimento utile, di un emendamento trasversale che riconosca per ciascun detenuto un anno di riduzione di pena, sia sotto forma di indulto sia come liberazione anticipata speciale. Un atto di clemenza capace di trasformare l’anno giubilare in un “anno di grazia, perdono e redenzione”, così come auspicato dal Santo Padre fino all’ultimo respiro. All’appello hanno aderito, individualmente, esponenti di quasi tutte le forze politiche, tranne il Movimento Cinque Stelle, segno che la questione varca gli schieramenti. Tra i firmatari figurano Roberto Giachetti (Italia Viva), Fabrizio Benzoni (Azione), Mauro Berruto e Paolo Ciani (Pd), Maria Elena Boschi e Maria Chiara Gadda (Italia Viva), Ilaria Cucchi e Giuseppe De Cristofaro (Misto- Sinistra Italiana), Benedetto Della Vedova e Riccardo Magi (Misto + Europa), Eleonora Evi e Silvia Roggiani (Pd), Domenico Furgiuele (Lega), Gian Antonio Girelli (Pd), Valentina Grippo (Azione), Maurizio Lupi (Noi Moderati), Maria Stefania Marino (Pd), Giorgio Mulè e Paolo Emilio Russo (Forza Italia), Emanuele Pozzolo (Fratelli d’Italia), Debora Serracchiani (Pd) e Luana Zanella (AVS). Un coro trasversale che chiede alla politica di fare un passo avanti. Ma già i giornali come Il Fatto Quotidiano, espressione pentastellata, comincia a stigmatizzare l’idea dell’indulto. Ma questa non è una novità. Sovraffollamento penitenziario, quando le carceri diventano prigioni di Alberto Arnaudo e Sandro Libianchi* lavocedeimedici.it, 10 maggio 2025 Non sappiamo cosa pensasse dentro di sé l’ex-sindaco di Roma Gianni Alemanno della situazione carceraria italiana quando era libero di fare politica; sappiamo però cosa ne pensa oggi, che in carcere ci si trova rinchiuso da qualche mese per la revoca delle misure alternative causata da sue inadempienze di cui, immaginiamo, ora si sia amaramente pentito. Dopo aver inviato una lettera al direttore de “Il Tempo”, Tommaso Cerno, a nome dei “detenuti che vivono quotidianamente il dramma di un sistema carcerario al collasso”, nella quale lamentava tra le altre cose che “oggi il populismo penale impone lo slogan ‘buttiamo via la chiave’, mentre l’indifferenza politica lo raccoglie con un altro: “chiudiamoli in cella e dimentichiamoci di loro” (confondendo) la necessità di tutelare la sicurezza pubblica con l’inasprimento della condizione carceraria, senza considerare che un sistema sovraffollato e inumano favorisce la recidiva invece di prevenirla”, ha preso poi a narrare la propria triste esperienza dalle pagine di Facebook (ma è lecita la cosa per un detenuto?…). In una situazione penitenziaria italiana in cui non si fermano i suicidi (almeno 22 a tutto marzo di quest’anno, di cui il 50% stranieri), e dove, come ha sottolineato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, “il sovraffollamento è sempre più grave nelle carceri per adulti” (oltre il 130%) “con circa 16.000 persone che non hanno un posto regolamentare, ed è diventato ormai strutturale anche negli Istituti Penali per Minorenni, dove non si era mai registrato”, Alemanno sui social scrive: “C’è un continuo lavoro artigianale di ogni detenuto per migliorare le condizioni di vita a fronte di celle fatiscenti, ognuna con sei brande a castello, di un cesso che sta nella stessa stanza dove si cucina e di un lavandino senza acqua calda, della mancanza di apparati di condizionamento quando fa caldo”. Tutte cose facilmente constatabili con una visita dall’esterno da parte di un politico, ma che assumono evidentemente ben altra rilevanza se viste… dall’interno. Sul fronte della resilienza l’ex sindaco di Roma nota come “ogni attività del carcere è molto frequentata dalle persone detenute, certamente in cerca di modi per passare la giornata, ma anche molto attente a tutto quanto li può far sperare di avere una vita migliore durante e dopo la carcerazione. C’è voglia di partecipare, non di tutti, perché c’è anche chi si lascia andare e diventa un morto vivente. La reclusione è una intensa esperienza comunitaria: ecco perché è stupido sprecarla”. “Le stiamo scrivendo perché vogliamo sensibilizzare le istituzioni e l’opinione pubblica sull’attuale situazione carceraria, che a noi, e non solo a noi, appare insostenibile e contraria ai dettati costituzionali” ha ribadito in una lettera indirizzata direttamente al Ministro della Giustizia Nordio. “Le persone detenute sono un pezzo della società e sono un pezzo vulnerabile della stessa, come tante volte ci ha ricordato il compianto papa Francesco. Compiere un atto di riconoscimento delle condizioni insostenibili in cui vivono queste persone non vuol dire cedere a una tentazione permissiva contraria al principio della certezza della pena. Significa solo compiere una necessaria conciliazione tra questo principio e quello della finalità rieducativa della pena previsto dall’art. 27 della nostra Costituzione”. Fa piacere che un politico si esprima in questi termini sulla condizione carceraria del nostro Paese; fa un po’ meno piacere che arrivi a farlo solo sulla base della propria esperienza diretta, e non sviluppando ragionamenti e strategie di largo respiro quando siede al tavolo delle decisioni di policy. E fa ancora più male pensare che ciò avviene troppo spesso riguardo non soltanto alle carceri, ma a molti dei problemi che affliggono la gente comune, mai pienamente compresi e sposati dalla politica se non in occasione (appunto) di esperienze personali o di fatti eclatanti di cronaca (le cosiddette ‘emergenze’, peraltro continue…). Durante la seduta straordinaria svoltasi a metà marzo presso la Camera dei Deputati, con la discussione di due mozioni riguardanti iniziative in merito alla situazione nelle carceri, assenti sia il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sia il sottosegretario, Andrea Delmastro, è emersa con forza la voce dei detenuti, i quali riconoscono di aver sbagliato, ma chiedono “dignità”: “Chiediamo di scontare una pena in condizioni umane. E chiediamo di dormire su un letto che non sia pieno di formiche, di scarafaggi, di blatte, di non dormire su materassi marci; chiediamo la possibilità di avere un’alternativa, di avere dei percorsi di rieducazione, di parlare con un educatore, con lo psicologo e, soprattutto, di avere uno spazio”. “Se soffre una parte della comunità carceraria” è stato giustamente notato “soffrono tutti quanti: direttori, poliziotti, educatori, cappellani, personale sanitario, volontari e persone recluse”. Chissà se il cahier de doléances dell’ex-onorevole Alemanno potrà contribuire, ora che lui ne sta facendo esperienza diretta, a smuovere qualcosa intorno alla paludosa situazione carceraria italiana. Non possiamo che augurarcelo. Il libro di Silvio Pellico si studia ancora oggi, quando l’Impero Austro-Ungarico che lo aveva imprigionato è defunto da tempo. Le parole scritte dal carcere da Alemanno sopravvivranno alla sua pena, e riusciranno a portare qualche buon frutto? *Coordinamento Nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane APS Nordio: “In Italia impossibile costruire nuove carceri, servono opzioni diverse” ageei.eu, 10 maggio 2025 “Senza voler esser irriverente verso i Governi che ci hanno preceduto, la valutazione della Corte dei conti è fatta su tutti i Governi dell’ultimo decennio. La costruzione di un carcere nuovo è impossibile perché ci sono una serie di vincoli geologici, architettonici e culturali che impediscono di costruire nuove strutture nel nostro paese”. Così il Ministro della Giustizia Carlo Nordio a margine dell’evento “Futuro Direzione Nord - Scelte per tempi difficili” in corso a Milano. “Volendo spostare una porta a Regina Coeli, mi è stato detto per esempio che la stessa è protetta dalle Belle Arti quindi non si può spostare. Se questo è così complicato, significa che far riforme da qua dentro è difficile. In Arizona o negli Stati Uniti è molto più facile costruire carceri perché si possono portare dei grandi container moderni, si mettono nel deserto, si mette l’area condizionata e si creano posti. In Italia non c’è spazio, quindi servono delle opzioni diverse. Bisogna pensare a strutture dismesse di proprietà dello stato come le caserme, ma al tempo stesso si può pensare a una maniera diversa di detenzione come per i tossicodipendenti, che possono esser considerati come dei malati e quindi esser curati sempre in stato di detenzione”. Flick: “Le carceri sono affollate di persone povere perché è più facile castigare i deboli” di Alessio Di Francesco agenparl.eu, 10 maggio 2025 “Preoccupa esternalizzazione esecuzione pena. Riforma penitenziaria promessa e poi tradita. I detenuti non hanno nemmeno le docce. Basta presa in giro delle caserme dismesse”. Il presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick, è intervenuto questa mattina al convegno “Analisi e prospettive di riforma del sistema penitenziario italiano” organizzato dal Centro di ricerca interdipartimentale di ricerca sui sistemi sociali e penali (Das) dell’Università Lumsa, un evento di riflessione per la comunità universitaria sul carcere in occasione del cinquantesimo anniversario dell’entrata in vigore della Legge 354 del 1975 i, che ha riformato in Italia l’ordinamento penitenziario e l’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. Di seguito un estratto delle sue parole: “Le carceri sono piene di poveri, in molti casi vittime di ingiustizia che si preferisce imprigionare invece di contrastare le condizioni in cui si commettono i crimini. Sono sovraffollate per una ragione elementare, non è la mancanza di caserme, come dice il Ministro della Giustizia, ma perché è molto più facile castigare i più deboli”. “La Corte dei Conti boccia le carceri per spazi inadeguati, lavori di manutenzione in ritardo e sottolinea che urge adeguarsi agli standard internazionali. Sapete qual è la risposta del Ministro attuale della giustizia? ‘L’Italia non è la California, dobbiamo trovare i luoghi giusti, pensiamo al recupero delle caserme’. Sembra che l’unico orizzonte che noi abbiamo in materia penitenziaria è il recupero delle caserme dismesse, le tappe successive sono i container. L’esternalizzazione, che è cominciata con la vicenda dei migranti, è preoccupante perché mi aspetto che prima o dopo si adotterà anche per l’esecuzione delle pene. In materia di esternalizzazione si corre il rischio di finire come la Cayenna con gli stabilimenti penitenziari al di là del mare dove non si sa che cosa capita”. “Uno degli obiettivi fondamentali è il tema della cultura in carcere, una finestra tra il dentro e il fuori, che consenta a chi è fuori di capire che cos’è il carcere, evitando il solito modello: stanno all’albergo, hanno anche il televisore a colori… Magari, non hanno il gabinetto, non hanno la doccia che era stata promessa dalla riforma dell’ordinamento penitenziario”. “C’è stata una riforma, è stato un passo in avanti, molto significativo, l’unico piccolo problema è che è stata attuata solo in minima parte. È stata una rivoluzione promessa che poi è diventata una rivoluzione tradita, per il modo con cui è stata non attuata”. “Il primo passo da fare è quello della cultura in carcere, perché chi è fuori capisca che cosa c’è dentro e perché chi è dentro capisca che cosa lo aspetta fuori, credo che questo sia essenziale. Il secondo passo è quello di realizzare un’osmosi tra carcere e realtà circostante con l’università e con la cultura, lo si sta facendo. Il terzo passo è quello di esplorare la possibilità di un collegamento più articolato e più stabile tra il carcere e quella realtà”. “La politica smetta di prenderci in giro con la storia delle caserme dismesse o dei container e che cominci a lavorare perché la dignità sociale è tale se è pari tra tutti: tra chi ce l’ha già e chi aspira a farsela attraverso il carcere”. “Noi abbiamo articolo 27 che vieta il trattamento inumano, non sono pene i trattamenti inumani. La tortura non è una pena, è un reato, è un delitto da perseguire” “Pensate a quale shock di solito si ha dell’entrata in carcere? E non è, infatti, azzardato sottolineare che parte dei suicidi in carcere, soprattutto quelli dei giovani, ai quali crolla il mondo addosso alla prima reclusione. Ma il discorso non è soltanto dello shock dell’entrata, c’è anche lo shock dell’uscita, il fine pena mai dell’ergastolo è un qualche cosa che elimina la speranza. E una delle vie per fuggire da un carcere che elimina la speranza è la percentuale mostruosa di suicidi che noi abbiamo nell’ambito carcerario. E che sia una situazione preoccupante si denota, sia pure con proporzioni diverse, anche dalla crescita dei suicidi in carcere non solo per i detenuti, ma anche per gli agenti di custodia. Io credo che questo voglia dire che come abbiamo avuto il coraggio di riconoscere l’incostituzionalità di una pena come l’ergastolo nella misura in cui sia effettivamente fine pena mai, così, o prima o dopo, forse arriveremo a riconoscere che quando la Costituzione parla di pene, non parla solo di reclusione, ma apre un ventaglio di possibilità che consenta di mantenere la reclusione solo nelle ipotesi in cui vi siano fenomeni di aggressività e quindi di pericolosità per sé o per gli altri”. Viganò: “Il carcere che non funziona rende la società più insicura” di Alessio Di Francesco agenparl.eu, 10 maggio 2025 “Il sovraffollamento genera un alto tasso di conflittualità e violenza, con ulteriori problemi all’amministrazione penitenziaria. La situazione delle Rems è intollerabile, vulnus ai principi costituzionali. Il diritto affettività non è solo sesso, ma percorso di reinserimento nella società”. Il vicepresidente della Corte costituzionale, prof. Francesco Viganò , è intervenuto questa mattina al convegno “Analisi e prospettive di riforma del sistema penitenziario italiano” organizzato dal Centro di ricerca interdipartimentale di ricerca sui sistemi sociali e penali (Das) dell’Università Lumsa, un evento di riflessione per la comunità universitaria sul carcere in occasione del cinquantesimo anniversario dell’entrata in vigore della Legge 354 del 1975 i, che ha riformato in Italia l’ordinamento penitenziario e l’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. Di seguito un estratto delle sue parole: “Il detenuto è titolare di diritti, non solo di aspettative e di interessi legittimi, ma di veri e propri diritti che non gli sono tolti per effetto della condanna. L’articolo 35 bis riconosce il diritto del detenuto di andare davanti ad un giudice qualora ritenga che i suoi diritti siano stati conculcati durante il trattamento penitenziario”. “Un carcere che non funziona, è un carcere che non produce sicurezza perché chi viene messo fuori continuerà a commettere reati e a tornare dentro poco dopo, intanto però rendendo la società nel suo complesso più insicura. Io credo che questa non sia solo una grande battaglia di civiltà, una grande battaglia di rispetto per la dignità di tutti coloro che sono colpiti dal sistema penale ma anche una battaglia che serve, che è funzionale agli interessi della collettività nel suo complesso. Il carcere costa moltissimo e di questo bisogna essere consapevoli. Dobbiamo tutti insieme sforzarci perché il carcere che costa così tanto sia anche più funzionale, più adeguato rispetto agli scopi indicati dalla Costituzione che coincidono anche con l’idea di assicurare una maggiore tutela delle vittime reali e potenziali dei reati”. “Sul sovraffollamento la Corte interviene nel 2013 subito dopo la sentenza Torreggiani della Corte Europea dei diritti dell’uomo che aveva rilevato un problema sistemico di sovraffollamento nel nostro ordinamento e aveva concesso di fatto un anno di tempo al legislatore per intervenire. Il legislatore e il governo assieme sono intervenuti in quell’occasione e hanno ottenuto una significativa riduzione del numero dei detenuti che purtroppo ora sta nuovamente salendo. Il sovraffollamento, dice la Corte nel 2013, è un problema che si traduce anzitutto in una violazione