Ordinamento penitenziario, mezzo secolo di un codice lungimirante e solo in parte attuato di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2025 Furono anni di violenza cieca, ma anche di forti ideali. Anni di terrore, come di speranze. E in quell’ampia stagione di riforme al centro ritornò il cittadino, compreso quello recluso, con la sua dignità. Dignità richiamata fin dalla prima frase del primo articolo dell’Ordinamento penitenziario, approvato il 26 luglio di cinquant’anni fa. Dignità che è più del divieto a trattamenti “degradanti”, per usare il lessico delle norme; è restituzione dei diritti fondamentali. E “dignità” nelle carceri è tornato ad evocare il Presidente della Repubblica, sollecitando “interventi urgenti e lungimiranti”. Uno sguardo lungo è proprio la cifra che rende la riforma del codice penitenziario, vecchia di mezzo secolo, ancora così moderna e in molti aspetti ancora così inattuata. Pur nei terribili anni di piombo si comprese come la risposta al crimine non potesse essere solo la custodia degli autori di reato, ma una completa presa in carico della persona, per restituirla alla società dei liberi non più disposta a delinquere. Così chiede la Costituzione e così suggerisce la convenienza. Perché il carcere costa, moltissimo (3,4 miliardi l’anno, in gran parte per il personale) e perché solo col crollo della recidiva si risponde al bisogno di sicurezza delle vittime e dell’intera comunità. Ma affinché il percorso riesca, occorre restituire al complesso sistema penitenziario la sua funzione di ponte tra dentro e fuori, raccolta dall’ordinamento; di istituzione deputata non solo a contenere, ma accompagnare ognuno dei detenuti attraverso un cammino su misura. Un cammino a cui sono chiamati molteplici attori. C’è già tutto nei 91 articoli del codice del 1975 (firmato da Leone, Moro, Reale e Colombo). C’è il dovere di “chiamare per nome” il detenuto, che è una persona e non un numero, che indossa suoi abiti e non anonime divise, come in certi istituti americani. C’è il diritto a vivere in ambienti con adeguati livelli di igiene, areazione o vitto: quelle condizioni materiali valutate dai giudici al momento di risarcire in caso di “trattamento inumano e degradante”, secondo i dettami della Corte europea dei diritti dell’uomo che nel 2013 condannò l’Italia per livelli di sovraffollamento prossimi all’attuale. Ed è per questo, ad esempio, che il Tribunale di Sorveglianza di Firenze ordina di spostare quanti da Sollicciano lamentano celle con infiltrazioni, intonaco sbrecciato e cimici. Per l’ordinamento, infatti, il detenuto è titolare di diritti che non decadono con la condanna (salvo eccezioni), compreso quello al reclamo. Ma quell’ordinamento, che cinquant’anni fa non mancava di farsi carico di cosa c’è prima del reato e poi della fase cruciale dell’uscita - prevedendo la “partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa” (art. 17) - resta in parte sulla carta anche proprio per la sua lungimirante visione d’insieme. Difficile da attuare in un sistema con scarsa comunicazione tra competenze diverse, che lo rende parafulmine di tutto quello che fuori non funziona e facilita le distopie di cui scrive Pietro Buffa (Narrazioni e distopie penitenziarie, Edizioni Intra, 2024), per anni dirigente penitenziario. Un sistema che solo con estrema lentezza riesce ad allinearsi alle indicazioni normative. Così se dopo decenni solo la metà delle celle ha le docce all’interno, come richiesto dal codice, non stupisce che sia servito un anno e mezzo dopo la sentenza della Corte costituzionale e gli ordini di più Tribunali per aprire una breccia al diritto all’affettività. Con l’attuale sovraffollamento - 62mila detenuti per 51mila posti (compresi i 4.500 inagibili) e un trend di ingresso in aumento - è lettera morta l’indicazione di “un numero non elevato” di reclusi fissato dall’ordinamento che sottolinea l’esigenza di locali “per la vita in comune”. Una concezione dello spazio, dunque, che le norme vorrebbero non solo di custodia ma di “socialità, affettività, programmazione”, come richiamato da Mattarella. Parole che assumono un valore ancor maggiore, quando da mesi si aspetta il piano del commissario straordinario dell’edilizia penitenziaria, Marco Doglio, con gli annunciati prefabbricati per 7mila nuovi posti letto, impantanato tra il concerto del Mef e pastoie politiche. Nel frattempo, un’altra rovente estate è iniziata con l’“inaccettabile dramma dei suicidi” (emblematiche le 12 storie raccontate da Alessandro Trocino in Morire di pena, Laterza) ad interrogare su quanto al carcere manca. Innanzitutto un adeguato supporto psicologico: al di là dei nuovi investimenti rivendicati dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio (3 milioni annui), sono evidenti i limiti del sistema sanitario penitenziario con competenze diffuse tra Regioni e Asl e variazioni significative (anche sui compensi per gli specialisti, 96 euro lordi a Trento, 24 a Siracusa). Ma quali risposte si possono dare se a fronte di 62mila detenuti gli educatori sono 1.040 (pianta organica quasi al completo, 1.099)? O le persone in lista d’attesa (664 a fine 2024) per entrare in una Residenza per l’esecuzione di misure di sorveglianza (che hanno sostituito i manicomi giudiziari) sono più di quelle ricoverate (630), per non parlare dell’altissima percentuale di disturbi psichiatrici dentro le celle? Nessuna novità sul piano in cantiere da 300 nuovi posti in nuove Rems. Ecco che allora generosi operatori, a cominciare dalla polizia penitenziaria, si fanno carico di mansioni che sarebbero di altre professionalità. Negli anni 70 la malattia mentale fu inserita in un ampio sistema di welfare, ma se oggi questa è una delle emergenze penitenziarie, avviene anche perché lì finisce chi è rimasto escluso da altre reti sanitarie e sociali, che dovrebbero prevenire il reato. Se 50 anni fa il welfare entrava in carcere, oggi è il carcere a offrire non di rado supporto sociale a chi fuori non ha nulla. Luogo dei “senza speranza”, secondo la lapidaria espressione del capo dello Stato. Un cortocircuito, per cui il “reato diventa la risposta a quanto prima non ha funzionato e poi si chiede al carcere il miracolo della risocializzazione”, sintetizzava in un convegno Giacinto Siciliano, provveditore degli istituti del Lazio: un’analisi che tiene conto della trasformazione della popolazione detenuta, sempre più espressione di marginalità a differenza degli anni Settanta. E se è vero che le riforme penitenziarie, ripeteva lo storico direttore di San Vittore Luigi Pagano, “vengono realizzate solo col consenso dell’opinione pubblica”, sempre più difficile diventa anche la traduzione amministrativa di quanto già previsto dalle norme di 50 anni fa. Lungimiranti e moderne, per la flessibilità nel tradurre alti principi in una realtà che cambia. Se si vuole. Quelle vite dimenticate dietro le sbarre, dove diritti e dignità umana sono sospesi di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 9 luglio 2025 Il 10 luglio a Roma una giornata di studi per denunciare l’emergenza penitenziaria. Al centro del dibattito: suicidi, mamme detenute, affettività negata e diritti costituzionali. Carceri affollate e condizioni di detenzione insostenibili. Con il problema più grande: dimenticarsi di chi è ospitato negli istituti penitenziari. A questi temi è dedicata la giornata di studi organizzata dall’Organismo congressuale forense. Appuntamento il 10 luglio a Roma, nella sede del Cnel di viale Lubin. La scelta dell’Ocf di organizzare un convegno presso il Cnel, per affrontare in modo strutturato l’emergenza carceraria italiana, nasce dalle considerazioni emerse in numerosi incontri pubblici e dalla necessità di dare risposte concrete a una situazione che si aggrava quotidianamente. “Il nostro lavoro - spiega Elisabetta Brusa, referente della “Commissione detenzione- carcere” dell’Ocf - ha documentato una situazione drammatica, caratterizzata da un numero allarmante di suicidi in carcere e da un sovraffollamento cronico che supera abbondantemente la capienza regolamentare degli istituti. Questa non è solo una questione di statistiche, ma rappresenta il fallimento sistemico nel garantire condizioni di vita dignitose ai nostri assistiti”. Giovedì avvocati, giuristi, esperti ed esponenti delle istituzioni rifletteranno sul presente e su quelle che potranno essere le prospettive future riguardanti il pianeta carcere. I lavori saranno aperti da Renato Brunetta (presidente del Cnel). Seguiranno i saluti istituzionali di Andrea Ostellari (sottosegretario alla Giustizia), Vittorio Minervini (consigliere Cnf, vicepresidente della Fondazione dell’avvocatura italiana- Fai) e Mario Scialla (coordinatore Ocf). “Abbiamo cercato di raccontare all’esterno - aggiunge l’avvocata Brusa - anche la grave situazione in cui versano le donne detenute, la minoranza delle persone dimenticate, e delle difficoltà oggettive che vivono cercando di porre l’attenzione, oltre che al tema delle mamme detenute con figli, al problema dell’allontanamento dal luogo in cui rimane il nucleo familiare della detenuta e della problematica legata all’esercizio del proprio diritto all’affettività nei confronti dei figli. Le celle sovraffollate, prive di adeguati sistemi di ventilazione e climatizzazione, con le estati sempre più torride, si trasformano in luoghi di tortura. La combinazione tra sovraffollamento e temperature elevate crea condizioni che possono spingere alla disperazione anche chi aveva trovato un equilibrio”. Secondo il vicepresidente della Fondazione dell’avvocatura italiana, Vittorio Minervini, occorre tenere sempre alta l’attenzione sulla questione carceraria. “Grazie al lavoro che ogni giorno fa il giornale Il Dubbio - commenta Minervini -, i temi del sovraffollamento e della rieducazione dei detenuti sono portati all’esterno e vengono fatti conoscere a una platea sempre maggiore di persone, addetti ai lavori e non solo. Il Consiglio nazionale forense e la Fai hanno intrapreso da tempo un percorso molto preciso per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni. Lo dimostrano le tante iniziative organizzate in giro per l’Italia. Occorre avere la sensibilità e la determinazione nel riportare la Costituzione in carcere. Dignità e trattamenti umani negli istituti penitenziari sono principi che dobbiamo tenere sempre a mente”. Mario Scialla, coordinatore dell’Ocf, sottolinea il valore dell’iniziativa presso il Cnel. “Quella del carcere - afferma - è una vera e propria emergenza nazionale. Abbiamo deciso di mettere insieme diversi rappresentanti della politica con esperti della materia per tratteggiare la gravità di un fenomeno, ormai noto a tutti, e fare delle proposte concrete. Rivolgeremo la nostra attenzione non solo a chi vive il carcere come detenuto, ma anche a chi negli istituti penitenziari lavora e funge da collante con il mondo esterno. Penso alle associazioni e a molti enti locali sensibili alla questione, che offrono un contributo concreto nel fornire ai detenuti delle opportunità di riscatto e di affermazione di quelli che sono i principi della nostra Carta Costituzionale”. In carcere si “marcisce”. Digiuno a staffetta per tornare a essere umani di Annachiara Valle Famiglia Cristiana, 9 luglio 2025 Temperature insopportabili e sovraffollamento. Avvocati e magistrati chiedono di intervenire per difendere la salute dei condannati. Un giorno senza cibi solidi per tutelare la dignità di tutti. Un digiuno a staffetta per richiamare l’attenzione sulla situazione insopportabile patita dai detenuti nelle carceri italiane. Dopo la drammatica lettera dei giorni scorsi di Gianni Alemanno, ex ministro dell’Agricoltura dei governi Berlusconi ed ex sindaco di Roma, oggi agli arresti a Rebibbia, che denunciava le precarie condizioni dietro le sbarre, arriva l’iniziativa di avvocati e giudici che, in questo caldo torrido, mettono l’accento su come oggi “in Italia, si marcisce in galera”. Per farlo, dall’8 luglio e fino a metà agosto si alterneranno - e con loro chiunque voglia prendere parte alla proposta - rinunciando per un giorno a tutti i cibi solidi. “La chiave “è stata buttata via” e con lei i diritti più elementari, a cominciare da quello alla salute”, scrivono l’avvocato Valentina Alberta e il magistrato Stefano Celli. “Per questo vogliamo dare un segno e provare a partecipare, un giorno ciascuno, a una parte infinitesimale della sofferenza che gli uomini e le donne detenute patiscono. Una sofferenza che non trova alcuna giustificazione o attenuante. Abbiamo organizzato, avvocati e magistrati, un digiuno a staffetta. Chi aderisce rinuncerà per un giorno a tutti i cibi solidi. L’obiettivo è convincere il Parlamento a riesaminare urgentemente il disegno di legge Giachetti per l’allargamento temporaneo della liberazione anticipata. Non è la panacea, ma almeno costituisce uno strumento per superare l’illegalità del sovraffollamento e lenire nell’immediato le sofferenze gratuite e insensate che vengono inflitte ai detenuti, senza intaccare i principi generali e neppure la funzione della pena”. Per partecipare all’iniziativa ed essere inseriti nel calendario che è già molto fitto, bisogna inviare una mail a peruncarcereumano@gmail.com indicando nome, cognome, qualifica e giorno in cui si intende digiunare. Riforma la magistratura ma non le carceri: un Governo succube delle toghe di Errico Novi Il Dubbio, 9 luglio 2025 Essere garantisti nel processo penale, ma spietati con i detenuti, significa solo non aver risolto l’anomalia del 1992. Ci siamo, giorno più giorno meno: la separazione delle carriere è vicina al primo giro di boa, a completare la prima navetta. Poi il secondo round da settembre, più svelto, quindi il referendum, se tutto fila liscio, a marzo o aprile 2026. Dopo 34 anni la politica si prenderà la rivincita. Non una vendetta per Mani pulite, ma un ritorno alla normalità, al Parlamento che rivendica il proprio primato sull’ordine giudiziario al punto da riformarlo, senza temere che la magistratura insorga o si vendichi. Perché nelle democrazie, nelle democrazie vere, ognuno sta al proprio posto ed esercita il proprio potere nei limiti e con l’ampiezza consentita dalla Costituzione. Se davvero la sequenza si completerà e avremo un ordinamento giudiziario ridisegnato dalla politica, si realizzerà insomma un riequilibrio. E naturalmente il riequilibrio riguarderà non solo il rapporto fra poteri, ma pure il processo penale nel senso più vero del termine. Un giudice la cui carriera non dipenderà più da un Csm nel quale la vera forza è in mano alle correnti, a loro volta egemonizzate da pubblici ministeri, ecco, questa bizzarria che per l’Anm è assoluta normalità sarà consegnata al passato, e al ricordo di trentaquattro lunghi anni di democrazia a basso tenore. Sarà un riscatto, e un ritorno al vero disegno dei costituenti (basta studiare, per scoprirlo) con ricadute immediate e provvidenziali per qualsiasi cittadino indagato, per chiunque sia destinatario di un processo penale. Chi si troverà sotto accusa avrà davanti a sé un giudice davvero terzo, cioè estraneo al pm, che sarà semplicemente una “parte” al pari della difesa. Punto, a capo. Si chiama garantismo, c’è poco da obiettare. Sebbene la magistratura, legittimamente, insisterà nel parlare di golpe giudiziario, saremo di fronte a una svolta liberale. Auspicabile, attesa dal 1989, dall’introduzione del Codice Vassalli, e finalmente realizzata. Autore della svolta sarà, nel caso, una coalizione di centrodestra che non può definirsi tipicamente garantista e liberale, nel campo della giustizia. Da una parte il governo Meloni, e la maggioranza che sostiene quel governo, spingono per separare le carriere, e hanno alle spalle già altre misure importanti, come i vari provvedimenti contro le intercettazioni a strascico, il divieto di spiare le conversazioni fra avvocati e assistiti e l’abrogazione di un reato troppo paralizzante perché i benefici potessero bilanciarne i costi qual era l’abuso d’ufficio. Ma lo stesso governo e la stessa maggioranza sono stati capaci di inventarsi, uno per tutti, il disumano reato di rivolta in carcere, mente i detenuti soffocano in prigioni sporche, con il wc a fianco ai fornelli dove si cucina, a 45 gradi di temperatura, con un sovraffollamento da galere medievali e, insomma, con un grado di civiltà indegno dell’Occidente progredito. Non solo il governo Meloni e il centrodestra inventano il reato del recluso che perde la calma a fronte della tortura quotidiana inflittagli, ma ancora esitano dal procedere a ridurre almeno di un 7-8 per cento la popolazione detenuta, come avverrebbe in pochi mesi se la legge Giachetti fosse approvata. Da una parte separano le carriere, dall’altra lasciano esplodere le carceri. Garantisti, indiscutibilmente garantisti, su un fronte, crudeli, al limite del disumano, sull’altro. Il punto è che la crudeltà sulle carceri sconfessa la liberazione dalla magistratura onnipotente realizzata con la separazione delle carriere. La riforma Nordio è anche un atto di insubordinazione rispetto alla cultura giustizialista, che inquina, piaccia o no, buona parte della società italiana. È una ribellione, quella riforma, alla deriva iniziata nel ‘92 con Mani pulite. Ma governo e centrodestra, con l’inerzia sulle carceri, dimostrano di non essersi affrancati abbastanza, dalla soggezione a quel giustizialismo, nel momento in cui temono di urtare l’opinione pubblica intransigente con un pur minimo sconto di pena. Si sono liberati dal giogo, insomma, ma fino a un certo punto. L’idea manettara per cui chi sbaglia deve pagare con la reclusione in carceri infernali non si sradica. È ben incistata in una parte dell’elettorato, meloniano e leghista soprattutto, e né FdI né il Carroccio intendono deludere questi “sentimenti”. Siete ancora nelle mani del pool di Milano, cari Meloni, Delmastro, Mantovano e Nordio. Siete ancora prigionieri del loro potere, della loro mitologia. Del capovolgimento di valori provocato dalla “rivoluzione giudiziaria”. La Prima Repubblica sarà pure stata popolata da torve di mariuoli, ma nessun governo di quell’Italia avrebbe mai lasciato che in carcere si suicidasse un centinaio di persone l’anno. Di amnistie e indulti ce ne furono, eccome. E se voi, dalla presidente del Consiglio al sottosegretario alla Giustizia, pensate davvero di ripristinare il primato della politica con la sola separazione delle carriere, sappiate di essere degli illusi: finché lascerete marcire persone in carcere con un sovraffollamento del 130 per cento, quel primato continuerete a lasciarlo nelle mani del dogma forcaiolo e quindi, in ultima analisi, delle Procure. La vostra non sarebbe neppure una rivoluzione a metà, ma solo una subordinazione mascherata. Franco Corbelli (Diritti Civili): “L’emergenza carceri dura da ben 30 anni” lavocecosentina.it, 9 luglio 2025 Il leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, da oltre 30 anni impegnato sul dramma delle carceri, dopo la denuncia, nei giorni scorsi, del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è intervenuto con una nota su La Verità e sul profilo Fb, sulla “emergenza sociale delle prigioni che continua, purtroppo, a far registrare ogni anno un numero impressionante di suicidi e situazioni di grave disagio e sofferenza, in tanti casi particolarmente gravi, disumane e inaccettabili”. “Ha ragione il presidente della Repubblica, è una situazione drammatica. Basta far parlare i numeri per avere un’idea del quadro allarmante che si registra in tutto il Paese, compresa, purtroppo, anche la nostra Calabria. In Italia al 1 luglio 2025 risultano questi dati: tasso di affollamento: 134,19%; totale detenuti: 62.694; posti regolamentari: 51.276; posti disponibili: 46.719. Ma il dato più drammatico e preoccupante è, come dicevo, quello dei suicidi. Sono stati 83 i suicidi nel 2024, numero record negli ultimi 30 anni, da quando viene fatto questo rilevamento statistico. Per quanto riguarda la Calabria i dati diffusi dal Garante regionale un anno fa e relativi ai primi sei mesi del 2024, quelli di cui si ha notizia, sono i seguenti: 3 suicidi, 5306 eventi critici di cui, oltre i 3 suicidi, 80 tentati suicidi, 225 atti di autolesionismo e 75 aggressioni fisiche”. Corbelli, che condivide e apprezza la denuncia del capo dello Stato, ricorda “come, purtroppo, questa drammatica emergenza delle carceri è la stessa da oltre 30 anni, che non è cambiato nulla in tutti questi anni. Per denunciare questo dramma delle prigioni fondai, a Cosenza, nella mia città, alla fine del 1994, ancora prima di costituire poi (nel giugno del 1995) il Movimento Diritti Civili, il Comitato per i diritti dei detenuti e iniziai le prime battaglie e manifestazioni in Calabria, e a seguire in altre regioni, davanti al carcere di Napoli e di altre città e di fronte alle massime sedi istituzionali a Roma (Camera, Senato e Quirinale). Decine e decine sono stati i detenuti, tanti malati e vittime di ingiustizie, che ho fatto scarcerare in questi 30 anni. Di questi numerosi anche quelli stranieri, di diversi Paesi di ben tre Continenti (Europa, Africa e Asia). Denunciai nel febbraio del 1995, con una intervista al New York Times, che dedicò una inchiesta al tema drammatico delle carceri italiane, le condizioni da terzo mondo delle prigioni del nostro Paese, il dramma dei suicidi, dei malati in cella e del grave problema del sovraffollamento, senza naturalmente dimenticare le difficili condizioni nelle quali sono costretti ad operare, e con carenza di organico, gli agenti penitenziari. Denunce e proteste che, come viene ricordato e documentato nelle pagine del nostro sito www.diritticivili.it e, in parte, nel profilo Fb, ho sempre continuato a fare nel corso degli anni, occupando in una circostanza (era il 27 dicembre 2005) finanche il Parlamento, lanciando dal palchetto del pubblico della Camera, volantini sui deputati, per richiamare l’attenzione sulla disumanità delle prigioni e in particolare dei bambini in cella con le loro giovani madri detenute. Problema, questo dei bimbi, purtroppo ancora ad oggi irrisolto. Venni prelevato, in quella circostanza, dai commessi della Camera e portato fuori di peso dall’aula di Montecitorio. Oggi purtroppo, concordo con il presidente Mattarella, la situazione nelle carceri è gravissima e rappresenta una vera emergenza sociale. Questo significa che sono passati 30 anni, purtroppo, inutilmente. Mi auguro che questo governo affronti, così come mi pare ha intenzione di fare il ministro della Giustizia, Nordio, questa emergenza sociale e dia le giuste e adeguate risposte di giustizia, civiltà e