dei diritti fondamentali del detenuto che è sottoposto a quello che la Corte Europea definisce un trattamento inumano e degradante in violazione dell’articolo 3 della Convenzione che peraltro pregiudica in maniera radicale le possibilità di un trattamento rieducativo nel senso indicato dall’articolo 27 terzo comma della Costituzione. È una situazione che genera un elevato tasso di violenza e di conflittualità tra i detenuti ristretti in uno spazio troppo piccolo ed è un problema, questo bisogna dirlo forte, enorme per la stessa amministrazione penitenziaria che, già in gravissima carenza di organico, si trova a gestire queste situazioni di esasperata conflittualità di persone che si trovano ristrette in spazi troppo piccoli”. “Le Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) sono in grado di ospitare oggi un po’ più di 600 persone, ma ce ne sono altrettante in lista d’attesa, questo rappresenta un problema enorme per coloro che hanno commesso reati e che hanno problemi mentali. Chi non riesce ad essere collocato in una Rems non riceve le cure necessarie per affrontare le proprie patologie mentali. Stiamo parlando di persone che sono di fatto abbandonate a sé stesse se i presidi sanitari locali non riescono a trattarle perché queste persone non si recano costantemente a ricevere le cure che sarebbero necessarie. Così la società è esposta ai pericoli di persone che spesso sono aggressive e hanno quindi una propensione a commettere reati creando nuove vittime. Questa situazione è semplicemente intollerabile, rappresenta un vulnus in maniera tecnica ai principi costituzionali che esige una risposta immediata da parte dell’ordinamento”. “Il ‘diritto all’affettività’ non è e non deve essere inteso riduttivamente come un diritto al sesso dei detenuti, non si tratta semplicemente di attività sessuale, fermo restando che il sesso, lo sappiamo tutti, è una componente importante per la nostra personalità, ma qui si tratta di garantire un diritto all’affettività che è innanzitutto diritto a coltivare e a mantenere in vita delle relazioni affettive anzitutto con le persone più vicine, con le persone cui si hanno dei legami più forti: con i partner ma anche con i figli, con i bambini in spazi protetti che sono a loro volta fondamentali. Perché il processo di risocializzazione non può che partire da quella micro-comunità che è rappresentata dalla famiglia, se il carcere distrugge gli affetti familiari, se procura rotture e separazioni, come volete che si possa impostare un percorso di reingresso, di reinserimento graduale del detenuto nella comunità?”. Caso Morabito: la Cassazione annulla, con rinvio, la proroga del 41 bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 maggio 2025 Annullata con rinvio la decisione del Tribunale di sorveglianza di Roma, impugnata dalla difesa, che aveva confermato la proroga del 41 bis all’ultranovantenne Giuseppe Morabito, nonostante la diagnosi di deterioramento cognitivo e la condanna del 10 aprile scorso da parte della Corte Europea. L’avvocata Giovanna Beatrice Araniti, difensore dell’ex capo storico della ’ ndrangheta - attualmente al 41 bis nel carcere di Opera - l’8 marzo ha presentato ricorso per Cassazione contro l’ordinanza che respingeva il reclamo al decreto del ministero della Giustizia, con cui era stato ripristinato il regime duro per altri due anni. La sentenza della Cedu riguarda il periodo fino al 24 maggio 2023, quando Morabito fu ricoverato d’urgenza per un’ernia, con conseguente sospensione del 41 bis. Durante la procedura a Strasburgo, il regime è stato però riattivato dal ministero. Da qui, il ricorso in Cassazione, integrato - dopo la condanna europea - con una memoria che richiama il giudizio di ingiustificata proroga per un detenuto ultranovantenne. Nel ricorso si contesta la totale mancanza di motivazione dell’ordinanza: secondo la difesa, la decisione non spiega le ragioni adottate e ignora i documenti prodotti. Viene richiamata la giurisprudenza della Cassazione, secondo cui carenze del genere violano la legge, anche nei ricorsi limitati ai profili formali. L’articolo 41 bis prevede infatti che, se un reclamo viene accolto, il ministero può disporre un nuovo provvedimento solo sulla base di fatti nuovi. Ma in questo caso - osservano i legali - non ne è stato indicato nessuno. Morabito era già stato trasferito ai domiciliari in una struttura sanitaria, dopo un intervento urgente ritenuto necessario dai medici. Una scelta convalidata dai giudici di sorveglianza, che avevano escluso la compatibilità tra il 41 bis e le sue condizioni cliniche. A rafforzare la difesa, due sentenze definitive che ne attestano l’incapacità di partecipare ai processi. La decisione impugnata, secondo i legali, ignora tutto questo e ripropone tesi già superate. A ciò si aggiunge la condanna della Cedu. La Cassazione ha accolto i rilievi, annullando l’ordinanza con il rinvio. In attesa delle motivazioni, sul tavolo del ministero della Giustizia c’è l’istanza della difesa di Morabito, dove si chiede di dare atto alla sentenza della Corte Europea. Separazione delle carriere, parla Sisto: “Nessuna paralisi, è giusto accelerare” di Errico Novi Il Dubbio, 10 maggio 2025 Il vice ministro della Giustizia commenta anche la recente sentenza della Consulta sull’abrogazione del reato di abuso d’ufficio: “Sapevamo di esserci mossi nel pieno rispetto delle Convenzioni internazionali”. “Fermarci? Nemmeno per idea. Si va avanti. È innaturale che la volontà, di pochi, di ostacolare una riforma come la separazione delle carriere prevalga sull’altrettanto legittima determinazione di altri, cioè noi, i molti, che invece vogliono realizzare quel progetto, in coerenza con il programma sulla giustizia”. Francesco Paolo Sisto non ha l’aria di chi si sente in un vicolo cieco. Due giorni fa, nella capigruppo di Palazzo Madama, ramo del Parlamento in cui attualmente giace il ddl sulle carriere dei magistrati, si è consumato un duro scontro fra maggioranza e opposizione, col Pd a lanciare anatemi contro qualsiasi ipotesi di accelerazione: “Questa cosa non è mai avvenuta nella storia della Repubblica, siamo pronti a qualsiasi tipo di reazione, nel perimetro della Carta”, ha “minacciato” il capogruppo dem Francesco Boccia. E così, viceministro, siete alla paralisi. O no? No. Nessuna paralisi. Perché appunto, c’è lo scontro di due volontà legittime, ma sarebbe irragionevole pretendere che quella delle opposizioni schiacci la nostra. Si deve trovare un equilibrato contemperamento fra le due aspirazioni, e quindi mettere in conto che, se lo stallo permanesse, si possa decidere di fissare comunque una data per l’approdo della riforma nell’aula del Senato, oppure che si contempli un budget di ore da dedicare, in Prima commissione, all’esame degli emendamenti, esaurito il quale però si procede col mandato al relatore. Non vedo dove sarebbe l’abuso. Secondo il Pd si tratterebbe di una compressione gravissima visto che è in gioco una modifica della Carta... Allora: siamo di fronte a più di 1.300 emendamenti, tutti delle opposizioni, per lo più ripetitivi. Nella gran parte sono proposte di modifica depositate da più senatori in ciascuno dei gruppi parlamentari di opposizione, proposte che ripropongono, con minime variazioni, sempre gli stessi emendamenti. Non solo: posso testimoniare, come rappresentante del governo incaricato di seguire i lavori sulla separazione delle carriere, che diversi di quegli esponenti delle opposizioni hanno apertamente spiegato le loro proposte come il più classico degli ostruzionismi. Legittimo, ripeto. Anche se, giusto per sdrammatizzare, potremmo definirlo un eccesso colposo in legittimo ostruzionismo. E quindi? E quindi è assurdo pensare che la maggioranza non abbia il diritto di far valere la propria determinazione ad andare avanti. Mi sa che lei stesso sottovaluta un dettaglio. Quale dettaglio? Se il regolamento prevede che, pur in assenza del voto sugli emendamenti in commissione e del mandato al relatore, si possa comunque fissare una data per l’Aula, come mi auguro avverrà al più presto, e andare all’esame conclusivo, non è perché una soluzione del genere ce la siamo inventata noi, a nostro uso e consumo: quella possibilità è prevista proprio per superare eventuali, persistenti atteggiamenti ostruzionistici delle opposizioni. Il regolamento consente di andare comunque in Aula perché è innaturale, appunto, che l’ostruzionismo blocchi l’iter di una riforma, per di più costituzionale. Avete sacrificato anche la legge Tortora, pur di concentrarvi sulle carriere separate, giusto? I nostri compagni di viaggio ci hanno chiesto un ulteriore riflessione su quel testo. Noi di Forza Italia riteniamo sia giusto ricordare le vittime degli errori giudiziari. Senza alcun intento punitivo, come adombrato viceversa dall’Anm, ma solo per una volontà rievocativa, per fare in modo che gli errori giudiziari non si ripetano. Altro che strumentalizzare: l’obiettivo, com’è evidente, è esattamente l’opposto. Torneremo in commissione, approfondiremo, convinti di aver promosso giustamente l’istituzione di quella giornata, e torneremo in Aula. Da ultimo c’è il caso della legge Zanettin, della quale il procuratore di Messina ha ritenuto di “smontare” l’applicabilità ai reati contro la Pa... Intanto il metodo: un procuratore che con una circolare dice ai giudici come devono interpretare una legge appena entrata in vigore non le sembra riecheggiare una concezione procurocentrica del processo? E non le pare che si tratti di un perfetto spot per la separazione delle carriere, e cioè della conferma di quanto la terzietà del giudice prevista all’articolo 111 sia tuttora precaria, e vada dunque resa effettiva con una modifica costituzionale? Ma davvero dovrete emanare una norma di interpretazione autentica, sul limite “ordinario” dei 45 giorni per le intercettazioni? È in corso una valutazione da parte del ministero e del governo. Certamente bisogna accertarsi che non vi siano equivoci interpretativi sul provvedimento. Sono invece superati quelli sulla legittimità della riforma che ha abolito l’abuso d’ufficio... La sentenza con cui la Consulta ha appena confermato la costituzionalità dell’abrogazione di quel reato è una bella vittoria per le nuove competenze dell’attuale governo in materia di giustizia. Sapevamo di esserci mossi nel pieno rispetto delle Convenzioni internazionali, e che queste non obbligavano affatto gli Stati a prevedere l’abuso d’ufficio nell’ordinamento. Siamo molto soddisfatti che la massima autorità possibile abbia riconosciuto questo nostro merito: meriti di squadra, dal Ministro a tutti i parlamentari e giuristi che ci hanno creduto. E un premio speciale, sulla giustizia, me lo faccia riservare alla tenacia storica della nostra Forza Italia, da Antonio Tajani a ciascuno dei nostri sostenitori. Scontro tra Csm e Antimafia, la riforma Nordio ringrazia di Giulia Merlo Il Domani, 10 maggio 2025 Tensioni sulla circolare sul funzionamento degli uffici. I procuratori la smontano. Il sospetto al Consiglio: “Qualcuno vuole provocare, non capisce che così ci condanna tutti”. Tira aria pesante in Antimafia, che vive forse il suo periodo più difficile della storia recente, con procure una contro l’altra in delicate inchieste sui mandanti delle stragi - da quelle nel continente a via D’Amelio - e le dimissioni improvvise del procuratore aggiunto Michele Prestipino, dopo (ma non a causa, scrive lui) una indagine a suo carico aperta a Caltanissetta. In questo clima di veleni, la super procura guidata da Gianni Melillo ha reagito attaccando. Un colpo di coda inconsulto, di cui ha fatto le spese il Csm, che per una volta si presenta compatto nel lasciar trapelare profondo fastidio nei confronti dei pm antimafia. Se loro hanno i loro problemi, è il ragionamento, non provino ad allontanarli facendo gli elefanti nella cristalleria della politica giudiziaria. Che, del resto, naviga già in acque agitate senza bisogno di quello che è ormai un nuovo scontro tra toghe. I fatti - I fatti appaiono quantomai banali, se si leggono senza il filtro del tesissimo contesto in cui avvengono. Nel luglio scorso, il Csm ha approvato a maggioranza (con voto contrario dei laici di centrodestra e l’astensione polemica del vicepresidente Fabio Pinelli) una circolare sul funzionamento delle procure. Una rivoluzione copernicana non facile da digerire, ma che nell’intento del Consiglio è stata un modo per avvicinare gli uffici di procura a quelli del tribunale e restituire trasparenza sul loro funzionamento. In particolare, la circolare introduce un meccanismo tabellare per i criteri di assegnazione dei nuovi procedimenti, riduce i poteri dei capi delle procure e fissa alcune procedure organizzative interne. A dieci mesi di distanza, la Settima commissione aveva fissato un incontro il 13 maggio, per un confronto con i vertici delle procure. Il 29 aprile, però, arriva al comitato di presidenza del Csm una durissima lettera, sottoscritta dai 26 procuratori distrettuali antimafia e dallo stesso Melillo, in cui si mettono nero su bianco tutte le critiche alla circolare. “Rallenta gravemente le attività organizzative”, introduce “formali e burocratici adempimenti fini a se stessi”. In sintesi, “sembra che il Csm sia andato oltre rispetto alla cosiddetta tabellarizzazione delle procure che il legislatore aveva previsto”. Non una posizione nuova - le procure antimafia avevano già espresso perplessità sulla circolare - ma inedita nei toni. Infine, la lettera viene resa pubblica sul Foglio. Risultato: riunione del 13 maggio cancellata e rinviata a data da destinarsi. Le conseguenze - Che questo non sia un semplice scontro sulla tabellarizzazione, è chiaro. A dare immediatamente la chiave di lettura politica è il consigliere togato indipendente, Andrea Mirenda, che è favorevole alla separazione delle carriere. La lettera di quelli che lui chiama “il partito dei procuratori” farebbe emergere “l’inconsistenza dello zoccolo ideologico su cui si fonderebbe la sbandierata cultura unitaria della giurisdizione” e che giustifica l’unità delle carriere di giudici e pm. In altre parole: i pm antimafia che si muovono contro il Csm sono una perfetta sponda - anche mediatica - per la riforma Nordio. A quarantotto ore dai fatti, sia l’Antimafia che il Csm vogliono far calare il silenzio sul caso, ma le distanze rimangono incolmabili. Fonti del Consiglio vedono un disegno dietro la lettera, che è arrivata a freddo, quando la riunione era già stata fissata. Perché allora volerla anticipare in questo modo, con toni così pesanti? Lo sgarbo appare voluto: la lettera è indirizzata al Comitato di presidenza e non alla Settima commissione che aveva organizzato l’incontro. Poi qualche manina l’ha resa pubblica, portando fuori un confronto che doveva rimanere interno. “Una provocazione voluta da alcuni, che si sentono soggetto istituzionalizzato”, è l’analisi di una fonte togata, che invita a riflettere sulle 26 firme più quella di Melillo. “E questi alcuni non capiscono che così facendo, continuando a rivendicare distinguo tra procuratori e giudici, non fanno il bene di nessuno”. Il sottinteso è leggibile: la crisi anche pubblica della magistratura, dall’hotel Champagne in poi, ha avuto come snodo le procure che, se non ricondotte ad un contesto giurisdizionalizzato e trasparente, rimangono porti franchi sempre a rischio di personalizzazione. Opposta la visione in Antimafia, da cui trapela stupore. “I procuratori conoscono i problemi organizzativi e hanno ritenuto di metterli nero su bianco, in ottica di confronto”, è il ragionamento. Nessuna volontà polemica, l’invio al Comitato di presidenza “è solo una procedura formale”. Tuttavia un distinguo di merito emerge: procuratori e giudici sono diversi, perché i primi non sottostanno al principio del giudice naturale previsto dall’articolo 25 della Costituzione. Impossibile e anzi una forzatura quindi, secondo l’antimafia, che un tribunale una procura funzionino in modo simile. “Ma questo non ha nulla a che fare con la separazione delle carriere”, viene spiegato. Eppure, per una eterogenesi dei fini, l’antimafia rischia di rafforzare la riforma più invisa dalle toghe. O meglio, questo si teme a palazzo Bachelet: che l’aggressività miope del leone ferito condanni tutto il branco. Oblazione, all’imputato l’onere di richiedere la riqualificazione del reato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2025 La Cassazione, sentenza n. 17523 depositata oggi, chiarisce che spetta all’imputato attivarsi per chiedere al giudice di riqualificare il reato in uno diverso che permette l’oblazione, oblazione che ha l’onere di richiedere esplicitamente. Se non lo fa, e il giudice, di sua iniziativa, riqualifica il fatto, l’imputato perde tale diritto. La Terza sezione penale, chiamata a giudicare il ricorso di tre persone condannate per sversamento colposo di nafta in mare, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha sottolineato che gli imputati, in sede di discussione non avevano neppure chiesto la riqualificazione del fatto, così esponendo la propria doglianza a una valutazione di genericità e, quindi, di inammissibilità. “Pacificamente - si legge nella decisione - in materia di oblazione, nel caso in cui è contestato un reato per il quale non è consentita l’oblazione ordinaria di cui all’art. 162 cod. pen. né quella speciale prevista dall’art. 162-bis cod. pen., l’imputato, qualora ritenga che il fatto possa essere diversamente qualificato in un reato che ammetta l’oblazione, ha l’onere di sollecitare il giudice alla riqualificazione del fatto e, contestualmente, a formulare istanza di oblazione, con la conseguenza che, in mancanza di tale espressa richiesta, il diritto a fruire dell’oblazione stessa resta precluso ove il giudice provveda di ufficio ex art. 521 cod. proc. pen., con la sentenza che definisce il giudizio, ad assegnare al fatto la diversa qualificazione che consentirebbe l’applicazione del beneficio”. In definitiva, se l’imputato non ha chiesto l’oblazione, non può poi ricorrere in Cassazione per chiedere di affermare quello che sarebbe soltanto un principio teorico. Sul punto la Suprema corte cita un proprio precedente in cui si afferma che il ricorso per Cassazione “fondato sulla mancata previsione di un meccanismo che consenta all’imputato di fruire dell’oblazione (in astratto applicabile per il reato ritenuto in sentenza, a seguito di diversa qualificazione giuridica) è inammissibile qualora l’imputato stesso non abbia formulato la relativa istanza, posto che la pronuncia rescindente sollecitata risulterebbe priva di contenuto e sarebbe volta a sollecitare una pronuncia “di mero principio”, non essendo comunque ipotizzabile una definizione del processo, alternativa alla sentenza di condanna, in assenza del presupposto essenziale costituito dall’istanza di oblazione” (8606/2015). Pertanto, prosegue la decisione, “la nullità della sentenza sussiste nel solo caso in cui l’imputato, nel corso dell’istruttoria dibattimentale, abbia presentato istanza di oblazione subordinata ad una diversa e più favorevole qualificazione giuridica del fatto, dalla quale discenda la possibilità di essere ammesso all’oblazione stessa, e il giudice abbia omesso di pronunciarsi sull’istanza o si sia pronunciato applicando erroneamente la legge penale” (S.U. n. 7645/2006). Come visto, però, nel caso in esame, il ricorrente, che in sede di discussione non aveva neppure chiesto la riqualificazione del fatto, nulla deduce sul punto, ragion per cui la doglianza è stata dichiarata inammissibile in quanto generica. Padova. Dalle sbarre alla laurea, il percorso verso il riscatto dei 64 studenti-carcerati di Sara Busato Corriere del Veneto, 10 maggio 2025 Inaugurazione dell’anno accademico al Due Palazzi. “Ero in prigione ancora prima di finirci. Ma dopo il mio primo esame, ho ritrovato fiducia in me stesso”. È la testimonianza toccante di uno dei 64 studenti detenuti iscritti al ventiduesimo anno accademico dell’università di Padova nell’ambito del progetto “Università in carcere”. Un’iniziativa che porta l’istruzione universitaria dentro le mura degli istituti penitenziari, trasformando il diritto allo studio in uno strumento concreto di riscatto e inclusione. In un contesto sociale che punta al reinserimento e al recupero, garantire l’accesso all’istruzione anche a chi vive una condizione di detenzione rappresenta un valore imprescindibile. L’università di Padova ha scelto di dare forma a questo principio, costruendo una comunità accademica che non lascia indietro nessuno. “Il carcere non può essere un luogo dove si spegne ogni speranza - sottolinea la rettrice Daniela Mapelli - ma deve diventare un ambiente capace di favorire la crescita personale e il reinserimento sociale. L’università ha il dovere civile e costituzionale di contribuire a questo percorso. Gli studenti detenuti non sono “altri”. Sono nostri studenti, a pieno titolo”. Negli anni il progetto si è ampliato, dando vita a una rete nazionale che oggi coinvolge 30 atenei in quasi 50 istituti penitenziari italiani, con circa 900 studenti detenuti iscritti a corsi universitari. A Padova, 64 detenuti frequentano diverse facoltà: 41 studiano all’interno delle case di reclusione, mentre 13 hanno accesso a un vero e proprio polo universitario creato all’interno del carcere. Una struttura unica: spazi dedicati allo studio, una biblioteca con oltre 14mila volumi, connessione internet controllata, orari flessibili e il supporto di 20 tutor che lavorano a fianco dei docenti. Una vera cittadella del sapere, dove l’istruzione diventa motore di cambiamento e opportunità di reintegrazione. A riconoscerne l’efficacia è anche il sottosegretario alla Giustizia, presente alla cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico. “Lo studio così come il lavoro sono strumenti fondamentali per il percorso, vero reale e sincero di rieducazione - aggiunge il sottosegretario Andrea Ostellari - Imparare, significa liberarsi davvero. Il 98% di chi partecipa al trattamento di questo tipo, poi quando esce non delinque più. Quindi questo è un bene per il singolo, ma va bene anche per l’intera comunità”. Durante la cerimonia, le testimonianze degli studenti detenuti hanno raccontato con forza e sincerità la possibilità di riscatto che nasce tra le pagine di un libro. Avellino. Il Procuratore: “Situazione del carcere problematica, manca una risposta strutturale” irpinianews.it, 10 maggio 2025 “La situazione del carcere di Bellizzi è particolarmente problematica, ma non vedo soluzioni strutturali che rispondano al problema”. È quello che ha detto questa mattina, partecipando alla presentazione della Relazione del Garante regionale per le persone private della libertà al Circolo della Stampa il Procuratore Aggiunto della Repubblica di Avellino Francesco Raffaele, che coordina la Sezione Criminalità inframuraria. Una lunga analisi su quale sia la condizione delle carceri in Italia e in Campania. “Come situazione carceraria italiana siamo all’anno zero - ha spiegato il Procuratore Aggiunto Raffaele. È una situazione che viene da lontano, da un disinteresse totale e trasversale da parte delle Istituzioni che non hanno mai ritenuto di occuparsi del sistema carcerario italiano, d’altra parte degli ultimi c’è sempre poco interesse ad occuparsi. Ricordo una canzone di un autore a me molto caro, Fabrizio De Andrè, che sui detenuti ha scritto molte canzoni. Questo disinteresse, ripeto, manifestato da qualunque tipo di governo, si è dovuto scontrare con una situazione sempre più ingestibile. Istituti di pena sempre più vecchi e fatiscenti, creazione di quei circuiti nell’ ambito dei quali venivano trattati i soggetti delle criminalità organizzata, penso all’Alta Sicurezza o al 41 bis. Quindi si iniziava a porre il problema. D’ altra parte non si poteva continuare a chiudere gli occhi e far finta di niente su quello che è stato in questi anni il fenomeno dei suicidi o le aggressioni non solo a danno del personale penitenziario ma anche tra detenuti, spesso di origini diverse con una promiscuità che è praticamente inaccettabile. È fallito sicuramente l’idea che in uno stesso carcere ci possa esser il detenuto comune, il soggetto che sta lì perché ha spacciato stupefacenti, ci possa essere l’alta sicurezza e il 41 bis. A fronte di questi problemi che hanno iniziato a manifestarsi, sia il legislatore che la politica hanno messo sul piatto una serie di idee che vanno dalla Depenalizzazione alle misure alternative fino all’affidamento in prova, credo c che non sono mai decollati efficacemente, tanto da consentire una riduzione del numero dei detenuti. Per non parlare poi del dilemma se realizzare nuovi istituti di pena o ristrutturare quelli vecchi”. Ha raccontato anche quanto aveva potuto constatare personalmente qualche anno fa, quando era in servizio alla Dda di Napoli: “Sono stato qualche anno fa, per il suicidio di un collaboratore di giustizia, nel carcere di Ariano Irpino. Non so se la situazione era solo in quel braccio, ma francamente mi sembrava di essere piombato nel pieno Medioevo. Non pensavo che ci fossero ancora celle dove la zona letto era separata dal wc da una pseudo tenda, uno straccio retto da mollette. Allora dico che se uno Stato ha il dovere-potere di privare delle libertà personali quando è necessario un soggetto che delinque, non ha lo stesso potere di privare della dignità un soggetto, che per quanto abbia commesso reati anche gravi, è tutelato dalle norme della nostra Costituzione”. Poi il passaggio su Avellino e la condizione locale: “La situazione locale è particolarmente problematica per il carcere di Avellino - ha esordito Raffaele. Il carcere di Avellino sconta tutti i mali che ad oggi sembrano irrisolvibili. Mi riferisco all’introduzione di telefoni cellulari e di sostanze stupefacenti. Perchè in ogni carcere ci siano più attività di spaccio. In quanto pm mi devo occupare anche del fatto che quando c’è uno spaccio si creano gruppi contrapposti e tutto ciò che ne consegue. Il carcere di Avellino vive Uno scollamento assoluto con le regole minime di quelle che dovrebbe essere un carcere”. Il Procuratore Aggiunto ha anche fatto riferimento agli esiti della Commissione che aveva fatto visita al carcere e aveva deciso di andare via. “Questo perché? Perché molto probabilmente non tutti gli istituti sono organizzati per essere idonei ai circuiti di alta sicurezza. Sono stati più volte sostituiti il direttore e il comandante della Polizia Penitenziaria, mi sembra che anche di recente ci sia stato un ulteriore avvicendamento, anche se a scavalco. Il discorso è anche quello di un personale di Polizia Penitenziaria in età avanzata, siamo in una media di età intorno ai cinquanta anni. Molti di loro non riescono più a trovare l’entusiasmo per il lavoro in una condizione di questo genere. La posta che io faccio quotidianamente mi porta ad iscrivere almeno due o tre notizie di reati per aggressione agli agenti. Come se ad Avellino fosse venuta meno quella regola non scritta di reciproco rispetto dei ruoli tra la popolazione carceraria e la Polizia Penitenziaria. Per cui la situazione è veramente grave”. Ha ricordato l’episodio dell’aggressione ai danni di un detenuto avvenuta nell’ ottobre scorso. E ha sottolineato come: “A fronte di questa situazione non vedo francamente un intervento di quelli che si definiscono strutturali, cioè un intervento che decida su cosa fondare un programma, un piano razionale, che risolve il problema. Annunci, statistiche, l’ennesimo suicidio, ma l’idea di cosa fare per risolvere questo problema, la prima cosa sarebbe abbandonare l’illusione che in un carcere grande come Poggioreale ci possano essere tutti, una tipologia di detenuti estremamente variegata, questo comporta una serie di misure, di diverse discipline di gestione che mi sembra sia difficilmente applicabile”. Forlì. Carcere in cantiere: “Importante per l’intero sistema penitenziario” di Matteo Bondi Il Resto del Carlino, 10 maggio 2025 Sopralluogo ieri al Quattro del sottosegretario alle infrastrutture Ferrante. Novità: c’è il progetto per un’apposita bretella di collegamento alla tangenziale. Il sottosegretario al Ministero delle Infrastrutture e trasporti Tullio Ferrante ha visitato ieri il cantiere per la costruzione del nuovo carcere al Quattro, dopo che sono ripresi i lavori circa un mese fa. “Ho voluto visitare il nuovo carcere di Forlì perché si tratta di un’opera importante per l’intero sistema penitenziario nazionale, attesa da troppo tempo, che finalmente prende il via - ha affermato al termine del sopralluogo: lo scorso aprile, dopo anni di ritardi e promesse mancate, sono infatti stati riconsegnati i lavori del primo stralcio, che cubano 39 milioni di euro e che contiamo siano ultimati entro il 2028”. L’esponente di Forza Italia è stato accompagnato dall’onorevole azzurra Rosaria Tassinari e dall’assessore, Giuseppe Petetta. “Con il nuovo carcere, che disporrà di oltre 250 posti, saranno assicurate condizioni più dignitose ai detenuti e al personale penitenziario - ha proseguito il sottosegretario -. Si potrà anche restituire la Rocca di Ravaldino ai cittadini, ripristinando la sua vocazione turistica. Il tema delle carceri si conferma prioritario per il Governo e in particolare per Forza Italia. Ora terremo alta l’attenzione sullo stato del secondo stralcio, interessato dalla risoluzione del contratto di appalto e in fase di approfondimenti sullo stato di quanto già realizzato”. La disponibilità economica messa in campo dal Governo dovrebbe garantire il termine dei lavori, hanno assicurato i progettisti dell’opera, mentre sono ancora da valutare i danni arrecati alle strutture già edificate e che sono state vittime di atti di vandalismo e furto. L’incontro ha rappresentato un momento anche sulle tematiche legate alla viabilità e alla pianificazione infrastrutturale dell’area. È, infatti, prevista una bretella di collegamento al futuro tratto che andrà a completare l’anello della tangenziale. “Il progetto di fattibilità è al momento al centro dell’interlocuzione con Anas” ha assicurato Ferrante, senza però sbilanciarsi su tempi e modalità di finanziamento e realizzazione, mentre ha assicurato che i lavori del terzo lotto della tangenziale saranno ultimati entro il 2026. “L’azione del Governo per risolvere i problemi dei territori è costante - ha dichiarato l’onorevole Tassinari - e passa anche attraverso un’attenzione concreta allo stato di avanzamento dei lavori. Non veniamo solo per inaugurare o tagliare nastri, ma per seguire nel merito e da vicino come procedono i cantieri. Questo è il modo corretto per essere credibili, responsabili e vicini ai cittadini”. Trento. “Qui è altrove”, ovvero rigenerare il carcere attraverso cultura e bellezza agenziagiornalisticaopinione.it, 10 maggio 2025 Rigenerare il carcere attraverso cultura e bellezza. Il documentario che racconta l’esperienza di “Per Aspera ad Astra”. Venerdì 16 maggio alle 18 la proiezione alla sala Filarmonica di Trento. L’arte e la cultura come chiave per aiutare le persone in carcere ad esprimersi e rigenerarsi, a trovare spazi di libertà pur vivendo in uno stato di detenzione: il progetto “Per Aspera ad Astra” si basa su questo. “Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” è il sottotitolo dell’iniziativa nata nel 2018, e cresciuta attorno all’esperienza del regista Armando Punzo e della sua Compagnia della Fortezza. È un progetto promosso da Acri, l’associazione nazionale delle casse di risparmio e delle fondazioni di origine bancaria. Una sfida, nonché un rigoroso e ininterrotto percorso di ricerca che, partito dalla casa di reclusione di Volterra, vede coinvolte oggi sedici compagnie teatrali attive in altrettante carceri italiane, dove realizzano innovativi e duraturi percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro. Hanno