umanità”. Carceri, Blengino (Radicali): “Raccolte firme bipartisan al nostro appello” di Michele Perseni L’Opinione, 9 luglio 2025 I Radicali italiani lanciano l’allarme carceri. Filippo Blengino sottolinea che il partito ha “promosso, in queste ore, un appello urgente rivolto a tutti i parlamentari per affrontare l’emergenza del sistema penitenziario italiano”. Il segretario dei Radicali italiani ricorda che “l’appello, che richiama il monito del presidente Sergio Mattarella, sottolinea la necessità di intervenire urgentemente per rispondere alla crisi strutturale delle carceri italiane, nel rispetto della Costituzione e dei diritti umani. Diversi parlamentari - prosegue Blengino - hanno già aderito, tra cui Riccardo Magi e Benedetto Della Vedova (+Europa), Michele Fina (Pd), Marco Grimaldi (Sinistra italiana), Fabrizio Benzoni (Azione), Tommaso Calderone (Forza Italia) e Roberto Giachetti (Italia viva). Nelle prossime ore l’appello verrà trasmesso a tutti i deputati e senatori”. Per Blengino, “la situazione è insostenibile. Il sovraffollamento, insieme alle altre criticità del sistema penitenziario, ha trasformato le carceri in fucine di morte, dove la disumanità regna. Una tale condizione è incompatibile con lo Stato di diritto. A tutte le forze politiche spetta ora il dovere di restituire legalità al sistema penitenziario”. Frattanto, Carlo Nordio ha parlato di “un 15 per cento di eccedenza delle presenze” nelle carceri. Lo ha detto venerdì scorso il ministro della Giustizia, a margine di un incontro a Lignano Sabbiadoro, in provincia di Udine. Ma per il Guardasigilli la “soluzione non può essere una liberazione lineare e incondizionata perché sarebbe una resa dello Stato”. Sul tema, ha ricordato: “Noi stiamo agendo in tre direzioni. Quella di far espiare la pena ai detenuti stranieri, che sono circa il 20 per cento dei nostri detenuti, nei Paesi di origine; poi una detenzione differenziata per i tossicodipendenti, che più che essere criminali da punire sono malati da curare; e infine, e forse la più importante di tutte, la riforma della custodia cautelare; perché il 15-20 per cento dei detenuti non è sotto sentenza definitiva e molti di questi, circa la metà, alla fine vengono prosciolti e quindi la loro detenzione si rivela ingiustificata”. Come ha ricordato Nordio, si tratta di “cifre importanti e intervenendo su questi tre settori, anche riducendo la metà di queste criticità, avremo abbondantemente risolto il problema”. Per affrontare il caldo nelle carceri in questi giorni, ha aggiunto, “si fa il possibile; questo dipende dai vari direttori penitenziari che sono molto sensibili alla salute sia della polizia penitenziaria sia dei detenuti. Purtroppo questa ondata di calore non guarda in faccia nessuno” e non si può porre rimedio “con provvedimenti di urgenza”. C’è una richiesta di condizionatori, ha concluso, “e facciamo di tutto per farglieli avere”. Carcere, suicidio in una Casa di lavoro di Giulia Melani Il Manifesto, 9 luglio 2025 “Internati si chiamavano gli ebrei nei campi di concentramento, non sarà un caso. Cà nun s’esce mai”. Con queste parole, nel maggio 2023, una delle persone sottoposte alla misura di sicurezza della Casa di lavoro - un internato, appunto - provava a restituire a un gruppo di ricercatrici e ricercatori de La società della Ragione, la violenza e la profonda ingiustizia della misura di sicurezza detentiva per imputabili. La casa di lavoro è una duplicazione della pena detentiva, che scatta per una sparuta minoranza di persone - le persone internate oscillano tra 200 e 300 in Italia, a fronte di una popolazione detenuta che negli ultimi anni varia tra 50.000 e 65.000 detenuti - dopo aver integralmente scontato la propria condanna. Una “integrazione dei mezzi repressivi”, come la definiva il Guardasigilli Rocco, invenzione di un regime autoritario. Queste poche persone - etichettate, con i termini lombrosiani e del positivismo criminologico che ancora albergano nel nostro Codice penale, “delinquenti abituali”, “professionali” o “per tendenza” - si trovano per un tempo indeterminato sottoposte a misure di privazione della libertà personale, in sezioni degli istituti penitenziari a loro dedicate, costantemente soggetti a possibili proroghe, a prescindere dalla propria condotta all’interno dell’istituzione. Gli internati sono detenuti con minori diritti e con affievolita speranza. Addirittura nel codice si definiscono “di indole particolarmente malvagia”. Si chiamano case di lavoro, perché ambivano a rieducare attraverso il lavoro, arbeit macht frei era l’ideologia di fondo, ma - per quanto questa ideologia sia criticabile - oggi occorre rilevare che il lavoro, in casa di lavoro, non c’è e che, in queste strutture, non è infrequente che siano presenti persone inabili al lavoro. Qualche giorno fa, il 3 luglio 2025, presso la casa di lavoro di Aversa, nel corso del Convegno “Delinquenti abituali, professionali o per tendenza - dall’art. 216 del Codice penale alla garanzia di appropriate risposte ai bisogni sociosanitari individuali”, il Procuratore generale della Corte d’appello di Napoli, Aldo Policastro, ha affermato che la misura di sicurezza “è archeologia criminale, è un intendere il rapporto tra società e devianza, nei termini della contenzione”. Un concetto ribadito, in quel consesso, anche da Paola Cervo, magistrata di sorveglianza presso il Tribunale di sorveglianza di Napoli, che ha ricordato che le norme che disciplinano le misure di sicurezza sono “retaggio del legislatore fascista” e che risentono dell’impostazione di quel legislatore: “Per cui certe persone turbavano l’ordine sociale, turbavano il buon costume, la vita tranquilla dei consociati e quindi andavano prese e tolte di mezzo”. Contenzione, annientamento, esclusione, sembrano le parole chiave di questa misura che, come ha ricordato in numerose occasioni l’arcivescovo di Chieti-Vasto, Bruno Forte, “dovrebbe far vergognare una democrazia fondata sui principi del rispetto della dignità di ogni persona e della solidarietà verso i più deboli, sanciti nella nostra Costituzione repubblicana”. Una misura che deve essere cancellata, senza indugi. Nella scorsa legislatura e nell’attuale, l’on Magi ha depositato un disegno di legge (A.C. 158 - XIX legislatura), che prevede la cancellazione della misura di sicurezza detentiva per imputabili e la revisione della libertà vigilata, una proposta che deve essere ripresa e sostenuta da una più larga schiera di parlamentari e che dev’essere promossa da associazioni, attivisti e movimenti. Intanto, la tragica realtà bussa alle nostre porte ed è notizia recente che una persona di quarant’anni nella casa di lavoro di Vasto si sia tolta la vita. È la trentanovesima persona a scegliere il suicidio nel sistema penitenziario italiano, dall’inizio dell’anno. Non si può tacere. Carceri, nel 2024 hanno lasciato il servizio 4.000 agenti, solo 2.700 le nuove assunzioni di David Ruffini Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2025 Ambiente di lavoro insostenibile. Il problema non si riduce alla quantità dei detenuti, ma riguarda la qualità del lavoro, la gestione interna e le condizioni umane dentro ciascun istituto. Brissogne, un piccolo comune in Valle d’Aosta, ospita l’unica Casa circondariale della regione: in località Les Îles, attiva dal 1984. Uno dei pochi istituti italiani a non versare in una situazione di sovraffollamento. Al suo interno, sopra la scrivania della direttrice, c’è una busta contenente le dimissioni di un giovane agente di Polizia penitenziaria, in cui viene annunciata non solo la sua intenzione di lasciare il carcere di Aosta, ma quella più generale di ritirarsi dal corpo di Polizia Penitenziaria. Nella lettera di dimissioni vengono denunciate le condizioni lavorative a cui era sottoposto il giovane: carico di lavoro eccessivo, mancanza di chiarezza nei ruoli, pessimo equilibrio tra vita personale e lavoro e, infine, tossicità nell’ambiente lavorativo, con abusi da parte dei superiori gerarchici, aggiungendo la richiesta affinché le dimissioni vengano approvate nel più breve tempo possibile. Nel 2024, sono state 4.000 le unità di polizia penitenziarie uscite dal servizio, per raggiungimento del limite di età o per inidoneità legata allo stress da lavoro, tanto che la CGIL si è spinta a definire il fenomeno una “emorragia di personale”. A fronte dei 4.000 agenti che hanno lasciato il loro servizio, sono solamente 2.700 le nuove assunzioni, segnando un bilancio negativo già in partenza. Ciò che è diminuito è anche la quota di desiderosi di entrare nel corpo della Polizia Penitenziaria; infatti, per la prima volta, il numero di posti messi a concorso è maggiore degli aspiranti agenti. Circa il 25% di chi vince il concorso interno per diventare sovrintendente rifiuta successivamente il ruolo, mentre il 5% lascia direttamente il corso da ispettore. Rispetto all’anno precedente, sembrerebbe esserci un aumento del rapporto tra detenuti e agenti. Aumento che dovrebbe essere compensato dai nuovi concorsi emessi per l’assunzione di nuove unità, nonostante la scarsa partecipazione agli stessi, come evidenziato dalla CGIL precedentemente. Nonostante in Italia si sia posto l’obiettivo di 1.5, in media, ci sono 2 detenuti per ciascun agente di polizia penitenziaria, ma il quadro è eterogeneo e sbilanciato rispetto a ogni singolo istituto. Non sono, infatti, rare le strutture che presentano un numero di agenti effettivi in surplus rispetto a quelli previsti, mentre altre si trovano in gravi deficit e devono fare i conti con le conseguenze del fenomeno. A livello regionale, il valore effettivo rispetto al target di 1.5 detenuti per agente, varia drasticamente, passando da 1.2 a 2.5, secondo il territorio in esame: Lombardia, Lazio e Umbria, sono le regioni con il rapporto tra popolazione carceraria e unità di polizia penitenziaria più elevato, con valori rispettivamente pari 2.44, 2.42 e 2.45. I valori variano soprattutto aumentando il dettaglio dell’analisi: esistono istituti che sfiorano i 3 detenuti per agente, come quelli di Siracusa, Aversa, Rieti, Pavia o Bollate, mentre altri vedono i propri agenti avere meno di un detenuto a testa, come avviene a Sciacca, Alba, Melfi, Fossombrone o Grosseto. Gli istituti che presentano un numero maggiore di detenuti - è possibile osservarli dalla tabella, ordinando per “totale detenuti”, o dallo scatter plot, spostandosi a destra sull’asse delle ascisse - sono tra quelli che presentano anche un numero di detenuti per ciascun agente più elevato. Il carcere di Bollate, con un numero di detenuti totali pari a 1.389, presenta un rapporto tra detenuti e agenti di 2.77, rientrando tra le cinque strutture con il valore più elevato, come visto precedentemente. Un carcere non sovraffollato non è sinonimo di carcere sano, semmai possa esisterne uno. Il caso di Brissogne, dove, nonostante i numeri sotto controllo, un giovane agente ha deciso di lasciare il servizio, denunciando un ambiente di lavoro insostenibile, potrebbe esserne la prova. Quel gesto potrebbe segnalare che il problema non si riduce alla quantità dei detenuti, ma riguarda la qualità del lavoro, la gestione interna e le condizioni umane dentro ciascun istituto. La carenza di personale, la scarsa attrattività del ruolo e l’inefficiente distribuzione degli agenti sul territorio nazionale stanno mettendo a dura prova l’intero sistema e il rischio è che, senza interventi concreti, la crisi continui a spostarsi da un indicatore all’altro, senza mai risolversi davvero. “Il carcere oggi è un luogo pericoloso e violento, come in Brasile 20 anni fa” di David Allegranti La Nazione, 9 luglio 2025 “La violenza è endemica, lo Stato non riesce a garantire la sicurezza”. Il sovraffollamento non è il solo problema. L’ora d’aria a 40 gradi è un forno crematorio. “Le carceri sono ormai un luogo pericolosissimo. Sono piazze di spaccio. Il sovraffollamento è soltanto uno dei problemi”, ci dice Emilio Santoro, ordinario di filosofia del diritto all’Università di Firenze. Emergono violenze risalenti a diversi anni fa: 2020, 2023. Nemmeno il carcere è un posto sicuro. Non è assurdo? “Che il rischio di violenza dentro il carcere ci sia è fisiologico. Ma se c’è un posto in cui lo Stato dovrebbe avere il controllo assoluto è dentro il carcere. Che uno Stato non sia in grado di garantire la sicurezza ai detenuti è un fallimento. Venticinque-ventisei anni fa, quando facevo ricerca sulle carceri brasiliane, mi è capitato più volte che il direttore dovesse andare a parlare con i capi dei clan per garantire la mia sicurezza. Nelle carceri brasiliane non mi succede più, invece mi accade ancora in alcune favelas, quando entro con gli operatori sociali. Quantomeno lo Stato brasiliano negli ultimi vent’anni ha recuperato il controllo degli istituti penitenziari”. Le carceri italiane come quelle brasiliane di vent’anni fa? “Esatto. E se un procuratore della Repubblica dice che le carceri non sono luoghi sicuri vuol dire che lo Stato è allo sbando. Bisogna dare un grande merito al dottor Tescaroli, che è quello di voler trattare i detenuti non come cittadini di serie B la cui incolumità non ci interessa. Se le procure si mettessero a fare inchieste a tappeto dentro le carceri emergerebbero violenze dappertutto. C’è una violenza endemica, fuori controllo. Tescaroli ha voluto vedere con i propri occhi se lo Stato è in grado di garantire l’incolumità dei detenuti. D’altronde, se ci fosse una violenza endemica per le strade, chiunque andrebbe a indagare”. Dentro le carceri invece non diamo peso a quel che accade... “Le rivolte del 4 giugno e del 5 luglio dicono che l’aggravio della pena per la resistenza al pubblico ufficiale e per la resistenza passiva non sono gli strumenti di governo del carcere. Non è che se io, detenuto, prendo un anno-due anni in più non commetto più resistenza al pubblico ufficiale o non aggredisco la polizia penitenziaria. Anzi: il rischio è che l’aggredisca più violentemente, perché a quel punto la differenza della pena diventa irrilevante. Pensare di governare un posto dove tu, Stato, dovresti avere il controllo assoluto, con l’aggravio dei reati, serve solo a rendere più barbarica la vita lì dentro”. Il sovraffollamento quindi non è il solo problema del carcere... “A Prato non è l’elemento principale, anche perché il sovraffollamento alla Dogaia è al limite. Quel limite assurdo sancito dai 3 metri calpestabili per ogni detenuto. Ma una vita di 20 ore su 24 dentro una cella in cui hai 3 metri a testa calpestabili e in mesi come questi, in cui sono quasi 40 gradi, è infernale. L’ora d’aria dalle 2 alle 4 di pomeriggio in un cortile di cemento diventa il soggiorno in un forno crematorio. Per questo nessuno va a fare l’ora d’aria e i detenuti stanno in cella 24 ore su 24”. L’associazione che ha fondato, Altro Diritto, è stata nel carcere di Prato? “Da un mese e mezzo gli agenti ci dicono - come un tempo nelle carceri brasiliane - che non possiamo entrare in nessuno dei quattro piani della media sicurezza perché non sono in grado di garantire la nostra incolumità. Una nostra operatrice, dopo aver aspettato un paio d’ore per vedere se la situazione migliorava, se n’è andata perché c’erano 38 gradi e stava svenendo per il caldo. In un altro carcere non hanno comprato dei ventilatori perché avevano paura che potessero essere usati come arma. Questo significa che lo Stato è talmente non in grado di governare un carcere che come conseguenza non riesce a garantire una vita minimamente dignitosa ai detenuti”. Giustizia a tappe forzate: la riforma costituzionale va più veloce di una legge ordinaria di Alessandro De Angelis La Stampa, 9 luglio 2025 Date e fatti raccontano di una sequenza di forzature senza precedenti. Ieri il penultimo atto, peraltro nel giorno in cui il rapporto della commissione Ue sullo Stato di diritto certifica come in Italia cresce la fiducia nella giustizia e la percezione della sua indipendenza. Nel corso di una riunione sui lavori a palazzo Madama, la maggioranza ha stabilito di “contingentare” i tempi proprio sulla riforma della giustizia che introduce la separazione delle carriere. Trenta ore di dibattito in Aula, non una di più. Significa, poiché in calendario c’è anche altro, che l’ultimo atto, ovvero l’approvazione, si celebrerà entro la fine del mese. Prima della pausa estiva. Fine della discussione. “Riforma della giustizia a ogni costo, la voleva pure Falcone”: il convegno con Sisto e Zangrillo In verità, la discussione non è mai iniziata. A costo di essere un po’ pedanti con procedure e calendario, ripartiamo dall’inizio. La riforma che il guardasigilli Carlo Nordio, dopo la prima stesura, dedicò a Silvio Berlusconi, viene approvata dal Consiglio dei ministri a fine maggio del 2024, giusto in tempo per le Europee, senza tanti confronti con le toghe e neppure informali col Quirinale. Trasmessa a giugno alla Camera, tra pausa estiva, commissione e Aula, viene approvata il successivo 16 gennaio. Un tempo che si riserva alle priorità assolute, possibile grazie a una “blindatura del testo”. A Palazzo Madama arriva a gennaio. Anche lì è immodificabile. Dalle opposizioni, ma anche dalla stessa maggioranza. Per non perdere tempo, non viene cambiata neanche la parte che prevede il sorteggio per l’elezione dei membri del Csm, per alcuni in odore di incostituzionalità, altrimenti dopo l’approvazione sarebbe dovuta passare di nuovo alla Camera. Si dice: se va cambiato quel punto, facciamo un provvedimento a parte “dopo”. Morale della favola, è un percorso che condensa diversi record. Primo: non ci sono esempi, consultando i precedenti, di riforma costituzionali che, da quando entrano a quando escono, non vengono modificate di una sola virgola. Secondo: non ci sono precedenti di una riforma approvata in due sole letture, prima della cosiddetta “doppia conforme” (un passaggio alla Camera e una al Senato, solo su un sì o un no, senza entrare nel merito); anche Matteo Renzi, che pure andò di corsa sulla sua riforma costituzionale, ne fece tre, prima della “doppia conforme”. Terzo: mai è stato usato in commissione - Renzi lo utilizzò solo in Aula - il cosiddetto “canguro”, quella diavoleria che consente di far decadere, d’un sol colpo, un insieme di emendamenti. Qui è stato usato in commissione a palazzo Madama, con una certa discrezionalità, poiché la sua disciplina trova appiglio nel regolamento della Camera. Quarto: la riforma, altra novità, è stata spedita in Aula “senza relatore” anche se i lavori in commissione non erano terminati. Insomma, è la prima volta che una riforma costituzionale va più spedita addirittura di una legge ordinaria. Secondo i dati Openpolis, i tempi medi di una legge normale sono di 356 giorni. Le prime due letture di questa “madre di tutte le riforme”, a conti fatti, sono durate meno. E l’iter complessivo sarà più breve di un’altra legge bandiera che sta molto a cuore al governo: il decreto sicurezza, licenziato in cdm nel novembre 2023 e approvato in via definitiva nella primavera del 2025. C’è poco da fare: anche se cade il mondo (e ci siamo quasi), non si può rallentare una riforma concepita come una storica resa dei conti con le toghe sacrificando ai tempi quell’antica grammatica secondo cui, quando si tocca la Costituzione, è bene privilegiare il confronto, l’ascolto, la ricerca di punti di equilibrio. Andando avanti così, si può approvare entro ottobre, per poi andare al referendum confermativo (senza quorum) il prossimo anno. È la storia di una clava. Come metodo perseguito. Come merito, per come impatta sull’indipendenza della magistratura. Come strumento a disposizione per il nuovo Csm, quando a fine del 2026 quello attuale, disegnato con le vecchie regole, scadrà. E come simbolo, che tiene dentro più piani di racconto, a partire da quello di un governo che realizza le riforme. Vuoi mettere poi, ad aprire col referendum costituzionale la lunga campagna elettorale che porta alle politiche del 2027. È lo spartito perfetto: abbiamo fatto il possibile, se non siamo riusciti a fare delle cose non è colpa nostra, ma dei giudici che ce lo hanno impedito… Se, come ultimo atto, si approverà anche il premierato è perfetto. Riscritti i poteri, per poi chiedere nuovo potere Carriere separate, la storia infinita della riforma simbolo di Valentina Stella Il Dubbio, 9 luglio 2025 Ieri l’ennesimo scontro in Senato tra maggioranza e opposizione. Semaforo verde tra il 16 e il 23 luglio. “The neverending story” era la famosa colonna sonora, cantata da Limahl, musicista britannico di origini francese, resa nota al mondo intero dall’omonimo film di fantascienza del 1984. Ma adesso potremmo dire che rappresenta anche a pieno il racconto parlamentare sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere. Eh già, perché ieri per l’ennesima volta abbiamo assistito nell’Aula del Senato al solito scontro tra maggioranza e opposizione sulle tempistiche che ci avvicinano all’approvazione del provvedimento in seconda lettura. Infatti la capigruppo che si è tenuta dalle 13 e per un paio di ore ha stabilito “il contingentamento dei tempi per un totale di trenta ore, escluse le dichiarazioni di voto” così come comunicato dal presidente di Palazzo Madama, Ignazio La Russa, in apertura di seduta, scatenando le reazioni dei partiti di minoranza. Non si sa ancora bene quando il testo passerà definitivamente in Senato: si ipotizza o il 16 o il 23 luglio. Oggi, intanto, ci sarà nuovamente una riunione della conferenza dei capigruppo per definire il calendario fino alla pausa estiva e proseguirà l’esame degli emendamenti alla riforma, sempre applicando lo strumento del ‘canguro’. Di “aberrazione” rispetto alla decisione presa ha parlato il presidente dei senatori del Movimento cinque stelle, Stefano Patuanelli e ha aggiunto: “magari fossero 30 ore, saranno 12 o 13, quelle che hanno a disposizione le opposizioni” a maggior ragione che per il pentastellato si tratta di una riforma arrivata già blindata prima in commissione Affari Costituzionali e poi in Aula. “Il contingentamento è assurdo, irragionevole e controproducente per una riforma costituzionale. Noi avremmo voluto discutere nel merito e anche cercare di individuare soluzioni come quelle che noi abbiamo proposto per accorciare davvero i tempi della giustizia. Tutto ciò non è stato possibile”, ha detto sempre in Aula, intervenendo sull’ordine dei lavori Andrea Giorgis, capogruppo dem nella prima commissione. “Umiliazione del Parlamento” è stata invece l’espressione utilizzata da Francesco Boccia, capogruppo del Partito democratico in Senato. Peppe De Cristofaro, di Alleanza verdi e