coinvolto finora oltre 1.000 momentaneamente detenuti. A Trento il progetto ha preso forma grazie alla compagnia “Finisterrae Teatri” all’interno della Casa circondariale di Spini di Gardolo, sostenuto da Fondazione Caritro. E sono proprio queste due realtà a proporre la proiezione del documentario “Qui è altrove - buchi nella realtà” scritto e diretto da Gianfranco Pannone che ha seguito il lavoro di Punzo e degli attori della Fortezza prima del debutto dello spettacolo “Atlantis - cap 1”. Racconta l’esperienza ma indaga anche il senso e la forza del fare teatro. La proiezione del documentario è uno degli appuntamenti inseriti nella cornice della Piazza del volontariato, in programma dal 15 al 18 maggio a Trento. Sarà proiettato giovedì 16 maggio alle 18 nella sala della Filarmonica. “Per Aspera ad Astra” è nato dall’esperienza ultra trentennale della Compagnia della Fortezza di Volterra, guidata dal drammaturgo e regista Armando Punzo che, nel corso della sua lunga attività, ha costruito un patrimonio consolidato di buone pratiche, e che ora si estende in altre carceri d’Italia. Ad alimentare e rendere fattibile questo progetto c’è una comunità, composta da diversi soggetti, coinvolti ciascuno con ruoli diversi: Fondazioni di origine bancaria, compagnie teatrali che curano la formazione, direttori e personale degli istituti di pena, detenuti. Ha dato vita a una rete nazionale di compagnie teatrali che operano nelle carceri e che condividono l’approccio e la metodologia di intervento. L’esperienza condivisa testimonia come sia possibile lavorare nelle carceri mettendo al centro l’arte e la cultura, lasciando che essa possa esprimersi a pieno e compiere una rigenerazione degli individui, che possa quindi favorire il riscatto personale e avviare percorsi per il pieno reinserimento del detenuto nel mondo esterno. L’obiettivo condiviso è di contribuire a rigenerare il carcere attraverso la cultura, offrendo, al contempo, ai detenuti l’opportunità di partecipare a percorsi di formazione nei mestieri del teatro. C’è la possibilità di mettersi in gioco recitando, ma anche in altri ruoli necessari perché lo spettacolo venga portato in scena: sarti, falegnami, scenografi. Altro obiettivo di questo tipo di intervento è che esso possa contribuire alla riflessione sulla piena applicazione dell’art. 27 della Costituzione italiana, innescando un processo di ripensamento del carcere, delle sue funzioni e del rapporto tra il personale che vi opera e le persone detenute. La validità dell’iniziativa è stata riconosciuta dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con la quale, nel 2021, Acri ha sottoscritto un Protocollo d’intesa volto a favorire o rafforzare progetti già esistenti. Per Aspera ad Astra serve anche per creare un collegamento tra chi è dentro e chi è fuori dalle carceri, sfidando i pregiudizi, e restituendo il diritto alla bellezza anche a coloro che si trovano in condizioni di privazione della libertà. La proiezione del docufilm sarà anche occasione per raccontare il progetto che Finisterrae Teatri sta realizzando all’interno della Casa circondariale di Trento e che vede coinvolti circa venti attori e attrici accompagnati da una decina di professionisti. Il percorso, iniziato a ottobre, si concluderà nel mese di giugno con la presentazione dello spettacolo “La balena”, un viaggio sulle tracce di Moby Dick, in bilico tra grandi imprese e straordinari fallimenti. Il progetto permette ai partecipanti di sperimentare i vari linguaggi del teatro, dal movimento alla danza, dalla parola alla recitazione, ma anche drammaturgia, regia, scenografia, illuminotecnica. Infine, nell’ottica di lanciare ponti tra carcere e città, tra mondi così vicini e tanto lontani, in contemporanea alla creazione dello spettacolo sta nascendo “Inaspettato - un podcast dal carcere di Trento” e un documentario che seguirà gli ultimi giorni di prove e il debutto dello spettacolo. Cosa dicono - “Qui è altrove - dice Gianfranco Pannone - non è un film sul carcere, ma sul teatro in carcere che si fa linfa vitale. Tuttavia, non si può essere insensibili alla condizione dei nostri istituti di detenzione, che quest’anno hanno registrato al loro interno una sessantina di suicidi, oltre che un po’ ovunque diverse sollevazioni per le condizioni assai difficili all’interno delle celle, per i detenuti come per le guardie carcerarie. L’esperienza di Volterra, che vede Armando Punzo animare da ben 35 anni la Compagnia della Fortezza, composta, insieme a dei professionisti del teatro, da detenuti-attori, è un’isola in un panorama per molti versi desolante, che ci dice una cosa semplice e chiara: un altro carcere è possibile. Possibile nella misura in cui i detenuti sono anzitutto persone che condividono con altre persone un’esperienza unica perché fortemente umana.” Dice Armando Punzo: “Per Aspera ad Astra: attraverso sentieri impraticabili, raggiungere la luce. E la luce, le stelle, sono quelle di un’utopia concreta che si realizza lì dove è impensabile. All’inizio, forse, nessuno avrebbe scommesso su questo progetto di Teatro in Carcere. Eppure, a distanza di sette anni, è evidente a tutti che dalla nostra particolare postazione, attraverso un agire prettamente artistico, trascendiamo il carcere reale per parlare dei limiti e della prigione più ampia in cui tutti siamo rinchiusi. Per Aspera ad Astra - continua Punzo - racchiude in sé il senso dell’utopia quando si realizza. Nel suo più celebre volume, “Il Principio Speranza”, Ernst Bloch ha parlato di utopia concreta, del sogno ad occhi aperti, di quel davanti a noi che intravediamo e a cui lavorare giorno dopo giorno per realizzarlo. Ha proposto una filosofia che si oppone a una visione distopica, a una fuga dalla realtà, per arrivare a celebrare e affermare con forza le potenzialità dell’essere umano. Ho riconosciuto in questa visione di speranza concreta la mia idea di teatro con la Compagnia della Fortezza e delle compagnie che fanno oggi parte di questo progetto. Trovo straordinario che il film di Gianfranco Pannone, “Qui è altrove”, provi a darne precisa e poetica testimonianza. Ringrazio Acri e le Fondazioni di origine bancaria che sostenendo con convinzione Per Aspera ad Astra si inseriscono con noi nel dibattito attuale sulla funzione dell’arte.” “Per Aspera ad Astra - dice Donatella Pieri, Presidente della Commissione Beni e Attività culturali di Acri - è un progetto di sistema delle Fondazioni di origine bancaria, che mette in rete una pluralità di soggetti di territori diversi, dalle compagnie teatrali agli istituti di pena, con l’obiettivo condiviso di contribuire a rigenerare il carcere attraverso la cultura, offrendo, al contempo, ai detenuti l’opportunità di seguire percorsi di formazione nei mestieri del teatro: il progetto, di valore artistico e partecipato, sfida i pregiudizi e restituisce il diritto alla bellezza anche a coloro che si trovano in condizioni di privazione della libertà.” Lodi. Pet therapy dietro le sbarre: i detenuti della Cagnola si prenderanno cura di due gatti di Luca Raimondi Cominesi Il Giorno, 10 maggio 2025 Al via il progetto “Gattabuia” in collaborazione con la facoltà di Medicina Veterinaria. “Ridurranno l’aggressività”. La Casa Circondariale di Lodi ha presentato ieri due nuovi progetti che prenderanno il via dalla collaborazione con il dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università Statale di Milano, grazie alla dottoressa Michela Miniero, direttrice del dipartimento, e alla dottoressa Simona Cannas e che mirano a portare profondi cambiamenti tra i detenuti. Partner dell’iniziativa sarà l’associazione WeAnimal, che da anni impiega professionisti ed esperti per fornire supporto e formazione negli Interventi Assistiti con gli Animali (Iaa), meglio conosciuti come “pet therapy”. In via Cagnola al numero due arriveranno due nuovi ospiti, due gatti del Parco Canile e Gattile di Milano, protagonisti insieme ai detenuti del progetto “Gattabuia”. L’obiettivo sarà quello di “far entrare la speranza dalle feritoie - ha dichiarato Annalaura Confuorto, direttrice del carcere di Lodi. Il progetto rientra nel mandato rieducativo con cui si vuole portare la responsabilizzazione, la socializzazione e l’integrazione tra i detenuti”. Una coabitazione particolare che porterà due gatti, animali liberi e indipendenti, all’interno di uno spazio per loro vasto ed esteso, ma che è ristretto per chi quotidianamente lo abita. Sarà quindi responsabilità dei detenuti, che verranno formati da Mauro Di Giancamillo e Stefano Simonetta, accudire e prendersi cura dei gatti. “Aumenterà il senso di responsabilità dei detenuti e ne ridurrà l’aggressività”, spiega il comandante facente funzioni della Polizia penitenziaria Mauro De Francesco. “L’affettività reciproca e il prendersi cura dell’altro - sottolinea Rossella Scavizzi, educatrice e responsabile d’area - aumenteranno la loro responsabilizzazione, sarà un’importantissima interazione”. Un progetto che varrà sull’intersezionalità tra la restrizione e la libertà, che verrà ritrovata dai gatti e permetterà una maggior partecipazioni dei carcerati, che non vedono l’ora del loro arrivo, alla vita della Casa Circondariale. Alcuni tra loro, si sono già offerti di occuparsi della lettiera. Il progetto, che mira a educare all’affettività anche coloro che sul territorio non hanno contatti, rientra nel più ampio progetto di professionalizzazione (questo il secondo progetto presentato ieri): l’Università permetterà infatti ai detenuti di frequentare diversi corsi di studio, sia per l’ottenimento del diploma che della laurea, non solo nelle mura della Casa Circondariale che conta oltre cento detenuti, ma anche al di fuori. Il progetto impatterà sulla vita dei detenuti anche dopo il fine pena. Una scelta che consentirà il reinserimento nella società con maggiori competenze, responsabilità e abilità professionali. L'urgenza della memoria nell'era dell'odio di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2025 Se è vero che solo la memoria contribuisce ad evitare che quanto è stato possa ripetersi, dovrebbe essere un'urgenza civica collettiva richiamare storie e nomi di chi è rimasto troppo a lungo solo nei ricordi dei propri cari. Come Germana Stefanini, vigilatrice penitenziaria del carcere romano di Rebibbia, unica donna vittima scelta del terrorismo rosso, a cui sono dedicati ora un libro e un podcast. E diventa un'urgenza civica, oltre che giudiziaria, conoscere la verità sulla morte di Fausto e Iaio, frequentatori del centro sociale milanese Leoncavallo, sul cui delitto sono state appena riaperte le indagini. Nomi citati ieri dal presidente del Senato, Ignazio La Russa, insieme a quello di Sergio Ramelli, militante del Fronte della Gioventù, ucciso 50 anni fa. Un'urgenza da avvertire con ancor maggiore necessità in un momento in cui la violenza verbale è di fatto sdoganata e l'odio è tornato a puntellare il dibattito pubblico. Succede invece che - almeno per ora - sia finita nel nulla la proposta del sindaco di Milano, Beppe Sala, di intitolare una strada a tutti i giovani ammazzati in quegli anni in cui la vita valeva meno di niente; e succede che i familiari di molte vittime di quella stagione abbiano contestato il “mancato coinvolgimento” nell'organizzazione alla Camera della giornata del 9 maggio dedicata alla memoria dei morti per terrorismo e stragi. “Tralasciare la collocazione degli eventi nel quadro storico in cui sono avvenuti - scrivono - elude quell'auspicato bisogno di comprensione che, per essere tale, reclama che ognuno faccia i conti anche conia propria storia”. In questo quadro assume allora il valore non solo di un pur doveroso tributo ad una servitrice dello stato, trucidata in una coda dell'eversione rossa, ma aiuta a leggere con sguardo più consapevole anche i nostri tempi l'ultimo libro di Giovanni Bianconi, firma di punta del Corriere della Sera, “Una di noi” (Treccani, pag. 192, € 18), dedicato a Germana Stefanini, vigilatrice penitenziaria di Rebibbia la cui viva voce riecheggia anche nell'appassionante podcast di Radio 24 di Elisabetta Fusconi, “Zitta e buona”. Bisogna ricordare quello che è stato anche per non sottovalutare episodi di un passato recente, come l'incendio di due auto di agenti della sezione femminile di Rebibbia o la molotov contro il portone del carcere o lo striscione apparso in quella stessa estate 2021 alla Prenestina, periferia romana dove viveva Stefanini e dove fu “processata” da tre terroristi. Militanti del Potere proletario armato, che uccisero la figlia di uno stagnaro (idraulico) addetta ai pacchi nel carcere: qui era arrivata perché “morto mio padre dove andavo a lavorare? A questa età dove mi prendono? Dovevo andare a fare la donna di servizio ma non gliela faccio”, rispose ai suoi aguzzini quella sera del 28 gennaio 1983, quasi a giustificare un impiego che l'aveva resa bersaglio di chi nulla voleva sapere delle effettive condizioni di lavoro negli istituti penitenziari. Da profondo conoscitore di quella notte della Repubblica, Bianconi ricostruisce l'intero contesto in cui maturò il delitto in una fase in cui il terrorismo era stato già piegato “nelle aule dei tribunali e non gli stadi”, secondo un'espressione attribuita a Sandro Pertini. L'allora Presidente della Repubblica partecipò ai funerali di Stefanini e una settimana dopo - registrano i diari del Quirinale citati nel libro - andò a trovare in ospedale Paolo di Nella, diciannovenne del movimento giovanile del Msi dopo una brutale aggressione. Perché “la violenza, l'odio e il terrorismo agiscono contro tutto il popolo italiano. Io che voglio essere il presidente di tutti gli italiani - disse a quanti lamentavano di essere vittime di serie B - non posso che condannare gli aggressori di Paolo. Qualunque sia la loro matrice politica”. Parole per unire. Ponti, come quelli evocati da Papa Leone XIV. Oggi, nel carcere femminile di Rebibbia - intitolato a Germana Stefanini - d sono ancora recluse sei ex appartenenti a gruppi armati degli anni di piombo, cinque ammesse al lavoro esterno, una in semilibertà. Perché la Costituzione scommette sul cambiamento anche degli autori dei reati peggiori, come Marta, Fabio o Emilio, nomi di battaglia di chi nel1983 fece ritrovare in un'auto le spoglie dell'agente penitenziaria. Come fecero le Br i19 maggio 1978: la Peugeot rossa invia Caetani, il corpo del presidente Dc Aldo Moro nel portabagagli. Immagini, che hanno cambiato la storia. Moniti, perché quello che è stato non si ripeta. Il carcere mi riguarda. Intervista con Daria Bignardi. di Valeria Verdolini theitalianreview.com, 10 maggio 2025 La giornata è incredibilmente ventosa. L’aria è un costante mulinello di pollini e petali. Il carcere è lì, si scorge in fondo alla via. Le righe grigie e marsala delle mura di cinta si stagliano in fondo alla piazza. Passato l’androne del palazzo, quello spicchio di città sembra un mondo lontano, ma rimane un orizzonte che si scorge dalle finestre della casa, curatissima. La conversazione che si svolge nella sala è in effetti a tema: si parla di fughe, di isole, di carcere. Sono con Daria Bignardi, l’occasione è l’uscita del recente “Ogni prigione è un’isola” (Mondadori Strade Blu, 2024). Ogni spazio, ogni parete, è accompagnata da un pensiero: le mappe nel soggiorno, i libri ordinati per editore, i colori alle pareti, la poltrona libreria. Tra le varie coste, spiccano i volti di alcuni autori più amati: Kafka, Woolf, Carver. Sulla parete è appeso un décollage di Mimmo Rotella: “Quando la moglie è in vacanza”. Tanto la casa è pensata in ogni suo oggetto, quanto la sua proprietaria agisce un’informalità apparentemente in contrasto con quella cura. Si tratta però di una forma a me nota, ossia quella sottrazione schiva che insegna la pianura. Ferrarese, da molti anni poliedrica autrice, scrittrice, voce radiofonica e volto televisivo, Daria Bignardi sfugge alle