sinistra, sostenendo di condividere la posizione del Pd e M5s, ha descritto quanto avvenuto come “una ennesima forzatura” nei confronti “di una riforma istituzionale che impatta pure su un altro potere dello Stato”, ossia la magistratura. Critica anche Italia Viva che con la senatrice Silvia Fregolent che ha parlato di “ennesimo schiaffo”. Invece il capogruppo di Forza Italia, Maurizio Gasparri, ha rispedito al mittente le accuse: “Nessuna compressione dei tempi, anzi c’è una dilatazione”. La maggioranza in capigruppo aveva infatti proposto una soluzione sul timing più stringente: “prendiamo atto delle 30 ore”, fissare il voto “per giovedì non era un termine oppressivo, ma prendo atto della decisione” assunta, ha concluso il forzista. Il solito ping pong tra maggioranza e opposizione è come al solito stato spezzato dal fatto che anche ieri questa volte per due volte è mancato il numero legale a causa dell’assenza di molti senatori dei partiti ‘ azionisti’ di Governo e quindi la seduta è stata sospesa alle 17 e alle 19 per poi riprendere dopo circa una mezz’oretta. Per questo non è stato possibile da parte dell’emiciclo concludere l’esame di tutti gli emendamenti all’articolo 3 del ddl Nordio, quello che prevede l’istituzione di due Csm, uno per i giudici e uno per i pubblici ministeri, e il sorteggio per i membri togati e laici dei possibili futuri governi autonomi delle magistrature. Comunque qualche ora o giorni in più concessi alla discussione non dovrebbero cambiare la tabella di marcia della riforma. La modifica dell’ordinamento giudiziario dopo l’approvazione in Senato che quindi avverrà sicuramente entro questo mese, sbarcherà poi nuovamente alla Camera tra settembre e ottobre per l’inizio della seconda fase di deliberazione. L’auspicio di Governo e maggioranza è che abbia poi il placet definitivoo di nuovo a Palazzo Madama prima della legge di Bilancio, in modo che, come ribadito anche dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio due sere fa alla trasmissione di Rete4 Quarta Repubblica, si giunga al referendum all’inizio del 2026. “Sulla riforma andiamo avanti, sicuramente la faremo”, ha assicurato il Guardasigilli, ospite di Nicola Porro. Il Decreto (in)Sicurezza tra repressione del disagio e controllo sociale di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 9 luglio 2025 E alla fine, il cerchio si è chiuso (e la Cassazione se n’è accorta a metà). Il Decreto (in) Sicurezza è pervaso dalla logica della prevenzione e la travasa nella materia penale, realizzando così i timori di chi, da tempo, denuncia il fatale abbraccio tra i due ambiti, che sta soffocando le consolidate conquiste del diritto penale liberale e del giusto processo, creando forme di ibridazione degne della mente di Lovecraft. Lo testimonia il ritorno, e il loro debutto sulla “scena del delitto”, di figure criminologiche assai affini agli oziosi e vagabondi, espulsi persino dalla legislazione di prevenzione sin dal 1988. Il manifesto programmatico dei soggetti ai quali le misure di prevenzione erano destinate: persone che non avevano commesso alcun reato, ma che “pretendevano di vivere senza poter dar conto di come vivessero”. E che, paradigmaticamente, non facevano niente ed erano difficilmente controllabili. Soggetti che quasi non esistono più e che sono stati soppiantati, nella nostra epoca, da coloro che tengono condotte antagoniste, migrano, si spostano senza controllo sul territorio, sono disobbedienti senza necessariamente commettere reati. A questa nuove categorie di socialmente pericolosi sono rivolte le attenzioni del governo, che però, è questa la novità, le disciplina usando lo strumento penale, ma con la logica della prevenzione. Apprestando sanzione penale a comportamenti che mai avrebbero potuto costituire reato, se non rimuovendo dalla Costituzione, come pare essere avvenuto, i principali corollari della legalità (tipicità, tassatività, determinatezza, offensività). Il cambio di prospettiva è allarmante, specie perché la riforma è evidentemente sbilanciata a favore del potere autoritativo pubblico rispetto all’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti, segnando così una decisa inversione dei rapporti tra libertas e auctoritas. Sono state, infatti, introdotte norme che puniscono la protesta anche pacifica, configurandola come reato, soprattutto quando avviene in luoghi solo approssimativamente determinati. Si arriva a punire i detenuti che, ad esempio, rifiutino il cibo o non vogliano usufruire dell’ora d’aria; i lavoratori in sciopero che picchettino una strada; coloro che “resistano passivamente” alle azioni di forza dell’autorità di polizia. È prevista l’adozione di reazioni penali nei confronti di soggetti tradizionalmente destinatari delle misure di prevenzione pre-unitarie: ricompare, ad esempio, la figura di reato dell’accattonaggio. È stata dunque confezionata la criminalizzazione del dissenso, la cui offensività è connessa al luogo di manifestazione piuttosto che alla condotta. E, correlativamente, è stata ampliata e deformalizzata (secondo gli stilemi tipici dello strumento di prevenzione) la possibilità di creare sempre nuovi “luoghi” nei quali tutto può essere considerato reato. L’inasprimento e la sempre maggiore diffusione delle “zone rosse” moltiplica l’effetto di sospensione e negazione delle libertà di movimento e libera manifestazione del pensiero, non solo rimuovendo dalla vista i soggetti portatori di disagio sociale ed emarginazione, ma - ed è questa la vera ratio sottesa alla riforma - allargando sempre di più l’ambito dell’eccezione. Secondo la medesima logica che ha ispirato tutte le recenti riforme in materia di prevenzione, l’esigenza di anticipare le soglie di tutela in ragione delle peculiari caratteristiche di un luogo (il carcere, le vie di comunicazione o altro) e, quindi, la legittimazione stessa di introdurre uno stato di eccezione, viene seguita dalla pletorizzazione dei “luoghi sensibili”. E così, l’eccezione diventa regola. Se ne è accorta la Corte di Cassazione, ponendo l’accento sulla dubbia costituzionalità di alcune delle previsioni penali del Decreto Sicurezza, ma con la responsabilità di aver nuovamente chiuso gli occhi sulle riforme in materia di prevenzione. Vi sono, infatti, modifiche al testo unico antimafia che appaiono di indubbio contrasto con la Costituzione, come ad esempio la risoluzione di diritto di tutti i rapporti di lavoro intercorrenti tra una azienda confiscata e i parenti o gli affini del proposto, come abbiamo già scritto su questo giornale. Oppure quelle che interessano il Daspo urbano o il DACUR (acronimo di Divieto di accesso alle aree urbane), misure di prevenzione che ora devono essere obbligatoriamente disposte dal giudice penale, ai sensi del novellato art. 165 del codice, in caso di condanna per un reato contro il patrimonio o la persona, commesso in determinati luoghi, nonostante la concessione della sospensione condizionale della pena. Con questa norma può dirsi portato a compimento il processo di contaminazione della prevenzione nei confronti del diritto penale e delle regole di giudizio proprie del processo penale: spetta al Giudice penale senza discrezionalità, il compito di applicare una misura di prevenzione di competenza del Questore, anche se ha ritenuto, con la condanna sospesa, che il condannato in futuro non commetterà reati. Su queste e altre manifestamente illogiche disposizioni, l’Ufficio del massimario si sofferma appena, avallandole in forza della “specialità” della materia. Passa, così, sotto silenzio l’aspetto più preoccupante della riforma: l’eccezionalità della prevenzione sta permeando il diritto penale e i due ambiti si stanno ormai fondendo, non solo più quanto agli effetti, ma ora anche quanto agli ambiti di applicazione. Il pericolo - neanche più della persona, ma del luogo - è divenuto la giustificazione della sanzione penale, senza offesa concreta. Sui presupposti della prevenzione, ormai si applicano pene. E le riforme del Testo Unico, sempre più improntate alla devastazione cieca del campo di intervento, sono solo l’immagine del diritto penale che da qui a breve verrà. Ecco perché continuare a giustificare l’eccezionalità delle misure di prevenzione significa avere un approccio miope e di convenienza al problema: è questo sistema saprofitico, abbarbicato a quello penale, che sta svuotando di effettività tutte le garanzie costituzionali che, negli ultimi otto decenni, hanno definito il diritto penale non solo come giustificazione, ma soprattutto come limite alla pretesa punitiva pubblica. *Osservatorio misure patrimoniali e di prevenzione dell’Unione Camere Penali Italiane Gherardo Colombo: “La giustizia non può piegarsi all’obbedienza” di Rocco Vazzana Il Manifesto, 9 luglio 2025 Il Governo ha una visione “gerarchica” della società. La separazione delle carriere è figlia di questa concezione. Per Gherardo Colombo, ex componente del Pool di Mani pulite, il vero obiettivo del governo è quello di “abolire l’obbligatorietà dell’azione penale”. Il presidente del Senato La Russa ha annunciato il contingentamento dei tempi sulla separazione delle carriere. La riforma è urgente per il corretto funzionamento della giustizia e della magistratura? Ma guardi, secondo me sarebbe un tema da affrontare in una prospettiva esattamente opposta. In che senso? Secondo me in una logica che riguarda la tutela effettiva del cittadino nei confronti di questa forza, di questo potere così invasivo da parte dell’autorità giudiziaria, sarebbe necessario che il pubblico ministero ragionasse per davvero come il giudice, cioè che avesse come finalità e scopo quello dell’esatta applicazione della legge. Tant’è che il codice di procedura penale prevede che il pubblico ministero deve cercare anche le prove a favore dell’indagato. E questo nella realtà avviene raramente... Nella realtà avviene, ma avviene anche sempre più l’opposto: il pubblico ministero si avvia a diventare esclusivamente un organo di accusa, che quindi ha un interesse a ottenere una condanna. Ma quanto più la figura del pubblico ministero si distacca dalla cultura della ricostruzione imparziale dei fatti, dalla cultura della giurisdizione, quella del giudice, tanto più il cittadino si trova di fronte non a un organo che abbia l’obiettivo di tutelare le garanzie, ma a un organo che usa il suo potere di invadere la libertà con l’obiettivo di vincere la causa. La riforma pensata da Nordio potrebbe fornire qualche garanzia in più al cittadino? Bisognerebbe semplicemente fare in modo che il pm faccia il giudice in un collegio prima di svolgere la funzione di pubblico ministero. Se ciò non avviene significa però che le carriere sono già di fatto separate? In effetti è così, nel senso che oggi è possibile passare da una funzione all’altra solo una volta nella vita. Quindi mi pare che buona parte del dibattito sia sterile. Però per trovarsi davanti a un pm che abbia la stessa cultura del giudice è indispensabile che il Consiglio superiore della magistratura sia unico. Ampliamo un attimo il discorso: l’articolo 112 della Costituzione dice che l’azione penale è obbligatoria. Significa, in altre parole, che il pubblico ministero è obbligato a portare davanti al giudice qualsiasi notizia di reato che gli arriva. Cioè non può decidere se archiviare, deve chiedere al giudice, che può dire di no. Io credo che il passo successivo a questa riforma sarà quello di modificare anche l’articolo 112 della Costituzione, abolire l’obbligatorietà dell’azione penale. Condivide le preoccupazioni dell’Anm sul rischio di assoggettare il pm alla politica? Sì. Il meccanismo che attualmente scongiura questo rischio è di avere lo stesso Consiglio superiore della magistratura, appartenere alla stessa istituzione. Non crede che l’istituzione di un’Alta corte terza che giudichi in maniera indipendente l’operato dei magistrati possa contenere elementi positivi e liberare la categoria da sospetti di corporativismo? Tutte le corporazioni, perché in effetti sono tali, tendono a autotutelarsi. Credo che soprattutto in passato questa autotutela dei magistrati si sia fatta sentire molto. Secondo me le cose sono un po’ migliorate, ma in ogni caso è un problema. È un problema che riguarda la valutazione della disciplina da parte della stessa corporazione. Sicuramente sarebbe necessario intervenire, ma sono convinto che molto più delle norme conti la cultura, cioè il modo di intendere. Perché non si può agire in maniera drastica e invasiva sulla autonomia della magistratura. Provi a pensare a cosa accadrebbe se una cosa del genere venisse anche soltanto prospettata per quel che riguarda la disciplina degli altri organi costituzionali. Non solo. Questo problema evidentemente riguarda tutte le corporazioni. La differenza con qualsiasi altro tipo di corporazione è che un magistrato esercita un potere enorme che ha a che fare con la libertà dei cittadini... È vero, ma è un problema comune anche ad altre categorie. Anche la stampa ha un potere enorme in questo senso. Se vuole ancora più incisivo, perché la giurisdizione interviene sui casi specifici singoli e invece la possibilità di influenzare la pubblica opinione attraverso l’esercizio dell’informazione riguarda la generalità dei soggetti cui i media si rivolgono. Perché secondo lei per l’attuale maggioranza di governo questa riforma è prioritaria? Alla fin fine ai governi non è mai piaciuto il controllo esercitato dalla magistratura. Perché l’esecutivo è l’erede diretto del sovrano assoluto. Dà fastidio il controllo da parte di un organo indipendente nei confronti di chi partecipa al governo. Dà fastidio a tutti essere controllati. Dà fastidio a chi esercita una funzione pubblica, qualunque essa sia. Basta guardare alle misure che via via vengono introdotte, come il decreto sicurezza. Sono tutte tendenze a svincolare la funzione pubblica dal controllo. È successo anche con l’abuso d’ufficio. Io non sono per la penalizzazione della risposta alla trasgressione, sono perché chi esercita funzioni pubbliche sia educato, formato al rispetto delle regole. Sono per il controllo effettivo dei comportamenti e per l’uso di sanzioni che impediscano il ripetersi delle trasgressioni senza passare sempre per il carcere. Non mi pare che questa sia la linea seguita, soprattutto oggi. Vede un progetto coerente in questo senso? Secondo me l’atteggiamento che l’attuale maggioranza assume nei confronti della magistratura ha la sua origine proprio in radice e sta nel modo di concepire il mondo. Nell’idea di come si sta insieme. E oggi l’idea è che si sta insieme per obbedienza e non si sta insieme per condivisione. Tutto il resto è una conseguenza logica. In una società a modello gerarchico accentuato, in cui c’è chi sta sopra, che comanda, e gli altri che sono chiamati ad obbedire, sono ovvi il decreto sicurezza, la continua criminalizzazione di comportamenti prima leciti o sanzionati in via amministrativa, anche la separazione delle carriere. È l’espressione di un modo di intendere l’esistenza. Non solo pm. Questa maggioranza sembra insofferente persino ai report del Massimario della Cassazione... Mi pare assurdo. Ma infatti provare a controllare il pubblico ministero è lo strumento per poter controllare il giudice. La mia impressione è che al governo dei cittadini interessi poco, in tema di giustizia. Esasperare il ricorso al carcere, invece di ridurre numero dei reati produrrà l’effetto contrario. Che giudizio dà del suo ex collega Carlo Nordio, che si intesta questa riforma? Mi son dimesso dalla magistratura per evitare di giudicare, cerco di essere coerente. La stupisce che a proporre questa riforma sia un ex magistrato? Ho un’età per cui non mi stupisco più di niente. Per il governo questa è una riforma garantista... È “garantista” per chi esercita il potere e la matrice è quella per cui la resistenza passiva in carcere può diventare reato. I giornalisti della Toscana premiano il procuratore Tescaroli. Emblema di un cortocircuito di Ermes Antonucci Il Foglio, 9 luglio 2025 L’Associazione stampa toscana ha conferito una “Pergamena al merito” al magistrato per aver “sempre fornito puntualmente le notizie”, che poi sono quelle sputtananti nei confronti delle persone indagate. La separazione che manca tra procure e giornalisti. L’Associazione stampa toscana (Ast), il sindacato dei giornalisti che lavorano in Toscana, lunedì ha conferito un premio, più precisamente una “Pergamena al merito”. Il lettore potrà pensare che il riconoscimento sia stato attribuito a un giornalista d’inchiesta, oppure a un cronista minacciato per il suo lavoro, o ancora a un importante direttore di un quotidiano. Nulla di tutto ciò. I giornalisti toscani hanno deciso di premiare un magistrato, Luca Tescaroli, procuratore di Prato, per aver “sempre fornito puntualmente le notizie, a qualsiasi ora, rispettando, contemporaneamente, sia la legge che il diritto dei cittadini a essere informati”, su vicende che vanno “dall’esplosione di Calenzano alle ragazze uccise e al giardino degli orrori; dalla guerra delle grucce alla lotta per il controllo della prostituzione; dalle aggressioni a coltellate in piazza alle inchieste sui clamorosi casi di evasione fiscale”. Il premio attribuito dall’Ast a Tescaroli rappresenta l’esempio più emblematico della sudditanza del mondo dell’informazione alle procure. Anche perché Tescaroli, da quando si è insediato a Prato, ha fatto molto di più che informare i giornali: nei fatti si è trasformato in un vero giornalista. Da settembre a oggi ha firmato cento comunicati, uno ogni tre giorni. Testi dal taglio inquisitorio prontamente pubblicati sui giornali locali e nazionali. E pazienza se, secondo la riforma del 2021, un procuratore può diffondere comunicati stampa solo quando è “strettamente necessario per la prosecuzione delle indagini o quando ricorrono specifiche ragioni di interesse pubblico”. A Prato tutto sembra essere di interesse pubblico. Molti dei comunicati diffusi da Tescaroli riguardano indagini in corso di svolgimento, in cui puntualmente vengono espressi giudizi di responsabilità nei confronti di alcune persone coinvolte. Il trucco consiste nel riportare alla fine del comunicato un’espressione, una formula magica che vale da passepartout: “In virtù della presunzione di non colpevolezza, i medesimi potranno considerarsi colpevoli solo sulla base di una sentenza passata in giudicato”. Peccato che nelle righe precedenti quelle stesse persone indagate vengono messe alla berlina dalla procura di Prato, con accuse molto chiare e precise. Si prenda il caso dell’esplosione del deposito Eni di Calenzano, avvenuta il 9 dicembre 2024, e che ha causato la morte di cinque lavoratori. Nel comunicato del 19 marzo, la procura pratese scrive chiaramente che “l’incidente sul lavoro è risultato in concreto prevedibile, se fosse stata effettuata un’adeguata analisi dei rischi e delle condizioni operative, ed evitabile, se fossero state seguite correttamente le procedure di sicurezza, protezione e pianificazione che erano obbligatorie per effettuare l’intervento”. “È emerso un errore grave e inescusabile”, aggiunge la procura, che addebita a nove indagati i delitti di omicidio colposo plurimo, disastro colposo e lesioni personali colpose. “Si ritiene che i delitti individuati siano stati commessi dai rappresentanti dell’organo dirigente di Eni (Boschetti e Cullurà) e dagli altri indagati inseriti nella medesima società (Di Perna, Bini, Ferrara e Proietti) nell’interesse e a vantaggio della stessa Eni”, si legge nel comunicato, che poi va ben oltre il caso di Calenzano: “Tale modalità è risultata indistintamente comune a tutti i depositi, non avendo rilevato specifiche ulteriori sulla documentazione di Eni, sicché l’interesse e il vantaggio è ancor più ampliato su scala nazionale”. Più che un comunicato su un’indagine sembra di leggere una sentenza di condanna contro la società Eni. Altri comunicati pubblicati dalla procura di Prato negli ultimi mesi assumono invece le forme di pamphlet, come quello in cui lo scorso ottobre Tescaroli ha risposto a un’interrogazione parlamentare rivolta da due deputati al ministero della Giustizia. A parte la palese violazione del principio di separazione dei poteri, nel comunicato Tescaroli racconta a modo suo la “complessità e la pericolosità non del tutto note” della provincia pratese, “crocevia di flussi migratori, terreno per infiltrazioni mafiose italiane e straniere”, teatro di “sfruttamento dei lavoratori” e di “rapporti corruttivi” tra esponenti delle forze dell’ordine e imprenditori. Ignote le specifiche ragioni di interesse pubblico alla base della pubblicazione di questa relazione, che si conclude con la proposta di Tescaroli di istituire una direzione distrettuale antimafia a Prato o una sezione distaccata della Dda di Firenze. Appare dunque piuttosto singolare la concezione della libertà di stampa che, secondo i giornalisti toscani, Tescaroli avrebbe difeso negli ultimi mesi con la sua attività di comunicazione. Anziché la cronaca giudiziaria, l’Ast sembra più interessata a mantenere in vita la prassi dello sputtanamento mediatico. Pratica che da un po’ di tempo non sta più riuscendo a Firenze. Da qui la continua critica dei giornalisti toscani nei confronti del procuratore fiorentino Filippo Spiezia, che però tra poche settimane, dopo la bocciatura della sua nomina da parte del Consiglio di stato, farà ritorno a Eurojust. La speranza dei giornalisti della Toscana è che il Csm nomini un nuovo procuratore alla Tescaroli, più “aperto” alla stampa. Perché la gogna deve andare avanti. Scioglimento del comune per mafia, sì alla decadenza del sindaco rieletto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2025 Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 18559 depositata ieri. La Corte ha anche affermato (n. 18586 sempre di ieri) l’incandidabilità per i delitti colposi con pene superiori a 6 mesi commessi con abuso di poteri. Con due sentenze depositate oggi, la Cassazione stringe le maglie dell’elettorato passivo per gli amministratori dei comuni sciolti per mafia e per i condannati a una pena superiore a sei mesi per reati, anche colposi, commessi con abuso dei poteri o violazione dei doveri. Con la prima decisione, sentenza n. 18559 depositata ieri, è stato respinto il ricorso dell’ex sindaco di Platì, in Calabria, contro la sentenza che aveva confermato la decadenza dichiarata dal prefetto a seguito della sua rielezione dopo lo scioglimento del consiglio comunale per condizionamento mafioso. Al termine del periodo di gestione commissariale e mentre era ancora in corso il procedimento per la declaratoria di incandidabilità, il ricorrente infatti era stato rieletto sindaco. Nel corso del (nuovo) mandato, la Cassazione ne aveva dichiarato, in via definitiva, l’incandidabilità. A quel punto il Prefetto aveva promosso l’azione per farne dichiarare la decadenza. Il Tribunale, in primo grado, rigettò il ricorso. La Corte di appello, capovolgendo il verdetto, dichiarò l’incandidabilità del sindaco e, per l’effetto, la decadenza dalla carica. Proposto ricorso, la Cassazione l’ha respinto. La Prima sezione civile infatti pur dichiarandosi “consapevole” di dover comporre distinti interessi costituzionalmente rilevanti: da una parte, il rispetto della rappresentanza politica ed il diritto di elettorato passivo, dall’altra, i principi di imparzialità e di buon andamento dell’attività amministrativa”, ha ritenuto “preferibile la soluzione interpretativa per cui il sindaco che sia stato rieletto nel primo turno elettorale successivo allo scioglimento per infiltrazioni mafiose, perché non ancora definitivamente dichiarato incandidabile al momento delle votazioni, non può continuare a svolgere l’incarico una volta che sia stata accertata in sede civile, con efficacia di giudicato, la sua responsabilità nella causazione del pregresso commissariamento del consiglio comunale”. Una diversa lettura, prosegue la Corte (in linea con l’orientamento della giurisprudenza per cui la incandidabilità non produce effetti per il passato), porterebbe ad effetti “irragionevoli”: la sopravvenuta sentenza di incandidabilità, infatti, “non potrebbe mai incidere sugli esiti favorevoli della votazione una volta che l’amministratore locale, la cui condotta era già sub iudice, sia stato rieletto”. Non può quindi essere condivisa l’interpretazione secondo la quale l’articolo 16, co, 2, del Dlgs n. 235 del 2012 (legge Severino) non troverebbe applicazione ai mandati in corso. In tal modo, infatti, se ne vanificherebbe la ratio, comportando la permanenza in carica di coloro che sono stati eletti dopo lo scioglimento dell’organo ma successivamente colpiti da sentenza definitiva di incandidabilità: “in altri termini, l’amministratore pubblico ritenuto responsabile di condotte pregiudizievoli resterebbe in carica continuando a svolgere il proprio mandato sebbene colpito da sentenza definitiva di incandidabilità, il che, evidentemente, non è accettabile”. In questo senso, prosegue la Corte, l’articolo 16 Dlgs n. 235 del 2012 completa la disciplina dell’articolo 143, comma 11, TUEL nella misura in cui consente di ritenere che l’incandidabilità sopravvenuta, per l’amministratore responsabile dello scioglimento, comporta, oltre alla sua ineleggibilità per il turno o i due turni successivi allo scioglimento stesso, la decadenza dalla carica riassunta medio tempore, al pari delle incandidabilità “proprie”. Né può parlarsi di eccesso di delega, ragion per cui è manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale, per violazione dell’articolo 76 Cost., dell’articolo 16, comma 2, del Dlgs n. 235 del 2012, nella parte in cui ha esteso la disciplina della incandidabilità ad un’ipotesi di incandidabilità (quella, cioè, dell’articolo 143, comma 11, TUEL) non derivante da “sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all’affidamento della carica”. Con la seconda sentenza, la n. 18586 depositata sempre oggi, la Prima sezione chiarisce che è legittima la decisione dell’Ufficio centrale elettorale che ha dichiarato ineleggibile, ai sensi dell’articolo 10, comma 1, lett. d), del Dlgs 31 dicembre 2012, n. 235 (cd. legge Severino), un candidato alla alla carica di consigliere comunale del comune di Sorrento, condannato in via definitiva per il delitto di omicidio stradale plurimo (589 cp), aggravato ai sensi dell’articolo 61, n. 9, cod. pen.. Per la Suprema corte “l’art. 10, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 235 del 2012 è privo di portata innovativa e rappresenta una norma, non irragionevole, di chiusura del sistema, in quanto volta a tutelare il buon andamento e la trasparenza dell’attività delle pubbliche amministrazioni, al fine di impedire che queste siano governate da chi sia stato definitivamente condannato alla pena ivi prevista per uno o più delitti, dolosi o colposi, purché aggravati dall’abuso dei poteri o dalla violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio, dovendo il disvalore di tali delitti, rilevante ai suddetti fini, essere individuato proprio nell’abuso di tali poteri o nella violazione di quei doveri”. Immigrati, sì alla revoca dello status di rifugiato anche se il pericolo è solo potenziale di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2025 Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 18427/2025, affermando un principio di diritto. Ai fini della revoca dello status di rifugiato non è necessario che il soggetto costituisca un pericolo “reale ed attuale” per lo Stato italiano essendo sufficiente che integri un pericolo solo “potenziale”. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 18427/2025, affermando un principio di diritto. Il caso era quello di un cittadino algerino a cui la Commissione nazionale per il Diritto d’Asilo (CNA) aveva revocato lo status di rifugiato, con divieto di reingresso per 10 anni. La qualifica di rifugiato gli era stata riconosciuta dalla Commissione territoriale di Milano in quanto vittima di persecuzione per appartenenza al gruppo sociale LGBTI. Il pericolo alla base della revoca invece era quello di un possibile percorso di “radicalizzazione” comprovato dalla immagine del profilo Whatsap che mostrava il portavoce di Hamas che, armato, inneggiava alla prossima vittoria di Allah e di un post su Instagram in cui Israele veniva definito “Stato sionista terrorista” aggiungendo: “questi assassini” saranno rintracciati e puniti “se non loro, la loro prole”; concludendo poi: “occhio per occhio dente per dente viva Hamas e viva la Resistenza”“. Impugnata la revoca, il tribunale ha ritenuto che nonostante la “gravità intrinseca delle esternazioni” ciò “non rende ex se solo il ricorrente quel concreto pericolo per la sicurezza dello Stato che solo può giustificare la revoca del suo status di rifugiato”. Il tono dei messaggi, oggettivamente “minaccioso, violento e vendicativo”, infatti, non risultava inserito “in un contesto personale e sociale concretamente rivelatore del rischio di una sua evoluzione verso la c.d. radicalizzazione”. Riguardo poi alla mancata allegazione della Nota della Polizia di prevenzione, espressamente richiamata nel provvedimento impugnato, per il Tribunale l’acquisizione “non è necessaria” e la conseguenza è che “per questo giudice tamquam non esset e non se ne potrà trarre alcuna conseguenza probatoria sfavorevole”. Contro questa decisione ha proposto ricorso il Ministero dell’Interno. La Suprema corte l’ha accolto anche richiamando la giurisprudenza europea secondo la quale non è necessario “un pericolo reale e attuale, ma anche un pericolo potenziale”. Dunque, in linea con la giurisprudenza eurounitaria, la Cassazione ha affermato: “Il combinato disposto degli artt. 12, comma 1, lett. b) e 13, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 251/2007, che consente agli Stati membri di revocare, cessare o rifiutare di rinnovare lo status riconosciuto a un rifugiato se ‘sussistono fondati motivi per ritenere che lo straniero costituisce un pericolo per la sicurezza dello Stato’ tende a indicare che tale disposizione può coprire non solo un pericolo reale e attuale, ma anche un pericolo potenziale, in quanto l’autorità amministrativa deve disporre di un margine di discrezionalità per decidere se le considerazioni attinenti alla sicurezza nazionale dello Stato membro di cui trattasi debbano, o no, dar luogo alla revoca dello status di rifugiato o al rifiuto del riconoscimento di quest’ultimo”. E “spetta al giudice del procedimento di impugnazione ex art. 35 bis del d.lgs. n.25/2008, senza sovrapporsi alla valutazione discrezionale compiuta dall’autorità competente, il controllo, nel contraddittorio tra le parti che connota il giusto processo, di proporzionalità e di adeguatezza nella vicenda concreta, alla luce del bene della sicurezza dello Stato e del diritto soggettivo allo status di rifugiato”. Tornando al caso concreto, il Tribunale, invece, non si è attenuto a questi principi centrando il controllo di “proporzionalità e adeguatezza” sulla “concretezza del rischio, che non è stata ravvisata”. Per i giudici, la valutazione non è conforme al parametro eurounitario. L’applicazione del criterio di giudizio prescelto dal Tribunale - “ossia la necessaria sussistenza di un livello di concretezza del rischio di passaggio all’azione offensiva, che solo potrebbe assurgere a pericolo per la sicurezza nazionale e giustificare la revoca dei benefici che si ricollegano allo status di rifugiato” - finisce “irragionevolmente con il delimitare la possibilità di revoca ai soli casi in cui la condotta si sia estrinsecata sul piano fenomenico, così escludendo ogni rilevanza a comportamenti ex ante idonei ad attentare al bene superindividuale della sicurezza nazionale”. Con riguardo poi alla mancata allegazione della Relazione, la Cassazione ha affermato un altro principio. Secondo i giudici: “In materia di revoca dello status di rifugiato, qualora il provvedimento sia motivato per relationem ad un altro atto o documento amministrativo al quale sia stata apposta la “classifica di segretezza”, la conoscibilità di quest’ultimo è assicurata in contraddittorio, a fini difensivi e per l’esercizio del controllo giurisdizionale, attraverso il procedimento ex art.42, comma 8, della legge n.124/2007, che persegue la finalità di bilanciare le esigenze di sicurezza e le garanzie difensive del giusto processo in sede giurisdizionale; la omessa attivazione del procedimento di ostensione ex art.42, comma 8, della legge n.124/2007 non è idonea, né sufficiente ad inficiare la motivazione per relationem”. Sardegna. Sovraffollamento e colonie penali non sfruttate: crescono i problemi nelle carceri kalaritanamedia.it La nuova denuncia dell’associazione Socialismo Diritti e Riforme guidata da Maria Grazia Calligaris. Sono ancora una volta impietosi i numeri delle carceri isolane. Con il problema del sovraffollamento che è ormai una realtà assodata anche in Sardegna. A denunciarlo è l’associazione Socialismo Diritti e Riforme, guidata da Maria Grazia Calligaris. Nelle case circondariali di Uta e Bancali il numero dei detenuti eccede quello dei posti disponibili, con spazi che risultano invivibili per chi sconta già la propria pena. E con le problematiche che si riversano così anche sui lavoratori, a partire dagli agenti di polizia penitenziaria. “A rendere ancora più difficile la situazione - spiega Calligaris in un comunicato - è il caldo torrido che sta mettendo a dura prova, oltre alle persone private della libertà, tutti gli operatori, nonostante il forte senso di abnegazione. A Cagliari per 561 posti sono ristrette 689 persone (122,8%), a Sassari-Bancali 533 detenuti per 454 posti (117,3%) a cui occorre aggiungere i 90 41bis. A Lanusei, nell’antico ex convento francescano di “San Daniele” a fronte di 33 posti sono presenti 41 detenuti (13 stranieri). A Oristano invece sono recluse 218 persone per 264 posti, la prima volta di numeri così bassi negli ultimi anni”. Colonie non sfruttate - La fotografia mette in chiaro le difficoltà di un intero sistema che vede solamente il carcere di Massama rispettare a livello numerico gli spazi delle proprie strutture. Questo accade nonostante il tentativo di far accrescere il numero di detenuti destinati alle colonie penali. Sui seimila ettari a disposizione in tutta la regione, sono pochi in realtà quelli realmente sfruttati secondo la denuncia dell’associazione, che ha redatto l’ultimo report traendo i dati dall’ultimo lavoro dell’Ufficio statistica del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, risalente allo scorso 30 giugno. “Le Colonie Penali registrano un costante incremento dal mese di marzo, ma le presenze - rileva la presidente di SDR - sono ancora lontane dal raggiungere numeri significativi, sono infatti disponibili 272 posti. I limiti imposti all’accesso al lavoro nelle Case di Reclusione all’aperto e la necessità di rendere utilizzabili tutti i padiglioni richiedono una modifica della normativa a cui non possono derogare né i Direttori degli Istituti né il Provveditore regionale. Occorre quindi mettere mano alle disposizioni per garantire da un lato investimenti per rendere “ospitali” le Colonie, coinvolgendo il Ministero delle Infrastrutture, e dall’altro rendere più facile accedere alla misura dell’accesso ampliando il numero di anni residui da scontare da 6 ad almeno 8/10 anni, oltre alle condizioni di salute”. Piemonte. Garante dei detenuti: lettera aperta alla Regione di Enea Lombardozzi, Samuele Moccia, Giovanni Oteri Ristretti Orizzonti, 9 luglio 2025 Al Presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio, ai consiglieri regionali del Piemonte. Necessità ed urgenza della nomina del “Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale” (L. R. n. 28/2009). L’Associazione radicale Adelaide Aglietta ha condotto un’iniziativa politica lunga dieci anni prima per il varo di una legge regionale che istituisse il garante regionale delle carceri e poi per l’effettiva nomina di tale Garante. Con legge regionale n. 28 del 2 dicembre 2009 la Regione Piemonte ha istituito il “Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale” (d’ora in poi “Garante”); solo il 12 maggio 2014 il Consiglio Regionale nominò per la prima volta il Garante, scegliendo Bruno Mellano, esponente radicale piemontese che dieci anni prima, come consigliere regionale, aveva presentato la prima PDL per l’istituzione del Garante. Bruno Mellano è stato rinnovato per un secondo mandato quinquennale l’11 febbraio 2020; la legge n. 28/2009 esclude la possibilità di un terzo mandato. Il Consiglio Regionale ha pubblicato il 13/02/2025 un Avviso per la designazione del nuovo Garante, con scadenza il 17/03/2025. Sono pervenute numerose candidature. Sono passati quasi quattro mesi e il Consiglio Regionale non ha ancora provveduto alla nomina del nuovo Garante, ai sensi dell’art. 2, comma 1, della legge n. 28/2009. Eppure, tale nomina sarebbe di grande significato politico e di grande utilità pratica in un contesto carcerario, piemontese e in generale italiano, caratterizzato ogni giorno da violenze, suicidi, atti di autolesionismo, disperazione, le cui vittime non sono solo i detenuti bensì tutti coloro che vivono o lavorano in carcere, a partire dagli agenti di polizia penitenziaria. Solo pochi giorni fa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, proprio in occasione della festa del corpo di polizia penitenziaria, ha evidenziato per l’ennesima volta la necessità di interventi urgenti per attenuare il sovraffollamento carcerario. Esponenti politici molto lontani dal nostro sentire quali il presidente del Senato Ignazio La Russa e l’ex ministro Gianni Alemanno si sono espressi chiaramente a favore di un provvedimento di clemenza. A ciascuno il suo: vi chiediamo di operare affinché, prima della pausa estiva dei lavori, il Consiglio Regionale nomini il nuovo Garante, che deve portare la propria comprovata esperienza e competenza (come richiesto peraltro dalla legge n. 28/2009) a sostegno e a soccorso di un sistema carcerario vicino al collasso; vi chiediamo di programmare visite ispettive nelle carceri piemontesi, al fine di verificare la situazione sia dei detenuti sia degli agenti di polizia penitenziaria e degli altri operatori carcerari. Inaugurando a Torino la “Passeggiata Marco Pannella”, il 21 settembre 2024, il Presidente della Regione, Alberto Cirio, si era impegnato pubblicamente a visitare le carceri di Torino. Gli chiediamo non solo di mantenere la promessa ma di andare oltre; sarebbe quanto mai utile se il Presidente del Piemonte potesse effettuare entro fine anno la visita di tutti gli istituti piemontesi, magari in compagnia sia del nuovo sia del vecchio Garante, per un prezioso passaggio di consegne, contatti, esperienze. Confidando nella vostra attenzione e nel vostro impegno in un ambito che deve vedere il superamento reciproco di steccati e pregiudizi, e rimanendo a disposizione per qualsiasi approfondimento, rivolgiamo distinti saluti. *Coordinatori dell’Associazione radicale Adelaide Aglietta Prato. Violenze e stupri nel carcere, un detenuto posta un video su TikTok di Giorgio Bernardini Corriere Fiorentino, 9 luglio 2025 Nuove perquisizioni dentro la Dogaia. Furfaro e Serracchiani (Pd) portano il caso in Parlamento. Stupri, rivolte, telefoni clandestini e perfino video su TikTok direttamente dalle celle. È il ritratto drammatico del carcere La Dogaia di Prato, al centro di un’inchiesta che continua a far emergere dettagli inquietanti. Il quadro emerge nell’approfondimento portato avanti dal procuratore capo Luca Tescaroli: nella zona di alta sicurezza un detenuto ha persino postato su TikTok un video della sua brandina, ottenendo decine di commenti dagli utenti. E non è un caso isolato: nell’ultimo anno in carcere sono stati sequestrati 41 telefoni, tre sim e un router; eppure nuovi dispositivi sono emersi anche dopo la maxi-ispezione del 28 giugno scorso. Le collusioni con gli agenti - La libertà di movimento garantita ai detenuti - sono almeno 6 gli agenti della polizia penitenziaria indagati - ha permesso a un gruppo di persone già condannate per reati mafiosi di far entrare e uscire ordini dal carcere droga e dispositivi, utilizzando anche la casa di accoglienza poco lontano dal carcere che veniva utilizzata come centro di smistamento e stoccaggio. Le rivolte - La tensione nelle ultime settimane è cresciuta. Lo dimostrano le rivolte del 4 giugno e del 5 luglio. Il 4 giugno cinque detenuti - italiani, libici e marocchini - hanno minacciato a parole e persino brandito spranghe, urlando “stasera facciamo la guerra, si muore solo una volta, o noi o voi”. Un mese dopo, una decina di detenuti ha ripetuto l’assalto, tentando di incendiare materiali, sfondare cancelli e assediare la sezione. Solo l’antisommossa ha riportato la calma. Le indagini - I magistrati hanno aperto un fascicolo per rivolta, resistenza a pubblico ufficiale, lesioni e danneggiamenti. Nell’inchiesta spunta anche una lama, trovata tra le celle, oltre a tre cacciaviti, caricabatterie, cuffie. Il livello di illegalità è aggravato dalle atrocità subite dai detenuti stessi ad opera di altri detenuti, due casi sono stati definiti “agghiaccianti” dalla Procura. Il primo, nel settembre 2023, vede protagonista un detenuto brasiliano accusato di violenza sessuale aggravata contro il suo compagno di cella pachistano, minacciato con un rasoio. Il secondo risale al gennaio 2020: due reclusi di 36 e 47 anni avrebbero torturato e stuprato per giorni un compagno tossicodipendente e omosessuale, usando mazze, pentole bollenti e subendo gravissime lesioni. Il processo è in corso. I problemi cronici de La Dogaia - Dietro questi eventi grida forte la carenza cronica di personale e direzione. Nel carcere, con 576 detenuti - metà stranieri - e sette sezioni definite “gironi d’inferno”, lavorano solo 270 agenti sui 360 previsti: un organico ridotto di un quarto. Non ci sono un direttore né un comandante titolari da mesi. Mancano psicologi, educatori, medici. Cimici, scarafaggi e scabbia sono all’ordine del giorno. E l’autolesionismo è dilagante: oltre 200 casi, da sommare a quattro suicidi, si sono registrati nel solo 2024. A febbraio la città di Prato ha convocato un Consiglio comunale straordinario sul tema, ma nessuna soluzione efficace è stata adottata. Il caso approda in Parlamento - Il caso ha ormai superato i confini regionali. Il deputato del Pd Marco Furfaro ha depositato un’interrogazione in Parlamento insieme alla collega dem Debora Serracchiani. Chiede al governo chiarimenti sulle nomine del nuovo direttore e del comandante - promesse da tempo - e “azioni immediate per ripristinare legalità, sicurezza e diritti”. “Se un carcere diventa un luogo di violenza sistematica - ha detto Furfaro - significa che lo Stato ha fallito. Non solo per ciò che è successo, ma per ciò che è stato permesso”. Parole pesanti, ma coerenti con la realtà che emerge dalle indagini. Il messaggio della Procura di Prato è altrettanto chiaro: “Il sistema è fuori controllo, ma la risposta dello Stato sarà ferma e costante”. Procedimenti penali sui detenuti, sulle collusioni interne e sulle violenze continuano. Le perquisizioni vanno avanti, con squadra mobile, polizia penitenziaria, carabinieri e guardia di finanza impegnati. Ma il cuore del problema resta strutturale: un carcere al collasso per la mancanza di uomini, mezzi, regole. La Dogaia non è un’esperienza isolata, in una regione dove i penitenziari da tempo non garantiscono dignità né sicurezza ai reclusi e i lavoratori. Prato. Dietro quelle sbarre lo Stato si è arreso di Lirio Abbate La Repubblica, 9 luglio 2025 Nel carcere di Prato lo Stato non c’è. Il cancello che lo annuncia si chiude lasciandosi alle spalle la legalità che pure dovrebbe abitare questo luogo. Consegnando a un silenzio che sa di complicità, di ritiro, di resa. Un luogo dove non è l’istituzione a parlare. Ma le voci che arrivano dalle celle, dove si impartiscono ordini, si pianificano traffici, si coordina il crimine. Si stupra. Dove certamente si governa, ma non in nome della legge. A “La Dogaia”, che ospita oltre 600 detenuti, tra cui più di cento nella sezione “alta sicurezza”, lo Stato si è dissolto. E ciò che resta è un potere parallelo, invisibile solo a chi non vuole vedere. Quello dei detenuti che, con telefoni occultati nei televisori, router nascosti nei muri, micro sim intestate a sconosciuti, gestiscono affari, minacciano, decidono. È il potere di chi corrompe, controlla, comanda. Il 28 giugno i pm di Prato hanno bucato il muro dell’indifferenza. Ordinando un blitz con 263 agenti tra polizia, carabinieri, finanza e penitenziaria che hanno perquisito ogni reparto e trovato ciò che da tempo si sospettava e che qualcuno fingeva di ignorare. Droghe nascoste nei frigoriferi, telefoni cellulari, celle trasformate in laboratori del crimine. Un sistema in piena regola. Un carcere diventato un’altra cosa. Sicuramente non un luogo di custodia, sicurezza, diritti. Con cinque evasioni in pochi mesi sulle quali si indaga ipotizzando una complicità degli agenti. Il 5 luglio c’è stata una rivolta. I detenuti si sono barricati. Hanno dato fuoco alle celle, lanciato spranghe, tentato di sfondare i cancelli. È servito l’intervento del personale richiamato d’urgenza da casa per evitare il peggio. Anche se il disastro si era già consumato. Quello quotidiano, sommerso, che prende forma nelle celle dove si decide chi comanda davvero. Nell’ultima settimana di giugno, dieci detenuti dell’alta sicurezza avevano rifiutato di rientrare in cella. Denunciavano la presenza di microspie. Ma la loro non era solo una protesta. Era una dichiarazione di potere. Questo spazio è nostro, dicevano. E in quell’istante il vuoto istituzionale è apparso in tutta la sua evidenza. E non è solo una questione di controllo e di criminalità. È anche un abisso di degrado. La Procura ha rivelato due episodi definiti “agghiaccianti”: violenze sessuali tra detenuti in cella, in assenza di qualunque intervento. Lo Stato che non c’è, che non vede, che non sente, appunto. Eppure, Prato non è un caso. Non è solo un carcere in difficoltà. È lo specchio di un’Italia penitenziaria che non tiene più. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha lanciato un durissimo j’accuse allo stato del sistema carcerario, e quindi all’inerzia della politica, proprio all’inizio dell’estate, quando le difficoltà delle persone in custodia si fanno crudeli. Il capo dello Stato ha scelto un’occasione ufficiale per sferzare il governo sulla necessità di agire in varie direzioni. Incontrando il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha lodato il lavoro, duro e professionale, delle forze che operano all’interno degli istituti. Certamente anch’esse vittime secondarie dell’inadeguatezza del sistema. Si tratta di una vera e propria “emergenza nazionale”, ha detto Mattarella mettendo il dito in una piaga che ha radici lontane e che pone l’Italia nei gradini più bassi negli standard europei. Il Garante dei detenuti ha snocciolato i numeri: 62.722 persone recluse per 46.706 posti regolamentari. Sovraffollamento al 134%. In 63 istituti si supera il 150%. Ventisette suicidi fino a maggio, forse 33 secondo Antigone. Il ministro Carlo Nordio dal suo gabinetto di via Arenula risponde con note asciutte. Tre milioni per il sostegno psicologico. Centotrentadue per il lavoro in carcere. Progetti per i tossicodipendenti e per i detenuti stranieri. Ma nessuna riforma vera. Nessuna azione sul sovraffollamento. Nessuna strategia per riprendersi carceri come Prato. Nessun segnale che indichi un cambiamento di rotta. Perché a Prato il problema è diverso, e forse peggiore: lo spazio c’è, ma è occupato dal crimine. Non è solo questione di capienza. È una resa istituzionale. Il Dap, dice la procura, è assente. La polizia penitenziaria è sotto organico. I vertici del carcere si susseguono. Non c’è una direzione stabile. Non c’è un comando. Il carcere è abbandonato a sé stesso. O meglio, è abbandonato a loro: ai detenuti che parlano con l’esterno, ai familiari che introducono droga durante i colloqui, agli agenti corrotti che fanno da corrieri. Il carcere, che dovrebbe essere spazio di pena e recupero, diventa terreno di conquista. Alla “Dogaia”, l’esecuzione della pena e la sua funzione si sono rovesciate: non correggono, non contengono, non educano. Semplicemente, diventano il presupposto di un potere alternativo a quello dello Stato. E l’Italia che mostra questo carcere è quella che non vogliamo vedere. E da cui, al contrario, non andrebbe distolto lo sguardo. Perché è in questo vuoto di diritto e di legalità che si misura la distanza tra ciò che lo Stato promette e ciò che riesce a mantenere. “La Dogaia” è oggi l’epitaffio di un fallimento. Il paradigma di ciò che accade e può accadere nelle carceri italiane dimenticate. Taranto. Detenuto tenta il suicidio in ospedale: condannati due poliziotti penitenziari di Alessandra Cannetiello Gazzetta del Mezzogiorno, 9 luglio 2025 Sono stati condannati a 2 anni con pena sospesa i due agenti di polizia penitenziaria coinvolti nell’inchiesta nata dopo il tentato suicidio di un detenuto all’interno dell’ospedale Santissima Annunziata. A emettere il verdetto è stato il collegio presieduto dal giudice Loredana Galasso che ha inflitto una pena più bassa dei 3 anni e 6 mesi formulati dalla pubblica accusa. I magistrati hanno infine stabilito che il danno dovrà essere quantificato in sede civile. I fatti risalgono a marzo 2018 quando il detenuto, ancora oggi in coma, era stato trasferito per problemi di salute dall’istituto “Carmelo Magli” nella cella sanitaria all’interno del nosocomio ionico. I due poliziotti, difesi dagli avvocati Gianluca Mongelli e Gianluca Sebastio, erano dotati “di una postazione con sistema di videosorveglianza” che inquadrava la stanza con l’obbligo di tenere l’uomo sotto stretta osservazione: il 25 marzo di 7 anni fa, però, il detenuto aveva dapprima legato un’estremità del maglione alla cerniera della porta del bagno della stanza e poi aveva stretto l’altro lembo intorno al collo nel tentativo di farla finita senza che i due agenti, secondo il quadro accusatorio, se ne accorgessero. L’uomo era rimasto in quella posizione “per circa 25-30 minuti”: la prolungata mancanza di ossigeno aveva così causato una serie di danni all’organismo al punto che da quel giorno l’uomo versa in uno stato vegetativo permanente. In quell’intervallo di tempo, secondo gli inquirenti coordinati all’epoca dal pubblico ministero Giovanna Cannarile, i due poliziotti “pur essendo obbligati a intervenire con assoluta urgenza, si portavano - si legge negli atti dell’inchiesta - all’interno della stanza in soccorso del detenuto solamente dopo un lungo lasso di tempo”. Ed è per questo che l’accusa, al termine delle attività investigative, ha contestato agli imputati le ipotesi di reato di omissione di atti d’ufficio, lesioni in conseguenza di altro delitto, falso materiale e soppressione e distruzione di atto pubblico. Una contestazione che era legata al tentativo, sempre secondo la procura, di far sparire il video di quei momenti catturato dalle telecamere di video sorveglianza. La scena era stata ovviamente ripresa dagli obiettivi dei dispositivi di controllo: secondo l’accusa con l’aiuto di un tecnico, il file video era stato trasferito in un hard disk che gli imputati hanno portato via “provvedendo a eliminare il suddetto filmato”. Un filmato che durante la precedente udienza, era stato infine depositato dalla pubblica accusa. Torino. Nove condanne per la sommossa nel carcere minorile Ferrante Aporti di Andrea Bucci La Stampa, 9 luglio 2025 La notte del primo agosto scorso l’istituto è stato messo a ferro e fuoco dai detenuti: la protesta è durata quasi fino all’alba. Trentasette anni: è questa la somma delle nove condanne - in rito abbreviato - inflitte dal Tribunale per i Minorenni ai responsabili della rivolta che, nell’agosto dello scorso anno, devastò il carcere minorile Ferrante Aporti. Un totale superiore ai 32 anni e 4 mesi richiesti dal pubblico ministero Davide Fratta. Il verdetto - La sentenza del collegio presieduto dalla giudice Maria Grazia Devietti Goggia è arrivata martedì 8 luglio poco prima della mezzanotte, al termine di un’udienza fiume iniziata al mattino nella maxi aula del Palazzo di Giustizia. Le pene più pesanti vanno da un massimo di 8 anni e 4 mesi per due imputati, a un minimo di 3 anni per un altro ragazzo. Altri quattro giovani - tra cui uno di loro difeso dall’avvocato Andrea Lichinchi - sono stati condannati a 4 anni e 6 mesi ciascuno (tra loro anche un italiano, difeso dall’avvocato Cristian Scaramozzino, che aveva tentato di far riqualificare il reato come “rivolta in istituto penitenziario”, figura introdotta dal nuovo decreto sicurezza). Ci sono poi le condanne a 3 anni e 6 mesi per il più giovane del gruppo (aveva 15 anni il giorno della rivolta) e a 3 anni e 2 mesi per un altro coinvolto. Per uno solo degli imputati, il Tribunale ha accolto la richiesta del suo legale - l’avvocato Roberto Breatta Doriguzzi - di messa alla prova per 20 mesi. Gli imputati - Nove stranieri e due italiani, tutti tra i 15 e i 17 anni all’epoca dei fatti, erano a processo per devastazione e saccheggio. Solo a due di loro è stata contestata anche la violenza e minaccia a pubblico ufficiale. Un altro imputato, che all’epoca aveva 16 anni e già una condanna per il tentato omicidio di Mauro Glorioso (lo studente colpito da una bicicletta lanciata dai Murazzi), sarà giudicato con rito ordinario. Difeso dall’avvocato Domenico Peila, comparirà in aula a settembre. I disordini - Era la notte tra il 1° e il 2 agosto. Poco dopo la cena nel carcere minorile, erano iniziati i disordini. Quattro detenuti - considerati i promotori - si erano rifiutati di rientrare nelle loro celle nella sezione del gruppo 3 dell’istituto penitenziario: urla, porte e finestre sbattute, prime reazioni violente contro gli agenti. Da lì, la situazione è degenerata coinvolgendo altri reclusi. Divisi in gruppi, avevano appiccato incendi al piano terra e nella biblioteca. Molte porte erano state divelte, le vetrate infrante. Negli uffici erano stati scardinati diversi armadi, i computer distrutti. Registri e documenti erano stati bruciati o strappati. Anche i servizi igienici riservati al personale erano stati devastati: lavandini e water ridotti in pezzi, frantumati con mazze di ferro e bastoni. Minacce e aggressioni - Altri detenuti avevano distrutto il refettorio e lanciato un bidone della spazzatura contro un monitor per romperlo. Alcuni di loro erano riusciti a entrare nell’ufficio del direttore Giuseppe Carro, che era stato minacciato con una spranga di ferro. Diversi agenti della polizia penitenziaria erano stati aggrediti. La strategia - Intanto, qualcuno aveva tentato la fuga, ma era stato bloccato. È emerso poi che, quella sera, anche nella casa circondariale Lorusso e Cutugno erano scoppiati disordini con l’unico scopo di attirare altri agenti di custodia lontano dal Ferrante, favorendo così l’evasione. Le minacce erano state pesanti: “Lasciateci stare. Vi ammazziamo tutti”, e ancora: “Qualcuno si farà male”, rivolte agli agenti impegnati nel contenere la sommossa, durata circa dodici ore. In diretta social - Il tutto era stato ripreso dai detenuti con un cellulare introdotto clandestinamente in carcere. I video erano poi finiti su TikTok. Una notte di follia che, secondo una prima stima, avrebbe causato almeno 85 mila euro di danni. Il commento del procuratore - Per Emma Avezzù, procuratore presso il tribunale per i minorenni di Torino, “è importante che sia stato riconosciuto il reato di devastazione. Non si poteva parlare di rivolta: questa figura introdotta solo di recente e peraltro, oltre a far sorgere dei dubbi di costituzionalità, è punita con pene inferiori”. A sostenere la tesi dell’applicabilità della “rivolta” erano stati alcuni degli avvocati difensori. Siracusa. La scelta di tornare “dentro” per restituire ciò che il carcere ha dato di Giorgio Paolucci Avvenire, 9 luglio 2025 Detenuto per 15 anni, Maksim rientra ogni giorno nella struttura di Siracusa per lavorare all’Arcolaio: un laboratorio di dolci (che ha conquistato gli imprenditori). Dopo tanto tempo passato in galera, era arrivato finalmente il giorno del fine pena. Eppure, proprio mentre stava gustando il sapore della libertà, aveva deciso di tornare “dentro”. Perché “dentro” aveva incontrato qualcosa di così potente da cambiare direzione alla sua esistenza, e voleva restituire ai suoi compagni almeno un po’ del bene ricevuto. Sembra un paradosso ma è la storia di Maksim, che ogni mattina rientra come lavoratore in carcere dopo averci passato quindici anni come detenuto. È nella Casa circondariale di Siracusa che la sua vita ha incrociato la proposta dell’Arcolaio, una cooperativa sociale che aveva avviato un’impresa per la trasformazione e la commercializzazione delle mandorle e di altri prodotti locali, per offrire alle persone detenute opportunità di lavoro in vista di un reinserimento attivo nella società. “Ero emigrato in Italia dall’Ucraina per una vita migliore, come tanti dal mio Paese - racconta Maksim -. Purtroppo ho scelto strade sbagliate che mi hanno portato sulla via del crimine, fino a commettere un grave reato che mi è costato una condanna a quindici anni. Dopo essere stato detenuto a Verona e Padova, mi hanno trasferito a Siracusa e qui ho conosciuto quelli dell’Arcolaio, gente che mi ha accompagnato a scoprire il senso della vita e il valore dell’amicizia e mi ha permesso di imparare per la prima volta un lavoro pulito. Anche quando le porte del carcere si sono aperte con la semilibertà e poi con l’affidamento al lavoro li ho avuti al mio fianco. E a fine pena ho deciso di restare legato a loro per tante ragioni: per mettere a frutto l’esperienza maturata, per un senso di gratitudine, per aiutare quelli che stanno ancora dentro a incamminarsi su una strada analoga alla mia, anche perché tra detenuti ed “ex” c’è una sensibilità comune che rende l’intesa più facile. Più di uno mi ha domandato “ma chi te lo fa fare?”, e io rispondo che il bene ricevuto è così tanto che sento il dovere di ricambiare”. Quella di Maksim, che a 48 anni è responsabile di produzione dell’Arcolaio, è una storia speciale, resa possibile grazie all’apertura dimostrata dalla direzione e dall’area trattamentale del carcere e dal magistrato di sorveglianza che gli hanno consentito di rientrare nell’istituto per lavorare da uomo libero. Giuseppe Pisano, dopo una lunga esperienza nella cooperazione internazionale, è presidente di questa realtà che nel panorama siciliano viene riconosciuta come un esempio di eccellenza. In questi anni è stato testimone di percorsi che hanno permesso di inserire al lavoro 500 detenuti che avevano seguito percorsi di formazione. “Abbiamo cominciato nel 2003 con un panificio, la cui produzione era destinata soprattutto al mercato locale”. “Due anni dopo è nato un laboratorio per la produzione di dolci tipici biologici, a partire da amaretti morbidi e paste di mandorla, grazie al quale ci siamo inseriti in un mercato nazionale in forte crescita facendo conoscere il nostro marchio “Dolci Evasioni” che ha come logo un gabbiano in volo, simbolo di riscatto e di libertà. Un salto decisivo è arrivato legando la produzione locale alla commercializzazione su scala nazionale, grazie alla costruzione di rapporti con i negozi specializzati in alimentazione biologica, le botteghe del commercio equo-solidale e i Gruppi di acquisto solidale. Dal 2010 una squadra di 12 detenuti formati da noi ha preparato quotidianamente 500 pasti nel carcere di Siracusa nell’ambito di un progetto nazionale che aveva affidato il servizio di mensa a realtà del terzo settore, un’esperienza innovativa che purtroppo si è conclusa dopo cinque anni. Dal 2012 è partito un progetto mirato all’inserimento sociale e lavorativo di persone in esecuzione penale esterna, nel 2014 è nato Frutti degli Iblei, un progetto di agricoltura sociale che ha consentito di offrire formazione e lavoro a ex detenuti, migranti e persone con fragilità. Contemporaneamente il nostro catalogo si è arricchito di nuovi prodotti (semi di finocchietto selvatico, origano, sali aromatizzati, gomasio alle erbe). n questo modo abbiamo contribuito a valorizzare le peculiarità del territorio, diventando parte attiva nella costruzione di filiere etiche e costruendo un rapporto diretto con la comunità. Come indica il nome della nostra cooperativa, grazie all’Arcolaio abbiamo potuto dipanare tante matasse: oggi i nostri prodotti sono conosciuti anche fuori dalla regione, ma per raggiungere questo traguardo è stato fondamentale mettersi in rete con altre realtà del terzo settore, costruendo partenariati e condividendo progetti. Fondamentale è stato il contribuito di Fondazione con il Sud, Fondazione San Zeno e Fondazione Peppino Vismara e di Banca Etica, di cui siamo soci fin dall’inizio”. Nel tempo si sono consolidati rapporti con imprenditori locali grazie a iniziative di matching che hanno permesso di mettere in rapporto domanda e offerta. Nell’ambito del progetto “Jail to Job” nel 2023 e quest’anno è stato organizzato il “Jail Career Day”, dove 40 aziende hanno incontrato persone in esecuzione penale esterna o che stanno finendo di scontare la pena: per molti imprenditori è diventata l’occasione di conoscere il mondo del carcere fuori dallo stigma che lo circonda e scoprire le potenzialità di tanti detenuti. “Stiamo costruendo una comunità di aziende virtuose e solidali per facilitare l’inserimento socio-lavorativo di chi sta terminando o ha terminato di scontare la pena. Spesso le aziende non richiedono competenze professionali specifiche ma piuttosto delle soft skills, qualità personali e attitudinali sulle quali innestare la formazione, e il fatto di avere già lavorato in carcere può rappresentare una carta da giocare per chi si candida all’assunzione. Così è accaduto per detenuti che hanno trovato occupazione nel turismo, nella ristorazione, nei supermercati locali e in agricoltura, grazie a chi ha offerto loro una seconda possibilità”. “In realtà per molti quella non è stata la seconda possibilità, è stata la prima - osserva Maksim, che in quindici anni di detenzione ha conosciuto le storie di tanti come lui -. Per chi nasce in certi contesti sociali e familiari il destino sembra già segnato. Negli anni in cui facevo il bibliotecario in carcere ho conosciuto persone che venivano a chiedere libri su Riina, Provenzano, Cutolo e altri eroi di mafia o di camorra. In realtà non sapevano neppure leggere, ma volevano avere tra le mani qualcosa che fosse il simbolo del mondo in cui erano cresciuti. Io ringrazio Dio di avere messo sulla mia strada gli operatori dell’Arcolaio, l’amicizia con loro e il lavoro sono stati la mia salvezza. Ora è il tempo della restituzione”. Bologna. Gli avvocati donano 40 ventilatori ai detenuti: “Fondi per chi non può pagare bollette” di Federica Nannetti Corriere di Bologna, 9 luglio 2025 Il presidente dell’Ordine, Flavio Peccenini: “In carcere condizioni indegne di un Paese civile, e in estate la situazione peggiora”. A Bologna sovraffollamento al 130%. Le condizioni dei detenuti, compresi quelli ristretti al carcere della Dozza, sono molto spesso “intollerabili”, aggravate nei mesi estivi dalle temperature insopportabili all’interno delle celle; condizioni “non degne di un Paese civile”, di costante sovraffollamento (circa del 130%) e di carenza di personale, sul quale tutto questo ricade. È a partire da questa constatazione, e dalla concomitante richiesta di interventi urgenti per garantire il rispetto dei principi costituzionali di umanità e rieducazione, che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bologna ha deciso di donare nuovi ventilatori ai detenuti in situazioni più difficili e meno abbienti, oltre a un’offerta per sostenere i costi dell’energia per la loro accensione: altrimenti, i costi sarebbero a carico dei detenuti. A farlo sapere ieri, a poche ore di distanza dalla notizia di un altro tentato suicidio proprio all’interno dello stesso carcere, il presidente dell’Ordine Flavio Peccenini: “Anche il carcere di Bologna, come la maggior parte delle carceri italiane, vive condizioni di grave sovraffollamento che incidono pesantemente sulle condizioni di vita dei detenuti -ha ricordato il presidente -. Tali condizioni subiscono inevitabilmente un drastico peggioramento nei mesi estivi, quando le temperature toccano punte estreme e la permanenza nelle celle diventa intollerabile, mettendo a rischio la salute dei più fragili”. Da qui, dunque, un piccolo gesto comune: “Le consigliere e i consiglieri hanno ritenuto di dare un personale e concreto segnale di solidarietà e conforto, soprattutto ai detenuti meno abbienti, offrendo loro una dotazione di circa 40 nuovi ventilatori, con un’ulteriore offerta in denaro per il pagamento dell’energia elettrica per tutti i mesi estivi”. A fronte di un “piccolo gesto personale”, gli avvocati non hanno potuto non esprimere il proprio disappunto rispetto all’inerzia dello Stato: “Appare paradossale, per non dire assurdo, che lo Stato non destini alcuna risorsa economica, non solo per l’acquisto dei ventilatori, ma addirittura per il pagamento dell’energia che li alimenta, che rimane esclusivamente a carico degli stessi detenuti”. Risorse che per alcuni potrebbero apparire risibili, insormontabili per la maggior parte dei detenuti. L’auspicio è che l’iniziativa “possa rendere un po’ meno intollerabile la detenzione di una moltitudine di persone - ha aggiunto Peccenini -; persone che vivono in condizioni non degne di un Paese civile”, tanto da aver portato “la Corte europea dei diritti dell’uomo a un’umiliante condanna dell’Italia per trattamenti inumani e degradanti”, è l’amarezza del presidente dell’Ordine. Peccenini ha poi voluto ricordare le parole pronunciate poco tempo fa dal capo dello Stato, Sergio Mattarella: “Il Presidente della Repubblica, pochi giorni fa, ha denunciato pubblicamente l’inaccettabile sovraffollamento e l’irrefrenabile aumento dei suicidi nelle carceri del nostro Paese, definendoli “un’emergenza sociale”, chiedendo interventi urgenti per garantire che la pena torni a essere rispettosa dei principi costituzionali”. Un appello al quale il Consiglio dell’Ordine si è voluto associare: “Chi può, e chi deve, faccia tutto il possibile per porre fine al più presto a questa drammatica emergenza sociale”. Verona. Saldatura solidale e lavoro in carcere cronacadiverona.com, 9 luglio 2025 La nuova realtà produttiva crea opportunità per persone fragili in un contesto innovativo. È stato presentato il progetto “Saldatura Solidale - saldiamo legami, non solo metalli” e inaugurato il laboratorio di saldatura della Cooperativa Sociale Centro di Lavoro San Giovanni Calabria, la nuova realtà produttiva nata per rispondere alla crescente domanda di lavorazioni di saldatura qualificate, creando al tempo stesso opportunità di lavoro per persone fragili in un contesto sicuro e innovativo. Il laboratorio offrirà servizi di saldatura professionale e percorsi formativi altamente qualificanti, con la prospettiva di aprire un reparto interno alla Casa Circondariale di Montorio. Dopo i saluti del presidente della cooperativa Gianfranco Zavanella e del volontario e responsabile di progetto Maurizio Scarpa, è intervenuto Egidio Birello, Area Manager nord est Italia dell’Istituto Italiano della Saldatura: “Il mestiere di saldatore è difficile, richiede grande competenza tecnica e per questo è molto richiesto. Formare le persone e allestire un’officina di saldatura richiede tante risorse e la sinergia di più attori, è importante sottolineare il lavoro che è stato fatto per far capire il valore di questo progetto”. La direttrice della cooperativa