classiche definizioni e non presenta una collocazione univoca nemmeno in biografia. Di lei colpisce la curiosità, la domanda incalzante, e un affettuoso e generoso interesse per l’umanità nelle sue forme più varie. Di questo parliamo davanti a una tazza di tè, mentre nella casa ci sono figli che cucinano cinghiale marinato, amiche arrivate da Odessa cariche di fiori, e una calma di fronte agli eventi esterni che si ritrova nelle pagine del libro. “Come spesso succede, le cose sembrano accadere per caso. Un paio d’anni fa Jonathan Bazzi aveva avuto l’incarico di dirigere il numero di Finzioni, l’allegato di Domani. Jonathan mi chiese di scrivere di Milano, e di sceglierne un aspetto. Ho pensato che dopo quarant’anni in città, una cosa che conoscevo abbastanza bene ma non era accessibile a tutti era sicuramente il carcere di San Vittore, perché ci vado da quasi 30 anni, ci abito accanto da 25 e l’ho sempre sentito in qualche modo vicino. Perciò ho scritto questo lungo articolo, e Mondadori mi ha proposto di farne un libro, dato che in qualche modo il carcere tornava sempre: nei miei romanzi, nei miei articoli, nelle interviste televisive. Una richiesta che mi ha fatto capire che il carcere in qualche modo nella mia vita c’era da sempre, anche se avevo delle resistenze a capire perché. È stato difficile scrivere questo libro, non credevo ce l’avrei fatta. Perché quando qualcosa ti sta molto a cuore, quando poi è un tema delicato come questo, pensi sempre che sbaglierai qualcosa, che ciò che dirai non andrà bene a qualcuno, che sarà difficile trovare la voce giusta per parlarne. Ho fatto fatica. Anche perché quando scrivo un libro finisco per pensare solo a quello, ne sono ossessionata giorno e notte, e io non volevo stare giorno e notte in carcere. Il mio rapporto con il carcere è antico ma discontinuo. Ho bisogno di periodi in cui non ci vado. Però ho cominciato comunque a scrivere, e quando l’ho detto al mio psicanalista lui mi ha fatto una domanda semplice, mi ha chiesto cosa rappresentava il carcere per me, mi ha stimolato a riannodare dei fili che partivano da molto lontano. Mi sono ricordata che quando da piccola andavo a giocare dalla mia amica in via Piangipane, a Ferrara, dove c’era il carcere (oggi chiuso e museo della Shoah ndr), e il maestro delle elementari ci diceva che tra quelle mura era stato rinchiuso Giorgio Bassani, noi ci interrogavamo sul perché. Quando sei un bambino o anche quando sei adulto e magari poco informato, e hai fatto poche riflessioni sul tema, pensi che il carcere sia una cosa che non ti riguarderà mai, un luogo dove rinchiudono solo quelli brutti e cattivi, non quelli come te, figuriamoci un grande scrittore. Con quest’opera ho riannodato tanti fili, ho capito quante sono state le cose che mi portavano dentro. Ieri a Bologna ho fatto una chiacchierata con Alessandro, un ragazzo di Liberi Dentro - Eduradio, la radio in carcere, quella realtà emiliana che fa i programmi che vengono ascoltati dai detenuti. È un giovane laureato in Giurisprudenza, aveva appena letto il libro. Mi ha detto - con la lucidità di chi non ti conosce e ti vede da fuori: “A me sembra che sia stato il carcere a chiamarti”. E io ho pensato: “Ma sai che forse ha ragione lui?” Valeria Verdolini: Quella chiamata dal carcere arriva presto. Nel libro tu racconti di una fitta corrispondenza con Scotty, un detenuto americano nel braccio della morte, iniziata negli anni dell’università. Daria Bignardi: Avevo 25 anni, forse di più, non così presto. Mi sembrava normalissimo farlo. O meglio, che una persona potesse stare nel braccio della morte mi sembrava una cosa inconcepibile e avevo bisogno di parlarci, di fare qualcosa. E poi ero grafomane. Quando ero ragazza si scriveva molto, si scriveva per se stessi, ci si scriveva con gli amici, si scrivevano un sacco di lettere che magari non si mandavano neanche. Mi è venuto spontaneo. Ho visto questo indirizzo su un ciclostile, gli ho scritto. Lui mi ha risposto subito ed è nata una corrispondenza che in realtà mi è sempre sembrata normale pur nell’assurdità della sua condizione. Quando mi ha scritto che era stata fissata la data dell’esecuzione, è stato inconcepibile. Eppure è successo. V.V. E che cosa vi raccontavate in quelle missive? D.B. Mi raccontava quel che faceva lì e le sue speranze. Ti racconto una cosa strana appena successa. Il giorno in cui in Mondadori sono arrivate le prime copie sono andata a firmarne qualcuna. Quindi ho visto per la prima volta il libro stampato, l’ho toccato, maneggiato, fotografato. È sempre emozionante quando vedi e tocchi per la prima volta la copertina, le pagine, la carta. Quello a cui hai lavorato per anni, finito, pronto per andare nel mondo. Quando la sera sono tornata a casa, dal momento che dopo due giorni avrei dovuto fare la prima presentazione, un’anteprima a Libri Come a Roma, e avevo invitato Sisto Rossi, uno dei detenuti di cui scrivo, uno dei primi che ho conosciuto e con il quale sono stata a lungo in contatto anche quando se n’era andato da San Vittore, trasferito al carcere Mammagialla di Viterbo, e non lo non vedevo da più di vent’anni, insomma, ho pensato di rileggere le lettere che mi aveva mandato. Erano fogli con appiccicate margherite fatte seccare [raccontato nel libro, ndr] e altri fiori che aveva raccolto tra le pietre nell’ora d’aria. Sono andata a cercarle, erano dentro una cartellina che non aprivo da anni. In quella cartellina, con mia grande sorpresa, c’era anche una lettera di Scotty, lettera che avevo cercato per tutta la stesura del libro senza mai trovarla. Un filo che nel libro non si riannoda. E invece quella lettera l’ho trovata alla fine, a libro chiuso. L’ho trovata il giorno in cui ho visto il libro per la prima volta. E devo dire, non ho potuto non pensare a un segnale di Scotty, una sorta di incoraggiamento, una specie di “ehi dai, grazie che vi ricordate di me”. Quella lettera, ritrovata proprio quel giorno, mi ha emozionato moltissimo. Dentro la busta c’era anche una sua foto. Non era come me lo ricordavo. Io mi ricordavo e l’ho descritto come un ragazzo biondo, tipo un giovane Ryan O’Neal. No, Scotty era più un John Cusack, bruno. Però tutto il resto me lo ricordavo bene: quello che mi aveva scritto, la rapina che aveva commesso con la fidanzata quando era un diciassettenne tossicodipendente. Nella lettera sosteneva anche che non era stato lui a sparare. Mi raccontava la sua vita in carcere. C’erano alcune cose che ricordavo benissimo e altre che la memoria aveva alterato, tipo il suo viso. Non rivedevo quella lettera da 30 anni. Ritrovarla per caso il primo giorno di vita del libro è stato stranissimo. V.V. Il libro fa la scelta di giocare sul binomio isola-carcere. Già il titolo dice che ogni prigione è un’isola, ma tu porti il lettore tanto in carcere quanto in viaggio con te, in particolare a Linosa. D.B. Come tanti, ho sempre avuto attrazione per le isole, mi hanno sempre fatta sentire protetta. Le vivevo come luoghi in cui era più facile ritrovarsi e trovare un’identità. Ci ho passato molto tempo quando ero ragazza, ci ho lavorato, credo che sia un’attrazione comune, no? A un certo punto ho sentito che per riuscire a scrivere questo libro dovevo isolarmi e ho scelto quest’isola molto piccola, di soli cinque chilometri quadrati, dove ero stata soltanto l’anno prima. Linosa è un’isola particolarmente remota in Italia. Ci risiedono 400 persone, ma d’inverno ne rimangono al massimo 200. Ha molte difficoltà con i trasporti, ci si va da Lampedusa o dalla Sicilia, ma non c’è il porto per gli attacchi e quando c’è mare grosso i traghetti fanno fatica ad attraccare e gli sbarchi sono a discrezione del comandante. Non è assolutamente garantita la continuità territoriale che prescrive la legge. I linosani, giustamente, sono molto arrabbiati con la Regione econ lo Stato, che trascura le loro mille difficoltà. Insomma, ero andata lì per isolarmi, ma anche sull’isola continuavano a uscire storie di carcere, da quelle dei soggiornanti mafiosi che ci erano passati dagli anni Settanta in avanti, dei quali ho trovato le lettere in biblioteca, al regista di Ariaferma che sbarcava sull’isola. Ho chiesto ai linosani di raccontarmi di Angelo La Barbera, di Giovanni Brusca, di tutti quelli che avevano abitato lì, e ho messo i loro racconti nel libro. Intanto leggevo i libri che mi ero portata: L’Università di Rebibbia di Goliarda Sapienza, Io l’infame di Patrizio Peci, L’orlo del bosco di Cecco Bellosi, Nel ventre della bestia di Jack Abbott. E tutto entrava e trovava senso dentro al racconto che stavo facendo: gli incontri, le letture, i racconti, il mio isolamento. Il mio approccio al tema carcere non è giornalistico né da attivista né da addetta ai lavori, è l’approccio di chi sente che questa cosa, in qualche modo, lo riguarda. V.D. Sembra un approccio affettivo, quasi. D.B. Probabilmente. Sento che mi riguarda e cerco di fare quello che posso, ma soprattutto racconto dove mi hanno portato il desiderio, la curiosità, gli affetti. Ho fatto amicizia sia con i detenuti che con gli educatori, i direttori, una magistrata. Incontri profondi: lo sai come sono quelli che si fanno in carcere, non te li dimentichi. Nel libro racconto di Manolo, conosciuto a San Vittore nel reparto La Nave. Una volta siamo andati insieme in una scuola, a parlare di legalità e di carcere ai ragazzi. Mi aveva raccontato di aver malmenato un tizio del suo quartiere e poi davanti al giudice, per avere una condanna minore, aveva finto di pentirsi. L’aggredito ci aveva creduto e lo aveva abbracciato e perdonato. E mi aveva detto: “Io avevo finto di pentirmi, non ero per niente pentito. Ma quello lì invece, quando ci ha creduto e mi ha abbracciato, non sa cosa ha fatto, mi ha cambiato per sempre. Non dico che da quel momento ho smesso di delinquere, però da quel momento è iniziato qualcosa e poi un po’ alla volta, piano piano, ho fatto la scelta di uscire dal mondo criminale”. Manolo purtroppo ha avuto un incidente, è stato in coma un anno ed è morto, quindi non c’è più. Non ha potuto ricominciare, riprendere in mano la sua vita. Però un racconto del genere, di come un finto perdono possa diventare un perdono vero, è indimenticabile. È difficile imbattersi in storie di questa potenza fuori dal carcere. Chi è ristretto ha spesso storie straordinarie da raccontare. La storia di Marcello Ghiringhelli, che ho messo nel libro, è la storia di un ragazzino al quale la mamma fece fare l’elettroshock perché si ribellava al padrone da cui faceva il garzone. Lui allora è scappato, si è arruolato nella Legione Straniera, ha combattuto la Guerra d’Algeria, poi è scappato anche da lì, ha cominciato a fare il bandito, è finito a Parigi. Al Café de Flore ha conosciuto Simone de Beauvoir e Sartre. Dopo, in carcere, è diventato un brigatista. Nessun romanzo ti può raccontare una storia così. Per chi scrive e per chi legge sono storie irresistibili. V.V. Non solo è irresistibile il tipo di racconto che restituisci, ma è anche molto forte il rapporto che esiste - fuor di metafora - tra isole e carcere. Nel mondo, 273 isole hanno ospitato carceri, confini, detenzioni. D.B. Ero a Linosa, ma dall’isola i pensieri hanno fatto connessioni. Ero stata al carcere dell’Asinara, al carcere di Santo Stefano vicino a Ventotene, al carcere Terra Murata di Procida. Istituti chiusi nei quali respiri ancora la violenza che li aveva abitati. Il legame tra carcere e isole non è solo interiore ma anche reale. V.V. La parola stessa, isolamento, ha la medesima matrice. Si tratta però di un isolamento abitato. Ci sono tanti animali nel libro. D.B. Ci sono sempre animali nei miei libri, sia perché mi piacciono sia perché mi piace raccontare quel che succede mentre scrivo. Chi incontro, cosa penso. E a Linosa gli incontri sono stati soprattutto con certi animaletti inquietanti, come i tiri di cui racconto nel libro. Non so se sei andata a vederli, fanno abbastanza paura no? Più che paura, poverini, fanno un po’ senso perché sono come dei grossi lucertoloni, però lisci, grassi e lucidi, e hanno le zampette come le lucertole ma si muovono strisciando come serpenti, quindi sono abbastanza impressionanti. Non sono come le lucertole che a Linosa sono ovunque, però ce ne sono parecchi, perché amano la pietra lavica come nella casa dove stavo, una casa che mi piaceva moltissimo, dove ho scritto parecchio. Mentre convivevo con questi animali inquietanti mi ritrovavo nelle pagine dell’Università di Rebibbia dove Goliarda Sapienza non dico che facesse amicizia con gli scarafaggi, però ci interagiva, si affezionava. Sono tante le storie di detenuti che fanno amicizia con topi, ragni, e tutti gli animali tranne le zanzare, “quelle infami” ti dicono. Quando sei da solo ti affezioni, tranne che alle zanzare, a qualunque essere vivente incontri. Quando sei isolato sei particolarmente attento al vivente che si manifesta. Io a Linosa mi ero affezionata alle turriache [le berte di Linosa ndr], e un po’ anche ai tiri, tutti animali bizzarri e poco comuni. La comunicazione con loro a Linosa era più profonda che mai. V.V. Tu fai molti incontri nel libro. Nella trama dei tuoi incontri in qualche modo ritorna quasi tutto il carcere perché ci sono delle persone dalle storie incredibili come Ghiringhelli, Salvatore Piscitelli e la sua storia a Modena, o ancora Patrizia Reggiani, e anche tutti quei pezzi che invece riguardano il periodo degli Anni di Piombo sia per storie incrociate che familiari. Come hai scelto tra i tanti incontri di questi 30 anni quelli da raccontare? D.B. Seguendo l’istinto. Scegliendo gli incontri che in qualche modo erano rimasti, erano tornati oppure erano stati inaspettati, come quelli con Lauro Azzolini e Bianca Amelia Siviero. Ero andata a presentare il libro di Tino Stefanini e Giorgio Panizzari al Consorzio Via dei Mille, a Milano, un consorzio di cooperative che lavorano nelle carceri. Non mi aspettavo ci fossero anche loro e ho capito solo alla fine chi erano. È stato un incontro che mi ha colpito perché loro hanno avuto ruoli molto importanti nelle Brigate Rosse, ma quel che mi ha colpito di più era stata la semplicità con cui durante e dopo la presentazione Bianca Amelia Sivieri mi aveva approcciato, raccontandomi che era di Castelmassa, un paese vicino a Ferrara. Avevamo chiacchierato e scoperto che era stata maestra come mia madre. Le avevo raccontato di mio padre che lavorava spesso dalle sue parti: c’era stata subito una sorta di familiarità. Ho capito solo dopo chi era, e ho fatto delle ricerche. È stato un incontro, quello e altri con persone come Panizzari o Ghiringhelli, che mi ha fatto riflettere su come persone che hanno avuto una vita così violenta - si sono fatti almeno 40 anni di carcere durissimo, convivendo col peso di reati terribili, riescano ancora a sorridere. Tu oggi vedi delle persone anziane, affabili - Siviero poteva essere la mia prof del liceo, o mia suocera - e sai che hanno avuto una vita terribile in cui hanno esercitato e subito la violenza. Inevitabile il desiderio di provare a capire quegli anni, il loro percorso, come hanno ragionato. Il loro contesto storico, politico, sociale. Ma questo vale per tutti i detenuti, non solo per i politici. Vale per tutti quelli che hanno fatto delle scelte estreme. Anche per i rapinatori come Tino Stefanini che si è fatto quasi 50 anni di carcere. Provi a cercare di capire quali sono le risorse dell’uomo in situazioni estreme. La famosa frase di Svetlana Aleksievi?: “In guerra l’uomo è come illuminato a giorno” vale anche per il carcere. Dentro al carcere vedi le persone per come sono davvero. E questo per chi scrive, racconta, ma anche solo osserva il mondo è magnetico. V.V. C’è una cosa che rimane più sottotraccia. Com’è il carcere lo fai dire ai tuoi personaggi, ma in pochi punti dici come è il carcere per te. Che cosa pensi del carcere? D.B. Pensa che secondo Adriano (Sofri, ndr), che è il nonno dei