Paola Padovani ha poi illustrato la normativa in materia di assunzione di categorie protette nelle aziende e la soluzione che consente il collocamento di persone svantaggiate in una cooperativa sociale di tipo B in cambio di una commessa di lavoro, mentre la coordinatrice dei servizi socio- assistenziali Rachele Nicolis ha parlato degli inserimenti lavorativi di detenuti ed ex detenuti nella cooperativa e l’importanza di queste esperienze come volano per reinserirsi pienamente nella società. Don Matteo Malosto, vicepresidente della Fondazione Esodo e direttore di Caritas diocesana veronese, ha quindi lodato la lungimiranza di quelle aziende, purtroppo sempre più rare, che scelgono di dialogare con il terzo settore per creare una realtà produttiva più umana. Infine Luisa Ceni, assessora ai Servizi Sociali del Comune di Verona, ha concluso rimarcando che “l’amministrazione comunale deve continuare a sostenere iniziative imprenditoriali che mettono al centro la persona, perché in questo caso chi ci perde? Non ci perde nessuno, ci guadagnano tutti”. “Saldatura Solidale” coinvolge importanti partner nazionali come Anasta (Anima), Associazione Nazionale delle aziende di saldatura per supporto tecnico e materiali; IIS - Istituto Italiano della Saldatura, per formazione e certificazione; Ractec, per analisi di mercato e strategie industriali; Synergie, gruppo internazionale e fra le agenzie per il lavoro leader in Europa; Lavoro & Società, per la formazione mirata; Fondazione Esodo, per inclusione e reinserimento; Casa Circondariale di Montorio. La Cooperativa Sociale Centro di Lavoro San Giovanni Calabria nasce nel 1975 per volontà di don Antonio Mazzi. Oggi è una cooperativa sociale di tipo A+B che impiega 182 persone, di cui 54 in situazione di svantaggio. Nel 2024 ha registrato un fatturato di poco inferiore ai 6 mln €, operando in sei aree di attività. Nel 2025 celebra 50 anni di impegno per l’inclusione lavorativa e sociale. Genova. Nel carcere di Marassi c’è la stanza dei figli: uno spazio per incontrare i padri detenuti di Michela Bompani La Repubblica, 9 luglio 2025 Finalmente una buona notizia da un carcere. Quello genovese di Marassi, dove i bambini vengono aiutati a superare il trauma dell’incontro con i padri detenuti. Tra sketch teatrali, partite di calcio e tante attenzioni. Separazione, sofferenza, stress, stigma: chi si occupa di cosa provano i minori quando un genitore finisce in carcere? E quando lo vanno a visitare? Da qualche tempo ci prova uno spazio, dentro il carcere maschile di Marassi, a Genova, in cui i figli dei detenuti trovano una strada alternativa per andare a visitare papà. Sia fisica, perché rappresenta l’ingresso a loro riservato per entrare in carcere, bypassando perquisizioni e cani (che invece attraversa la mamma), sia psicologica, perché lì trovano un ambiente colorato, pieno di giochi e libri, e gestito 255 giorni all’anno, sei giorni su sette, da undici operatori, tra educatori, assistenti sociali e psicologhe. E non sono più soli a dover gestire una realtà troppo grande, anche per le loro mamme e papà. Si chiama Spazio Barchetta: è ispirato allo Spazio Giallo del carcere di Bollate, da cui ha mutuato l’innesco, espandendosi ulteriormente e proponendo un progetto unico in Italia. Escogitato nel 2016, sbocciato poco prima del Covid, inciampato nella pandemia, ora ha concluso il primo periodo sperimentale e si fa più grande, mettendo radici anche nelle altre case circondariali della Liguria. A misurare quanto in profondità del tessuto familiare vada il lavoro della Barchetta sono le ormai moltissime storie raccolte dalle operatrici che si trovano a dover riannodare fili di relazioni genitori-figli che sono stati interrotti da un muro di cinta e dal filo spinato, oppure, e forse molto più spesso, aiutano a tesserli per la prima volta. “Lo hanno arrestato lo stesso giorno in cui è caduto il ponte Morandi, così la mamma aveva raccontato al suo bimbo Paolo che il padre, un edile, era stato chiamato per la ricostruzione del ponte e finché non fosse finito, non sarebbe tornato a casa”, dice Vanessa Niri, dell’Arci Genova, coordinatrice e ideatrice dello spazio, “questo però le impediva di portare il bambino a visitare il padre. Era una bugia comprensibile, molto bella, ma una bugia. E i bambini riescono a elaborare cose difficili solo se le capiscono e se non vengono loro nascoste. Abbiamo accompagnato la mamma e il bimbo, anche attraverso il gioco, a dirsi la verità. E da questo è nato un ulteriore sviluppo del progetto nelle scuole, proprio sul tema della bugia e sul contrasto allo stigma legato al carcere”. Lo Spazio Barchetta è una stanza luminosa e accogliente che si affaccia sulla strada, nel quartiere popolare di Marassi, a pochi passi dallo stadio di Genova: da lì, ogni mese, passano oltre 130 minori figli di detenuti, bypassando i quaranta minuti di procedure che prima che lo Spazio venisse aperto, invece, dovevano subire. E sulla porta ci sono persone preparate che li aspettano e hanno voglia di giocare e stare con loro. Piantato come un fiore, in mezzo al deserto delle gravissime problematiche che affliggono le carceri italiane, e da cui Marassi non è indenne, come ha dimostrato una recente e grave rivolta dei detenuti esasperati dalle condizioni subite, la resilienza dello Spazio Barchetta, che ostinato spinge a recuperare la dignità delle relazioni, è ancora più straordinario. “La soddisfazione più grande è stata quando Javier e Marco, dopo alcune volte che passavano da noi e parlavano poco”, dice Camila Marquez, operatrice dello Spazio Barchetta, “non toccavano quasi i giochi e rispondevano poco alle nostre proposte, hanno invece cominciato a giocare con gli animali di plastica. Fino a costruire uno zoo. Che aveva le torrette di avvistamento e le mura alte: quello zoo era evidentemente il carcere”. Il lavoro della Barchetta si sviluppa ben oltre la stanza con i tavoli bassi e le seggioline di legno, supporta le madri che si ritrovano da sole con figli piccoli e spesso hanno difficoltà di accesso ai servizi, e i padri, alle prese con la gestione del rapporto con i figli interrotto dall’assenza. “Nonostante tutto questo, lo Stato continua a non riconoscere i minori figli di detenuti come soggetti fragili”, dice ancora Niri “gli educatori ascoltano e aiutano le mamme su problematiche emotive o organizzative: anche una banale iscrizione al nido può diventare complessa. Abbiamo coinvolto una rete di oltre dieci realtà del terzo settore per estendere le possibilità di supporto. Non esistono iscrizioni né prenotazioni per accedere a questo spazio: chi entra è accolto”. Domande e risposte - Ogni due mesi la Barchetta organizza giornate genitori-figli, nel campetto o nel teatro interni al carcere, coinvolgendo oltre cento persone ogni volta, tra partitelle, piccoli sketch, o lavoretti manuali. L’impegno all’interno della casa circondariale è quotidiano anche con i padri: “Con loro facciamo un lavoro intrecciato e contemporaneo a quello che, fuori, svolgiamo con le madri e i figli, per una presa in carico complessiva della famiglia” spiega un’altra operatrice, Cristina Mangiavillano, della Cooperativa Il Biscione. “Recentemente una bambina faticava a sopportare l’assenza del papà, la madre per proteggerla era evasiva rispetto alle domande sul ritorno del marito, abbiamo lavorato su una comunicazione coerente e chiara, di padre e madre nei confronti della bambina e poi abbiamo favorito un momento di attività padre-figlia durante una delle nostre giornate, e la gestione della situazione è diventata accettabile per la piccola”. La collaborazione dei papà è spesso straordinaria: “Raggiungiamo risultati che ci confortano nell’essere sulla strada giusta, ma soprattutto notiamo un miglioramento della qualità della vita delle persone private della libertà: un padre ha chiesto di poter sostenere lui stesso il colloquio online di profitto con la maestra di suo figlio. E partivamo da una situazione in cui il rapporto tra i due era quasi inesistente”, aggiunge Mangiavillano. Adesso l’attenzione ai bambini, e ai genitori, si allarga alle altre strutture liguri, a partire dall’altro carcere di Genova, quello femminile di Pontedecimo dove, spiegano le operatrici, “ci sono pochissimi bambini in visita perché o sono già con le madri oppure i padri faticano a portarli con loro: occorre lavorare molto su questo”. L’ampliamento del progetto si chiama La semina dei sogni, durerà 4 anni e coinvolgerà 500 minori e 400 famiglie in Liguria. “La nostra azione continuerà a mettere al centro i bambini, troppo spesso invisibili”, dice la psicologa Elisabetta Corbucci, coordinatrice del Cerchio delle relazioni, capofila del progetto. “Lo faremo su due assi: uno interno al carcere e uno esterno, coinvolgendo genitori e educatori”. L’obiettivo è potenziare i progetti nelle scuole, ma anche riuscire a varare protocolli omogenei tra gli operatori a livello nazionale: “Avere assistito all’arresto del papà o avere il papà in carcere è una bomba atomica nella loro vita. Come privato sociale e pubblico, dobbiamo darci strumenti per farlo, riuscendo a strutturare interventi uniformi a supporto della loro situazione traumatica”, conclude Niri. Turi (Ba). “L’albero del riccio”, il libro tattile realizzato dai detenuti di Emiliano Moccia vita.it, 9 luglio 2025 La versione sensoriale, con inserti in Braille, della fiaba scritta da Antonio Gramsci è la prima opera realizzata a mano dal gruppo di ristretti che hanno partecipato al progetto “conTatto”, ideato dalla cooperativa sociale Zorba e dalla casa editrice edizioni la meridiana. L’obiettivo è di creare un laboratorio permanente di realizzazione di libri tattili illustrati all’interno del penitenziario per offrire occasioni di lavoro. C’è chi nel giro di qualche settimana ha imparato a leggere e a scrivere il Braille, punteggiando a mano o battendo a macchina e adesso si chiede come poter certificare questa competenza acquisita per spenderla nel mercato del lavoro una volta scontata la pena. C’è chi ritaglia il feltro, chi rintaglia forme sulle pagine, chi dipinge, chi si occupa della rilegatura. Ognuno fa la sua parte, ognuno lascia il proprio segno. Perché il laboratorio per la realizzazione dei libri tattili che si sta svolgendo nella casa di reclusione di Turi coinvolgendo un gruppo di detenuti, è molto più di un progetto. È uno sguardo verso il futuro, verso nuove opportunità, verso abilità e professioni destinate a fare “conTatto”, come il nome del percorso che dall’aprile dello scorso anno la cooperativa sociale Zorba e le edizioni la meridiana portano avanti grazie a un finanziamento dell’Ufficio del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Puglia e il coordinamento formativo di Fabio Fornasari, esperto di laboratori tattili e multisensoriali. Il primo libro tattile con inserti in Braille che hanno realizzato i detenuti coinvolti nel progetto si intitola “L’Albero del riccio” e non è affatto una scelta casuale. “È la storia epistolare che dà il nome alla raccolta di lettere che Antonio Gramsci scrisse alla moglie Giulia e i suoi figli, Delio e Giuliano, durante la sua lunga detenzione seguita all’arresto nel 1926. Gramsci, infatti, trascorse nel carcere di Turi oltre cinque anni, dal 1928 al 1933, in seguito alla condanna da parte del Tribunale speciale per la difesa dello Stato fascista. Non rivedrà più i suoi bambini, lasciati in tenerissima età, ed è proprio attraverso la scrittura che trova ugualmente il modo di essere presente nelle loro vite” spiega Elvira Zaccagnino, direttrice della casa editrice edizioni la meridiana. Guidati da Fabio Fornasari, quindi, i detenuti sono stati formati per diventare esperti nella realizzazione di libri che tutti, a partire dalle persone con difficoltà cognitive o linguistiche, possono sfogliare e leggere. “Il sogno di cambiare la propria vita facendo qualcosa di buono a chi ne ha bisogno. La mia potrebbe essere stata effettivamente una vocazione, avendo amato direttamente ed indirettamente bambini e adulti con diverse disabilità. Mi sono ritrovato una caratteristica riferita alle mie mani, una perfetta manualità con tutti i tipi di strumenti immaginabili” ha scritto E., uno dei detenuti che ha realizzato il libro tattile e in Braille, condividendo le sue emozioni all’interno del laboratorio di scrittura creativa che segue sempre nel penitenziario di Turi. E. è riconosciuto da tutti come il Poeta delle mani, perché in questo cammino ci ha messo davvero l’anima, ha coordinato il gruppo, ha contribuito a dare forma a tutte le creazioni effettuate. “È stato facile metterci cuore, impegno e determinazione per realizzare il libro tattile “L’albero del riccio”, interamente realizzato con materiali certificati dall’Unione Europea. Sono ritagliati, scolpiti, modellati, dipinti a mano, cuciti, assemblati, incollati in modo tale che chi dovrà leggerli con il tatto potrà farlo quante volte vorrà”. Per realizzare “L’Albero del riccio”, dunque, hanno lavorato con fogli colorati, carta da forno e in alluminio, cartoncini, tessuti, tappetini in feltro, pannolenci morbidi canapa, rafia, diversi tipi di colla, tempere acriliche e tanti altri materiali differenti. Ma soprattutto con le loro mani, il loro impegno, la loro voglia di farcela. Non solo. Perché sono stati gli stessi ristretti ad effettuare il passaggio di nozioni e competenze ai nuovi arrivati nel gruppo, a chi si è inserito in un secondo momento. Di conseguenza, ogni libro è un’opera d’arte unica, originale, inimitabile. Come le vite di chi lo ha realizzato, che anche attraverso questo laboratorio cercano un percorso di risocializzazione nella comunità, per sentirsi ancora parte integrante di essa. “Il progetto si concluderà a settembre. Il nostro obiettivo” rileva Zaccagnino “è di costituire un laboratorio permanente di realizzazione di libri tattili tra le mura del penitenziario di Turi, per offrire ai detenuti un’occasione di lavoro e di speranza”. Per questo, adesso, entra in gioco la fase più ambiziosa del progetto. “A 14 mesi dall’avvio del laboratorio, sono state donate le prime dieci copie realizzate ad associazioni, scuole e biblioteche che hanno risposto ad una call. Ora, però, è possibile ordinare ed acquistare il libro, non come semplice gesto di solidarietà, ma come investimento di una comunità che si prende carico di queste persone per sostenere il loro processo di inclusione e di futuro” evidenzia Zaccagnino. “Ogni copia sarà realizzata dai detenuti e spedita entra trenta giorni dall’ordine e darà modo di contribuire al mantenimento del laboratorio permanente per realizzare altri libri sensoriali”. Il libro tattile “L’Albero del riccio” - Ricci, uccelli, tartarughine, formiche, cani, bisce. Ogni pagina alterna alle suggestive ambientazioni modellate dalle mani dei novelli artigiani, parti di racconto in Braille e la versione tattile accompagnata dal testo della lettera di Antonio Gramsci, semplificata e stampata con font ad alta leggibilità EasyReading®, con la “consapevolezza di donare un sorriso ai non vedenti, ipovedenti e autistici” conclude il Poeta delle Mani che non manca di ringraziare per l’opportunità ed il sostegno ricevuto Nicoletta Siliberti e Adriana Bottiglieri, rispettivamente direttrice e responsabile dell’area trattamentale della casa di reclusione di Turi. Milano. Magistrati e teatro: l’esperienza in carcere a Bollate di Alberto Siracusa lamagistratura.it, 9 luglio 2025 La consapevolezza del dramma della condizione delle carceri. L’esigenza di creare occasioni di confronto. Il teatro come linguaggio universale, comprensibile a tutti, detenuti e non. Sono gli ingredienti dell’iniziativa del penitenziario di Bollate, dove un gruppo di persone, provenienti da diverse professionalità, tra le quali anche la magistratura, ha indossato le vesti da attori e messo in scena l’Antigone con la regia di Oscar Magi, dando poi spazio a un dibattito con gli stessi detenuti. Al centro dell’Antigone di Sofocle c’è proprio la legge. Quella legge che impedirebbe la sepoltura delle persone accusate di tradimento, in questo caso di Polinice, il fratello di Antigone. E violando quella legge Antigone viene a sua volta condannata all’esilio in un carcere, e sulle sue vesti ricamato fine pena: mai. Il tema del conflitto tra la legge superiore e la legge morale, ma anche quello dell’eutanasia nonché del dramma del suicidio in carcere sono i nodi della tragedia. Una tragedia rivisitata dalla scrittrice napoletana Valeria Parrella - e messa in scena con la regia dell’ex magistrato Magi - per riflettere sugli snodi sociali e individuali dell’etica e della legge. Il teatro della casa di reclusione di Bollate, nel Milanese, è stato quindi al centro dell’evento promosso dalla giunta locale dell’Associazione nazionale magistrati, aperto alla cittadinanza e ai detenuti del carcere. Prima lo spettacolo, non in un teatro antico, ma in un carcere, e a seguire, il dibattito aperto in un confronto serrato, con numerosi punti di vista. Al centro del palco il direttore della Seconda casa di reclusione di Milano Bollate Giorgio Leggieri, il capo dell’Area educativa Roberto Bezzi e Silvia Landra, psichiatra dell’Asst Santi Paolo e Carlo. Un dibattito moderato da Roberto Crepaldi, magistrato del tribunale di Milano e (in quel momento) membro della giunta locale della ANM. “Conosciamo bene, purtroppo, quali sono le condizioni delle carceri e spesso siamo proprio noi a denunciarle. Creare iniziative di questo tipo è utile per accendere un faro su queste gravissime problematiche”, spiega Elena Masetti Zannini (segretaria della giunta locale dell’Anm all’epoca dell’iniziativa, nonché sua promotrice anche in qualità di membro della compagnia teatrale). “Un faro che non deve spegnersi mai, per non arretrare nella battaglia per la tutela dei diritti fondamentali anche dei detenuti e delle persone che lavorano in carcere”. Non è il primo appuntamento che la magistratura associata organizza nelle carceri. Fra gli ultimi episodi quelli che hanno visto protagonisti i neo-magistrati fra Belluno e Secondigliano, quindi le iniziative culturali in diverse parti d’Italia. Con la consapevolezza che l’emergenza carceraria ha un costante bisogno di risposte. “Nella colonia penale”, quattro storie di carcere cinecittanews.it, 9 luglio 2025 Il documentario indipendente “Nella colonia penale”, racconto per immagini di alcune delle ultime colonie penali tuttora attive in Europa, è al Festival di Locarno nella Semaine de la Critique. Tre località sarde - Isili, Mamone, Is Arenas, fino a poco tempo fa l’Asinara - sono infatti sede di case di lavoro all’aperto, fondate su un modello ereditato dall’imperialismo europeo, dove i detenuti scontano la pena coltivando la terra, allevando animali da pascolo o svolgendo compiti legati alla manutenzione della stessa struttura in cui sono costretti. Protagoniste sono per lo più persone migranti, il cui tempo è nel film come nella vita reale fermo e dilatato dalla condizione di detenzione, scandito dai compiti quotidianamente previsti in cambio della possibilità di scontare la propria pena in spazi aperti, a contatto con gli animali, ma isolati e inaccessibili ai più: luoghi che per diverse ragioni si differenziano dalla maggior parte delle carceri, ma che non sono di fatto meno vincolati dalle regole che da sempre caratterizzano il sistema penale. Come sottolineano i registi Gaetano Crivaro, Silvia Perra, Ferruccio Goia e Alberto Diana, nei quattro episodi che compongono il film “il dispositivo di sorveglianza e repressione sembra ripetersi immutato di fronte alla macchina da presa, di colonia in colonia: cambiano i volti, le guardie e i condannati, ma il sistema di controllo rimane il medesimo. Nella colonia penale si immerge in uno spazio di eccezione: un regime carcerario retaggio del passato, sul punto di scomparire, lontano dalla nostra società, ma di cui è al contempo una diretta emanazione”. La prima internazionale si terrà il 14 agosto alle 11 nell’ambito della Semaine de la Critique, che prevede sette lungometraggi selezionati dall’Associazione Svizzera dei Giornalisti Cinematografici in collaborazione con il Locarno Film Festival al fine di promuovere film innovatori che per tematiche e stile si discostano da tendenze convenzionali e mirano ad accendere il dibattito. Da un’idea originale di Nicola Contini, Nella colonia penale è scritto e diretto da Gaetano Crivaro, Silvia Perra, Ferruccio Goia e Alberto Diana. Prodotto da Nicola Contini, Laura Biagini, Matteo Incollu e Federica Ortu per Mommotty, ha ottenuto contributi dal Ministero della Cultura (MIC) - Direzione Generale Cinema e Audiovisivo, dalla Regione Autonoma della Sardegna e dalla Fondazione Sardegna Film Commission. Ma oggi Alexander Langer sarebbe schierato a sinistra? di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 9 luglio 2025 La lezione più che mai viva del leader sudtirolese. “Ci vuole una formazione meno partitica, meno ideologica, meno verticistica e meno targata di sinistra”. Forse in questi giorni di ricordi nel 30° anniversario della sua scelta d’andarsene appeso a un albicocco a Pian dei Giullari nel 1995, Alex Langer avrebbe meritato una citazione di quel pezzo che scrisse il 25 giugno 1994, un mese dopo l’avvio del 1° governo Berlusconi e pubblicato dal Cuore di Michele Serra perché, ricorda Marco Boato in “Alexander Langer. Costruttore di ponti”, “nessun altro della sinistra, e in particolare del Pds raccolse la sua generosa “provocazione”, le cui motivazioni sono ancor oggi, forse ancor più di ieri, degne della massima attenzione e condivisione”. Parole d’oro. Rileggiamo cosa scriveva quel leader sudtirolese che un mese prima era stato sconfitto anche nella più nobile delle sue battaglie, la scelta di candidarsi a sindaco di Bolzano rifiutando la regola che gli imponeva di dichiararsi di nazionalità tedesca, italiana o ladina, cosa insensata per uno come lui con la testa di europeo: “Una riedizione della coalizione progressista o di altri consimili cartelli non riuscirà a convincere la maggioranza degli italiani a conferirle un incarico di governo. Ci vuole una formazione meno partitica, meno ideologica, meno verticistica e meno targata “di sinistra”. Ciò non significa che bisogna correre dietro ai valori ed alle finzioni della maggioranza berlusconiana, anzi. Occorre un forte progetto etico, politico e culturale, senza integralismi ed egemonie, con la costruzione di un programma e di una leadership a partire dal territorio e dai cittadini impegnati, non dai salotti televisivi o dalle stanze dei partiti. Bisogna far intravvedere l’alternativa di una società più equa e più sobria, compatibile con i limiti della biosfera e con la giustizia, anche tra i popoli. (...) Da molte parti si trovano oggi riserve etiche da mobilitare che non devono restare confinate nelle “chiese”, e tantomeno nelle sagrestie di schieramenti ed ideologie. Ma forse bisogna superare l’equivoco del “progressismo”: l’illusione del “progresso” e dello “sviluppo” alla fin fine viene assai meglio agitata da Berlusconi. Per aggregare uno schieramento nuovo e convincente bisognerà saper sciogliere e coagulare, unendo in modo saggio radicalità e moderazione”. Grazie ad Angelo Bonelli, leader dell’Alleanza Verdi-Sinistra per aver ricordato in Parlamento quel giovane straordinario. Se non avesse ignorato le sue battaglie (perse) per non schiacciare i verdi a sinistra come sono oggi, però, sarebbe stato più credibile. Per l’Italia una prevedibile maglia nera dal Rapporto sullo Stato di diritto di Beppe Giulietti Il Fatto Quotidiano, 9 luglio 2025 Rispetto al 2024 non si sono registrati miglioramenti e il Governo non ha accolto alcuna delle raccomandazioni rivolte all’Italia. Tutto come previsto e prevedibile: la Relazione europea sullo Stato di diritto, che affronta anche i temi relativi alla libertà dei media, ha confermato un giudizio negativo sull’Italia. Rispetto al 2024 non si sono registrati miglioramenti e il governo non ha accolto alcuna delle raccomandazioni rivolte all’Italia. Non sono state adottare norme a tutela del segreto professionale e della tutela delle fonti, anzi sono aumentate le minacce, i pedinamenti, sino al clamoroso caso degli spiati da Paragon e del testardo rifiuto a rendere pubblici i nominativi, elenco saldamente rinchiuso nei cassetti dell’esecutivo. La Commissione europea aveva chiesto nuove norme sulla diffamazione, nel frattempo il governo ha conquistato il record europeo in materia di querele bavaglio scagliate dai governanti medesimi contro giornali, giornalisti, scrittori, disegnatori, storici, intere trasmissioni a cominciare da Report. Buio totale e nessuno risposta in materia di conflitto di interesse, norme anti trust, concentrazioni editoriali. Nessuna risposta sulla fonte di nomina del consiglio Rai, anche se, segnala il Rapporto, non è stato effettuato il taglio delle entrate: sarebbe stato davvero singolare se avessero tagliato il ramo sul quale stanno appollaiati. La relazione ci consegna la maglia nera insieme all’Ungheria. Non si tratta di un dettaglio perché dall’8 agosto entrerà in vigore il Media Freedom act e il governo italiano dovrà obbligatoriamente recepire le prescrizioni che, peraltro, sono le medesime segnalate dalla Relazione sullo Stato di diritto. Dal giorno 9 agosto sarà possibile presentare denunce ed esposti alla Commissione europea. Sarà il caso di farlo tutti insieme, di coordinare le energie, di unire quanti hanno ancora a cuore l’Articolo 21 della Costituzione, di reclamare la vigilanza, le ispezioni e - in caso di rifiuto del governo ad accogliere le indicazioni - di reclamare le inevitabili sanzioni, come è già accaduto all’Ungheria. Facciamolo, insieme, facciamolo subito. In Consulta arriva l’eutanasia. E slittano i lavori sul fine vita al Senato di Francesca Spasiano Il Dubbio, 9 luglio 2025 L’udienza sul caso di “Libera”, malata di sclerosi che non può assumere da sola il farmaco. Il Pd chiede mini-audizioni sul ddl della maggioranza. Saranno ancora una volta i giudici costituzionali a tracciare i confini del fine vita. Ma con una differenza sostanziale, rispetto alla giurisprudenza scritta fino ad oggi dalla Consulta: la decisione riguarderà per la prima volta l’eutanasia. A partire da un caso specifico, che potrebbe fare regola, come è già successo con la sentenza Cappato/Dj Fabo. Ma senza una disobbedienza civile necessaria ad aprire il varco, come fu per la 242 del 2019 che ha in parte legalizzato il suicidio assistito. Ora il quadro è molto diverso, perché la domanda posta oggi in udienza pubblica davanti alla Corte arriva direttamente da una paziente. Che è ancora in vita, e chiede di porre fine alle proprie sofferenze con l’intervento di un medico di fiducia che possa somministrarle il farmaco. “Libera” non può assumerlo autonomamente, perché è paralizzata dal collo in giù. Ha scelto un nome di fantasia per combattere la sua battaglia senza rinunciare alla privacy, ha 55 anni, e da 18 convive con la sclerosi multipla. Per restare in vita dipende dall’assistenza di tre persone, che l’accompagnano in tutte le attività quotidiane. Ha difficoltà a deglutire e ha già rifiutato la Peg (gastrostomia endoscopica percutanea), così come ha rifiutato la sedazione profonda perché vuole essere lucida e cosciente fino alla fine. Le sue condizioni cambiano rapidamente, e questo spiega anche il ricorso d’urgenza presentato dall’Associazione Luca Coscioni al tribunale di Firenze, che lo scorso 30 aprile ha sollevato la questione di legittimità costituzionale sull’articolo 579 del codice penale (omicidio del consenziente). “Chiunque cagiona la morte di un uomo col consenso di lui”, recita l’articolo, è punito con la reclusione fino a 15 anni, senza alcuna eccezione. Ora non si chiede di cancellarlo - ha spiegato il collegio difensivo guidato dalla segretaria nazionale dell’Associazione Coscioni, Filomena Gallo - ma di escluderne l’applicazione “nei casi in cui la volontà suicidaria sia libera, consapevole, verificata, e l’unico ostacolo sia un limite fisico oggettivo”. Si tratterebbe di estendere i quattro requisiti già stabiliti dalla Consulta per riformulare l’articolo 580 del codice penale, che depenalizza l’aiuto al suicidio quando il paziente soddisfa quei criteri. Anche “Libera” risponde alle condizioni previste, come ha verificato l’asl di competenza. Ma non può assumere il farmaco da sé, e non esiste un macchinario che le permetta di azionare il pulsante con la bocca o tramite comando vocale. Perciò la paziente “non chiede un diritto speciale. Chiede semplicemente che la sua libertà di autodeterminarsi non venga annientata dalla propria condizione fisica”, argomenta Gallo. Per la quale “esiste una zona d’ombra nel nostro ordinamento, che, solo grazie ad un’azione di accertamento è possibile, in questo caso, rimuovere”. Senza cedere alla “tentazione paternalistica” di difendere le persone da loro stesse. Di parere opposto è il collegio difensivo di due intervenienti in condizioni cliniche simili, ammesse in giudizio dalla Corte e presenti in udienza. Per i loro legali un’apertura all’eutanasia determinerebbe di fatto uno “sgretolamento” del nostro ordinamento, cancellando quella cintura di protezione che tutela la vita e la rende indisponibili a terzi. È ciò che teme anche l’Avvocatura dello Stato, per la quale spetta soltanto al legislatore mutare il quadro, perché mancano vincoli giuridici per una decisione della Corte. “Non si può non riconoscere fino all’ultimissimo istante il diritto e il potere della persona di desistere dal proprio intento suicidario e di fare una scelta nel senso della vita”, è la tesi di Gianna Maria De Socio, intervenuta per la Presidenza del Consiglio. Un’argomentazione alla quale risponde Paolo Malacarne, il medico disposto ad aiutare “Libera”: “Sottoporla a un tentativo di autosomministrazione significherebbe essere crudeli nei suoi confronti, perché comporterebbe un’altissima probabilità di fallimento. Dal punto di vista tecnico e materiale, Libera potrebbe cambiare idea fino all’ultimo momento, nel momento in cui aprirei il deflussore della flebo”, spiega Malacarne, che sarebbe disposto a procedere con una disobbedienza civile. La parola dei giudici arriverà in fretta, nelle prossime settimane. Forse prima che ad esprimersi sul fine vita sia il Parlamento. Proprio oggi, infatti, la commissione Affari costituzionali del Senato ha disposto un mini-ciclo di audizioni sul testo base della maggioranza. La richiesta, avanzata dal dem Andrea Giorgis e sostenuta dal M5S, fa slittare il termine per la presentazione degli emendamenti, previsto per domani, ritardando anche l’approdo in Aula, in programma il 17 luglio. Si tratterebbe di un ciclo breve, due nomi per la maggioranza e due per le opposizioni. Ma per il definitivo accoglimento della richiesta servirà un via libera “formale” del presidente del Senato Ignazio La Russa, ha spiegato il presidente il presidente della Commissione Alberto Balboni (FdI), perché “non è prassi che si tengano audizioni in sede consultiva”. Droghe. La sfida della cannabis tra repressione e liberalizzazione di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 luglio 2025 Un’articolata inchiesta di Nadia Ferrigo, “L’erba e le sue buone ragioni”, pubblicata da Einaudi. Le iniziative dei radicali, la sinistra ondivaga, gli echi nostrani della “War on drugs” di Nixon. Roma, luglio 1975. La sede dei Radicali di via Torre Argentina è piena di giornalisti e militanti. Tra loro, Marco Pannella accende uno spinello tenendolo al contrario - è esperto di Gitanes, meno di canne - in attesa dell’arrivo della polizia, chiamata per autodenunciarsi. Poco dopo il commissario Ennio Di Francesco entra imbarazzato nella sala, deriso dai presenti, e porta via Pannella in arresto. È un giovane poliziotto, Di Francesco, e si rende conto dell’anacronismo di una legge che puniva “con il carcere o l’ospedale psichiatrico minori e tossicodipendenti, magari solo per uno spinello”, come ricostruì egli stesso in seguito. Perciò, poche ore dopo avere accompagnato Pannella nel carcere di Regina Coeli, decide di inviargli un telegramma di solidarietà, “che finisce in prima pagina su Momento sera”. Quando, per punizione, il commissario verrà “trasferito in fretta all’ufficio passaporti”, i militanti radicali non dimenticheranno il suo gesto: “Di Francesco - scriveranno sui cartelli - è colpevole di pensare”. L’episodio è raccontato dalla giornalista de La Stampa Nadia Ferrigo nel saggio L’erba e le sue buone ragioni. Perché liberalizzare la cannabis conviene alla società, edito da Einaudi nella collana Passaggi (pp. 135, euro 15,50). Ed è preso a simbolo della causa antiproibizionista che il Partito Radicale, unico in Italia, come scrive l’autrice, sposò “fino a farne bandiera”, “mentre le forze di sinistra si sono sempre dimostrate quantomeno ondivaghe”. Da allora, mentre la maggior parte dei Paesi europei e gli stessi Stati uniti d’America hanno intrapreso un’evoluzione sulla base delle evidenze scientifiche, e seguendo un approccio razionale che “in quindici anni ha scardinato la scelta proibizionista”, l’Italia è rimasta al palo, se non addirittura regredita. La politica nostrana è riuscita perfino a far miseramente naufragare anche le poche riforme liberali che negli anni avevano trovato spazio, come “l’invenzione della cannabis light”, per esempio. E i deboli tentativi di abbandonare la propaganda anti-marijuana che caratterizzava la War on drugs, nata oltreoceano e intensificata alla fine degli anni Sessanta per la campagna elettorale di Nixon al fine di stigmatizzare l’elettorato afroamericano: “La droga delle popolazioni immorali”, la bollavano. Propaganda alla quale però nemmeno lo stesso presidente americano credeva. “Sapevamo di mentire sulla droga? Certo, e l’abbiamo fatto”, ammise l’ex consigliere repubblicano John Ehrlichman nel 1994. Nadia Ferrigo, esperta nella materia, ripercorre la storia della pianta di canapa (indica, sativa e ruderalis) e del proibizionismo fin dalle origini e nei vari Paesi occidentali. Con un particolare focus sull’Italia, “uno dei Paesi europei con le leggi più severe sulle droghe” e allo stesso tempo con “uno dei più prolifici mercati neri” e “uno dei più alti tassi di consumo tra i giovani”. Tra “il 1990 e il 2020, tanto per dirne una, sono state segnalate alle autorità un milione e 200 mila persone per il solo consumo” di sostanze, “oltre il 70% del totale per cannabis”, scrive la giornalista. I costi della repressione? “Allo Stato, e quindi a tutti noi, ogni grammo sequestrato è costato circa 500 euro”. Ferrigo analizza anche le ultime leggi-bandiera prodotte dal governo Meloni: dal decreto Caivano, che ha contribuito a riempire carceri e Ipm di giovani consumatori, fino al dl Sicurezza che, contro ogni evidenza scientifica, attribuisce d’emblée un potere “drogante” anche alla canapa industriale senza principio attivo, mettendo sul lastrico migliaia di aziende agricole incentivate peraltro dai fondi europei. Non che non esistano sacche di resistenza anche in Italia: le loro voci trovano largo spazio nelle pagine del capitolo che l’autrice dedica “Ai disobbedienti”. “Bisogna correre il rischio di essere impopolari per non essere antipopolari”, diceva Pannella. Oggi bisognerebbe avere il coraggio di percorrere la strada della liberalizzazione, sembra la tesi di Ferrigo. O almeno della legalizzazione, che “non è una sola” ma “sono tante e tortuose”, fa notare la giornalista ricordando l’ex presidente Pepe Mujica, “che portò l’Uruguay a essere il primo Paese al mondo a legalizzare la marijuana”. Mujica, morto a maggio, proprio mentre il libro andava in stampa, sosteneva che “per abbandonare il proibizionismo bisogna cambiare lo sguardo e porlo non sull’offerta ma sulla domanda, così da investire energie e risorse su prevenzione, informazione e ricerca sulla complessità del fenomeno delle droghe”. “A noi sta - conclude Nadia Ferrigo - scegliere se vivere vecchie illusioni o nuove speranze”. Migranti. La Consulta salva il decreto anti-ong, ma fissa i paletti per i fermi delle navi di Giansandro Merli Il Manifesto, 9 luglio 2025 Non fondate le questioni poste dal tribunale di Brindisi. Il caso nato dal fermo della Ocean Viking: 261 salvati disobbedendo ai miliziani libici. La Consulta ha ritenuto infondate tutte e tre le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal tribunale di Brindisi rispetto al decreto Piantedosi di gennaio 2023, quello sulle attività di soccorso delle navi ong. La norma del governo Meloni è salva, da oggi però i suoi margini di applicazione, e dunque i rischi di arbitrio, saranno più contenuti. Il caso nasce dal fermo della Ocean Viking, di Sos Mediterranée, del 9 febbraio dell’anno scorso. Tre giorni prima l’imbarcazione umanitaria aveva tratto in salvo 261 naufraghi in quattro interventi. Durante uno di questi i libici le avevano ordinato di allontanarsi, cosa che aveva fatto scattare il panico tra i migranti, spingendo il capitano a dare l’ordine di terminare il salvataggio. Per questo la Ocean Viking, dopo lo sbarco nel porto pugliese, è stata multata e sottoposta a un blocco di 20 giorni. Durante il processo la giudice ha deciso di interrogare la Corte costituzionale su tre punti. I primi due sono tecnici: l’automatismo della sanzione del fermo amministrativo che, a differenza della multa, non permette di graduare la pena; la mancanza di chiarezza per il comandante sul comportamento da seguire, visto che questo dovrebbe dipendere da generiche indicazioni di un’autorità straniera. Il punto iniziale è stato modificato da un decreto successivo, mentre rispetto al secondo la Consulta non vede criticità perché la legge Piantedosi dice che il comandante deve agire all’interno del sistema delle Convenzioni che prevede la cooperazione tra Stati. Tutto corretto in astratto, il problema è che la sentenza evita di considerare la concretezza delle situazioni che si generano nel Mediterraneo centrale. Qui non sono coinvolte autorità qualsiasi, ma le milizie libiche. Anche quando indossano divise ufficiali. Su di loro verteva la terza questione di legittimità: riconoscerle come soggetti legittimi - ma sarebbe più corretto dire: finanziarle per fare il lavoro sporco - può essere compatibile con gli obblighi assunti dall’Italia? In particolare con il principio di non respingimento di rifugiati e richiedenti asilo: è infatti noto e pacifico che la Libia non può garantire alcun “luogo sicuro di sbarco”, come richiesto dai trattati. Evidentemente affermare l’evidenza - no, non c’è compatibilità possibile tra gli accordi che tutelano i diritti fondamentali e chi cattura i migranti in mare, poi li tortura, li stupra, li uccide o li vende - avrebbe creato un caso politico molto più grande di quelli esplosi finora nei vari scontri tra giurisdizione ed esecutivo. Così la soluzione, ancora una volta, è scaricare la contraddizione a valle: saranno i giudici di merito nelle diverse cause, che le ong vincono quasi sempre ma solo dopo aver pagato il prezzo di lunghi fermi che ne compromettono l’attività, a dover valutare i singoli eventi. La Corte stabilisce che “nessuna sanzione, in definitiva, si può irrogare quando l’osservanza del precetto si ponga in contrasto con i principi sovraordinati”: nessuno, per esempio, potrà essere sanzionato per non aver contribuito a rimandare i migranti in Libia. Lo avevano già sancito almeno quattro sentenze della Cassazione (Rackete, Vos Thalassa, Asso28, Diciotti). Con altrettanta chiarezza la Consulta afferma che “non è vincolante un ordine che conduca a violare il primario ordine di salvataggio della vita umana e che sia idoneo a metterla a repentaglio e non ne può essere sanzionata l’inosservanza”. Per gli avvocati di Sos Mediterranée Francesca Cancellaro e Dario Belluccio significa che “la Corte offre una interpretazione del Decreto Piantedosi che, solo così, può essere ritenuta compatibile con la Costituzione e rende evidente che nessuna indicazione della Guardia costiera libica può ritenersi lecita e legalmente data”. In un comunicato, i legali sottolineano poi che il giudice delle leggi ha “riconosciuto la natura penale e il carattere punitivo della disciplina al punto da rilevare la sua “vocazione marcatamente dissuasiva” rispetto all’attività di soccorso”. È una novità assoluta, a cui dovranno corrispondere le maggiori garanzie che valgono nell’ambito del penale. “Siamo il Paese del riarmo e dei suicidi in carcere, serve un’alternativa” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 9 luglio 2025 Intervista a Paolo Ciani, vicepresidente Pd-Idp alla Camera: “È nata Rete Civica Solidale, un progetto che vuole affrontare le sfide di oggi: astensionismo, sfiducia nella politica, guerre, tagli alla spesa sociale. No al meloniano si vis pacem, para bellum: la pace va costruita. Il sistema penitenziario? Abbandona e non rieduca” Paolo Ciani, la butto giù seccamente: nel PD è nata la corrente pacifista? Seccamente: è nata Rete Civica Solidale. Un progetto politico che nasce dall’iniziativa di un gruppo di persone e movimenti politici e civici che si sono già “messi in gioco” candidandosi, essendo eletti, amministrando, facendo opposizione, a livello locale, nazionale ed europeo, nella coalizione di centrosinistra, ma non appartenenti ai partiti rappresentati in Parlamento. Personalmente chiamati all’impegno da una formazione cristiana e laica accomunata dai grandi valori costituzionali. Fra di noi non c’è nessuno iscritto al PD e già questo è indicativo del fatto che non possiamo costituire una corrente. C’è grande rispetto per tutti i partiti del campo del centrosinistra e siamo felici dell’attenzione che il PD ci ha dato il giorno della presentazione, con la presenza della coordinatrice della segreteria nazionale Marta Bonafoni. Così come ringrazio la capogruppo di IV alla Camera Maria Elena Boschi per essere stata alla conferenza stampa. Rispetto ai partiti del centrosinistra ci poniamo il tema dell’allargamento, dell’attenzione ai temi, del sanare il “divorzio” tra politica e cultura, provando a raggiungere e coinvolgere persone che non si sentono rappresentate. Ciò che vogliamo è unirci ed impegnarci insieme con maggior responsabilità per rispondere alle sfide che il nostro tempo ci pone… Quali? Crisi della democrazia, astensionismo, disillusione verso il mondo politico, crescita di individualismo e solitudini, in un mondo sempre più infuocato da guerre, tagli alla spesa sociale, diseguaglianze e violenza. Vogliamo che Rete Civica Solidale sia un luogo di esperienze politiche e umane, aperto, accogliente e dialogante, che contribuisca a connettere i tanti che oggi non si riconoscono più nei partiti e nella politica. Siamo in dialogo e attenti a figure di sindaci che possono allargare i confini della coalizione e raggiungere i cittadini comuni. In un tempo di ego smisurati, di ‘mentalità della forza’ e dell”io’, vogliamo costruire un ‘noi’: persone ed esperienze che si mettono insieme in nome del primato del bene comune. Per aver sostenuto le ragioni del pacifismo e denunciato la mattanza di Gaza, Elly Schlein è stata accusata di veteropacifismo e di minoritarismo. Siamo di nuovo al “tiro al segretario”? Che la Segretaria del PD si pronunci sulla tragedia in corso a Gaza è importante e doveroso ed anche che lo faccia con attenzione e fermezza. Che qualcuno possa non condividerlo fa parte della democrazia e della normale dialettica. Rispetto alla guerra, personalmente, oltre alla condanna per i crimini commessi a Gaza, ho apprezzato il posizionamento di Schlein rispetto al piano ReArm EU, sul no al riarmo dei singoli Stati e il sì alla difesa comune europea, chiaro messaggio contro la normalizzazione ed eternizzazione dei conflitti. Nel suo intervento alla Camera in risposta alla Presidente del Consiglio, la segretaria dem ha avuto parole molto forti e critiche sull’incremento del 5%, sia pur diluito nel tempo, delle spese militari. Lei è stato tra i parlamentari dell’opposizione a partecipare alla manifestazione di Roma del 21 giugno... In questo tempo grave, il fatto che ci siano piazze piene, pacifiche, che si riuniscono in nome della pace e contro la guerra e il riarmo degli stati nazionali, è un atto di resistenza importante. Significa opporsi alla logica pervasiva del conflitto e non arrendersi ad un orizzonte di guerra che appare sempre più inevitabile. Non vogliamo abituarci al linguaggio del riarmo, della guerra, della corsa alle spese militari, soprattutto nel quadro di un riarmo dei singoli stati nazionali. Per questo la scelta del Governo di innalzare al 5% l’investimento annuo in difesa e sicurezza chiesto dalla NATO entro il 2035 non è una scelta che possiamo accettare passivamente. È una decisione che cambierà la fisionomia economica e sociale del nostro Paese: temo significherà sottrarre risorse alla sanità, alla scuola, al welfare, alla transizione ecologica, alle politiche sull’abitare. A tutte quelle politiche che tengono insieme una società: non è questa la nostra idea di Paese. Questo processo finisce per avvantaggiare proprio gli Stati Uniti e Donald Trump, poiché l’industria bellica europea è ancora in ritardo e i Paesi UE saranno