miei figli ma soprattutto un grande amico, lo spiego anche troppo. Secondo lui dovevo farlo dire solo agli altri, per una questione di stile, di sobrietà. In realtà mi sembra di aver detto chiaramente cosa penso. Penso che il carcere sia inutile, nocivo, dannoso, squallido e pericoloso. Ho cercato di far parlare soprattutto gli altri, perché è il mio modo di scrivere: mettere in scena senza dare giudizi o sostenere tesi. Questo non vuole essere un libro militante, anche se finisce inevitabilmente per esserlo. Vorrei parlare a tutti, non a chi la pensa già come me. Portare con me i lettori dentro un mondo di emozioni, ingiustizie, storie, paradossi. E portarli con me senza farli sentire giudicati per quello che pensano. V.V. Infatti hai relegato lo sbilanciamento, l’esposizione sul carcere all’esergo. D.B. Le due frasi dell’esergo dicono quasi tutto e ben in vista, ma di solito l’esergo lo vai a rileggere e lo comprendi solo dopo che hai letto il libro, non prima. Su un tema come questo, che è già un grande rimosso, ho cercato di includere e non escludere. Di far scattare quel click tra cuore e cervello che fa sì che una cosa che magari sai che è giusta ma solitamente ti annoia o infastidisce ti diventi invece cara perché senti che ti riguarda. Ma come si può mantenere uno sguardo in equilibrio, di sottrazione, su uno spazio che è esso stesso uno dei poli delle dicotomie politiche dell’oggi? V.V. Avresti voluto inserire cose che poi non sei riuscita a mettere? D.B. Ho fatto fatica - per difficoltà credo burocratiche e di passaggio di richieste - a incontrare i medici penitenziari e alla fine ci ho rinunciato. In generale nessuno si è rifiutato: ho parlato con agenti, direttori, educatori, magistrati, detenuti ed ex detenuti. Solo con i medici non sono riuscita a parlare. Forse perché sono gli unici che ho cercato per strade ufficiali. Ma non ho insistito. Non volevo forzare nessuno. Credo che questa storia stia in piedi così, nel suo essere anomala, libera, istintiva, piena di cose mie. Io che rimango chiusa nell’armadio, i tiri di Linosa, gli incontri in spiaggia con il colonnello della Guardia di Finanza. Volevo che si sentissero le emozioni, le sorprese, le scoperte, i dubbi che ho avuto scrivendo e che poi si sono sciolti. A un certo punto ho capito che dovevo solo lasciarmi andare. Scrivere tutto, spudoratamente. Scrivere è decidere di tirar fuori tutto e senza vergogna. L’editor del mio primo libro, Non vi lascerò orfani, era Antonio Franchini. Dall’alto della sua autorevolezza mi aveva detto solo questo: “tira fuori tutto, non c’è altro da fare”. Nel libro precedente a questo, Libri che mi hanno rovinato la vita e altri amori malinconici, cito Marina Abramovi? e quei seminari dove mette le persone intorno a un tavolo con sotto un cestino della carta straccia e una pila di fogli bianchi, con l’indicazione di non svuotare mai il cestino. Alla fine del seminario va a vedere cosa c’è nel cestino, nelle idee che non si ha avuto il coraggio di tenere, non nei fogli consegnati. Quando ti dico che ho fatto fatica è perché non è stato facile, su un tema come questo, concedermi eventualmente anche di sbagliare, dire una cosa che può sembrare inopportuna, ridere. Nel capitolo dei tiri, i lucertoloni di Linosa, per esempio, si ride. In un libro sul carcere dove ci sono dall’inizio dell’anno 30 detenuti che si sono suicidati si può ridere? Io in queste pagine mi concedo anche di ridere. Come si ride ai funerali, o a scuola. V.V. A libro concluso, se potessi integrarlo, cosa aggiungeresti? I terribili fatti avvenuti in questi giorni al Beccaria, credi che avrebbero potuto trovare spazio tra le pagine? Come avrebbero cambiato le cose? D.B. Quello che si è scoperto al Beccaria meriterebbe un libro a sé. Tredici agenti indagati. Tredici come i tredici morti nelle rivolte di marzo 2020. Un numero che deve diventare il simbolo di quello che non si può più accettare. Con il Beccaria e con i morti nelle rivolte abbiamo toccato il fondo. V.V. Il titolo è un’affermazione, Ogni prigione è un’isola. Siamo così d’accordo che ogni prigione debba essere un’isola? Che tipo di isola è la prigione? D.B. La frase è stata detta da un ispettore. Voleva affermare che ogni istituto era diverso dall’altro, cosa come sappiamo vera, perché ogni istituto dipende dal direttore, dal rapporto del direttore con il comandante e da tutta una serie di altre variabili. Io invece l’ho isolata dal contesto in cui la diceva perché mi parlavano queste due parole: prigione e isola. Ho pensato alle prigioni interiori, mentali. A come possono essere prigioni i dogmi, i rapporti tossici, le nostre paure. Ho pensato che le cose che ci imprigionano sono elementi che ci isolano. E poi mi piace l’idea di guardare l’isola dal di fuori, dalla sponda di fronte, come racconta la copertina che è l’opera di un giovane artista russo di 25 anni. Aveva fatto un quadro simile a questo, gli abbiamo chiesto di inserire una donna che guarda quel profilo rosso laggiù che ricorda un po’ un carcere. V.V. Come possiamo guardare le prigioni da fuori, da oltre il muro di cinta? D.B. Sul piano individuale, riuscendo a uscire da se stessi e vedere le proprie paure, su quello collettivo cercando di non tenere nascosto quello che accade dentro al carcere. L’unico reality da un carcere. Intervista con Camilla Costanzo. di Roberta Calandra rewriters.it, 10 maggio 2025 Il 20 maggio avrà luogo presso il Teatro Parioli di Roma: “Senza parole” Premio Teatrale Maurizio Costanzo in carcere 2025. Il 20 maggio un evento molto speciale avrà luogo presso il Teatro Parioli di Roma: Senza parole Premio Teatrale Maurizio Costanzo in carcere 2025. Con la compagnia teatrale “Geniattori” della Casa Circondariale Sanquirico di Monza. Ne parliamo con Camilla Costanzo. La tua è una eredità poderosa: con che scopo agisce l’associazione intitolata a tuo padre? Dal momento che c’è già Mediaset a mantenere viva la memoria di papà, abbiamo deciso che noi ci occuperemo delle battaglie civili che a lui erano molto care. Abbiamo scelto il carcere perché lui teneva moltissimo ai diritti dei detenuti e, in passato aveva fatto più puntate del Costanzo Show da vari istituti di pena e anche un reality che si chiamava Altrove ed era tutto girato all’interno di un carcere. L’unico reality da un carcere che sia mai stato fatto. Perché avete scelto le carceri come ambito privilegiato di intervento? La decisione di occuparci solo di carceri è nata mentre lavoravamo a questo premio. Abbiamo capito che le cose da fare sono tante e che era meglio concentrare le nostre energie su un’unica cosa, piuttosto che disperderle in più ambiti. Come è strutturato il premio? Il Dap a settembre ha inviato un bando di concorso in tutti i carceri italiani e diretto alle compagnie teatrali che operano nelle carceri. Hanno aderito circa 26 compagnie che ci hanno inviato dei copioni, di cui molti originali, scritti con i detenuti. La nostra giuria presieduta da Pino Strabioli (ci sono anche il giornalista del Corriere della sera Paolo Conti, la direttrice dell’associazione Ho voglia di teatro fondata da papà Brunilde di Giovanni e l’attore Valerio Mastandrea) ha scelto uno di questi copioni e la compagnia rappresenterà lo spettacolo il 20 maggio al Teatro Parioli-Costanzo. Riceveranno anche un premio in denaro grazie ai nostri Sponsor che sono Intesa San Paolo, Nuovo Imaie e Fondazione Lottomatica. Di cosa parla il copione vincitore e come lo avete messo in scena? Il copione vincitore si chiama senza Parole ed è stato scritto dai detenuti della casa Circondariale Sanquirico di Monza con la Compagnia teatrale Geniattori il cui direttore è Mauro Sironi. Sono 11 quadri che raccontano la vita nel carcere, dal momento in cui si entra a quello dell’uscita per fine pena. Una voce narrante accompagna i movimenti degli attori. Gli attori si muovono dentro ad una grande cornice di legno costruita da un detenuto della falegnameria. E’ uno spettacolo di grande effetto e impatto emotivo. Devo dire che ci sono arrivati dei copioni davvero ben fatti e, se fosse stato per noi, avremmo fatto vincere tutti, ma dovevamo fare una scelta. Quali progetti futuri per te e per l’associazione? Per adesso stiamo già pensando al premio del prossimo anno e poi abbiamo altre idee che però dobbiamo ancora condividere con il Dap. Lo spettacolo lo ha diretto Mauro Sironi con la Compagnia dei Geniattori. Da anni operano nel carcere di Sanquirico e lavorano con i detenuti che decidono di fare teatro come attività. Il teatro è per loro l’occasione per lavorare su se stessi e per imparare anche dei mestieri. Ho ricevuto non molto tempo fa una lettera da un detenuto che raccontava come il teatro in carcere lo avesse salvato. Adesso è fuori, lavora e si è rifatto una vita. Questo per dire che il teatro in carcere funziona moltissimo per la riabilitazione che poi dovrebbe essere l’unico vero scopo di una detenzione. Tra l’altro il teatro Parioli-Costanzo si è impegnato di assumere una figura professionale e siccome tra i detenuti attori di Senza Parole c’è anche qualcuno che sta a fine pena, potrebbe essere proprio qualcuno di loro. Lo spettacolo non è rivolto a un pubblico specifico, ma a tutti. In sala il 20 maggio avremo un pubblico vario. Ci sono oltre ai rappresentanti del Ministero di Grazia a Giustizia e del Dap, amici storici di papà e un persone comuni interessate al tema. Ci sarebbe piaciuto far fare loro una piccola tournéé all’interno dei teatri di Ho voglia di Teatro, ma ci sono parecchi problemi di permessi, quindi non sappiamo ancora se sarà possibile. In ogni caso se non sarà per quest’anno, proveremo il prossimo. Tra l’altro per la prossima edizione del premio pensavamo di fare un racconto documentario che parta dalle prove dentro al carcere fino alla rappresentazione finale. Speriamo di poterlo realizzare. Il diritto di contare. Perché stavolta conviene votare al referendum di Francesco Riccardi Avvenire, 10 maggio 2025 Solo un diritto o non anche un dovere del cittadino? Una possibilità - alla quale dunque potersi pure sottrarre - o una sorta di obbligo quantomeno morale, se non proprio giuridico? O più semplicemente un’occasione da cogliere. Il voto per la consultazione referendaria dell’8-9 giugno ha già prodotto divisioni e acceso la polemica sul suo esercizio, prima e più ancora che sul contenuto dei 5 quesiti proposti. Soprattutto dopo che Forza Italia si è pronunciata chiaramente per l’astensione. Provocando l’immediata reazione delle opposizioni che hanno gridato allo scandalo per l’invito a disertare le urne da parte di forze di governo. Dimenticando che analoga posizione è stata assunta in passato anche da esponenti di partiti che fanno parte del loro “albero genealogico”. Perché, nel caso dei referendum, la scelta elettorale si esercita prima ancora che con la matita in mano, anzitutto con le gambe, recandosi o meno alle urne. Per dirla meglio, la Costituzione prevede espressamente all’articolo 75 che - a differenza delle elezioni - affinché il referendum sia valido e non nullo è necessario che si esprima la maggioranza degli aventi diritto al voto. Sono tre dunque le modalità di espressione della propria volontà riguardo ai referendum: votare sì, votare no o non esprimersi e così concorrere alla sua nullità. Scelte tutte e tre legittime da esercitare. Su questo aspetto la polemica è solo un esercizio retorico. Il nodo è piuttosto quello dell’opportunità della scelta dell’astensione o della partecipazione attiva. E questa non si misura tanto sul piano giuridico, ma ha molto più a che fare con la materia specifica dei quesiti e con le condizioni generali del Paese. Per non nascondersi dietro un dito, proprio questo giornale fu protagonista, giusto 20 anni fa, di una campagna a favore dell’astensione nel referendum sulla legge 40 che regola la fecondazione assistita. Lo slogan era: “Sulla vita non si vota” e voleva sottolineare come la materia - molto complessa e dalle enormi implicazioni morali riguardo la generazione e l’umano - non andasse “riscritta” con la matita copiativa, ma conservata nella sua forma originale, scaturita da un lungo discernimento, dibattito e confronto in Parlamento. Non era certo una “legge cattolica” in linea con la Dottrina della Chiesa, quanto un laico compromesso che teneva in un equilibrio accettabile principi e nuove esigenze sociali. In quell’occasione perciò invitare a non votare assumeva l’obiettivo di difendere la norma allora esistente e insieme il “metodo” di democrazia rappresentativa con il quale si era arrivati a regolamentare un tema fondamentale e controverso. E oggi? Siamo oggettivamente di fronte a una situazione diversa. Innanzitutto, le leggi ora sottoposte a consultazione referendaria riguardano materie certamente importanti, non però di portata antropologica. E i quesiti più che stravolgere le norme si limiterebbero a cambiarne alcuni tratti temporali o aspetti di regolamentazione. Non siamo di fronte a scelte etiche fondamentali ma a questioni appunto di mera opportunità. È bene accorciare i tempi per la cittadinanza agli stranieri? È giusto e utile reintrodurre parzialmente la reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo? I contratti a termine devono essere limitati da una causale? La responsabilità sugli infortuni va estesa anche alle società appaltanti? Nel merito, il giudizio può essere diverso da quesito a quesito. Ci sono però tre ulteriori considerazioni che, secondo noi, questa volta depongono a favore della partecipazione alla consultazione, a prescindere che si sostenga il sì o il no. La prima, e più importante, è quella di evitare di alimentare l’astensione che sta crescendo in maniera decisa in tutte le ultime tornate elettorali, a livelli assai superiori a quelli di 20 anni fa. Oggi esiste il rischio concreto che il non-voto si consolidi in un generale disimpegno dai tratti preoccupanti per la democrazia. E che venga ulteriormente svalutato uno strumento fondamentale di democrazia diretta qual è il referendum. La seconda è che (pur ritendo a livello personale non utili alcune modifiche al Jobs Act) il mancato raggiungimento del quorum andrebbe a tutto danno dei lavoratori dipendenti. Aggravando ulteriormente il loro già scarso peso politico, la loro rilevanza. Una considerazione simile vale per il quesito sulla cittadinanza, in cui tra l’altro ci si esprime o meno sul futuro di persone che non possono farlo perché non godono del diritto di voto. Questa volta allora meglio scrivere dei sì e dei no. Alzare le spalle e restare indifferenti, rendendo tutta la consultazione nulla, non conviene a nessuno. Teniamoci stretta la possibilità di contarci, il diritto di contare. Bagarre sul fine vita: il Governo impugnerà la legge della Toscana di Francesca Spasiano Il Dubbio, 10 maggio 2025 Ira delle opposizioni per la scelta dell’esecutivo, il governatore Giani: “Profonda delusione”. E il centrodestra rilancia con un suo testo. Tutto come previsto. Il governo ha deciso di impugnare la legge sul fine vita approvata dalla Toscana, prima Regione in Italia a dotarsi di regole chiare per l’accesso al suicidio assistito in assenza di una norma nazionale. Lo ha fatto sapere oggi il Consiglio dei ministri, che ha dato anche una motivazione: la legge “esula in via assoluta dalle competenze regionali e lede le competenze esclusive dello Stato in materia di ordinamento civile e penale e di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, nonché il riparto di competenze in materia di tutela della salute e della ricerca scientifica e tecnologica, violando l'articolo 117, secondo comma, lettere l) e m), e terzo comma, della Costituzione”. A dirimere la questione sarà dunque la Consulta, che si esprimerà sul conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni. In merito a un argomento sul quale i giudici costituzionali hanno già impresso il proprio parere, fissando limiti e criteri precisi. La stessa legge toscana, la n. 16 del 14 marzo 2025, arriva infatti sei anni dopo la storica sentenza 242 del 2019, la cosiddetta Antonio/Cappato sul caso Dj Fabo, con la quale la Corte ha reso legale l’accesso al suicidio assistito quando siano soddisfatti quattro requisiti: che la richiesta arrivi da un malato affetto da una patologia irreversibile, che sia capace di autodeterminarsi, che reputi le proprie sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che sia dipendente da trattamenti di sostegno vitale. Nodo, quest’ultimo, sciolto con la sentenza 135 dello scorso luglio, con la quale la Consulta ha allargato il campo di chi potrà richiedere la morte volontaria e ha invitato ancora una volta il legislatore ad occuparsi del tema. Il Parlamento, finora, non ci è mai riuscito. E la legge toscana, che di fatto non “crea” un nuovo diritto, si limita ad attuare i requisiti della Consulta definendo tempi e procedure certe. Si tratta della proposta di legge di iniziativa popolare promossa dall’associazione Luca Coscioni con la campagna “Liberi Subito”, che dopo l’iter in Commissione Sanità era stata approvata a maggioranza dal Consiglio regionale lo scorso febbraio. La norma prevede sei articoli e stabilisce per le aziende sanitarie locali l’istituzione di una Commissione per la verifica dei requisiti del paziente che sia composta da un medico palliativista, uno psichiatra, un anestesista, uno psicologo, un medico legale e un infermiere. Con la stessa legge si definiscono anche i tempi di risposta: la verifica deve concludersi entro venti giorni, e in caso di esito positivo, nei successivi dieci vanno indicati il farmaco e la modalità di assunzione. Un regolamento, dunque, che però era stato accolto come una “fuga in avanti” da parte della maggioranza, che nel frattempo sta lavorando a un proprio testo sul fine vita. È la proposta di legge di cui sono relatori i senatori Pierantonio Zanettin di Forza Italia e Ignazio Zullo di Fratelli d’Italia. La bozza presentata lo scorso marzo al comitato ristretto delle Commissioni Giustizia e Sanità del Senato prevede due articoli: il primo ribadisce che “il diritto alla vita è un diritto inviolabile ed indisponibile, determinato dall’assenza dei valori fondamentali sui quali si fonda la Carta Costituzionale della Repubblica”. Il secondo articolo aggiunge un quinto requisito a quelli stabiliti dalla Consulta, prevedendo che il paziente da cui arriva la richiesta sia già inserito in un programma di cure palliative. “Stiamo lavorando con il senatore Ignazio Zullo per predisporre un testo base da presentare alle commissioni. I tempi sono maturi per una proposta che parta da quei principi enunciati a inizio marzo che stiamo dettagliando”, ha fatto sapere oggi Zanettin. “L’idea è andare avanti ma serve cautela perché sono materie delicate e di certo non può essere un testo blindato - ha aggiunto -. Procediamo con la velocità consentita dal bisogno di un consenso che deve necessariamente essere ampio”. Le opposizioni avevano già aperto al dialogo. A partire dal dem Alfredo Bazoli, relatore nella scorsa legislatura del testo naufragato con la caduta del governo, che ora riserva al centrodestra una risposta glaciale: “Dalla maggioranza solo parole e niente fatti”, ha commentato il capogruppo Pd in commissione Giustizia al Senato. “La verità è che non c’è nessuna proposta in campo, il comitato ristretto non è stato più convocato e l’ipotesi di cui il centrodestra ha parlato a inizio marzo si è inabissata in una palude da cui non emerge nulla”. “È vergognosa l’inerzia in cui la maggioranza ci obbliga a rimanere - ha chiosato Bazoli - e troppe volte in passato ci sono arrivate promesse di sviluppi poi naufragate davanti a divisioni interne della maggioranza, che tiene in ostaggio la discussione”. Le cose rischiano dunque di complicarsi, con le polemiche sollevate dall’annuncio del governo. Il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, è stato il primo ad esprimere “profonda delusione”. “È paradossale che, invece di lavorare su una legge nazionale attesa da anni, il Governo scelga di ostacolare chi si è impegnato per attuare quanto stabilito dalla Corte. Difenderemo con determinazione la nostra legge, certi di aver agito nel rispetto della legalità, della Costituzione e, soprattutto, delle persone”, ha aggiunto il governatore del Pd. Per il quale “questa legge rappresenta un atto di responsabilità istituzionale e di rispetto verso le persone che affrontano sofferenze insopportabili”. “La nostra normativa - ha aggiunto - è stata elaborata in attuazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 2019, che ha indicato la necessità di colmare un vuoto legislativo in materia di suicidio medicalmente assistito. In assenza di una legge nazionale, la Toscana ha scelto di dare risposte concrete ai cittadini, nel pieno rispetto dei principi costituzionali”. Il Movimento 5 stelle ha bollato la scelta del governo come “medievale, gravissima e inaccettabile”. Per Filomena Gallo e Marco Cappato, segretaria nazionale e tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, “ricorrendo contro la nostra legge di iniziativa popolare “Liberi Subito” approvata dalla Regione “il Governo dell’autonomia differenziata fa ricorso per impedire l’esercizio dell’autonomia esistente”. Il punto, per ora, va alle associazioni Pro vita, che mercoledì si erano recate a Palazzo Chigi per consegnare “le oltre 31mila firme raccolte con una petizione popolare rivolta al Governo affinché procedesse con urgenza con l’impugnazione della legge”. Migranti. Centri in Albania, la Cassazione: “Trattenimenti legittimi”. di Francesco Bechis Il Messaggero, 10 maggio 2025 Una sentenza della Corte suprema dà ragione al Viminale contro la Corte d’Appello: “Chi richiede asilo resta nei centri albanesi”. E a Roma le toghe convalidano i rimpatri. Nei Centri per migranti in Albania possono essere trattenuti anche i richiedenti asilo. Perché quelle strutture possono essere “equiparate a tutti gli effetti” ai Centri di permanenza e rimpatrio italiani. Una sentenza della Corte di Cassazione riapre la partita del patto fra Italia e Albania per i rimpatri. E dà al governo un po’ di ossigeno dopo mesi di braccio di ferro con le toghe sull’attuazione del protocollo firmato da Giorgia Meloni ed Edi Rama. La prima notizia risale a giovedì. Chiamata a esprimersi su un provvedimento di convalida di trattenimento di un migrante marocchino nel centro albanese di Gjader, annullato dalla Corte d’Appello di Roma, la Cassazione dà ragione al governo. O meglio al Viminale di Matteo Piantedosi che ha impugnato il provvedimento della Corte insieme alla Questura di Roma. Colpo di scena? Si può dire di sì, a sfogliare le conclusioni della Corte suprema. Che statuisce un principio: d’ora in poi tutti i migranti, anche chi ha fatto richiesta in Italia di protezione internazionale, potranno essere trattenuti nelle strutture albanesi, da Gjader a Shengjin. È un tornante. E la seconda novità è che le toghe romane a cui è chiesta la convalida dei trattenimenti nel Paese est-europeo hanno già iniziato ad adeguarsi. In due sentenze ravvicinate, una dell’8 maggio, l’altra di ieri, la Corte d’Appello di Roma ha convalidto il trattenimento di due richiedenti asilo nel centro di Gjader. E lo ha fatto rimettendosi proprio al pronunciamento dei giudici del Palazzaccio. Sarà anche una vittoria temporanea, ma al Viminale come a Palazzo Chigi il dietrofront delle toghe italiane innescato dalla Cassazione non è passato inosservato. Tutt’altro. Mercoledì scorso, incalzata dalle opposizioni, Meloni ha scandito una solenne promessa. I rimpatri dei migranti rinchiusi nelle strutture in Albania, d’ora in poi, accelereranno. Entro questo week-end “il 25% dei migranti trattenuti in Albania sarà rimpatriato”, l’annuncio della presidente del Consiglio nell’emiciclo di Palazzo Madama. Contestato subito dalle minoranze, Pd in testa, convinte che il piano albanese stia arrancando e provocando uno spreco sostanziale di risorse pubbliche. Il dato politico da registrare, o giuridico a seconda da dove si guarda, è una nuova fase nell’infinito scontro fra governo e toghe sul protocollo albanese. A febbraio il governo con un blitz in Cdm ha approvato un decreto che equipara i centri albanesi ai tanti Cpr disseminati lungo lo Stivale. Quisquilie? Niente affatto: in una mossa Palazzo Chigi ha di fatto scardinato un principio alla base del patto con Rama. Trasformando i centri di Gjader e Shengjin, inizialmente pensati per ospitare le procedure di frontiera dei migranti provenienti da Paesi “sicuri”, dunque destinatari di un imminente provvedimento di espulsione, in centri dove ospitare tutti i migranti, anche i richiedenti asilo. Ora la Cassazione ne prende atto e certifica la svolta che ha permesso, sia pure fra tanti ritardi e rinvii, di far ripartire i trasferimenti albanesi dei migranti arrivati in Italia attraverso il Mediterraneo. Ieri un’altra nave è partita da Brindisi alla volta delle coste albanesi, fra le proteste del centrosinistra. “Becera propaganda per finalità elettorali sulla pelle delle persone migranti” denuncia Elisabetta Piccolotti di Avs. La sentenza del Palazzaccio, si diceva, interviene sul caso di un richiedente marocchino. La questura di Roma aveva disposto il 25 aprile il trasferimento a Gjader, la Corte d’Appello non lo ha convalidato con una motivazione semplice: una volta in Albania, il migrante ha fatto richiesta di protezione internazionale uscendo quindi dalla “lista” degli stranieri che, stando al protocollo Meloni-Rama, possono essere trattenuti nel Paese al di là dell’Adriatico. Non la vede così la Cassazione. Che risponde: non basta più la richiesta di asilo per sottrarsi alla detenzione in Albania. “Lo straniero trasferito - si legge nella sentenza - permane nella struttura...anche qualora presenti una domanda di protezione internazionale”. Tempo ventiquattro ore ed ecco che la Corte d’Appello - fin qui una sorta di “muraglia cinese”, insieme al tribunale di Roma, contro i trattenimenti in Albania disposti dal Viminale - si adegua alla Corte suprema. Due convalide. Tutte e due danno il via libera al trattenimento di richiedenti asilo, un algerino e un pakistano, convinti di poter evitare la detenzione nel Paese di Rama in virtù della protezione internazionale richiesta. Niente da fare. Inutile dire che al ministero di Piantedosi hanno incassato con una certa soddisfazione il semaforo verde delle toghe. Imprevisto e forse anche insperato dopo mesi di stalli e tensioni. Migranti. Maysoon in carcere 300 giorni come scafista, poi assolta. I giudici: “Accuse infondate” di Alessia Candito La Repubblica, 10 maggio 2025 Sbarcata a Crotone, l’attivista e regista curdo-iraniana ha dovuto attendere quasi un anno per ritrovare la libertà. Ma per il tribunale di Crotone che l’ha assolta, contro di lei non ci sono mai stati elementi. Dichiarazioni inattendibili e non utilizzabili, conversazioni non riscontrate, testimoni irreperibili. Maysoon Majidi, regista e attivista curdo iraniana, è stata assolta dall’accusa di essere una “scafista” e liberata dopo trecento giorni carcere, ma per i giudici non avrebbe mai dovuto metterci piede. Fin dal principio non c’erano elementi per accusarla. Lo affermano i giudici di Crotone nel motivare la sentenza con cui l’hanno assolta con formula piena dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Non solo, spiegano, “si è rivelata totalmente infondata” l’ipotesi inizialmente formulata nel capo di imputazione: aver lavorato come mozzo di Akturk Ufuk, capitano del veliero reo confesso e che da subito l’ha scagionata. Anche quella più lieve, una collaborazione non remunerata, proposta dalla pm Rosaria Multari quando l’impianto accusatorio è crollato in aula, per il tribunale è totalmente inconsistente. “Poggia su elementi di prova che si sono rivelati di per sé inadeguati, non precisi o non concordanti”, si legge nelle carte, “e risulta smentita da altre evidenze, non trascurabili, che inducono per un’ipotesi alternativa favorevole all’imputata”. Contro Maysoon, ricordano con severità i giudici, sono state utilizzate le testimonianze di due compagni di viaggio, che “in quanto rese da soggetti indagati o indagabili di reato connesso non possono essere di per sé considerate attendibili”. E per di più, si ricorda, sono state fornite in circostanze molto strane, o quanto meno curiose. Uno avrebbe personalmente segnalato Maysoon al mediatore della Questura, offrendosi volontario per tenderle una specie di trappola. L’altro sarebbe stato “selezionato fra i testimoni più collaborativi”. Peccato che, sottolineano i giudici, “le dichiarazioni dei testimoni non risultano riscontrate” non solo da altri soggetti migranti, ma anche “da dati oggettivi: foto, video, comunicazioni telefoniche”. Anzi, quelle la scagionano. Anche quella fuga su un tender al momento dello sbarco - per l’accusa, la prova regina contro Maysoon - per il tribunale non è in alcun modo utile a provare che Maysoon facesse parte o avesse collaborato all’organizzazione di quel viaggio: “L’intendimento dei cinque fuggiaschi e in particolare dell’odierna imputata”, sottolinea il Tribunale, non era “sottrarsi all’arresto conseguente a una condotta illecita di scafista, ma di sottrarsi al controllo di frontiera in Italia (e relativa acquisizione di impronte digitali) al fine di chiedere asilo o permesso di soggiorno in Germania”. E mai Maysoon ha nascosto di voler raggiungere i familiari che lì da tempo si sono stabiliti. I video che la ritraevano sorridente nei pressi della costa - anche questi, per la pm Multari, una prova di colpevolezza - per il tribunale sono semplicemente “realizzati in un contesto di euforia e libertà di movimento per l’imminente approdo sulle coste italiane”. Con quei filmati, spiegano, “l’imputata, per lo più in compagni a del fratello, manifestava il suo stato di entusiasmo e di sollievo, nonché di gratitudine per essere giunta sana e salva”. E il selfie che la ritrae insieme al capitano Aktuk, come la foto che li ritrae mentre si tengono per mano “possono essere ragionevolmente letti nella cornice di una semplice amicizia nata tra i due nel corso della navigazione”. Traduzione, contro Maysoon non c’era nulla di solido, consistente, provato, gli elementi dell’accusa era “non precisi e discordanti”. Eppure per 300 giorni è rimasta in un carcere che l’ha consumata portandole via la serenità, la salute, sedici chili. Ma non la voglia di combattere. Sulle droghe noi abbiamo un piano. Il Governo no di Leonardo Fiorentini* L'Unità, 10 maggio 2025 Mantovano ha annunciato per novembre la sua prima Conferenza nazionale, il copione è già scritto: repressione e criminalizzazione. Ecco perché in contemporanea la società civile ha convocato una contro-conferenza. Partiamo da qui: dal “fallimento di politiche rinunciatarie, riassunte nella politica della Riduzione del Danno” annunciato nella relazione sulle dipendenze dello scorso anno dal plenipotenziario del Governo Meloni, Alfredo Mantovano. In questa affermazione c’è la cifra politica della posizione della destra sulle droghe: il ribaltamento della realtà e la costruzione di una narrazione funzionale al proprio approccio ideologico e moralistico. Se mai una politica ha fallito, come dimostra la semplice osservazione del presente delle nostre città, è il proibizionismo sulle droghe. Incardinato sulla convenzione ONU del 1961, l’impianto repressivo penale del Testo Unico sulle droghe in vigore in Italia porta sì in carcere un terzo della popolazione detenuta, ma è stato completamente incapace di avere effetti su domanda e offerta di sostanze psicotrope. Al contempo ha prodotto milioni di anni di galera e una miriade di danni sociali e sanitari a cui solo le politiche di riduzione del danno hanno saputo arginare. Se oggi le morti per overdose nel nostro paese non superano i 300 casi, lo dobbiamo proprio