costretti a comprare forniture americane. Ma c’è un ulteriore aspetto preoccupante… A cosa si riferisce? L’annuncio di questo incremento ha già innescato una corsa all’adeguamento industriale, con aziende italiane, spesso in difficoltà, che hanno deciso di riconvertire impianti civili in produzione bellica, nutrendo così un’economia di guerra che rischia di diventare sempre più strutturale. Non possiamo farci trascinare dentro questa logica perversa, che sposta l’economia su un binario di produzione militare a discapito di quella civile e sociale. Nel ‘tempo della forza’ siamo consapevoli che anche l’Europa debba dotarsi di una difesa comune. E che per far questo debba riformarsi, completando il processo di integrazione. In questo, i leader sovranisti e nazionalisti che dicono “prima noi” sono particolarmente pericolosi. Io preferisco una Germania europea, ad uno Stato nazionale che investe 100 miliardi all’anno per le armi. Noi crediamo in una Europa e un’Italia che mette al centro la persona, i suoi diritti, la sua salute. E non dobbiamo dimenticare quanto ci dice la nostra Costituzione all’articolo 3, impegnandoci a rimuovere gli ostacoli economici e sociali che impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i cittadini alla vita del Paese. Pace, giustizia e sicurezza sociale sono le due facce della stessa medaglia. Non accettiamo il meloniano si vis pace para bellum: se vogliamo la pace dobbiamo costruirla, cambiare la narrazione della guerra come compagna di strada, della guerra “normale”, delle bombe intelligenti (e buone o cattive a seconda di chi le lancia) di cui sappiamo modello, grandezza e performance senza più chiederci dove cadranno e cosa provocheranno. Altro tema scottante, su cui lei è particolarmente impegnato, è quello delle carceri. Il sovraffollamento è insostenibile, i luoghi di detenzione non devono trasformarsi in “palestra per nuovi reati”, “i suicidi sono un’emergenza sociale”. Il Capo dello Stato Sergio Mattarella è tornato nei giorni scorsi a denunciare l’inciviltà delle carceri italiane. I numeri dell’emergenza: l’anno scorso ci sono stati 91 suicidi. Un record. “Un problema che non dà segni di arresto, un’emergenza sociale sulla quale occorre interrogarsi per porre fine immediatamente a tutto questo”, ha denunciato il presidente della Repubblica. Non si può morire in carcere, non si deve morire di carcere... No, non si deve morire di carcere. Lo hanno detto con chiarezza la settimana scorsa il Presidente Mattarella, ma anche Papa Leone, ricordando come “troppo spesso in nome della sicurezza si fa la guerra ai poveri, riempendo le carceri di coloro che sono soltanto l’ultimo anello di una catena di morte”. Purtroppo, però, continuiamo a sentire frasi come “buttare via la chiave”, o addirittura definire come “una gioia non lasciarli [i detenuti] respirare”. Sono parole gravi, perché pronunciate da rappresentanti delle istituzioni. Non sono semplici battute: sono il segnale di un clima culturale che considera i detenuti come persone a cui si può negare dignità e speranza. Tutto questo accade mentre il sistema penitenziario italiano è in piena emergenza strutturale e morale. I dati sono agghiaccianti: 91 suicidi in carcere nel 2024, un tragico record che non accenna ad arrestarsi. A maggio eravamo a 33 suicidi. A questi numeri si aggiunge la questione drammatica del sovraffollamento, che ha raggiunto un tasso medio del 134% e in alcune carceri si arriva a tassi anche più alti. Celle sovraffollate, mancanza di personale, assenza di attività educative o trattamentali, strutture vecchie e fatiscenti. E questo, nonostante gli sforzi encomiabili del personale, non è un sistema che rieduca: è un sistema che abbandona. Questa la drammatica fotografia della realtà. Cosa fa il Governo per migliorarla? Nulla, se non agire con provvedimenti che aumentano le pene e le fattispecie di reato, acuendo problemi già esistenti e situazioni già gravi. Si criminalizza la marginalità, si colpiscono i fragili, alimentando un’idea punitiva dello Stato, che di fatto riesce solo a dire: più pene, più carcere. Qualcuno quando parlo delle carceri mi dice: “Giusto pensare a Caino, ma ricordati di Abele…”. Ecco, credo che l’arretramento dei diritti umani sia molto grave anche per tutti gli Abele (soprattutto i più deboli) che nella loro vita quotidiana si trovano in una società peggiore, dove vige la legge del più forte (e del più ricco). Peraltro, ho da poco ricevuto risposta ad un’interrogazione che avevo depositato qualche tempo fa sul tema delle telefonate in carcere, un modo come un altro per umanizzare un minimo la vita dei detenuti, e quello che ho letto mi ha molto colpito. È la chiara dimostrazione della lontananza, non solo fisica ma anche umana, da quei luoghi: il ministro Nordio ha scritto che il Governo con il decreto “carcere sicuro” abbia dato, cito, “risposte straordinarie ed energiche all’emergenza del sovraffollamento, ma anche soluzioni adeguate, proporzionali e lungimiranti ai problemi strutturali (..) del sistema penitenziario”. Lascio ai detenuti stessi, alla polizia penitenziaria e a tutti gli operatori che orbitano nel mondo del carcere commentare questo auto encomio del ministro, limitandomi a ricordare alcune delle parole del Presidente Mattarella che ha parlato della situazione del carcere come di una “vera e propria emergenza sociale su cui interrogarsi per porvi fine immediatamente”. Dunque, se è vero che le carceri sono lo specchio della civiltà di un Paese, oggi quello che vediamo non fa onore all’Italia. La Libia respinge Piantedosi: “Entrato illegalmente nel Paese” di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 9 luglio 2025 Singolare incidente diplomatico, in Libia, per il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Il titolare del Viminale è stato infatti respinto all’aeroporto di Bengasi, in Libia, dove era giunto insieme ai colleghi di Grecia e Malta e al commissario Ue alla Migrazione Magnus Brunner nell’ambito di una missione del “Team Europe”. Le autorità del governo della Cirenaica, fedele al generale Khalifa Haftar, hanno annullato la visita all’arrivo della delegazione, contestando la presenza di una “persona non grata” e intimando a tutti di lasciare immediatamente il Paese. In una nota ufficiale, il governo di Bengasi ha parlato di un “palese superamento dei protocolli” e di “comportamenti in violazione della sovranità nazionale libica”, senza fornire dettagli. Il presidente Osama Saad Hamad ha ribadito che ogni interazione con le autorità libiche deve rispettare rigorosamente leggi, convenzioni e accordi internazionali. La notizia ha immediatamente e inevitabilmente sollevato un vespaio politico in Italia, soprattutto da parte dell’opposizione, che contesta la politica migratoria del governo e si è lasciata andare a commenti ironici in cui si è evocato per Piantedosi una sorta di contrappasso. Nicola Fratoianni, di Avs, su X ha scritto: “Piantedosi respinto alla frontiera: brutta cosa i respingimenti, signor ministro...”. Sempre su X, il responsabile Esteri di Italia Viva, Ivan Scalfarotto, scrive: “Un altro trionfo del Ministro Tajani. Al suo arrivo in Libia, per poco non hanno arrestato Piantedosi”, mentre per Angelo Bonelli il ministro “per qualche ora ha provato sulla propria pelle cosa significa sentirsi dire ‘clandestino’, termine con cui la destra definisce le persone migranti”. “L’Italia”, ha aggiunto, “continua a tessere rapporti politici ed economici con regimi che rappresentano la vera cabina di regia del traffico di esseri umani”. Molto duro il leader Iv Matteo Renzi, per il quale l’Italia “non può permettersi certe figuracce”. Nel tentativo di ridimensionare l’accaduto, fonti del Viminale parlano di una “incomprensione protocollare” che avrebbe coinvolto l’intera delegazione, molto numerosa, e precisano che la definizione di “persona non grata” non riguarda Piantedosi. “Una volta atterrati chiariremo tutto”, hanno assicurato da Roma. Perché Piantedosi è stato respinto in Libia: i timori di un “avvertimento” sui migranti di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 9 luglio 2025 Una delegazione Ue di cui faceva parte il ministro dell’Interno, dopo aver fatto visita al governo libico internazionalmente riconosciuto di Tripoli, è stata bloccata e respinta dal governo parallelo di Bengasi, che fa capo al generale Haftar. Ecco le ragioni dell’incidente diplomatico - e i suoi significati. Uno “sgarbo”, come viene considerato dalle autorità libiche della parte di Bengasi, dalle conseguenze difficilmente prevedibili. Con lo spettro di un’altra impennata di immigrazione clandestina verso l’Italia che aleggia attorno al pasticcio di ieri pomeriggio all’aeroporto di Benata. Il Viminale rimane cauto rispetto a quanto accaduto dall’altra parte del Mediterraneo, che ha visto suo malgrado fra i protagonisti anche il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, ma la discussione che ha coinvolto l’ambasciatore dell’Unione europea in Libia Nicola Orlando e la delegazione libica che aveva accolto la missione Ue - con i ministri di Malta e Grecia, insieme con il Commissario europeo per le Migrazioni Magnus Brunner - rischia di compromettere i risultati ottenuti fino a oggi dal governo proprio nella gestione dei flussi migratori dalle coste libiche, adesso in un momento delicato, visto che prima sono diminuiti e quindi di nuovo aumentati. Con la prospettiva che l’estate, in condizioni meteo ottimali, possa ulteriormente peggiorare le cose. A innescare la reazione dell’ambasciatore Orlando sarebbe stata la presenza di alcuni fotografi e cameramen di media libici che avrebbero dovuto immortalare personalità del governo vicine al generale Khalifa Haftar con i componenti della delegazione europea, compresi il ministro dell’Interno maltese Byron Camilleri e il suo collega greco dell’Immigrazione e dell’Asilo Athanasios Plevris, oltre che gli stessi Piantedosi e Brunner. Non è chiaro se la lite sia scoppiata perché quelle immagini con i padroni di casa avrebbero rappresentato poi una sorta di riconoscimento diretto delle autorità della Libia orientale - dopo che in mattinata la delegazione del Team Europe aveva fatto lo stesso a Tripoli con l’altro governo nazionale e riconosciuto a livello internazionale, guidato da Abdul Hamid Dbeibah - oppure se si sia trattato più che altro di una questione di principio legata a protocolli diplomatici non rispettati. Fatto sta che in poco tempo, con parte dei ministri ospiti della sala d’attesa dell’aeroporto e altri ancora a bordo dell’aereo, la situazione è degenerata. Toni sempre più accesi, un muro contro muro carico di tensione che ha quindi portato al respingimento senza precedenti dei componenti della missione Ue. Nemmeno l’intervento dell’intelligence italiana è riuscito a evitarlo. Una mediazione delicata con i servizi di sicurezza della Libia di Haftar che già in altre occasioni ha dato risultati, ma che questa volta si è trovata di fronte una controparte irremovibile, pronta senza timori ad accusare in modo chiaro e duro - anche qui in maniera del tutto imprevedibile alla vigilia - la delegazione europea di “disprezzo per la sovranità nazionale libica”, come ha scritto nel provvedimento a sua firma il presidente Osama Hamad, attuale leader della Cirenaica. Qualcosa che quindi è andato ben oltre il disappunto o l’incomprensione per qualche foto negata con decisione in una vicenda che, assicurano ancora dal Viminale, non riguarda l’Italia, né i suoi rapporti con entrambi i governi libici. Ma che potrebbe acuire la tensione, visto soprattutto il ruolo strategico di Haftar che guida le milizie che controllano le coste da dove parte la maggior parte di migranti verso l’Italia, ma anche la Grecia. Un tema che peraltro era stato già al centro poche ore prima dell’incontro fra i rappresentanti dell’Europa con i vertici di Tripoli. Un meeting positivo, secondo fonti Ue, durante il quale sono stati decisi la ripresa concordata delle operazioni di Frontex, i pattugliamenti congiunti per contrastare l’immigrazione irregolare, un miglioramento dei rapporti in materia di sicurezza così come delle procedure di rimpatrio dei clandestini. Ma se da una parte la trasferta in Libia ha dato frutti, dall’altro potrebbe invece innescare reazioni e soprattutto, si teme, ritorsioni immediate. Una prova di forza nei confronti dell’Europa che, come sempre, rischia di coinvolgere prima di tutto l’Italia. Inchiesta Almasri, le nuove carte: “Il ministero sapeva da subito e impose il silenzio” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 9 luglio 2025 Il tribunale dei ministri di Roma ha concluso l’indagine sul caso della mancata consegna del generale libico Almasri alla Corte penale internazionale: la capo di gabinetto di Nordio era al corrente da subito di quanto stava avvenendo, e diede indicazioni di non lasciare tracce: “Niente mail né documenti protocollati”. Il Tribunale dei ministri della Capitale ha concluso l’indagine sulla mancata consegna del generale libico Najeem Osama Almasri alla Corte penale internazionale da parte del governo italiano, e sta per consegnare le sue decisioni: archiviazione o richiesta di rinvio a giudizio per uno o più membri del governo finiti sotto inchiesta, che sono la premier Giorgia Meloni, il sottosegretario a Palazzo Chigi Alfredo Mantovano, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e quello dell’Interno Matteo Piantedosi, inquisiti per favoreggiamento, peculato, e - il solo Guardasigilli - omissione d’atti d’ufficio. Proprio sul ruolo di Nordio s’è concentrata la maggior parte dell’attività d’indagine, e tra le carte acquisite dalle tre giudici che compongono il collegio c’è il carteggio tra i funzionari del ministero che (nelle ore successive all’arresto di Almasri, tra l’alba di domenica 19 gennaio e la sera di martedì 21) ha portato il ministro della Giustizia a non firmare l’ordine d’arresto per il miliare libico ricercato dalla Corte dell’Aia e il suo collega Piantedosi a espellerlo mettendolo su un aereo di Stato diretto a Tripoli. Come richiesto dal governo libico. In quelle carte c’è il riscontro che fin dal primo pomeriggio di domenica la capo di gabinetto di Nordio, Giusi Bartolozzi, sapeva ciò che stava avvenendo, e diede le indicazioni ai magistrati del Dipartimento degli affari di Giustizia di parlarsi con cautela. Preoccupandosi di non lasciare troppe tracce. Nel primo pomeriggio di quel giorno, quando Almasri era stato fermato da poche ore dalla Digos di Torino, l’allora capo del Dag, Luigi Birritteri (poi dimessosi e rientrato in ruolo), scrisse a Bartolozzi una mail per indicare la mancanza dell’autorizzazione all’arresto del ricercato, attivandosi per trovare il modo di convalidare il fermo e procedere alla consegna di Almarsi. Meno di un’ora dopo, Bartolozzi rispose di essere già informata. Raccomandando prudenza: “Massimo riserbo e cautela” nel passaggio delle informazioni, e utilizzo di Signal, un sistema che assicura maggiore riservatezza nelle comunicazioni, senza mail né carte protocollate. È un indizio preciso che già dalla domenica non solo il suo braccio operativo, ma presumibilmente anche il ministro, sapesse già tutto. E il governo, verosimilmente con la regia del sottosegretario Mantovano, stava già studiando una via d’uscita. Nella sua relazione al Parlamento del 5 febbraio scorso, Nordio disse che la domenica giunse solo “una comunicazione informale di poche righe, priva di dati identificativi”, e che solo l’indomani, lunedì 20, il procuratore generale di Roma “trasmetteva il complesso carteggio”. In realtà già dal pomeriggio di domenica il magistrato di collegamento presso l’ambasciata italiana in Olanda aveva inviato sulla piattaforma Prisma l’atto d’accusa dei giudici dell’Aia con gli allegati. La capo di gabinetto ha sostenuto di aver aperto quella piattaforma solo il lunedì, ma il messaggio inviato domenica dimostra cha in realtà il giorno prima era stata avvisata e si era anche attivata per non protocollare le comunicazioni interne all’ufficio. Dopo Birritteri e gli altri funzionari, anche Bartolozzi è stata ascoltata come testimone dal Tribunale dei ministri, e quando saranno depositati gli atti insieme alle conclusioni del collegio si potrà sapere che cosa ha risposto su quella mail. Così come il motivo per cui l’atto preparato dagli stessi tecnici del Dag per “sanare” il vizio rilevato sul mandato dell’Aia e confermare l’arresto di Almasri, per sottoporlo alla firma del ministro, non ha avuto seguito. Le giudici del Tribunale avevano convocato Nordio per interrogarlo nella sua veste di indagato, ma il Guardasigilli non s’è presentato adducendo altri impegni. Dopodiché l’avvocata Giulia Bongiorno (che difende tutti i membri del governo finiti sotto inchiesta) aveva suggerito di ascoltare Mantovano anziché il ministro della Giustizia. Ora si attendono le conclusioni del Tribunale. La Libia connection tra affari e tribù di Domenico Quirico La Stampa, 9 luglio 2025 Così l’Italia cerca accordi tra visite semi ufficiali e molti occhi chiusi. Trafficare con i criminali, aver con loro dimestichezza, impone sempre, prima o poi, di calarsi nelle paludi oscure della incertezza, della complicità, della umiliazione. Da anni, da quando abbiamo scelto questa via politica nei rapporti con l’ex quarta sponda dei tempi dell’orbace e dei polli truccati da aquile la povera Italietta va avanti così, alle prese con uomini feroci, sornionerie, smacchi, doppi fondi e manovre che ci illudiamo di gestire con le astuzie sopraffine della mostra cosiddetta “intelligence”, e qualche bustarella travestita da proficui accordi per lo sviluppo. Ossessionati dai migranti e proni alla vera politica estera che è firmata dall’Eni continuiamo a dondolare in realtà tra velleitarismi malinconici e ambizioni vaneggianti di diplomazia mediterranea. È doloroso ritornarci ma è utile. È scomodo ma necessario. Ovvero ricordare che nessuna delle definizioni con cui aggettiviamo il paese che ci interessa perché vogliamo che continui a pomparci gas e petrolio e non fastidiosissimi esseri umani (anche la celebre formula del setaccio sembra aver fatto fiasco), ha il ben che minimo rapporto con la realtà. Il governo di Tripoli riconosciuto dall’Onu (accidenti!) non esiste, il primo ministro Abdel Hamid Dheibah con il suo ridicolo esecutivo di “unione nazionale” è una marionetta; il maresciallo Haftar, uno stratega (alla Graziani) che dai tempi di Gheddafi (la guerra nel Tibesti!) alla sgangherata e fallita marcia su Tripoli del 2019 non ha mai vinto una battaglia, è un burattino di Russia ed Egitto che lo tengono in piedi sul un trono di cartone a Bengasi perché a loro serve controllare la Cirenaica del petrolio e lo strategico Fezzan a sud. Le forze di sicurezza. . . La polizia... La guardia costiera… La marina... La banca centrale… sono tutte parole. L’unica cosa vera e attorno a cui ruota tutto è il maledetto petrolio. Volete i nomi di quelli che comandano davvero in Libia oltre ai burattinai stranieri tra cui noi facciamo la figura dei parenti miserelli? Sono “l’Apparato di sostegno alla stabilità”, la brigata 444, la forza Rada, e i trucidi miliziani di Misurata, una specie di città stato che è il polmone economico e il maggiore fortilizio dell’ovest del paese. A Tripoli dove hanno avuto modo di provare le loro abitudini di arroganza e saccheggio coperte con la gloria di aver ammazzato Gheddafi li odiano e li temono. Sono le sigle di piccoli e sudici signori della guerra che danno ordini e prelevano con il mitra in pugno, che si attribuiscono ridicole divise da capo della polizia o feldmaresciallo o ammiraglio delle motovedette dono italiano per rastrellare clandestini. Mille associazioni gangsteristiche armate fino a denti dalle straripanti e attive cupidigie, che controllano un quartiere della capitale, l’aeroporto di Mitica, la gestione dei migranti, e poi droga petrolio tutte le spoglie del paese sopravvissute miracolosamente allo “stato delle masse” dello sventurato Colonnello. Dheibah e Haftar da cinque anni, dopo la fine della sanguinosa battaglia di Tripoli, con la energica supervisione dei rispettivi padrini, Russia e Egitto da una parte Turchia dall’altra, (gli Emirati stendono i loro petrodollari su entrambi) i protagonisti di un proficuo bilaterale arraffare, hanno firmato un vero solido patto di corruzione. E noi che ci vantiamo di conoscere ogni spiffero di quello che succede lungo la vecchia via Balbia? Diciamo di essere influenti. Ma qui l’influenza deve essere padronanza e possesso. Non ci siamo accorti che un delitto eccellente aveva cambiato lo sfondo. L’assassinamento invendicato è quello di un rinomato capobanda fino a ieri considerato più astuto e spietato degli altri, tal Abdel Ghani al Kikli, detto Gheniwa, capo della banda dell’Apparato della stabilità, verso cui pare non abbiamo mai provato il pizzicore della diffidenza e del fastidio. Anzi. Imboscata in perfetto stile Chicago anni Venti, a un vertice di capibanda per risolvere problemi di spartizioni criminali. A Tripoli non è purtroppo cronaca nera da pagine interne. È lotta politica con altri mezzi, che ha dato l’avvio ad una ricomposizione dello status quo tutto modulato su arrangiamenti occulti tra le varie fazioni armate che compongono l’esecutivo. Il gruppo di Abdel Ghani che aveva preso troppo potere, dopo giorni di battaglia, pare sia stato decapitato. Ora gli altri si spartiscono le pingui spoglie. La Libia è l’esempio perfetto della impotenza della comunità internazionale a stabilizzare un paese aperto ad appetiti stranieri e in mano a un Cartello criminale di fazioni predatrici, un gran bazar violento in nome del petrolio e degli affari. In cui i poveri libici cercano di sopravvivere. Russia e Turchia, che presta una assistenza vitale al “governo” di Tripoli, dopo l’accordo del 2020 avevano gestito finora da buoni Padrini petrolio e traffici. La spartizione del paese sembra esser loro utile. Ma ora? Haftar fa mosse aggressive con aerei e armati, vuole ritentare forse le sue spiritare e bracone avanzate nel deserto. Per Putin la Libia resta soprattutto il necessario retroterra per la nuova Africa russa saheliana dove ha preso il posto della stenta e stinta Francia. Ne è prova il ponte aereo che ha trasferito i soldati della Africa korp e equipaggiamenti pesanti verso Djufra, da cui poi vengono distribuiti verso il Sudan della guerra civile e il Sahel. La Cirenaica può diventare un approdo per la sua flotta mediterranea rimasta orfana della Siria in mano al jihadista “simpatico” al Jolani. Noi, grandi maneggiatori di aggettivi e fantasie, assistiamo.