alle unità di strada, ai drop in, agli interventi nei contesti del divertimento introdotti in Italia a partire dagli anni ‘90. Non certo agli allarmi, puntualmente seguiti da proclami, del Mantovano di turno. Questo Mantovano, ispiratore della legge Fini-Giovanardi che per 8 anni ha equiparato tutte le sostanze finendo per unirne irrimediabilmente i mercati, ha annunciato per il 7 e 8 novembre 2025 la sua prima Conferenza Nazionale sulle Droghe. È sufficiente ricordare i provvedimenti governativi di questi anni, basati su repressione, criminalizzazione, esclusione per comprendere come il copione sia già scritto. Dal decreto anti-rave al decreto Caivano, dalla riforma del codice della strada - che, come ormai evidente anche ai Ministeri della Salute e dell’Interno, colpisce indiscriminatamente i consumatori, anche di sciroppo per la tosse, a prescindere dal fatto che si sia alla guida in stato alterato - fino allo zenit ideologico dei fiori di canapa industriale assimilati alle sostanze stupefacenti. L’esecutivo ha intrapreso una strada che non solo ignora le evidenze scientifiche, ma alimenta lo stigma e la guerra ideologica contro le persone che usano droghe (PUD). Così, nella preparazione della Conferenza, queste e la società civile esperta sono state escluse. Una netta inversione di rotta rispetto alla Conferenza del 2021, che, pur tra mille limiti, aveva aperto il confronto a tutte le voci, portando all’approvazione di documenti avanzati e di un Piano Nazionale sulle Droghe frutto di un vero processo partecipativo. Piano che l’attuale governo ha esplicitamente ignorato, azzerando ogni prospettiva di riforma. Per rispondere a questa politica miope e repressiva, una vasta rete di realtà della società civile per la riforma delle politiche sulle droghe ha deciso di convocare una Contro-Conferenza nazionale, che si terrà a Roma in contemporanea con l’appuntamento governativo. “Sulle droghe abbiamo un piano”: è chiaro il messaggio dell’appello siglato da A Buon Diritto, ARCI, Antigone, Associazione Luca Coscioni, CGIL, CNCA, Comunità San Benedetto al porto, Forum Droghe, Gruppo Abele, Itanpud, ITARDD, l’Altro Diritto, LILA, la Società della Ragione, l’Isola di Arran, Meglio Legale, Tutela Pazienti Cannabis. È il piano che emerge da decenni di pratiche nei territori, di lavoro sociale e sanitario, di studio, di riduzione del danno, di mobilitazione degli operatori e delle persone che usano sostanze. È il piano di chi ha a cuore i diritti, la salute, la giustizia sociale. È quel piano che rende evidente come invece la destra al governo non lo abbia e, ripetendo mantra e riti ormai privi di significato, sia solo in grado di usare il diritto penale per dimostrare al paese di stare facendo qualcosa. I promotori vogliono costruire un percorso collettivo, diffuso nel paese e aperto al dialogo con i cittadini e le amministrazioni locali, con il mondo giovanile, studentesco, sindacale, professionale e politico. Perché “governare le droghe è possibile”, ma per farlo serve un cambio di paradigma: passare da un modello penale e punitivo a un governo sociale del fenomeno, fondato sulla depenalizzazione, sulla decriminalizzazione dell’uso, sulla regolazione legale della cannabis, sull’attuazione dei Livelli Essenziali di Assistenza della riduzione del danno, su una giustizia che limiti il ricorso alla detenzione e sostenga percorsi alternativi di comunità, in particolare per le persone più vulnerabili. L’appello è su www.conferenzadroghe.it. *Forum Droghe Droghe. La lezione dei “Diari di Phoenix House” di Denise Amerini* L'Unità, 10 maggio 2025 Alla luce delle politiche governative sulle droghe, il libro di Mauro Croce conferma il rischio del rilancio di un modello autoritario e punitivo. Poche settimane fa è uscito il libro “I diari di Phoenix House” scritto da Mauro Croce, edito da Durango Edizioni. Un volume che nasce per raccontare la curiosità e frustrazione dell’autore, giovane psicologo, quando decide di partire per un tirocinio in una comunità londinese, Phoenix House. A Londra Croce partecipò ad un programma per gli operatori, della durata di 6 settimane, di cui tenne un diario. Erano gli inizi degli anni 80, e l’Italia aveva già visto, sin dalla fine degli anni 60, l’inizio della diffusione dell’eroina e le morti per overdose, senza avere strumenti e risposte efficaci per affrontarla. È infatti solo del 1975 la prima normativa sui servizi. Negli Stati Uniti, invece, sul finire degli anni 60 avevano iniziato a formarsi le prime comunità terapeutiche per il recupero dei tossicodipendenti, a partire dall’esperienza di Synanon, basate sulla completa astinenza, sulla colpa e sulla punizione. Phoenix House nasce anni dopo proprio su quel solco. Si era deciso che serviva un ‘metodo’ per curare i tossicodipendenti, e che doveva basarsi su determinate prescrizioni, quelle che prevedevano una lenta risalita, fatta di frustrazioni, punizioni, isolamento, umiliazioni, dopo ‘aver toccato il fondo’. Ed è su questi principi che anche in Italia sorsero molte comunità. Alcune di queste, dopo essere state esaltate e pubblicizzate, sono assurte alla cronaca nera per episodi di violenza: persone chiuse in luoghi particolari, legate, isolate, umiliate. Qualcuna trovandovi anche la morte. Eppure, come ricorda Vanessa Roghi nella prefazione, la tradizione delle comunità sarebbe di democrazia, quella del movimento dell’antipsichiatria nato in Inghilterra con Maxwell Jones. Ma le comunità terapeutiche, soprattutto quelle per tossicodipendenti che nascono in quel periodo, invece di guardare a quel modello, si ispirano ai metodi repressivi e coercitivi di Synanon prima, di Phoenix House successivamente. Perché si ritiene che la persona che fa uso di droghe, il ‘tossicomane’, sia una persona incapace di gestire comportamenti, emozioni, azioni. In fondo, i tossici se la sono cercata, e quello che non è riuscita a fare la famiglia, la società, lo farà la comunità. La persuasione come strumento terapeutico. Costi quel che costi. Ma il libro non vuole essere una critica generalizzata alle comunità: esistono oggi realtà assolutamente distanti da quelle affermazioni, da quelle esperienze, comunità aperte e accoglienti. Vuole invece testimoniare come modelli autoritari, escludenti, chiusi, possano produrre perversioni. E questo è un contributo importante per l’oggi. Siamo di fronte ad un Governo che, in ogni provvedimento, richiama modalità autoritarie, punitive, escludenti. Basti pensare ai decreti Caivano, Rave, al DL sicurezza, alla riforma del codice della strada. Alle affermazioni di ministri e sottosegretari che pensano di trasferire i detenuti tossicodipendenti (il 29% del totale, mentre oltre il 33% della popolazione carceraria è ristretta per la normativa sulle droghe) in comunità chiuse. Una lettura, quindi, che, partendo dalla storia, e dal vissuto dell’autore, diventa estremamente utile ed interessante per l’oggi, per rispondere alle scelte della politica, anche nella contestazione del percorso intrapreso per la costruzione della conferenza nazionale sulle droghe che si terrà a novembre. Un percorso che sta escludendo completamente tutte quelle esperienze e quelle competenze che sono maturate nel corso degli anni, che propongono modelli diversi di intervento, che ci dicono che le sostanze non sono tutte uguali, che considerano il set ed il setting in cui vengono usate. Sono le politiche ed i servizi di Riduzione del Danno (RdD), fondamentali ma ad oggi completamente tagliati fuori dalla discussione. Il sottosegretario Mantovano è arrivato addirittura ad affermare che la RdD sia una politica rinunciataria, fallimentare. Questo libro è una importante testimonianza. Conferma il grande rischio, che oggi riemerge con forza, di metodi che si basano sulla rigida obbedienza a rigide regole, come la completa astinenza. Che vedono la dipendenza esclusivamente come una malattia, dalla quale, in fondo, non ci si libera mai completamente, e non vedono le persone, le storie, i vissuti. “Rileggere quel periodo, con le parole e lo sguardo di allora, ma con la consapevolezza di oggi” è un ottimo contributo nel percorso che molte associazioni ed organizzazioni hanno intrapreso per costruire una contro conferenza, che pone al centro i gravi rischi del rilancio ideologico della guerra alla droga, di cui uno degli ideologi, e organizzatore delle campagne ‘just say no’, è stato proprio il fondatore di Phoenix House. Per chiudere una nota musicale: la lettura del libro, oltremodo coinvolgente per l’immediatezza del linguaggio, è resa ancora più avvincente per la colonna sonora che la accompagna. Ogni capitolo è introdotto da un brano che è possibile ascoltare tramite un QR code, e accompagna in maniera coinvolgente la parola scritta. *Responsabile Carcere e dipendenze, CGIL Nazionale Iran. Sciopero della fame contro le esecuzioni, una furia senza precedenti di Virginia Pishbin L'Unità, 10 maggio 2025 Sono trascorse circa 66 settimane dall’inizio della campagna “No to executions Tuesday”, lo sciopero della fame settimanale, ogni martedì, avviato dai prigionieri politici nel gennaio 2024, a cui aderiscono detenuti in 41 carceri in tutto il Paese, ma anche organizzazioni internazionali per i diritti umani come Nessuno tocchi Caino che partecipa allo sciopero con la sua Tesoriera Elisabetta Zamparutti. La recente ondata di esecuzioni in Iran è l’ennesima riprova delle brutali tattiche del regime per reprimere il dissenso e mantenere il controllo. Secondo una ricerca del Consiglio nazionale della resistenza iraniana (NCRI), il principale gruppo di opposizione iraniano, in una sola settimana, dal 9 al 15 aprile, sono stati giustiziati 47 individui, tra cui 17 della minoranza baluci. In un solo giorno, il 15 aprile, ne sono stati impiccati 10, tra cui Mehdi Motavali, un ventenne impiccato ad Arak che aveva meno di 18 anni al momento del presunto reato. Questa ondata di brutalità è un disperato tentativo della Guida Suprema del regime, Ali Khamenei, di incutere timore e prevenire le rivolte. La furia di impiccagioni non si è fermata nei giorni successivi. Tra il 21 e il 23 aprile, sono stati giustiziati in Iran 22 prigionieri, in media uno ogni tre ore, segnando un forte incremento di un bilancio in continua crescita da quando il presidente Masoud Pezeshkian è entrato in carica lo scorso luglio. Il lunedì ne sono stati impiccati 8. Il martedì altri 6. Il mercoledì altri 8. A conti fatti, almeno 110 persone sono state giustiziate nel solo mese di aprile 2025, tra cui tre donne, quattro cittadini afghani, 35 baluci, 6 curdi e uno della minoranza araba. Il numero di esecuzioni nei primi quattro mesi del 2025 è stato superiore del 75% rispetto allo stesso periodo del 2024. Se aprile si è chiuso con 14 esecuzioni l’ultimo giorno del mese, maggio si è aperto con l’esecuzione di tre uomini e una donna il primo giorno del mese. Altri 8 uomini sono stati impiccati il 4 maggio e altri 7 il 5 maggio, nel giorno in cui finisco di scrivere questo articolo. Con l’avvicinarsi della fine del suo mandato, la Guida Suprema Ali Khamenei intensifica le esecuzioni, arrivate a 1.105 durante il mandato del suo tirapiedi Pezeshkian, un numero senza precedenti in tre decenni. “Sebbene sia stato descritto come un presidente più ‘moderato’, l’uso della forca durante il suo mandato è aumentato, in particolare nei confronti di individui arrestati per reati legati alla droga, dissenso e partecipazione alle proteste del 2022,” ha detto Hossein Abedini, vicedirettore degli uffici del CNRI nel Regno Unito. La signora Maryam Rajavi, presidente eletta del CNRI, annunciando la campagna “No alle esecuzioni” nel settembre 2024, aveva dichiarato: “Abbiamo sempre sostenuto che l’unico modo per affrontare questo regime di esecuzioni e massacri è attraverso la protesta, la ribellione e l’espansione della resistenza volta a rovesciarlo. La comunità internazionale deve andare oltre l’obsoleta politica di accondiscendenza nei confronti del regime del Velayat-e Faqih (potere assoluto religioso) di Teheran”. “Dopo aver subito significative battute d’arresto nella regione e aver affrontato la crescente minaccia di un rovesciamento, il regime ha brutalmente intensificato esecuzioni e massacri. Emettere condanne a morte per prigionieri politici arrestati durante o dopo la rivolta è l’ennesimo tentativo di intimidire la popolazione indignata e dimostra ulteriormente la paura del regime di una rivolta.” Il regime clericale ha costantemente tentato di usare le crisi esterne per distogliere l’attenzione dal suo problema principale: l’oppressione della popolazione interna. I governi dei paesi democratici dovrebbero condizionare le loro relazioni con il regime dei mullah al fine di contrastare le esecuzioni e riconoscere il diritto del popolo iraniano a lottare per il suo rovesciamento. Una cosa è certa: questo regime non può sfuggire alla sua inevitabile caduta. La determinazione delle donne e dei giovani di questa nazione è incrollabile, dedita alla lotta fino alla fine per la libertà. Tra i prigionieri politici ora nel braccio della morte, ci sono Mehdi Hassani e Behrouz Ehsani, le cui vite sono in “grave pericolo” dopo che le loro richieste di un nuovo processo sono state respinte dagli spietati comandanti iraniani. La Resistenza iraniana ha ripetutamente chiesto un intervento globale per fermare lo spargimento di sangue del regime. La comunità internazionale non può rimanere in silenzio di fronte a tali atrocità. Le Nazioni Unite, l’Unione Europea e le organizzazioni per i diritti umani condannino queste azioni e adottino misure urgenti per proteggere coloro che sono a rischio. L’imperativo è dar voce a coloro che sono stati messi a tacere. La loro sofferenza non deve essere vana. Iran. Ahmadreza Djalali colpito da infarto nel carcere di Teheran di Barbara Cottavoz La Stampa, 10 maggio 2025 L’appello di Amnesty Italia per le cure del caso al medico e docente universitario, cittadino onorario di Novara. Si aggravano le condizioni di salute di Ahmadreza Djalali, medico e docente iraniano naturalizzato svedese, cittadino onorario di Novara e ricercatore di medicina delle catastrofi. L’altra notte Djalali è stato colpito da un infarto nel carcere di Evin, a Teheran dove c’è solo un ambulatorio e non possono essergli garantite cure adeguate. Amnesty Italia ha chiesto alle autorità iraniane “di fornirgli tutte le cure di cui ha bisogno, incluse le visite cardiologiche”. La drammatica vicenda di Djalali inizia nel 2016 mentre si trovava in Iran su invito dell'Università di Teheran e dell'Università di Shiraz: fu arrestato per ordine del Ministero dell'Intelligence e della Sicurezza. Venne in seguito condannato a morte per spionaggio e collaborazione con Israele. Nel 2022 l'ultimo appello degli avvocati è stato respinto e quindi, per la legge iraniana, potrà essere giustiziato in qualsiasi momento; diversi enti, istituzioni e personalità ne hanno chiesto il rilascio ritenendo le accuse infondate. Pochi giorni fa, il 25 aprile, è stato il nono anniversario dell’arresto di Ahmadreza Djalali, medico e scienziato del Centro di ricerca di Medicina dei disastri dell’Upo di Novara. Migliaia di giorni trascorsi in una cella subendo torture fisiche, psichiche e vedendo la sua salute deteriorarsi in modo irrimediabile: “Sono vicino al punto di rottura” aveva detto in un messaggio disperato lanciato al telefono dalla prigione. È stato così, purtroppo. Nella notte tra giovedì e ieri il suo cuore, già sofferente da tempo, ha rischiato di fermarsi per sempre e il ricercatore è stato trasportato nell’ambulatorio del carcere. È stato lui stesso a darne notizia alla moglie con una breve telefonata ieri mattina. Ma il cardiologo lo potrà vedere soltanto domani: “Due giorni senza cure, praticamente abbandonato a se stesso - ha denunciato Noury. Ancora una volta chiediamo con forza al Governo iraniano di rilasciare Djalali, cittadino europeo”.